Grice e Chiaromonte: l’implicatura
conversazionale della parola – il cane ha molto. Definizione d’ aggetivo – la
correlazione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rapolla). Filosofo italiano. Grice: “Problem with Chiaromonte is that he let
things influence him too much! My favourite is his tract on ‘silenzio e parola’
– where as he explains, ‘parabola,’ as used by the Greeks meant conversazione,
because among primitive people, it is all about ‘comparison,’ and that is what
a parabole is – by comparison we may think of miaow-miaow and the bow-bow
theory of meaning!”. Esponente antifascista, appassionato di filosofia (fu
discepolo di Andrea Caffi) e di teatro, fondò con Ignazio Silone la rivista
culturale indipendente "Tempo Presente". Il padre, medico, si
trasfere con la famiglia a Roma, C. si vota all'anti-fascismo, dopo una breve
parentesi fra le file fasciste, entrando a far parte della formazione Giustizia
e libertà e finendo esule a Parigi per evitare l'arresto della polizia. E
in Spagna, combattente repubblicano nella guerra civile spagnola contro le
armate franchiste nella pattuglia aerea di André Malraux (la figura di C. è
adombrata in quella del personaggio dell'intellettuale Scali, del romanzo
L'Espoir), poi abbandonò il fronte per contrasto con i comunisti. Allo scoppio
del secondo conflitto mondiale, in seguito all'invasione tedesca della Francia,
riparò a New York, facendosi notare nel gruppo dei cosiddetti New York
Intellectuals. Fu propugnatore del socialismo libertario che contrappose
alle spinte trotzkiste della rivista politics di Macdonald, a cui pure si legò
in un sodalizio di amicizia e di frequentazione intellettuale. Ebbe legami
d'amicizia con filosofi come Arendt e Camus, e scrittori come Orwell, e
collaborò con Salvemini al settimanale italiano a New York, Italia libera.
Tornato in Italia una prima volta e una seconda, si sentì esule in patria,
anche per il suo rifiuto a sottostare ai compromessi che volevano la cultura
strettamente legata ai partiti politici; per un periodo tenne una rubrica di
critica teatrale sulla rivista Il Mondo fondata da Mario Pannunzio. Assieme a Silone,
fondò "Tempo presente", rivista culturale indipendente, esperienza
innovativa nell'Italia dell'epoca che portò avanti, nonostante qualche
dissapore con Silone, con grande attenzione agli autori di notevole spessore
che riempivano le pagine del mensile. Le sue posizioni furono improntate
all'anticomunismo ma, a differenza di Silone, fu senz'altro più utopico; vicino
alle posizioni di Albert Camus, teorizzò «la normalità dell'esistenza umana
contro l'automatismo catastrofico della Storia». Nel testo La guerra
fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti (Fazi editore)
della storica e giornalista inglese Frances Stonor Saunders, si sostiene che la
rivista Tempo presente sia stata finanziata dalla CIA: la Saunders ne individua
i fondatori come personaggi di punta del Congress for Cultural Freedom e
principali destinatari dei finanziamenti della CIA per attività culturali in
Italia. Intrattiene una fitta corrispondenza con Mussayassul, amichevolmente
chiamata Muska, una monaca benedettina, sul tema della verità. Altre saggi: La
situazione drammatica, Milano, Bompiani, The Paradox of History, Londra, Le
Paradoxe de l'Histoire, prefazione di Adam Michnik, introduzione di Marco
Bresciani, Cahiers de l'Hôtel de Galliffet,
Credere e non credere, Milano, Bompiani; Collana Intersezioni, Bologna,
Il Mulino, Scritti sul teatro, Introduzione di Mary McCarthy, Miriam Chiaromonte,
Collana Saggi, Torino, Einaudi, Scritti politici e civili, Miriam Chiaromonte,
Introduzione di Leo Valiani, con una testimonianza di Silone, Milano, Bompiani,
Il tarlo della coscienza (The Worm of Consciousness and Other Essays, Prefazione
di Mary McCarthy), Miriam Chiaromonte, Collana Le occasioni, Bologna, Il Mulino,
Silenzio e parole: scritti filosofici e letterari, Milano, Rizzoli, Che cosa
rimane, Taccuini, Collana Saggi, Bologna, Il Mulino, Lettere agli amici di
Bari, Schena, Le verità inutili, S. Fedele, L'ancora del Mediterraneo, La
rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una città, Forlì, Fra me e te
la verità. Lettere a Muska, W. Karpinski e C. Panizza, Una città, Forlì, Il
tempo della malafede e altri scritti, Vittorio Giacopini, Edizioni dell'Asino, Albert Camus-Nicola Chiaromonte,
Correspondance, Édition établie, présentée et annotée par Samantha Novello,
Collection Blanche, Paris, Gallimard, Dizionario Biografico degli Italiani. Simone
Turchetti, Libri: "Le attività culturali della Cia" Galileo, Cesare
Panizza, Nicola Chiaromonte. Una biografia. Presentazione di Paolo Marzotto,
prefazione di Paolo Soddu, Roma, Donzelli. Dizionario Biografico degli
Italiani, XXIV, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Filippo La Porta, Maestri irregolari, Bollati
Boringhieri. Gino Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede,
Lacaita, Manduria-Roma-Bari, Michele Strazza, Contro ogni conformismo. Nicola
Chiaromonte, in "Storia e Futuro", Filippo La Porta, Eretico
controvoglia. Nicola Chiaromonte, una vita tra giustizia e libertà, Bompiani. Bocca
di Magra Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Nicola
Chiaromonte Nicola Chiaromonte, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Nicola Chiaromonte, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Nicola
Chiaromonte,. Fotografie e documenti di
Nicola Chiaromonte La cultura politica azionista. "Nuovo Partito
d'Azione". Il fondo librario Chiaromonte. Sotto il generico vocabolo
“parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere qualunque segno communicativo
che serve a rappresentare una percezione o un'idea o concetto. Pur nondimeno
questa voce “parola” – cf. Grice “to utter” -- nell'uso ordinario è ristretta a
signare un suono articolato, con cui l’uomo esprime e communica la pércezione o
la idea o concetto ad altro uomo; e siccome il suono articolato e stato legato
ad altro segno, così la parola, oltre di esser pronunziata (pro-nuntiatum), è
anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione* da un'uomo all'altro?
Questa communicazione propriamente è un mezzo di suscitare nell’altro uomo, al
quale si dirigge, una percezione o una idea o concetto consimile a quelle che
ha e che vuol *communicare* (o signare) colui che ‘signa’. Perciò la
communicazione consiste nel far sorgere nell’altro quella stessa percezione o
quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere, cioè: o mediante una
convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia volontariamente fatta,
sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion di associazione
convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o pure mediante
una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio co-relazione che si
stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto, cosicchè non
abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno per suscitare
nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico, assoziativo)
annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione convenzionale
-- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima espressamente o
tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di communicazione del
suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato segno, tosto si
destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee co-rispondenti. Sono
del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una proprieta naturale, come
la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”), il romore del vento, lo
scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della esplosione, ed altri simili.
Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione il ‘signato’ di tale
‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che s'indica, perchè la
imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta naturale sveglia la
percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque non sa
l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca stretta.
In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta. PRISCIANI GRAMMATICI CAESARIENSIS.DE VOCE.
PHILOSOPHI definiunt vocem effe aerem temuffitmm ftfhtm,uel fiuwm fenfibile
ut ritum,idefl quod propria auribus accidit Et p efl
prior definitio ii fubfhtntia fiumpta, Altera nero d notione quam
graa ivvotav dicunt Jnoc efl ab accidentibus Accidit enimuod auditus quantum in
ipfia efl Vedi autem differentia fiunt IV: articulato, inarticulata, literata,
illiterata. Articulata est qua coarguta, hoc est copulata cum aliquo
fienfiu mentis eius qui loquitur, profertur. INARTICULATA est contraria, qua a
nui lo proficifettur affccfht mentis. Litterata est qua ficribipotefl. IJ-literafa
qua ficnbi nbpot. r nuenimtur igitur quadam voces articulata, qua et feribi
poffitnt et intellig, ut Arma uirtemq; cano Quadam qua no peffunt feribi, intelligiinturth,
ut fibili heminu et GEMITVS, ha enm voces quamus sensium alique SIGNIFICENT
proferentis eas, feribi tn no poffiint Ali vero sunt qua quantus feribantur, tn
inarticulata dicuntur, cum nihil significent, ut coax, cr a
baseni voces quanquam intelliginuis de qua fint noluere proferte,
tamen in articulata dicutur, qma vox fut superius dixi){marticulata est, qua a
Milio affvfhe profiafdtur. Alia sunt inarticulata et illitterdta, qua
nec feribi possunt nec intelligj, ut fl repitus, mugitur, et his similia.
Scire autem debemus, quod has IV pecies vocum p- fidunt IV superiores
differentia generaliter voct aeddentes, bina per singulas inuictm
coeuntes. Vox autem didht est vel d Uo* cctndo, ut “dux”, “ducendo”, Uel
ccto rojfioxco jsoco, ut quibufda placet bE Lr fl pars minima uods composita,
hoc efi l uods qua conflant compositione litterarii, minima autem quantum ad
totam comprehensionem uoas litterata, ad hanc enim etiam produrtauoctiles
hreuiffima partes inveniuntur, vel quod omnium est brevissimum eorum
quzdiuidi possunt, id quod dividi non potefl Vcffumus et fic
definire Littera e nox qua feribi potest mdiuiduauicitur
autem littera vel qudfi. 5 lenter d, eo quod
U<gndi iter prabeat, ue[atuaris (ut quilufda pia cet) qubdplerunq>in
caratis tabulis antiqui fcrilerc [oletans et pojha delere-Litteras aut, etiam
elementorum vocabulo nuncu pauerunt, ad simlitutem mundi elementorum-
Sicut enim illa coeutia omne cor fu perficiunt, fic etia ha
conimfia litterale vocem quafi corpus
aliquod componunt yuel magis nere corpus na fi acr corpus eji,
et nox qua ex aere icdo confiat, corpus ejfie cflenditur , quippe
cum et tangit aurem, et tripartito dividitur, quod eji finit corporis hoc
eji tu altitudinem, latitudinem, longitudine myunde ex omni parte potefi audiri-
Vraterea tamen singula syllabe altitudine quidem habent m tenore, craffimdinem
nero et latitudinem in spiritus longitudinem in tempore- Littera igtut eji
ricta elementi et uclut imagp quadam vocis litterata, qua cogmfidtur ex
qualitate et fti tute figura linearu-Hoc ergo mterefl inter elementa, et
litteras, quod elementa proprie dicuntur ipfie pronundationes nota autem carit
littera- Abufiue tamen et elementa pro litteris, et littera
pro elementis vocantur. Cum enim dicimus non poffie conflare
m eadem fiyl labd-K, ante V, no de litteris dicimus, fid de pronuntiatione
earum- nam quantum ad scripturam possunt coninng, non tamen etia enuciari, nifi
ipojl pofitR, ut princeps, sunt igitur figura litterarum quibus nos utimur-
XXUI- ipfie vero promnciationes earu multo ampliores. Quippe cum singula vocules
denos mueniantur habentes fionosyuel plures, ut putaa, littera brevis IV halet fimi
differentias, cum habet afrirationem, acuitur vel gravatur et rurfus cum
fime aft iratio e acuitur vel graudtur – ut: “habeo”, “habemus”, “abeo”, “abimus”- Longt vero eadem fex modis fionat,
cum habet ASPIRATIONEM et acuitur vel gravatur, vel drcunfleCHtur – ut: “hamis”
hdmoru hamus - Et rurfits cum SINE ASPIRATIONE acuitur
vel gravatur vel ctr cunflecntur, ut dra
ararum dra Similiter ali uoatles pofjimt proferri- Vraterea tatnen-i,
&. u, uoatles quando media; fiunt alternos inter fie fionosuidetur
confundere ytefk bonatofiut vir. u, ut optumus, Eti, quidem quando
poft-u, confortantem loco digamma-V,fi<n<fhm Aeolia ponitur brevis y sequcnte.
d, vel. m, vel. r, ucl.t, Uel x, fonum-y, graca videtur habere – ut:
“video” ,um, “virtus” , “vitium”, uix-v, autem qudnuts contrastum
eundem tamen fimum, hoc efi y, habet, inter q} &-efueLiyHela, DIPHTHONGUM pofltum,
ut que quis qua- tenon inter. gt& ea fidem uoatles, cmi in una siyllaba fic
imenitur, ut pin- gte sanguis fiingtta . In
confortantibus etiam fiunt differentia plures, trdnfeuntmm in alias consonantes
et non tran femtium, quippe diversie firmi potefiatis. L tL a
iij Ccidit igitur litterae nomen figura,poteffas- Uomen uefo a ti. a. b. c.
Et fiunt mdechna ilia, tam apud graecos elemetorum nomina, qudm APVD
LATINOS sive p a barbaris inventa dicuntur, sive p simplicra haec Z7‘ fktlilia
esse debent, qudfi fundamentum omnis do firmae nnmvbile, sine p nec
aliter apud iatmos poterat esse, cum a fias uoabus uocztles nominen tur, Saniuocales
vero in se definant, Mutae autem a fi incipientes uo- atli terminetur, quas
fiflefkts SIGNIFICATIO quocp nominum una eud- nefcit vocales igitur ut difhtm
efi per fi prolatae nomen fuuofien dunt. Semivocales vero ab.e, incipientes,
&in je terminantes. A bfip x, que sola ab. i, incipit per anafirophen
gracct nominis. xi. quia necesse fuit, cum fit fiemt uocalts, d uoath vnapere, Zjin
fe terminare. quae. x, nou\ ffimcd LATINIS afjumptaypofi omnes ponitur
litteras, qbus, LATINA dichones egent p autem ab. i, incipit eius nomen, ofhmdit
eti , am SERGIO in commento quod scripfitm DONATO kisuer bis. Sunt, ,
VII semivocales, qu<e ita proferuntur, ut inchoent
ab. e, littera, et definant innatur ale sonum, ut f l. m-n. r. s. x- Sed. x,
ab. i, inchoat. \d > etiam Eutropius confirmat dicens. Una
duplex. x, quae ideo ab.i,m cipit, quia apud graecos in eandem definit.
Mutae autem d fiincipientes, Z^m-e, uoculem definentes ^x caeptis. K^t. quarum alteram
a, altera in. u finitur, fua confiant nomina. H, enim aspirationis magis
est nota. Figurae acadunt quas videmus in singulis litteris Tote jhs vero ipsa pronuciatio, propter qua,
et figura ZTiwia fiunt ficht . Quidam ena a dunt
ordinem fied efi pars pote fiatis
litterarum. Ex his uocules dicuntur, quae per fe noces
perficiunt uel fi ne quibus uox litteralis profirn non pote fi, unde &
nomen hoc praecipue fibi defe dunt. Caeterae enim quae cum his proferuntur
confortantes appellantur. Sunt igitur voaules numero V: A E I O U utimur etia. y,
grgeorum cuufia nominum. Q onfonantiu aliae fiunt fi mino cedes, aliae mutat.
Semiuocales fint ut plerisp LATINORUM placuit fiptemfil- m n- r- s. x.
Sed-f. multis cfienditur modis muta mazis, de quatpofi docebimus Z, quoque
utimur ingruas dcthonibushae ergo, hoc efi fi- miuo cules, quantum uincuntur d
uoculibus, tantum fi p erant mutas, ideo apud graecos quidem omnes dichones,
uel in uocules uel in fimi- t:ocUlcs, quae fecundam habent euphoniam, defiment,
quam nos SONORITATEM onoritatem pofjimus dhere, APUD LATINOS autem, ex maxima
parte, no tamen omnes. Inveniuntur enim quaedam etiam m mutas definetes. Semivocales
autem furit appellata, qua plenam vocem non habent f ut fetnideos
& femiuiros appellamus, non qui dimidiam partem habent deorum, vel
uirorwmfed qui pleni dij uel uiri non fmt Reliquae funt muta, ut quibufdam
u\detur, numero IX: B C D G H K P R S T. Et fnrvt: W1 wn bene hoc nomen putant
easaccapi[fy cumba quoq; partes fintuoctsqui nefiunt,<p ad comparationem ue
ne sonantiwmita funt nominata, uelut informis dicitur mulier, non qua
atret forma, sed qua male est formata y et frigidum dia mus eumynon qui penitus
expers efl atlons , sed qm minimo hoc utitur. Sic igitur mutas, non qua
omnino noce atrcnt fed qua exiguam parte muods habent. Vocales autem APUUD
LATINOS omnes fmt anapites, vel LIQUIDA liquida hoc est qua fialemodo produci f
modo corripi pojfunt, Sicut etiam apud antiquiffimos erant gr acor uni ante
muentionem quibus inuentis. t, &o, qua ante anapites erant
reman, ferunt perpetua breues, aim earum produdhtrum loca poffcfft fint d
fupradiths uoatlibus semper longis. Sunt etiam in confonantibus lo ga, ut puta
duplices. xy&.Zr Slrut enim longa vocalesy ficha qucq; longam fidunt jy
liabam. Sunt similiter in confonantibus anapites vel liquida ut. L y &-r y qua
modo longam modo breuem pofl mutas pofita m eadem syllaba fidunt syllabam his
quidam addunt non irrationabiliter m, &my quia ipfe quoq; communes fidunt
syllabas pofl mutas pofita yquod diuerforu confirmatur
aufhritate tamgra eorum, q latinorum . ouidius in
deamo Metamorphofeos. Vifcofimq; gnidon.gr
auidamq, ; Amathunta metallis. » Euripides
iit Vphoemffis . /Wr#i tro c/t hoc pidjuov
tio'punr. In cifdem . xxax ojuitrSot.Jdco hocmo
cmtofeis tihvov , apud gracos fnnenitur tamen.
myante.n,pofita nec producens ante fe uoctilem
mo re mutarum -Callimachus rcofjutv o juvturx
paetos i<pn £tvof umctw ouvuv. Apud
antiquiffimos gr acorum non plusq fedeam
erant littera , qui'us ab illis accetptis latmi
antiquitatem feruauerunt perpetuam, Nam fi uerxffimt uelimus infpicere
edus,fnoc efl fedeam)non plusq duas additas in It tmomueniemus fermone-V-
Aeolicum diqnmma qS apud antiqwffi mos
latinorum eandem uimyquam apud Aeoles
habuit, eum autem prope Ionum quem nunc
habet - V ,fignifiatbat.p , cum afpiratione.
Sicut etiam apudueteres gracos pro -<p
^tfT-t. Vnde nunc quoque fngrads nominibus antiquam
firipntram fernamus pro-<p.py&.hy ponentesyut
Orpheus vhaethon-pofha uero in latinis placuit
uercis pro.p ,&-h,fjcribitut fiina,filius.fiao
, locoau^m digamma. V, pro confonante-q
od cognatione foni indebatur affinis cifc
diijjmma d iiij » »9 e
i [it ter 4- Qjiare tum- f Joco mutre
ponatur ideft p, & .h y
fiue-<p f miror hanc inter famiUocales
pofiiiffe artium fcriptvres. mhil.n>ali- ud
habet nrec littera femiuoctihs ,nifi nominis
prolatione, epire duo- (yili incipit. Sed
h.ec pote flatem mutare Iit ter re
non deluit, fi enim effet femiuoculis
yneaffario terminalis nomlnu inucniretur quodmi-
nime repencs.nec anted, uel.r, m eadem
fyllaba poni poffet , qui lo¬ cus mutarum
efr duntaxat.nec communem ante eafdem
pofita faceret fy liabam. Vofiremo grrect
(quibus in omni dottrina auflvnbus utimur)
-<p, cuius locum apud nos. f,optinetyqucdofknditurinhis
ma¬ xime dicHonibus quas d grrecis fumpfimus
y hoc efl fama, fagp, far, mutam
effe confirmant. Sciendum tatne q> hic
quoq; error d quibus *= dam antiquis
graecor um grammaticis inna fit latinos,
qui.<p, 6 ,%./£- mtuocztles putabant, nulla
alia cUufa, tiifi q? fpiritus in eis
abwndet induch.quod f effet ueruni, debuit. c,
quoq; uel.t , addita afairatione femiuoculis
cffe.quod omni edret ratione.fpiritus enim
potefhtem /it= terre non mutat, unde
nccuoailes addita ajpiratione alire fiunt,
& alire ea dempta. Hoc tamen fare
debemus non tam fxis labris efi
pronuntianda. fy quomodo. p,&-h,dtq; hoc folum inter efl
inter -f,& phyXftiam duplicem loco,c
,&.s,uel g,&'S,pofiva d grrecis inuetam
afjump fimus yut dux duas yr cx regs.K,enim
&qyqudnuis figura & nomine uideantur
aliquam habere differentiam cum •C.tn eade
tam in fio io uorum q m metro
ycontincnt pote fiatem -^.K, quidem penitus faperuarua
efr pullam, ratio indetur 'cur a ,fequente.K,
feribidebe- dt.c rthdgo.n.&atputfiue per. ct
fiue per.K,fcribantur, nullam faciunt, necm fano
nec m potefhte eiufdem cofanantis
differentiam ytiero propter nihil aliud
feribenda mdetur effeynifl ut ofiendat feqn
era. u, ante alteram Uo calem in eadem
fyllaba pofitum perdere uim litte r^e in
metro. q> fi alia ideo littera efl
exifhmanda q>c,de- bet.gyqncq; cum fimiliter
pr reponitur. u, amittenti uim litterre alia
putari y & aha cum id non facit
rdicimus enim anguis ficuti quis, O4 ruignr
fi cuti cur. v nde fi uelimus
cu, ueritate contemplari(ut diximus ) non plus
quam decem &ofh litteras, in latino
farmene habemus, hoc cflfadeam antiquas gr
re eorum &.fy&.x,pefka additas eas quoq;
ab eifdem famptas.nam y y&.^grrecvrum
afufia nominum (ut fapra difhun efl)
afamimus.H, aero affirationis efr nota y
& nihil aliud o.tbct litterre nifii
fgurdm/j" q> in uerfa firibitur inter
alia* litteras.Qjeod fi fa faceret ut
elementum putaretur, nihilominus quo rundam
enam numerorum figurae, quia in uerfiu
inter alias litteras feribuntur , quanuis eis
d familes fint, el ementa fiunt habenda fadmis
nime hoc efi adhibend-ctn, nec aliud
aliquid ex accidentibus pro- f prutatem
oflendit Umufcuiufq; elementi, quomodo potefh,qua
.Uret affiratio- neqenim uoaths nec
confotum ejfe poteflnoculi$ non e fi.
b^quia dfieuocem non fit, nec fiemiuocuhs cum
mlla fyllaba lati- nauel grceafper integras
dittioes in eamdefnat, nec muta cum n
eadem fyllaba, cum duabus mutis bis
ponitur, ut phthius, Erichtho = tiius-nulla
enim fyllaba plus duabus mutis poteftbabere
iuxta fe po fitts,nec plus tribus
confonantibus continuare - authritus quoq;
tam Varronis q Macri, teflv Cenforino,ncc-K,nec-
q,neq;.h, in numro adhibet litterarum -Videntur
tamen i,gy-u,cum in conlonantes tra fiunt
quantum ad pote flatem, quod maxrmum efiin
elementis, alite litterte ejfe pr teter
fifpradidkts -multum enm inter efi utrum
uoctiles fint an confonantes-ficut enm,
qnanuis in uaria figura, g? uario
fwmine fint-K,gy.q,gj*-c, tamen quia u/nam
um halent tam in metro q in
fono, pro una littera accipi debent, fle.
i, &-u, qnanuis unum twmcn,g? unam
habeant figuram, tam uocules q con^onan
tes, tamen quia diuerfum j'onum,gj* dmerfim
umhabent in metris, g? in pronuntiatione
fy liabar um, non fiunt in ei
fidem, meo iudicio, (lententis acapiendte-quanuis
& Cenjbri/w dothfjlmo artis gram¬
maticae idem placuit. multa enim cjl
differentia inter confortantes, ut diximus,
gruocttlcs- tantum enmflre interefi inter
uoculcs gj* confionantes , quantum inter animas
g? corpora, anim.e enim per fi mouentur,ut
philofophis uidetur ,gj* corpora monent, corpora
uero nec per fe fime anima moneri
poffunt, nec animas monent, fid ab il
Its moucntur. Vocales fi militer g? per
fi mouentur, ad perficienda fyllabam,g?
confionantes mouent fecum, confionantes uero fime
uoculu bus immobiles fint- Et-J, quidem
modo pro fi mp lici, modo pro duplici
accipitur confonante-pro fimplici, quando ab
eo incipit syllaba in principio dithonis
pofita, fiubfiquente uocztliin eadem syllaba, ut
luno Juppiter . pro duplici autem
quando in medio diflioms ab eo
incipit fyllaba pofiuoatlcm ante fi
pofifom, fu fiquente quoq; uocttli in
eadem fyUab a, ut maius, peius, eius, in
quo loco antiqui folebant geminare
eandem-i,l\tteram,gT maijus,peijus,eijus feribere ,quod
non aliter prominctari poffet quam fi
cum fitperiore syllaba prior I ,cum
fiquente altera proferretur, ut peijus,cijus,tnaijus,
gy duo. ij, pro duabus conjonantibus
accipiebant. nam quantus- T,fit confonans incadcm
syllaba geminatninngi non poffet. ergo non
aliter quam tellus, mannus proferri debuit.
unde Pompeiij quoque genitiuum per tria-i ,
antiqui feribeb aut, quorum duo fiperioraloco
confonatium accipiebant jit fi diats
Pompeiij, nam tribus ili, iunchs qua^
lis poffet fyllaba pronuntiari ? nam
poftremum -l, pro uocttli efi
atcipienc lum . quod C<eftri doihjfimo
artis gramntaticse pla~ citum finjje d
Vidvre quoqu r in arte grammatiat de fylla
is com - probatur-Pro fimphct qucq; in
media dithone inuenitur ,fcd in co~
pofitisfut iniuria^diungo^iedht^reijce Virilius in
BucolicisTityre pafientes d flumine refice
capellas* proceleu fma ti cum pofuit pro daciylo.
Nunquam autem poteft ante.I, litteram loco pofitnm
confonan- tis,afpiratio mucnin yficut nec
ante . ii, confortantem -unde hiulcus trisyllabum
rj7* , ##//.* (ww confonans ante /e
afpirationem recu pit- V, wcro lo.o
confortantis pofita eandem prorfius in
omnibus uim habuit apud latinos,qudm apud
Aeoles digtmma , F.Vnde d ple~ rui j;
ci nomen hoc datur, quod apud Aeoles
habuit ohmyFy digama i-HdUyab ipfuis uot
profetfhtm tefk Varrone, & D idymo, qui
id ei rujmcn cffecfivndut*pro quo Ccefiar
hanc figuram £,fcnb er e uduit, quod
quarum illt reik mfum efty tamen
confuetudo antiqua fiupera «5 uit-Adco autem
hoc uenvm eftyy pro A e otico F
ydigamma -uyponi- ttrr,quod ficut illi
flebant accrperc diqamma-V,pro confonante fim
phaytefiv Aftyaqy,qm diuerfiis hoc oficndit
uerfibus, ut in hocuerfu o otojucvos
VtAtvHV iAtKcoTiJocfic nos quoq ; pro
fimplia habemus cort fonante
plerHnq;-Hyloco-V-dvgtmma pofitumyuty „ At Venus
haud animo ne quicg exterrita mater •
E fi tamen quando Aeoles
idem-F finueniuntur pro duplici quoq; cofonante digtmma
pcfmffe,ut vt&opct cPt FoJ crouSd s -
Nof quoqiuidemur hoc fequi in praeterito
perfido & plusquam perfido tertice £r
quartce coniugationis ,in quibus ,1 ,ante-u ycorfo
nantem pofita produ « citur , eademqs fiubtradn
corripitur yut cupiui cupijtcu piueram cu¬
pieram, audiui audfiaudiueram audieram .
inuemuntur etiam pro Uocdh correpta hoc
digVHtna illi ufi,ut Alcman-Ksh jux tj ?
n <fx Fiov.pfr enim dimetrum iambicum ,
& fic e ft proferendam, Tr yut factat
Ireuem fiyllabam-Noftri qucq; hoc ipfium
fiaffeinueniim tur,& pro confonante. ii yuoatlcm
Ireuem acc<epiffeyut Horatiusfyl fise
trifyllabum protulit in E podohcc uerjit- »
-niuesq; deducunt I ouem, * Nunc
mare nuncsfi liite; E/r enim dimetrum
iambicum comunfhim penthemimeri heroicae, quod
aliter fhtre non poteft, ucfi fylu.e trifyllabum
accipiatur . Si¬ militer Catullus V
eronenfis <p Zonam fioluit diu ligtam , inter
E nde atfyllabos vhalectos pofitit-ergp nifi fioluit
trifyllabum accipias, uer- fivs fhtre non
poteft. hoc tamen ipfium in deriuatiuis uel
compofltis fi e quentC' fiolet fieri ,ut
Heluo uclutus,foluo follitus ,auts, auceps, aujfi-
PRIMVSdum,m<guriim,<UigupUS,lauo l*u tu s,fitueo,
fautor . F, aigam ma apud Aeoles ejt, quando m
metris pro nihilo decipiebant, ut 4“/“*
^Fetpi vccvro 6 w 7<>i ^vuorotv
Fouiv.Ep enim h exametr u/m heroicum, apud latinas
quoq; hoc idem-u ,inuenitur pro nihilo
inmtris,& maximo apud uetufb.fpmos comicorum,
ut Terentius in Andria - M sine muidia
laudem inuenias,Et amicos pares. eft.niamicum
tri¬ metrii, quod nifi,pne mui,pro tribracho
accipiatur, fhtre uerfus non potejl.jciendu tamen
q> hcc ipptm Aeoles quidem, ubiq; loco
ajpira- tionis ponebant effligentes ffnritus
affcritatem.nos dutmmultis qui dem,non tamen
m omnibus illos faquimur , ut cum
dicimus ueffera, uis,uejhs. hiatus quoq ; atupt
plebant illi mterponer e -F, digama, quod ojhndunt et
Poetae Aeolidae up,AlcmanxsH X" yocrrJ pn
Mio/ et 'Epigrammata, qu£ egmctleg m
tripode uetujhfprrw Apollinis qui pat in
Xerolopho Byzatq pc pripta/nyo<pxFcov ,\oiFonxi uv.Et nas
quoq; hiatus atupt interponimus • V doco digama ,F ,ut
dauus, arduus, pauo,ouum,ouis, bouis.hoc tamen
etiam per alias quapiam cbfonan tes
hiatus uel euphoniae atufa folet peri, ut
prodeft ,cbburo ,fi cubi ,nu cubi,
quod gract quoq; pol ens facere
junntr/,oi/ utri. Sed tamen hoc at tendendam
efl quod pr&ualmt in hac
littera,idefr,in-u,loco digam ma pofito,potepas
fimplids confonantis apud omnium poetarum do - {hfpmos.in.b,
et folet apud Aeoles tranfire.F , digama
quotiens ab p, incipit diflio qux folet
a[pirari,ut pdrcop (Spnrup dicunt quod di
gamma nip Uoaili praeponi & m
principio fyliab <e non pottft . ideo
autem locum quoq; tranpmtauit, quia. B, uel
diqamma pofx-p, in ea¬ dem fydaba
pronuntiari non pote fl- A pudrns quoq ;
efl munire <p pro. u,confonante.b, ponitur, Coelebs
codcfium uita ducens, p er. b, feri bitur
y.u.corfonans ante confortantem poni non
potep.pcut etia bru qes 0 Belenam antiquifpmi
dicebant tefh Quintiliano, qui hocofle dit
m primo mfhtutionum oratori arum. nec mirum
cum. b, quoq; m \i,eufhoni& aufa
conuertimuenimus ,ut aufropro a pro. A ff
ira tio quoq; ante uoatles omnes poni
potefl,pofl confortantes autem quattuor
tantummodo more antiquo gr^ecoru. c,t,p,r, ut haheo,
Herenni- usberos, hyems, homo, humus, hylas, Cremes; Thrafo,
vhilippus,Vyr rhus-ideo autem extrmpcus afcribitur uoatlibus,ut minimum
fanet, confortantibus autem mtrinfecus, ut plunmu.
omnis enim littera fiue uox plusfonat
ipfa fefe,cum p opponitur, quam cum
anteponitur, q<t Uoatlibus aeddens effe
uidetur-ncc p tollatur e a, perit etiam
uti f- gnipationis , ut fi duztm Erenmus
abfq; afpiratione,qUti uitium ui- dear
facere , intellectus tamen inteqvr permanet
. Confortantibus autem pc cohaer et; ut
eiufdem penitus ptbpantite fit , ut p
aufratur , LIfignifirttionh uim minuat
prorfis-ut fi dica Cremet pro chremes*
unde hac confyderata ratione ygr oecorum
dothffhni,finguld4 fecerit cas quot]; litteras,
quippe pro,th,Ofpro,ph,p, pro , ch,% f feribentet nos
autem antiquam finpturam/eruamus- In latinis
tamen diiho nicits nos queqj pro ,ph,
coepimus fjeribere, ut fi lins, fima, faga, nifi
qnbd^utfupra do mimus) cft aliqua in
pronuciatione eius litterae dif- firetia^oim
fono,ph,ut ofkndit tpfius palati pul fis, lingua,
labro rum-R.h, autem ideo non eji tranflatum
abillis m aliam fibram, qg nec fle cvhxret huic
quomodo mutis ,nec(fi tolla tur) minuit fignifid
txonem ,quanuis enim fibtrafot afpiraticne
dicamus, retor , Vyrrus t intellectus permanet
ynon aliter quam fi antecedens Uoailwns au fe¬
ratur. Vnde c frenditur ex hocquoq; aliquaeffe
cognatio-r, litterae cu uocahbus-cx quo quidam
dubitauer ut , utrum proponi debeat huic
af/iratio>an fubiungi^nde Aeoles loco(ut
diximus) afpirationis digamma ponentes in
dictionibus ab -p Rapientibus j olent loco digam
ma-B fcnbere /ududntes debere praeponi diyrtmma
qua.fi uoathfeA rurfis quafi confonanti
digamma in eadem fyllaba preepenere re -
cu j, 'antes ,comutxoant id in-Bfiparcop fcpo
Condicentes Sed apud grte cos hxc littera /idzji
,p -multis modu fungitur loco uoculif ,ut in decli
natione nondnum in,pcc,& in a puram
dcfmentum,qu<e fimiliter . a, /eruant per
obliques cufis ,ut ui px w pocr^opCoc
<ro<p'*s- Apud lati nos autem non
adeo -Q^ucentur cur inuah &ah poftuocrtles
poni tur afpiratio - & dicimus quod
apocopa fidei efl extremae uoctilif ai
proponebatur afpiratio, nam perfidi uaha aha fint-ideo autem
abfdffione fidhi extremce uocztlti, tamen afpiratio manfitex
[k periere pendens uocrtli, quia fium
eji imterictUonis noce alfcondita profrri-ltaq;
pars abfeondii & extremitatis uidetur congrue
in in = teritVYiefhcnis naturali
prclahonercmanfiffe-nec mirum cum in Sy
rorum Acgyptiorumq; dichoni msf oleant etiam
in fine afpirari uo atles.lnfrricttionum
autem pier *q; communes fint naturaliter
omnium gentium uoces-inter-cjine affiratioruey&
cum af/irahoneeft g, inter- tyquoq;
&tih,cft.d,&' inter -p ,gr, ph,fiue-f, efl -b Sunt
iff- tur hae tres, hoc eft -b.gfdymcdice,qute
nec penitus atvent afpiratione, nec eam
plenam pojfident.hoc autem cflvndit etiam
ipfius palati pulfi<s,& linvueucl labroru
confimihs quidem in ternis , inter . p.&.ph-uel-f&.^.&iurfts
inter -c.&.ch .&-g- fimiliter inter -t
&-th-&.d fidin humus exterior fit
puifus/naf/eris interior, in me dijs inter
utrvet; fipradiihrn locu-qdfiale digno fci 'tur, fi
ai te damus in fipr tdi&ismoiil
us ora mirabili natura lege modulati
a noces- Toto aut e e cognatio earu <p
inuice muemutur pro fi pofitee in qbu fidit ditfionihusyt
ambo pro, u<pu>t luxus pro w i
os, & publicus pro TouvMHor, trismphus
pro dpfocyfros, gubernator pro HvfitpvSx
rnr, gobius pro inofcio, Caere *Vj'
toJ %oupi puniceus <po/vi'*tif deus Stof
purpureum Troptpj piov. Hoe quocp
obfiruanduan efl <p nd computationem
aliarum cofonantium quae [olent mutari uel
abq- dper cti fis , immutabiles funt apud
nos tresl n-r-per cmnes erwn at frs
eaedem permanent, ut fil falis , flumen
fluminis, caefin coefaris-t. quoq; & >c.
quduis m trilus folis mueniantur nominibus
quaepof- fint declinari ,hoc idem firuant,ut
caput rapitis, &ab eo copojita, Ut
finciput fi 'napitis , occiput occipitis, alec alecis,
lac l albis, in quoetia t. additur • quare
quibufdam non irrationabiliter nominatum hoc
lath prolatus inuenitur. Reliquae uero cojonantes
mutantur , uel ab ij cimtur-d-ut aliquid alicuius
an. ut templum, templi, peliumpelij-f Ut magnus
magni-x-rex regis, nix niuis-ln uerborum
qucqipraete *= ritis p er fettis jolent omnes
modo mutari modo manere, cxcaeptis-L p.fx
Mae enim nunq mutantur, ut habeohabui,
iubeo iuffi,compefco compefcHi,dico dixi, afcendo
a fiendi, laedo Ufi, lego legi, pingo pinxi, demo
dempfi, pr emo presfi, moneo monui, fi no
fui, nequeo nequi ui, torqueo tor fi, differo
differui,uro uffi,uertouertiftedv flexi. \llae au tem
quattuor ut fiupra diximus nuquam mutantur,
mpraeterito per fiflv.l. ut caelo
caelaui,doleo dolui,uolo uolui, mollio molhui.p .turpo
turpaui,ftupeoftupui,fadpo fiulpfi, lippio
lippiui.fiquaffo quaffik ui, cenfio cenfiti-arcefjo
arceffim-x-nexo nexui. Voatles quoqiin eifde
praeteritis perfiflis quaem principalibus fy
liabis mueniwntur uerborum, modo ex correptis
producuntur, modo mutantur in alias uo
cales, modo manent eaede-Troducuntur plemnq omnes, ut
fiiueo fani, ctiueo cdui, fedeo sedi ,
/ego' legi,uideo nidi, moueo mom, fbueo fo
ui, fugio fugi . Mutantur. a, &. e-a. quidem
in. e. medo produ&tm modo
correptam.Vrodu(fhim,uta^p egi capio cepi facio
faa.fi ango fregi. correpta, tango tetigi, cado
cecidi, parco peperci . E. uero tran- fitm.i.ut
eo m,ueUij.Solinus in colledhtneis uel
polyhijhre. Tatius in arce ubi nuc
aedes efl xunonis Monetae , qui anno
qntv q mgref- ptsurbem fuerat a
lauretibus inter e p tus efl ,/eptima
&uiqvffinia olmpiade hominem exiuit.Qjteo
quiui uel quij. Haec eadem uoculis
penultima muerbis fi eundae coniu^tiois
fepe mutatur in-u.ut do¬ ceo docuiynoneo
monui, doleo doluuquod fimiliter efl quado
in ter¬ tia uel quarta coniuqntione
patitur aut rapio rapui, aperio aperui
M.&.o>manet in principalibus fy liabis
pofitae immutabiles ,tempo Yimquoq ; m
quibufdam.ut ruo rui , domo domui, doceo
docui. Hoc queep olfirnandu efl p mnq
in fupradifiv tempore poteft qeminari
m ] i i! - n VK - - —
UBER . Wf M principio ncq; in
fine fyllaba ni fi qucedtmte incipit -
ut ton¬ deo totondi, pendeo uel pendo
pependi , difco didici f pofcv popofii,
tundo tutudi, pedo pepedi, iungy tetigi, c&do
eradi , atdo evadi , pello pepuli, fxllofifilii^rodo
prodidi , nendo uendidi-ex quo etiam
ap* paret . f . uvm magis mutce obtinere
d quaincipiens eft geminata fyl¬ laba- S-
antvmutem pofita muenimtur duo uerba epice
qeminant fy liabam m prcetvrito.jb ficti, fiondeo
fiepondi - Antiquiffnni etiam , fcindo
fdadi dicebant ,q> innior er fddi dx
erunt , ut mpr&terit* perfitfv uerbi
ofiendemus - nec fine ratione • 9. ante
mutam pofita vnuemtur qvminatum uerbum, c/m s-
amittit unn fiiamplcnmcp, fic pofita ante
mutam, wndenec in fecunda fyllaba
repetitur- M -quocf ge minatur , mordeo
momordi , quee loco nuttee in multis
fungitur, nam ante-n pofitx communem fiat
fyllabam, ut r amnes ramnetis , fieut
Cremes Cremetis- lamlicti enim fiunt quee
fic declinantur , quod Callimachi quoque au
thr itato con fi r ma tu r in
A ct ijs ,ficu t i am t :f
radicium cfl hocucrfiu 7w; juiv o uvv
<rd paetos t<pn £tvos uAinr cuvut- nunquam
tamen eadem- m • ante fe natura
lonqxm uo- adem palitar ; n eadem
fyllaba ejfe, ut illam, artem ,
puppim, i/= Ium , rcmjfiem , diem
, cum abue omnes femiuoatles bcc
habent , ut Meccenas , pcean ,fol, pax,
par - praeterea fola heee femiuocalis
pofr-s. ponitur, quod trntar u cfl, ut
fimyrna,fmardgdu6,& ante liqui dam ut
fitmnis,&q> ante-s .pofita in finali
fyllaba nominis , more ma tce interpofita
i. fiat genihuu hyems hycmls,ucl uti inops
inopis, eoe leis ccehbis- Apparet igitur, <q)
elementoru alia funt eiufde yvnerts , ut
uoctflcs,& con fonantes. alia eiufde fiedei,ut
in uocuhbus breues, & longce , &
in corfonantibus fimplicvs,& duplices , quee
halent afiiratione,^ quee non habent , &
earum medice- alice uero fibi funt
affines per c6rmtatione,idefi q>imuicvm pro
fe pofitee inucniim tur,ut breucs,CT longce
quee habent afiirationem, et quee atrent ea
* A lice autem per coiuqationem,uel
cognationem cognatee littorce , 0*jg feinuicem
pofitee, ut. b.p.f.necnon-g &-c-cim afiiratione fiue
fine ea-x»quoq; duplex, fitnilitor-d.&.t. cum
afiiratione uel fine ea,&* cum
his-z-duplcs-unde fiepe-d feribentos latini hanc
exprimunt fi no, ut medidics ,hcdie , antiqui (fimi
qucq;Medentius dicebant, pro tnt fentius -
Qjxinenam.fifimplexhabet aliquam cum fipr adi flis
co¬ gnationem, unde fiepe pro-z-eam folemus
geminatam ponere, ut pa- trifjo pro
-jr<x,7(>i{w pitiffo pro tnaffil pro
juoc(oc-&do, es tj pro <rJ-wndc nos
queq ; tu pro<rj (j* te pro
ri-kttia autem tixAccr- roc pretia Aderret
tipUrTXpro tipvcrrx & httov proi crerov
,& /i/^i jux^os pro <n/'wxXos ,
Romani etiam aiax pro tuus . in
uoatlibus \ V v >••••
V . g quoq; frut affines, e.
correpta fiue produdht cum ei dipthongy,qH<t
ue teres latini utebantur ubiqs loco
-idongee-mnc aut contra pro ea. i. longa
ponimus, uel. e produdhtm, ut v£\os nilus,
uocAAio^reiu allio = peagopci* chorea. e . pe
?Utitimamodo correpta nwdo produ&t . o breuisfiue
longi cum u. ut hos pro p>ojr ehur,
robur, pro ehor ro~ bor,& platanus
pro 'TAocTx/or.A.quoq; cwn-c.&.i-arceo g?
coer¬ ceo. facio infido, nec, ion alue cum alqs.g? quia
frequenter he m omnibus pene litteris mutationes non
filum perafus,ucl tempora, frd etiam per
figurarum compofitxones , uel denuationes gj*
tran- jlationes d grreco in latinum
fieri filent, neceffarium efi e arum
po nere exempla .A. correpta conuertitur
in productam, faueofdui, I n. e . correptam
parco peperci , armatus mermis . I n e.
produ - {ktm facio feci, apio cepi producta
quoque- a. im. e .produ<fhtm in¬ venitur, halitus ,
anhelitus in. i . correptam amicus
mmlcus , in c. etiam juxpuocpor marmor,
in. u. fitlfus infrifiis,ara arula-E-cor
rep tatranfit m. e. produchtm, legoleg. in.
a. fero saties ,reor r a tus. in i
correptam moneo monitus , lego diligo, in-
o . tego tvgt . Antiqui quoque amplofli
pro amplctti dicebant . Et animaduortt fro
animaaduerti.in-u.tego tuguriim-Et apud anttquijjimos
quoti € fcuncp.n.d.fecpumtur vnhis uerbts quee
d tertia comugntioe nafcun tur
loco.e.u.fcriptummucnimus ,ut faaundnmjcgundu, dicundum f
Kertundum,pro faciendum, legendwi, dicendum, uertvndnm-I.tr an
jitin.a.ut genus, genens ,ypneranm, paulus
paulipoulatim -tn,e far tis forte fortiter
fapiens fapientis fapienterdn.o. patris patronus ,&
patro uerbumglh pro illifaxi faxofus . m-u.arnis
arrn/frx antiqui pro arnifrx,ut lucens, pro
libes & pe farnus propefjhm. Sci¬
endum tamen eft q> pleraq; nomina
qu^e cum uer^is fiue partiapijs componuntur
, uel nomiruttiui mutant extremam fy liabam
in-i.cor reptam, ut arma armipotens ,homo
homicida, cornu cor niger ,fivlla fhlliger ,
arcus araten es fatum fatidicus, nurum nunfrx,aiifa
ctiufi- dicus fadhts lucificus, cornu cornicen,
tuba tubicen, fidis fidicvnfi^ des plurale
, cuius ftngulare fidis eft,unJe etiam
diminutiuum fidi = cula-tibia tibicen, pro
tibfan, tibia enim, a-md-debuithmitare, ut
fit praditfhtm eft ,unde pro duabus- vj.breuibus
una logafadla ep\c[Uod in alia huiufremodi
compofihone non muenies . uulnus uulm ficus ,
magnus magnificus , amplus amplificus, fruflas
fruflificus , opus opifrx uel gemtna . ut
uir uiri , umpotens , par paris parrict =-
da quod uel a pari componitur ,
uel ut alij dicunt d patre .
ergo fi efi d pari-r-euphoni£ dufa
additur , find patre .tdn r. converti¬ tur
, quilufdam tamen d parente uidetur cffc
compofitum, g? pro JLIBER farentidda
per fyncopen,& commutationem -t.fn.r.fadbitn parn^
eida frater fratris ,fr atruida foror
for oris, foror icida, lux quoqj lu *
ets lucifer, flo; floris florifer , fdcer
facri facnficus,ars artis artifix • p aucti
fwit quce hanc non [eruant: regiam,
ut auceps, anes atpiens0 mtnceps
,mcnteatptus ,municeps munera cupiens, au^his
augufius [milia • &qute ex duobus
nominanuis componuntur , ut puta tufiu -
randum,refpu.non tnutant extremam fy liabam, fid
ea cum defigu* ris dicemus latius
traifhtbimus • O ,aliquot Italia? ciuitates
tefce P linio, non habebant, fed loco
eius ponebant. u . & maxime, Vmbri,
<Z?Y jhufa.o ,tranfit in.a.ut creo creaux-vn
e.Ht tutor , tutela, bonus 6e- ne 71 w
genu wi/rpes . antiqui compes pro compos. m
quo xolesje* nuimur. I Ili enim t^ovioc
pro ocP/vroc dicunt, o . conuertitur vnn,
tsirgo uir <gnis-m-u.tr emo tremui, huc illuc
pro hoc illoc . Virgin yiij. Hoc tunc
ignipotes ccelo defcedit ab alto. et pleraq
; qu& apud grtfcos twminatiuum in, os.
terminant, o.m-u.conuertunt apud nos» Ut h\j' pos
Cyrus , zvovJft o s fpondeus, kv vrpos
cypruS, ^tA ayos pelagus. Multa praeterea
uetufhffimi etiam m principalibus mutabat fyUabis,
ut cungrum pro congrum, cunchin pro
conckm,bumincm pro hominem proferentes ,
funtes pro fontes , frundes pro frondes.
Vnde Lucretius m idibro Angujkq; fretu
rapidum mare diuidit undis , pro freto,
idem in tertio, Atqui animorum etiam
qu<ecunc Ji acherunte profundo pro acheronte .
in eodem • Nec tityon uolucres ineunt
ach er untei acente m,Qjta? tarnena
iutiioribus repudiata fiunt, quafi ruftico
more didht • V, quoque multis ltalue
populis in nfa no erat, fid e
contrario utebantur, o. under ornatiorum quoq;
uctufhffi - mi, in multis dicionibus loco
cius-o-pofiuffe inueniuntur,poblicupro publicu,qi tefhttur
Vapirianusde orthographia, polearum pro pul
chrii,colpam pro culpam dicetes,&hercole pro
hercule,& maxi mc digamma antecedente
hoc faciebant, ut firuos pro firuus
,uolgus pro vulgus ,dauos pro dauus-Tranfit
in.a.ut ueredus ueredarius, in. e. pondus
ponderis, deierat peierat pro deiurat peiurap, labrum
labellum, [aerum facellum, antiqui auger, &
auger atus pro augur, et auguratus
dicebant. I n.i-cornu cornicen, arcus arcitenens,
flucfhis fluttiuagus ,curfus ,ucl currus
curriculus, uel curriculum in. o. nemus nemoris
cbttr cboriSy robur roboris. Votutur ha?c
eadem littera itt gratcis nominibus modo loco
• oj . dephthong,ut mufia pro juv o-oc
modo prou correpta ut homerus pro
oyupos pro eadem produfhtut fux pro
(pupficute contrario pro p>ojs bos. modo
pro . u .loga,ut probus mus, modo pro
correpta to' pepv pa purpura. In plerisfy
tamen £oles ficuti hoc faarrns. I Ui
enim OQvycin? dicunt pro Suyxrvp.oj.cor?/ **
M »3 ♦5) PRIMVS - ripientes ,Uel
magif.v fino-u. jbliti pronuntiare , ideoq; afcribunt
e . rwn ut dipbthongum faciant ibifid
ut fo ium- u. colicum ofiendanf Ut
Callimachus HX\hi%tafv %6oviF,ojpi'xs SouyxTup.
Qjsod nos fi cuti u, modo correptam
modo productem halemus , qua usis uidca-
tur-oJ -diphtkoYKg fanmi habere . Pro .0, cpiocp.au ,
joletrt frequenter ponere greeti oj pos oj
aos pro 5 poto hos, voj <ros pro vo<ros
dicentes, qd nos frequenter habemus in
finalibus maxime fyllabts, ut V namus,
pylus, pelium-u, tamen cvrripientes-lft quando amittit
-u^im tam uo diu q confortantis, ut cum
inter. q, & aliam nodi em ponitur,
ficut ia commcmorauimusyt quifquam • Hor
idem pier unq; patitur etia inter. g,&
aliquam uocalem,ut [anguis lingua. s ,
quoq; antecedente u,<& fiquente.a,uel.e,koc
idem fepe fu, ut fiadeo fiuiws fuefio
fetus, quod apud atoles quoq;.y,fepe patitur
et amittit uim litterae m metro, ut
<rXT<pu) ,%a\x Tu/ePtoc eA Sin
xor/a-xrtt purx, f militer W- av/
difyllabuminuenitur apud cofdcm cnm-y- nonef dipthongus.
.quando tranfit in confomntem idemu,ut
vxuthf nauta , nauita, gaudeo sgtuifus ,
ficut eamtrafa confonante tranfit inuodlem ,ut
ft - pra diximus, dueo atutus,foluofolutus,faueo
fautor , uoluo uolutus . fepe. u, interponitur
inter ufuelcm, in gratis nominibus, ut » pxu
herculesxcTKXurijs <efculapiHS& antiqui ,x\k,uh'vh
dlcununa ,x\- nutum alcumceon • I n
confonantibus quoqi rmltce fune fimiliter
con~ mutationes. L, triplicem ,ut P linio
uidetur fonum habet , exii em, quan
do geminatur facundo loco pcfita,ut ille
,mctellus , plenum . quando fi¬ nit nomina uel
fylldbds,& quando habet ante fi in
eadem fyllaba aliquam confonantem,ut
fol,fylua,flauus, clarus , medium inalijs , ut
ledtus ledht le&um» L, tranfit in. x
,ut paulum pxuxiUsm,mala maxilla, uelumuexillum,in.r,ut tabula
taberna • M ,ob fimum inex tremitate dictionum
fonat, ut templum apertum in principio , ut
ma gnus}mcdiocre in mcdqs,ut umbra.tranfit
in.n, & maxime, d, ucl
t,uel.c,uel.q,fiquenhbus,ut tam tandem , tantum
tantundem, idem identidem ,nwm nvmcul
i,& ut P linio placet, mnquis, nunquam,
an ceps,proamceps.am enmpr*pofitio.f,Hclctuel.q,fiquetibus
in.n, mutat. m,ut anfi adhts, anci fia, anquiro,
uodli nero fi qu ente interci- pit.b tut
ambitus, amhefi:s,ambufius,amb ages jntenon etiam in
com¬ buro combufius idem fit • F inahg
di&ioms fubtrahitur, m, in mtr •
plerunq; fi duodli incipit fiquens diflio,ut
lUum expirantem transfixo pe flor e
flammas. Vetufafflmi tamen non fimper eam
fubtrahelant. 'Ennius in. x. annali ttm .
infignita fire tum millia militum ofh
b ltb er * Duxit delcftvs b
ellum tvller are potentes . N -quoque
plenior in prbnis fionat , in ultimis
partibus (yllaba - rum,ut nomen, [hmen, exilior
in medijs, ut amnis, damnum, tran-
fitin.g,ut ignofeo, ignauus,igno tu s, ignaris, igno minia,
cogno fco, co= gnatus- poteji tamen in
quii ufdam eorum fermonum etiam per
con - qfionem adempta uideri-n, quia in
fimplitibus quoque potefl inueni r iper
adie^nonem-g, ut gnatus gnarus- & fequente.g,
uel.c, pro ea g, fer ibunt graa.
& quidam tamen uetujhffimi authres
Romano¬ rum eupnonia cuufa bene hoc
facientes, ut agchifes,agcepsyaggulu$, agqvns-qucd
ofhndit v arro.i. de origine lingua latina
his uerbis • Aggflas aggvns agguiUa
iggerunt. In eiufmcdi grati & Attius no
* fvr binam. g. feribunt ,alq-n,& .gyquod in
hoc ueritatem facile uide- rc non
efhjimiliter ageeps & agcora.tr an fit etiam.
n,wd, ut unus ullus, nullus, uvnum uillum, catena
catella, bonus bellus, catinum catil- lum,fimiliter
collega tcolligp, illido, collido, tranfit
m.m-feqmntibus- b-ucl • m-ucl-p. audoee Vhnio
& Papiriano ,& Probo, ut imbibo, wi
o e ilis, bn outus , bn mineo ,
ynwvt t to, im mo tus , improb
u$, imp erator, mpello , ftmiliter in
gr acis nominibus neutris bi.on .
definentibus zrxAAx.Stov paUadium tthaiov pclium,
tranfit etiam in*r.ut corrigo , corrunpo , irrito
. Hanc autem mutationem litterarum /
ciendum ejl quadam naturali feri uccis
ratione, propter celeriore motum lin¬ gua
labrorumq; ad uicincs facilius tranfemtium
pulfus . T rafit fu- pradibht confonans-n, etiam
in-s, fando ftifjus, findo fiffiis , in.t-atnis
catulus, catellus- in- c. ecquid pro cnquid.pxpclhtur -n,d
gratis in-w, definentibus, cum m latinam tr anfaunt
firmam, ut demipho, fimo, leo, draco, fi cut
contra additur latinis nominibus in- o .
definentibus apudgracos ut mm puv }kxtuv tpro
acero, cato. Tranfit m.u.confona = tem,ut,fino
fiuiyfivrno, ftraui-R.fine afiiratione ponitur in
latinis, in graas Ucro principalis uel
geminata, m media ditfione afiiratitr, ut
rhetor, rh entes, rhodus, pyrrhus, tyrrh ems
,orrh ena y pro quo nuc o fit
ena dicentes afpir ationem poft-r -antiqua
feritant feriptura-tra - fu in -l. niger
nigellus- umLr a, umbella. in-s. ut arbos pro arbor,
odos, pro odor -Plautus in Captiuis- Q^uorum
odos fub bafiliatnos omnes abigit m
firu-uerror , uerfius.in duas-ffiuro ufifi,gvro
gvffifo.H.con- fi>iantemytero trimfiro feui.in.n,
ancus pro areus-S-in metro apud uetufhffitrws
yubn fiam frequenter amittit . * v irgiiius
in. xi. aneidos, Ponite fies fibi quiscp- idem
in-xiu ^ inter fe eoijjfe uirosy<&
decernere firro . Nf autem comunthone
fequente am apoflropho penitus tollitur ut
uidcn,fiatin,uim,pro uidesne fatifne uis'ne.
necmn etiam in gradi mhUmlus.^-Uet. es. ter
minantibus plermtq; tollitur, cu fmt pri¬
ma declinationis, ut Gefa^irrhia^hedria^cherca poeta
quoque jo* phijht,fytha , citharifkt-in quibus
etiafner}produ<fhtm a correptum conuertitur .
tranfit hac eadem in - m. utrurfmn
pro rurfus,dun mimo pro difminuo . T
erentius in adelphis d>mmmetur tibi te¬
rebrum, m- n - mittitur- s- pinguis
fangninis. in . r. flos floris, ius
iu- ris,curfts amiculus , «e/ curriculum
-in- x - aiax pro ausgr pi flrix
propiftris-in quo fequimur dores.ilh enim o
pvtE pro opvis. m- d- cujks cujbdis ,
pes pedis ,prafes pr a fidis, palus paludis
. in . t- nepos nepotis , uirtus uirtutis
,famnis famnitis . in-u. condonan¬ tem
bosbouts . /ape pro afbiratione ponitur m
his dictionibus quas d gracis fump fimus ,
ut /emis , fex ,-feptem ,fefal. nam
ijulv. eA/. t vtd . e . «Ar .
rfjwd illos aspirationem habent m principio
. adeo autem cognatio ejl huic littera
idefi-s, cum afbiratione }quoa pro ea in
quibufdam dicionibus [olebant bceoti idefi
pro-s-h-fcnbere , nudi a. pro mu fi, dicentes
-huic- s.prapcnitur-p. et loco. ‘b-grace fungitur, pro qua
claudius Cafar antifigma - X hac fiqaira
fcnbi noluit fed nul¬ li susfi funt
antiquam feripturam mutare, quamuis non
fine ratione kacpuoq; duplex d graas addita
uideatur, nam multo meliorem , & uclubiliorem
fonitum habet-^.qudm-ps.uelds-ha tamen ideft.bs
non alias debent poni pro ^ -hoc ep
in eadem fyllaba coniunfla ,mfi m fine
nominatiui, cuius gimtiuus m bis definit, ut
urbs urbis, coelebs coelibis ,araps arabis -Sicut
ergo-^. melius fonat quam ps-uel.bs.fic .
x-etiam quam- gs- uel.es -&-x- quidem affump fimus
-i- autem non • fed quantum expeditior
eft-^-qudm- ps. tantum ps-qudm bs- ideoq ; twn
irrationabiliter plerisqsloco uidetur .^.ps -debere
feribi , quod de ordine litterarum docentes
plenius traChtb imus -x- duplex modo pro es.mvdo
pro-gs. accipitur, ut apex apicis, grex gr
e gps, tranfit tamen etiam m-u-confonantem
,ut nix niuispiecmn in. 61. ut nox no5hs,fu
- pellex fupellefUhsSedhac contra regulam
declinari nide ntur-fubit etiam-x. littera loco
aflpirationisfut uehouexi traho traxi-x-uertitur
in-f. ut efficio effero. & /ciendum cp
quoticfuncp . ex - prapofitio , Konitur
compofita didonibus duocahbus incipientibus ,uel
ab peattuor confonantibus , hoc eft.c
-p.t.s- integra manet, ut exa¬ ro, exeo
, exigo , exoleo , exuro , excutio,
expeto f extraho , exe= quor
,exfpes,in quo uidenmr contra gracormn
facere conflatu = dinem-illi enim. a . fequente
nunquam • / • praeponunt , fcd-n -
pro ea tuttK$ot!ri! . melius ergo nos
quoq;. x . [olam ponimus, que lo¬
cum obtinet, es- cuius rationem nonfolum
ipfe- fonus auriu iudido pof fit
reddere, fed etu hoc f qemituiru
s-Jifta confonante a madente b ij
LIBER. minime potefl -geminari autem indetur
pofr confortantem -s-x* antece¬ dente ,qu£
loco-c.&.sfrinqjttcr fi tyfia confequatuT,ut
exfrquia ex - [e^uor -quod fi liceret, licebat
etiam pejt -bs, uel- ps. quas loco - dupli as
acapnnus adderes, ut dicer enm objfiffus, abjfichts ,
quod minime licet -nunquam ennn necs,riec
aha conjonans geminari poteft, ut di¬
ximus, alia antecedente confionante-nunc de mutis
dicrmus-B - tranfit in egit occurro
fiuccnrro,m f,ut opfido,fifficto,fiffio,in-g,ut fuggro,
in-myut fivmmitto, globus glomus ,in-p ,ut
fiuppo/io,nj-r,ut fitrnpio,ar rtyio,ms,ut luleo
iufp-nam fiifdpio & fijluli d fitfrum
uel fiurfium aduerbio compofiite fiunt,
wnde fiubtinnio & fihbcumlo non mutauem
runt-b-ins • fijpicor quoque fiffido d
frufim uel fiurfibm cvmpo- nantur , fed
abqdum urnam s -non enm didamus fufjjnao
fedfiujpU do,quia non potejl duplicar i
conjonans alia fu pquente conjonante ,
quomodo nec antecedente ,nifi fit mutuante
liquidam, ut fiupplex ptf* fr agor
fi\\fifio,€ffiuo,efifirm<g), quomodo & apud
grteccs o-uyypnoopcJ <njyYvu)f*H}<r\jyyK\j<puy<rvjAfiivn
f/cov ,tp6iyy/Ax. C- tranfit in.u, confio- nantem, ut
quiefeo quieui,pafico paui y afeifeo a
fani, in- x, ut dico dixi, duco duxi, noceo
noxa noxius, ins, parco par fi, uel
peperci, m-g,an* te cedente. n, quadringenta, quingenta,
feptmgenfo . ango quoque pro ancho.et
riofond cm cjr f ante hanc julam
mutem finalem inueniwn fur longce uoatles,
ut hoc, hac, sic, hic aduerbium-nam ante.t,fi qua
fnueniatur uoatlis longa. p er confdfionem hoc
euenit , ut audit, mu¬ nit fimat,pro
audiuit,munmt,funiauit-necnonpofi:.s,pofita trafit aliquando
m-t,ucl ajjumit cam,ut irafeor iratus,
nancificvr nafhts, nafivr natus , pacificor padhts
,pafivr pafhts. u-tranfit m-c,ut acci - dit,quicq
iam,m g-ut aggero,in-l,ut allido, in. p, ut
appono, in-r,ut arrideo, meridies, antiqui jjimi
uero pro ad frequenti [fime, ar ,
pone - bant,aruenas, amentor es, aruoaitDS,ar fines, aruclar
e, arfkri,dicetes, pro aduenas,aduentores,aducattvsyadfines, aduolare,
adfrri . unde ofienditurrefte arcrjfo dia
ab arao Herbo, quod nuncacao didmus,
quodefr ex ad & do ccmpofitim-arger
quoque dicebant pro agger • tranfit etiam
ins ut afifiideo,rado rafifradeo fiuafi ,
in duas queep ffiut cedo affi, fr
dio fv/fiis,in.t, attinet, attamino, attingo, heee
eadem tamen -d frequenter interponitur
mcompofitis hiatus atufa prohih e- di, ut
rediw , redarguo, prodejl- fini trahitur etiam
cum fequens fiylla ba abs-& alia
aonjbnante indpit,ut afipiro, afpido , afeendo ,
afb - V. multis medis muta magis ofkndmr , cum
pro.p , et afpiratione qu<* fi militer
mute, e fr acdpitur,de quo fiiffiaeter
fiupo ius diximus -qua- q tam antiqui
Romanorum atoles frequentes loco afpiratioms
eam ponebant , effligentes iffi quoque
affirationem • & maxime atni
eonfenante, re rufabant eam proferre in
latino fermone -habebat au- tem haec-
f-littera hmc fenum quem nunc habet
u-loco confemntis fofita,mde antiqui-afpro
abferibere felebant,fed quia mn potefe MU,
idejl diqnmma in finefyllal & inueniriydeo
mutata ejl-fm-b. fi filum quoq; pro
fibilum,tefee Nonio Marcello de do floram
indagi¬ ne, dicebant. G-tr an fit
m-;-jfargo ffarfi, mergo mcrfi,m.x.tego texi, fingo
pinxi,in.fl.agor afht; , legor lebhi; , fingor piflu;.
li. littera nonejfe ofeendjm>ts ,fed notam
afeirationis, quam gr aecorum anti-
qulffe.m fimiliter ut latmi in uerfe
fer ibebant, nunc autem diuiferunt, &
dextram eius p artem fefra litteram p
onente;,pfilen notam ha- bent,quam Remnius
Palcerrwn exilem uocut. Griliuis nero ad
vir - gtium de accentibus fcriben;, lenem
nominat, finijlram autem con * trarix illi
afpirationi; da fiam, quam Grillus flatilem uocrtt-K-fef
er- tutata eft,ut fefra diximus, qu^e
quatmis feribatur nullam aliam uimhabet
quam- c.De-q- quoq ; feffidenter fefra traflntum
efl ,<pA& nifi eandem uim haberet
quam. c. nunquam in prinapij; infinito¬
rum uel mtcrrogatiuorum quorundam nominum
fofita fer obii * quo; atfe; in
illam tranferet , ut quis cuius cui-
fimiliter d uerbis-q » habentibus in quibufdam
participi j; m-c. tr an; fertur, ut, fequor feat
tu;, loquor locutu;. trd fit in-;. ut, torqueo torfi,
fient gr-c-parco par fifimi-iiter abqdt.nfn
proterito featt &. c . linquo liqui,
umeo mei . tranfit etiamin-x-ut , coquo coxi, duco
duxi, apud antiquo; frequen¬ ti ffimcloco.cn
-fyllab*, qm, ponebatur , & econtrario , ut
arquus eoqm;,oqvHlus,pro ar cu;, cocu;, oculus, qum pro
cu,qnur pro cur. trafit in-; -ut uerto
uerfe;, concutio concuffus, osx grxcnfro
offl.c.uc yo antecedente, tr an fit. t. in -x -ut
peflo pexui,fleflo flexi- v ,& ,(,tan tummodo
ponuntur mgreeei; diflionibus, quantus in
multi; uctere ; haec quoq; rmfaffe
mueniantur , & pro-v.u-pro-'{ - uero quod
pro. ff. conimfli; acdpitur.;.uel-d-pofeiffe,ut
fagtmurrrhapro yuyfjuJ}* fcc, fegunthum mafjk
fro (xHvyffo; juxfa , edor quoq; xtto
toj o'(ciy, fethus fro {»6o; dicente;,
&Medentius pro M efentius.ergp corylus t?
limpha, ex ipfe feripturad graed; fempta
non cft dubium, cum f u -ferio atur
70 7 no puAo; toj vj^ucpif Solebat
enim Uetufhffi mi gr aecor um-Lpro -n-ferib ere, unde
quinquaginta quoq; numeri fi° gnum,quod
illi per -n ,feribunc, no; per-l-morc illorum
antiquijjl- feribimus - D c ordine
litterarum. Kdo quoq; aeddit litteris, qui
quantus in ;yllabis dignofrf- * tur ,
tamen quia conimflu; effe uidetur cmn
p ote[ht.teele= mentorum , non ah fer dum
puto ei nunc illum febiungerc. . b
ili *» w •31 •9
•Jf t* Uodtes pr<epcfitiu<e
alqs uodlibus fitbfiquentibus in eif dem
syllabis. a. e.o.fitbiu6tiu<ea:.u.ut.ae.au.eu.oe.I.quoqi apud
antt quos pofi. e. ponebatur ^^bdiiphthongum fidebat,
qua pro. omni. i, logt fcribebant more antiquo
gr cecoru.lnuenltur h<ec eademi,pojl u
an grceds nomimbusjut fiipTryctjiam.y .diphthcngus
cfi-Sunt igitur dij. hthongi quibus nunc
utimur quattuor .diphthongi autem dicun¬ tur
q> binos phthongosyhocefi,uoces comprehendunt. nam
finqul <e uo dies (1*04 Uons habent, &.
ac. quando d poetis per di<erefim profer
tur fecundum graecor per. a- &
.i.fcribitur ,ut cudat, piffai, pro auU
&*pifre-Et Vir glus in tertio . Aulai in
medio libabant pocula bacchi. idem in
cdktuo • t)iues equum ducs pidhti uefhs
&auri • in gy<eds nero quoties
hu^ iufcemcdi fit apud nos di<erefispenultim<esyllab<e.i.pro
duplici con fanante accipitur ,ut maiapro
juou'x aiax pro cuxs. Trafitini , pro
dufhtm,ut qu<ero inquiro, exqui royquanuis exqu<ero
Vlautus dixit in Aulularia. intro exquire
jit ne ita ut ego praedico . l<edo
illido 9 c.edo occido. Vonitur pro.edongt,ut
a-^vd fccena & pro. a. ut <efiu-
lapias pro xraAH^/os, inepto <eoles
fiquimur. illi enim vu^upsus pro vj
fiepoes &<poujlv pro (pari v diau.t
muenitur tamen hac diphthon qus ; n media
dicHone correpta tunc ^quando compofitce
dithonis ante cedentis in fne ejl fiquente
uodli,utpr<eufis.v irglms in fiptimo . Stipitibus
duris agitur fndibn*'ue pueufti -Homerus dv ndo'
ttoAs X* JUOlii/VOU. fiait etiam longae
uodles flent corripi yut dchifiv,virgi.in
quinto - Infindunt pariter fideos ,totu mq;
delvfat , Conuulfitum rernis roftrisq; tridentil us
sequor. G e .queq; idem pati¬ tur
apud grsecos Aefchylnsoizpos roiujdixs
rrccpSivous tuous\/ crcu-Vn de quidam non fine
ratione imum tempus & fimis fingulas
eas ha¬ bere dicunt. idevq,- fi confiquatur
condonans qa<e dimidium tempus habet ,omni modo
producantur • Mt quocp uidetur quafi pati
diuifio nem cum.i.poft.u. addita ftranfit eadem .Hin
cvnf nantium pctcfkt- tem ut,gtudco
gtuifits/udrus nauitay& vuZ: nauis • tranfit
et indo. uttaufiro ab finii allatus
.Et fiicndumi cp pro ab pr
<epofincne.au. po nitur in his uerbis
,aufugo & aufero. E contrario queq;
frequenter f let fieri m antecedente. a.
C7-H loco condonantis fiquente ,fi abijeta-
tur uocuhs pofitapofi eam idefi pcfi.u .con
fana ntem- au dipht h o ngus fiat.u.redeunte in
Uodlemjut lauor lautus y fiueo fautor }auis
auceps f augurium yaugufiUs . trarfi i ino.predudhtm
more antiquo, ut lotus pro lautus, ple
firum pro plaufiruan, cotes pro dates, fient
etiam cun= trapro.o.au.ut aufirum proyjl rmiguif culmi
pro ofculmfiequcn It mwvj.
ufrim/q; hoc faciebant antiqui, in. u. quoq;
longam tranfit fraudo de frudo, claudo
includo •'tu- tranfit m.edo/igtm,ut A chiller
pro x a<o/V .vlyxer pro oJvarri^quod
o frenditur m gninuo ulyxei,Hora. « in
prime cdrminum, Nec curfar duplicet per
mare vlyxei.in-n.etta mutatur fago pro
epsdyu . oe-eft quando per dicer e [i
m profertur in grecir nermni us
&gr<ectim ) eruat fcnpturam pro. o .
enim &.i. ponitur, que tamen ( jient
fr+pradiflum efr) locum d ipliar optmet
confonanttr ,ut troia pro rr?oix}maiapro
jxoux-in hoc quoq ; <eclcr fa- quimur
fic enim illi diuideter diphihongum ni 7
aqv pro koiaov dicut . Apudgnecor tamen
quoq; .i. fequente producere licet
antecedentem breuem,ut Homerus in hocuerfat
n rtfopx oj h t Ace BtvJ&Xti
Tnvdvrx xip tjuxnr aufertur elidejl-oe.
diphthongo, alter a uoaths faquente. e-
longi more attico,ut poeta pro xamdr, poema
pro xof»/aa,necnon pYo,w/.diph - thong gr nor hanc
idejhoe. ponimus, ut «<y/W/ * comoedia, 7 poc-
yufix tragoedia dicentes , nec mirum cum
pro. v. quoq; habemur. o. & pro.'i.e.m
diphthog accipimur. hoc tamen ad imitationem
boeo torum friemur facere. Tranfit in. u. longam
,ut phoenices ,punicer ,phoeniceon puniceum, poena
punio. Nunquam diphthongir in praeterito
perfiflv mutatur ,ut haereo hefa, audio
audiui,mcenio moeniui , ex¬ cepto c<edo
cecidi -Ei.diphthong nunc non utimur ,fed
loco eius in gr&ctr nominibus-
e.uehi.produdhtr ponimur. Et in priore /equimur Aeoles
- lUiennniw Jh^oo-Suii dicunt pro
SHjuotrdtvei & ixov pro ei xov. Et
nor plerunq; cum. ei. apud graecor fit
purapenulhma , in illis maxime femininis
que per adiechonem affamunt.a.apud gre cor
mutamur. ei. in.e.produfktm, ut ^ni/xeix.deiopea.’ ' hximo'
•xh HXKKio-yreix cztlkopea.nam in illis
quemda-frlum definunt apud graecor raro,fathoc,ut
arga,alexandria, nicomcdia, langa, lampia- Statius in.iiij .
1$ C andensq; iugr Lampia niuofar/idem in
eodem, Hoc quoq; fe creta nutrit Langa
fub wmbraidem in facundo. TWnc donis
Arga nitet , uder q; fororis, Ornatur
facro preculta frperuenit amo.Raro autem diximus
pro - i f&r Medeam, plateam, niceam-Nam quod
Virg. Qui tela tiphoea i temnis. e.
correptam protulit ,doricum efr , illi enim
frient. a . diph- thong abijeere . i ,
In laiinir autem dictioni’ m difficile
(nuentes -i longam ante uoctilem pe fatam
nifa in gnirnts in tus defi nentibus
, ut illius, folius, ullius, quae tamen licet
& corriperem metro & in ucr
bo fiam fias fiat, quod ipfrm quoq;
contra aliorum eiufdem coniugrt tionir fit
regulam uerborum. I n tnafatlinis quoq;. ei.
pura m.edon- b iiij M »3
HIBER. grm conuertitur , £xkk uos
Achilleus, a^puos alpheus caror fu os
/pcndcus-non fine ratione tamen hoc
fitySed quia.^purapenultima ante.us,uciayiiel.umy per
mminatmos nm muenitu r p rodufta in latinis
dicncnisiis nif indifyllabis &ipfis greeas .
Nam m greeeis fepe inuenimus ut chius
£r diay & m tino triJylUbo quod
apud M Statium legiyut licyus- Statius
in decimo Thebaidos. Ad patrias f n
quando domos optafaq; paean. Templa hcyc
dabis tot ditia dona facratis V ofibuStO4
totidem noti memor exiget auros . m
ahjs nero co fionanteyl y fequente pro
ei diphthongo longrtm.i y ponimus ut rubos
nilus • In femiuocaiiius f militer
fiunt alia prcepofitiuce alijs femtUo-
cahbus m cade fiyilab a ytt.m,
fequente. nyut mnefivus,amnis.Sf quoq» f Ruente.
m, ut finyrnayfmaragdus . nam uitium facium
qui.z,ante m, firibunt . Nunquam enim
duplex in atpite fyilab# pefita potejl
cum aha iwngi condonante . Luatnus
quocp hoc ofendit in deamo. '* Terga
fa dent crebro maculas difhndkt fmaragdo. nam
f effet.^an- te.mfiubtrahi vnmetro minime peffet
tnec fair et uerfus- Syenim irum trofepe uhn
conjonantis amittit. m fine autem fyllabte
omnes liqui* dee f lent ante.s .
poniyut plus hyems fmons yars -fimiliter dnte.xyexc<e
ptn.myut falx lanx arx. In mutis
proponuntur .b ^.g, fequente >d, ut
[ScPihv po ? bdellium genus lapidis ,abdir
,aldomcnfmygdonides.C, uero Zr-p , proponuntur fequcnte.t }ut
a{htsylc£hisyaptusydiphthon gus. Semiuoczths nulla
proponitur mutis nifi.s, fequete.b, ut
afbejhfs ajbufivs.cfuelqyut fcutii fquallor .p
yut [pes /phatra.tjhtfusfihenni- us-Ante alum
autem nullam nuitur um . Mut<e uero
fetniuo atlibus praeponuntur liquidis abfip.
myomnes pene omnibus-bly ut blandus clyut
clarus -dlyabcdlas nomen barbarnrn.fi frauus-gl gladius
gla^ brio.tlytlepolemus ^tlas pl, planus 'bnyabnuo
frd>by magis fiuperio * ns ejl jyilaba:.
cnyc nidus. dnyadnus ariadne. gnygneusanyatna. pn,
therapnefpnus. brybrennusyumbra.crycreber-drydrances.^rygra-
tusfr, frater- prfratum.trsracfhts. Ante. mydutmuetiiutur-c.d.g.t*
ut py r a cmony
alcrneneydragmaydmoistadmetusyagmeytmolus,ifi mos . T
res aut confio nates no aliter
pcjjimt iungi in principio fiyllabce nifii
fit prima. syucl.cyuel py fecunda
pofi.syquidcm.cyuel.tyuel.p. Tofit.ct aute aut- p,prma
pales fiainda.tytertialHchrfd.lyin fiohs illis quee
ab.symapiunt.ut A fclepicdotus, fiyiba fitlopus fylendidus ,
fretus . Ingratas etiam. <p ,t fecunda ponitur
qudm nos per.ph,plerunqs ficru bmus.crypxyit
uittrix.fceptrum • Nam pofi.pt yuehdyfimul iunfkts
l non inuenitur iit cfivndjmus, ipfit
fioni natura pyohibente. \n fine uero
aitUonis contra inuenimus primam liquidam
fequentem muta, poftremam- fiut uris ,fhrps
• fin aute\n in cluas definat
confionantes di&io diMoynecejfe cfi
priorem liquidam effe,et /cquente-s-uelx-ut
fitpr* offendimus, ude. ueUt- antecedente. n,ut hmc,dicunt ,
amat, hunc, uel loco-i-grace bsuel ps fcribcrc
pro ratione <grutwi,ut arahs arabis, petopr
p elopis, coeleps ccelibis , princeps principi*.
Quii ufdam fame Ut fupra docuimus ynon aliter
uidetur-^- gr<e at nifi pro-psfcnben = da.quanquam
enim ratio genitim fiipradiflttm exigat
scripturam, tamen cognationem foni ad hoc
procliuiorem cjfe aiunt hoc tamen fci
endum eft,cp principium syllaba omnimodo
pro. i. ps >debcthahere0 Utpfitacns,pfiudolus ,
ipje,mbo quccp mp fi, scribo scnpfi faciunt,
quanuis analogia per -b,cogat scribere
,/edeuphonia fuperat, qua etiam nuptam non
nubtam, & scriptum non scribtum
compellitper-p,non-b,dicere & scribere- PROBI
IWSTITVTA ARTIVM. M R. P- ^' 30 V. DE
VOCE. Vox sive soDus est aer ictus,
id est percussus, sensibilis auditu, quan-
lUDi io ipso es(, hoc est quam diu
resonat. nunc omnis vox sive sonus
aul articulata est aut confusa. articulata
esl, qua homines locuntur et 5
lilteris conprehendi potest, t puta ^scribe
Cicero', ^ Vergili lege' et cetera
UHa. confusa vero aut animalium aut
inanimalium est, quae litteris con-
prehendi non potest. animalium est ut
puta equorum hinnitus, rabies €3Dum,
rugitus ferarum, serpenlum sibiius, avium
cantus et cetera talia; inaDimalium autem
est ut puta cymbalorum tinnitus,
flageilorum strepitus, 10 uodarum pulsus,
ruinae casus, fistulae auditus et cetera
talia. est et con- fusa vox sive
sonus homiiium, quae litteris conprehendi non
potest, ut puta oris risus vel
sibilatus, pectoris mugitus et cetera
talia. de voce sive sono, quaDtum
ratio poscebat, tractavimus. DE ARTE. 15
Ars est unius cuiusque rei
scientia summa subtilitate adprehensa. Dam el
Graeci aico TtjgciQSTijg, a virlute,
censebant artem esse dicendam. uDde et
veleres artem pro vlrtute frequenter
usurpant. nunc huius artis, id est
grammalicae, omnis dumtaxat Latinitas ex
duabus partibus constat, ' hoc esl ex
analogia et anomaiia, et ideo utriusque parlis rationem sub20
iriiDus. Analogia est ratio recta perseverans per
integram declinationis disciplioam, ut puta
hic Catilina, haec lupa, hoc scrijnium
et cetera talia; $cilicet (|uoniam haec
nomina sic per || omnes casus
secundum sua genera 2S in derlinalione perseverant,
sic uli est analogiae rccta declinationis
dis- riplina. 1 PROBI GRAMHATICI
DB VIII 0RATI0NI8 MBMBRI8 AR8 MINOR. DB VOCE
V Ci COdtParisinus 7519 incipit
tractatos probi granmatici de uocb codex
Parisinus 7494 DE TocB fi: cf.
PrUeian. p. 727 conl. Prob. p. 306
ed, Find., Pompei. p. 187 ed, lixd.
conl. Prob. p. 236 sqq. ed. f^ind.
4 omnis R communis r 9 ruditus
corr, ragitus R rndttus rv serpentum
R serpentium rv 24 scrioium rv
scriptam R " 26 analogiae recta
R analog^ia recia r analogia e recta
v .Anomalia est misrcns vel inmutans aut
deficiens ratio per declina- tionem. De
miscente. miscens anomaliae per declinalionem
ratio esl ut puta 5 ab hoc
altero, huic aiteri; scilicet quoniam
quaecumque nomina ablativo casu numeri
singularis o littera terminanlur, haec
secundum analogiae rectam rationis disciplinam
dativo casu numeri singularis o iittera definiun-
tur. item ab hac mula, his et
ab his mulabus; scilicet quoniam quaecum-
que nomina ablalivo casu nueri singularis
a littera terminantur, haec
secundum analogiae rectam ralionis disciplinam
dativo et ablativo casu numeri pluralis
is litteris definiuntur. item ab hoc
iugero, horum iugerum; scilicet quoniam
quaecumque nomina ablativo casu numeri
singularis o liitera terminantur, haec
secundum analogiae rectam ralionis disciplinam
genetivo casu numeri pluralis orum litteris
definiuntur. sic et cetera talia, quae
contra anaiogiae rectam rationis^disciplinam
miscent per casus declinatiouuro formas,
anomala sunt appellanda. De inmutante.
inmutans anomaiiae per declinationem est
ratio, ut puta hic luppiter, huius
lovis.' sic et cetera talia, quae
conlra analoglae rectam rationis discipfinam
inmutant per casus declinalionum formas,
anomala sunl appeilanda. De deficienle.
deficiens anomaliae per declinalionem est
ratio, ut puta hoc nefas et
cetera (alla; scilicet quoniam haec
contra analoglae . rectam rationis
disciplinam non per omnes casus in
declinatione per- severanSic iam et per
ceteras partes orationis analogia vel
anomalia comsideranda est, hoc est ut,
quaecumque pars oralionis neque miscet
neque inmutat aut deficil per deciinalionis
disciplinam, ad analogiam pertineat, quae
vero miscet vel inmutat aut deficit
per declinationis discipllnam, anomala sit
appellanda. nunc etiam hoc monemus,
quod analogia maximam partem oralionis
contineat, anomalia vero aliqnam. de
anomalia et analogia, quantum ratio
poscebat, tractavimus. Liltera est elementum
vocis articulatae. eleroen{|tum autem est
unius cuiusqi.ie rei initium, a quo
sumitur incrementum et in quod resolvltur.
accidit uni cuique lilterae nomen figura
polestas. nomen lilterae est quo
appellatur. sane nomen unius cuiusque
litterae omnes artis latores, prae-
cipuequc Varro, neutro genere appellari
iudicaverunt et aptote decllnari iusserunt. aploton
est autem, quando nomen per omnes
casus uno sche- mate declinatur, ut
puta hoc a, huius a, huic a, hoc a, o a, ab hoc
a. 40 sic et ceterarum lillerarum
nomina genere neulro aptote et numero
tantu esi inmiscens liv neqne inmiscd Rv sit]
sunt Rv orationis o rationis R in quod v et
Diomedes p. 415 in quo R—24 49 p.
1U.56R. p. 231.32 V.
siflgulari declinaDda suBt. figura litterae
est qua notatur et qua scribitur.
polestas litterae est qua valet, hoc
est qua sonat. nunc omnes Latinae
litterae dumtaxat sunt numero XXIII. hae
nominantur Tocales semivocales el mutae.
sed semivocales et mutae appellantur
consonantes. sane qnae- rilor, qua de
causa semivocales et mutae consonantes
appellanlur. hac de & causa, quoniam
coniunctis iliis vocalibus sic nomina
earundem consonanl. sed cum ad ipsas
litteras pervenerimus, iliic quem ad modum
coniunctis illi.s Tocalibus nomina earundem
consonent conpetenter tractabimus. Vocales
litterae sunt numero quinque. hae per
se proferuntur, hocio est ad vocabula
sua nuliius consonantium egent societate,
ut puta a e i o u, et per
se syKabam facere possunt, hoc esl ut
ipsae inter se tantum modo misceantur
et syilabae sonus efficialur, ut puta
ua ue oe au ui ia et cetera
lalia. Iiarum, id est vocalium, hae
duae, i et u, transeunt in
consonantium poteslatem tunc, cum aut ipsae
inter se geminantur, ut luno viator
15 rultus, vei quando cum aliis
vocalibus iunguntur, ut vates vecors iam
vos maiestas maior et cetera talia.
nunc quaeritur, quando i vel u
litterae loco consonantis- sint positae,
vel quando inter vocales accipi debent quare
hoc monemus, ut tunc i vel u
loco consonantis accipiantur, quaudo praepositae
vocalibus in syllaba scilicet sua
inveniuntur; quando vero subiectae, et
ipsae vocales iudicenlur: ut puta iu,
utique i nunc loco conso- oaDtis et
u loco vocalis accipitur; item ui,
utiqueu nunc loco consonantis et I
loco II vocalis consideratur. sic et
iuxta | vocales alias, si i vel
u litterae in syitaba sua praeponuntur,
vim consonantium habere iudicantur; si vero subiciuntur,
vocalium loco funguntur. Semivocales consonantium litterae
sunt numero septem. hae secundum musicam
rationem per se proferuntur, hoc est
ut ad vocabula sua nullius vocalium egeant
societate, ut f 1 m n r s
x. at vero secundum metra Latina
et structurarum rationem subiectae
vocalibus nomina sua ao elficiunt, ut ef
el em en er es ex. sed per
se syllabam facere non possunt, sciiicet
quoniam semivocales litterae, si inter se
misceantur, sonum syllabae facere non
reperiuntur, ut puta fl ms rx ns;
et ideo, ut diximus, per se semivocales syllabam facere non
possunt. ex his autem, id est ex semi<
vocalibus, x littera duplex in metris
sive structuris ludicatur, siquidem 3&
geminatarum harum consonantium sono fungatur, id
est gs aut cs, ut rex et regs,
pix et pics. nunc etiam hoc
secundum aliquos reprehendendum est, quod
huic duplici litterae, id est x, ad
exempium genetivum casum 10 Tecors o
uaecors R 20 yocalibns v uocabulU R
22 consonantis el 1 loco ak. R9
^23 iaxta vocaies alias v ex codice
Parisino 7519 iaxta ceteras uucaittB •Hu
R secundum R iuxta rv 50 PROBI p.
156. 67 R. p. 232. 33 V.
videantur subicere, ut puta rex r^is, pixpicis;
quod a ratione x litterae, quae
duplex est, longe alienuin esse videatur.
at in Iiog nomine non est simile
huic tractatni, quod est nix nivis.
DE MVTIS. « Mutae consonantium litterae
sunt numero novem. hae nec per se
proferuntur nec per se syllabam facere
possunL per se hae non pro« feruntur,
siquidem vocalibus litteris subiectis sic
nomina sua deOuiuiit, ut pula be ce
de ge ba ka pe qu te. per
se autem syllabam facere non pos-
sunt, scilicet quoniam mutae litterae, si
misceantur, sonum syllabae facere lonon
reperiuntur, ut puta bc dg tk pq
et cetera talia. nunc et in his
mutis supervacue quibusdam k et q
litterae positae esse videntur, quod dicant
c litteram earundem locum posse complere,
ut puta Carthago pro Kartiiago. nunc
hoc vitium etsi ferendum puto, attamen
pro quam quis est qui sustineat
cuam? et ideo non recte hae litterae
quibusdam super- 15 vacue constitutae esse
videntur. [| item ex isdem mutis h
aspirationis notam, non litteram esse
existimaverunt, cum et haec, sic uti
ceterae, certum sonum retineat potestatis
suae, ut puta honos: numquidnam onos?
aut cetera talia; et ideo hoc quoque
non recte existimasse notandi sunt Nunc
quaeritur de consonanjtibus, quare in duas
partes dividantur, hoc est in semivocales
et mutas. hac de causa, quoniam
semivocales maiorem potestatem habent quam
mutae. nam cum omnes artis latores,
praecipueque Caesar, propter rationem metricam
et structurarura quaUta- tes singularum
litterarum sonos ponderarent, hac ratiooe
semivocales mutis praeferendas iudicaverunt, quod
semivocales geminatae ad sonum vocalibus occurrunt, hoc est ut
syllabam facere possint, ut puta fla ars mons iners et cetera
talia; at vero niutae geminatae, si
vocalibus ocAirrant,. nec syllabam nec
sonum scilicet facere possint. quis enim b cdkpqtg geminatas
vocalibus misceat et sonum syllabae potest audire? et
ideo hac pcaelatione semivocaies mutas rite
videntur antecedere. nunc hoc monemus,
quod h iuncla cum aliis mutis possit vocali concurrere et sonum syllabae
suscitare, ut puta pulcher; et ideo hic aspirationis nota, id esl sonus, non
littera accipi debet, scilicet quoniam mutae coniunctae, si vocalibus
occurrant, prohibentur sonum syllabae suscitare. y aotem et z
propter Graeca nomina LATINI accipiunt. Nunc etiam hoc quaeritur, qua de
causa ratio metri vel musicae proclivior sit ad rationem Graecam quam LATINAM.
utique hac de causa» quoniam Graecarum litterarum vocabula in dimidia parte
sunt dtsyliaba et in alia monosyllaba, id esl ut XXX et VI sonos
contineant. at vero litterarum LATINARUM nomina cum sint omnia
monosyllaba, id est ul XX et 2 atnivis alia manu add Ua esge in codice
adnoiatwn esi in R11supervacue coniecU ediior Vindobonensis superuacuae Rv quod
r quo R 14 8uper> vacuae R
28 misceat r miscel corr. misceat R.68
R. 34V.sonum contiDeaDt, necesse est ut et
in ratione roetri vel musicae plus
facultatis raUoGraeca quam LATINA obtioeaL sed boc in metris vel rousicis
conpetenter traclabimUs. dudc et boc moDemus, quod pauci sciuDty siquidero ood
semper x littera duplex sit accipieuda; sed tUDC duplex accipieDda,
quaudo subiecta syllabam coDfirmat, ut puta dox et 6 Docs, lex et
legs, felix et felics. et celera talia, siquidem tuDc et
soDum duaruffi litterarum coutiDeat.at vero qqaDdo praeposita
syllabae existat, noD duplex sed simplex est accipicDda, ut puta maximus
auxius: Dumquiduam macsimus aut aocsius? Et cetera talia; et ideo, ut
diximus, quotieos X [[ littera praepositasyllabae existat, simplex est
supputaada, sciiicet loquoDiaro cs et gs litterae geroinatae, si vocalibus
praepooaDtur, numquam sonum syllabae suscitabuDt de litteris, quaoluro ratio
poscebat, tractafimus. Etiaro de syllabis, quouiaro dod brevis ratio est, ideo
alio loco cod- i6 petenter cum roetris tractabimus. Partes orationis sunt VIII:
nomen, pronomen, participium, adverbium, coniuctio, praepositio, interiectio,
et verbum. Grice: “Italians speak of ‘parola’ easier than they analise it. I
play with ‘word’ and ‘sentence’. ‘Sentence’ of course comes from Cicero,
‘sententia.’ I admit that it may not be possible to provide a formula
‘Expression means …’ unless you specify the ‘syntactic type’ to which E
belongs. I tried for adjectival ‘shaggy’. And even there I got into problems
with the idea of a correlation, where the utterer is asked to provide a
correlation of the type he has just provided!” -- Grice: “La voce e la parola”.
Nicola Chiaromonte. Keywords: parola, parabola, Donatus, Priscianus,
definizione di voce, vox, verbum, word, Grice on ‘word’ – Corleo on ‘parola’
--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiaromonte” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Chiavacci: l’implicatura
conversazionale poetica di Gentile –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Foiano della Chiana). Filosofo
italiano. Grice: “Chiavacci is a good one; Italians tend to identify him with
Miichelstaedter, but surely there is more to Chiavacci than an exegesis of
Michelstaedter (especially to refute Gentile’s) – my favourite tracts are
three: his ‘critique of poetical reason’ – a critique we were lacking! --, his
little treatise on ‘man’ – and his ‘reality’ and not appearance, as Bradley
would have it, but ‘illusion,’ which is related to Latin ‘ludus,’ game – His
‘philosophical studies’ cap it all!” Partecipe della stagione neoidealista
italiana, fu tra i più innovativi interpreti ed eredi dell'attualismo
gentiliano. Riceve l'istruzione primaria a Cortona, e quella secondaria
nel liceo di Iesi. Frequenta la facoltà di lettere del Regio Istituto di
Studi Superiori a Firenze, dove fu allievo di Mazzoni, e conobbe tra gli altri
il poeta filosofo Michelstaedter, di cui divenne grande amico, insieme ad
Arangio-Ruiz, Cecchi, De Robertis, Lamanna, Facibeni. Si laureò con una tesi
sul Decameron di Boccaccio, e l'anno seguente ottenne una cattedra di
insegnamento per il ginnasio inferiore. Con l'entrata dell'Italia nella
prima guerra mondiale, C. combatté al fronte come capitano di artiglieria.
Tornato all'insegnamento, nell'immediato dopoguerra vinse una cattedra per il
ginnasio superiore, e iniziò nel contempo a frequentare la facoltà di filosofia
a Roma, dove incontrò Gentile, col quale si laureò con una tesi su Antonio
Rosmini. Comincia a insegnare filosofia nei licei, e due anni dopo fu
promosso a preside di varie scuole, tra cui Siena dove nacque suo figlio
Enrico. Divenne professore universitario di pedagogia alla Scuola normale di
Pisa, e insegnò filosofia teoretica a Firenze, anche la cattedra di
estetica. Entra a far parte dell'Accademia Roveretana degli Agiati. Gli
verranno quindi elargiti diversi altri titoli accademici e riconoscimenti, come
la medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte. L'idealismo:
tra Gentile e Michelstädter «Se mi domando [...] che cosa debba al pensiero
filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua
dottrina, non trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più
esatta di questa: la dottrina dell'atto puro. C., L'eredità di Gentile, in
«Giornale di metafisica». La filosofia di C. si muove tra l'idealismo attuale
di Gentile da un lato, e l'anti-dialettica esistenziale di Michelstaedter
dall'altro, conciliati in un'ottica spiritualista cristiana.
Dell'attualismo gentiliano egli intende rivalutare la portata atemporale
dell'atto puro dello Spirito, a cui riconosce piena realtà, a differenza
dell'attualità concepita come un presente situato storicamente tra un passato e
un futuro illusori. Riappropriandosi al contempo del criterio della
persuasione di Michelstädter, Chiavacci ritiene che non si debba a sua volta
fare dell'atto una teoria, una filosofia panlogista staccata dalla vita e dal
suo stesso attuarsi, «perché deve essere essa la vita». Gentile ha avuto
il merito di elaborare una filosofia anti-intellettualistica che non si
esaurisce nel concetto, ma è autoconcetto, mostrando come il mondo consista
nell'autocoscienza dell'atto pensante, in cui vi è «assoluto possesso, realtà
attuale immanente al suo farsi». Egli tuttavia non avrebbe compreso appieno le
conseguenze di questo attuarsi dell'atto, e sarebbe rimasto a sua volta dentro
un "concetto" dell'autoconcetto, cioè in una forma di mediazione
logica, di costruzione intellettuale, in un logo astratto che supera e
smarrisce la «fonte della verità». L'atto invece, per C., proprio perché
non può essere ridotto a fatto, cioè ad oggetto, è un atto «che sfugge ad ogni
metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di
dentro». Tale consapevolezza interiore che «il soggetto ha di sè senza oggettivarsi»,
è per C. fondamentalmente un'intuizione, un sentimento, che permea la
dialettica dell'atto pensante articolata nel soggetto e nell'oggetto. Essa
bensì è anche un processo mediato, da cui risulta un logo "pensato"
senza cui non si avrebbe coscienza formante della sua stessa origine intuitiva,
ma un pensato che resterebbe vuota astrazione, «caput mortuum, se si distacca
dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che gli dà un
contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l'intuizione costitutiva dell'attualità
dell'io e che forse meglio si potrebbe dire sensus sui». Essa è infine,
negli esiti religiosi dell'ultimo C., essenzialmente fede. Opere Tesi di
laurea: La Commedia nel Decamerone (Iesi, Fiori) Il valore morale nel Rosmini
(Firenze, Vallecchi) Illusione e realtà. Saggio di filosofia come educazione
(Firenze, La Nuova Italia), concepita come una traduzione in forma propositiva
del tema della «persuasione» che era stata esposta nell'opera di Michelstaedter
in maniera indiretta e non sistematica come contrapposizione alla «rettorica».
Saggio sulla natura dell'uomo (Firenze, Sansoni), dove il conflitto
michelstädteriano tra illusione e realtà diventa quello tra natura e ragione
umana, superato dalla dialettica dell'atto spirituale. La ragione poetica
(Firenze, Sansoni), divisa in due parti: Il momento dell'Indifferenza, che
affronta il problema della discordanza tra natura e intelletto, ovvero tra
fatti e concetti, e tra questi e valori; e Il momento della libertà, che
assegna alla libera creatività di una ragione non logica ma poetica il
fondamento di quei valori, attraverso le dimensioni dell'arte e della
religione. C. ha inoltre curato l'edizione delle Opere di Michelstaedter
(Firenze, Sansoni), oltre a redigere, su richiesta di Gentile, la voce
"Michelstaedter" per l'Enciclopedia Italiana. A lui si devono
poi altri due saggi sul Rosmini: Filosofia e religione nella vita
spirituale di A. Rosmini (Milano, Bocca), e La filosofia politica di A. Rosmini
(Milano, Bocca). Postume Quid est veritas? Saggi filosofici, Leonardi,
introduzione di Garin, Firenze, Olschki, Gentile-C.. Carteggio, Simoncelli, Firenze,
Le Lettere. Grita, C., su treccani. Antonio Russo, C., interprete di
Michelstaedter, Trieste. Così C. ricorderà il suo primo incontro con la figura
di Gentile: «Leggendo per la prima volta la Teoria generale dello spirito, ebbi
un lampo di luce, pel quale intravidi la possibilità di comprender la vita, di
potervi trovare quel valore senza del quale ogni altra cosa non ha pregio» (da
una lettera di C. a Gentile, cit. in Gentile-C.: Carteggio Simoncelli, Firenze).
Scheda su C. su agiati.org. Cit. anche
in G. C., Quid est veritas? Saggi filosofici, C. Leonardi, Olschki. C., Il
pensiero di Michelstaedter, articolo sul «Giornale critico della filosofia
italiana». C., Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto,
in «Giornale critico della filosofia italiana», C., Il centro della
speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, C., Quid est veritas? Saggi
filosofici, C. Leonardi, Olschki, C., Quid est veritas? Saggi filosofici, Russo,
C. interprete di Michelstaedter. Eugenio Garin, Introduzione a G. Chiavacci,
Quid est veritas? Saggi filosofici, Russo, C. interprete di Michelstaedter, C.
su sapere. Gaetano Chiavacci,
Michelstaedter in «Enciclopedia Italiana», Roma.Bontadini, Dall'attualismo al
problematicismo, Brescia, La Scuola, Guzzo, C. la "Ragione poetica",
in «Giornale di metafisica», Francesco Valentini, Recenti studi
sull'attualismo, in «Rassegna di filosofia»,
Antonio Testa, Michelstaedter e i suoi critici, in «Rassegna di Filosofia»,
Gianfranco Morra, La scuola gentiliana e l'eredità dell'attualismo, in «Teoresi»,
Vito A. Bellezza, Gentile e l'attualismo nell'ultimo ventennio, in «Cultura e
Scuola», Dario Faucci, L'«attualismo» di C., in «Filosofia», Negri, Gentile:
sviluppi e incidenza dell'attualismo, Firenze, La Nuova Italia, Antonio Russo, C.
interprete di Michelstaedter, Campailla, in
La via della persuasione. Carlo Michelstaedter un secolo dopo, Venezia,
Marsilio, Attualismo (filosofia) Gentile Idealismo italiano Michelstaedter La
Persuasione e la Rettorica C. C., in
Dizionario biografico degli italiani. L’encomiabile Bibliografia michelstaedteriana1,
regolarmente aggiornata, che appare sul sito della Biblioteca
statale isontina, ha ormai assunto dimensioni più che
ragguardevolie, nell’ultimo anno, per via
del centesimo anniversario
della sua morte, essa si
è di molto arricchita. Sembra, quindi, cosa
ardua dire qualcosa di nuovo su Michelstaedter. Un’ulteriore problema, poi, che
presenta lo studio della sua opera, sorge allorché si tien conto che con
il giovane pensatore goriziano ci troviamo di fronte ad un intellettuale
anomalo, del tutto sconosciuto in vita e scomparso in un’età in cui di
solito gli altri muovono i primi passi nella vita pubblica. La stessa sua
opera principale, La persuasione e la rettorica, era destinata ad essere la sua
tesi di laurea ed è stata data alle stampe postuma; sicché il
riconoscimento tardivo e la fortuna, non solo nell’ambito del panorama
culturale italiano, ma anche di carattere internazionale, che essa ha avuto,
sono in gran parte dovuti alla devota sollecitudine di un pugno di amici,
cui si deve la sua pubblicazione e quella degli altri scritti di
Michelstaedter. A loro si deve, infatti, dopo la sua scomparsa prematura, il
merito di aver sottratto alla morte la sua memoria3 Tra di essi, e sono
soprattutto i nomi che contano nella ristrettissima cerchia degli amici
fiorentini, spiccano Arangio–Ruiz e C.. Il lavoro paziente e
meticoloso del secondo, in particolare, per rendere accessibile la conoscenza
degli scritti di Michelstaedter, con la sua edizione delle Opere
(Firenze, Sansoni), “costituisce una pietra miliare
nella vicenda storico-culturale e storico-critica
del filosofo goriziano. L’edizione Sansoni di C. è all’origine del
lavorio critico e interpretativo che è seguito negli ultimi trent’anni e
che non accenna ormai a declinare” In
uno studio su Michelstedater, non si può
allora perdere di vista questa verità;
e, soprattutto non si può non tenerne conto. Occorre, allora,
affrontare il compito di chiarire il senso e i termini della
ricostruzione del suo pensiero proposti da C.e da Arangio – Ruiz.
E parlare dei due fraterni amici di Michelstaedter significa non
poter passare sotto silenzio un autore, Gentile, le
cui suggestioni sono penetrate per canali
vari e hanno raggiunto un’egemonia ancora non del
tutto esaurita nella cultura italiana. Non a caso, con aderenza
più o meno piena, da lui hanno preso le mosse molti autori che poi
hanno svolto idee originali e autonome, accentuando, ripensando o
rivedendo l’uno o l’altro aspetto della sua filosofia. Nella
sterminata letteratura critica che gravita sull’attualismo, i due
pensatori ‘fiorentini’ compaiono, sia pure con caratteristiche
proprie che li distinguono dall’uno e dall’altro indirizzo d’interpretazione,
come “notevoli esponenti” della sinistra (Vl.Arangio – Ruiz) o della
destra gentiliana (C.) Tuttavia, il loro lungo e travagliato svolgimento
dell’eredità neo-idealistica, sia pure ripensata “in novitate spiritus”7,
perloppiù non è stato mai messo a fuoco con efficacia e nei suoi risvolti
più significativi ed è stato oggetto solo di qualche timida e stentata
paginaNon deve perciò apparire strano che su questi problemi e su questi autori,
e in particolare sulla loro collocazione speculativa nell’ambito del
panorama attualistico, si torni ad insistere: essi esordirono come
attualisti; poi, seguirono e “amarono” Gentile ; non persero mai di vista
l’approfondimento del suo pensiero e si
riconobbero in esso nell’arco di alcuni
decenni, giungendo ad un suo “sincero
ripensamento”. Una lettera di dedica a
Gentile (che apre il volume La
ragione poetica, Firenze, Sansoni), mette
ampiamente in evidenza l’effetto che provoca su C. la lettura della
Teoria generale dello spirito come atto puro :”ebbi un lampo di luce, pel quale
intravidi la possibilità di comprendere la vita, di potervi trovare quel
valore, senza del quale ogni altra cosa non ha pregio” A
questi dati se ne potrebbero aggiungere molti altri. Qui, tuttavia, per ragioni
di tempo e di spazio, occorre prescindere da una approfondita analisi
delle rispettive biografie teoretiche e del contesto. E, poi, per lo
stesso motivo, si rende necessaria una ulteriore limitazione del discorso
al solo rapporto C. – Michelstaedter - Gentile, anche perché “Arangio – Ruiz
non ha lasciato un grosso volume
sistematico, ma solo volumi di saggi;
e quanto a Conoscenza e moralità, che
già subito non lo appagava più...egli stesso lo considerava un
saggio, non un trattato”12; e, poi, egli fu non tanto un pensatore
sistematico, quanto un fine e colto letterato, un autore “di prosa morale
o di polemica antintellettualistica o di discussione su problemi di
estetica e di critica d’arte”. Infine, tutta la sua opera è
pervasa sin dai suoi momenti iniziali da “una polemica coi suoi
più vicini maestri: Croce e Gentile” 13; invece, le posizioni speculative di
Chiavacci presentano tratti più sistematici, rientrano nel grande alveo
dei motivi tipicamente attualistici e
culminano con maggior consapevolezza ed esiti
più cospicui in un tentativo di rielaborazione, di compiuta
espressione dell’idealismo14. Qui, come
termine di riferimento e di confronto, occorre
prendere in considerazione l’insegnamento di Gentile
negli anni in cui la sua attività didattica e scientifica trovò il suo
più maturo affermarsi, a partire a Roma. Sono, infatti, gli anni in cui
si pongono le basi di un fitto tessuto di relazioni che
interviene a connettere C. a Gentile, in un
rapporto che diventerà sempre di più
assiduo, “amichevole e confidente”. La
prima domanda da porsi, per sgomberare il
terreno da equivoci, è di sapere, attraverso
l’analisi puntuale dei principali documenti letterari, quali furono
il consenso e i punti di dissenso. Ma vediamo i termini del
discorso, senza perdere il contatto con i testi. Gentile si occupa
ripetutamente di Michelstaedter. Su sollecitazione di C.,
che si era iscritto in Filosofia, a Roma dopo averne letto i testi e ascoltato
le lezioni, interviene presso Vallecchi, una delle sue cittadelle
editoriali, per caldeggiare l’edizione de
La persuasione e la rettorica data
effettivamente alle stampe; in lettera a C.) chiede allo stesso
C. di redigere per l’Enciclopedia Italiana
la voce Michelstaedter di 10 linee, e qualche
giorno dopo decide di elevare lo spazio per la stessa voce a 30 righe18. Nel
1922, poi, recensisce l’opera di Michelstaedter data alle stampe per i
tipi della Vallecchi. Nel farlo, tributa innanzitutto
elogi all’iniziativa ad opera di un
“fido gruppo di amici” di
Michelstaedter; rileva subito dopo che si
tratta di uno scritto giovanile in cui non c’è
un“approfondimento metodico” degli argomenti trattati, e né un loro
“sviluppo sistematico 19. Infine, prende in
considerazione “il problema dell’opposizione tra la persuasione
vera, che corrisponde al possesso della vita, e la falsa
persuasione, scopo della rettorica”. Per Gentile, in
Michelstaedter la persuasione serve ad indicare il fatto che il
“possesso della realtà e della verità...non cerca vanamente fuori di sé
il suo mondo”, ma è caratteristica “della sufficienza, dell’autarchia,
come dissero i greci. La persuasione del vero sapere, come lo intuì e lo
volle Socrate, tranquillo, sereno, saldo sul punto che è il centro del suo
mondo: nel suo animo”. Di contro, la rettorica è espressione
dell’individualità illusoria, inganna e s’inganna, è superficiale, prende
il posto del vero sapere, si prende “gioco dell’uomo, gli fa credere di
vivere in mezzo ai piaceri”; la rettorica uccide la
vita, irretisce l’uomo “nella vana
teoria dei concetti”, “sdoppia il sapere
e la vita”, oppone “alle cose
direttamente affermate il pensiero che afferma le cose” e così mostra
“l’insufficienza delle cose che hanno nella persona il loro correlato e
l’insufficienza della persona, che ha nelle cose il suo termine
integrante”Tuttavia, per Gentile, anche se
il Michelstaedter sceglie giustamente a
suo bersaglio la rettorica, alla quale dedica gran parte delle
proprie forze speculative e del proprio lavoro di tesi, “non ha né tempo
né animo per considerare direttamente e con pari studio la persuasione.
Sono accenni qua e là, e
qualche spunto del suo pensiero positivo
si può scorgere” nelle Appendici e,
più precisamente, ne Il prediletto
punto di appoggio della dialettica socratica24. La
persuasione, è vero, dice Gentile, viene definita come caratteristica “di
chi permane. L’unica via di chi permane è la sua forza; la forza di non
asservirsi al futuro, e tenere raccolta nel presente la propria
vita”25. Ma qui si ha a che fare con una immagine poetica, non con
un concetto filosoficamente dimostrato; permangono perciò interrogativi sul
cos’è la vita, questo permanere, ecc. Il merito indiscusso del
Michelstaedter, il suo guadagno speculativo più cospicuo,
secondo Gentile, consiste nel mettere
in rilievo un universale aspetto di verità,
che consiste nel fatto che l’uomo “rientra in
se stesso, liberandosi della rettorica e gettando la salda
ancora della vita nel porto della persuasione”. Quali furono le
reazioni di C. a questo giudizio di Gentile Uno sguardo da vicino
all’elenco dei suoi scritti e una loro attenta
analisi consente di accertare che la
sua personalità speculativa, ma anche quella
di Arangio – Ruiz, nasce dall’incontro
con Michelsteadter, cioè “da un humus fortemente sentimentale”, e il suo
“culto” per l’amico comune “restò fino all’ultimo sempre
vivo”27. Entrambi gli autori, poi, pur se procedono con diversa,
e non certo marginale, fisionomia sistematica e speculativa,
fanno proprie le istanze teoretiche gentiliane centrali e le affrontano
sotto le suggestioni di Michelstaedter, nel tentativo
di riguadagnare, come nel caso del
Chiavacci, l’essenza dell’attualismo e così
di offrire un contributo, “perfettamente
consentaneo”, alla sua più compiuta
espressione. L’intero percorso speculativo di C., ad esempio,
manifesta fino in fondo la fedeltà a conservare queste istanze, comunque
egli si muova, quali che siano gli andarivieni del suo pensiero. In
particolare, egli dà alle stampe nella “Rivista di cultura”, di cui
Gentile era membro del comitato di redazione, un testo intitolato Le due
nature. In esso, egli affronta il problema del rapporto tra
finito e infinito, sostenendo che “l’infinito ideale non può
realizzarsi come immanente al finito, ma come immanente alla negazione del
finito”30. Il testo viene pubblicato con una postilla dello stesso
Gentile, in cui il filosofo siciliano lo invita a non insistere tanto
sulle differenze tra le sue posizioni e quelle dell’attualismo e, soprattutto,
ad approfondire meglio gli aspetti relativi al ruolo della
“negatività nella dialettica propria dell’idealismo”, con
particolare riferimento al tema dell’attuosità dell’atto, della negazione in
cui si deve cogliere una attività che passa e supera il limite che si è
posto e si afferma nella “sua libertà da ogni limite”, come valore o
realtà infinita, laddove il finito non rinvia ad una trascendenza, ma è
il “campo nel quale si celebra e trionfa la potenza dello spirito nella sua
concretezza”. Dopo questo
intervento, due anni dopo, e sulla
scia evidente delle sollecitazioni di
Gentile, nel Giornale critico della filosofia
italiana, la rivista fondata e diretta dallo
stesso Gentile, C. dà alle stampe un corposo articolo su Michelstaedter in
cui cerca di mostrare, rispondendo ai rilievi critici del suo maestro
siciliano, che il pensiero di Michelstaedter non è
riconducibile ad “una realtà negativa”, ma
è “la positività dell’atto negante, in
quanto vero atto, cioè vita”; esso non è “pura negatività”, e tutta
la sua novità consiste nel fatto che “il positivo di
Michelstaedter è l’attività che crea se stessa dal nulla” e perciò è
senza condizioni o, in termini gentiliani, “libertà senza limiti”. Tutto il
testo di C. è una serrata, e pacata, replica e a
Gentile, in cui si pone il problema di
precisare e difendere le giuste esigenze,
quasi come una esplicitazione in
positivo del pensiero di Michelstaedter e in particolare come una
prosecuzione della sua tesi su La persuasione e
la retorica. Già il titolo dell’articolo
di C. è una risposta a Gentile,
che negava al Michelstaedter l’esistenza di una vera e propria dottrina
filosofica, di un approfondimento metodico e
di uno sviluppo sistematico e parlava
piuttosto di “personalità filosofica”. Per C.,
invece, Michelstaedter non parla direttamente della persuasione, ma non
per questo è giusto dire che ne dia pochi cenni della persuasione si
parla in tutto il saggio, perché essa è il criterio della lotta
contro la rettorica”. Egli non ne fa la teoria, “come non fa la teoria
del positivo della persuasione, così si rifuta di considerarne il risultato,
come un fatto staccato dal processo”. Il criterio che Michelstaedter usa
non è una nuova teoria accanto a tante altre teorie che si sono avute nel
corso della storia del pensiero, ma “è Michelstaedter stesso vivente.
Filosofia non sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e il suo
organismo vivo che non può contraddirsi”; e perciò la definizione della
persuasione risulta “da tutto il saggio”. Una tale filosofia, nel nucleo
essenziale del suo pensiero, è l’attività vera, la vita, non ha fuori di
sé la vita “perché deve essere essa la vita. “La via della persuasione è
se stessa e non ha un fine fuori di sé. Essa intanto è la vita dell’infinito
nell’individuo finito, è la vera vita del finito: è processo, vita”39.
Michelstaedter non è un mistico; il suo ideale non è un
qualcosa di trascendente, “ma è la realtà stessa più
profonda del soggetto”; quel che egli nega
del particolare “è insieme affermazione,
come dice l’idealismo”: si nega la
particolarità del particolare, “nella sua [C.,
Michelstaedter, in “Giornale critico della filosofia italiana”, pretesa
immediata, quel che si afferma è quel che
implicitamente era in lui di universale, senza di che non poteva
neppure esser particolare: è lo sviluppo della sua parte migliore che
dormiva. Quel che di lui perisce era quel che non valeva, che non era mai
stato reale: quel che del particolare ci deve premere, la sua
aspirazione all’universalità, quella non perisce, ma
s’invera. E’ in fondo quel che dice il Gentile stesso quando parla
dell’immortalità”. Questo particolare, questo esserci del mondo come
particolare, come finito, non è possibile senza “la richiesta
dell’universale”, è “il campo in cui lo spirito si celebra e trionfa...’è
il lampo che rompe la nebbia’ “42; è sviluppo spirituale, mondo
come fare non come è dato. La convergenza delle due
posizioni, e su punti e aspetti decisivi della vulgata attualistica,
diventa qui profonda. In concreto, l’idea di individuo, non più un essere
naturale e che “non si restringe nei limiti del particolare: perché egli
non può né pensare, né sentire, né altrimenti realizzarsi, che
in un modo universale”, caposaldo e
tipica espressione dell’attualismo gentiliano chiamata
in causa nel testo di C., viene pienamente accolta. E si pongono così le
basi di un consenso che non si discosterà molto negli ulteriori svolgimenti
del confronto tra i due autori. Per cogliere
ulteriormente i tratti principali del consenso tra Gentile e C., al di là
dei punti di convergenza fin qui
messi in risalto, è necessario tener presente
i principali scritti di Gentile di quegli anni, in cui la
sua attività didattica e scientifica “trovò…il suo primo affermarsi con
volontà rivoluzionaria. Si determinava una svolta
essenziale del suo pensiero e della sua azione”. Gentile, infatti,
al culmine della propria maturità scientifica, iniziava
il corso di Storia della filosofia.
E, nel concludere la sua prolusione,
tracciava le linee direttrici per un programma di rinnovamento della filosofia,
con l’intento di “rifare l’uomo intero, che senta come pensa, e operi
come parla”45, perché “il vecchio letterato è morto…l’accademia
e la filosofia da eruditi devono essere davvero
un passato irrevocabile” : la vita deve diventare una milizia
continua46. Come documento più significativo di
questa svolta può essere preso il proemio del primo numero del
“Giornale critico della filosofia italiana”, la rivista della Scuola
romana gentiliana, in cui viene portato avanti lo stesso discorso della
prolusione. Non a caso, in esso, Gentile “propone di guardare all’avvenire” per
incominciare una nuova vita, uscendo
dall’individualismo e dall’egoismo. E, per
farlo, egli dice, occorreprecisare il rapporto tra scienza e
filosofia, contrapponendo le due forme di sapere. Da una parte c’è
la scienza e dall’altra la filosofia.
La prima presuppone il proprio oggetto
di conoscenza ed è analisi disgregatrice “sintesi impotente a
ricreare la vita distrutta...la quale se potesse veramente realizzare il
suo stesso ideale, sarebbe affatto morta e quindi inesistente: critica
presuntuosa, intenta a rendersi conto della vita restandone fuori”; la seconda,
invece, e lo stesso discorso vale per la religione, “non presuppone, ma
pone; non guarda, ma crea; non analizza perciò, ma vive; non è astratta
teoria, ma teoria che è prassi”48. Il problema di questo rapporto è un
principio essenziale dell’attualismo e costituisce l’aspetto fondamentale
del programma della nuova rivista. Gentile parla qui di sviluppo
dialettico che si risolve e si supera in un dramma
eterno, che, proprio perché continuo
superamento, rinvia necessariamente al continuo
superato, all'oggetto nel soggetto. Cosicché
la realtà, o atto spirituale, è una unità, ma
non una mera unità immediata, bensì unità del suo opposto, ossia della
molteplicità. Tale idea di uno svolgimento dialettico dello spirito, ribadita a
più riprese, significa che la filosofia non è più
"teoria e contemplazione del mondo, ma solo azione e
creazione del mondo stesso. Azione che non è, tuttavia, un immediato
agire, bensì coscienza di agire''. Tanto che,
come afferma Spirito, "l'idealismo trionfa
veramente di ogni intellettualismo non in quanto
esso rimane una teoria dell'atto, ma solo in quanto si
attua, sicché il suo valore teoretico è assolutamente
nulla (intellettualismo) se non diventa etico
(attualismo)''. Gentile insiste,
in altre parole, sul valore dell’attività creatrice dell’uomo
e sviluppa il concetto di un mondo che noi facciamo
e dobbiamo fare. Anzi, esso è l’unico veramente
esistente. Tutto il suo pensiero, perciò, è caratterizzato dall’esigenza
pedagogica e dal posto che il problema dell’educazione occupa nella sua
speculazione, che è così ”il massimo centro della sua concezione” e mette
in luce “la finalità più profonda del suo pensiero, tutta raccolta in
quell’umanesimo, che dà significato fin
da principio alla teoria e alla
storiografia dell’attualismo. La vita spirituale
è educazione, anzi autoeducazione...questa
affermazione non ha un significato parziale,
e relativo ad una determinata
questione, ma rappresenta l’essenza del concetto di
spirito che qualifica tutto il pensiero del Gentile. E, perciò, per
intenderne a fondo il senso e l’importanza, occorre ”guardare al
lato più propriamente etico della sua filosofia: a quello cioè per cui la
filosofia, essendo giunta alla completa liquidazionedel vecchio significato
intellettualistico, si afferma come identica alla
vita, come il valore stesso della vita. La
filosofia del Gentile è tutta Etica o
meglio Pedagogia. Poiché una filosofia
che non è concetto della realtà, ma
autoconcetto, non può essere più
teoria e contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del
mondo stesso”52. In forza di queste considerazioni, è
chiaro che non si può indulgere a nessuna inerzia. Una tale filosofia,
infatti, non può risolversi più in una pura e semplice contemplazione. Prima il
filosofo poteva rintanarsi nell’ozio
speculativo, far propria una ideologia
estetizzante da filosofo - letterato, ed avere come unico compito
quello di guardare e giudicare, per intendere una realtà altra ed
indipendente da lui. Si trovava così dinanzi a sé un mondo già dato, che per
il suo stesso esserci limitava e vanificava la libertà dell’uomo. Col
Gentile, invece, cessa ogni dualismo e ogni astratto concetto di
filosofia. Quest’ultima, anzi, diventa, azione consapevole di sé, vita
umana, sociale, e quindi anche educazione e politica. Vi è identità di
conoscere e fare e viene meno la separazione meccanicistica, e
con essa ogni residuo dualistico, tra le varie sfere
dell’attività umana; perciò filosofo, educatore e politico diventano tutti
termini sinonimi di uomo. Noi siamo artefici assolutamente liberi e
responsabili del nostro mondo e di conseguenza natura, società,
storia, ecc. non costituiscono più un limite. Tutto, infatti, è
assolutamente immanente nel nostro io più intimo. La nostra stessa umanità non
è più quella degli uomini presi nel loro atomismo particolaristico, ma
“quella della nostra personalità, più profonda che non è di fronte ad
altre personalità, ma tutte le affratella raccogliendole nel suo seno in
una vita unica che deve farsi sempre più una, e
cioè sempre meno particolare ed egoista”53. Così
viene vanificata la nozione individualistica
della persona, nel tentativo di guadagnare una
societas in interiore homine, perché, per usare le stesse
parole del Gentile della Teoria generale dello
spirito come atto puro :“altri, oltre di noi,
non ci può essere, parlando a rigore, se
noi lo conosciamo, e ne parliamo. Conoscere è identificare,
superare l’alterità come tale. L’altro è
semplicemente una tappa attraverso di
cui noi dobbiamo passare, se dobbiamo obbedire
alla natura immanente del nostro spirito : ma
passare, non fermarci”54. Questo stesso concetto, poi, verrà ripreso e
ulteriormente approfondito in Genesi e struttura della società, dove si
afferma che l’individuo non da considerare come un atomo; ad esso,
infatti, è :”immanente al concetto di individuo è il concetto di società.
Perché non c’è Io, in cui si realizzi individuo, che non abbia, non seco,
ma in sé medesimo, un alter, che è il suo essenziale socius”. L’uomo,
allora, non può più rinchiudersi nella sua angustaempiricità e nella sua
particolare competenza, ma deve invece realizzare se stesso e la propria
“personalità nella coscienza di una vita universale”. Gentile, secondo Spirito,
non solo è pervenuto a questo nuovo concetto della realtà, ma con la
propria vita ci ha dato l’esempio per l’attuazione più alta e coerente della
nuova idealità. In lui filosofia e politica, vita individuale e vita
sociale si sono realizzate nella sintesi più concreta e
consapevole. Egli, perciò, nel significato
più proprio della espressione hegeliana,
è un individuo portatore dello spirito;
anzi, “è il simbolo, e, meglio,
che il simbolo, l’iniziatore di una nuova Italia”, perché la sua
umanità non si riduce ad una vuota e vaga astrazione, ma
egli è un uomo intero, appunto
perché è quella “universalità che si
concretizza nella storia e nell’individuo...vive concretandosi
nell’individuo”58. Il che, nei suoi termini
essenziali, non è altro che lo stesso discorso che C. aveva svolto nel
suo articolo. Per il filosofo fiorentino, infatti, come abbiamo avuto modo
di vederlo più sopra, anche Michelstaedter
non elabora una teoria della persuasione,
e il criterio che egli usa “è Michelstaedter stesso vivente.
Filosofia non sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e
il suo organismo vivo che non può contraddirsi”59; e il nucleo essenziale
del suo pensiero, quindi, è l’attività vera, la vita, che
non ha fuori di sé la vita “perché deve essere essa la vita.
“La via della persuasione è se stessa e non ha un fine fuori di sé.
Essa intanto è la vita dell’infinito
nell’individuo finito, è la vera vita
del finito: è processo, vita.
Lo stesso tema verrà ulteriormente ripreso dal
C. negli anni successivi. Il suo volume Illusione
e realtà, e sua prima opera
sistematica di filosofia, per usare
un’espressione di Garin, può essere
intesa “come una sorta di esplicitazione
in positivo del pensiero di Michelstaedter e in particolare
come una prosecuzione della sua tesi su La persuasione e la retorica
volta a metterne in risalto gli aspetti per così dire positivi, cioè
il tema della persuasione. Dopo pochi anni, ossia nel 1936,
dà alle stampe un Saggio sulla natura dell’uomo
(Firenze, Sansoni) animato dal proposito di tradurre nella tensione
dialettica di natura/uomo la precedente coppia di termini
illusione/realtà e, così, di continuare la chiarificazione
delle principali istanze michelstadteriane in
rapporto alle posizionigentiliane. Tale compito
campeggia sin dalle prime battute discorsive del saggio, che perciò
viene presentato come una “visione di scorcio”, un discorso che “dovrebbe
riuscire ad una riaffermazione di idealismo”. Nell’Epilogo,
poi, il risultato dell’argomentazione
discorsiva, considerato nelle sue rigorose
e ultime conseguenze, lo porta ad
individuare nell’atto gentiliano, ossia in quella che egli chiama
la ragione poetica, il punto focale della riflessione attorno
a cui disegnare il tracciato del
confronto Michelstaedter – Gentile. E
questo atto consiste in una liberazione e in un distacco da tutto
ciò che è caduco e relativo; epperò, nello stesso
tempo, conduce “a vivere con altra mente
la vita che ci troviamo a vivere,
un consistere nel qualunque punto la sorte ci abbia gettato, è accettazione,
perché tale atto “non cerca nulla fuori di sè e l’unica sua gioia – unica
pura gioia, se tale può dirsi – è lo stesso suo puro conoscere, la stessa
sua assoluta liberazione interiore”64. In un altro saggio del
1947, apparso ancora una volta nel “Giornale critico della filosofia
italiana”, C. affronta di nuovo, e non a caso, Il centro della
speculazione gentiliana: l’attualità dell’atto. Nel farlo
ammette che il centro dell’attualismo è
l’attualità dell’atto, ossia l’affermare la
realtà come un unico processo, un perenne “farsi quel che deve essere e
non è”, atto come processo che è “assoluto possesso, realtà attuale
immanente al suo farsi”. Per spiegare come sia da intendere questa
affermazione di carattere fondamentale, C. analizza alcuni dei principali
testi del Gentile; mette in evidenza,
poi, che la realtà di cui il
filosofo di Castelvetrano parla non è un fatto, ma libera
creatività “che sfugge ad ogni metro di criterio preconcetto, e che, per
comprenderlo, bisogna rivivere dal di dentro. In questo processo, il
finito, l’io empirico, il mondo, “che deve essere negato nella sua pretesa
sufficienza, nella sua pretesa di sostituirsi all’infinito”, non viene
abolito, ma “acquista tutto il suo valore, quando, vedendosene
l’insufficienza in sé, è considerato nel
suo essenziale rapporto con
l’infinito...perché visto con altri occhi
nella sua vera realtà” Per C., in questo consiste la
verità elementare e il valore incontestabile, positivo, di ciò che il
gentilianesimo indica quando parla di attualità dell’atto. Non più
filosofia in senso logico, ma vita in atto, attività giudicante e nello
stesso tempo attività creatrice. Questo è l’aspetto più importante,
avvincente e persuasivo, ossia il concetto della processualità dello
spirito, in cui “il processo è veduto come perenne farsi, come assoluta
perenne novità, e al tempo stesso come assoluta unità, come un nuovo che è
sempre identico”68, un conoscere che è nello stesso tempo fare e vivere.
In questa concezione, per C. sembra annidarsi, comunque, una
difficoltà di fondo, cioè: anche l’attualità dell’atto sembra
essere una forma di mediazione, di logica, e quindi in definitiva
di oggetto; e perciò sembra cadere nell’accusa di panlogismo già rivolta a
suo tempo contro la filosofia hegeliana. Ma questa difficoltà si supera
se si tien conto che per Gentile l’attualità non è da considerare come
una cosa, ma come “spirito, non fatto ma atto, farsi. Viene facilmente
pensato che questa sia la nuova mediazione;
giacché un farsi, un divenire, non può essere in
sé un immediato, ma deve essere passaggio in atto dal non essere
all’essere...Ma anche questa è mediazione logica”69. La soluzione di
questo problema è di capitale importanza per poter intendere
effettivamente il pensiero di Gentile e per far si che esso non sia da abbandonare
come una realtà del passato definitivamente tramontato, ma sia “più vivo
che mai”. Per sciogliere i nodi del problema
e dissipare i dubbi, in modo da
comprendere l’essenza stessa del nucleo centrale dell’attualismo,
occorre tener presente che la mediazione attuale, di cui parla Gentile,
nel caratterizzare il suo modo di intendere l’atto in atto, “è una
mediazione non di opposizione, ma di distinzione, in cui non
si afferma né si nega più, ma si vive direttamente, si possiede la
propria vita, in quanto si vive la vita altrui, e si vive l’altrui
in quanto si vive la nostra” Questo è il vero e incontestabile
attualismo, ossia “lo spirito che sempre si fa, sempre non è, e
che pure giunge a vivere questo suo non essere (cioè questo suo
superare il finito) come l’eterna assoluta realtà (cioè come vita del
finito in cui si realizza l’infinito)”71. Nei testi Filosofia
dell’arte e Genesi e struttura della società, in particolare, C.
trova conferma a questa sua rilettura del Gentile, soprattutto quando si
parla nell’ultima opera del filosofo siciliano dell’individuo all’interno della
Società trascendentale o societas in interiore homine: “la realtà, che è
spirito, è originariamente, già nel suo principio, non
un’unità semplice, un io indivisibile, un individuo atomistico:
ma è unità fra un io e un altro che noi portiamo dentro di noi, una
società orginaria per la quale soltanto ci possono
essere l’io e l’altro. Si tratta di
fondare una società, in cui “l’io,
essendo conciliato con se stesso, si trova anche conciliato con gli
altri, e la vita di ciascuno è la stessa, identica vita di tutti. Solo
nella misura in cui l’uomo giunge a realizzare se stesso, si crea per lui
una più vera e libera società in cui l’uomo non è homini lupus, ma io nella sua
più vera realtà, ora consapevole e perciò soltanto
ora veramente reale nella sua
concretaindividualità. Si tratta in altri
termini di una dialettica tra logo e
attualità o attualità dell’atto, che consente al
Gentile, secondo C., di prendere le distanze e di realizzare un
fondamentale progresso rispetto allo stesso Hegel. Gli
stessi termini fondamentali del lessico gentiliano fin qui illustrati (ma poi
anche quelli di “illusione” e “realtà”) traducono in linguaggo
attualistico la distinzione michelstaedteriana tra persuasione (vita del
finito in cui si realizza l’infinito, campo in cui lo spirito si celebra e
trionfa) e rettorica (affernazione illusoria di vita, individuo
atomistico, ecc.). A ulteriore dimostrazione di
quanto fin qui affermato, c’è un
altro testo di C., significativamente intitolato
L’individuo74, in cui sin dalle prime battute discorsive si dice che non
si “comprende Michelstaedter se non si comprende cosa significhi per lui
‘individuo’ “. Per cogliere il vero senso del pensiero di Michelstaedter,
occorre allora tener presente che “egli è un uomo d’azione: il suo
parlare è agire...un imperativo dunque, volto a creare una nuova realtà,
in cui il mondo e gli altri siano a lui identici, siano una cosa
sola con lui, in quanto egli abbia raggiunto una vita che abbia in sé la
ragione, e che perciò sia giusta verso tutti, perché abbia
raggiunto quel valore individuale che fa vivere ‘le cose lontane’ “. E,
nella stessa pagina, nell’intento di mettere a in luce e cogliere il vero
significato del pensiero di Michelstaedter, C. ribadisce ulteriormente
che :”il valore individuale...è la concreta consapevolezza che la nostra
essenziale esigenza trascende ogni singola determinazione. In tal modo si
porta a una decisione la nostra vita,...allora la coscienza acquisterà un’unità
reale, che né spazio e né tempo
potranno minacciare, e il molteplice
del mondo si unificherà anch’esso e si farà a noi
interiore”. Giunti fin qui, il quadro che nei
suoi tratti più peculiari ci si
presenta agli occhi, in particolare dopo la sintetica
analisi svolta di alcuni dei passi fondamentali e della vulgata
attualistica e dei testi dati alle stampe da C. nell’arco di alcuni
decenni, è quello di un tentativo di riguadagnare il
più profondo significato dell’attualismo. C.,
in altri termini, a partire dai
primi anni Venti, riprende un motivo
tipicamente attualistico, espressione di
quell’idealismo che egli considera come la “più
ricca eredità tramandataci dalla storia della
filosofia moderna, e cerca di mostrare i legami di fondo che
stringono Gentile a Michelstaedter. Colloca così in primo
piano i punti di forza del momento dellapersuasione
e, nello stesso tempo, del momento dell’attualità dell’atto
per mostrare in che misura entrambi convergono, seguitando a dare frutti. Di
Michelstaedter accentua, prolunga e rinnova il problema
della persuasione e di Gentile quello
dell’atto in atto, che si fa
continuamente, che è vita. Il suo
intento è quello di collocarsi
all'interno dell'attualismo nell'intento di chiarirne alcuni suoi
problemi fondamentali, per cogliere il senso più pieno, più recondito,
del lascito gentiliano - e de La persuasione e la rettorica - e di non
lasciare che esso venga ridotto a teoria,
ad una chiusura sinteticistica o una
formulistica ripetuta pedissequamente. Lo stesso
Gentile, per C., non sempre ha avuto
piena coscienza degli ulteriori svolgimenti impliciti nel suo
discorso sulla affermazione dell’attualità dell’atto, e ancor di più ai
suoi seguaci è sfuggito il significato profondo di questa sua conquista, ma
questo non autorizza ad arrestarsi alla lettera del suo discorso, ad una
ripetizione puramente verbale di ciò che egli disse. Anzi, proprio questo
“sarebbe non solo tradire lo spirito del suo pensiero, ma addirittura
contravvenire al suo esplicito imperativo, di superare perennemente le
forme individuate in cui il pensiero via via si realizza.
Così C. ritiene di poter cogliere negli scritti di Michelsteadter una
forme maitresse, la cui chiave d’oro è data dal significato che
quest’ultimo attribuisce all’individuo, come una di quelle verità
fondamentali che una volta scorte non possono più essere perse di vista, ma
che possono essere pienamente accolte e
fatte oggetto soltanto di ulteriori
svolgimenti e approfondimenti. Questa caratterizzazione dell’individuo,
non più inteso come atomo e che perciò non può più rinchiudersi nella sua
angusta empiricità, ma deve realizzare se stesso nella coscienza di una
vita universale - cioè far si che nasca in noi “una nuova realtà, così che
il mondo sia con noi una sola cosa”79 -, e che perciò “sceglie di
permanere, sceglie l’ora, il qui, convertendoli in sempre
e dovunque : sceglie la qualunque situazione
che si trova a vivere, e esaurisce in
essa l’infinita sua esigenza: far
finito l’infinito, far vicine le cose
lontane”80, rientra, sul terreno speculativo, nel grande alveo della
teoresi gentiliana, della sua dottrina dell’atto puro, e rivela una
profonda e sostanziale convergenza con essa, al di là di un differente
uso terminologico e di enunciazioni
gentiliane non sempre rigorosamente univoche.
Nei testi successivi, fino ad arrivare agli ultimi scritti dati alle
stampe, C. conferma e sviluppa ulteriormente
queste posizioni, sempre sullo sfondo
del dialogo con Michelstaedter e con Gentile, ancora una
volta nel tentativo di conciliarne leesigenze
di fondo. Così in un saggio, significativamente incentrato su L’eredità di
Gentile, si propone il compito di individuare
e descrivere ciò che deve al
filosofo di Castelvetrano. E nel farlo afferma senza mezzi
termini:” Se mi domando...che cosa debba al pensiero filosofico di
Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, che
egli lascia come preziosa eredità a quelli che son rimasti dopo di lui, e che
sentono l’impegno di non disperderlo, così come i figli buoni sentono il
dovere di non dilapidare, ma anzi accrescere, il patrimonio che
il padre per amor loro onestamente aveva guadagnato e
saggiamente risparmiato, non trovo, a voler tutto restringere in una
parola, risposta più esatta di questa: la dottrina dell’atto puro. Su
questo terreno speculativo, la chiave di volta è l’io; ed è un io senza
residui intellettualistici che, per poter assolvere
opportunamente il suo compito e realizzarsi senza
impietrarsi, non deve avere alcuna realtà presupposta, ma deve
“reintegrare la realtà dell’oggetto, senza farne un presupposto del
soggetto, nè in ogni modo qualcosa fuori di questo” Si tratta qui
di un io il cui carattere peculiare è di avere una
infinita apertura e attualità - che si sottrae alle leggi precostituite
di una logica formale, di una natura presupposta, di un
mondo di idee già codificato e
platonicamente costruito sin dall’eternità -,
che si alimenta tutto e sempre
“sull’infinita, indefettibile, unica attualità
dell’atto” e consiste nell’essere “l’io pensante nelle sue infinite individuazioni
storiche” o “la consapevolezza che l’atto ha
di sè come forma immanente dello
stesso suo concreto e individuato agire”,
“assoluta responsabilità di chi si
assume attualmente la responsabilità della propria
vita nel cui infinito anelito è implicata la vita dell’universo”.83
Sicché non può esservi altro che una “eternità che sia il senso
immanente della temporalità...un infinito che si realizzi nel
finito redimendone la finitudine”; e questo è il guadagno speculativo più
cospicuo dell’attualismo gentiliano, ossia “la più esauriente risposta
alla ricerca del pensiero moderno, e tale da aprire la possibilità dei
più felici sviluppi” Tuttavia, secondo C.,
il filosofo siciliano non è riuscito
a dare alla propria riflessione una
formulazione in tutto e per tutto univoca; e anzi
ha mantenuto aperte due possibilità interpretative,
che hanno dato vita ad altrettante enunciazioni del suo pensiero, col
rischio di invalidarne le ragioni più genuine e geniali. In particolare,
Gentile non avrebbe assolto pienamente al proprio
compito di riformare la dialettica
hegeliana : avrebbe sì investito in maniera
efficace e acuta Hegel dell’accusa di
intellettualismo, per esser eglrimasto legato ad una
dialettica del pensato, ma poi non avrebbe tratto tutte le conseguenze di
questa sua battaglia e sarebbe
ricaduto egli stesso in una dialettica
a sua volta intellettualistica, cioè in “una teoria
del reale che non è essa stessa il movimento per il quale il reale è; è
il concetto dell’autoconcetto, per dirla con Gentile¸ e
cioè non l’autoconcetto stesso, che per essere tale non può essere
concetto, ma autocoscienza superante il concetto. In altri termini, una
volta intesa veramente la dialettica come dialettica del pensare, nella sua
attualità, come vita dell’atto che è conceptus sui, questa attuosità non
può essere colta da una teoria ad essa staccata e
sopranuotante che trascenda e definisca il tutto, ricomponendo in
sintesi la tesi e l’antitesi e ponendosi come terzo rispetto ai due
momenti. Cosi facendo, per C., si ricade soltanto, e ancora una volta, in
una forma di platonismo o di dualismo; invece, la vita interiore
dell’atto o, meglio, della soggettività dell’io trascendentale “non può
esser conosciuta che per la
consapevolezza che il soggetto ha di
sé senza oggettivarsi, consapevolezza immanente al
processo, in cui un momento in tanto è se stesso, in quanto è conscio del
suo rapporto all’altro, così che il soggetto come vivente
relazione non è terzo oltre i due momenti, ma è tra i due momenti stessi,
che in tanto sono due in quanto ciascuno di essi è per se stesso il
vivente rapporto di sé all’altro. La dialettica dell’Atto non può essere
che una monodiade. Il passo che Gentile avrebbe dovuto compiere per condurre a
rigorosa coerenza il suo discorso filosofico
consisteva nel far propria l’esigenza di
una “dialettica attuale, fra momenti
attualmente vissuti nella loro reale soggettività...la
dialettica triadica degli opposti era un dannoso impaccio”;
occorreva intendere “l’atto come il vivente attuale processo unitario
in cui gli oppos ti si trasfigura non in distinti, in quanto l’io,
realizzando la proprio apertura infinita, supera le
determinazioni intellettive e attua quella coincidenza di
individuale e di universale, così profondamente vista e così
suggestivamente proclamata tante volte dal Gentile, la quale mal
si concilia con la solitudine del
logo come sintesi. Essa richiede invece un
interiore dialogo fra logo e sentimento, che ben si può scorgere nel più profondo
dell’esigenza gentiliana”. Solo così, ossia liberando
la dialettica dai residui intellettualistici
che ancora ne gravano la comprensione
e il pieno sviluppo, è possibile
riaprire il discorso e operare un
rinnovamento dall’interno dell’attualismo, per farne
fruttificare il lascito più genuino e importante. E questo è appunto
l’intenzione fondamentale che pervade anche gli
altri, successivi, scritti di C. -
tutti volti alla miglior comprensione e
all’approfondimento delle stesse istanze speculative – che aspira a
connotarsiquesta sua più significativa e
innovativa scoperta90; ed egli resta in
definitiva ancora impigliato nelle stesse difficoltà di
Hegel. Per rendersi conto di queste conclusioni, secondo C. occorre porsi
all’interno della filosofia di Gentile e prendere in esame il problema
del processo dialettico dell’autoconcetto, che è, appunto, il problema
dell’intuizione, ossia dello spirito che vive
nell’intuizione; e poi è necessario cercare
di rispondere all’interrogativo sul modo in cui l’io
“distingue se stesso dal suo opposto, e nascano insieme soggetto e
oggetto, nasce cioè la coscienzacome restitutrice del loro peculiare pregio ai
motivi più propri dell’attualità dell’atto, per così dire mortificati da
certe inadeguatezze, difficoltà di interpretazione, incomprensioni.
In un altro, denso e
complesso, saggio della tarda maturità su
L’autocoscienza nella filosofia di Gentile, le
posizioni fin qui prese in esame ricompaiono, imperniate sul bisogno
di fornire ulteriori precisazioni e sviluppi alle stesse istanze teoretiche.
Esse, infatti, ruotano sempre attorno
al problema dell’atto e ai vari
aspetti ad esso strettamente correlati, e si concentrano
soprattutto sulla dottrina dell’autocoscienza e sulle sue articolazioni,
perché essa, in quanto “intimità soggettiva dell’atto del pensare, in cui
consiste l’essenza e l’esistenza concreta
dell’Io, diviene il centro che sostiene
la realtà di tutto l’universo”.Per Chiavacci,
tuttavia, nonostante che attorno a questo problema graviti tutto il
pensiero gentiliano, negli scritti del filosofo siciliano,
tranne qualche sporadico cenno, non compare una esposizione
adeguata del modo in cui l’Io trascendentale
ha coscienza di se stesso. Nella Teoria generale
dello spirito come atto puro, nel Sommario di pedagogia e in
qualche altra opera, ad esempio, si dice quà e là, e in
maniera stringata, che l’Io, l’atto, in quanto realtà presa nella sua
infinità, come tutto, non è oggettivabile e che la vita dello spirito si
conosce per via di intuizione, ma non vi è mai una esposizione e una
trattazione esplicita di questo aspetto. In Gentile, poi, si dice anche che non
v’è conoscenza che non sia logica, mediazione; e si riconosce che
ogni grado della consapevolezza (sensazione,
percezione, rappresentazione, intuizione, sentimento, e così
via) è cosciente perché si tratta di distinzioni relative di certi
atti psichici con certi altri, e in quanto tali, sul
terreno del logo astratto, esse sono sempre espressione
di un pensiero logico. Tuttavia,
affinché l’atto spirituale sia veramente
uno, questa distinzione per gradi tipica della psicologia
empirica e di una concezione analitica dell’anima umana,
nell’attualismo viene abbandonata. In forza
di queste considerazioni, Gentile, secondo C., per
evitare di ricadere in una visione cristallizata dell’atto e così di
considerarlo come mero fatto, oggetto tra oggetti, individua e ammette
nell’intuizione una forma di logo che non è quella astratta del logo
oggettivo, epperò la traduce in termini diversi da quello di intuizione,
ossia con auto-concetto, facendo valere la
distinzione tra pensiero pensante e pensiero pensato. Tuttavia,
pur se questa via è in profonda
dissonanza con i modelli della comune concezione psicologica
precedente, sfugge al Gentile la piena portata. Per C., la distinzione tra i
due termini del discorso emerge in chiaro soltanto nel momento in cui c’è
una forma dell’io che conosce se stesso distinta da quella con
cui l’io conosce l’oggetto, perché nel lessico gergale idealistico,
stricto sensu parlando, l’io non ha alcun contenuto; la
realtà si risolve tutta nell’io, in quanto forma e contenuto si identificano.
Questo è un aspetto che orienta tutto il
quadro di pensiero di Gentile -
e su cui egli è costantemente ritornato,
sottolineando l’esigenza unitaria e monistica della sua filosofia – la cui
chiarificazione comporta la necessità di precisare come concepire
l’autocoscienza e “quell’autotrasparenza per la quale
mentre vive la sua conoscenza delle cose, sa di essere in atto di
conoscerle” .Si tratta qui di una iniziale intuizione di sé, che si svela
ancora una volta come un atto logico, perché senza la mediazione propria
del pensiero pensato, concettuale e oggettivante, “non ci sarebbe neppure
l’intuizione del soggetto”. Questo atto iniziale però ha un carattere intuitivo,
la cui peculiarità diventa ben distinguibile se si prende in esame il processo
della conoscenza sin dal suo primo momento e se
si tien conto, secondo C., di come a
partire da esso si articola l’unione/distinzione di soggetto e oggetto.
Ci si accorge allora che si tratta di “un atto di analisi che dà per
risultato due termini intuiti, cioè conosciuti, come reali, concreti,
come due sintesi. Ed è questo carattere sintetico la spiegazione del fatto che
anche l’oggetto, pur essendo opposto al soggetto, è come lo specchio in
cui il soggetto si riflette, il contenuto della sua vita, il mondo che
costituisce la sua vita: la stessa cosa è il suo vivere e il mondo che
vive. E’ un conoscere logicamente anteriore al giudizio predicativo pel quale
si può dire propriamente che nasce il concetto”. Negli ulteriori
svolgimenti discorsivi, poi, sul terreno
che in termini attualistici viene coperto
dall’area semantica del pensiero pensato, in
cui si analizza il contenuto sintetico
datoci attraverso l’intuizione e si costruisce un fitto
tessuto di relazioni concettuali, cioè la kantiana sintesi a priori
del giudizio, non si fa altro che accogliere pienamente e non perdere di
vista la verità “di quella sintesi a priori che c’è già nell’oggetto sintetico
analizzato”, per esplicitarla in maniera analitica. Una cosiffatta
mediazione concettuale, infine, da punto di vista del
filosofo di Castelvetrano non può non
riconoscere la propria astrattezza, cioè la
coscienza di essere una “esplicitazione che rimane caput mortuum, se si
distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che
gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l’intuizione costitutiva
dell’attualità dell’io e che forse meglio si potrebbe dire sensus sui”.
Quel che così si viene a colpire è la logica del pensiero pensato che per
quanto utile e per certi aspetti finanche necessaria, come momento
essenziale dello sviluppo dialettico, se abbandonata a se stessa verrebbe
ad annullarsi e a ridursi ad un puro e semplice vaniloquio, ma che
invece se si alimenta alla fonte di ogni mediazione, che è
la consapevolezza di sè dell’io, crea per ciò stesso la propria
ricchezza di sviluppi e trova nell’intuizione, cioè nella concreta unità
dell’atto che è la sede dell’autocoscienza e certezza della verità, la sua vera
e proficua radice. Questa certezza Chiavacci la
chiama anche fede, un termine contro cui si sono addensate non poche
critiche, ma che a suo dire potrebbe tener conto adeguatamente dell’apertura
alla religiosità della vita spirituale
mostrata da Gentile in tutto l’arco
della sua produzione scientifica e, in
particolare, negli ultima anni della sua vita.
L’atteggiamento del filosofo siciliano nei confronti della religione,
tuttavia, in proposito avrebbe potuto
essere più evidente e di maggior respiro, se egli avesse stabilito
con chiarezza inequivocabile come individuabile
specificazione dell’autoconcetto ciò che esso
veramente è: intuizione o sentimento Nel
tracciato del grandioso disegno speculativo di Gentile, invece, è proprio
questo il punto più debole e bisognoso di una
riconsiderazione critica. Per C., infatti,
la sua costruzione logica, pur se foggiata in maniera geniale e
improntata a una visione metafisica di grande rigore filosofico e
fortemente innovatrice, presenta “il torto di tutte le metafisiche, di
oltrepassare con la costruzione intellettuale, col loro
logo pensato, l’unica autentica fonte della verità, il
logo pensante, in quanto trasparenza della nostra vita a se stessa
nell’attualità dell’atto”. Questo non significa affatto
sminuirne l’importanza e le grandi possibilità che essa ci
dischiude; anzi, il valore sostanziale
delle sue tesi comporta il più
ampio riconoscimento e consiste nel fatto che con esse noi “mettiamo a
profitto ciò che egli solo ci ha insegnato, riprendendo l’aureo filone
dell’analisi dei grandi filosofi sulla vita spirituale, e arricchendolo
nella sua maschia originalità...Certo è che la filosofia del Gentile mi attirò
fin dal mio primo contatto con essa; e più tardi, nel primo dopoguerra,
quando ero quasi giunto al mezzo del cammin di nostra vita, mi fu di
grande conforto per riconquistare fiducia, il che mi permise di
riprendere il mio cammino attivamente. E di questo
non cesserò mai di sentire gratitudine. E’ una gratitudine non
minore di quella che debbo a lui in persona, per avermi sempre
incoraggiato e aiutato affettuosamente in ogni circostanza della mia vita”.
Questa conclusione riassuntiva implica il riconoscimento
dell’importanza fondamentale della teoresi gentiliana e, nello
stesso tempo, comporta anche l’impegno a farne fruttificare il più
genuino e fecondo lascito. Chiavacci, proprio per questo, sottopone la teoria
dell’atto ad approfondimento e revisione interna,
in un ampio, continuo e serrato
dialogo, con una disamina volta a stabilirne
una più rigorosa coerenza che valga a
guidare e inquadrare la propria riflessione speculativa. In
particolare, la prospettiva a cui giunge C., nel corso del suo
lungo cammino intellettuale, presa nel
suo complesso, comporta in definitiva un
triplice guadagno: un riuscito tentativo di promozione dell’opera
dell’amico goriziano, per accreditarle una sua peculiarità e dignità
filosofica, col metterla a confronto con la speculazione gentiliana; C. nello
stesso tempo raggiunge anche una sua personale elaborazione teoretica
dell’attualismo; gli spetta così
il merito, con questo suo atteggiamento rivalutativo di entrambi gli autori
citati, non solo di aver speso con efficacia le sue
migliori fatiche in difesa dell’amico, ma anche un
posto d’onore, con una sua originalità e competenza, nell’ambito
della letteratura che gravita su Gentile e l’attualismo, tanto da poter
essere considerato come espressione di un indirizzo del pensiero
filosofico contemporaneo in cui egli “appare indubbiamente tra quelli che
più sono progrediti”. Senonché, a parte i riconoscimenti fin qui menzionati che
gli sono stati variamente tributati, le acute indagini e la
argomentazioni del C., volte a svolgere una vigorosa opera di
individuazione e di messa in chiaro
di un comune ambito teoretico tra
Gentile e Michelstaedter, non sempre trovarono unanime
consenso; in alcuni casi esse suscitarono non poche perplessità. E’
questa, ad esempio, la convinzione di Spirito che, nel concludere la
propria risposta all’amico C., non esita
ad affermare: “a me sembra Chiavacci,
profondamente legato alle esigenze dell’attualismo e a quelle
michelstaedteriane, non abbia potuto conciliarle fino
in fondo, sia rimasto in una posizione
intermedia tra la concezione dell’assoluto dialettico e
quella dell’assoluto adialettico”. Su questo punto, comunque, la riflessione
critica che gravita sugli autori fin qui presi in considerazione
(alquanto lacunosa, a dire il vero, soprattutto negli ultimi anni e
per quanto concerne l’esigenza e il compito
di saggiare storicamente le posizioni
di C.!!) a tutt’oggi non è concorde
e perciò il problema della conciliazione tra
la speculazione gentiliana e quella di
Michelstaedter ci sembra tuttora aperto
a ulteriori sviluppi e approfondimenti che sono ben
lontani dal venire realizzati, come un compito non ancora del tutto
assolto. Ben consapevoli di queste difficoltà, in queste paginei abbiamo inteso
soltanto delimitare e precisare l’ambito di indagine, che è da valutare come
un’ulteriore approsimazione al problema, e offrire degli spunti utili a
sostegno della prosecuzione del discorso Gaetano Chiavacci. Keyowords: poetico,
critica della ragione poetica, illusion, allusion, ludo, la natura dell’uomo,
carteggio con Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiavacci” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Chiocchetti: l’implicatura
conversazionale prammatica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Moena).
Filosofo italiano. Grice: “I like Chiocchetti – a surname most Englishmen are
unable to pronounce, but cf. Chumley! – For one, he exapanded, alla Croce on
Vico as proposing ‘espressione’ as prior to ‘communicazione,’ as I do – but he
went further – he studied the Latin-language author, and saint, Aquinas, and
his ‘modi di significare’ – Lastly, he expanded on ‘pragmatism’ as the term of
abuse it MUST be! Why are non-philosophers OBSESSED to keep miscalling me a
‘pragmaticist’ who is into ‘pragmatics’ – It’s totally anti-Oxonian – Oxford
being the epitome of aestheticism – to do so! Chiocchetti also played with the
abused term, ‘scolastic’: he thought there are two scolastics: the
palaeo-scolastici, or scolastici simpiciter, and the ‘neo-scolastici,’ like his
self! He wrote a little tract on Gentile, who ungently threw it onto the
wastepaper basket!” -- Veste l'abito francescano. Conclude gli studi secondari
a Rovereto. Durante il corso di teologia si appassionò agli studi biblici,
anche se non gli venne concessa la possibilità di approfondirli presso
l'Istituto biblico francescano di Gerusalemme e la Facoltà teologica di Vienna.
Ordinato sacerdote. Studiò filosofia a
Roma presso il Collegio internazionale di San Antonio. Tornò quindi a Rovereto
per insegnare filosofia presso il liceo interno all'Ordine dei Minori e iniziò
un'assidua collaborazione, su invito di Gemelli, alla Rivista di filosofia
neoscolastica fin dalla sua fondazione. Progettò uno studio sistematico sulla
filosofia di Henri Bergson, interrompendolo definitivamente per approfondire
ulteriormente la sua preparazione filosofica a Lovanio, centro degli studi
neoscolastici. Subito dopo si recò in Germania, a Fulda, per ascoltare
Konstantin Gutberlet, e successivamente a Vienna, dove frequentò come uditore
le lezioni di psicologia di Wundt. Tornato all'insegnamento a Rovereto, assunse
la direzione della Rivista tridentina.
Note C. su
siusa.archivi.beniculturali. Faustini,, C., SERBATI e la cultura trentina: un
filosofo ladino tra Trentino ed Europa, Trento, Pancheri. Faustini,, C.: un filosofo francescano di
fronte alle sfide del Novecento: antologia, scritti di filosofia e cultura,
Trento, Pancheri, C. un filosofo francescano tra il Trentino e l'Europa: atti
del seminario di studio promosso dal Museo storico in Trento, svoltosi a Trento.
"Archivio Trentino", Pietroforte, Storia di un'amicizia filosofica
tra neoscolastica, idealismo e modernismo: il carteggio Nardi-C., Firenze,
Sismel Edizioni del Galluzzo, Centi, Un filosofo francescano C. Trento, Gruppo
culturale Civis, Coen, C. in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, (Dizionario
biografico degli italiani) G. Consolati,,
C. filosofo trentino rettore generale francescano e professore di storia
della filosofia moderna alla Università cattolica del S. Cuore, Trento,
Saturnia, C. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. C., su siusa.archivi.beniculturali, Sistema
Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Opere di C..Pubblicazioni
di C., su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de
l'Innovation. LE GRANDI CORRENTI DEL PENSIERO COLLEZIONE DIRETTA DA PICCOLI
C. Milano IL 5a PRAGMATISMO agi E 7 EDIZIONE ATHENA
MILANOVia Vigentina' 7-9 s santo, MRETTRI s», è
ita, canina eno er insit) miri iztarta e ea Nihil obstat
quominus imprimatur 19 Mediolani, Bernareggi. Nihil obstat quominus
imprimatur Mediolani,Mons. Can. Cavezzali. ALL'AMICO P.
ARCANGELO MAZZOTTI CHE NELLA VITA VISSUTA ANCHE PIÙ TENUE SA
CERCARE E COGLIERE LA FILOSOFIA sg AL
LETTORE ca Ripubblico, a richiesta d'amicì, in volume
questi «saggi» sul Pragmatismo, già pubblicati, parecchi anniì sono
nella Rivista di filosofia Neoscolastica, per- chè il Pragmatismo
contiene aspetti di verità che non A vanno dimenticati. Quali siano
quest» aspetti verrà rilevulo nella esposizione che ne faccio seguendo
i Uue principali rappresentanti di esso il James e lo
Schiller. f In questa esposizione ho introdotto solo
mulazioni accidentali, più che altro verbali, che mettano
quella corrente nei tempi suoi, già mollo lontani spiritual-
mente dai nostri.a E. C. LLINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Sommarto. II
Pragmatismo. Pragmatismo e Umanismo. Pragmatismo e conoscenza. Nell'
Inghilterra e nell'America, come è noto, la filosofia ha avulo sempre un
carattere prevalentemente pratico, cioè, ha studiato con particolare
predilezione quei problemi filosofici che si riferiscono alla teologia, alla
morale, al diritto e alle scienze pratiche, in generale; e, anche quando
si è sollevata alle più alte speculazioni, non ha mai perduto il contatto
intimo con la vita pratica «ed è stata più sollecita della ricerca del
vero in vista dell'orga- nizzazione della vita reale, che non
dell'astrazione collivata per sè stessa e per la sodisfazione
dello Spirito. Per ciò che riguarda l'Inghilterra basta pensare alla
filosofia di Hobbes e di Bacone, all filosofi cmpirica e crilica di
Locke, alla filosofi naturale di Newton, alle dottrine teologiche dei
De (3) Cfr. «Revue Néo-Scolastique», dove son tiLortate
dall'opera: La Philosophie en Amérique del VAN B CELAERE' (New-York) le
parole citate. La «Revue Néo-Sc Stiquen ne di un amplo riassunto col
titolo: Le mouveme hilosophiqgue en Amérique. Vedi anche i
riassunti cli relazioni sullo stato della filosofia contemporanea in
Inghil- Mica in America: « Rivista di Filosofia Neo-Scolastica wu N.
IL SEE. (6) Linee fondamentali sti, alla
fase clica del movimento empirico del se- colo XVIII, all'Associazionismo
e all'Utilitarismo. Nell'America i primi a interessarsi di speculazioni
filosofiche furono i colonizzatori della nuova Inghil- terra, degli
inglesi emigrati, i quali naturalmente portarono al di lù dell'Oceano la
caratteristica della filosofia della madrepatria: l'atteggiamento
pratico, che assunse allora, per speciali circostanze storiche, un
carattere religioso. È vero che, nell’Inghilterra, «una corrente più
profonda non ha mai cessalo di rimontare in senso opposto (alla corrente
empirica). Essa si manifesta con Herbert di Cherbury, con i
Platonici di Cambridge, nella scuola scozzese. del ‘senso comune, e
apparisce nella sua forma più sor- prendente in Berkeley, fondatore
dell'’idealismo in- glese; è rinforzata più tardi da Kant, Lichte,
Hegel e Lolze; ma anche questa controcorrente non ha mai perdulo
il'carattere pratico, sperimentale, e tende ad appoggiarsi più volentieri
sulla volontà e sul sentimento e a trascurare le categorie puramen-
le logiche dell’Idealismo tedesco » (1). Lo stesso sì deve dire della
filosufia in America. Quando la rivoluzione americana pose fine al
pe- Tiodo coloniale e nel libero paese cominciarono a manilestarsi
varie e nuove correnli filosofiche — ppiella del senso comune, il
Trascendentalismo di Kunt e de’ suvi discepoli, specie di Hegel;
l'Ideali- smo di Berkeley ecc., la filosofia conservò sempre la tendenza
ad avvicinare la speculazione alla vita, a non perdere il contatto con la
realtà, a far risal- lare il carvaltere pratico dei problemi filosofici.
« Ne- gli scritti, p. es., dei seguaci dell'Idealismo Kan- liano
non è la critica che tiene il primo posto, ma la psicologia cosidella
scientifica in opposizione alla psicologia metufisica» (2).
(1) Cfr. in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica » (1 i S- sunto della
relazione del MACHENZIE: La EIA nea in Inghilterra, donde sono prese le
parole citate. (2) «Revue Néo-Scolastique », I. c. rat
ET tit, 0 ELLI a_n GI Il Pragmatismo ('S Allualmente i
due indirizzi filosofici predominanti nel mondo inglese-americano sono o
erano qualche anno fa il Neo-hegelianismo e il Neo-volontarismo.
Quale dei due trionferà? Se la storia ci può ammae- strare, se il
carattere cinico dei due paesi può servire di fondamento a una
previsione, se, sopratutto, i sc- si guì dei lempi sono veridici —
intendo la reazione "i Vivissima contro l'indirizzo Neo-hegeliano e
la ten- DI denza della filosofia contemporanea a dare il valore
Li principale della valutazione delle vedule speculative i al
sentimento e alla volontà — possiamo applicare anche all'Inghilterra
quello che il Turner scrive dell'America: « È verosimile che il corso fuluro
del pen- | siero filosofico non subisca tanto l'influsso dei Neo.
hi legeliani quanto quello dei Neo-volontaristi ». Ebbene, poichè
il Neo-volontarismo americano non è che il Pragmalismo, non sarà senza
interesse lo studiarlo, lauto più che esso non è più limitato a
quelle regioni, ma ha suscitato anni addietro vivo a interesse in lutto
il campo filosofico, dove, accanto e ; ul critici severi, trovò dei caldi
‘ammiratori. 1 suoi nu espositori cd apostoli più autorevoli ne
annunziava-. n° no, con lono da epinicio, il trionfo sicuro su tutte
le filosolie avversarie. Già lo Schiller aveva annunziato il
maturarsi di grandi eventi nel mondo intellettuale à danno delle antiche
forme di pensiero e a tulto vantaggio di una forma nuova. È, come a
sintomi | di un tempo propizio a nuove intraprese filosofiche
secondo la nuova forma, egli guardava con compia- cenza al successo che
ha avuto l'opera del Balfour: «Le basi della fede»; alla serie di opere
popolari. del James: «Lu volontà di credere, Immortalità _ mana, Le
varie forme della cuscienza religiosa» | alle letture di James \vard «
Naturalismo e agno È | Slicismo», e, sopratutto, all'esser uscito da
Oxforà, «una volla centro di Idealismo, un manifesto così dace
com'è «L’'idealismo personale» dello stesso | Schiller e di altri membri
dell’Università, e ai lavori Linee fondamentali della scuola di
Chicago (alla testa della quale slava è il Prof. Dewey), pubblicali nelle
« Decennial Publica ‘ tions» della Università (1). i; Quivi afferma
pure che il Pragmatismo «non passa più inosservato: esso ha raggiunto la
fase del «batti ma ascolta!» e quando i falsi concetti, È dovuti a
prella mancanza di famigliarità con la dot- |A — trina, saranno
dissipati, entrerà in una fase di ulile D applicazione ». D'allora
fino a pochi anni fa, il Pragmatismo s'è * affermato con sempre crescente
energia, suscitando vive polemiche, incontrando simpatie e
disprezzo, seguaci c avversari, così che polè scrivere il James:
«Oggi la parola Pragmatismo empie le pagine delle .. © riviste
filosofiche » (2). E ancora: «Parecchi indirizzi di pensiero che
mancavano di un denominatore comu- ne lo trovano nella parola Pragmatismo
» (3). Esso ha avuto in tutte le nazioni rappresentanti di
grande valore, fra quali, i principali sono: in America il James e il
Dewey; in Inghilterra Jo Schiller; in Ger- mania il Simmel e il Jerusalem
(4), in Ilalia gli seril- tori del Leonardo, specialmente il Papini; in
Francia , (1) ScHiLcen, IJumanisim, VIII-IX, London, Macmillan
1903. Ri; (9) Der Pragmatismus. Ein neuer Name fr alte
Denkmetho- «en, trad, in tedesco dal Prof. \VILHELM JERUSALEM, p. 29,
Leip- zig 1908. Verlag. von Dr, Werner Klinkhardt. Di questa
tradu- zione tedesca mi servo nella esposizione del Pragmatismo.
(3) Zbid. (4) Sì è voluto vedere un Pragmatista anche
nell'Eucken. In s tà il suo «ttiwismo non ha niente a che vedere col
Pragma- tsmo, L'Attivismo poggia sopra determinate presupposizioni
metafisiche, mentre il Pragmatismo è puramente empirico; a eno il
Pragmatismo inglese e americano, «Il ripudiare com fa l'Eucken, Ja
concezione intellettualistica della vita, non è una caratteristica
del Mo- | | talismo e di Misticism ca À «
n Pragmatismo ma di ogni specie di (OA 2
vrib CE: Il Pragmatismo . il Blondel, il Le Roy, il
Bergson e molti fra i moderni- sli più avanzati (1). Come si
vede, aveva un po' ragione lo Stein quando scriveva: «Abbiamo di nuovo
una « parola d'ordine» filosofica, che è diventola grido di guerra di un
nuo- vo indirizzo di pensiero, di un movimento filosofico che passa
potentemente dall’ America sul vecchio mondo e comincia a incerospare la
superficie - delle nostre acque stagnanti (2) ». Facciamoci a
considerare davvicino una tale filo- sofia, allenondoci specialmente ai
suoi due rappre- sentanti più illustri: il James e lo Schiller.
gs 2 — Il nome «Pragmatismo » viene dal greco «pragma» che
significa «azione, operazione », vie- ne dalla stessa radice che ha dato
origine alle parole «prassi, pratico»; perciò, più italianamente
sì chia- mercebhe praticalismo. Jl primo a introdurlo nella fi- losofia
fu Charles Sander Peiîrce (3) «nel senso di un metodo che consiste nel
giudicare del valore di una affermazione dalle sue conseguenze nella
pra- lica », ossia di un metodo che era già stato applicato
dall’Empirismo inglese alla valutazione delle cono- scerize umane. Ecco
in breve Ja sua dottrina. È un falto psicologico che il dubbio,
l'incertezza producono in noi uno stato di malessere, di irrita-
zione; uno stalo spiacevole insomma, Per uscirne — e noì vogliamo
uscirne — è neces- saria una convinzione, una credenza in cuì
l’attività del pensicro possa riposare: la credenza
attutisce le sofferenze del dubbio. Produrre la credenza è
la sola funzione del pensiero: il pensiero in altività —
non persegue allro fine che il riposo del pensiero e lo distinguono
profondamente dall'inglese-americano. (2) «Archiv. fur system
Philos.» (3) Egli espose il suo sistema
fino dal 1878, ma non fu che — | dopo essersi servito lungo tempo della
parola CART EVA nella conversazione, che la stampò nel 1902 in un
articolo . | dizionario del Baldwin. Così MARCEL HénerT, Le
Pragmatism Bi. Alcan, Paris 1908, p. 6. Lan
"a (1) IL pragmatismo francese ha peculiarità tutte proprie
che. 2A f 10 Linee fondamentali quindi tutto
ciò che non contribuisce alla formazione della credenza non fa parte del
pensiero propria- mente detto. La credenza, poi, ha per fine di
pro- durre un'abiludine alliva, che diventa regola per fazione. Se
le credenze mettono fine allo slesso dub- bio, creando la stessa
abiludine e la stessa regola d'azione, non diversificano fra loro.
Per sviluppare, quindi, il senso d'un pensiero non c'è da far altro
che determinare quali abitudini essa produce, poichè il senso d’una cosa
consisle sempli- cemente nelle abiludini che essa implica. Il
caral- tere di un'abiludine dipende dal modo con cui essa ci fa
agire in ogui possibile circostanza... e il fine dell'azione è di
condurre a un risultato sensibile. Noi prendiamo, così, il sensibile e il
pralico come base di qualunque differenza di pensiero, per quanto
sottile possa essere. Non v'è nuance di sigmificalo così sottile da non
polev produrre una differenza nella pratica (1). In allre parole: Il
pensiero crea la “convinzione, la convinzione è regola dell'operare
e in tanto vale in quanto ci fa operare; fine dell’ope- l'are è il
risullato sensibile, pratico: questo, dunque, deve servirmi di crilerio
per giudicare del valore del pensiero, per conoscere con chiarezza il
significato dei concetti. Come render chiare le nostre idec? In-
lerpreliumole dal punto di vista pratico, domandia- nio ad esse quale
efficienza pralica contengono, quali Sensazioni possiamo aspellarci
dall'oggetto che ci bappresentano, e quali reazioni dobbiamo
preparare. La rappresentazione di questa efficienza pratica, me-
diaia 0 immediata, costituisce per noi l'intera rap. presenlazione
dell'oggello e in ciò sla tutto il significalo positivo della rappresentazione.
« L'idea di una cosa è l’idea dei suoi effelli sensibili », dice il
Peir- ce (2). «E contradittorio il dire che si conosce con
(1) Così nell'articolo «ITow to make our ideas clear pub pippoz pt
Egnular Science SOA Y >, 1878-XII, e tradotto «Rev HosophiQuew
1879-VII: «( x È ados sansa DI phig TO-VII Comment vendre nos
(2) « Revue philosophique» 1. c. p. 47. | IRIS Il Prugmatismo
precisione l'effetto di una forza, ma che non si com- prende ciò che
è la forza in sè slessa; conoscendo gli effetti della forza si conoscono
tutti i fatti impli- cili nella affermazione della esistenza della forza
e uon v'è più nulla da conoscere » (1). Come render chiare le
nostre idee? «Pensando », risponde il Des Carles, conducendole alla
evidenza della proposizione: « Cogilo ergo sum ». Agendo, ri sponde
il Pcirce; rendendo esplicita la potenzialità ‘* d'azione che è in esse,
nell'oggetto rappresentato: è ciò che agisce, è distinto ciò che
produce effetti di- stinti nella vila pralica: dunque al: «Cogito
ergo. sum » sì cosliluisca V« Ago ergo sun ». Tulta la funzione
della filosofia è di scoprire quale differenza definitiva forà a ine 0 a
te in definiti istanti della vila se questa è quella formuia del mondo
fosse la vera. 4 Tale è il principio del Pragmatismo. Rimasto
inos- servato per venVansi fu mpreso dal James ed appli calo alla
religione (2), prima, alla conoscenza 10:C Ca nerale poi. D'ullova in por
tanto il nome quanto i principio hanno falto forluna, così che i due
leader: pragmalisti ce no possono dure una esposizione co vaggiosa
e abbastanza sistemalica in due opere ap parse nel niondo anglo-sassone e
diffuse rapidamen- te fra i cultori di filosofia. “a Per
comprendere l'importanza del principio enun: 3 ciato, ci avverte il James
(8), bisogna abiluarsi ad applicarlo vi casi particolari, come fece con
perfetta | chiarezza, senza nominare il Pragmatismo, l' Osl-
- wald nelle sue lezioni sulla filosofia della. nalu -. TTI) Ivi,
p. 92. Ne (2) Tm una conferenza tenuta nel 1898 davanti alla società.
fil “sofica di Howison nella università di California, Al JAMES il
n | me non Dpince, ma ormai «è troppo tardi per cambiarlo »; egli
dice nella prefazione al « Prugmatismus», D. X. (3) Zweite Vorlesung, P.
29. 12 Linee fondamentali conforme a ciò che egli stesso
scrisse al James: « Tutte le realtà influiscono sul nostro operare
c ? questo influsso è quello che per noi esse significano. - Nelle
mie lezioni iv sono solito domandarmi: in qual differente rapporto
starebbe ‘il mondo se fosse vera questa v quella alternaliva? Se non
trovo niente per cui sarebbe differente, l’alternaliva non ha sen-
si so » (1). Che è quanto dire: le opinioni rivaleggianti, «nel caso.
hanno identico significato pratico e non esiste che un solo significato:
il pratico (2). Ossia: qual'è il valore di un’idea? Risolvetela in fatti;
il valore di questi ‘rappresenta il valore dell'idea. E poichè i falli
in tanto sono in quanto sono da noi csperimentali, il valore di un'idea
mi è dato se la risolvo in terraini di esperienza. Applichiamo, p.
es., sil principio del Pragmatismo all'idea di sostanza. Una
sostanza noi la conosciamo per i suoi attributi (accidenti) ai quali si riduce
tulto ciò che di essa si può esperimentare: che sotto gli accidenti ci
sia o di essi, è pralicamente indifferente, lanto che, se Dio,
lasciando l'ordine degli accidenti, distruggesse la sostanza, noi non lu
potremmo neanche sapere. Se del legno mi resta la combastibililà e la
struttura Vascolare che può imporlarmi del quid in sè inacces-
sibile ad ogni forma di esperienza? d Dunque Ja sostanza come un quid in
sè distinto dagli accidenti non ha valore alcuno: per me la so- |
Slanza non è che il complesso de' suoi accidenti. L'unica applicazione
pragmatistica dell'idea di so- Stanza si ha nell'Eucarislia, dove, per il
caltolico non sono gli accidenti che valgono, ma la soslanza del
corpo e del sanguc di G. C. Così la crilica del Berkeley della sostanza
materiale è affatto pragma- lîslica, e pragmalistica è la critica del
Locke e del- l'Hume della sostanza Spirituale, e, per parte
del Bea, o n () P. 29:50. Anche l'OstwaLo è contato
f | dlallo SCHILLEK e dal JAMES; a ragione, secondo SIT
RESTRA 3 oro, secondo il Croce. Cfr. « Critica» A. VI, {. IÎT
; (2) Ibfa. A non ci sia un quid come soggetto, sostegno,
substrato. ià It Se ll Pragmatismo 13
Locke, è l'autocoscienza, cioè, il fatto che noi, in un dato istante
della vita, ci ricordiamo di quello che eravamo in altri istanti e
sentiamo questi istanti co- me parli della stessa serie personale di
avvenimenti vissuti. Se, nella ipolesi dei sostanzialisti, Dio ci
to- gliesse l’'autocoscienza, a che ci gioverebbe la so- slanza
dell'anima? Ed ecco perchè l'Hume e, dopo di lui, la maggior parte dei
psicologi empirici, negò l’anima addimttura (1). Altro
esempio. Il teista afferma che il mondo l'ha cercato Dio; il materialista
lo dà come il risultato di forze fisiche, cieche. Ebbene, le
due teorie sono identiche, se il mondo si. considera come un tutto
terminato, completo. Poi- chè «che valore ha Dio per il mondo, per noi,
se Egli non lo può mutare e far procedere di un passo? Sé il mondo
fa lutto quello che Dio fa?» Ma se il mondo non è al termine della sua
evoluzione, allora la questione: «Materialismo e Teismo» acquista
una importanza vitale. La ‘scienza della natura pre- “dica che la fine di
ogni cosa e di ogni sistema di cose cosmiche è lragica morte! Tutto sarà
come non fosse slato mai: luomo e il mondo, la virlù e gli ideali,
i dolori e gli amori: ceco l’ultima parola del materialismo! Ma se Dio
esisle, se è Dio che dice al mondo l’ullima parola, allora potrà perire
il mon- do materiale, ma gli ideali saranno conservati e
lrionferanno altrove. Il Materialismo nega l'ordine morale e recide le
speranze che su quello si fonda- no; lo Spiritualismo afferma un eterno
ordine mo- rale del mondo e lascia libero spazio alle speranze
(1) Dritte Vorlesung, p. 52 seg. Non per nulla il JAMES ha
dedicato il suo libro alla memoria dello Stuart Mill, confes-
sando la sua dipendenza da lul; «Alla memoria di Giovanni Stuart
MIN, dal quale ho imparato la prima volta la pra- gmatica apertura dello
spirito e che, nella mia fantasia, figuro. così. volentieri come il
nostro duce, se vivesse al presente Non per nulla il sottotitolo
aggiunto al Pragmatismo suon . uun nome nuovo per alcune vecchie maniere
di pensare», sua: sono, nient'altro, che Je maniere del vecchio Empirismo
inglese, 14 Linee fondamentali dell'uomo
(1). Lo slesso principio si deve applicare alla questione della finalità
nella nalura e della li- bera volontà. Dio, finalità, volontà libera,
pragmati- slicamente hanno un senso; intelleltualisticamente
nessuno (2). ) x Empirismo, dunque, e Pragmatismo applicano
lo stesso principio, giungendo, naturalmente, alle stes- se
conseguenze. Con una differenza però, tiene a dirci il James. I vecchi
empiristi non fecero che un uso frammentario del principio pragmatislico:
ne era- no un semplice preludio. Il Pragmatismo rappre- senta
l'empirismo in una forma più radicale e meno aperla alle obbiezioni. Esso
volta le spalle risoluto, una volla per sempre, a una mollitudine di
abitu- dini antiqualo, care ai filosofi di professione: alle
astrazioni e alle sottigliezze, alle soluzioni puramen- le verbali dei
problemi, alle argomentazioni «a prio- bi» ai principî fissi, ai sistemi
chiusi, all’assoluto e all'originario, alla vecchia melafisica
intellettuali- sfica, Insomma, la quale, quando ha dato al princi.
pio dell'universo un nome misterioso: Dio, materia, ragione, assoluto,
energia, crede di possedere il si- smficalo ullimo dell'essere e di aver
raggiunto il fermine delle sue ricerche metafisiche 13). — L'atteo-
giamento di opposizione del Pragmatismo all’intel- Ieltualismo, alla
filosofia dell’assoluto, all'a priori è dci più decisi (4).
Il Pragmatismo si volge alla realtà, ai fatti, al- l'agire, alla
forza, è signore della disposizione em- pirica, ama l’aria libera e le
molteplici formazioni della natura, sì oppone al dogma, alle
artificiosità, alla pretesa di aver raggiunto la verità definitiva
(9).(1) Dritle Vorlesung, p. 59 sgg. (2) Ibid. p. 76. «Eine andere als
dicse praktische. Bedeu- tung haben die Worte: Gott, Will Z,
- MO ATADen ensfrelheit, Zweck, ùber (3) Zweite Vorlesung,
D. 31-33. (4) E Spesso violento contro i Neo-hegellani. Più che nel
James tale violenza apparisce nello Schiller, il quale si trova di
fronte ad un hegeliano Vi gni ig non meno aggressivo, quale è {l
(5) IUid. p. 32. ne 1° MN i 14 PACI
ZZZ Il Pragmatismo 15 Il Pragmatismo è radicalmente empirico e
anti intellettualista perchè vuol essere una dottrina per la
vita prima che della vita, un metodo ordinato alla sodisfazione dei
bisogni umani quotidiani. « Esso non ha dogmi, non ha dottrine, non ha
che il suo me- lodo. Ci fa stornare da ciò che è primo, dai principî,
dulle calegorie, da presupposle necessità, e ci fa volgere lo sguardo
alle cose ullime, ai frutti, alle conseguenze, ai fatti (1). Perciò non
accella nulla, non ripudia nulla a priori. a “sso chiede a tulte le
teorie, a tutti i sistemi, a sa lulli i concelli: qual'è il vostro valore
pratico? siete. utili e come e quanto siete ulili alla vila pratica,
— all'adattamento dell’uomo alla natura e della natura all'uomo?
L'uomo ha due grandi bisogni: di fatti e di principî, di scienza e
di religione. Ebbene, quale filosofia si offre all'uomo per soddisfare a
questi suoi bisogni? O l'Empirismo che degrada l'uomo col suo
Materialismo e nega la religione, o il Razionalismo religioso bensi, ma
lontano da ogni contatto col mon- : do, colle nostre gioie e coi noslri
dolori e per il quale le cose reali sono un niente: è questo il dilemma
at- luale nella filosofia (2). ma Il Pragmatismo invece può
soddisfare ambedue quei bisogni: può conservarsi religioso come i
si- 9 slemi razionalistici e può mettersi in intima unione coi
falli (3;. Il Pragmatismo, come dice il Papini, si. trova nel mezzo delle
teorie come un corridoio in un albergo. In una slanza v'è, forse, un uomo
che la-. vora intento ad uno scritlo ateislico; nella stanza
ulligua un allro chiede a Dio con la preghiera fede «e forza; in una
{erza un chimico ricerca le proprietà dei corpi; nella quarla sì sta
abbozzando un sistema »
Vily] (1) Ib2d. n». 34. «Er hat keine Dogmen und keine
Leh ausser . seiner Methode. Die pragmatische Methode bedeutet.
Keineswegs bestimmte Ergebnisse, sondern nur eine orlentie- — * rende
Stellungnahme ». >» (2) Il JAMES consacra alla illustrazione di
questo dilemma tutta la prima lettura: «Das gegenwàrtige Dilemma in
der — Philosophie ». (3) Erste Vorlesung, DD. 10-12. o
x è 16 2 Linee
fondamentali di metafisica idealistica, nella quinta un Tizio
dimo- stra la impossibilità di ogni metafisica. E il corridoio
appartiene a tutti. Tutti vi debbono passare se ab- SE bisognano di una
via praticabile per entrare e per hi uscire (1). , Così il
Pragmalismo è anzilulto un metodo: il suo fine è di por terminc alle
beghe filosofiche presen- ì lando un criterio Pratico per giudicare del
valore di NY”. lutte Je dotlrine. Il mondo è una uni B va plicità?
— Vi domina il fato 0 vi è una volontà li- bera? — È materiale o
spirituale? — I giudizi dati in Proposito valgono tanto che niente e le
discussioni sono interminabili. Ebbene, in questi casi il metodo ;
Ppragmatistico consiste nel lenlalivo di interpretare a ognuno di questi
giudizi dalle sue conseguenze pra- i tiche. Quale differenza pratica
risulterebbe per qual- cheduno se fosse vero l'uno o l'altro di quei
giudizi? Se nessuna, i due giudizì opposti si equivalgono r.ra-
icamente e ogni discussione è oziosa (2): dove 1.n c'è differenza di
Significato pratico non vi può es- sere differenza di significato
teoretico. Con questo metodo, sempre secondo il James, si sare gli
allriti, attenuare le contese ie intelligenze, riuscire alla concordia e
alla pace, Esso © dunque un mataviglioso eirenicon perchè «non
«Vale la pena di opporre l'una all'altra nel campo «della speculazione
due teorie che abbiano le medesi- f me fo eguenze
pratiche per tutti e in. tutti i fem- LE Pi» (3). .Contrariamente alla
vecchia metafisica il Inelodo Pragmalistico non permette
ecc. come lermine ultimo della ‘l'icerca, ma le fa lavorare nella
corrente dell'espe- — rienza: le teorie non sono soluzioni,
ma programma per nuovo lavoro; non risposte definitive, ma stru-
menti d'azione, ma indice che cj addita i mezzi per. Ì ) di
considerare le parole : È __ Dio, materia, energia, ty
Gazelle Vorlesung, p. 34, 2) p. 28. Questi concetti sono SvIluppati
specialme t Il Lettura seconda: « ]J'gs will der Praggn, tall,
J ll Pragmatismo?), er Pragpmatismus? (Cosa vuole “Ri ORANDO,
La Mlosoha | «Rivista Rosminiana » A Apologetica Moderna]
dell'azione e vr » N. I, 1906,
not? PO UTNE e ne I Il Pragmatismo 1? k i) | 1
quali le realtà esistenti possono esser mulate e adattate all'uomo (1).
Il Pragmatismo toglie così alle i leorie la loru rigidezza, le
rende malleabili, le fa la- j vovare (2). Esso si accorda col
Nominalismo nello È i attenersi al parlicolore, con i’Utilitarismo
nell’ac- es | cenluare gli oggetti pratici, col Positivismo nel di-
, i sprezzo delle questioni inutili, delle soluzioni ver- “@
i bali, delle astrazioni metafisiche, di tutto ciò in- somma che
non serve all'uomo nella vita reale. Per- chè luomo è il centro
dell'universo, afferma l'Uma- nismo (3) conlro il Noaluralismo che
considera l’uomo | è. come parte della natura e contro l'Idealismo che lo
son subordina ad un Assoluto. Alla concezione cosmocentrica (Uanlica) e
alla teocentrica (la medioevale) ani deve sosliluirsi l'aniropocentrica.
«L'uomo è la mi- sura di tulle Je cose!» proclama lo Schiller, il neo-
È prolagorista, con Prolagora l’umanista (4). L'Uma- nismo
consiste semplicemente nel rendersi conto che sono degli esseri umani
coloro ai quali è proposto. il problema filosofico, degli esseri umani
che si sfor- zio di comprendere un mondo di esperienza umana | coi
mezzi che fornisce lo spirilo umano. Secondo l'Umanisimo sono «il
sentimento e la vo lonlà che custiluiscono l'interesse centrale
dell’es- sere che usa i sensi e la ragione come suoi strumenti nel
mondo esterno ». (1) « Theorien werden... zu Werkzeugen », p:
33. (2) Ibid, Macht sie geschmeidig und lisst sie arbeiten n. (2)
Fra V'Umanismo e il Pragmatismo, quale è esposto dal James, c'è
differenza poco più che di nome. Secondo lo Schil- «_ ler l'Umanisino è
più largo, il suo metodo sì applica a tutto: i d@ll'etica, all'estetica,
alla metafisica, alla teologia, mentre il Pragmatismo non si applica che
alla teoria della conoscenza. In realtà Je applicazioni che fa lo
Schiller del suo metodo, — È le sa o le accetta anche il James, Lo
confessa il James stesso, ] P. Al. n° AE | _.,(4) Protagora
l'umanista, è il titolo del «Saggio XIV» d Gli: Studies in Mumanism, p.
302. A p. 36 egli stesso chiam il suo sistema « Nèo-Protagoreanismo »,
> o ip”td 54 18 - Lince fondamentali
Perciò l'Umanismo implica il Volontarismo, ossia la filosofia più
autropocentrica che si possa dare. L’«ago ergo sum», del Pierce può
essere sostituito «dal «volo ergo sum». L'Umanismo è anch'esso un
melodo: ciò che lo caratterizza è il suo alleggia- mento benevolo di
fronte a tutte le concezioni, pur- che non si voglia erigerle a un che di
« assoluto ”, ma sì prendano come pure interpretazioni umane 5,
dell'esperienza umana. Non si dimentichi — avverte lo Schiller — «che
l’uomo è la misura di tutte le cose, cioè di iullo il mondo
dell'esperienza... non si dimentichi che l'’uomu è il fattore delle
scienze che servono aì fini umani» (1). Tutto dall'uomo, tutto
all'uomo, tutto per l’uomo: ecco l'’Umanismo. Il Pragmatismo accetta
questa dottrina umanistica, e «io — dice il James — la tratto sotto il
nome di Pragmmalismo » (2). L’Uinanismo è, per così dire, il
soflio, l'anima che pervade le affermazioni pragma- | lisliche: non
ha valore che ciò che ha un significato per l'uomo. $ 3. —
La logica finora ha tentalo di essere una pscudo-scienzu di un, processo
non esistente e im- | possibile chiamaio pensiero puro. In nome di
essa ci fu comandalo di espungere dal nostro pensiero Ogni traccia
di sentimento, d'interesse, di desiderio © di emozione, come le Diù
perniciose surgenti di er- tore. Così la logica fu ridolta ad una pura
rappre- | Sentazione sislemalica falsata dal nostro pensare al-
luale, perchè non si è voluto osservare che quegli __ inMussi
(sentimento, emozione) sono egualmente fon- le di verità e pervadono
tutto il nostro processo co- | gilulivo (3). Poichè «il Primo passo nella
acquisi- (1) Humanisme, (Prefazione) p. xx. (2) Lettura seconda, p.
4I, (8) ScHirLen, Humanism, p. X. E allo Sc € dobbiamo principalmente 10
SEITE ELE 0 logico e gnoseo- zione di
nuove conoscenze è l'intervento di un postu- lato emozionale » (1).
Non si può passare dal noto all'ignoto, o, certo, la natura data di
un conosciutu non può formare il a fondamento logico per la inferenza di
caratteristiche 0 opposte nel non conosciuto, se non c'entra il deside-
|. Ù rio. Come posso, p. es., inferire dal male che c’è nel ò mondo
la necessità dell’esistenza di un mondo mi: gliore, sc il ragionare —
come afferma la logica tra- dizionale — è il prodotto di un pensiero puro
non affetto da volizione? «Sollanto se una trasfigurazione
sconosciuta del- l'altuale è desiderata, può esser pensata e, in
parec- chi casì, ‘rovata. Tutte le concatenazioni di un pensiero puro non
influenzato dall'affetto non potrebbero mai raggiungere e ancor mero
giustificare quella conclusione: per raggiungerla il nostro pensiero
de- ve ricevere l'impulso ced esser guidato dai suggeri menti della
volizione e del desiderio » (2). La ragione - «pura» e una pretla
finzione c una impossibilità si psicologica; lu strultuva reale
della ragione attuale E è essenzialmente pragmatistica ed è penetrata
fino n] nelle midolla (permeated (lhrough and through) da ulti di
fede, da desiderì di conoscere e da volontà di credere, di non credere,
di far credere. E altrove: Dini” La intellezione pura non è un fatto che
abbia luogo | in natura; essa è una finzione logica. Im realtà il *
a nostro conoscere è condotto e guidato, ad ogni passo, dai nostri
interessi e dalle nostre preferenze, dai | Il Praghiatismo 19
/ i | nostri desiderî, dai nostri bisogni e dai nostri
fini. x Questi formano il potere movente della nostra vita
intellettuale. « Vi souo ragioni del cuore delle quali la testa non
3: sa nulla (3), postulati di una fede che sorpassano la È
2 (1) Ibid. p. XI. >» (2) p. XII «To attain it,
cur thougth needs to be impelled vi ‘na guided by the promptings of
volition and desiro ». - POS) (3) L'aforismo, citato dallo Schiller, è di
BIAGIO PASCAL,(Pensées), LA 4 20 Linee fondamentali
intelligenza pura e possiedono una razionalità più alta che un
gretto inlellettualismo non è riuscito a comprendere. L'irrazionale si
trova ad ogni passo, in ogni processo della vita conoscitiva ». La
fede «sla a base di ogni «ragione» e la pervade, anzi la
razionalità stessa è il supremo postulato della fede. Senza fede
non c'è ragione; la fede è un ingrediente nel progresso della conoscenza;
realizza sè stessa nella conoscenza che ne abbisogna e ia aiula
alle conquiste fulure. Così sparisce l’antitesi tra fede e ragione
perchè la razionalità pura non esiste (1). Il carattere leleologico della
vita mentale influenza e pervade le nostre ullivilà cognoscilive più
remole. Questo, secondo lu Schiller, è il pensiero centrale del
Pragmatismo: ne dà la vera definizione (2). Il pen- siero Non è un
prosesso aslrallo, ma si svolge in una - psicologia concrela, è
una funzione vitale è perciò finalistica. L'uomo non pensa per
pensare e il Prag- malismo è: «una prolesta sistematica contro
l'igno- vanza della finalità nella‘conoscenza » (3). La volontà,
lintenzionalilà è da per tutto: il Volontarismo si constata nella
psicologia, nella logica e nella meta- fisica, È questo uno dei lralli
caratteristici del Punto di visia leleologico. Il Pragmatismo si formula
da per lutto in funzione della finalili.. «La ragione è
un'arma nella lolla per l'esistenza cun mezzo per l'adattamento » (4). Ne
segue che l’uso pratico che ha presiedulo al suo (della ragione)
(1) Questi concetti lo Schiller li ha svolti speci: te i JI S °
seialmenie in un articolo: NFailh, reason and religion pubblicato SI
The Ilibbert Journal» 1V, 2. Vi si dice, tra l'altro, che è base
es- senziale in scienza e in religione partire da supposizioni che
TS OLolale provate o che non possono provarsi. Così, se ; Viviaino per
fede può anche esser veri r - Ralemo pen pata L e esser vero che
cono (2) Mumanism, D. 8. Cfr. anche Stud. in Ium, p. 4, 5.
(3) Stud. in Hum Essay, I & * Èssay, I $ II — È ques a ses
sette definizioni che lo Schiller ci dà del PRE Se nite e
collegate l’una con l'altra nei S S b ;3 (4) «I cannot but conceive
the Or AR] In the struggle for existence and tation è. pag. 7,
Humanism, reason as being... a weapon a means of achieving
adap- à, cea Il Pragmatismo i
svolgimento, deve essersi impresso profondamente nella sua strullura,
se pure non l’ha formata da istinti prerazionali. Una ragione che non ha
valore n pratico ai fini della vita è una mostruosità, una
aber- razione morbosa, una mancanza di adattamento che
la selezione naturale presto o tardi deve far spari- re {1).
Quindi, da questo punto di vista il Pragma- lismo polrebbe
definirsi: « Una applicazione coscien- le alla epistemologia (0
logica) di una psicologia te- < leologica, che, in ultima
analisi, implica una metafi- sica voloniaristica » (2). pis TANA
Nice di questa psicologia felcologica applicata alla conoscenza i
problemi della logica devono appa- rire sotto un aspelto nuovo e si deve
dare una im- porlanza decisiva ai concetti di proposito e di fine.
Ta conoscenza presuppone essenzialmente uno sfor- zo diretto a conoscere,
che, come ogni sforzo, è te-: leologico, ispirato da un bene che si vuol
consegnire. SI Non cè conoscenza senza valutazione; la conoscenza è
una forma di malore, 0, in allre parole, un fattore di bene
(3). Lo aveva cià dello il Lotze, nola lo Schiller. Il |
Lofze, come è noto, insegnava che «la scienza, come TU la logica, che ne
è lo strumento, e come la metafi- sica che ne è il coronamento, ha il suo
fine e la sua giuslificazione nell'elica, e irova il suo fondamento
| slabile e sicuro in quel primo dato originario e di | Ù conoscenza
immediata che è la nostra vita interiore, i col suo ricco contenuto di
sensazioni, rappresenta zioni, sentimenti e tendenze e col suo largo
corredo di forme, calegorie e leggi, da cui non possiamo pr
scindere in qualsivoglia nostra concezione e valut zione» (4). (1)
Mumanism, p. 8. (2) È la settima definizione del Pragmatismo. Le altre
Je AFONSTRIDO parlando della verità e della realtà nel Pragma- |
smo. - ae p (3) Humanism, p. 10. — Cfr. anche sl quarto «Essay»
di questo volume: Lotze's Monism, D. 62 SE&. i » = (4) L,
AMBROSI, Per una monografia italiana sopra Herm otze — «La Cultura
Filosofica», A. IMI, N. HI, p. 294-295, ai
dui # iii ar E° vee Linee fondamentali Non
è qui il luogo di dimostrare che, se il Lotze ha dei punti di cuntalto
con l'Umanismo, egli perè non è un umanista alla Schiller. La ragione
nelle sue esplicazioni molteplici, è una strumento ordinato ai fini della
vita. È questa la concezione strumentalistica della conoscenza
esposta dal Dewey e dallo Schiller (1) e accettata dal James. Essa
è un portato del metodo evolutivo e della con- cezione biologica della
conoscenza. Darwin con la teoria della «lotta per l’esistenza » e della «
selezio- “ne naturale» aveva insegnato «che nulla può sus- Sistere
o svolgersi che non abbia un determinato Significato per l’intera
concatenazione della vita ». Scrittori posteriori (Spencer, Romanes,
ecc.) sosten- nero che lu vita è un continuo accomodamento alla natura
circostante, fisica, sociale, morale. E ora la teoria della evoluzione è
chiamata da molti a spie- gare anche il sorgere e il progressivo.
svilupparsi ella vita cognoscitiva (2) e così i principt evolutivi
di cambiamento, di relalività e di movimento sono ipplicali a spiegare
l'origine e ‘lo sviluppo del pen- siero in generale, il suo carallere, il
suo valore, allo 2 Stesso modo che erano già slali assunti a lumeggia-
i __Te c spiegare l'origine, Îo sviluppo, il significato, il
— Valore della stutlura, degli organi, di fulte le dif- __ Ierenziazioni
biologiche. Come in bio non ha valore nè senso che per la sua
ulili dine all’adatlamento dell'individuo condizioni fisiche
circostanti, ha, cioè un valore e un senso puramente Pratico, così in
psicologia qua- ai 5 ao (1) L'opera principale del
Dewey è: Studies 1 Theory bey John Dewey, with the Cooperation of
embe Fellows of the Departement of Philosophy. Decennial Pubbli- 1
one of the University of Chigago — Second Series vol. XI e» Peli ha
esposto le sue teorie anche in: The esperimentai Pe: # in: eguig otel
Mina (N. S. 59) 1906, Vol. XV Pp. 293-307; din; nd the Criterion uti Of
Tdeas (N Sì 6) "Vol NV she SII for tne Trutt of Ideas (N. S.
Lol), Cir. Baowr, 7hioughi and rh; i * AP TS, ggpletaco, p. VILe
VII. 11 Salto; Vol. 1: Functional GI dottrina comuni col Pragmatism DIA ha
parecchi puntf Il Pragmatismo 23 lunque
differenziazione : sensazione, coscienza, pen- siero ecc., trova tutta la
sua raison d’étre e la sua giuslificazione nell’uso, nelle conseguenze,
nella ef- ficacia pratica. La questione di valore non si può
scindere dalla queslione di origine e di sviluppo; la considerazione
statica deve dar luogo alla conside- vazione dinamica e quindi, per ciò
che riguarda il pensiero, la logica formale alla logica funzionale
(1). La concezione biologica della conoscenza (2) ha fatto un
passo innanzi: non ha detto semplicemente : applichiamo alla psicologia
il metodo evolutivo, (il che, per sè, non inchiude la riduzione della
psico- logia alla biologia) ma ha detto che « tutti i prodotti del
pensiero teorelico hanno un carattere utilitario » (biologico) «cioè
servono come strumenti al conse- guimento di fini essenzialmente
biologici, perchè mi- rano a dare soddisluzione alle esigenze dell’organi-
smo cioè ai bisogni della vita» (3). Questa subordinazione della
vita teoretica alla vita pratica è capilale per il Pragmatismo: nessuna
ma- raviglia quindi se i suoi leaders l'hanno accettata e fatta
oggetto di studi speciali (4). Il Dewey, oltre alla funzione generale
della cono- scenza, ha soltoposto ad analisi il suo aspetto tipico:
il giudizio; mentre lo Schiller s'è occupato partico. larmente degli
assiomi primi della conoscenza. S'è veduto in che cosa consiste la
concezione stru- mentalistica 0 umanistica della conoscenza ; in
base (1) Baldwin, Op. c. 1. c.
passim. (2) È sostenuta specialmente dall’Avenarius, dal Mach, dal
Jerusalem, dall'Ostwald, dal Petzoldt e dal Simmel. Cfr. le monografie di
A. ALIOTTA sull’Avenarius, sul Mach, e sull Ost- wald in «Cultura
Filosofica» a. II, n. 3, 5,7% a. DI, n. 3, 4. . Lo Psicologismo logico dì
A. LEVI: Cuit. Fil. a. III, n. 1, 9, 4, specialmente pp. 242-255.
Vedi anche dell’Aliotta: /l pragmatismo anglo-americano, — « Cultura
Filosofica » a. III, n. 2. (3) A. LEVI, Lo Psicologismo logico, La «
Cult. Fil.» a. IMI, n. 3, p. 254. pà & {4} Intendiamoci: hanno
accettato la dottrina della subor- ‘dinazione della vita teoretica ai
fini pratici, in generale, no ai fini biologici esclusivamente,
È 24 Lince fondamentali
ad essa il giudizio (dal Dewey) è interpretato in ter- mini di
funzione; esso è una armonizzazione di varie parti della esperienza; è
uno sforzo « per determi. nare gli elementi che realmente procedono di
con- serva e per respingere quelli che solo si collegano
apparentemente »: così esso si forma, per differen- ziazione, sotto
l'impulso del bisogno di armonia e di unità nelle esperienze (1).
To Schiller (2) afferma e dimostra, a modo suo, che gli assiomi
fondamenlali della conoscenza o primi princip! (di identità, di
contradizione, del terzo esclu- so, di causa) sono dei semplici
postulati. Un postu- lato è «una supposizione, che senza dubbio
l’espe- rienza ha suggerilo ad una mente che ricercava, ma che non
è, nè può essere lenuta come provata, poi- chè spesso di poi la si assume
solo perchè la desi- deriaumo, contro tulta l'apparenza dci fatti» (3).
I postulali sono domande che noi facciamo alla espe- rienza;
processo di esperimento ordinato a porre il mondo in armonia coi nostri
desiderì; sono perciò un processo di sviluppo non dissimile dalle altre
at- tività e funzioni umane, derivando dalle esigenze dell’uomo,
dai suoi bisogni, dai suoi desiderì, dal suo volere: sono quindi un
prodolto della attività umana voliliva e affelliva. Noi desideriamo che
una cosa sia quello che è, che 4 sia sempre a, d sempre Db, ecc.
perchè diversamente, come polremo conoscere la sua condotta futura
rispetto a noi? e, per conse- g&uenza noi desideriamo che nulla venga
a distrug- gere quella idenlità: così nascono il principio di
identità e di contradizione, che sono due aspelli (po- Silivo e negalivo)
dello stesso principio, Noi esigia- Mo delie distinzioni precise, delle
disgiunzioni com- plete, perchè con esse possiamo dominare
(assimi- (1) Op. cit. II, passim, Vedi anche N. c. 257 dove si
trovano le parole da’ (2) Personal Idealism — « Arioms 902.
La Cultura Filosofica » me citate, Macmiizs o! as Postulales
n — London, (5) ScHILLER in 3 «The Hibbert Journal» }, e, Il
Pragmatismo lando ed eliminando) il lusso ininterrotto della
esperienza: vogliamo che una cosa sia o non sia: ecco il principio del
terzo escluso. Noi desideriamo di pro- si durre degli avvenimenti utili
alla vila e di impedire i nocivi; per agire abbiamo bisogno di un
mondo connesso, ordinato, postuliamo, cioè, una causa € una ragione
sufficiente. In realtà nulla è, tulto di- venta; l'identità perfella non
esiste. La enntradizio- ne è pensata frequentemente contro la
grescrizione - della legge; l'esperienza non sodisfa le nostre esi-
ae” genze, perchè in essa non v'è una ragione suMceiente, e ve la
poniamo noi. A chi opponesse a questa concezione volontari-
slica delle leggi del pensiero, i loro caratteri di uni- versalità e di
necessità, lo Schiller risponde che: «Ia universalità di un postulato
deriva dalla sua stessa natura, inquantochè, quando ci serviamo di
una proposizione di cui abbiamo bisogno, intendiamo di farne uso ogni
volta che ci piacerà; la neces- sità di un postulato designa
semplicemente il biso- gno che noi ne abbiamo, ossia... deriva dalle
esì- senze di una volizione intelligente e finalislica; la
incapacità di pensare il contrario di una proposizione si riduce... ad un
nostro rifiuto di compiere un certo atto del pensiero ». Il
James accetta e fa sue le dottrine dello Schiller e del Dewey (1) ce
proclama: «Dalla logica scienti- fica è stala cacciata la necessità
divina, e al suo. posto fu messo l’arbitrio umano ». E altrove: pla
mostri melodi fondamentali di pensare sono inven- — . zioni dci nostri
antichissimi antenati e si sono. potuti — conservare attraverso {tutte le
esperienze successive. — pe (1) Il James considera gli «
Studies in Logical Theory » com | fondamentali per il Pragmatismo. Cfr.
Der Pragmatism Vorwort, XI, AI
ve, 26 Linee fondamentali Essi formano ciò che si
chiama «il senso comune », che, in filosofia significa l’uso di certe
forme dell’in- lelletto e di determinate categorie del pensiero.
Noi pensiamo per calegoric: esse ci sono necessarie per mettere
unità e ordine nella piena confusa, nella Varietà sensibile delle
esperienze, per combinare con meno dispendio di forze possibili le nuove
con le vecchie esperienze, per fare i nostri piani, per con-
neltere il iontano dell'esperienza col vicino, per adat- lare, in
una.parola, la esperienza ai nostri bisogni dopo averla dominata.
E la dominiamo razionaliz- \ zandola. i «Se fra le impressioni
dei sensi e i concetti pos- è». cai È, t ATI
tas siamo trovare rapporti univoci abbiamo già razio-
nalizzato le impressioni sensibili. I senso comune > mette
questa razionalità nelle esperienze (vollzieht diese
Ralionalisirung) con vna serie di concetti, dei î sà quali i più
importanti sono i seguenti ; 4 = Cosa (in sè) —- Identità e
Diversità — Specie — Spi- x , rili -— Corpi — Un lempo — Uno spazio
— Soggello b e ullributo — Influsso causale — Immagini fanta-
> stiche — Realtà (1). 9 Queste categorie lrovale
forse in momenti felici ai nostri antenati si sono conservale e sono
dive- nule la base del nostro pensiero per la loro sufficien- za a
servire ai fini della vita pratica. Ma sarebbe possibile che calegorie
diverse dalle enumerate po- __lessero servirci, come quelle che usiamo
ora, alla elaborazione della nostra esperienza. Del resto il Senso
comune non è che una fase della evoluzione dello spirito umano, c,
nonostante che la filosofia _bemipatelica abbia tentato di fissare per
sempre le Sue categorie, concatenandole ordinandole in si- _
stema, Mon si può dire, tuttavia, che la concezione MICCCALVII È a più
i DI lipi o fasi di pensiero: il naturalistico 6 il car a
scienza della natura e la filos riti hanno. rotto i limiti del pensiero
ATao CECI (1) Finfte Vorlesung. Con la
scienza della natura cessa il Realismo in- genuo. Le qualità secondarie
perdono la loro realtà: non restano che le primarie. La filosofia critica
di- strugge lutto: le categorie del senso comune non si- gnificano
più nienle di reale. Esse non suno che astuti provvedimenti del
pen- siero umano; sono l'unico nostro mezzo per isfug- gire alla
inquietudine in cui ci getta l'incessante cor- rente delle sensazioni
(1). Noi abbiamo così tre tipi caratteristici e diversi di
pensare il mondo: Ugnuno ha i suoi meriti (il natu- ralistico, almeno,
può vantarsi di aver servito ai fini pratici quanto il senso comune; si
pensi al Galilei, ad Ampere, al Faraday! ìl critico invece, pur
trop- po, nun ha dato che soddisfazioni teoretiche, 0 qua- si);
nessuno di essi è assolutamente più giusto e più vero degli altri (2).
e; La loro verità dipende dalla loro utilità nei casi
particolari. Questo il Pragmatismo nel suo metodo e nelle sue
presupposizioni gnoseologiche fondamentali: melodo & presupposizioni
che ne costituiscono la vera es- senza. Il James dice che un aspetto
essenziale del Pragmalismo è anche la sua leoria genetica della ve-
rità (3). Lo Schiller, dal canto suo, scrive che: «pa- rallela alla
teoria della verità è quella della realtà », e perciò la trallazione
della prima non può andar disgiunta dalla esposizione critica della
seconda (4). A me pare che tanto l'una che l'altra, più che dottri-
ne essenziali del Pragmalismo, siano corollari, 0 applicazioni del metodo
alle due forme oggettivo- soggettiva c oggettiva dell’essere. E
Di queste due applicazioni dobbiamo ora occuparci lrattando della
teoria della verità e della realtà nel pragmatismo. \ (1)
Ibid., p. 117. (2) Ibid:; p. 118 Par (3) Der Pragmatismus, p. ki:
Das wdre das Wesen des Pragmalismus: erstens eine Methode und
zweilens cine. gene tische Wahrhettstheorie », (4) Stud, tn
Hum., p. 284, "E lla ate RA A da
LTL LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA REALTA. La Condotta. La dottrina
della verità. La dottrina della realtà. Che cosa ci sa dire la filosofia
intorno alla condotta? La pone in allo o in basso, la esalta ponen-
dlola sopra un piedestallo all'adorazione del mondo 0 | la deprime perchè
venga calpestata dalle persone i Superiori? In allre parole: qual'è,
secondo la filoso- | fia. lo relazione della lcoria colla pratica della
vita, della cognizione coll’azione, della ragione teoretica colla
pralica? » (1). Così comincia lo Schiller il suo primo saggio del
volume: « Umanismo, — La base È elica dellu metafisica ». E continua: «La
dottrina di È, questo rapporlo coslituisee uno dei capitoli più in-
bi tricali della storia del pensiero. Da questo capitolo della
storia risulla chiaramente un fatto: che le pre- lese delle teorie
antagonistiche (leoreticiste e prali- gra * cisle) sono così larghe e
così insistenti da rendere impossibile ogni compromesso fra loro;
bisogna sce- pai gliere-fra i due estremi: o la condolta è lutta la
vita. i O è nulla; 0 è la sostanza del tutto, o è la visione dì un
sogno: aul Caesar aut nullus » (2). Noi sappiamo a giù quale dei
due estremi abbia scelto il Pragmati- sil smo. Invece di supporre che il
pensiero sia altra cosa o dall'azione, esso tralta il pensiero come una
forma di , È condotta, come una parle integrale della vita attiva.
(1) umanism, Invece di considerare i resultati pratici come
poco o affatto importanti, fa dei valore pratico un deter- minvute
della verilà teoretica. Im una parola: la condotta, in luugo di svanire
nella nullità di una il- lusione, è ristabilita nel potere di controllo
di ogni dominio della vila. Dal punto di vista pragmatislico
della psicologia le- leologica, inlcsa come s'è vedulo, tanto i
problemi logici quanio i metafisici si presentano in una luce |
nuova, poichè vien dala una importanza decisiva i | concetti di proposito
e di line. SH Il Pragmalismo è una protesta sistematica
contro l'abitudine di iguorare, neile nosire lcorie sul pensie- ro
e sulla realtà, la finalità del pensare attuale © i rapporti delle nustre
realtà attuali ai fini della vila; è r'aflermazione delta basc chica
della iogica e della id metafisica. « La valutazione (cologica è una
sfera speciale della ricerca clica, € quindi il Pragmatismo, To con
la sua accentuazione della teleologia in ogni (campo del pensiero,
assegna al metodo lipico «della elica una validità metalisica » (1),
alfermando la su- preva autorità della concezione etica di bene
sopra | da concezione logica di vero € la metafisica di reale. II
bene, il valore pratico © un determinante essen- ziale così della verità
come della realtà. La condotta è la sostanza del tulto. La nostra
apprensione del reale, la nostra comprensione delia verità si effet
luano sempre in esseri che tendono al consegui- mento di qualche
bene: sono penetrate, informate “dalla tendenza a un fine pratico, dalle
esigenze della condotta. pt g 2. — Chi studia
seriamente i processi conoscitivi della intelligenza umana viene subilo a
trovarsi d fronte al problema dell'errore. Tulte le proposizioni La
teoria della realtà e della verità logiche hanno l'audace pretesa, senza
riserva e senza d riguardi alle pretese delle altre, di esser vere.
Eppure gran parle di esse non sono che delle menzogne : non sono realmente
vere e la scienza deve respin- gere la loro pretensione. Per far questo è
necessaria una scella di ciò che è realmente vero dalle verità
apparenti: una condanna del falso ed una ricogni- zione del vero; il
logico, in altre parole, deve valu- tare le ioro prelensioni di verità
(1). Con qual crì- levio? Come dislinguere fra proposizioni che
preten- dono di esser veré c non sono, e le pretese buone che
pussono essere convalidale? Qual'è la nota, il carattere distintivo della
verità? Così si pone il pro- blema crileriologico; e una teoria della
conoscenza che è impolenle a scioglicrio è già condannata (@). ©
Quid est veritas? Per verità noi intendiamo una proposizione alla quale è
stato in qualche modo al- luccalo (attached) ialtributo «vero» e che,
conse- __Suentemento, è riguardala sub specie veri. « La ve- Tila è
la lolalità delle cose alla quale e stato appli- «cato o è applicabile
questo modo di lraltamento sia | ©hesi eslenda o meno alla totalità della
nostra espe- _ Rienza» (3). È una qualità di certe rappresentazioni
«© precisamente: l'accordo di certe rappresentazioni con l’oggello {4). È
questa la definizione comune che | accellano, come qualcosa di evidente,
intellettualisti * pragmalisti. Il dissidio fra le due parti
comincia Quando si tratta di sapere che cosa propriamente si- —_
Bnifichi «waccordu» e « Oggetto »; ovvero la «realtà » con la Tuale
devono convenire le nostre idee (5) |, Secondo la concezione Opolare | n
BRA { ot ROIO Popolare l'accordo consiste > In una copia
dell'oggetto. Alcuni idealisti affer ne ue le nostre idee sono vere
quando corrispondono. a or \<iò che Dio vuole che no pensiamo intorno
al loro alla /eoria della *&gello, Altri,
streltamente fedeli (1) ScHmzLER: Stu (2) Id., Jvta.
(3) Id., p. 14. Essay Y. @ JAMES, Der Pra i o
gmatismus, p, i 0 JAMES, Id., Ibid, D 124, VI, Vor], dies in
MHumantsm, D. 3. Essay I Il Pragmutismo_ 31 i ì tre idee
in copia («copytheory»), dicono che le nostre in nilo sono vere in
quanto corrispondono ai pensieri elerni dell'assoluto. Vediamo quanto
valgano queste concezioni. ; Intanto la verità
assoluta, scrive lo Schiller, non esiste. La storia del pensiero umano è
caratlteriz- zata dalla inslabilità delle opinioni, dalla
mutabilità delle credenze, dalle vicissitudini della scienza, In-
somma. dalla lransitorietà di ciò che è o passa per verità, Ogni verità
umana, com! è attualmente e com'è stata storicamente, sembra fallibile e
transi- toria... le verità del passato sono riconosciute come
errori al presente; quelle del presente sono in via di essere
riconosciule erronee in un domani più o meno lontano. Quindi la verità
umana non può affacciare pretese di assolutezza. Per isfuggire allo
scetticismo che sorge nelle anime di fronte alla ininterrotta. ri-
valutazione e transvalutazione delle verità, che for- ma la storia della
conoscenza, si è ricorso ad una verità assoluta trascendente indipendente
dalle vicis- situdini della verità umana; la quale verità assoluta
si concepisce come un modello da imitarsi, come una misura per la
valutazione delle verità nostre, come una rocca inespugnabile in cui non
può penetrare cangiamento alcuno (1). i Si slabilisce, cioè,
una distinzione fra verità al luale o umuna e verità assoluta, ideale,
che è posta al di fuori e al di sopra del flusso della realtà. Le
nostre verità sarebbero un riflesso dell’Assolulo, ri . flesso
imperfetto, ma valido, misleriosumente tran- sustanziato per la immanenza
in esso dell'Assolulo e per la partecipazione della sua stessa
sostanza. i Mau l'espediente è fulile e dannoso. | l'utile
perchè l'assoluta, eterna verità, rigida e im- a mutabile, non può
discendere dagli eccelsi cieli della logica a trasformare
le nostri ‘i Ì La, e verità e a togliere la transitorietà alle
nostre concezioni; la verità umana, (1) ScuiLLER. Stud. in Hum,,
Essay VIII, p. 204. 32 La teoria della realtà e della verità
dal canto suo, non può SORIrare alle prerogative so- Rraumane
dell’Assoluto (i). Se la verità assoluta non può identificarsi, in
qualche modo con la umana, e se la cognizione umana non può diventare
assolu- la, non può congiungersi con l'Assoluto, l'Assoluto per nvi
non esiste e non può quindi redimere dal ilusso perpeluo le nostre
verita. I che lale unione luon esista, anzi che sia impossibile, si
deduce dal contrasto di caralleri fra la copia (verità umana) Cc
tjuello che dovrebbe essere il suo originale (verità lrascendente).
La verità umana è fluida, non rigida; temporale e lemporanea, mon
elerna e perenne; arbitraria, non necessaria; scella, non inevilabile ;
nata, come Afro dite, di passione e di slancio da un Inare
schiumoso di desideri, non puramente intellettuale e spassio- nata;
incomplela, non perfetla ; fallibile, non iner- tante ; assorbita nella
tendenza di ottenere ciò che ion c uncora compiulo; non beala nella. sua
com- iiulezza. Questi caratteri della verità umana risul- tano
dalle condizioni stesse onde ha origine ogni ve- tilà. Essa è discorsiva
perchè non puo abbracciare lutta la realtà; © fallibile perchè è
‘essenzialmente parziale € puo quindi Sempre venir corretla e com-
pletala da una cosuizione più vasta. Invece la ve- rità assolula si
estende al lutto e dipende dalla cogni- zione del lutto. Li sua
ussolulezza si fonda sulla sua onMucomprensività (2). Se non V'è
conoscenza conm- pielamente adeguata all'intero sistema della
reallà _ on vi può essere verita assoluta (3). Orbene, la
no- stra mente è capace di {ale conoscenza? No. Ap- punio
perchè parziale, la verità umana poggia su dati parziali, è generala
dalle parzialità dell'alten- stone selelliva ed'e diretla a fini
parziali. Un abisso Separa le due specie di verità: fra loro non vi
può essere ne Corrispondenza nè interazione (4). È quindi
verità attuale sia in « accordo con la b RP assurdo che
Ju he (I) SCHILLER, 07, cl, 7. E (I Ide TER OD. ci, p,
207, via {9) Id., 4bid. E (4) SCHILLER, 1a., p. 2,
i Le Lia - di
asta ideale, eterna, Irascendente » come pretendono gli as-
solutisti. be La concezione della verità assolula è anche perni
ciosa. Poichè: o l'uomo percepisce la differenza fra ia verità assoluta e
la relativa o non la percepisce. Nel primo caso egli disprezzerà le verità
umane, 1m- . perfette, mutabili, le tratterà come apparenze, € lo |
Scelticismo sarà inevitabile. CIÒ è tanto vero che, ‘anche attualmente,
la linea di divisione. tra questa specie di assolutisti e gli scettici è
molto indecisa: insegni Bradley. Nel secondo caso l'uomo prenderà
come assolute anche le nostre verità. E poichè l’as- soluto non soffre
aumento nè alterazione, egli non _ si sforzerà di migliorarla coi suoi
sforzi, rigetterà come falso tutto il nuovo, non vi-sarà progresso
al- cuno nella conoscenza... ; ecco l’assurdo e con l'as- surdo Ja
rovina della teoria della conoscenza. Nel nostro conoscere c'è aumento,
c'è alterazione: e una teoria della conoscenza che non li può spiegare,
anzi li esclude, non ha certo diritto alla nostra véenera- zione, e
non ci salverà dallo scellicismo, reso anci ui tabil ; SE ’ «anche
du Anevitabile dalla impossibilità e dal rifiuto di ‘0 FUNe I nostro
reale progresso cognosellivo: ud est verilas? È forse un
«accor realtà ; La Accordo » Questa ipotesi reatitiae csfetto, del
fallo. sterno? A LI ‘a — dice ancora lo Schiller ci
conduce ad affer pe encore lo ssChil era 5 CIOS alermare degli
incredibili paradossi, con la cha: 1 SE Rc e
die n 3 n fis aipendente) è conosciuto. da e RI » che «eg
hipothesi » 16/x trascende SD i E oanseo ALU soggeltivalin ACR BS
È e] | Pragmatismo - 3 x = SONA È [e
È |< PRE e %% È Da teoria della
verità e della realtà c) Che noi conosciamo anche questo e cioè che
la «corrispondenza » tra il fallo, quale è in sè stesso fuorì della
noslra-conoscenza, e il fatto, quale appare nella nostra conostenza, è in
qualche modo perfelta e completa {1), il ehe è assurdo, perchè noi non
pos- siamo conoscere indipendentemente da un lato il pen- _ siero,
dall'aîtro Voggello esterno. Nè si può dire che la verilà consista nella
« cocren- za sistematica ». Nell’universo non v'è delermina- “zione
assolula e perciò la verità c la realtà possono «essere costruite im
diverse maniere, cioè in diversi Sistemi, con diverse «cocrenze »
sistematiche: biso- cana lener conto delle possibilità pluralistiche (2).
RR . il problema si ripresenta: «quale dei sistemi è vero e quale è
falso? » Im che consisle la verità del «sistema coerente? » Dal
punlo di visla del razionalismo, cioè «a priori », on è possibile dare
una risposta reale alla questio- ne; non si può indicare nessun metodo
praticabile di ululazione delle verità (e dei sistemi di verità) se
non concedendo alle applicazioni pratiche, alle con- | seguenze, di
saggiare la validità delle rappresenta- zioni (c dei sislemi di
rappresentazioni); se non rica- | Noscendo uno stadio intermedio, nel
facimento della s0 pad, fra Ja semplice pretesa (claim) di esser vero
e tn ideale completo di verità assoluta (3). Il Pragma- smo
è appunto il tentativo dì tracciare il modo del > (I) Id, p.
181, Essay, VII. (2) Di qui 11 nome di pluralismo dato a
dottrina _pragmatistica della verità e della A ita «ex professo «
nella quarta lezione (del vol. cit.): Etn- lett uni Vielheit « Unita e
Pluralità. — © pluralismo è la gucazione Metafisica della realtà come di
una molteplicità di ct Separati, indipendenti. Si divide in
matcrialistico (Ato- TRIaIDO), in spiritualistico (Monadologia) è in
duatistico (Dua» smo). La concezione pluralistica è stata poi dal JAMES
ulte- ente svolta nel volume: .1 pluralistic universe, London,
Longman Green 1909, tradotto in f [cato co. Nolo PRI oS Francese
da Le BRUN e pub- mar ion I titolo: Philosophie de l'erpérience, Paris,
Flam- (3) SCHILLER, Stud. in Hum. facimento aztuale della verità,
le maniere attuali di distinzione tra vero e falso per giungere alle sue
ge- neralizzazioni circa il metodo di determinare la na- tura della
verità (1): mette in luce, in altre parole, lo sladio intermedio del
divenire della verità, il modo della convalidazione delle pretensioni di
verità. Or- bene, come s'è veduto, non si può spiegare il movi-
mento del pensiero verso qualche cosa senza fare appello a motivi
psicologici: desiderio, sentimento, interesse, attenzione ecc. ; non è
possibile descrivere cosa alcuna in puri termini logici e senza
costante ricorso alla psicologia (2), ec quindi «i termini ullimi
della definizione della verità sono anzitutto psicolo- gici»; ogni verità
attuale è, in primo luogo «un pro- cesso psichico, c, come tale,
condizionato dalla va- rietà degli influssi psicologici sentimentali e
voliti- vi» (3). i E così anche i sistemi di verità.
L'esistenza di un numero di giudizì cocrenti connessi in sistema
non basta per avere da noi la ricognizione della verità. li
«sistema» per esser vero, deve anche aver valore ai nostri occhi; la
tendenza al «sistema» è parte della tendenza più vasta all'«armonia
attuale », 0 per lo meno ideale, della nostra esperienza. Il si-
stema non è semplicemente un tutto di consistenza logico-formale, ma
anche il prodotto di influssi ema- <ionali. in vista di soddisfazioni
emozionali. Perciò nessun sistema è giudicato intellettualmente «
vero » se non è migliore — in rapporto alle nostre esigenze -— di
un altro, se non abbraccia e non soddisfa qual- cosa di più che gli
aspetti intellettuali astratti delle. esperienza (4).
(1) 1d., ibid., p. 4-5. « Pragmatism essays to trace out the actual
«making of truth», the aciual ways In which discri- _minations between
the true and the false are effected, and derives from these its
generalisations about the metliod of determining the nature of truth ».
? (2) Id., Humanism, Essay III, p. di. NI (3) Id.,
ibid. Cir.: Riv di Filos. Neo-Scol. A. II, N. 2, Spe- cialmente p. 152
Sgg. (4) ScuiLLer, J/umanism. Essay II, D. 42-50.
‘36 La teoria della realtà e della verità Vi sono dei
sistemi che, nonostante la loro coeren- za, non hanno valore di
verità, perchè non TiMUON Î no e non risolvono un senso di disaccordo
finale nel- l’esistenza; tali sono i sistemi pessimistici (1); e
n sono delle verità, valutate come tali, per la loro effi-
cienza di armonia sebbene non siano connesse in si-| slema (2).
Non si dimentichi mai — ci avverte conti- nuamente lo Schiller —
che la nostra conoscenza èi maleriata di inleresse, di desideri e di
sentimento; che la verità e il sistema della verità è il prodotto
dei mostri sforzi lelcologici (3). Da ciò risulla che il pro- hlema
della verità è essenzialmente psicologico, € deve essere formulato così:
« Qual’è la natura psi- chica della ricognizione della verità? A qual
parte della nostra esperienza è applicata questa ricognizio- ne?»
(4) N Pragmatismo risponde : «La verità è una ferma di valore; la natura
psichica della sua rico- gnizione è la valutazione » (3). « La
valutazione della nostra esperienza è un processo naturale
ininterrotto in una coscienza normale. Sponlaneamente, neces-
sariamente noi giudichiamo le cose « buone» e «cat. live », «belle » e «
prulte », «vere» e «false». È l’osi- stenza di quesl’abito che fa sorgere
le scienze nor- mutive rivolle a dirigere e sistemalizzare le
diverse valutazioni (per esempio «l'estelica » per le valuta- zioni
del «bello» e del « brutto»; Peolica » per le valutazioni del «buono» e
del « cattivo »). Anche la (1) 1d., tDid. «AI pessimismo in
filosofia » lo Schiller consa- cra il IX Essay del sno /umanism. Anche il
« pessimismo, come ogni sistenin, è un determinato atteggiamento di
fronte alla grande classe di tiudizi che sono conosciuti come giudizi
di valore a, « La Vila è adeguata all'ottenimento del fine supremo
dell'azione* Se St. essa ha valore, è degna d'esser vissuta; se no, il
suo valore è nullo e non merita d’esser vissuta. Nel pri- Rpanraso
abbiamo l'ottimismo, nel secondo il pesstalsmo LA . (2)
Mumanism, D. 50, (5) Specialmente là dove tratta del ri a e
Re ti el rapporto fra logica (4) Humanism, Essay III, p. 54.
(5) «Truth is a form of a Value ».. Would be no «tru
ren o na er at - * Without valuation
there Ri the at all» tv p. 55. (4 4umunism, Essay II, p. 55.
> 7 Il Pragmatismo . 37 logica è una scienza
normativa che ha per fine di re- golare e di ridurre a sistema le nostre
valutazioni di «vero » e di «falso » (1). Come in ogni altra
classe di valulazioni anche nella valutazione della verità (2) l'inleresse
umano è vi- tale, il che vuol dire: che una verità ha conseguenze
(ciò che non ha conseguenze è senza significato), ha una portata sopra
qualche interesse umano, e che le conseguenze debbono valere, debbono
essere conse- guenze per qualcheduno, in vista di un fine determi-
nato, cioè, devono essere «buone» e «pratiche ». berciò, a tulle Ie
asserzioni che prelendono di esser vere noi dobbiamo intimare: «
Mostrateci che siet> buone di una bontà pralica, e vi riconosceremo
pet tali. Voi non avete una ragione intrinseca di verità; noi
dobbiamo altenerci alle vostre conseguenze: dal frutto conosceremo l’ albero
n. Una asserzione che soddisfa un interesse umano pratico, che
corrispon- de al fini pratici dell'uomo è «vera»: è vero ciò che è
praticamente buono; è falso ciò che è praticamente cattivo (3). 1
predicati «vero» c «falso» non sono in fondo che indicazioni di valore
logico, comparabili come valori, coì valori «elici» ed «estetici»
(4). Similmente anche W. James: «ll Pragmatismo, invece di
considerare la verità intellettualisticamen- le, cioè, come un rapporto
puramente statico fra rap- presentazione e oggetto, si pone, di fronte ad
ogni pretesa di verita, Ie solile domande. Dato che una
rappresentazione 0 un giudizio affaccino la preten- sione di verita, noi
chiediamo: Quale diffevenza con- creta produce nella vita concreta di un
uomo quel tal giudizio, quella tale asserzione? Come potrà es- sere
vissuta? In che sì moditicherebbe il complesso dell'esperienza se quel
tal giudizio fosse falso (0. 3 (1) Id., bid. La
parentesi è mia |’ (®) Sarebbe meglio dire: «valutazione-verità »,
perchè que- | Sta fla verita) non è che il processo della valutazione.
Ingl, | «truth-valuation ». ‘ | (8) Stud. in Hum, p.
5-8: 38 La teoria della realtà e della verità vero)?
Qual'è il valore della verità se noi la cambia: mo în moncla di
esperienza? » (1) ue Per il Pragmatismo porre la questione è
scioglier- la: «Sono vere quelle rappresentazioni che
possiamo far nostre, cioè che possiamo far valere, lrasforma- —
re in forza e «verificare», sono false quelle che non sono
suscettibili di lule trasformazione in valore pra- tico » (2). La
verità di una rappresentazione non è una proprietà immobile che le
è inerente: la sua ve- rità è un accadimento: una rappresentazione
non è vera, ma divien vera; è un divenire, è il progresso
della sua auloverificazione (der Vorgang ihrer Selb- È
stbewahreilung); 1 valore della verità non è altro che il processo del
suo farsi valere (3). E si fa va- È: lere, e si verifica con le sue
conseguenze pratiche, con la sua utilità: anzi il farsi valere e il
verificarsi non sono in fondo che queste conseguenze (4). Dalla
definizione della verità come vulore logico (5) — segue che lutte le
verità debbono essere verificate. Una rappresentazione che non vuole o
non può sol: tomettersi alla verificazione è già condannala. Essa |
può avere lull'al più una verità potenziale, senza si- «|
_°‘’‘00‘gnificalo, inintelligibile o congetturale, e dipendente “fl da
condizioni non uvverate. Per diventare realmente
da 3 (1) Der Pragmatismus, VI Vor, p. 125. < è» (2)
« Walre Vorsteltungen sind sotche, die wir uns aneigqneny die wir
gellend machen, in Kraft setzen und verifizierem hòn- pe; nen, [alsche
Vurslellungen sind solche bei denen dies alles ("g nicht moglich
ist», 1A., IUld., p. 125-126. È il Jaines stesso che n sottolinea.
: % (3) Id., 126. E lo SCHILIER: «Che cosa erano le verità prima
p di venir scoperte?» La questione è oziosa, Se «vero» significa
«valutato da noi» è naturale che ogni verita diventa vera quando è
scoperta... Noi possiamo concepire tre stadi, mel LA processo della
verità: verità da venir fatta, verità diveniente, i verità fatta. Il
processo è unico e identico per tutte le verità a. _ Stud. in Huni. p.
195-199. i (4) JAMES. fui. SCHILLER, Stud, in Hum. p. 5. Non sono
que: Sei in fondo, che formazioni e syolgimenti del principio del
EIKCE. \ (5) È la prima definizione del Pragmatismo, secondo
lo. Schiller: «'The doctrine that lrw{hs are logical values» (Stud
in Hum.) p. 5. Me: ati t 44 vera
deve venir dichiarata e provata, e non si dichia- ra nè si prova che
nell'applicazione, nell'uso che 30. ne fa: la verità di un'asserzione
dipende dalle sue applicazioni (1). Le verità astralte, come tali,
non sono verità. Perfino le verità aritmetiche derivano il loro
esser vere dall'applicazione all'esperienza. Osservale per esempio
ll’ enunciazione astratta: 22=4. Esso è incompleta. Noi dobbiamo, prima
di aderirvi, conoscere a che cosa si applicano 2 e 4, poichè
l’enunciazione non sarebbe ugualmente vera applicata a due leoni e due
agnelli; a due piaceri e due dispiaceri, a due + due goccie d'acqua,
ecc. Così si dica delle verità tutte in generale (2). Vi sono
delle verità fuori d'uso, e vi sono delle verilà che chiedono d'essere
incarnate nella vita con- creta. Finchè non operano nel mondo della
esperien- za immediala sono ambigue (3); solo la potenza e le
conseguenze del loro operare le tolgono all’ambi- guilà mostrandole, con
la verificazione esperimenta- M le, vere o false. Le verità sono regole
per l'azione; ma una regola che rimane nei campi dell’astratto non
significa nulla, non regola nulla: il significato d'una legge sla nelle
sue applicazioni (4) ec ogni st gnificato dipende dal proposito (5), perchè
qualunque applicazione della verità all'esperienza è in istretta
connessione con qualche fine il quale determina ta natura dell'intero
esperimento. Per ragione della di- pendenza della logica dalla
psicologia, ogni signifi- (1) E la seconda definizione del
Pragmatismo (ivi p. 6). (2) Stud. in Hum. p. 9. ; Ria ioè:
sono in potenza alla verità € alla falsità. 0) mind di questo AT delle
idee astratte lo SCHILLER nana consacrato un saggio intero: il V (Stud.
in Hum): «The ambiguity of Trutn» p. 141-162. > (4) Secondo
ALFRED SinGWicK_ — seguito in questo dallo | ScuiLcer — le parole
sot.olincate contengono l'essenza del med todo |pragmatistico, e ne sono
la terza definizione (Stud. in Hum, p. 9). . , (5) Questa defin.
del Pragmatismo risulta dalle due PD denti. (Id., ibid.). ib
pi A 40 La teoria della verità e della realtà cato è
selettivo e teleologico: il giudizio logico è «va- lutazione » (1).
° Resta da rispondere alla seconda questione: « A qual parte
della nostra esperienza è. attaccata la ri- cognizione della verità? » i
Re: _Ciot: a che cosu riconosciamo o neghiamo noi 1l valore di
verità? Qualìi sono i principi direttivi nella valulazione della nostra
esperienza? È «vero» ciò che è praticamente buono, sta bene; ma che
cosa chiamiamo noi «praticamente buono?» (2). «La risposta a
quesla questione — dice lo Schiller — ci mette nel cuore siesso del
Pragmatismo, ci spiega in che senso il Pragmatismo professi di
avere un criterio di verità » (3). E la risposta non è diflì- cile.
Il nostro pensiero tende all’armonia e alla quic- te del pensiero, a
ridurre a sistema, con un lavoro di selezione guidala dall’interesse, il
complesso della esperienza, a coordinare, in visla d’un fine, tutti gli
elementi della vilu: quindi è vero, (cioè buono, il che è, per lo
Schiller lo stesso) «ciò che armonizza con le leggi proprie del pensiero
e con tulta la nostra esperienza anteriore » (4) e ci serve di base e di
cen- tro vitale per ulteriori esperienze. È vero ciò che ci fa
progredire. Il possesso della verità non è fine a sè stesso, ma mezzo per
la soddisfazione di qualche ne- cessità della vita (5). La verità non è
altro che la via, per la quale noi siamo condotti da un fram- mento
dell'esperienza ad allri frammenti che mette conto di far nostri (6). La
verità è una guida all’a- zione. Mettiamo ch'io mi trovi sperduto in una
selva în pericolo di morir di fame. Scopro qualche cosa che
assomiglia ad una strada, immagino in fondo ad Cssa una casa; mì melto in
viaggio e mi salvo. La (1) Stud, in Hum, Essay I e V, 9 e 154,
passim, (2) Id., ibid. (3) Id., ibid. (4)
IZumunism. Essay JII, p. 57. (5) JAMES, Op. €. VI, Vorl. 127.
(6) JAMES, Op. c. p. 128. 2° Il
Pragmatismo | I rappresentazione della casa è vera perchè è
verifi- \i cala dalla sua ulilità; mi salva facendomi prendere | la
strada che vi conduce (1). Questo semplice e per- | severante carattere
di « guida» che possiede e mo- | stra una rappresentazione è il vero
prototipo del pro- cesso della verità. È vera quando, finche-e in
quante | «conduce n: e si intende vera di
verità reale; poten- zialmente è vera la rappresentazione alla a condur-
_ ve, falsa la inutlu. ’lulto ciò sta bene. Ma un complesso
di valutazioni soggettive, individuali, che sono il prodotto di inte-
da ressi psicologici e mirano ad una soddisfazione s0g- — gettiva,
non può formare che un complesso di verità soggellive, individuali: la
mia esperienza è soltanto n la miu esperienza; le mie valutazioni sono soltanto
valulazioni mie: come si esce dal soggettivo? non x | siamo in pieno
«solipsismo? » (2) No — risponde lo eo Schiller. Nessun protagorcamisla
(umanista), facendo na dell'individuale il suo punto di partenza, intende
fili fermarvisi. Egli sa che 1 giudizi individuali non sono
che una piccola percentuale di quelli riconusciuti come vulidi. Sa
che l'uomo è un animale sociale e che la verità è in gran parle un
prodotto sociale. La verità non ‘si salva finche rimane pura valutazione
individuale: Ra. bisogno di una ricognizione sociale, deve
trasformar- si in proprietà comune, E diventa sociale appunto per
lu sua utilità ed efficienza. Come nell’individuo 3
(1) 10, p. 19). — Anche lo ScuiLLer parla spesso della «con: duciveness a
«proprietà di condurre», come di un criterio di Verità, Le «conseguenze
pratiche» non sarebbero in fondo, che questo « Hinfùhren» che permette
poi uni specie di «previ-. sione » di cio che è utile, Cf, a questo
proposito: «La previ- stone nella teorin dellu conoscenza » (rinnovamento
A. I, Fa- ‘scicolo II, 1907) CALDERUNI. Vi.Si dice tra l'altro: «
Per conseguenze pratiche» vanno intese le esperienze particolari
‘che la dottrina o l'affermazione in questione permette di pre- «vedere»
p. 191. «Esperienze che costituiscono il criterio non | solo della
verità e della falsità ecc...» Id., ivid. -& (2) Del «solipsismo» lo
SCMILLER si occupa nel X Essay (Stud. in Hum.) « Absolutism and
Solipsism» 258-265. Per | questione se «l'empirismo radicale» sia
«solipsistico» ctr ournal of Philosophy, vol. II, N. V e IX.
li 42 La leoria della verità e della realtà Îl
criterio dell'uso, della ulilità regola Ie valutazioni soggellive, consolida
e subordina i vari interessi ai fini principali delia vila, così lo
stesso criterio (del- lVuso) fa una selezione lra le valutazioni
individuali e cosfruisce, con maleriale delle valutazioni scelle,
la verità oggelliva che ottiene la ricognizione sociale. Ciò che non è
socialmente ulile, elliciente, operativo, presto o lairdi viene
eliminato. L'utilità sociale è così l'ultimo delerminante della verità
(1). Protagora ha detlo: «L'uomo è la misura delle cose ». 1
commen- latori sì domandano: uomo si deve intendere in sen- so
individualislico 0 generico? Tutte e due le inter- pretazioni sono esatte
— dice lo Schiller. L'umani smo di Proiagora era abbastanza vasto per
esten- dersi all'uomo individuale e agli uomini (2), Egli ri-
conosce dolie distinzioni di valore fra le diverse per- cezioni
individuali (3): fra i giudizi di valore indivi- duali si stabilisce una
selezione dei migliori, che so- pravvivono agli altri e si consolidano in
grandi siste- mi di verilà oggellive accettabili da tutti (4). Ed
ora SI capisce anche come la verità è fatta (how truth is made),
«come viene prodotla dalle nostre operazioni sui dali dell'esperienza
umana. La conoscenza. cr'e- sce in estensione e in fidalezza
(trustwartiness) per la fecondità e la buona riuscita del suo
funzionamento, per l'assimilazione e incorporazione di nuovo mate-
riale da parte dei complessi organici preesistenti di cognizioni. I
sistemi (come organismi viventi) sono Im un conlinuo processo di «
auloverificazione » di (1) Humanism. Essay l1I, p. 58-50.
(2) «His Humanism Was Wide enough to em and men», Stud, in Hum., Ess. JI
DI 34. RIS a (2) Nel Teeteto (16G-S) di Platone sì fa dire a
Protagora che, se le percezioni di uno non possono essere più vere di
cuelle MATA AliTo possono, però est NOLOrI, Sopra il giudizio di mo
ignorante o rdinario sta È saggio. Cfr.: Stud. in Hum. p° 35, sgg. melo
ASI LUoO (4) Humanism, p. 59: «Fra due teorie rivili noi
accettiamo come vera la migliore, quella che possiede «greater
conduci- Veness». Con questo criterio (sclusivamente sì C
astronomia copernicana, così semplice troppo complessi. (Id.,
ibid.) Il Pragmatismo 49 prova della
propria validità dalle conseguenze e dal potere di assimilare, predire,
controllare fatti nuo- vi (1). Ma, a simiglianza di quanto avviene nel
pro- cesso biologico, così anche qui assimilare significa
transformare. Le verità preesistenti, alla luce delle nuove, per la
compenelrazione delle nuove, assu- mono un aspetto dillerente e cambiano
in realtà, in- Irinsecamente poichè diventano più operalive ed
effi- cienli in causa della loro maggior coerenza ed orga-
nizzazione; ci conducono meglio ai nostri fini, acqui- slano maggior
capaciià di armonizzare le esperienze future in reiazione a noi, al
nostro interesse e ai nostri desideri (2). In realtà siamo noi che
facciamo la verità. Dipende da noi l’accettare o il respingere
falli nuovi, muove esperienze: il fattore della sele- ‘zione, è il
nostro interesse, è la loro utilità rispetto a noi. È questo
processo di fare la verità è continuo, progressivo e cumulativo. La
soddisfazione di un intento conoscitivo conduce alla formulazione di
un altro; una verità nuova diventa presupposizione di
ulteriori imdagini (3). I così all’indefinito: la conqui- sla
della verita assoluta, cioè della verità adeguata ad ognì fine umano non
è che un ideale, com'è pura: mente ideale la verità stabile, immutabile,
eterna (4). Ogni verilà può esser mulala da una nuova espe- rienza.
La Verità non esiste: esistono le verità. « La Verità con leltera
maiuscola è un mito. In realtà esi- stono nel mondo umano soltanto
le verità, altrettante quanti sono gli: uomini, cioè le rappresentazioni
e le affermazioni praliche di cose che non sono, ma di-
vengono, e divengono per il polere che l'io esercita su di esse, lanto
più eflicace, quanto più, con l’azione esso passa dall'incosciente
al consapevole ed al ri- liesso (5). 4 (1) Stud. in Iuni.,
«The Making of Truth», VII Ess. 194-195. (2) Id,, ibid. 23,
(3) «A new truth, when established, naturally becomes ti e
presupposition of SUECASE, SSDIora Ono (Id. ibid.) E, 4)Id,, Ess.
VIII, par. 8, Pp. | ILEN a GIULIO VITALI, Note pragmatistiche. (Rassegna
Nazio ita le, 18 Dicembre ‘1906, p. 646, S6g.). de
4h La leorìa della verità e della realtà
Qual'è dunque il senso accettabile della nola defi- nizione della verilà:
«accordo con l'oggelto, con lu realtà? » «La parola accordo — dice James
(1) — comprende ogni processo mediante il quale da una
tappresenlazione alluale siamo condotti ad un avve- himento fuluro corrispondente
ai nostri interessi v bisogni, cioè utile alla nostra progressiva
evoluzio- ue» (#). IL nostro dovere, poi, di cercare e di ricono-
scere la verilà non è che una parte del dovere ge- herale di cercare e di
riconoscere ciò che torna conto. Il tornaconto, contenuto nelle idec, è
l’unica ragione che ci obbliga di allenerci ad esse» 3). k lo
Schiller: «La risposla alla questione » Che cos'è la verità? è la
seguente: se si ha di mira il fallo psichico della verilà-valutazione, là
verilà può definirsi: «la fun- zione finale (ullimate) della nostra
allività infellel- liva; se si ha riguardo agli oggetti valutati
come Veri essa è: quella manipolazione di essi che lì rende Utili
primariamente ad ogni fine umano, ultimamen- le allu perfetta armonia
della nostra vita intera che cosliluisce Ja nostra uspirazione finale »
(4). $ 3. — La dottrina della realtà è affine a quella della
verità anzi S’identifica, ìn un certo senso, con essa. ll principio
umanistico di Prolagora è universale: umano genera e informa lutto ciò
che è; anzi...j ma uscolliamo i due leaders del Pragmatismo.
Il Pragmalismo segua un passo in avanli nell'a- niutusi della
nostra esperienza è, quindi, un prog) sso ln quella cognizione di noi
stessi dalla quale dipende. li-cognizione del mondo. ‘ale passo in avanti
non è Ineno imporlanie di Quello che, nella storia della fi-
losofia, ha fatto compiere alla questione cpistemolo- logica la priorità
sulla questione ontologica (5). (1)-1d., {bid., Vorles, VI, p. 135-136.
(2) Id., ibid. e passim in tutta la medesima lezione. ° (5) «Das
Lolnende, das unsere wahren Ideen enthalten, ist ner DES Grund, der uns
verpflichtet uns an sie zu halten» (4) SCHILLER, Humanism
» III, p. 60-61. (5) Id., Ibid., p. 85. :
<> at loin | + cat
” Il Pragmatismo : 45 Che cos'è la
realtà? Così, cioè in lermini ontolo- gici, era posta ia questione fino a
Kant, Ebbene, fino a tanto che non si melle in chiaro come la
realtà possa venire in noi, è impossibile qualsiasi risposta alla
questione; non esisfe, per noi, nessun reale se non in quanto è
conosebile; una realtà inaccessibiie alla nostra cognizione è inutile e
quindi si distrugge. Perciò la vera formazione del problema metafisico
è questa: Che cosu posso io conoscere comc reale? (1). La dollrina
della reallà è condizionala dalla dottrina della conoscenza; la ontologia
suppone come fonda- mento la epistemologia: ecco quella che Kant
chia- mava: «la rivoluzione copernicana in filosofia ».
Orbene, una rivoluzione copernicana compie ora il Pragmalismo
rispello alla formula epistemologica. lisso dice: ta nostra conoscenza
non è una operazio- ne meccanica di intelletto puro. spassionato: i
nostri interessi ci impongono le condizioni del rivelarsi a noi
delle reallà. Questa, infalli, ci rivela soltanto quegli aspelli che sono
termine di un nostro deside- rio attuale, di una tendenza a conoscere:
tutti gli altri sono per noi inconoscibili e quindi irreali (2).
(1) Id., Ibhid., p. 9 (2) Il BERGSON +- il rappresentante,
in Francia, della Philo- sophie nouvelle — scrive: «La vita esige che noi
apprendiamo le cose nel rapporto che hanno coi nostri bisogni. Vivere
con- siste nell'agire. Vivere significa accettare degli oggetti
sol- tanto l'impressione wfile », Ze Itire, Paris, Altan 1908, «
Noi cerchiamo fino a qual punto l'oggetto da conoscere è questo o
queto, in qual genere noto rientra, e quale specie di azione 0 di
attitudine dovrebbe suggerirei (Introduction a ta Méta- pliysigue). Cfr.
anche La cultura dell'anima, Vol. 8. ENRICO RerGSON: Lu filosofia
dell'intuizione, trad. del PAPINI, p. 43. Il Bergson è pragmatista?
Risponda lui stesso: « Bisogna distinguere due maniere profondamente
differenti di conoscere una cosa... la prima si ferma al relativo,
l'altra ragglunge l'assoluto...; quella è l’analisi, la cognizione per
simboli, per concetti, condannata ad aggirarsi unicamente intorno
all'og: getto...; questa è la intuizione, ossia quella specie di
simpatia intellettuale per cui ci si trasporta nell'interno d'un oggetto
| per coincidere con ciò che ha di unico e per conseguenzi
d'inesprimibile; con l'assoluto »... «La prima nasce dalle esi- genze
della vila pratica e non è filosofica, ma empirica: lil seconda nasce
dall’affrancamento dagli schemi pratici, dal concetti-ctichette ed è
quella per cui è possibile la vera meta- 46 La teoria della verità
e della realtà Non cè reale per noi, cioè non è conoscibile, se
non ciò che è oggetto di una nostra tendenza, di un no- stro
desiderio e volere; e non si desidera, non sl vuole che il bene. Dal che
si inferisce: nè la questio. «me di fatto (ontologica), nè la questione
di conoscen- 3a (cpislemologica) sono possibili a considerarsi in-
— (ipendentemente e senza coinvolgere come loro base la questione di
valore (psicologico-etica) (1). Le nostre | valutazioni pervadono la
nostra esperienza tulla «quanta e si applicano ad ogni falto, ad ogni
cogni- zione. Perciò la verità della formulazione epistema- logica
del problema della realtà è incompleta finchè «non realizza, tutto quello
che è implicito nella cogni- zione nostra: cioè il desiderio, la
tendenza, l’inte- SEEGS 3 La completa il Pragmatismo così: Che
cos'è la realtà per uno che aspira a conoscerla? «Reale» si-
gnifica: reale per qual proposito? per qual fine? per qual uso? (2). È la
«volontà di conoscere » che pons la questione e quindi non potrà venir
risolta che in termini della volontà di conoscere (3). Ecco la
spie- | gazione. della diversità di dottrine che intorno al «reale»
ci hanno dato le scienze e le filosofie. La di- x rezione della sforzo
determinata dalla «volontà di * conoscere» entra come fattore necessario
e isradica- IN Di ar v
fisica, cioè la cognizione dell'assoluto » (Ibid.} passim). E an- cora:
«Il faut s'habituer à penser l’'Étre directement, sans faire un détour..
Il faut tAcher ici de voir pour voir er non plus de vor pour agire.
(L'Evolutlon creatrice, p. 323). JI Bergson riedifica sulla
intuizione il tempio dell'Assoluto che prima aveva fatto crollare
dimostrando l'inanità dell'ana- list, della cognizione per idee astratte.
Poco importa che non ci sia riuscito. (Cfr.; La filosofia di Enrico
Bergson di Gius. PREZZOLINI, Rocca S. Casciano, Cappelli 1908; ATTOTTA,
L'intui- zionismo contro la filosofia, La Cult. Filos., A. TIT, N. TIT
ecc...) La distinzione delle due differenti maniere di conoscere;
in- tuitiva (metempirica) e analitica (empirica) spiega l'apparente
inconciliabilità dei passi citati e d'altri ancora, (1) Z/umanism,
I, p. 9-10. (2) Id., Ibil. (3)... the answer... comes in
terms of the will to know which puts the question» Ibid., p. il.
Il Pragmatismo urti . bile (ineradicable) in
ogni rivelazione della realtà a nol. i La risposta alle
nostre questioni dipende dal loro carattere, ma questo dipende in tutto
da noi. Siamo noi che le poniamo così e così; l'iniziativa è del
tutto nostra. Dipende da noi il consultare l'oracolo della nalura o
l'astenercene; dipende da noi il formulare le nostre domande alla natura.
Se la domanda è falla bene la nalura risponderà; se è fatta male
non risponderà, e noi dobbiamo ritentare la prova (1).
ci Che cos'è dunque la realtà? Procediamo -con or- dine.
Vediamo prima di lutto quali caratteristiche at- « lribuiscano alla
realtà le scienze. . Scienlificamente, cioè, in quanto entra ed è
trattata nelle scienze, la realtà presenta i seguenti
caratteri: a) non è rigida, ma plastica e capace di
sviluppo. h) non è reale assolutamente e incondizionatamen-
le, ma relaliva alla nostra esperienza e dipendente dallo stato della
nostra cognizione. 7.6) La concezione che noi abbiamo della realtà
cam- bia e perciò: d) riduce spesso all'irreale ciò che è
slato accettalo lungo fempo come reale. e) Una
«realtà iniziale» (come una «verità ini- ziale») è reclamala da ogni cosa
sperimentabile: è necessario, CENCI un principio selellivo che ci
serva come di criterio a distinguere fra «realtà iniziale » e
«realtà reale » (2). (1) «M vecchio oracolo ammonisce: ogni cosa
ha due ma- Michi: bada di prendere quello giusto ». Emerson,
American È Scholar. Rinn. A. (T. Fase. IT, Magia PEZZÈ PASCOLATO. « La
natu- ta, quindi non risponde sempre, a nostro piacere :... «
Natura Mon nisi parendo vincitur», ha seritto Bacone ». Si noti
bene Questa confessione dei pragmatisti: vedremo poi se è in
corri. spondenza con altre loro asserzioni. (2)
SCHILLER. Stud. in Hum. Essay VIII, p. 214. Vedremo tto Ja differenza fra
realtà «iniziale» (primaria) e realtà reale». : VELA
i 48 La teoria della verità e della realtà
Contro la dottrina scientifica il Razionalismo af- ferma: «La
reallà è immutabile, è finita e completa . da tutta VPeternità
(1). Essa è una perehè ha un fine uno, forma un sistema, narra
un'unica storia (2). La nostra esperienza della realtà è mulevole
come la nostra cognizione della verità, non perchè verità e realtà
divengano, mutino, ma perchè la esperienza dell'una e la cognizione
dell'altra sono processi psi- chici: siamo noi che mutiamo 0). Verilà e
Realtà sono indipendenti da noi: noi le scopriamo, cono- scendo,
non le fucciamo. La realtà è-stalica, rigida, uon migliorabile; è e sarà
quello che è stata; non diviene 4). Il Pragmatismo si pone
dal punlo di vista delle scienze. Per csso la reallà assoluta è futile e
dan- nosu come la verilà assoluta per le medesime ra- gioni. Lu
concezione della realtà assoluta non entra nelia nostra cognizione
attuale della realtà (5); non e conoscibile, il che è quanto dire: non
esiste. Non esiste la realtà: csistono le realtà; cioè le nostre
esperienze, che crescono e decrescono. Fingiamo che le realtà ora
conosciute e accetlate siano un milione : tsse non esauriscono
tulle ie possibilità dell'univer- SO: VI possono esistere accanto ad esse
allri dieci milioni, capaci di essere scoperti e riconosciuti-come
lalî se noi applichiamo certi esperimenti che sono in mostro potere:
molle realtà in potenza, cioè irreali, al presente, possono venir realizzale
dai nostri sfor- zi E viceversa: molle delle realtà conosciute pos-
sono benissimo, prima 0 poi, essere dichiarate ir- leali e rigellale
(6). Non v'è nulla di assolutamente posto. La realtà come la
verità, diviene senza posa (7). La natura (1) James, #0id., VI,
Vorl. p. 143 (2) Id., ibid., IV Vorl, p. ot. (3) Id.,
ibid., D.. 143. (4) Id., tbid., passim. (5) SCHILLER.
Stud. in Juri, VITI D. 219, (6) Stud. in Mum., p. 218. (7)
1d., ibid. È lui che sottolinea. iii - —
—_ _—_ Sali I Il Pragmatismo 49
delle cose non è delerminata ma determinabile come quella dei
nostri simili. Prima del nostro esperimento su di essa è indeterminata
non solo per la nostra ignoranza (soggettivamente), ma da ogni punto
di vista, cioè anche realmente (oggellivamente); si de- termina
sotto i nostri esperimenti come il carattere umano. La nozione del «fatto
in sè », come quella della «cosa in sè, è un anacronismo filosofico
(1). Noi chiediamo allo Schiller: su che cosa facciamo i nostri
esperimenti se la reallà non c'è e se è di pendente da noi?
Schiller risponde: Noi ammelliamo bene, a guisa di postulato, una
base iniziale di fallo, come condi- zione dei nostri esperimenti (2), ma
quesla prima base è affatto indelerminala e plaslica: può diven-
lare tullo quello che nvi vogliamo che essa diven- li {8). Fra le
infinile possibilità noi possiamo sce- gliere e realizzare la migliore
(4). Noi chiediamo ancora: «qual'è la natura delia realtà
iniziale prima, della base di fatto dei nostri esperimenti? »
E come può ammetterla il Pragmatismo se essa sfugge alla nostra
esperienza, se non è conoscibile?» Schiller risponde: «La
difficoltà di concepire nel Pragmalismo l’accellazione del falto come
base non dev essere traltala come obbiezione ai metodo prag=*
matico, ma come un mezzo per mettere in rilievo lulto il suo
significato. Dalla pertrallazione di essa potrebbe ricever
luce la distinzione importante tra realtà che è «fatta» soltanto
per noi, soggettivamente, cioè «scoperta », e ciò che noi supponiamo che
venga «fatto » real (1) Humanism, p. 12 in nota (2) Stud. in
Mum. vp. 428-XIX. x - (8) EMERSON scrive: «Com'era
plastico e fluido nella mano di Dio, così Il mondo è in mano
nostra». Queste parole sem: brano un commento alle parole dello Schiller:
« Noi possiamo quanto può Dio nello schema intellettualistico di
Leibniz». «E il nostro dovere e il nostro privilegio di cooperare nella
formazione del inondo », ibid. (4) Stud. in Hum. mente, oggettivamente,
in sè (I). Che noi facciamo tale dislinzione è chiaro, ma perchè la
facciamo? Se tanto ìl soggettivo come l’oggellivo « facimento della
rcalla» {making of reality) sono il prodotto dello slesso processo
cognoscitivo, sotto l'impulso degli sforzi soggellivi, come può sorgere o
mantenersi, da ullimo, quella distinzione? Ebbene: anzi tutto è
chia- «ro che l'accellazione del metodo pragmatico nè ci
; costringe ad ignorare quella distinzione, nè ad affer- i
mare «the making of reality » in senso oggettivo. Sia È può
benissimo concepire quel facimento come pura- | mente soggettivo, solo in
rapporto alla nostra co- quizione della realtà e punto in relazione alla
sua esistenza abituale. Il Pragmatismo non fa della me- lafisica,
ma della epistemologia: si può essere prag- mualisli in epistemologia e
realisti in metafisica (2). Sia che si ammetta, sia che si neghi che la
realtà è fatta da noi anche oggettivamente resta sempre vero che sono
necessari i nostri sforzi per iscoprire la _‘—‘vcealtà, che i
nostri desideri, i nostri interessi deb- è bono anticipare le
nostre «scoperte» e farci la via id esse e che, perciò, la nostra
concezione del mondo .clipende sempre dalla nostra selezione soggettiva
di Giò che cì inleressa di scoprire nella tolaliltà dell’esi-
stenza (3). } .__,Noicì proponiamo i nostri fini, noi
scegliamo i no- Sti mezzi; noi foggiamo «cause» ed «effetti» nel
Jlusso omogenco degli eventi (4). Per noi la realtà iniziale è pura
potenzialità, come la. verità iniziale è «Je» {materia prima) di
tullo | ciò che è deslinalo a diventar reale (5). È un concetto
# Ride: un: punlo, di appoggio, e di partenza delia ; U.C0E
e; è la possibilità indeterminata di __ lutto cio che sarà, di
lutto ciò che noi facciamo, co- nuscendo: ogni realtà attualmente
riconosciuta si () Id., ivu., p. 428, XIX Gi (2) Id., ibd.,
p. 42) «in nota», (3) Id., 40id., p. 499-XIX «in nota», i) Jd,
ibid, IN p. 299. (9) Jd., ibid., XIX p. 222. (6) Ia., ibia.,
p, 12 in nota, È Il Pragmatismo 51 deve concepire
come evoluta dal processo e nel pro: cesso conoscitivo nel quale ora la
osserviamo e come destinata ad avere una storia (1). Per la teoria
prag- inalica della conoscenza i principî iniziali sono lel-
teralmente dei semplici termini @ quo, scelti varia- mente,
arbilrariamente, casualmente, nella speran- sa e nel tentativo di
avanzare verso qualche cosa di meglio (2). lullo ciò che è, è
reale. Bisogna distinguere fra vealtà «primaria» (primary reality) e
reallà reale (real realtty). La realtà primaria è semplice domanda
di divenir reale: è la realtà non veryicata © com- pele anche alle
«apparenze ». Non c'è distinzione nè criterio di distinzione a priori fra
apparenza e realtà. La distinzione sorge soltanto quando la mente,
mos- sa dall'interesse, dal desiderio di operare su di essa passa a
controllarla (3). La reallà «primaria » che ri- sponde alle noslre
domande interessate diventa real- la «reale»; quella che non risponde ad
esse si ma- nifesta come apparenza. La realtà «reale» non è che la
realtà primaria passata a traverso il fuoco del criticismo esperimentale
e promossa a un grado su- periore (i). I poiche gli interessi crescono. e
variano continuamente e i propositi sono continuamente dif-
terenziati, anche la realtà « reale » cresce in comples- stla, viene
dillerenziala in serie, le serie si ordinano in sistemi, i sistemi
vengono coordinati e- subordi- nati fva loro (5). E così
all'inciciimto. Il processo della nostra co-, suizione della realtà (=
della nostra creazione delle reullà) si estende dal caos assoluto fino
alla saddi- sfuzione assoluta (6). (1} 14. td. (2)
ju., tbid., p. 439. (3) Id., IX, p. 233-234, «Watever is, is
«real» ls what we begin with,.. (4) Id., p. 244... «real»
reality which has survived the fire of criticism and been promoted
to superior rank. - Le conse- % | guenze provano la realtà come provano e
fanno la verità, (6) Id., ebid., VIII 221.
SCART ROTA À ge 52 La teoria della verità e
della realtà La realtà è plastica. Forse (1) la lasticilà del
reale dipende (anche) da una vena di indeterminazione, di libertà
che corre per l'universo: questo giustifica il nostro trattamento delle
idee come di forze reali e Passerzione cho il nostro fare la verilà è
necessarla- menle il /ure ia realtà (2). Conoscendo facciamo la
verità e la realtà. Neila elaborazione connoscitiva. della nostra
esperienza «reallà» e «verità» cresco- no pari pussu (3). Realtà
significa « realtà per noi» precisamente come verità è «verità per nol».
Noi assumiamo come «reale» e accettiamo come « fatto » ciò che
giudichiamo come « Vero » (4). E il vero è il bene, l'ulile; l'elica,
dunque, è la base della me- lafisica e della logica. È il
James: « Keallà è ciò di cui le nostre verità debbono dar ragione,
debbono controllare. Da que- slo punto di visla la corrente delle nostre
sensazio- ni costituisce la prima parte della realtà. Esse ci sono
imposte, ci vengono non si sa donde. Non ab- biamo nessun controllo sulla
loro natura, sul loro ordine e sulla loro quantità (5). Esse non sono
nè vere nè false, ma semplicemente sono. Sollanto ciù che noi
diciamo di esse, i nomi che diamo loro, le teorie intorno alla loro
natura, al loro essere, ai loro rapporti possono essere veri o
falsi. Il secondo elemento della realtà è costituito dai
rapporli tra le sensazioni e le immagini loro nella 4 (1) Siamo in
piena metafisica e come! Non solo la livertà è nel reale ina anche la
cognizione. « L'usare e l'essere usato implicano «conoscere a cd cssere
conosciuto («to use and to be used includes to know and to be know»). La
nozione della « materia » morta... non trova più favore nella scienza
mo: derna » — «Bul is not this sheer hylozolsm?2 Non importa:
l'umanismo è largo: non indietreggia davanti alle parole « ilo- zoisino »
0 « panpsichismo » posto cne siano utili alla interpre- tazione del basso
(inferiore) in termini del superiore, « Sebbene non sia che un metodo,
tuttavia esso inclina a questa 0 & quella metafisica secondo che
meglio corrisponde a’ suoi ca- noni fondamentali ». -— Stud, in Hun, p.
422-4na. (2) Id., p. 427. (3) Id., p. 426.
(4) Id., 20i4, (5) JAMES, iUid., Vorl. VII, p. 155. vr
arde è RS | eee VI Il Pragmatismo
nostra coscienza. Di essi alcuni sono variabili e ac- cidentali; p. es.
quelli di spazio e di tempo, altri sono sempre uguali a sè slessi ed
essenziali perchè si fon- dano sulla intima natura degli oggetti
corrispon- denti. Gli uni c gli altri di questi rapporli vengono
perce- pili immedialamente: sono «falli ». Tultavia la spe-
cie di falli più importanti per la teoria della cono- Fi scenza è
l'ullima, perchè comprende le relazioni e- sas terne, le quali vengono
apprese ogniqualvolta gli Da i oggelli sensibili sono messi in rapporto
fra loro e | debbono essere sempre riconosciute dal pensiero lo- e
> gico-matematico. : Il ferzo elemento della realtà
consta delle verità È antecedenti che debbono esser prese in
considerazio- es ne in ogni nuova ricerca: questo elemento ci
oppone | molto minore resistenza degli altri due: finisce
quasi ty sempre col cederci il passo (1). i Ora, sebbene questi
elementi della realtà siano un po’ fissi, tuttavia, operando in
essi godiamo di una cerla libertà. Le sensazioni, p. es., sono, è vero;
il loro essere non dipende da noi; però dipende da noi, dal nostro
interesse di rivolgere l’attenzione a que- ste più tosto che a quelle;
dipende da noi di tener + a conto di alcune e di tralasciare le altre;
dipende da noi di dare, nei nostri giudizi, una importanza de- +
cisiva alle prime 0 alle seconde (2). LS Noi leggiamo le stesse cose
diversamente secondo il punto di vista da cui le guardiamo. La
battaglia di Waterloo è considerata come riltoria da un ingle- ‘se,
come sconfitta da un francese. Così l’ottimista. legge nell'universo la
parola « vittoria», il pessimi. (1) Id., îbid, Come? tra le verità
antecedenti vi sono ancl le relazioni elerne fondate sull'intima struttura
dell'oggett mi cedono il passe anche queste? Ma il loro valore non è
i discutibile? non formano esse la struttura del nostro pensiero?
‘Non deve riconoscerle sempre il pensiero logico-matematico? À parte
questa incoerenza, è certo che il James non sl pre «senta con le audacie
quasi spavalde dello Schiller: a vol sembra di trovarsi,
leggendolo, davauti a un realista e intel | lettualista autentico. Cfr. «
Revue Néo-Scholastiguev, Vol. 15, «Bulletin d’Epistemologie » p. 278-298.
= (2) James, î'2d., p. 156,
pers i: La teoria della verità e della realtà
È, sta la parola «sconfitta». «La esistenza della real-
© tà appartiene (ad essa) ma il contenuto suo di- pende dalla
nostra scelta, e la scelta dipende da | noi» (1). La realtà è muta.
Le sensazioni dei rap- (SAh porli loro non ci dicono niente intorno
alla propria natura: siamo noì che parliamo per loro. Noi rice-
2 viamo il blocco di marmo, ma siamo noi che vi scol- piamo
la statua. Giò vale anche per le parli « eterne » della reallà. Noi
scompigliamo le nostre percezioni Mei rapporli inlrinseci e le
ordiniamo a nostro pia- . cere; le classifichiamo in serie, le
raggruppiamo in classi, consideriamo ora l'una ora l’altra come
fon- damentale, finehè le nostre credenze formino quei sistemi di
verilà che conosciamo solto il nome di lo- gica, di geometria, di
aritmetica. Im ognuno di quesli ‘sistemi la forma e l'ordine è
evidentemente opera (umana (2). È difficile parlare di una realtà
indipen- «| ‘dente dal nostro pensiero. Essa si riduce al
concetto di ciò che è già nel campo dell’esperienza, ma non è
| @ncora denominato, oppure all'assolutamente mulo, o a, un
limite puramente immaginario della nostra coscienza (3). Ad ogni
modo è inaccessibile, inaffer- | rabile: quando crediamo d’'averla
còlla noi ci tro- viamo lra Je mani un semplice surrogato, una
crea- . lura del pensiero umano anteriore che ce l'ha rega-
lala per il noslro uso e consumo (4). La corrente delle
sensazioni c'è, chi lo nega? Ma ciò che noi di- ciamo di quel
flusso è creazione nostra dal principio sino alla fine. Noi
condensiamo la corrente plastica | în cose, a nostro capriccio: noi
creiamo i soggetti e 1 predicali*dei nostri giudizi veri e falsi:
tutto cià «che è, è frutto della nostra elaborazione. «Il
mondo «| non è — come vogliono i razionalisti — l'edizione in
(1 1a. dbig. « Die Existenz der Wirklichkeit gehòrt ihr,
aber hr Inhalt hingt von der Auswal ‘ RO vahl, und die
Auswahl hangt (8) 1d., p. 159. | (a) Ia., ivia.
Il Pragmutismo 56 folio infinita, l'edizione di lusso
elernamente com- plota che le coscienze individuali non riescono a
de- cifrare nella sua interezza e rifanno in lante piccole edizioni
finite, piene di errori di stampa, più o meno deformate e mutilate; ma è
un’edizione non ancora perfetta, che viene completandosi a poco a poco
spe- cialmenle per l’attività degli esserì pensanti » (1). E questi
la stampano nelle loro edizioni; la plasmano nei loro schemi
connoscitivi, in mille modi diversi, secondo i loro diversi fini. E quei
modi son lutti veri, hanno tutti lo slesso valore di verità se
rispondono al fine per il quale furono elaborati. L'anatomico con-
sidera l'individuo come un organismo: la sua realtà sono i suoi
organi ; l'istologo vede in esso un comples- È so di cellule, il chimico
un insieme di molecole (2). Il n numero 27 si può considerare come
la terza potenza di 3, come il prodotto di 3 e 9; come la somma di
26 + 1, come 100 — 73, ecc. ecc. Noi siamo creatori nel 0, conoscere come
nell’operare. Il mondo aspetta la sua forma _finale dalle nostre mani,
Così il Pragmatismo apre nuovi orizzonti alla forza divino-creatrice
del- Puomo (3); così il pensatore è rivestito di dignità
LI nuova piena di responsabilità. 6 i Noi «solleviamo ad
altezze nuove la realtà pree- » sistente » se sappiamo credere, agire,
lottare: la fede ci fa salvi, ci porla alla conquista
dell'universo, ul niglioramento progressive della realtà (4) La no:
stra sorle è nelle nostre mani! Lungi da noi il fata- lismo, il
quielismo, l’indifferentismo: la vita è un ar: cobaleno: vi troviamo
tutti i colori, a nostro grado: la noslra azione ve li crea (9). a
VP | (1) 10. ibid., pi 165... Cfr.: La cultura filosofica,
N. 2, Pi 124, > dove ho tolta la traduzione delle parole qui
citate. i (2) Id., p. 161-161; passim. Ù (8) La frase
è del PAPINI, «der Fiihrer der italienischen V80 Pragmatisten » come lo
chiama il JAMES, ibid., p. 104. NP». int (4) Le parole sono prese
dall'EuckeN ima non si ha alcuna e) citazione di opera; EUCKEN parla di
una « Erhohung des vorge- i fundenen Dascins » -- p, 163.
ine. (5), James, p. 170 sgg. SCHILLER: «like a rainbow Life
glitters ti în all the colours». /fum, 16, \?, uindi, o
uomini, imparale a conoscere voi stes- vi consapevoli delle vostre
vocazioni; in- allargate le vostre finalità: sollevatevi i |
dominazione in dominazione; sappiate volere e sappiate creder?, cioè
uermare con tutto il vostro essere che le cuse stanno realmente come voi
le po- ele, © le cose vi ubbidiranno, e la fede \} farà salvi, ioè
vi permetterà di conseguire i. fini della vostra esistenza. Sappiate che
dopo lutto la verità non esi- ste in sè; ma parlate, pensale, agile come
se real ente fosse tal quale voi la vedete, voi non servi, na
padroni suoi © suoi fallori» (1). ‘Questa è lu dottrina della
realtà sostenuta dal agmalismo. INI. LA
RELIGIONE ‘NEL PRAGMATISMO “Sommario: x l. Le
preoccupazioni etiche e religiose. — $ 2. L'esistenza di Dio. — $ 3. Il
concetto di Dio. — \ 4. Religione e religioni. g. 1. —
Esporre con una certa ampiezza le dottrine pragmaliste, senza fare un
posto speciale al modo con cui in esse sono presenlali e risolti i
problemi religiosi, sarebbe una mancanza grave. — Chi ha
studiato o lello con amore, le opere — al meno le principali — dello
Schiller e del James, sa “che, allraverso ad esse, si sentono passare,
come n fremito, più o meno distintamente, due preoccu- | pazioni;
luna, più generale, che tulto pervade, tulto “colora, tulto fondamenla:
la preoccupazione etica: l’altra, più speciale, che nasce dalla prima
come condizione necessaria o postulato del coronamento dei valori e
delle esigenze eliche: la preoccupazione — religiosa (I). È
vero che questa (la religiosa) nello Schiller non è così intensa e così
manifesta come nel James; lo (1) Per questo io credo che, se si
può e si deve parlare di nn pragmatismo religioso (e così pure di uno
epistemologico, metafisico ed estetico) come di un complesso di
applicazioni del principio del Peirce alla religione (alla metafisica
cecc.), non si può invece parlare di un pragmatismo etico, come di
lina specie 0 soltospeci® del pragmatismo: Tutto il pragma- ismo è etico:
l'etica è alla base della epistemologia, della me- a Lab della SESLIgione
°, della IOICUCE Di quest'ultima non È ames e Jo Schiller non se ne son Ù
A articolare, Il non ne sono occupati 5
0 58 La Religione nel Pragmatismo Schiller —
il véro filosofo del pragmatismo, sebbene meno popolare del James — ha
lavorato sopratlulta a stabilire e consolidare la base stessa
dell’edificio: il carattere, cioè feleologico-morale di ogni nostra
at- tività e di ogni prodotto dell’altività umana: tutta- via sono
numerosi i saggi nei quali egli si occupa ex-professo, più o meno
largamente della religione, V, e da per tulto si sente che per lui la
religione vale. - Del resto: non ci dice lui stesso, espressamente,
che il pragmatismo «non è soltanto un movimento che riguarda un
insieme di dottrine tecniche intorno al 7 problema della conoscenza, ma
anche un tentativo di determinare i rapporti tra «fede, ragione e
reli . gione?» (1). Quanto ai James è nolo — per la sua
stessa con- fessione — che la prima applicazione da lui falla del
principio del Peirce fu un'applicazione ai problemi KS. religiosi
(2). Ed è noto del pari che, dal giorno del ; suo primo discorso
pragmatista all'Università di Ca- È lifornia (1898) fino all'opera:
« A _Pluratistic Univer- | Sen, attraverso la «Volontà di credere», « Le varie
forme dell'esperienza religiosa» e «Pragmatism », lulte le volte che gli
si presentò l'occasione, ha posto \ e risollo, a modo suo, i più
fondamentali tra i pro- i blemi della religione. Il James fu un? anima
carat- - leristicamente religiosa. Dice di lui il Boutroux: :
«Egli ebbe da suo padre una tenerezza intima per il inisticismo
del grande pensalore svedese Swe- dlenborg, il principio del quale era la
relazione tra’ gli esseri terrestri e le potenze spirituali. Questa
«dottrina Swedenborshiana. circola traverso tutta la opera del James»
(3). Egli lrovava «la forza e lu pace del cuore e dello spirito nella
fedeltà alla crc- denza che fuori del mondo del nostro «pensiero
co: Sciente ve ne sono altri, ai quali noi allingiamo le energie
capaci di arricchire e di trasformare la no- 4
(1) Studies in Humanism, Essay XVI, p. (2)
Pragmatismus, p. 29. |. 13) E. BOUTROUX, IV. James (Rev. d 5
Novemira, 1919, Db, isa ( © Metaph. et de Morale, 349, SEE.
culi * Il Pragmatismo 59 stra
vila» (1). «Chi sa — scriveva egli, conchiuden- do un’opera classica
sulla religione — se la fedeltà di ogni uomo alle sue umili credenze
personali non possa aiutare Dio stesso a lavorare più efficacemen-
{e ai deslini dell'universo? » (2). Aggruppo l'esposizione intorno
a questi tre punti: 1.) Esistenza di Dio; 2.) Concelto di Dio; 3.)
Reli- gione e Religioni. «2. — Cominciamo col James,
La storia della filosofia è in gran parte la storia del conflitto
dei temperamenti umani, Ogni filosofia è l’espressione, il riflesso del
carattere intimo del- l'uomo, la traduzione in idee del lemperamento;
ogni intuizione dell'universo (We/lanschauung) è nè più nè meno che
un complesso di reazioni del carattere umano assunte, o a propria
insapula, o deliberata- mente, in faccia alla realtà (3). Questo spiega
il sor- gere dci sistemi e il batlagliare continuo dei filosofi.
Noi possiamo distinguere due principali tipi spi- rituali d'uomini
aventi caralterisliche affalto diver- se: l'uomo dalla (empra tenera
(lender-minded) e l'uomo dalla tempra dura (tough-minded), cioè il
tipo simpatico c il cinico (4). Mettele questi due tipi
profondamente diversi in faccia all'universo e chiedele loro una
dottrina: a- vrele da una parle il malerialismo sensualista, con
lutto il suo contenuto di scetticismo e di pessimismo, come traduzione
del temperamento rude e cinico; dall’altra lo spiritualismo con contenuto
ottimistico, quale espressione deì tipo dalla tempra tenera.
L'antagonismo di queste due dottrine, il contrasto dei due
lemperamenti malcrialistico e spiritualisti co assumono tulto il
loro speciale rilievo di opposi- | zione davanti al problema
dell’esistenza di Dio. Il (1) L'Expérience religleuse, p.
436. (2) /ui, p. 437. : Li Mi (3) JAMES, Der
Pragmatismus, I Vorl. p. 3-6; 4 Pluralistio. ; Universe, p.
20 (4) Der Pragmatismus, ivi, p 7: A Plural. Univ. p. 29. »
- ? 60 La Religione nel Pragmatismo
complessa delle cose che vediamo, che esperimentia. mo e che abbiamo
convenuto di chiamare « mondo » sono il prodotto della materia o di Dio
esistente fuo- ri e sopra la maleria? «La materia produce tulte le
cose 0 e'è anche un Dio?» (1). Ecco il problema. Il quale non sarà risolto
mai — e la storia è là a di- mostrarlo — in base alle vuote, astratte e.
sottilis- sime discussioni sull'essenza intima della materia € sui
suoi caratteri osservabili o su pretese visioni h- telleltualistiche de!
Dio che è in questione (2). Ogni speculazione è impotente — di fronte al
materiali- smo ateo — a dare una solida base razionale alla re-
ligione: i due grandi (entativi sistematici di dimo- strazione
dell’esistenza di Dio — il teismo scolasti- ‘co e l'idealismo
trascendentale — hamno fallito al loro scnpo. ‘Tulli
conoscono gli argomenti classici della filo- solia Scolastica. Ebbene,
Hume, col cacciare per sempre la causalilà dal mondo fisico, ha reso
impos- sibile ogni inferenza dal creato a una causa prima; del
resto l'idea di causa è troppo oscura per servire di fondamento a tutta
una teologia. Dopo Hume, Kant ha dimostralo che, Dio, l'immortalità e la
li- berlà, non avendo alcun contenulo sensibile, sono parole vuole
di-senso dal punto di vista della cono- scenza (corica, e ha fatla
giustizia una volta per sempre della vecchia leologia, che ora non regna
che nel volto e non è difesa che da qualche ritardatario. Il
darwinismo ha dato il colpo di grazia alla prova per mezzo delle sue
cause finali. L'ordine e il disor- dine che noi troviamo nel mondo non
sono che in- venzioni umane: chiamianio ordine ciò che corri-
sponde a un nostro ideale, disordine ciò che se ne (1) I metodo
praginalista in: Saggi pragmatisti, p. 15 (tra- duzione PAPINI).
(2) Occorre far notare che questa visione degli ontologi non è da
confondersi con la ?n!uizione del sentimento, intuizione sorda e vivente,
della «philosophie nouvelle»? Vedi: PIAT, Insuffisance des Philosuphies
de l'Intuition, p. 129, Sg. Il Pragmatismo 61
allontana (1). Finalmente il pragmalismo, cacciando - dal mondo la
necessità logica, ha tollo ogni speran- a di una soluzione per coucetti
del problema in que- stione, di modo che le prove dell’esistenza di Dio
non sono valide che per coloro che già credono in Dio
i e debbono trovare degli argomenti per difendere tale 3 3
i A “pre credenza (2). ; L'idealismo
trascendentale non è più felice nel suo SG tentativo di dare una base
solida alla fede: vedremo quali assurdilà sono implicite nel concetto di
una coscienza concrela infinita che sarebbe l'anima de! x - inondo:
vedremo a che si riduce l'Assoluto. e «E allora? Quale altra via rimane
aperta per risol vere il problema? Già nell'opera : La volontà di
cre- dere, il James assegnava ai molivi emozionali un valore
definitivo, nel casu che l'intelletto non poles- E se offrire delle
ragioni sulficienti per l'adesione a i doltrine di caraltere religioso.
La via è aperta: met- liamoci in essa. La questione: « Dio esiste? »per
il pragmatismo si risolve in questa, più determinata e più chiara:
«Quali conseguenze pratiche importa (| per la reallà, per noi,
l'esistenza di Dio?» Se prali- = camente, cioè dal punto di vista del
criterio della uti- .lita pratica, la negazione dei malerialisti vale quan-
lo l’allermazione dei leisti, le due teorie sono equi- valenti in lutto
poichè delle teorie non esiste che il di lato e il valore pratico (9).
7 | Ebbene, la questione se il mondo sia creazione di Dio o
prodotto delle forze materiali può essere con- pe sideralo da un doppio
punto di visla: relrospettivo + e prospettivu. lFingiamo che il mondo sia
completo. ti ed evoluto in tutte le sue partì (punto di vista
retro- | spettivo). Esso non sarebbe che una somma di ri sultali
buoni e caltivi, dalla quale è escluso. qualun- (1) Jaars, L'Expérience
religicuse, D. 418 (in nota), p ce 369-331. ia a
JAMES, L'Erpérience reliyicuse, p. 368-309: « Pour celui qui déjà croit
en Dieu ces arguments sont solides... La On {ltoure... des arguments pour
défendre ces croyances le doit les trouver ». : di Ò NI
Vol., p. 59; L'Experience (3) JAMES, Der
Prugmatismus, religlouse, pas. 132. INA La Religione
nel Pragmatismo que aumento e qualunque alterazione. Da un mondo
lale noi non avremmo nulla da sperare e nulla da temere, perchè il potere
creativo, qualunque fosse slato, si sarebbe esaurito tutto in quello che
è, che è irrevocabilmente, in tulle le sue particolarità: uno dono
che ci è stato dato e che non può essere ripre- ì so. Orbene, in lale
ipotesi, «quale sarebbe il valore «di Dio, sc ci fosse con la sua opera
compiuta e ìl suo mondo già trascorso? » (1). Egli non varrebbe
niente più del suo mondo; da lui, come dal suo mondo, non avremmo
nulla da sperare e nulla da lemere, poichè egli, secondo tale ipolesi,
nulla potrebbe togliere 6 aggiungere a ciò che è. A un Dio simile noi
saremmo riconoscenti per quello che ha fallo, non per altro. lì ora
prendiamo l'ipotesi contraria, che, cioè, le parlicelle di materia,
seguendo le loro «leggi» po- lessero fare lullo quello che, nell’ipotesi
precedente Da fatto Dio: saremmo noi loro meno riconoscenti che a
Dio? «In che soffriremmo noi mancanza se lasciassimo cader: l’ipotesi di
Dio e facessimo respon- subile la sola maleria? Come, essendo
l'esperienza definitivamente cd irrevocabilmente ciò che è sfata,
“polvebbe la presenza di Dio in essa renderla più vi- vente e più ricca
al nostro sguardo?» (2) « Chiamia- mo materia la causa del mondo e non
leviamo nep- pure una parle di quelle che lo compongono; nè, sc
chiamiamo Dio la causa, esse aumentano ». Dunque «materia e Dio
significano precisamente la stessa | cosa, cioè il potere, nè più né
meno, capace di fare | questo mondo celerogeneo, imperfello e tuttavia
ter- | Minato », e perciò «la dispula tra il materialismo e il
leismo diventa, in questo caso, oziosa e insignifi- ante». Se la presenza
di Dio «non porta un giro v lin risultato differente all'insieme del
mondo, non Ù può certumente accrescerne la dignità; nè gli (al:
RE TIE (I) JAMES, 12 metodo
pragmatista, in Saggi È : MES, li SI, gi pragmatisti, x D.
15-17. Noto una volta per sempre che le Datore Calo da 3 Saggi
pragmatisti, e messe tra virgolette sono della traduzione | del PaPINI e
del LruNarbo, Jl PAPINI ha tradotto IL Metodo | pragmatista
dall'inglese, | (2) James, 0 Metodo Prag matista, pp. 16-17;
Dì mus) ip, 06 g Dp. 16-17; Der Pragmatis: — mondo) verrebbe nessuna
indegnità se Dio non hi fosse e se gli atomi rimanessero 1 soli attori ch
È scena» (1). È saggio colui che volta le spalle a siffat- ‘la
inulile discussione (2). 3 ‘Meltiamoci ora a considerare il mondo da un
punto di visla prospellivo; poniamoci « questa volla nel inondo
reale in cui viviamo, mondo che ha un fulu- ro, che è tullavia
incompleto... ». ; 3 «In questo mondo non finilo l’allernativa di
«ma- lerialismo o teismo è intensamente pratica». Essa si può
formulare così: «In qual modo il programma della nostra vila è allo a
variare, secondo che si con- siderano i fatti dell'esperienza come
configurazioni di atomi senza finalità (materialismo), oppure come
dovuli alla provvidenza di Dio?» (teismo). È vero che in questo mondo non
finito la materia fa prati camente lutto ciò che può far Dio, che essa
equivale u Dio, che Dio è superfluo e cessa ogni legiltima ri-
chiesta della sua esisienza? E vero che «la materia, di cui paria
Spencer, per la quale si compie il pro- i cesso dell'evoluzione cosmica,
è veramente un prin- | cipio di perfezione infinita quanto Dio? ».
(8) Vediamo. Secondo il materialismo e la sua « teoria
dell'evoluzione meccanica, le leggi della distribuzione della materia e
del moto» sono rivolte incessante- _Inente al disfacimento del mondo, «a
dissolvere tutte le cose che hanno falto evolvere ». Così il
Balfour cl rappresenta l’ullimo previdibile stato dell'universo
quale ce l'ha dalo la scienza evoluzionista: «Le e- Nergie del nostro
sistema si consumeranno ; la gloria del: TR cselrata, e la terra, inerle
e desolata, a disturbato 1a oltre la razza che per un momento E SS
GLILI a sua soliludine. L'uomo cadrà nel EF va suoi pensieri periranno.
La inquieta a... le «azioni immortali » moriranno, e l'a- i More,
più forte che la morte, sarà come se non foss _ mai slalo. Nè vi ‘'à Il i
i sli se 1 sarà nulla che sia meglio o peggio i fu) Ivi, PP.
17-18; pp. 59-63. a (2) Ivi, p. 81; p. 61. (8) d04, DD. 18-21, pp.
63-64/ 64 La Religione nel
Pragmatismo per lulto ciò che il lavoro, il
genio, la devozione e la sofferenza dell'uomo avranno fentalo di
effettuare durante età innumerabili » (1). Dunque la sorte ulti-
ma di ogni cosa e di ogni sistema di cose cosmica- mente evolute è
tragedia. Nulla rimarrà di ciò che è slalo: non un'eco, non una memoria:
la rovina sarà universale. È si noti: « questa rovina e trage- dia
finale sono nell'essenza del materialismo scien- lifico. Le forze più
basse, e non le più alte, sono le forze eterne o quelle che sopravvivono
ultime nel solo ciclo di evoluzione che noi possiamo definiliva-
mente vedere » (2). Ma se Dio esiste, i risultati pratici
dell'evoluzione dlel mondo saranno ben altri. « Un mondo che con-
lenga un Dio che dica l’ullima parola, può bensi ar- derè o ghiacciare,
ma però noi pensiumo che Egli pensa sempre ar vecchi ideali e ne assicura
che al- riveremo a goderne; perciò il naufragio e la disso- luzione
non sono mai assolulimente finali. Ml bisogno di un ordine morale eterno
è uno dei più profondi bisogni del noslro cuore... ». «Qui
giacciono i significati reali del materialismo e leismo...; matlcrialismo
signitica Ja negazione del. l'ordine morale eterno e l'esclusione delle
speranze ultime; il teismo significa l’afiermazione di un eler- no
ordine morale e dà libero corso alla speranza » (3). Un'altra
conseguenza pralica di grande importan: za deriva dalla affermazione
feislica: il sentimento d'intimità col mondo. I mulerialismo
con la sua visione impersonale dell'universo ci pone di fronte a una realtà
muta, in: differente, brutale che distrugge via via ltutlo ciò che
crea, senza curarsi del bene e del male, e dei biso - gni umani. I
bisogni umani! Ma che cosa è ma l'uomo per il quale si dovrebbe avere dei
riguardi: L'individualità di ciascuno di noi è come una (1)
BalFOUR, The Fondalions of Belie{ (Le basi della fede) p. 30, citato dal
JAMES in; Meludo praymatista, pp. 21-22, in. Der Pragmalsmus, pp.
64-65. (2) JAMES, IL Met. Pragm., p. 22; Der Pragmat,, D. 66.
(3) Zuî, pp. 23-24; p. 66 sg. Il Pragmatismo =
rrasca, 7 are in burra sopra: unt ma senza tre- qui
epolto;che Loano È AESLLUSRANO FOT sj venti e le onde c iizoirenomoni
Uasc due i i non siamo che degli €} gli eventi (1). Come otza (dol
flusso irresistibile deG Letta così falla? È Si simpatia e amore per o a
senoi mettiamo 6, invece, nelle cose 0 MIO a esse ci appariscono n
Dio una som idenzar allora. lime al nostro cuo- | ù calde, viù vicine a e
voni saremo più estra- "o pensiero : > e al Nostro La non
lo saranno a noi. Ri Mg ici co ce eciesse: ‘agmalistico sì polrebbe
dire Da un punto di vista DER fra il maferialismo e il le la
differenza che passa fra de senlire i no: CE "nali el concepire e
sentire ; O spiritualismo) nel concepire : I ROGIE BLOGO SÌ
differenza sociale. £ i rapporti col mondo è una eee iamo
malerialisti, noi dobbiamo DR È SIGrgnn {ra socio, il mondo, difidenti e
USE E guardia che non ci GU slringorit Spiritualisli noi possiamo
fidare li, S SECOLI Nexbitualisti SIAE n ere fidenti sulla nostra
" tai Ise peosstere ident so utile, che on ai Rostri bisogni
emozionali, che ci fa ‘Procedere coraggiosi nelle nostre esperienze
sulla Tealtà nella speranza che ln realtà risponda alle do- —
mande che le rivolgiamo, è una Sani UerisUca della | Verità, noi dobbiamo
concludere che il (eismo è vero © il materialismo è falso. Vi
sonoaltre ragioni che autorizzano a tirare conclusione in favore
dell’esistenza di Dio. Se Dio, Egli produce differenze prati porti
call'universo; se c'è un Dio, renze « nella sorte finale del mondo
: lo. Ma possiamo dire d questa c'è un che nei
nostri lap- questo s'è vedu- i produca differ .
Ina durante tutto il ere che l’esistenza di Mella sorte
finale do» (3) Ammetl ì, L'Expérience
religieuse, D. 409, 411. >, Il Metodo pr agmut., p. 15; 4
Pluratistie Univer Il Met. Ppragm., p. 25. Egli produce
diffe È più: se c'è un Dio noi possia-. no aspellarci che
egl enze non solo, | corso del mon- Dio non possa a
66 La Religione nel Pragmalismo
— cangiar nulla nella nostra esperienza non è affermare
‘l’inverosimile? «il vero significato di « Dio » sla ap- punto in quelle
differenze che debbono essere ammes- se nella nostra esperienza, ove il
concello sia ve- “ro. Ebbene queste esperienze esistono cd hanno un
‘intlusso polente sul sentimento e sulla condolta. La Z esperienza
fisica, o percezione degli oggetti esterni, e la esperienza psicologica
pura c semplice limitata alla tà percezione deil'io, non colgono la
realtà tolale e pie- ‘q namente reale, e non sono le uniche forme di espe-
ricoza: ve n'è una terza: l’esperienza religiosa che (ci dà una massa di
esperienze concrele affalto ori- «_—‘ginali. «Se voi chiedete cosa sono
queste esperienze vi dirò che sono conversazioni coll’invisibile, voci
e visioni, risposte fl preghiere, mutamenti di cuore, Ta
liberazioni da paura, influssi di speranza, assicura zioni di appoggio,
ogni qual volta certe persone si mettono in una cerla attitudine interna,
con certi modi appropriati. Il potere viene, va e si perde, e può
esser trovalo soltanto in una certa direzione de- terminata, proprio come
se fosse una cosa concreta e maleriale» xl}, Vedremo più sotlo perchè
pratica- mente parlando è cosa di poco momento che il Dio della
teologia sistemalica esista o non esista; «ma se il Dio di queste
particolari esperienze è falso, è una cosa lerribile per quelli la cui
vita è poggiata su tali esperienze » (2). _, Concludendo: «la
controversia teislica assume un lreniendo significato se noi la saggiamo
coi suoi re- ; sultati nella vita attuale » (3). Il naluralismo, il
posi- ARI livismo e l’agnosticismu possono cominciare con cu-
lusiasmo il lavoro rude della vita, ma liniscono fa- talmente nella
tristezza e nello scoraggiamento inerte. Se invece, come afferma il
teismo, la nostra vita ‘cosciente di lutti i giorni fa parte d'un
universo mo- rale, armonivso, elerno; se ognuna delle nostre
sofl- a O TAES: ALI
relty., ). 432. ‘ AMES, Mel. pragm., pp. 28-29. — Sono appunto
queste | ‘esperienze che formano Ìl tema e l RA) ci CRA la e la
materia di: L'Experience — (3)/£ Metod. Pragni., pp. 29-30.
a N ll Pragmatismo 67°
ferenze ha la sua ragion d'essere e il suo valore; se il cielo sorride
alla terra e se gli dei vengono a visitare gli uomini; se la fede e la
speranza sono come l'atmosfera della nostra anima, allora la no-
stra vila scorre abbondante © colorita in mezzo a grandiose prospellive
(1) i Possiamo tirar subito una conseguenza importan- le dal
punto di vista pragmatlistico ; la speculazione è- impotente a condurci a
Dio; noi affermiamo la gran- de probabilità della sua esistenza in base
alle con- seguenze pratiche, all'utilità reale, in contanti, che
derivano dall'accettarlo come esistente. Naturalmen- te, e lo vedremo sotto,
il pragmatismo non può darci più che una probabilità. Lo
Schiller con lo stesso metodo giunge alle stesse conseguenze. Col James
egli rigetta le prove tradi- zionali dell'esistenza di Div e fa una
guerra spietata alla identificazione con Dio dell’Assoluto degli
idea- lisli trascendentali. Per lui la comune insufficienza
delle prove tradi- zionali sta nella loro astrattezza. Esse, infatti,
sono applicabili alla concezione di un universo qualsiasi, non ul
nostro mondo particolare. Per esempio: l'ar- gomento cosmologico
inferisce Dio dal fatto che vi è eausazione in astratto; l'argomento
fisico-teleologico è costruito arguendo, in maniera affatto
generale, dall'ordine un ordinatore (2). Ebbene questi argomen-
‘li non provano nulla perchè vogliono provar troppo. Dal
momento che si possono applicare ad'ogni sol- ta di mondo, buono o
cattivo che esso sia, ne segue che la divinila inferita con questa specie
di argomen- tazioni è affatto indifferente al contenuto del mondo,
al bene e al male che esso racchiude: è un Dio amorale, che si può
inferire così bene da un universo ollimo come da uno pessimo. La
inferenza di Dio dal mordo sarebbe ugualmente buona nel Cielo e nel
l'inferno, Ecco perchè tutti i lonlativi di ascrivere a Dio attribuli
morali sono condannati a ;certo insuc- (1) Ivi, p. 30. (2)
JAMES, L'Experionce religieuse p. 117. 4
Se | il |
cesso. Trascurando gli aspetli morali del nostro mon- do come si
può giungere a un principio morale gli esso? Ebbene, non è di codeste
prove che noi abbia- mo bisogno; non chiediamo una prova
dell'esistenza di Dio che sia valida per ognì universo pensabile,
mù per il nostro mondo aituale, che tenga conto del con- tenuto
concreto, reale delle cose che noi: esperimen- liamo; ci occorre un Dio
il quale ci dia sicurezza, che nel nostro mondo vi è un polere capace e
disposto a dirigerne il corso (1). È È Il dialogo: Gods and
Priestes (Dei e Sacerdoti) (2) è lullo una critica birichina degli
argomenti raziona- li (teorici) dell’esistenza di Dio. Dice Filono: «Mi
pa- re che Vesislenza degli Dei si possa inferire dall’esi- stenza
dei sacerdoli, poichè, se gli dei non ci fossero, e che ci starebbero a
fare i sacerdoli? » Un argomen- lo puerile, a dir poco, come si vede.
Eppure Anlino- ro risponde: «Questo argomento è... migliore della
più parte di quelli dei teologi » (3). Più oltre Antinoro dice: .« Finchè
il Dio ignoto non è desideralo è inco- moscibile » (4). Noi sappiamo che
« inconoscibile », per l’umanismo, vuole dire «non-esistente ». Ma
dunque il nostro desiderare, volere Iddio è creare, fare Iddio?
Senza dubbio: «il desiderio fa reale l’irreale n. « Gli dei sono reali in
quanto responsi ideuli ai reali biso- gni umani, che ci funno realmente
agire» (5). Dio 6 un postulato della fede ed è delia stessa nalura
dei postulati della scienza (6), cioè una supposizione uli-
(1) SCHILLER, Humanism., Ess, 1V, « Lotze's Monism »; p. 82. = lo non
posso indugiarmi a esporre largamente le teorie re- liglo5e dello
SCHILLE", come ho fatto col JAMES: un articola non basta a ciò, Del
resto non è neanche necessario, perchè lo SCHU.LER, quando pula di
religione. si appoggia spesso al JAMES, €, sostanzialmente, lo riproditeo
(2) ScHiLLER, Studies in Humanism, Essay XV, pp. 326-348. (3)
Ivi, p. 227. (4) Ivi, p. 347. (5) IVI, pp. 340-341:
«They (gods) nre real as the ideal re- sponses to real human needs, which
really move us, (6) Studies in Humanism, p. 136. Lo ScHILLER cita
qui: La tolontà di credere del James, = "i si »
etiam Lu e e ir__nnnn_nn_ RPEI EN oli
Pragmulismo le, una domanda di qualche cosa che corrisponda
alle esigenze dell'uotno e mella armonia in una speciale sfera di
esperienze. L'uomo fa la verilà e la realtà, come s'è veduto: È è
vero e reale ciò che opera e in quanto opera; la soslanza è allivilaà, e
l'attività non esiste se non come attività per noî. La domanda di Dio non
è la doman- da di un essere lrascendente, ma di uno perfezio- È
nante la esperienza nostra (1). Perciò la questione: LI, Dio esiste?
significa: Qual'è il valore per noi del con- X cetto di Dio? | siecome le
concezioni di Dio sono mol- | le, qual'è il valore di esse, 0 dei varì
tipi ai quali lulte sì possono ridurre? E qual'è il migliore fra i
concetti di Dio? $ 9. — Nella filosofia spiritualisla noi troviamo
due specie di (eismo in senso largo: il leismo dualistico, o teismo
propriamente detlo, e il leismo monistico o panteislico. Il primo è la
elaborazione teologica della filosofia scolastica, il secondo è proprio
dell’idea- lismo posl-kanliano, 0 idealismo assoluto, o ideali- smo
simpliciter, che si voglia chiamare (2). Esponia- noli brevemente ed
esaminiamone il valore alla luce del pragmatismo. >» Il'ieisino
scolastico insegna che Dia è la Causa Pri- ma, la quale differisce tolo
genere dalle sue creatu- re. La sua essenza è di essere a sé. L'ascità è
la fon- le di ltulli gli altri allributi metafisici: necessità e
assolutezza, immaterialità e semplicità, infinità e per- sonalità
metafisica, ecc.; e degli attribuli morali: sanlità e onvipolenza,
onniscienza e giustizia, im mutabilità e amore, ecc. (3). Ebbene,
applichiamo a - (1) ScuuLer, ivi. Considerazioni
simili a quelle del James contro ia visione materialistica della vita nol
troviamo li — Humanism, Ess. XIV, pp. 250 seg.: «The ethical
significance. of immortality ». Vi dintostra che la vita non è degna
d'esser "vissuta se non sono conservati i valori ideali. /
(29) JAMES, A Pluralistic Universe pp. 23-24; Der Pragma- lismus,
VIII Vorl. p. 192. a (3) JAMES, L'Expérience Reltgieuse, pp. 371-376;
Saggi prag- mat., IL metod. pragm., pp. 25-20. ) ar n . 70 La Religione nel
Pragmatismo RO T questi attributi di Dio il principio
del Pierce ec vedre- L mo che fra essi ve n'ha di più e di meno
importanti. i Infatti, dal punto di visla pragmalistico che diven-
N gono gli altribuli metafisici di Dio, distinti dai suol attributi
morali? Quali effetti possono produrre sulla nostra condotta? Che cosa
importa per la vita del. l'uomo che Dio sia a sè, che Dio basti a sè
stesso, che Dio non appartenga & nessun genere ecc. ecc.? «Come
può mai l'« aseità » di Dio loccarmi inlima- mente? Quale speciale cosa
posso io mai fare per adattarmi alla sua « semplicità? n «O come
devo de- terminare lu mia condotta da qui innanzi se la sua
«felicità» è assolutamente completa?» Anche quan- ‘do di quesli attributi
ci si desse una dimostrazione logica rigorosa noi dovremmo confessare che
essi non hanno senso, 4 poichè sono lontani dalla morale,
lontani dai bisogni umani (1). ‘Non è così degli attribuli morali.
Essi risvegliano il limore e la speranza e sono il sostegno
dell’ani- ma. Se Dio è santo non può volere che il bene; se è
onnipotente ne può assicurare il trionfo; con la sua onniscienza ci vede
nelle tenebre; per la sua iustizia, Egli punisce le nostre colpe anche
segrete. ègli è tulto amore, dunque perdona; è immutabile e quindi
possiamo contare sul suo amore. i Iddio, nella creazione, si è proposto
come fine la manifestazione della sua gloria; « questo dogma ha
certamente una qualche elficace connessione pratica ©. colla vila, 0,
meglio, Phu avula per l'enorme influen- | za che ha esercitato sulla
storia ecclesiastica e per ? ripercussione sulla storia degli Stati
curopei» (2). Cerlo, quest'ullimo dogma, connesso con la concezio-
ne monarchica del mondo, di una divinità con la sua corle e le sue pompe
non corrisponde più alla nostra mentalità, ma gli aliri attributi hanno
un valore re- ligioso anche attualmente. Sc la teologia scolastica
(1) JAMES, L'Excpérience religieuse, DD. 375 S86.: Il Metod.
Pragm. (op. c.), p. 25-27. .(2) JAMES, L'Expérience religicuse, p.
376; Il Metod. Pragm. (op. c.), pagina 27-28. i LA
4 s = lì Pragmalismo 1 polesse stabilire
in modo irrefutabile che Dio li pos- e) siede (gli attribuli morali},
darebbe una base solida si alla religione. Ma, come per
l’esistenza di Dio, cusì 19 per gli allribali morali essa ba fallito nel
tentalivo sl {lo Schiller ce ne ba detto il percl®). Si può provare
d storicamente che essi non hanno mai convertito nes- È suno.
Provatevi a dimostrare, scolasticamente, a uno | che dubita della
bontà di Dio, che Dio è buono per- ì chè non vi è non-essere nella sua
essenza! (1) Quegli ni altribuli hanno valore non perchè e in
quanto sono dedolti, dalla scolastica, a filo di logica da certi
du- (erminali concetti o calegorie, ma perchè e in quanto
ur; eccilano in nvi la risposta di qualche sentimento at- A livo e
fanno appello a qualche particolare condotta = da seguire» (2), non
quindi in base a speculazioni, | Pi - ma per la loro efficacia
pratica. |, V'ha di più. La concezione leistica (scolastica) di-
pingeudo Dio e la sua creazione come distinti l'una dall'altra, anzi come
affatto diversi, mette il soggel- lo umano fuori di ogni contatto con la
più profonda realtà dell'universo. Dio è separato dal mondo e dal-
. l'uomo. Fra l’uomo e Dio vi è connessione o rappot= in - lo
unilaterale, non reciproco. La sua azione può toc- : carci, si
afferina, (conte possa toccarci è un misleto) ma Lui non può essere
affetto dalla nostra reazione. Il rapporto fra noi e Dio non è sociale: i
due terni. | ni sono separali da un abisso (8). Dio non è cuore del
nostro cuore, ragione della nostra ragione, ma nostro maestro e giudice,
ll nostro dovere inorale è di obbedire ineccanicamente a’ suoi comandi,
di aderire pussivamente alle verità che non noi faccia > mo, ma
che esistono per sè, « by (iod°s grace QI CE ‘ decrec» (4). Ebbene, lutto
questo meccanismo LEO= N logico, che ha parlato così vivamente all’animo
dei nostri antenati, con la sua limitata elà del mondo, | con la
sua creazione dal nulla, con la sua moralità ta W) JAMES, L'Erper.
relig., DD. 370-977. “26 o). - (2) JAMES, IL Met. pragm., PD. 26 .
Ca ye 2 (3) JAMFS, A Plural. Univ., pp. 25-27. “i | (4)
James, «Ad Plural. Univ., pp. 27-23. * |
72 La Religione nel Pragmalismo giuridica ed
escatologica, col suo gusto per le ricom- pense e le punizioni, col suo
considerare Dio cone un Jlegisialore esteriore, suona così vecchio al
piu di noi come se si trattasse di una religione selvag- gia di
stranieri. Le ampie vedute aperte dall’evolu- Zionismo scientifico e lo
marea monlanie degli ideali delia democrazia sociale hanno cambiato il
tipo del la nostra menlalità, e il vecchio leismo monarchico è
vielo e fuori di moda. IL posto del divino nel mon- do dev'essere più
organico G più intimo. Un creatore esteriore e lc sue islituzioni pussono
essere professa- le ancora, verbalmente, nella Chiesa in formule
che sopravvivono grazia aila loro inerzia, ma la vila è lontana da
esse, non lano più adito nei nostri cuo- sti (1). Quel magnifico uomo nou
naturale (2) che è il ‘Dio del teismo non cì soddisfa più; è solto il
livello delle idee morali correnti e perciò condannato dal-
l’'alinosfera morale regnante, divenula per noì indi. spensabile.
«I frulli che un tal Dio ha dato ai nostri avi hanno perduto ogni
valore per noi, le idee morali e sociati nostre ci costringono, sc
abbiamo bisogno di Dio, a foggiarcelo in corrispondenza alle aspirazioni
e agli ideali del lempo nostro (3). Ed ecco che l'anima
contemporanea ha veduto la possibilità di una più intima Weltunschauung;
la vi- sione panteislica di un Dio immanenfe come sostar- za inlima
del mondo, e il mondo come parle di quesia profonda realtà. Questi
concezione hu assunto due forme diverse: la monistica e la pluralislica
(4). (1) Ivi, pp. 29-30. — Lo stesso pensiero è espresso più
lar- gamente in: L'Eaperience reliyteuse, Qhap. IN: Critique de la
Saintele, pp. 250-284 (2) La frase è dell'Arzold. Cir: A Plural.
Univ., p. 24. (3) JAMES, L'Ewper. relig., p. 282. — Si è detto
che”il Dio tiel tolsmo è rigettato dal JAMES semplicemente perchè
così porta la moda, Intendiamoci; se per ni0da si vuol significare
«il complesso delle idee morali e delle forme sociali» di una data epoca,
l'osservazione è giusta; se per moda s'intende quel- la brutta cosa che
tutti conoscono, non credo che sia esatto il dire chè il James giudica di
Dio in base ad essa. Cfr.. L'Erpér, relig., 1. c. (4) JAMES,
LI Plural. Uniw., pp. 30-31. Secondo il monismu la sostanza umana (e
mondia- ©. le) si identifica bensì con Ja divina, ma non
diventa veramente tale che nella forma della totalità. Lo spi- -
3 rifo finito non ha realtà che neila comunione con lo pi
spirito Assoluto; cioè ìl divino esiste autenticamente È solo
quando è esperimentato nella sua assoluta l0- rà lalità. Pev il
monista essere significa due cose: se si È predica delle cose
finite significa: essere un oggetto Ì dell’Assoluto; se si predica
dell’Assoluto stesso vuol i dive: essere il pensamento dell'insieme
degli oggetti. " LvAssolulo ci Îa pensandoci, precisamente
come noi, nei sogno, facciamo gli oggetti sognandoli, o, in una
storia, i personaggi immaginandoli. Mondo e asso- julo sono la stessa
cosa espressa con nomi diversi: " pensiero e pensato (Gedanke
und Gedachles). «Quale grandiosa concezione nella sua terribile unità!»
esela: ma il James (1). Quale intimità fra il mondo e 1 AS- solulo!
> Ma, pur troppo, a un esame diligente questa 31 LI
St x. milà ci apparisce illusoria e materiale; in realtà
il divino è affatto estraneo al mondo come nel teismo monarchico
(2). E in vero: per lassolulisla noi, POSI ad uno ad uno nella
nostra finilezza empirica non abbiamo nessun rapporto con l'Assoluto; per
far (parle di esso dobbiamo perdere l'essere nostro indi- vidnale
con la sua limitatezza e coi suoi difetti. L'As- Ea solulo è noì e lutte
le allre apparenze, ma non è I nessuno di noi in quanto fali, poichè nel
tutto TION x siamo « trasformati» diventiamo altra cosa. Dio qua-
Fat: tenus infinilus est è altro da Dio, qualenus humanam wr mentem conslituit
— ha scritto lo Spinoza, il primo ; grande assolulisla (3). La vera
conoscenza di Div = serive l'Hegel — comincia quando conosciamo che
le cose, quali ci si mostrano immediatamente, non han: ‘no verilà
(4). L'Assoluto — secondo il Taggarl — non è processo, ma stato immobile:
il movimento (1) JAMES, ivi pp. 34-37, (2) Zbta. (3) James, A
Plural. Univ., pp. 40-47, (4) Ivi, p. Di. » DI art ri È
aaa” * -- ul = Pa. ASTRA La Religione nel
Pragmatismo il cangiamento sono assorbiti nella sua
immutabili È i come forme di mera apparenza (1). Che cosa più DA
estranea a noi di un essere che non è nè intelligenza nè volontà, nè una
persona, ne una collezione di per- sone, nè vero, nè bello, nè buono nel
senso che noi diamo a queste parole? — come. ha scritto il Brad-
ley (2). Che cosa facciamo di questo mostro metafi- sico incapace: di
odiare e di amare, di soffrire e di desiderare? (3) L’Assoluto non può
essere personale nel senso ordinario della parola; dunque non può
interessarsi delle persone: la sua relazione con ess? è tutt'al più una
relazione di inclusione, puramente logica, quindi, non morale (4). Io non
posso avere nè cuore nè pensiero per un essere che nulla ha co-
mune con me; se Lui nella sua inerte auto-beatlitu- dine non s’inleressa
di me come posso io interes- sarmi di Lui? (5) = Non solo
l'Assoluto non è un principio morale, ma non ha neppur valore
scientifico. Per aver valore scientifico dovrebbe essere un aiuto alla
compren- sione intellettuale dell'Universo. Ebbene Esso non è la
ragione suprema ed ullima di ogni cosa in par ; ticolare (e l'universo si
compone di cose particolari) > appunto perchè è la ragione esplicativa
di ogni cosa î in generale; e qual'è il valore di una spiegazione
ge- merale che non spiega nulla in particolare? (6). È, come
si vede l'applicazione all’Assoluto dell’astrat- lezza dei concetti
con i quali sì prova, in teologia, 2 che Dio esiste e se ne deiermina
l’essenza, secondo lo Schiller. s (1)
JAMES, Ivi; SClilLLER, Stud, i D p o i ud. in Hum. Essay XII,
passim; (2) JAMES, 0p. cit. pp. 47-48; SCHILLER, iul, p. 286 g. e:
(Essr IV, pagine 111-140. — IDRA RRE (3) JAMIS, ©p. cut., avi,; SCHILLER,
Ess. JV. (4) ScHILLER® Stud. in Hum,, D. 287. | (5) James, A
_Plural Univ., p. id; SCHILLER, Stud. in Hum. — bp, 391; « If th» One is
neither of these {hings (beautiful and | good), I will not worship it.
nor call it Good. If it is indif- ferent to 9ur Gocd, I am indifferent to
its existence n. (6) SCHI,LER, Stud, in IHum., p. 25).
db Ît Pragmatismo Ti) Ma c'è di
più. Uno dei problemi che ha maggior- mente alfalicalo il pensiero umano
è il problema del î male, il più fondamentale e il più pressante dei
pro- blemi religiosi. Esso ha un lalo teorico e uno pratico.
Il teorico si formula: « Com'è possibile il male?» — Il
prutico: « Come liberarci dal male? » Il primo sor- ge
dall’impossibilità di conciliare la bontà di Dio. con la sua onnipolenza
e con la sua infinità. Se Dio è il tutto, la perfezione assoluta,
senza limitazione nè possibilità di limiiazione, donde il nale? Se
Dio è onnipotente perchè non trionfa del male, di tulru
il male? (1). li panteismo assolulista ci dice che la periezione di
Dio è la sorgente delle cose; ebbene, guardate: il primo altu di questa
perfezione è la spa ventevole imperfezione di tutto il finito
sperimenta bile. Come mai la perfezione dell’assoluto, richiede
7 queste schifose forme di vita che troviamo nella real- tà? (2).
Ecco il problema che nessun assolutista € . nessun infiniusta potrà maì
risolvere. Negarlo nou è risolverlo. Lire, come fa l’assolutismo, che la
im- pertezione del tuito non è che apparenza, una illu- sione degli
esseri finiti, che il maligno non esiste 0 è assorbito con Dio nella
sintesi superiore dell’As- soluto, ecc., ecc., non è risolvere, ma
ingarbugliare il problema. Il male c è è noì vogliamo liberarcene.
L ìl problema pratico si presenta: « Come scemulti | x la quantita
del male che è nel mondo? ». Il lato pra- tico del problema, chie è il
solo veramente impor- tante, non ha sensu per l'assolulista: tutto ciò
che è, è necessariamente come apparenza dell’Assoluto : ogni cosa l
determinata nel suo essere e nel suo di- venire; ia connessione fra le
cose è assoluta, ogni —— evento è determinato da lulti gli eventi (3).
Non esi- lai” sad (1) SCHILLER, Ivi, po 287-258.
nati (2) James, 1 Pturat. Univ. p. 117, — Una simile domanda
è rivolta dal James al teismo creazionista del Leibniz (e si può |
rivolgere ad ogui specie di creazionismo). Vedi: A «Plural. Univ., vp.
119 120. « Perchè Dio crea liberamente questo mondo imperfetto, e non si
contenta di contemplarlo nello schema ideale perfetto? » >
95 James, 4 Plural. Univ., pp. 55 © 77. 2a La Religione nel
Pragmatismo ioni; i é che stono possibilità di nuove
connessioni; non vi è c ; DE ‘possibilit: quela che s’identitica Son IP
DESeRa silà. L’indelerminatezza del reale e la bo. FR na sono
chimere. Ecco a che conduce. la Assoluto. Eibovo queste terribili
accuse ACCIAIO deil’Assolulo noi ci aspettiamo di NEdSri dan nato
alla irrealtà dal metodo PrOgmal sa MEO amet no RO . Dal punto di vista
intel: ì es (1), E ris : ) 5 : CRA gua SelSsolnio Do i SA ISRUIL
SDOlai elipotesi RO se l'Assoluto rende dei ser- Di all'uomo.
Orbene, quantunque l'Assoluto sia e non possa essere il Dio della
religione popo- laure ordinaria e non si debba confondere col Dio
del Cristianesimo c della Lcologia ortodossa — ne vedremo più sotto il
perchè — tuttavia è stalo e può essere il Dio di una certa classe.
d'uomini, che in Lui solo trovano la pace {?). Ciò che sembra
logica- nente assurdo c impossihi può essere dimostraio in q
non le — dice lo Schiller ualche modo con una
fede eroica e palelica, Non v'è materiale così poco pro- Inettente
che non possa divenire il fondamento di una veligione. Non' vi sono
conclusioni così bizzarre che non possano essere accellale con fervore
religioso. Non vi sono desideri così assurdi Ia cui soddisfa- zione
non possa essere riguar data come un atto di cullo
(3). Perciò l’assolulo può esistere ed esiste come Dio se ha una
reale iniluenza s ulla vita umana, se è qual- “ehe cosa di
vitale e di valutabile pragmalicamente. Ebbene, la storia delle religioni
ne ha dimostrato l'utilità. Vi sono unime che hanno bisogno di una
sicurezza assoluta che l'esito del mondo sarà buono, che l'universo non
audrà in isfacelo sotto il COZZO (1) Zut, p. 110, (2)
Jul, pp. 110, Iii, 1923; Der Pragmatismus, VIII Vorl., ASSI, (3)
SCHILLER, S/ud. in Ilum., p. %6.
i Iîì Pragmatismo Ti degli clementi
instabili e fortuiti; lale sicurezza non può aversi che ammettendo
un'assoluta necessità e una interna coerenza del mondo, una
determinazione a priori del futuro. Vi sono anime che provano
un sentimento d’orgo- glio al pensiero di essere una parle, una
«manife- stazione », un «veicolo» o una ripreduzione della Mente
Assoluta (1). Vi sono quaggiù anime stanche, accasciate sotlo il peso del
male, incapaci di trovare in sè stesse la forza di vincerlo; la loro vita
si sfa- scia ed hanno bisogno di risolversi nell’Assolulo, co- me
una goccia d'acqua nel mare. Noi tutti abbiamo dei momenti in cui
aspiriamo al Nirvana, alla libe- razione di noi stessi dalla esperienza
finita. Questo stato è proprio degli Indiani, dei Buddisti e dì
certi temperamenti mistici ai quali è conforto ed ebbrezza il
sapere « che tutto è necessario ed essenziale, anche l’uomo col cuore e
con l’anima ammalati: che tutto è uno in Dio e che in Dio lullo è buono.
che in que-. slo mondo di apparenze, qualunque sia il nostro suc-
cesso, siamo sempre dei miserabili » (2). Vi è dunque un istinto
dell’Assoluto. L’Assoluto può servire all'uomo, e perciò, nonostante le
sue as- surdilà, il pragmatismo lo rispetta — ci dicono a una voce
il James. e lo Schiller — poichè gli istinti uma- ni sono preziosi ©
sacri (3) e tutto ‘ciò che opera è vero finchè opera. IL’Assoluto è salvo
sotto le grandi ali della misericordia... del pragmatismo. ,
Il quale pragmatismo inclina tuttavia ad un'altra concezione del
mondo e quindi di Dio. L’'Assoluto mena necessariamente
all’indifferenlismo e al quie- lismo; non è uno sprone al lavoro audace
dei forti che non rifuggono dal male della vita ma lo affron- tano
pur nel dubbio di trionfarne, esso è per le ani- me un oppio spirituale;
è il Dio dei deboli, degli stan- (1) JAMES, Mer Praymatismus, VITI
Vorl., pp. 174-194, passim; SCHILLER, Stwal. in Mum., PP. 289-290.
(2) JAMES, ivi, pp. 187-188. Numerosi esempi di questo singo- lare
stato d'anicao ha offerto il James in: L'Expér. relig., Chap. X, pp.
353-358, (3) JAMES, Der l'ragmat., p. 176; SCHILLEK, op. c., p.
YI. fo) La Religione nel
Pragmatismo chi (1); il pragmatismo non può accertarlo. Si è
aC- cusato il pra matismo di irrceligione; @ torto però. Non è a
credere che la dottrina pragmalista, rigel- tando VAssoluto e il Dio del
teismo monarchico, ne- ghi che il mondo contenga in forma di coscienza
qual- cosa di più grande e di meglio che la nostra co- scienza.
Forse che la nostra fede istintiva in esseri superiori, il nostro
persistente rivolgersi verso una società divina non è che una illusione
patetica di anime incorreggibilmente sociali e immaginative? (2).
No, l'ipotesi di Dio è vera, perchè ha una eMceacia reale; per quanto
possano essere gravi le difficoltà che le si oppongono, l'esperienza
dimostra che essa opera. Il problema di Dio consiste in questo: come
elaborare l'idea di Dio in muniera di farla entrare in accordo con le
allre verità operative? (3), Ebbene, è logicamente possibile di credere
in esseri sovruma- ni senza punto identificarli con l'Assoluto. Il
con- _celto dell’Assoluto sta in funzione del monismo idea- listico
; il concetto pragmalista di Dio sla in funzio- ne del pluralismo: è la
forma pluralistica del pan- teismo religioso. Il pluralismo — in
quanto ha rapporto con la re- ligione — ammette col monismo la immanenza
di Dio nel mondo, come vita e sostanza profonda delle “cose,
sostanzialmente identica con la vita e con l'es- sere più vero dell'uomo
(4), ma differisce inconcilia- bilmente dal monismo negli svolgimenti
ulteriori della lesi unica. — Per il pluralismo la vera realtà
delle cose è la loro individualità. Il mondo è collezione, non unità.
Ogni (1) JAMES, iui, pp. 176 @ 188. (2) Jimes, Her
Praugmal., pp. 178-192, Anche lo Sc È Ste 4 DI È 162, A o SCHILLER
pro- is contto LASERSA CIFITTRLIEIONO fatta alle nuove dottrine f
adley, Cfr: Stud. in Mum., D. 195. — Per Îl res della citazione, vedi; A
Plural, Unlv., n° 133. Per E (3) Jamrs, ber Pragmat., p.
192. (4) James, A Plarai. Univ, p. 31 -- Lo Schiller parla
del Pluralisino in generale in: Stud. in Human D 907 è 459; vl
ROSSO alla sfuggita in altri luoghi per la relazione del. plu- ralismo
con l'Umanismo, vedi. Humanism, pagina XX PI LA
SE cosa pensabile, per quanto vasta e inclusiva, ha un ambiente
esteriore: non è mai (ullo-inclusiva (AU inclusive). Nessuna inchiude
lulte le cose assorben- done la realtà tutta, nessuna domina su tutte.
Men- {re la realtà del monismo è caratterizzata dalla All form
(formia del tutto o dell'uni-tulto), quella del plu- valismo è
caratterizzata dalla Zach-form (forma del le individualità o
distributiva, come altrove la chia- ma il James): è la forma dataci dalla
esperienza im- inediata. Il mondo pluralistico è piuttosto una
repub- blica federale che un impero, un regno. L'unione delle cose
singole — atomi e unità spirituali — non è compenetrazione di tulte in
ognuna, non è il tipo del la unione monislica della tosalità-unità
(Alleinheit), non è complicazione universale, ma contiguità, con-
tinuità, concatenazione di individui; è il lipo di unio- ne synechislica
(1), quindi vi è dislinzione e indipen- denza. Perciò nessun centro di
coscienza, nessuna azione puo lutto abbracciare: qualche cosa
sfugge sempre e non può mai essere ridotta all'unità to) Non c'è
un'assoluta unità causale del mondo; non cè un'assolula unila generica;
non e'è un'assoluta unità teologica e morale; non c'è un’assolula
unità estetica, non c'è un’assolula unità noelica attuale
(1) JAMES, A Plural Univ., pp. 34, 321, 325. — Il «synechi- smo» è quella
tendenza del pensiero filosofico che fa dell’idea di continuità una delle
più Importanti in filosofia. Il continuo è inteso come qualens cosa le di
cui possibilità di determina- zione sono inesavribiti. (2)
Oltre questo synechismo — che è metafisico — ve n'è uno
epistemologico, cioè la concezione della verità sistematica come
gradualmente approssimabile, ma non mai interamente taggiunsipilo dal
pensiero. I.'uomo tende a una interpreta- zione scinpre più razionale e
coupleta dell'universo, ma ogni fase del processo conoscitivo non è che
una razionalizzazione parziale della realtà. CIr. l’arucolo del PrRcE
Pragmatism nel ictionary of Philosophy del Bal&win. Secondo il Peirce
il | Pragmatismo è parte deila dottrima più larga del synechismea.
(Credo che il nemne sia del Peirce). Cfr. la bellissima opera Thegries of
Knowledge, del P. WALKER S. T., TLongmans, Lo; dra 1910: da essi
ho prese queste cliazioni n proposito del symechismo, dal
7 9 80 La Religione nel Pragmalismo
dell'universo (1). Vi sono «reali possibilità, reali indelerminazioni,
reali incominciamenti, reali finì, roali mali, reali crisi, reali
catastrofi e reali scom- pi (2). Nel mondo accanto all'ordine vi è il
Cso ne, accanto al sapere, vl è l'ignoranza, accanto a bello il
brutto, accanto al bene il male: non vi è dunque perfetta, unità, ma
molteplicità reale neil u- nità imperfetta. Forse l’unità perfetta non vi
sarà mai; forse non potranno essere liberate dalla di- sgregazione
e dal disordine che certe parli del mon- do, quelle alle quali si estende
la nostra allivilà uni ficatrice. Ad ogni modo la piena unità, se sarà
pos- sibile, nella ipotesi pluralista non è al priucipio ma alla
fine, non un primo ma un ultimo (3); la salute — ogni salule, anche ia
parziale — non è necessa- ria, certa a priori, ma solo possibile. Nella
concezio- ne assolulista il fondamento della realtà è l’unità sta-
tica; nella pluralista sono delle possibilità, pure pos- sibilità. Il
pragmatismo riconosce un valore reale al- la prima, ma preferisce la
seconda, come più in ar- menia col suo temperamento, poichè essa è alta
a suscitare nel nustro spirito un numero maggiore di esperienze
future e sprigiona in noi determinate al- livilà. Il suo effetto
sull'uomo non è il quielismo, 1a il lavoro strenuo, poichè com’essa
insegna, da lui {dall’uomo) dipende la vittoria sul male: vittoria
pos- sibile a prezzo di lotta contro i pericoli e la resi stenza
della realtà ad essere redenta è unificata. Così il jvagmatismo tiene Ja
via di mezze fra l'ollimismo — per il quale la salvezza del mondo e
dell’uomo è “sicura — e il pessimismo per il quale ogni salute an-
che parziale è impossibile. Il pragmatismo è melio- tristi: per esso il
fuluro sarà di più in più migliore del vresente come il presente è migliore
del passato. E la possibilità anzi la probabilità della salvezza
per (1) JAMES, Mer Pragmatismus, p. 79-102; A Puwal. Univ.
specialmente Zesi. VIII pp. 303-331. (2) JAMES, Will to Believe,
p. IX { Schiller: In Huinanism, pagina SI p , Gitato dallo Schiller
(1) JAMES, Der Pragmatismus, pp. 79-102 e 180. _
i mo. il Pragmatismo 8
ja liberazione dal male e per la diminuzione della moltiplicità
non unificata aumenta in proporzione del numero e della bontà delle forze
iiberatrici. Vi sono delle forze sovrumane che lavorano e
lot- tano con noi? Allora la incertezza della salute è
ridoita di mol- lo; possiamo sperare che l'esito del mondo sarà
buo- no. Qui si mostra in tutto il suo valore reale l'ipo- lesi di
Dio; per questo gli uomini religiosi del tipo pluralistice hanno sempre
credulo in Lui (1). Ma chi accelta il pluralismo ed ha bisogno di forze
sovru- mane (2), deve elaborare il concello di queste in mo- do da
accordarlo con le esigenze e con le verità ope- rative di tale dollrina.
Quindi: la realtà divina (o le lealtà: vedremo più sotto se al singolare
o al plura- le) deve coesistere con lulte le altre realtà indivi-
duali inferiori, non assorbirle;j deve lasciar sussiste- re le
possibilità, le indeterminazioni, la libertà e quin- di la incerlezza del
futuro; dev'essere personale al iagdo nostro, poichè diversomente ci è
impossibile 1 mità con essa: in una parola: può e deve es-
SIRO più grande di noi, ma ron infinita, più potente RT Ta Tio
onnipotente. Noi non sappiamo che Alon Si Di s7ranico alla nostra natura;
noi vo: FTT ESAC sla intimo a ciò che è umano in Tondo dr 5 amen e
umano, al mondo in quanto è ONT sperienza. Noi e il mondo di cui
siamo Perche Dig SO nel tempo e abbiamo una storia; RSA la f
apporti reali, non puramente astrat- CES col mondo deve esistere nel
tempo e una storia, deve quindi escludere la staticità
È RE Der Pragmat., pp. 182, 183, 191. IESUe i celli accetta il pluralismo
con tutti i suoi pericoli e Îlifmonda Fuso 4 se la sente di lottare du
solo per rendere Riones E TERE RMS: tali uomini non hanno bisogno ui
reli- Tenero » che pool temperamento diameualmente opposto «al
tieni Ja SR dsc lAssuluto. Come si vede, il pragmatismo sulla AT i mezzo
— che è la via aurea — perchè conta a dleì temperamenti umani. I
più degli sono dai i . I pi egli uomini : si EONANO I SIANZA dei
due temperamenti opposti: a questi mamente ul tipo meltorislico
del telsmo,. Ivi, p. 193- Pragmatismo - 6 v
PEPE], Pg ASS RE. I RARE 1
pragmatismo È s2 La Religione ne ,” ed avere Un
ambienté esiratemporale dell'Assolulo esterno come noi.
essere, IN una arola, uno degli euch, UD mombro del mondo pluralistico,
una conti nuazione di esso (1). i ; Uno o più? Monoteismo 9
polteismo? Si può con: cepire Dio monoteisticamente e politeisticamente
_. ‘dice il James — purchè sj ammetta la sua finità; è Vunica via
per sfuggire a tutti gli assurdi e gli 1n- convenienti che por sè l
Assoluto (2). Tuttavia il pragmatismo inclina evidentemente al
politeismo, alla concezione di diversi del, ognuno dei quali Ss!
occupa di una frazione dell'universo; © di una ge- rarchia di coscienze
inferiori che vanno dalla c0- d una suprema, senza soluzione
scienza della razza ® | i a non è infinita perchè di continuità; ©
la suprem infir ‘sintesi di coscienze finite (3); © è — dice il
Boutroux — ‘un sostituto pragmatistico dell'Uno astratto degli
idealisti; in essa € per essa le coscienze inferiori pos- sono
entrare in relazione fra loro, amarsi e compren- dersi (4): sla qui il
suo valore pratico. ‘Tanto il James come lo Schiller tengono molto
a rovarci che la loro concezione del divino sì accorda
perfettamente con la religione pratica, con la espe- rienza religiusa
dell'uomo ordinario, e con la teolo- ia orlodossa non inquinata dal
veleno monistico. — «Ne Jehova dell'Antico Testamento nè il Padre
Ce- Jeste del Nuovo hanno nulla di comune con l'Asso- julo se non
questo, che lutti e tre sono più grandi dell'uomo. Difficilmente io posso
concepire qualche fn 9” cosa di più diverso dall'Assoluto
del Dio di David 0 (1) JAMES, A putrat, Univ., DI. 318.
(2) JAMES; Ivi, p. 310-311. 13) È la teoma di Fechner che il JAMES
€S sone nella IV Let ‘tara del suo: 4 Plural. Unw.: "Concerning.
Fechner »: 133-177 0 oo : ì questa coscienza feclneriana «
esistente dietro le quinte ; da È del mendo» e non ienulicabilc con
l'Assoluto dei ° rascenden- ‘ ° talisti, il James sveva già pirlato in una
conferenza « sull'im- i Saggi “Pragmatisti: « L'ime |
i | mortalità dell'anima » nel 1898, Cfr: (mortalità
dell'anima » p. 199, (4) Op. c. Di JI. =
Il Pragmatismo 83 di Isaia. Il loro Dio è un essere essenzialmente
fini- to... nel cosmo; vi ha un'abitazione e attaccamenti locali e
personali » (1). La coscienza religiosa ordinaria postula un Dio
par- ziale, un Dio che ci soccorra e simpatizzi con noi po- veri
framinentli finiti del tutto (2). In nessuna religione il Divino, il
principio dell'aiuto e della giustizia, è ri- guardalo come onnipolente
in pratica (3). Il politeismo originario dell'umanità si è svolto
solo imperfellamente e oscuramente nel monoteismo. E il monoteismo
stesso, in quanto è veramente una reli- gione e non il tema di conferenze
universitarie, ha sempre vedulo in Dio nient’allro che un aiuto, un
primus int:r pares in mezzo alle altre potenze che pre- sicdono alla
storia del mondo e la formano {4). Il tei- simo pratico e popolare è
sempre stato piu o meno francamente un pluralismo, per non dire un
politei- smo. Cioè, il leismo volgare si adatta a un universo
risullante di più principì indipendenti gli uni dagli al- tri, purchè gli
sì permetta di credere che il principio divino (dal quale viene l’aiuto)
sia il principio supre- mo, al quale gli altri sono subordinati (5). E
vero che questo Dio e rivestito anche dal volgo, come dai filo-
sofi, di qualcuno di quegli attributi melafisici che ab- bianìo così
severamente giudicali. È «unico », è «in- finito »; l'idea che possano
esistere -più dei finiti nn è neanche discussa. Ciò si spiega dal falto
che il po- polo s'inchina davanti alla autorità dei filosofi amanti
di unità e dei mistici inclinati al monoteisra9». In reullà la credenza
religiosa è semplicemen'e la fede in qualche cosa di più grande in cui si
può trovare la liberazione dal male. I bisogni pratici e le
esperienze (i; James, A Plural. Univ., pp. 110-111 Cc 194,
(2) SQUILLER, Stud. in Zum., p. 280, Lo Schiller aveva difesa. e
svolta la idea di un Dio finito gia In: Riddles of the SpIinz Cfr.: Le
Dieu fini (par Dessoulavy), Rev. de Fhilos., VIIL, Dp. 447-457, anno
1906. (3) Scun LER, Stud, in IHum., p. 19ì. (4) TAMES, Der
Pragmat., p. 192. (5) JAMES, L'Expér. relig., Chap. V, p.
pormi —_—T—_u__oei”niuocoenau<{iite0tt@ en
TEZZE RR a ge 84 La Religione nel
Pragmatismo dell'anima religiosa NOn esigono altra credenza
che esta: esisle per ogni individuo una porsnza supe: riore &
lui, e a lui favorevole, alla quale può \.nirsl perchè parlecipa della
sua stessa nabvura. Per susci- tare la confidenza dell’uomo pasta che
quel potere sia assai grande, sia più grande dell'io cosciente, non
è necessario che sia infinito © unico. Si potrebbe conce- irlo come
Un “ jo» più grande € più divino, del quale io attuale non sarebbe che
l'espressione in piccolo: Puniverso spirituale sarebbe allora Vinsienic
di questi «io» più 0 meno comprensivi, ma non la uniti usso- luta.
Questa specie di politeismo è sempre stata la religione del popolo e 10 è
ancora (1). La credenza opolare “ ammette ì miracoli e le direzioni
provVI- denziali; non prova nessuna difficolià @ mescolare il mondo
ideale è il mundo reale, i supporre che le po- lenze spirituali
intervengano nel gioco delle forse tisi- Vide che a determinarne gli
avvenimenti particolari ». Qui sta il vero valore di Dio o del Divino e ì
praginaUusti sì schierano tra i difensori di questo sopraunatutali.
smo. Il soprannaturaUsino grossolano? Si, dice il Ja mes; e io sono
persuaso che questa è L'ipotesi che sod- ita disfa un più gran numero di
legittime aspirazioni del cuore e dello spirilo: per questo il
pragmatismo la fa sua, ed anche perchè è mirabilmente confermera da
ai cerle esperienze religiuse. Quelli che le hanno provate st Riti sanno
che nol abillamo in un ambiente spirituale in- visibile, donde ci viene
l’aiuto; che la nostra anima è misteriosamente una con un'animu più vasta
di cul noi siamo gli strumenti. Niente ci forza a credere che uesta
anima sla intinita, perfetta : l'ipotesi più nalu- rale e più probabile è
ammettere che VI ha un Dio, ina finito, sia in potere 0 in sapere 0
nell'uno e neli'al- } tro (2). 1:4% (i)
gas, L'Erpér. relig., DD, 194495 - 7 i, (2) JAMES, LED. 131-193, dove si
trovano le parole sottoli î neate da ine; A piurat. Univ., PD. 308, gli.
— A_PAE: 125 è più Da categorico. DOpu aver dgto ragione 2
Giovanni Mul il quale DI aveva detto che bio non può essere oggetto di
religione ine L che non gli si toglie la onnipotenza, aggiunge: “ To
credo che : unicamente un Dio finito è degno di questo nome »,
appunto perche, per lui, Dio è e dev'essere il Dio della religione.
* bd mici dissi a = o Ie Les E così
è sciollo il problema del male. Im questa con- cezione Dio non è
responsabile dell’esistenza del male, non lo sarebbe nemmeno se il male
non dovesse mai esser vinto, Nel mondo panteistico, come s’è veduto,
- il male, come ogni altra reallà, deve avere il suo prin- cipio in
Dio: e la bontà di Dio, che è essenziale asso- lutaumente alla religione
— dice lo Schiller — come sì salva? Ebbene ammettiamo che fin
dall'origine il mon- do è un insieme di principî distinti, che il male
non è parte essenziale, ma un elemento indipendente e la bontà di
Dio è salva: il problema teorico del male è- sciolto. E col
leorico anche il pratico. Se tullo ciò che è, è essenziale, come parte
dell'Assolulo, il male è indi- struttibile; se invece è elemento non
appartenente al- essenza della realtà, noi possiamo sperare di
poter- Ì lo espellere (il male) presto 0 tardi (1). Perciò lutte a
le forme di teologia, eccettuata quella più filosofica che ee ha subito
l'influsso degli assolutisli, concepiscono di fulto il male come dovuto a
un potere che non è Dio e ne è in qualche modo indipendente: è denominato
variamente: «materia », « volontà libera », 0 « il dia- volo ». La
onnipotenza di Dio dei teologi non è quella dell’Assoluto: essa è
dipendente da necessità metafi- siche (2). HE Concludendo: In
questa concezione di Dio elaborala col criterio del valore pratico sulle
rovine della critica. È dell'Assoluto e del leismo scolastico e in
armonia col si pluralismo, abbiamo tutto ciò che corrisponde alle.
4 esigenze umane del divino; è salva la libertà del- l'uomo: è dato un
fondamento alle sue speranze è al suoi desideri di salule ed è resa
possibile la massima. intimità fra il mondo c Dio: intimità di sentimento
e intimità morale, cioè la vera religione, che tanto ha operato e
opera sulla condotta. : Noi chiediamo ; « Di che natura sono le reallà
spl TOA =
(1) L'Expér. relig., Chap. V, D. 107. . “A () ScHILLer, Stud, in
Mum., p. 288; JAMES, 4 Plural. Uniw,, - -.86
La Religione nel Pragmatismo ; P, rituali più alte? »
« Io l’ignoro » risponde il James (1). Chiediamo ancora: ‘ esistenza di
Dio è un puro "contenuto soggettivo, ovvero è oggettiva? » Poichè
am mettiamo bene che l’azione di Dio, nell'esperienza re- |
ligiosa, è reale, che ha un'efficacia reale e che tutto | accade come Se
una forza sopramondana agisse diret- tamente sul mondo dell'esperienza
umana (2); am mettiamo bene che l’esistenza di Dio ha un reale va-
lore pratico quando è affermata con fede, specialmente coloso com'è
quello del pluralismo ; ‘in un mondo peri ina noi sappiamo dal
James stesso « che certi oggetti ovocano in nol delle reazio-
uramente intellettuali pr C i C î ‘così 0 più forli che gli
oggetti sensibili o reali (3). Ora è precisamente questo che domandiamo:
le realtà sovraumane hanno un'esistenza oggeltiva, indipen-
dente per sé dalla nostra esperienza soggettiva, 9 in-
dipendente solo perchè noi, con Patto di [ede, V'alfer-
- miamo lale? e TS il pragmatismo questa domanda non ha
sen -S0; richiamiamoci alla mente la sua dottrina della verità,
della realtà e della conoscenza. Una dottrina che nega il valore
rappresentativo dei concetti e professa il nominalismo; che dichiara
di te abbandonare la logica francamente, recisamente ©
irrevocabilmente (4) » non può condurre che all'agno- slicismo e allo
scetticismo. È Ben poco ci rimane da dire dell’applicazione
pragmalistica del criterio delle conseguenze alla reli- gione
dopo quanto siamo venuti esponendo fin qui. Che cos'è la religione? È
assai probabile che nen e che quindi è impossibile definirla. «
Religione » non designa un principio unico, ma piuttosto una
collezio- ne: non v'è un'emozione religiosa elementare, come
(1) L'Expér. relig., D. 136. (2) James, L'Erper. relig.. D.
433, (3) Zut, p. 45. ù (4) A_Plur, Univ., p. 24.
arriveremo mai a scoprire “ l'essenza della religione »-
Il Pragmatismo 87_ non esistono nè un oggelto religioso nè
un atto reli- gioso specificamente determinati. Se è impossibile
da- re una definizione astratta della essenza della religio- ne non
è però impossibile delimitarne il campo e in- chiudere in una formula i
lraiti caratteristici empimci délla religione. Una divisione salta subito
agli occhi: tra istituzioni religiose (0 religioni stabilite) e religioni
individuali (0 personali). La religione stabilita è un in- sieme di
istituzioni, di cerimonie, di riti, di sacrifici propiziatori, di dogmi,
di organizzazione del clero; si può definirla: un'arte pratica di
assicurarsi il favore della divinità, La religione personale è la vita
interio- re dell'uomo religioso; gli atti che essa produce sono
| personali, non rituali ; l'individuo sbriga da sè i pro-
pri affari con la divinità ; e la chiesa coi suoi preli, coi suoi
sacrumenti e con tutti i suoi intermediari passa in ultima linea. Si può
definire: «le impressioni, i sentimenti, gli atli dell'individuo preso
isolatamente in quanto si considera in rapporto con ciò che gli ap-
parisce conie divino » (1), comunque poi s'intenda que- sto divino: come
legge dell'universo, come anima del mondo o come un Dio personale.
Parliamo anzitutto del valore della religione in senso personale e
poi del valore delle religioni o istituzioni religiose. — Per quanto
grande sia la differenza con cui l'elemento religioso si combina
nell'uomo con gli altri elementi del pensiero, anzi, per quanto
diverso sia il principio stesso religioso nella molteplicità delle
sette, dei credo, e dei tipi religiosi (2), noi possiamo affermare che le
credenze più caratteristiche della vita religiosa sono: 1.° Il mondo
visibile non è che una parte d'un universo invisibile e spirituale,
dal quale viene lutto il suo valore. 2.° Il fine dell'uomo è
l'unione intima, armoniosa con questo universo. (1) James,
L'Expér. relig., D. 2427. — « Nous entendrons exclusivement par le divin
une réalité première de telle na- ture que l'individu se sent obbligé de
prendre vis-A-vis_ delle ‘une attitude solennelle et grave, en
Jaissant de coté tout blasphème et toute plaisanterie » (p. 34). — Son io
che sot» | tolineo. (2) JAMES, L'Expér, relig., P.
406, tas dee tie. nea 880. La
Religione nel Pragmatismo 9.0. La preghiera, cioè la comunione con
lo spirit dell'universo — sio esso un Dio 0 solamente una ;
legge — è UV atto che non resta senza effetto: ne i risulla un influsso
di energia spirituale che può mo- “A ‘ dificare in una maniera sensibile
(anto i fenomeni materiali quanto quelli dell'anima (1). (ei
Nella valutazione di queste credenze il criterio non sarà,
naluralmente, un sistema speculativo o {eolo- gico, ma i frutti, le
conseguenze pratiche : dal frutto . sì conosce. l'albero. E poichî nella
religione il senti- mento vi ha la parte fondnmentale, vediamo
qual'è il valore affettiva della religione. Tolstoi ha detto che Ja
religione fa vivere gli uomini. Il sentimento veli- gioso è uneccitazione
giocunda, un'espansione dine- mogenica che tonifica e rianima la potenza
vitale: aggiunge n valore nuovo alla vita, c agli oggetti più ore
inart un fascino e uno splendore insolili. Se la religione non avesse che
questo valore soggettivo, IR non fosse che una serie
di fenomeni psichici, senza } $ nessull contenuto intellettuale, vera 0
falsa che cessa RAI — fosse, nol sarebbe meno una delle funzioni
biologi- UU: che più importanti della specie umana; ciò che
ha SRO, fatto dire al Leuba che il fine della religione non è 373
Dio, ma la vita, una vila più larga, più ricca: Dio 2: non si
conosce, non si comprende, Ma si sfrutta (2). Ma la religione ha anche
un'immensa fecondità pratica sociale. JI frutto della vila
religiosa è la santità, che inchiu- de in sè tutto ciò che di meglio ci
abbia dato la sto- ria. La santità ha avulo bensì delle
manifestazioni ché la coscienza moderna non può acceltare, ma VE
n'ha di quelle — e SONO più numerose — che ci rive- lavo nei santi dei
precursori © dei creatori. La san- lità accresce nel mondo în somma di
energia mora: le, di bontà, d'armonia, di felicità. La santità con
la (1) JAMES, Ivi, p. 405. — Nol sappiamo già a quale fra le
varie convezioni «el divino il pragmatismo dà la preferenza e per quali
ragioni. 2 (2) Citato dal JAN:S, ivi, D. 199-193: «Il ne faut Pas
dire que l’on connalt Dieu, cu qu'on Je comprend; ll faut dire que
l'on s'en serta, sua forza d'animo, col suo amore eroico pei
mise- rabili più ributltanti, col suo spirito di. sacrificio, è un
fallore essenziale del benessere sociale. La reli- gione è la condizione
necessaria di certi effetti, la «fonte dei quali nè l'individuo nè la
società hanno sa- | puto trovare altrove: il disinteresse, l'energia, la
per- severanza (1). : 2 BAR Olire questo valere affettivo, o
biologico, indivi duale e svciale, la religione ha anche un valore
in- lelleltuale? Questa questione si divide in due — dice il James:
— «Solto la moltitudine delle credenze vi sono delle affermazioni comuni?
» E: «sono vere tali affermazioni?» La risposta alla prima questione
è affermativa: in tutte le religioni vi sono due stali —»- —.
d'anima identici: il sentimento d’inquietudine che <S in noi c'è
qualche cosa che va male, e il sentimento che noi siamo salvati dal male
entrando in rapporto con esseri superiori — con qualche cosa più
yrande di noi: lotta e liberazione: ecco la sintesi della reli-
gione personale e il perchè del suo immenso valore sulla vita. Ma che
cos'è questo qualche cosa di più grande? È reale o immaginario? Come
possiamo en- {rare in rapporto con lui? Qual'è, insomma la verità
della religione? Xispondeve a quesle questioni impiicile nelia
se-. conda è costruire delle sopracredenze (surcroyances)
individuali e collettive, tutte buone se aiimentano il nucleo vitale
della religione. Vi possono essere e vi sono di fatto tante aggiunte
individuali alla credenza unica quanle sono le anime o i lipi religiosi
(2), Il «rapporto col divino potendo essere, o essere inter- {
pretato come rapporto o morale o fisico, o rituale, «Si capisce
come possano nascere delle costruzioni 7A _ losofiche e leologiche —
delle quali abbiamo visto | Valore — e anche come sorgano le Chiese
(3). . James, e con lui, naturalmente, più o meno tuil
SA (1) JAMES, L'Expérien. relig., Chap. VIII e IX.
E) (2) JasrEs, ivi, pp, 406 e 423-125, — Ci è nota la sua croyance.
0% ‘La Religione net Pragmatismo pragmalisti — non ama
— a dir poco — le Chiese, con la loro organizzazione, coi loro. dogmi,
con le loro tradizioni, perchè in esse è uccisa la vita inte-
AQ ogni modo e dogmi e culto e mi debbono es: sere giudicati daì
frutti individuali e social, e i frutti della vita religiosa sono
sommessi alla giurisdizione del buon sense (2) e dei pregiudizi
filosofici e istinti morali — dice allrove (3). Ed essendo questi
pregiu- ‘dizt, questi istinti e questo buon senso frutti, essi stessi,
dî una. evoluzione empirica incessante, anché le idee religiose si
andranno incessantemente modi- ficando. Dal giorno che ìi frutti di una
data forma re- ligiosa perdono ognì valore, dal giorno che la vec
chia credenza è in contraddizione con un nuovo idea- le; dal giorno che
la ragione la dichiara lroppo pue- rile, troppo assurda o troppo
immorale... essa cade trascinando, nella sua caduta, il Dio creato
dall'uo- | mo per «servirsene » (4). E noi confessiamo che in i una
dottrina interamente antropocentrica, nella qua- d le l'uomo è la misura
di iulte le cose, cioè, le esi» È enzo, i desideri e gli interessi umani
nel modo che s'è veduto, lutto ciò è logico ©... anche utile, fino
& un certo punto: Ed è naturale che il pragmatismo creda di
fare un mondo di bene alla religione € alle religioni. Ci dice lo
Schiller: Il pragmatismo jo uma nist,0) ha dimostrato che la volontà di
credere sta. ulla base, non solo della religione, ma di qualunque -
gpecie di inferenza 0 di atto razionale, e che, quindi, la sfera dei
iudizi di valore non è coestensiva solo | |» alle verità religiose, ma a
qualunque verità: la fede i lia così cessato dì essere un ‘avversario e
un sosli- i | futo della ragione ed è diventata un suo costitutivo
| essenziale. ‘ Come potrà la ragione contestare la validità
della dor: L'Erpér. relig., speclalinente Chap. IK, pp.
281-293: IA Ivi, p. 293. (9) /vi, p. 281. 7 (4) Ivi, p.
272. — Pel «s î actetta: p. 27 Pel «servirsene» cita ancora il Lepba
L lì Pragmatismo dI fede, se la fede è essenziale alla
sua stessa validi- tà? (1). — E altrove: « Tutte le religioni
(concrete) possono profillare dell’atteggiamento di simpatia che
l'umanismo assume davanti agli istinti religiosi del- la nalura umana e
verso le evidenze e i metodi delle religioni. 1l pragmatismo, affermando
il fatto reli- gioso e il suo valore sulla base dell'esperienza
inte- riore e dei risultati individuali e sociali, rende vani gli
altacchi razionalistici e mette la religione al sicu- ro dalle confutazioni
dialettiche. Il pragmatismo inol- (re, come si è mostrato un eccellente «
eirenicon » tra le dottrine filosofiche, apparirà un «eirenicon»
non meno efficace tra le religioni. Non è vero che lutte operano
(in senso pragmatista) in una cerchia più o meno vasta? Ma allora esse
sono identiche nella loro parle veramente vilale, attiva: e che importa
sc dif- feriscono teoricamente? Terzo beneficio: il: pràgma- lismo
libera, così, le religioni da ciò che vi è in esse di non-funzionale,
dalle incrostazioni parassilarie ed csiziali, e, per tal modo, le
rinvigorisce. — Che cos'è la parte non-funzionale della religione? È il
suo lato teologico (2). 18 qui una tirata contro i sistemi teolo-
gici, contro le infiltrazioni della metafisica greca nel « Credo
atanasiano » e contro l’identificazione di Dio con «l'Uno». Già! — La
conclusione possiamo ac- cettarla anche noi, ma basandola su fondamenti
af- futio diversi da quelli del pragmatismo: «La reli- 5 gione più
vera è quella che proclama una vita mi- $ , gliore e la promuove» (8).
; (1) Stud. in Hum., pp. 352-353. | (2) ScurLrer: Stud. in Hum., p.
363. | ,..(8ì E la conclusione dell'Essay, XVI: Fatt, Reason and Ri
ligion in: Stud. in Humarism, p. 369: «the truest reli tons that
Which issues in and fosters the best life», Rd
A eri della Logica formale nella con= Sommario:
S 1. Caratt — { 2. La validità formale. cezione dello
Schiller. gi. Lo Schiller (1) sotto il nome di « logica formale»
inchiude e condanna non solo quella che da al tri è designata col nome di
« logica formalistica » mn anche la logica formale propriamente
detta, e, cri | licando e condannando quella, presume di aver
cri ficato e condannato anche questa, cioè, in blocco, .
tulla la logica tradizionale e classica, alla quale do- vrà sostituirsi
la logica psicologica, 0 psicologistica, cioè quel complesso di leggi o
regole o norme del pensiero che risultano dall'analisi psicologica del
pen siero, ossia dalla considerazione dei processi del pen-
| siero, non in una pretesa forma di esso di materia idel
concetto, del giudizio, del raziocinio con: siderati astraltamente nella
loro forma verbale di temine, proposizione € sillogismo considerai9
esso pure, a sua volla, astrattamente), ma nel loro sor- gere e
syolgersi allraverso la fitta rete psichica di Fferessi, di desideri,
ecc. : la logica dello psicologi smo e della forma speciale di esso
offertaci dal prag- matismo, insomma. Una logica & posteriori
risut 1) F. C. S. SCHILLER. — Formul Logic. A sclentifle and
s0- cial Problem. ——> Un yol, in:8 pp. XII-123, Macmillan and
0.9, ‘London 1912. stinta dalla | er
selezione, non a priori, una logica, pare, SOA sì, ma indotta in base a
postulati, non dedotta. Il pensiero puro, così come la forma pura
del pensiero non esistono; quindi ogni logica è neces- sariamente
empirica nella sua origine e nel suo va- lore. E così con la logica
sillogislica è condannata anche la logica del concello col solo semplicismo
che abbiamo imparato a conoscere altre volte nello Schil- ler. Ma,
evidentemente, prima di condannare in bloc- co, bisogna vedere se tra la
logica formale e forma- lislica c'è idenlità, o se non c’è invece una
diiferen- za radicale che impone una pertraltazione a parle e
radicalmente diversa di quelle due discipline. La lo- gica formale vera è
la dottrina della forma unica del pensiero: il concelto, come sintesi di
individuale c come concelto universale contro, come scienza
del concetto puro. Per essa la forma verbale in cui si suole
incarnare generalmente il concetto non ha nes- sun valore logico e si
guavda bene dal cousiderane le distinzioni verbali come distinzioni
conceltuali 0 l’identità di forma verbale come identità
concettuale. La logica forinalislica invece, trasporta nei concetti
le qualità e le distinzioni dei termini, trasporta nei giudizi le
modalita e le specie delle proporzioni, lra- sporta nei raziocinì le
figure e ì modì dei sillogismi: anzi la distinzione stessa delle forme
logiche in con- celti, giudizì e raziocini è nient’allro che una
proie- zione di forme verbali nell’altivita del pensiero. Per- ciò
la logica formalistica qua talis, non ha valore speculativo (logico in
senso vero), ima solo empirico © UCSCLILLvo; ci dà, Massunti, con piu o
meno pretese (il copielezza, i modi piu consueti dei quali l'uomo
51 serve nel suo discorrere, nell'esposizione e ncila "a discussione
delle idee; è un'arte in senso di tecnica, 9 meglio, è una collezione
(non connessione) delle forme del discorso empirico umano, una specie
di leltorica 0 grammatica messa a servizio non del par- lur bello
ma del parlur giusto. Può essere ed è fino a un certo punto praticamente
utile come tutte le. discipline descriltive assunte a discipline
nurmative d universale, come storia o guidizio sintetico, a
priori, . DA | Sèhiller e la Logica Kormale e precettistiche,
ma non ha valore speculativo, ron ci dè, anzi ci nastonde la forma
intima. del pensiero necessario € unico, © SÌ contenta di offrire!
le forme esteriori, arbitrarie è quindi componibili € combina:
bili all'infinito. - . I Jo Schiller na un buon gioco @
mostrare il caral- tere arbitrario di questa logica, la astrallezza di
essa, la îmulilità e perfino il danno non leggero che essa può
anrecare allo sviluppo Serio delle scienze © della mente individuale. Ha
ragione lo Schiller: « IL îs nol .? ossible t0 abstract {rom the
aclual use of the logical | material and lo consider — forms ol lought —
@ 4 Ihemselves, voilout incurring thereby @ total loss,
1’ hi nol only of Wrui, but also of meaning ”
(IX). i s 2. — Ma con ciò non si è déito che ba ragione @ | ‘non
riconoscere altre logica ché que:lu psicolugica, | tutt'altro. Oltre la
logica formalistica (0 tormale cu- | mè la chiama erroneamente lo
Schaller), c'è la logica i formale vera secondo la quale la maleria è
fusa nel la forma, poichè per èssa la forma logica, concel- ‘tuale,
sintesi di materia e forma, di pensiero e lup- ‘esentazione: è
forma Non astratta me concrela ; e tulto il
pensiero reale storico perchè appunto sun: f (esi univarsale individuale:
è il razionale-reale, il fl concetto. È Dio ci salvi dalla
logica psicologica 0 psicologi- | stica! Poichè in essa, oltre che non
trovare nulla di # meno arbitrario che nella logica forinalistica non sì
ì trova neanche quella apparenzà di necessità e di as- Solutezza
che la logica tradizionale ci oifre, sia pure solto una forma astratta e
verbalistica. Finchè non si accetta e non SÌ capisce la logitù del
concetto puro e semplice, ogni tentativo di riforme logiche sarà
nulla più che un saltare dall'arbiltàrio all’avbitrario, dall'astratto
ali’astratto e un aggiungere al mele 131 nuovo male o una forma nuova del
male. L per yite- nere questo scopo non mette certo conto di
scrivere un grosso libro come questo. Sé lo Schiller avesse
rinesso bene su quelli che lui ritiene e sono i due caratteri
fondamentali della 1o- Ml Praqmalismo' (h) gica formalistica
e cioè: I° la credenza che sia pos- sibile considerare la «validità
formale» come una cosa a parle e indipendente e astrarre dalla
verità «materiale »; 2° la credenza che sia possibile tratta- re la
iogica senza riguardo alla psicologia e di aslrar- re dal contesto
atluale in cui le asserzioni sorgono, tempo, luogo, circostanze, Scopo,
personalilà, ecc. (P. 375) e se avesse poi esaminato con più
spassio- natezza la logica del concetto-sloria, non avrebbe for- se
futto giustizia sommaria di lutta la logica tradi- zionale cd avrebbe
trovato che parecchie delle sue critiche sono state già fatte da altri, i
quali non sen- lirono però il bisogno di sostituire, come fa lui,
le elichelte psicologiche alle elichette della logica for-
malistica. In questo libro c'è molto del buono anche perchè dai principio
alla fine corre nelle pagine una domanda sempre crescente di concretezza
ce, anzi, pare a volte che lo Schiller abbia colto il centro della
critica e della ricostruzione. Purtroppo i: pregiudizi pragmalislici gli
impediscono di assurgere ad un punto di vista superiore; anche lui, pur
nella lotta contro gli schemi e !e elichetle, maneggia schemi ed
etichette; meno mole, anzi molto bene che, da buon pragmatisla, ne è
consapevole. := & | La reazione contro
l'intellettualismo. — Verità e ‘utilità. | gi, — Del pragmatismo
non si parla più che com di un indirizzo di ricerche e di
asserzioni, che ha avi | {fo il suo proverbiale quarto d'ora di celebrità
pei scomparire per sempre e senza visibili influssi sullu
svolgimento complessivo ulteriore del pensiero. Nata da une reazione
all'intellettualismo razionalislico ed empiristico, che non sapevano
valutare l'attività de: soggetto nella creazione del mondo del pensiero
€ della vita; allermalosi come volontarismo ceudemo:; nistico o
come filosofia dell'azione utilitaria, non ha sapulo nè volulo evilare,
con una doverosa distin: zione dì logica e psicologia, lo scoglio
terribile dellà formula protagorica: l’uomo è la misura di tutte lt
cose ed'è finito nello agnoslicisnio e nello scellici sino, È inulile she
ci ripetiamo. Iidotla la filoso; fia a un prodolto dell'individuo, © ad
espressioni del la nostra soggellività volitiva e i giudizi
scientifici speculativi a semplici giudizi morali; negala la pos
sibilità di raggiungere l'assoluto, la ragione intima immanente e
ascendente dell'essere o del divenire con l'affermazione della universale
soggettività e Ie ‘natività; posto l’utilitarismo a base di ogni
costruzio: ne concelluale e considerati, quindi, i concetti com‘
funzioni dell'interesse individuale, 0 tutt'al più s0 ciale, il
pragmatismo si risolve logicamente in uni rinunzia a fi osofare. Può
essere metodo per sè, I i UT Il Pragmatismo : i lla vita
colta non filosofia sc IRRMIgSORE E So nella sua razionalità e nei
s o ve omalismo profes- E, infatti, come s'è veduto, 1 flo: «esso
non ha sa di essere semplicemente ua Coe etodo WNGNan: dog int aa
istcao mon è forse una dottrina? Magli vamestto he riassume il me-
Non è una dottrina la formula c arsi tutte todo pragmatistico: « Sono er
6 da acco utili le neri SAS SIE n è forse implicito alla svitaza
in: ilitari ico e, insieme, il n più Sconto no leorecot È esp ducslo
ab: Dima definito, credo, Felino due aspetti più es- ziali la
teoria pragmati nd AR Sa CLES Della quale non è qui il luogo di
TISIRLS estesamente il valore storico. Possiamo dire il nos D
pensiero in due parole: il pragmatismo è andato al- l'eccesso opposto
nella sua reazione all intellettua- lismo, perchè ha negato addirittura
il concetto come tale, ogni concello, rendendo, con ciò stesso,
vano, perchè senza fondamento, la Rane buona . dell'in- dirizzo,
quella che, purificata di tutto l’utilitarismo + materialistico che
troppo spesso la intorbida, si può esprimere nelle parole evangeliche:
«Dai frutti co- noscerete l'albero ». L'utilità — nel senso
spirituale altissimo della parola — è un aspetto della verità: la
verità eleva, la verità libera, la verità sacrifica. Ma, non
dimentichiamolo mai, una dottrina non è vera, a propriamente parlare,
perchè e in quanto è utile, ma è utile perchè‘vera. .La
verità metafisica e logica di una idea e di un Sistema d’idee è il
fondamento di tutti gli altri at- tributi dell'idea e del sistema e di
tutte le loro cor- rispondenze alle esigenze etiche dell'uomo.
Yogi Pragmatis Rimandiamo alle seguenti pibliografie:
« The Pych Zev. » Parini, Sag- gì pragmatisti, R. Carabba,
Lanciano; Ugo SPIRITO, JI pragmatismo nella Jilosofia contemporanea,
Firen- ze, Vallecchi Sinvio TISSI, Nota bibl. al vol. su James,
Milano,. Ed. Athena 1924. | Segnaliamo poi, nella ricchissima
bibliografia del- argomento — oltre ui molti scritti segnalati
occasio- almente nelle note — le seguenti opere: G. VAILATI,
Scritti, Firenze, Secher 1911; G. Papini, Sul Pragma- | lismo, Milano,
Libr. Ed. Milanese 1913 (ripubblicato ‘dal Vallecchi nel 1920); M.
CALDERONI è G. VAILATI, IL $ pragmatismo, Lanciano, R. Carabba, U.
SPr- “RITO, op. cit. ; M. CaLpeRONI, Scritti, a cura di O. CAM- 7
Cna, con pref. di G. PAPINI, Firenze, «La Voce», IT.
I. III. — INDIVI - LUO LINEE
FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Il Pragmatismo anglo-americano. Pragmatismo e
Umanismo.Pragmatismo e conoscenza. LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA
REALTÀ.La condotta.La dottrina dolla verità. La dottrina della
realtà. LA RELIGIONE NEL PRAGMATISMO. Lo preoccupazioni etiche e
religioso. L’esistonza di Dio. Il concetto di Dio.Religione e Religioni. SCHILLER
E LA LOGICA FORMALE.Caratteri della logica formale nella concozione dello
Schiller. La validità formale Ù 5 5 9 - VALUTAZIONE CRITICA. La reazione
contro l’intellottualismo.Verità e utilità . È. NOTA BIBLIOGRAFICA . I
MAESTRI DEL PENSIERO. VOLUMI CHE INIZIANO LA COLLEZIONE i) ei n VALENTINO PICCOLI À { Bi:
INTRODUZIONE DELLA FILOSOFIA. ROTTA PAOLO ROTTA. ARISTOTELE BERKELEY |
IALENTINO SETCOO LI ! GIUSEPPE TAROZZI | PLATONE LOCKE | S: PICURO.
E. PAOLO LAMANNA AAA ° "KANT 6000 V. ARANGIO-RUIZ na *
LOTINO GIUSEPPE MAGGIORE |» FICHTE HQ P.
E. CHIOCCHETTI AGOSTINO PIETRO MIGNOSI E. CHIOCCHETTI SCHELLING |
"S TOMA ASO GIUSEPPE MAGGIORE | CHIOCCHETTI HEGEL i S.
PONAVENTURA Big ni x TISSI c ARTESI O SCHOPENHAUER i Fa
PAOLO. ROTTA E. MOTOMIL MI o SPINOZA STUART MILL “50 »ALENTINO
PICCOLI E. MORSELLI Î Y MIENIINO PICCOL CUORSEI È Pubblicati: P.
ROTT _ SEINOZS x ì. MiGGIONE HEGE ZINI =. 2 SoioFENnAUER P.
LAMANNA — KA MAGGIORE — FIGI TITE . E. CHIOCCHETTI — S.
TOMASO VICO "TISSI _ GATESIO MORSELLI. COMTE
BOT. ARISTOTELE. SCHELUINO IRINA Kc} fe3: Emilio
Chiocchetti. Chiocchetti. Keywords: prammatico, Grice: “In Italy, just to know
that a philosopher has a religion orientation disqualifies as a philosopher,
and that is at it should. The keyword is: anti-Popish, Vico, Croce, estetica,
Aquino, Gentile, Neo-Scolastica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiocchetti” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Chiodi: l’implicatura
conversazionale dell’esistenti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Corteno
Golgi). Filosofo italiano. Grice: “I
like Chiodi; for one, he plays, somethings rather sneakily, with the Italian
language as Heidegger played with the German language: Heidegger is able to
play with Latinate versus Germanic words: tat (deed) versus fakt. The Italians
only have ‘fatto’ and this leads Chiodi to restrict ‘fatto’ to ‘tat’ and invent
‘effetto’ for ‘fakt!’ – “But other than that he was a genius!” Frequenta le
scuole elementari al paese natio e le medie inferiori e superiori a Sondrio
sotto la guida di Credaro, che lo avvia allo studio della filosofia. Dopo aver
conseguito l'abilitazione magistrale si trasferì a Torino, dove si laureò sotto
la guida di Abbagnano. Nell'anno successivo ottenne la cattedra di storia e
filosofia del liceo classico Giuseppe Govone di Alba, dove insegnò/ Qui entrò
in contatto con Cocito, del quale divenne intimo amico, ed ebbe tra i suoi
allievi Fenoglio. Questi ricorderà più volte nei suoi scritti i due insegnanti,
con i loro nomi o con pseudonimi; Chiodi diventerà così, nel romanzo Il
partigiano Johnny, il personaggio di Monti.
Grazie ai suoi contatti con Cocito, fervente comunista e antifascista, C.
entra far parte di una formazione partigiana Giustizia e Libertà col nome di
battaglia di “Piero”. Venne catturato dalle SS italiane, assieme ai suoi
compagni, e deportato in un campo di prigionia a Bolzano, quindi a Innsbruck.
Aiutato dal comandante del lager e da un medico, ottenne il visto di rimpatrio.
Era alla stazione di Innsbruck diretto a Verona. Il 3 ottobre, verso sera,
giunse nell'albese. Qui riprese la sua attività di partigiano, ora sotto il
nome di battaglia di Valerio, mettendosi a capo, nelle Langhe, di un
battaglione della CIII Brigate Garibaldi intitolato al suo collega Cocito,
impiccato dai tedeschi a Carignano (località pilone Virle), insieme ad altri
patrioti. Narrò la propria esperienza di lotta, di prigionia e di guerra civile
nel libro scritto in forma diaristica e pubblicato dall'ANPI, Banditi, uno dei
primi memoriali di deportati politici italiani.
Dopo la liberazione di Torino, C.
torna ad Alba. Si trasfere come insegnante al Liceo di Chieri e poi al
Liceo Alfieri del capoluogo piemontese. Ottenne la libera docenza e fu
incaricato e poi titolare della cattedra di Filosofia della storia alla Facoltà
di Lettere e filosofia a Torino. L’Accademia Nazionale dei Lincei gli assegnò
il premio del Ministero della Pubblica Istruzione per la filosofia e negli fu
conferito il Premio Bologna. Alla
ristampa di Banditi C. premise questa avvertenza, poi conservata nelle edizioni
successive: «La presente ristampa si rivolge particolarmente ai giovani, non
già per far rivivere nel loro animo gli odi del passato, ma affinché, guardando
consapevolmente ad esso, vengano in chiaro senza illusioni del futuro che li
attende se per qualunque ragione permetteranno che alcuni valoricome la libertà
nei rapporti politici, la giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in
tutti i rapportisiano ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente
da chicchessia». Raccolse grande stima
ed affetto tra suoi allievi, che ne conservano tuttora il ricordo di un grande
Maestro, limpido esempio di tolleranza e serenità di giudizio. Attività filosofica L'attività filosofica di
C. si concentra specialmente sull'Esistenzialismo, riletto in chiave positiva.
La maggior parte delle sue opere è dedicata a Heidegger. Egli è il primo traduttore in italiano di “Essere
e tempo.” Proprio a C. si deve la definizione della terminologia heideggeriana
in italiano, divenuta poi abituale tra gli studiosi. Valga un caso per tutti:
la traduzione di “Dasein” come “esserci”, capolavoro di sintesi ed efficacia,
spesso e volentieri non ancora raggiunta in questo specifico caso in altre
lingue. Al filosofo tedesco dedica anche, ovviamente, diversi saggi:
L'esistenzialismo di Heidegger, L'ultimo Heidegger, Esistenzialismo e
fenomenologia. È, inoltre, traduttore di L'essenza del fondamento e Sentieri
interrotti. A Kant dedica, invece, La deduzione nell'opera di Kant e ne
tradusse la Critica della ragion pura e gli Scritti morali. È infine da
ricordare il suo interesse per Sartre, del quale si occupa nell'opera Sartre e
il marxismo. L'esperienza partigiana
rimase sempre una pagina fondamentale nella vita di C.i, per cui il valore
della libertà occupa sempre il primo posto. Non è un caso che Fenoglio fa
rivolgere da parte di Monti, nel Partigiano Johnny, proprio questo ammonimento
ai giovani partigiani di Alba: «Ragazziteniamo di vista la libertà». La sua
unica opera narrativa, Banditi, ricca di valore non solo storico e morale ma
anche letterario, è stata definita da Lajolo «Il più vivo, più semplice, più
reale di tutta la letteratura partigiana» (L'Unità) e da Fortini “un capolavoro.”
Ci sono dei tratti straordinari, nel tragico come nel comico». Opere C., Banditi, con introduzione di
Beccaria, Torino, Einaudi, C., Esistenzialismo e filosofia contemporanea,
Cambiano, Pisa, Edizioni della Normale, Deportati Politici Italiani, su
restellistoria.altervista.org. C., Banditi, Torino, Einaudi, Conoscere la
Resistenza, Milano, Unicopli, Resistenza italiana Deportati politici italiani
Esistenzialismo Heidegger Opere di C.,.
Biografia di C. nel sito dell'Associazione nazionale partigiani
d'Italia, su anpi. Centro Studi Fenoglio C., su centrostudibeppefenoglio.Antifascismo
Filosofia Filosofo del XX secoloPartigiani italiani Corteno Golgi TorinoBrigate
Giustizia e LibertàDeportati politici italiani. Chiodi. Keywords: esistenti, nulla
annhihila, Kant imperative, counsel of prudence, rule of ability, practical
reason, existentialism, Heidegger, greatest philosopher, maxim universality,
maxim universability. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiodi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Chitti: l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Citanova). Filosofo italiano. Grice:
“I like Chitti; not so much for what he philosophised about – law and law and
law – but the way he corresponded with Say – a French philosopher – on the lack
of an adequate philosophical vocabulary in Italian to express Aristotle’s principles
of oeconomia!” Fervor, temperanza e, ingegno finissimo fanno di lui uno di
quegli filosofi che sono atti egualmente alla filosofia ed all'azione. Figlio di Giuseppe, avvocato e giudice alla
Gran Corte Criminale di Reggio. Partecipa a Napoli, col padre ed i fratelli,
alla rivoluzione. In seguito alla capitolazione del Forte Castel Nuovo, ripara
in Francia. A Parigi, termina gli studi giuridici e strinse amicizia con molti
patrioti del tempo. Ferdinando I delle
Due Sicilie Tornato a Napoli, esercita in città la professione di avvocato e difese
Casalnuovo (l'odierna Cittanova) contro la feudataria del luogo, la principessa
di Gerace, davanti alla regia commissione feudale. Fattosi un nome come avvocato,
dopo la restaurazione ha la nomina di segretario generale al Ministero di
Grazia e Giustizia del Regno. A Napoli sposa la figlia di Hipman, un capo
dipartimento di uno dei Ministeri del Regno. Coinvolto nella rivolta contro
Ferdinando I organizzata dai sottotenenti Morelli e Silvati, e quindi privato
della carica ed esiliato. Passa un periodo a Londra, e tenta di ritornare a
Napoli, ma ha l'inibizione ufficiale a rientrare nella capitale. Anda a Firenze
e di lì a poco, chiamato da amici, si reca a Bruxelles. In Belgio da lezioni di diritto pubblico e di
economia sociale, ottenne la carica di segretario della Banca Fondiaria e si
fece un nome. Il governo belga gli confere la licenza di professare Economia
Sociale, e tenne quattro letture pubbliche nel Museo di Bruxelles. Le sue
quattro letture sono intitolate da lui stesso «Corso di Economia sociale»,
compendio delle sue vaste vedute e della sua non comune cultura sull'argomento.
Pubblica altre saggi ed in seguito alla fama acquisita, il governo belga gli
conferì la carica di professore alla facoltà di diritto dell'Bruxelles. In
Belgio pubblica la maggior parte dei suoi saggi e strinse amicizia con GIOBERTIi,
che lo define valente economico. Nonostante la revoca dell'esilio, non torna a
Napoli ma rimane in Belgio. Altre saggi: “Trattato di economia politica o
semplice esposizione del modo col quale si formano, si distribuiscono e si
consumano le ricchezze; seguito da un'epitome dei principi fondamentali
dell'economia politica di Giovanni Battista Say” (Napoli, Stamperia del
Ministero della Segreteria di Stato). Ermenegildo Schiavo, Four centuries of
Italian-American history, Vigo Press. The New York Herald morning edition mercoledì.
New York Daily Times pag. 4 Daily Free
Democrat. The American almanac and repository of useful knowledge, Center for
Migration Studies Special Issue: Four Centuries of Italian American History Wiley
Online Library Vincenzo De Cristo, Prime
notizie sulla vita e sulle opere di C. Economista, Prem. Tip. e Lib. Claudiana,
Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Per una rassegna delle interpretazioni dell’azione
economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti di politica
economica corporativa. Catania, Studio Editoriale Moderno, Sono ivi ricordati i
contributi più notevoli, teorici e descrittivi, nel campo dell’azione
economica corporativa. Si vegga pure il nostro studio : « Homo Oeconomi-
cus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti. Riportiamo qui la
bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio dell’economia
corporativa, tralasciando di segnalare gli studi, nume¬ rosi, di
carattere polemico e giornalistico, ma privi di consapevolezza
scientifica e, spesso, deformatori della stessa realtà politica
corporativa : Alberti M. : L’ « Homo Ooecomoinicuis » e V Esperienza Fascista
in Giornale degli economisti, Arias G. : L’Economia Nazionale corporativa,
Roma, Libreria del Littorio, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze,
Poligrafica Universitaria, Amoroso L. e Stefani A. : Scritti cit. ; Arena C. :
Scritti, cit. ; Benini R. ; Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria
della politica economica, in « Giornale degli Economisti ». Classifica le
varie politiche economiche. Carattere di quella corporativa: autogoverni
economici particolari, con il compito di emanare misure rispondenti, nei
rami particolari, alla politica economica generale emanante dal governo economico
centrale. Le corporazioni sarebbero gli autogoverni economici
particolari). Bruguier G. : A proposito di interventi statali, in «Archivio di
studi corporativi », Pisa; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. :
Lineamenti di politica economica corpo¬ rativa; Carli F. : Teoria
generale della economia politica nazionale, Milano, Hoepli, e dello stesso:
Le crisi economiche delV ordinamento corporativo della produzione,
in « Atti del II Convegno di studi sindacali corporativi», Ferrara; Chessa: Caratteri
e forme delT attività economica, in «Rivista di Politica economica
» Secondo questo autore J economia corporativa non è altro che un’
economia di complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua
realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni dell individuo
con la società e di questa con lo Stato). Dello stesso autore: Vecchio e
nuovo corporativismo economico in «Saggi di Storia e Teoria economica, in
onore di Prato», Torino, In questo studio l’autore conclude che il
corporativismo italiano pur traen¬ do alcuni suoi elementi dalle teorie
enunciate dal Genovesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste
in quanto che inquadra le sue idee in una concezione piu larga, che non
tiene solo conto degli interessi dei singoli, ma anche di tutta la
collettività nazionale, che per essere sempre più aderente ai bisogni ed
agli interessi della Nazione, viene organizzata gerarchicamente dallo
Stato); Degli Espinosa A.: La forma e la sostanza della economia corporativa,
Firenze Poligrafica Universitaria; Del Vecchio G.: Teoremi economici deW
ordinamento corporativo. Comunicazione alla XIX riunione della «Società
pel Progresso della Scienza», riassunta in « Lo Stato »; Einaudi L. :
Trincee economiche e corporativismo in « La Riforma Sociale », ; e dello
stesso: Corporazione aperta in «La Riforma Sociale » Fanno M. scritto cit.;
Fasiani M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in « Studi
sassaresi », ; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista
economico, Padova, CEDAM, Fovel M.: Economia e corporativismo, Ferrara,
S.A.T.E. e dello stesso: La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz.
dei « Problemi del Lavoro», Politica economica ed economia corporativa, Ediz.
«Diritto del lavoro»; Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara;
Fossati A.: Premesse per lo studio di ima economia e di una pplitica economica
corporativa, in : « Rivista di Politica Economica », (Ritiene questo A. che tanto la
politica economica corporativa, quanto l’attività corporativa come condotta
ipotetica de¬ gli individui dei gruppi animati di una coscienza
corpo¬ rativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e in
tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla coscienza corporativa
(all’autore parendo il più adatto perchè conforme alle direttive del
Regime quello che ha a base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo
benessere individuale compatibile col benessere della Nazione); ed il primo,
quando le norme abbiano sufficiente chiarezza (univocità) e costanza da consentire
una costruzione logica di conseguenze possibili. Purché non si mescolino
precetti e teoremi, e peggio, non si confondano gli uni con gli altri, è
perfettamente legittimo fare della economia corporativa una « economia »
astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto empirico). Gobbi U. : Il
procedimento sperimentale della economia corporativa, « Giornale degli
economisti»; Galli R. : Corso di economìa politica, Firenze, Poligrafico
Universitario, e dello stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze,
Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La scienza economica e
Vinteresse nazionale (Discorso tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico
della R. Università di Torino, e dello
stesso : Scienza, critica e realtà economica, in « La Riforma Sociale »;
Lanzillo A.: Studi di economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso
A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in ««Rivista Bancaria », ed
Economia corpora¬ tiva e politica economica, in « Giornale degli
Economisti »; Lo Stato come fattore di produzione, in « Rivista Bancaria »,
maggio 1934 (Lo Stato come inserzione di volontà nell’ attività
economical. Anche Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la
scienza economica tradizionale e la notevole incompren¬ sione degli
economisti ortodossi i quali riescono interessanti a seguire non come
simpatizzanti delle idee li- erali o di altre tendenze, ma come
scienziati dell’economia, riconosce che per dare un carattere di
socialità, che concili l’interesse privato con quello sociale o nazionale,
alla economia privata, non è necessario giungere alla totale abolizione
dell’economia privata ed alla identificazione dell’ economia
pubblica, come ha fatto Spirito, il quale col porre erroneamente al
centro dell attività economica umana la produzione e non lo scambio non
ha visto che nello scambio si ha la sintesi dell’ interesse individuale e
dell’ interesse sociale, perchè nello scambio, mentre l’interesse è
individuale, il risultato è sociale. Per eliminare del tutto, come
vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei valori economici ed
il movente egoistico dei fatti economici e identificare F iniziativa economica
privata coll’ iniziativa economica pubblica o statale, bisognerebbe
trasformare la psicologia umana, abolire la perso¬ nalità economica umana
e con essa tutte le diff erenze di bisogni, di desideri e di gusti che
esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini, differenze che
costituiscono la base dello scambio e la molla del progresso economico
e che nessun sistema di economia socialista è mai riu¬ scito a
sopprimere. Il porre a fondamento dell’economia corporativa
la produzione e quindi l’organizzazione e la gestione economica della
produzione invece dello scambio, inteso nel senso della ripartizione del
prodotto di ogni grande ciclo produttivo fra tutti i fattori della
produzione mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,
del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli intermediari,
porta a delle conseguenze pratiche fonda- mentali per la definizione dei
fini e delle funzioni della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si
dovrebbe giungere alla Corporazione organo di gestione econo¬ mica
col passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e con la
conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia pub¬
blica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non as¬ sumerà la
direzione della gestione economica della produzione, ma avrà la funzione
economico-sociale di eliminare il classismo o particolarismo economico, di
impedire che uno o più fattori della produzione si facciano la parte del leone
nei confronti con gli altri fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi
al produttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di questo A. : Il
problema fondamentale delTeconomia corporativa, in « Critica Fascista
»; Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di teoria e metodo¬
logia economica, Catania, 1934. (Sono raccolti con lievi modificazioni
gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.: A proposito di un tentativo
di teoria pura del corporativismo, in « Fiamma italica », e dello stesso:
Strumenti teorici di corporativismo, in «Giornale degli economisti», (in questi scritti il Pagni critica a
fondo la costruzione teorica corporativa del Fovel. Contro questi si schiera
anche Bru- guier nello scritto sopra citato ed anche noi nei nostri
scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.: L’equazione
dell’equilibrio economico nei regimi corpo- rativisti, in «Lo Stato»,
aprile, maggio ed ottobre 1933; Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in
«Educazione Fascista », e, dello stesso : Economia corporativa e agricoltura,
in « Atti del II Convegno di studi sindacali e corporativi», Ferrara;
Spirito U.: La critica dell’economia liberale, Milano, Treves,
dello stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa, Milano,
Treves, e Capitalismo e corporativismo, Firenze, Sansoni. L’interesse
suscitato degli scritti filosofici di questo A. sono dovuti a ragioni di
carattere esclusivamente polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane
filosofo. Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che
ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai seguaci della
scuola storica tedesca e dagli istituzionalisti americani contro la economia
liberale. È confusa la scienza economica con la praxis dei governi
liberali e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che
ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha espresso nella sua
opera monumentale sul capitalismo e quanto altri economisti contemporanei
hanno scritto contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda
bene dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra
capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che m Italla 11
capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei tentativi di costruzione
teorica del corporativismo fascista tiene conto, in particolare delle
dichiarazioni della << Carta del Lavoro» che rincalzano la propria
tesi per Ja quale vede la soluzione corporativa n clini entità
assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il pensiero di Hegel e di
Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la
quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammis- sione della
corporazione come proprietaria. Propugna, inoltre, 1 A. il
partecipazionismo operaio, altro espe¬ diente vecchio e già discusso
ampiamente nei tempi passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere
nel sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per cui dopo
aver letto gli scritti di questo A. del corporativismo si riuscirà a capire
meno di prima. E non m tenrnamo quii su altri grossolani errori
espressi dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corporative, come
per es. su quelle in cui consiglia per il nostro Paese una
industrializzazione ad oltranza, la emissione di prestiti esteri, una
politica commerciale che sara forse realizzata, ecc (Tutte queste
idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Corporativismo, Sansoni,
Firenze). Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit.,
Jannaccone, cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci, appresso
citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’economia filosofata e attualizzata,
in «Critica»; Galli R. : SulF identità delV individuo con lo Stato in «La
Vita Italiana», novembre; (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella
concezione corporatina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi Sinda¬ cali
e Corporativi », Ferrara; Brucculeri: L economia corporativa, in «La Civiltà
Cattolica», e dello stesso: Crisi e capitalismo, nella stessa rivista, etc.
Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e Stato nelle
Corporazioni (Archivio di Studi Corporativi) mostra come la formula dell
identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e dei liberali.
L’individualismo moltiplicando le sue forze non rinuncia ad essere sè
stesso. Il grande significato del Corporativismo è la disciplina
economica nazionale. Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo
all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata,
sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche. Il nuovo modello
della realtà economica non potrà non essere anch’eseo, naturalistico e
deterministico: non c’è scienza senza determinismo. Caratteristica delle
conce¬ zioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato
Corporativo non vi saranno più disoccupati!). La nostra divergenza
ideale con l’economia degl’idealisti non va assolutamente confusa con le
invettive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi chiedono
e ieri respingevano, nè con le interpretazioni di coloro che hanno gli
occhi sulla nuca! Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii
della Scienza Economica e l’economia corporativa («Rivista di
Politica Economica»). Il M. rifiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo.
Integrando e correggendo le opinioni di Arias e Fovel considera
l’economia corporativa come una economia non euclidea. Papi U. : Un
principio teorico deW economia corpo - rativa, in « Giornale degli
Economisti », e più diffusamente in « Lezioni di Economia Generale
e Corporativa», voi. Ili, Gedam, Padova. (Il P. ritiene che il
sistema corporativo si possa considerare come lo strumento capace di
assicurare le imprese contro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi,
scioperi, etc.). Rossi L. : Economia e Finanza, cit. (Chiarifica
il concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teoria
dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento corporativo traduce nel
diritto positivo un complesso di norme di diritto naturale, che presiedono
al fenomeno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto corporativo,
definizione giuridica della libertà economica c e sottopone 1 arbitrio
del singolo alla regola; e la figura dell’uomo corporativo si risolve
nell’uomo economico libero. L’economia corporativa importa la penetrazione
nell’organismo produttivo di un sistema organico, razionale di politica
economica. L’economia corporativa risolve il contrasto fra l’essere e il
dover essere della vita economica. Dover essere: razionalità
(teoria economica pura), eticità (politica economica). Le forze
direttrici corporative devono fornire al dinamismo economico il volano
regolatore). Vinci F.: Il corporativismo e la scienza economica («Rivista
Italiana di Statistica» etc.. Questo A., conscio delle interdipendenze
fra i vari fattori di produzione e fra le varie imprese e delle condizioni di
concorrenza mondiale, ha dimostrato che la « disciplina unitaria e
l’autodecisione, ove conducesse fino ala determinazione delle produzioni
e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni del¬ l’uria o
dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti reciproci, non solo fra
due o tre, ma fra tutte le Corporazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle
Corporazioni un continuo, pericoloso compito di revisione e di conciliazione
in base a valutazioni complicatis¬ sime, a criteri di difficile
determinazione oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa. Si
espressero anni addietro a favore del contingente: Griziotti, Finanza di
guerra e riforma tributaria, in «La Riforma Sociale», pag. 150-174.
Contro il contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Finanze,
Torino. Ed oggi, a favore del contingente (citiamo gli scritti più seri):
Benini, loco cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in
« Echi e Commenti », e dello stesso : Ordinamento corporativo e ordinamento
tributario, in « Atti del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi »,
Ferrara; Bonanno: L’extra-individualismo nelle entrate del bilancio dello
Stato, « Dir. e prat. trib. »e dello stesso: Lo Stato corporativo e la
sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I, 357; Uckmar : Ordinamento
Corporativo e ordinamento tri¬ butario, « Relazione al I Convegno
nazionale di Studi Corporativi», Roma, e dello stesso: Verso una
revisione corporativa della pubblica finanza, in « Diritto del Lavoro »,
Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato corporativo, in « Diritto del
Lavoro», Roma, 1929; Finanza corporativa, in « Diritto e Pratica Tributaria
». Roma, ed infine, sempre dello stesso: Ordinamento corporativo e
ordinamento tributario, in « Atti del II Convegno di Studi Sindacali e
Corporativi », Ferrara. Fra questi autori la corrente radicale trova
favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri. Uckmar ritiene che la finanza
sia individualista e perciò la vorrebbe riformata in un senso meno
individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che trova
consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente, che riconoscono
doversi inserire nell’ordinamento cor¬ porativo anche la finanza allo
scopo di raggiungere quei fini che gli conferiscono caratteri
fascisti. Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Eva¬
sione fiscale e riforma tributaria («Augustea», N. 4 del 1929), e Genco
(«Comunicazione al II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara) i
quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per lo meno alla riduzione
degli organi finanziari statali ed alla loro sostituzione con le
Corporazioni! Uckmar, contingentista moderato, riconosce che il potere
impo- sizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può
inscriversi fra i fautori di una finanza coordinata all’ordinamento
corporativo, ma è lontano dalle Improvvisate e rivoluzionarie
trasformazioni. La finanza oltre a presentare un contenuto politico,
riveste un con¬ tenuto tecnico con il quale male si accorda la
improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi- stazione di
essere considerati rivoluzionari al cento per cento, mentre agli altri
rimarrà la soddisfazione di non avere incoraggiato i salti nel buio che
in materia finan¬ ziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e
perciò si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non
meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano i ce piu radicali.
Il tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti
scritti fra i tanti che accolgono, con moderazione, una riforma
tributaria in ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca-
Problemi di Finanza, Torino, Giappichelli 1930; Scandali: E.: Imposizione
tributaria e Stato Cor- porativo in « Echi e Commenti », e dello
TTr- A r- ,ane r e in «Giustizia tributaria»,; Gangemi
L- rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica Economi-
Stato C marZ °. 192 . 9, e dell ° stesso: La finanza nello Stato Corporativo,
in « Commercio », Roma, gennaio e S“,° Ì 93 £ r” cernii in
«Rivista di Politica Economica», 1931, fase. VII-Vili (e una
carica a fondo contro la funzione graduale, ransitona e limitata del
contingente come è propugnata da Montemurri e dal Cardelli il quale
ultimo ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il Commercio» f , 7
iarzo \ a f, rlIe 1931 )i Toselli Colonna: Teoria e problemi della-
economia finanziaria corporativa, Ales¬ sandria Colombani (è questa una
diligente rassegna dei problemi corporativi della finanza). Infine, si
segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni m7rzoT932 **
WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t
SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra opportuno affidare
all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari a gin
associati. Le associazioni sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure
molto disposte ad assumersi tali compiti, ohe spesso non sarebbero
neppure in grado di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inade-
guatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione, anche a prescindere
dal giusto timore dei dirigenti di potersi creare m tal modo animosità
lesive di quella compattezza dell’Associazione Fascista, che
costituisce uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai
fini propostisi dal nostro legislatore». Un chiarimento sulla
tesi riformista del Benini. La ritorma propugnata da questo autore
(studio cit.), per quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e
coraggiosa: due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una sul reddito
totale di famiglia, l’altra sul patrimonio-. Senza dubbio, la
scienza finanziaria ed il procèsso evolutivo della legislazione fiscale
degli Stati moderni pongono in evidenza i tributi globali e personali
come il fondamento di un corretto sistema di imposizione di¬ retta
in luogo delle imposte reali imperfette e causa di sperequazioni gravi ed
inevitabili. Il nostro sistema attuale è fondato appunto sui tributi reali,
integrati da una imposta personale, la complementare, che con i
procedimenti fatti approvare dal Ministro Jung pre¬ senta una struttura
che le consente di assolvere agli im¬ portanti suoi compiti.
Ma, appunto perchè la riforma proposta dal Benini muterebbe
radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’imposizione diretta, sono necessari,
per giungere ad essa, lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla
composizione, sulla distribuzione e sul raggruppamento dei redditi,
sulla organizzazione tecnica della nuova amministrazione; sopra tutto occorre,
per concepire ed attuare una riforma così vasta e complessa che le
condizioni dell’economia nazionale e della pubblica finanza entrino in un
periodo di sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte cose queste di cui
il Benini è consapevole. Un posto a parte tiene il Griziotti il
quale fra le due opposte opinioni che esiste una finanza corporativa
oppure il contrario che questa non esiste sostiene una terza e differente
che trova riscontro nei seguenti scritti: La trasformazione delle finanze
pubbliche nello Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro
»); Idee generali sulla trasformazione del nostro sistema tributario,
esposte al Primo Convegno di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino
del Consi. glio Prov. dell’Economia di Pavia», maggio 1930; Le
finanze pubbliche e l’ordinamento corporativo, in « Economia », N. 6 del 1930.
Il Griziotti, se non erriamo, desidera un sistema di imposte congegnate
in modo da rispettare le esigenze della produzione. Vuole un si¬
stema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri della giustizia
nella ripartizione dei carichi pubblici. Rico- Gangemi, Dottrina
Fasciata ed economia. nosce che l’opera del primo periodo della
finanza fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione. Queste
idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un fautore della finanza
corporativa. Dove il nostro non ci trova consenzienti è nei dettagli
(ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei
sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.
Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese (La Finanza
e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati Moderni, Padova, GEDAM) «
Nello Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fondamentalmente
sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè alcuno dei principi che
reggono l’economia capitalista viene apriosticamente ripudiato: ma vi si
aggiunge un elemento che è quello del controllo sociale che, sulla
iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo Stato
». . Nello Stato corporativo anche la politica finaziaria deve
necessariamente seguire le direttive, che non coincidono nè con quelle
del sistema liberale-capitalista (benché ad esse siano assai più vicine)
nè con quelle del sistema collettivista. Essendo l’imposta
uno dei principali strumenti di cui lo Stato — qualora rispetti il
principio della pro¬ prietà privata — si può valere, per intervenire nel
campo dell’economia, individuale, è logico che ad essa faccia più largo ricorso
uno Stato, che ha per principio l’intervento, ogni qualvolta l’interesse
nazionale lo richieda. E essenziale rilevare che nel sistema
corporativo, mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale:
mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si propone fini di benessere e
prosperità, che vengono attuati mediante la protezione di tutte quelle
forze individuali che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato
corpora¬ tivo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa
esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti,
non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma
facendosi iniziatore dei provvedimenti atti ai dirigere le forze
individuali all’ob¬ biettivo prefisso. Non possiamo chiudere
questa nota senza ricordare il contributo che, anche in questo campo ha
dato Maf¬ feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in «
Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova- tori sistematici ed
i creatori di schemi astratti farebbero bene a leggere ed a meditare se
veramente sono, come si ritengono, difensori dell’interesse
nazionale. Luigi Chitti. Chitti. Keywords: economia sociale, economia
politica, l’economia filosofica d’Aristotele, econnomia corporativa. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Chitti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cicerone: l’implicatura conversazionale
di Marc’Antonio – filosofia romana – filosofia italiana -- Luigi Speranza – (Italia). Filosofo italiano. Ciceronian implicaturum: Grice:
“One has to be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone ain’t
Italian, but Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo romano’ –
matter!” Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone IS
discussed by this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to provide
us with some nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I would
mention the two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for the
“Roman chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to
Lucrezio and Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty
recent: due to the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome
in 183 a. u. c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely
class, notably the Scipioni!” -- Marcus
Tullius, Roman statesman, orator, essayist, and letter writer. He was important
not so much for formulating individual philosophical arguments as for
expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy,
and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance
of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the
philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern
period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to
unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the
Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers
whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical
persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to
effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without
the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy.
This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls
humanitas a coinage whose enduring
influence is attested in later revivals of humanism and it alone provides the foundation for
constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad training
in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In philosophy of
education, this Ciceronian conception of a humane education encompassing
poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an ideal, especially
for those convinced that instruction in the liberal disciplines is essential
for citizens if their rational autonomy is to be expressed in ways that are
culturally and politically beneficial. A major aim of Cicero’s earlier works is
to appropriate for Roman high culture one of Greece’s most distinctive
products, philosophical theory, and to demonstrate Roman superiority. He thus
insists that Rome’s laws and political institutions successfully embody the
best in Grecian political theory, whereas the Grecians themselves were inadequate
to the crucial task of putting their theories into practice. Taking over the
Stoic conception of the universe as a rational whole, governed by divine
reason, he argues that human societies must be grounded in natural law. For
Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal code; in
particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules against
which existing societal institutions can be measured. Indeed, since they so
closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions furnish
a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory, if not
its particular details, established a lasting framework for anti-positivist
theories of law and morality, including those of Aquinas, Grotius, Suárez, and
Locke. The final two years of his life saw the creation of a series of
dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of Hellenistic
philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of Philo of Larissa
and the New Academy. Holding that philosophy is a method and not a set of
dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However, unlike Cartesian
doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind phenomena, since he
does not envision the possibility of strict phenomenalism. Nor does he believe
that systematic doubt leads to radical skepticism about knowledge. Although no
infallible criterion for distinguishing true from false impressions is
available, some impressions, he argues, are more “persuasive” probabile and can
be relied on to guide action. In Academics he offers detailed accounts of
Hellenistic epistemological debates, steering a middle course between dogmatism
and radical skepticism. A similar strategy governs the rest of his later
writings. Cicero presents the views of the major schools, submits them to
criticism, and tentatively supports any positions he finds “persuasive.” Three
connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature of the Gods, survey
Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and natural philosophy.
Much of the treatment of religious thought and practice is cool, witty, and
skeptically detached much in the manner
of eighteenth-century philosophes who, along with Hume, found much in Cicero to
emulate. However, he concedes that Stoic arguments for providence are
“persuasive.” So too in ethics, he criticizes Epicurean, Stoic, and Peripatetic
doctrines in On Ends 45 and their views on death, pain, irrational emotions,
and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus Tullius ness in Tusculan
Disputations Yet, a final work, On Duties, offers a practical ethical system
based on Stoic principles. Although sometimes dismissed as the eclecticism of
an amateur, Cicero’s method of selectively choosing from what had become
authoritative professional systems often displays considerable reflectiveness
and originality. “Cicero = Tully” Grice:
“Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different things! ‘Cicero’ is more of a
description than a name!” La morte di Cicerone. Cicero proscribed by the
triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of the three ‘vires’, along
with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which he had written the
Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate. The Romans never
quite liked him because he was only a provincial nobility and never displayed
courage. Cicerone affronta e
sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua
produzione teorica: le opere di argomento retorico; e le opere che parlano dei
segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambito –
le opera de argomento retorico --, possiamo osservare che l'interesse per il
concetto di segno non è ugualmente centrale in tutte queste opere. Infatti, da
una parte, ci sono il “De oratore”, I'”Orator”, il “Brutus”, il “De optimo
genere oratorum” -- che affrontano una problematica a carattere socio-politico,
volta a definire la figura dell’oratore perfetto, il suo ruolo nella società
romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo. In
queste opere tutto ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della
retorica -- e con esso anche la problematica sul concetto di segnio e di prova
indiziaria) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si
configura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo
sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore,
in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci
sono, poi, il “De inventione”, le “Partitiones oratoriae” e i “Topica”, opere
molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in
considerazione e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che compongono
l'apparato tecnico della retorica. Un limite di queste opere, in generale, è
rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che
raggiunge talvolta il parossismo, come nel “De inventione”, e che spesso non
trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio all'interno di
queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la
ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. Il “De inventione” condensa
l'ampia tradizione retorica che dal Liceo giunge fino a Ermagora -- è quindi naturale
che al suo interno si trovano riprodotti alcuni aspetti della concezione del
segno che in quell'ambito si sedimenta. In particolare, è presente la
concezione del segno in forma proposizionale, come antecedente p che permette
discoprire un conseguente q. Viene poi confermata l'attenzione verso il segno involontario
-- l'impallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato -- come indizio di
colpevolezza. Infine, compare la classica divisione del indizo secondo la sua
relazione temporale con il fatto criminoso -- anteriorità, contemporaneità,
posteriorità. Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche
dire che la classificazione del segno proposta da Cicerone è in larga misura
diversa da quelle precedenti. Essa appare infatti all'interno della teoria
dell’ “argumentation”, cioè del procedimento attraverso il quale vengono
addotte delle prove per confermare una certa tesi. L'argomentazione sembra
essere qualche cosa che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra
cosa in maniera probabile – “probabiliter ostendens” -- ) , o la dimostra
in un modo necessario – “necessarie demonstrans” -- De inv. Anche se non viene
usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è
proprio il meccanismo del segno. Infatti, qualcosa che è stato trovato (un
indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro.
Compare, a questo punto, la distinzione, già aristotelica, tra una forza
argomentativa debole – “probabiliter ostendens” -- e un'inferenza necessaria –
“necessarie demon strans”. Il segno necessario e così definite. "Viene
dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere provato
diversamente da come viene detto.” Ne sono esempi: "Se ha partorito, è
stata con un uomo.” “Se respira, è vivo” – “Se è giorno, c'è luce” -- De inv. ,
l, 86. Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere
l'antecedente e il conseguente sono legati da una relazione inscindibile – “cum
priore necessario posterius cohaerere videtur” -- De inv., l. 86. Il rapporto
di rinvio *non* necessario viene poi cosi defini to: "Probabile è poi ciò
che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha
in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" --
De inv., l, 46. Con questa definizione, Cicerone mette in evidenza due
caratteri: quello probabilistico e quello doxastico. Il primo di questi e da
Aristotele attribuito peculiarmente all'”eikos” -- verisimile. E infatti i
primi due esempi sono di un tipo che Aristotele classifica come “eikos”. “e è
madre, ama suo figlio” – “Se è avido, non fa gran caso del giuramento.” (De inv., I, 46). In essi compare anche il
tipico rapporto di generalizzazione che per Aristotele definine il verosimile --
Arist., Rhet.. C'è però un terzo esempio. "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" -- De inv.- che non sembra
dello stesso tipo, ma è più vicino al semeion aristotelico. La categoria di “signum”,
poi, compare come una sottopartizione del segno non necessario, accanto al “credibile”
-- all’ “iudicatum” e al “comparabile.” Se
le ultime tre nozioni – credibile, iudicatum, comparabile -- appaiono distinte
in base a criteri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive),
il “signum” corrisponde a una categoria di fenomeni abbastanza particolare. "Segno
è ciò che cade sotto qualcuno dei nostri sensi e indica (significa) un
qualcosa che sembra derivato dal fatto stesso, e che può essere verificato
prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno
di una prova e di una conferma più sicura" -- De inv. , I, 48. Ne sono
esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga",
"la poivere". Si tratta, come si vede, dell’indizio, inteso come
fenomeno percepibile, scarsamente codificato e generalmente non volontario.
Qui sono presentati in una forma non proposizionale. Ma niente vieta che venga
sviluppato in proposizio ni, come dimostra il caso dell’indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". L’indizio, infine, venne suddiviso secondo la nota
relazione temporale con il fatto criminoso. Nelle “Partitiones oratoriae”a
classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e
peculiarità. Innanzitutto la terminologia viene completa mente latinizzata. Dall’altre,
l’indizio -- qui chiamato “argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero
solet fiori élut quod in opi nione positum est") es.: ..
"pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaia come
sottopartizione di un'altra categoria. Il concetto asume un ruolo autonomo.
(·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se
ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et
quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue",
·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio---signum erodibile indicBtLm
comparabile / -- --. Infine, viene accettata la distinzione aristotelica tra
"luoghi estrinseci" -- corrispondenti alle "prove
extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' -- corrispondenti
alle "prove tecniche", éntechno1’ -- che venne criticata nel “De inventione”
(Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei “Topica”. È curioso notare come tra i
luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane,
anche quelle divine: gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di
sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è
sicuramente un residuo di una concezione ordalica e antichissima
deli'amministrazione della giustizia. Tuttavia è anche un indizio di un
continuo riaffiorare del paradigma divinatorio all'interno del fatto semiotico,
anche quando ormai il segno si e completamente “laicizzato”. Né questo è
un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura, si
ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si
esprime: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane
l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche
dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno
caratteristico. Il segno umano e invece trattato come un argomento intrinseco,
in particolare tra quello che riguarda lo stato di causa congetturale. La
congettura può essere tratta da due tipi di segni: il verisimilie e la nota propria
rei ( Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo
più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al
piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corrisponde all’”eikos”
aristotelico, di cui ha il carattere probabilistico e generalizzante. La “nota
propria rei” e definita come "una prova che non si verifica mai
direttamente e indica una cosa certa, come il fumo indica il fuoco"
(Part. or., 34). Si tratta, evidentemente, del segno necessario, come è
dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo “propria”, che rimanda
alla nozione di fdion semeion -- segno proprio. Per Aristotele, segno proprio
e la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto
che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr.). Il segno
proprio ha puo carattere di necessità e si define come quel segno che non può
esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De signis, l, 12-16).
Ci e, poi, il “vestigium facti,” dei quali venneno dati questi esempi -- "un'arma,
macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor
so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione,
le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non define QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratteristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, ed agli argumenta di Cornificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigium facti e più in relazione con
il segno necessario (nota propria rei) o con il verisimile) (Crapis 1986:
61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la
necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile
che essa corrisponda alla categoria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai
tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle “Partitiones oratoriae” (1
14), dove ricorrono esempi analoghi, il vestigium facti (chiamato lì anche signum)
vennne definiti come “consequentia”, cioè inferenze che si traggono dal
conseguente, caratteristica che define appunto, per Aristotele, il segno non
necessario. Ma mentre Aristotele condanna i smefa da un punto di vista epistemologico
per la sua insicurezza, Cicerone è pronto a riconoscerne l'efficacia qualora
si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Molte cose collegano
la retorica giudiziaria alla divinazione. Innanzitutto, il fatto che entrambe
si avvalgano del segno per arrivare alla conoscenza di un fatto non
direttamente accessibile alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene
operata una distinzione tra aspetti che sono eminentemente congetturali e
altri aspetti che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•)
es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine ·
coniecturs -verisimilie (quod plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam
alrter frt certumque declarat) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa
dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congetturali) e prova
extratecnica corrisponde la distinzione tra divinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla congettura) e divinazione naturale. Infine, come
Cicerone polemicamente rileva (De div. , II, 55), il segno della divinazione e
talvolta interpretati in maniera diametralmente opposta, proprio come avviene
nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due
interpretazioni diverse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi
deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti
della divinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellettuali
della sua epoca, educati ai metodi di indagine della filosofia a fondamento
razionalistico, e contemporaneamente impegnato in politica, sente l'esigenza
di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la
divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica
tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere
conservata, pena la disgregazione dello stato stesso. La superstizione, invece,
costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco
credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per ché non venga
limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della
repubblica. Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deorum, nel
De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in
forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte
divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione
all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria sostenuta
da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e
propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in
negativo, a una concezione generale del segno. Secondo la teoria di Quinto, gli
dei si pongono come fonte dell'informazione e come emittenti nei processi di
comunicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinatari. Ma, a
seconda dei due specifici tipi di divinazione, il processo comunicativo si
struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla “divinatio
artificialis”, in cui l'interpretazione del segno è legata a un'ars, ovvero a
una tecnica professionale di decrizione, demandata a specialisti, ciascuno
esperto in un settore: extispices -- esaminatori delle viscere --, interpretes
monstrorum et fu/gurum (interpreti dei fatti prodigiosi e dei fulmini),
augures -- interpreti del volo degli uccelli --, astrologi -- interpreti delle
stelle --, interpretes sortium -- interpreti delle combinazioni di tavolette
mescolate in un'urna ed estratte a caso. In tale divinazione, l'informazione
proveniente dal divino si materializza prima di tutto in una sostanza
espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto
semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo
sono dati dalla teoria, di origine del Portico secondo cui tutti i fenomeni
sono legati tra di loro in una catena di cause ed effetti, senza soluzione di
continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il logos divino e costituisce il fato (heimarméne),
non è conoscibile per intero da parte degl’uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza
di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una
gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre
quantoprimaèaccaduto"(De div.).Questofasìche gli uomini, attraverso
l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si ripetono e, pur
non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne
gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem).
Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle connessioni passate, si crea
un vero e proprio codice basato sul la iteratività. Si può schematizzare così
il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla
iterattività. Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in
quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto
da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un
segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivanti da
invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il
palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è
quello delle teorie del Liceo (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente nominati,
De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale col
divino, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai
vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente del divino. Il ruolo del
codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: emittente
divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano. Le obiezioni che
Cicerone muove ai sostenitori della divinazione si basano su argomenti
specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega
valore alla divinazione, è che essa non ha veramente carattere semiotico, e
cioè che i fenomeni che essa interpreta come segno non e tale, ovvero che non
si comporta veramente come d’antecedente rispetto a di conseguente. Per
distinguere un segno vero rispetto a quello presunti della divinazione,
Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina,
la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e
deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione
del futuro a partire da certi indizi. Ma, mentre le pratiche professionali
adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars),
ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De
div. , II, 14), le prati che divinatorie si basano sul "capriccio della
sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue
prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade re" (De
div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice
(anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il
caso è del resto la stessa con cui i medici ippocratici tendevano a
distinguere la propria scienza professionale dalla divinazione e dalla
medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in
termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della
divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze,
ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri
gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico. Le
interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div.
, Il, 83). Si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione
dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato
come segno prodigio so, ma a ben diverse cause naturali (De div.). L'interpretazione
avviene a posteriori e così toglie ogni necessità di rapporto tra antecedente
e conseguente (De div. , II, 66). In certi casi l'interpretazione è motivata da
ragioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II,
74).Grice: “Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb
Classical Library, a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since
there are quite a few volumes dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the
revised pronounciation, /kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually.
His favourite target of attack was Marcantonio, which paid him good, since
Marcantonio sent someone to cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote
about me’). He accuses Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s
ideal of VIRTUS – virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if
you look for it in keywords – or even better masculinities in the plural. The
sexuality side to the masculinity was of little importance to the Romans and
Cicero – the ‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between
ROMAN MEN and future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated
his first beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not
count since a lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE
becoming free. So, even though, while becoming free they attained the rights of
the Roman man, they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE
man is a Roman male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure
a ROMAN man wanted to find he could rely on two very practical institutions –
one was that of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire.
The ROMAN man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that
his SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would
not be a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if
this ‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s
desire, it was the job description of a job he never applied to. The other very
useful institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes
lexically between MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is
some overlap here. While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s
no reason why he should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into
prostitution by a pimp – so slave – nonliberus – and prostibulum were not
exclusionary. Again, in the case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the
Roman man to pretend that the desires of the PROSTIBULUM counted. They were
there to please. Brothels – there was one called Ganymede, in Ostia – quite
popular, next to a latrine – had all the amenities of bedrooms, locked doors,
etc.. WHAT MATTERED to the ROMAN man was that his REPUTATION OF VIRTUS – or
masculinity as self-control – kept untouched, so that the receptive role in the
sexual act would have no witnesses if it occurred at all. Cicero was well aware
of all this. But it would be idiotic to focus just on CICERO. The keyword
should be ROMAN MASCULINITIES, and Ancient Rome. In this way, we can cover the
periods of the archaic regal period, the republic – Cicero and Cesare – and the
Empire. When it comes to professional philosophers one has to be careful in
that they were a breed apart. They catered to the very elite, so their views
did not represent ‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero
mentions a law against ‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’
against any of the two sexes. The evidence for the philosopher should include
visual, and literary. Virgil and his national epic count large – and the
Hellenistic references he makes to Ganymede and his Niso ed Eurialo being
erastes and eromenos would be understood to his audience. And so would
Hadiran’s affair with this foreigner (a replica of the Ganymede myth – and
Cicero calls Marcantonio a ‘ganymede’ --. Like Zeus, Adrian was the MASCULINE
VIR VIRTUOUS, dominant and controlling. Like Ganymede, Antinous was the
foreigner subservient!” Manetti has explored the semiotics of CICERO in some
detail. In general, he approaches first CORNIFICIO, who is the author of a
treatise on rhetoric for long attributed to Cicero. The semiotic of Cicero is
lawyer-based. His idea is that if x, y.
x is a sign of y. y is the cause of x. x is the effect of y. He is
interested in semiotics as part of the analytica – or demonstration which is
not necessary. It is interesting to compare Cicero’s semiotics with one by this
Spaniard, Quinitilian. Quintilian, possibly a homosexual, had an obsession with
what signs qualify as naturally meaning that the person is a homosexual. He
said there were none. It is in this discussion that semiotics works. Grice:
“Cicero was quoted twice at the Mostra augustea della romanita – a sentence,
and Svetonio’s description of the birth of Augustus under his consulship.” A
topic of analysis if ‘natura’. There are natural tendencies in man. And some
which are CONTRA NATURAM. Oddly, semioticisans like Cicero and Quintilian refer
a lot to these ‘contra-naturam’ conventions – or non-naturale. Grice: “Austin
liked Cicero because he made ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Il
Cicerone di Rensi. Spero enim homines mtellecturos quanto sit
omnibus odio crudelitas et quanto amori probitas et clementia.
C. Cassio in Cic., Ad farri. XV, 14 C. Renisi . Vita
parallele ,li due filosofi 4 Cicerone era vicino ai
sessantanni, quando lo Stato legale romano, che già precedentemente
a- veva subito terribili scosse, ma che mediante una saggia riforma
avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo stesso tronco senza frattura o
soluzione di conti¬ nuità, riceveva da Cesare il colpo di
grazia... Non è più necessario rivendicare la grandezza di
Cicerone contro le denigrazioni del Mommsen e di altri due o tre storici
tedeschi (I). Egli non era una ràbula e un politico superficiale.
Bensì un uomo di Stato dallo sguardo ampio e sicuro, nel cui animo
si radicava e viveva di vita vigo¬ rosissima tutta la grande tradizione
politica romana, Una bella e vivace confutazione del Mommsen si può
leggere nel saggio di A. Horncffer, Cicero und die Gegenwarl, contenuto
nel volume Das Klassische Ideal (Lipsia, Klinkhardt, 1909). L' Horneffer
però rivendica solo il valore di Cicerone come epistolografo e
oratore, non come filosofo.
e pur senza che l’animo servilmente vi soggiacesse, ma, anzi,
insieme, con la chiara coscienza della nuova direzione che quella
tradizione doveva pren¬ dere, e della misura e forma in cui doveva
prenderla, per svilupparsi fecondamente e superarsi vivificandosi. Accanto a
ciò, mente che s’era impadronita di tutta la più alta cultura dell'epoca
: Demostene e Platone insieme pel suo paese, come riconosce
Wilamowitz-Moellendorf Accanto a ciò, una squisitissima sensibilità
artistica e una passione vivacissima per le cose d’arte ; basta vedere
quanto “ vehementer „, com’egli stesso dice, attendeva che Attico gli
mandasse sculture ed oggetti artistici greci: “genus hoc est voluptatis rneae,,
(Ad Att.) ; e basta aver letto attentamente le sue orazioni
e aver scorto il perfetto senso d’arte con cui sono costruite e che
vi circola. Accanto a ciò, infine, una sensibilità in generale per le
cose, le persone, gli eventi, gli affetti, così moderna, che in lui,
nella sua pronta e multiforme impressionabilità, ritroviamo
interamente noi stessi : e il suo dolore erompente e pieno di accenti
passionali per la morte della figlia Tullia, è il palpito d’un cuore dei
nostri tempi. Uomo, in una parola; assolutamente completo. Platon, ed.
cit., voi. I, p. 745. (2) Un pensatore di così sottile e sicuro
buon gusto e di cosi grande penetrazione storica (e particolarmente
Il rimprovero che gli si fa di debolezze e incertezze è uno dei soliti
rimproveri che gli eroi di poltrona hanno quasi sempre occasione di
ri¬ volgere al grande che si è trovato a dover dav¬ vero vivere
avvolto da un gigantesco turbine di avvenimenti, e che nemmeno se fosse
stato mille volte più grande poteva abbracciarne tutte le fila,
come è invece agevole a quelli che non fanno se non pacificamente
rileggerli nel loro tranquillo gabinetto venti secoli dopo. Egli non fu
debole ed incerto nè nella repressione della congiura di Catilina,
nè nella lotta per la salvezza della costituzione con¬ tro il
cesarismo rinvelenito da Antonio, lotta che chiuse cosi gloriosamente la
sua carriera mortale. Le sue incertezze di altri momenti sono
unicamente frutto della sua profonda moralità. Perché l’uomo
fondamentalmente morale e intelligente, in mezzo a cataclismi enormi che
travolgono gli individui come fuscelli, quali quelli in cui Cicerone si
trovò, mentre non può operare contro coscienza, e per questa, che
pure sarebbe l’unica via possibile, salvarsi o tornare a grandeggiare, però
avverte anche i pencoli micidiali a cui espone sè ed 1 suoi o-
perando secondo coscienza : e la condotta risultante è necessariamente quella
che tracciano le fluttuazioni di tale angoscioso conflitto
interno. circa la storia romana) come Montesquieu ne dà questo
giudizio. Ciceron, selon moi, est un des plus grands espnts qui aient
jamais été (Pensées diVerses), Ab illis est periculum si peccare, ab hoc si
recte fecero, nec ullum in his malis consilium periculo vacuimi
inveniri potest „ {Ad Att, X, 8). Quando i frangenti in cui un uomo si
trova realmente a vivere sono davvero quelli così delineati, si può
domandarsi se sia umanamente possibile la rettilineità che esigono da lui
coloro che poi spulciano comodamente gli eventi della sua vita. Sicuro
e diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che non sente
scrupoli : il cinico ed elegante arrivista Celio Rufo, che a Cicerone da questo
consiglio {Ad. Di'». Vili, 14): “ Suppongo che non ti sfugga come
nelle discordie politiche interne gli uomini debbano seguire, finché si
lotta senz’armi, la parie più onesta, ma la più forte quando vengono in
gioco guerre ed eserciti, e stabilire che è migliore ciò che è più sicuro
„ (Celio Rufo, del resto ottimo scrittore, tanto che per molti uma¬
nisti ed altri dotti è ancor oggi il miglior modello di stile). Ma
Cicerone era un uomo di coscienza. Questa soltanto, non la sua incapacità
mentale, la causa della sua rovina. Egli era andato con
Pompeo, non già sedotto dalla speranza della vittoria, ma quando la
causa di costui era ormai pressoché perduta e con la piena nozione
di tale condizione di cose, e mentre Cesare, Antonio, Celio, per cercar
di trattenerlo almeno neutrale, gli facevano offerte larghissime : secuti
non spem, sed officium „ {Ad Div. X 5). Vi era andato essendo
consapevole, non solo dell’inettitudine e impreparazione di Pompeo e di
quelli che erano con lui, ma altresi del fatto che poco o nulla c era da
sperare da essi circa la restaurazione della legalità, animati come
costoro erano da propositi di persecuzione sillana (Ad Att.; Ad D/v.),
e chiaro ormai essendo che dai pompeiani non meno che dai
cesariani non si pensava che a far man bassa dello Stato: “ regnandi
contendo est » (Ad Att.), “ dominatio quaesita ab utroque est, non
id actum beata et honesta civitas ut esset. Vi era andato straziato dall’
idea d una guerra civile e unicamente in obbedienza a
considerazioni d ordine morale. E’ la coscienza che ci costringe, scrive
ad Attico (X ,8), a stac¬ carci da Cesare più ancora se vincitore che se
vinto, per non essere solidali con ciò che seguirà alla sua vittoria,
stragi, estorsioni, violenze “ et turpissimorum honores, et regnum non
modo Ro¬ mano homini, sed ne Persae quidem cuiquam to- lerabile Era
andato da Pompeo, senza illusioni e speranze, unicamente per senso del
dovere. Sed valuit (scrive più tardi a Cecina) apud me plus
pudor meus quam timor ; veritus sum deesse Pompeii saluti, cum ille
aliquando non defuisset meae. ltaque vel officio, vel fama bonorum,
vel pudore victus, ut in fabulis Amphiaraus, sic ego prudens ac
sciens, ad pestem ante oculos positam sum profectus (Ad Div.). Egli
sapeva cioè di andare alla rovina e vi andò in obbedienza a yu
principio d'onore (pudor) e di gratitudine, per quel poco che Pompeo aveva
fatto onde ri¬ chiamarlo dall’esilio. “ Pudori tamen malui famae¬
que cedere quam salutis meae rationem ducere riconferma a M. Mario. E
ritornando più tardi in una lettera a Torquato, che aveva anch’egli
seguito la parte pompeiana, su quell’episodio a entrambi comune, sente di poter
ricordare in cospetto al correligionario politico nec nos victoriae
praemiis ductos patriam olim et liberos et fortunas reliquisse, sed quoddam
nobis officium iustum et pium et debitum reipublicae nostraeque
dìgnitati videbamur sequi, nec cum id faciebamur tam eramus amentes ut
explorata nobis esset victoria. Ne è questa un’opportunistica
configurazione postuma della sua con¬ dotta di quel tempo. Basta
percorrere la sua corrispondenza con Attico (suo amico intimo e suo
editore, uomo consumato nell’ impresa di tener il piede in più staffe e nella
difficile arte di conservarsi amici i vincitori senza inimicarsi i vinti)
per constatare che tale veramente, cioè il senso del dovere, era il
nobile sentimento da cui fu mosso. Officu me deliberalo cruciat,
cruciavitque adhuc ; cautior certe est mansio ; honestior existi-
matur traiectio (Ad Alt. Vili, 15). E quando Pompeo è pressoché spacciato
e stretto da tutte le parti, e Cicerone è ritornato in Italia, egli
si cruccia proprio di questo suo atto da cui gli sarebbe derivato
vantaggio e che poteva quindi essere reputato abile, e si rammarica di non
essere stato con Pompeo sino alla fine; “ numquam enim illus
victoriae socius esse volui ; calamitatis mallem fuisse „ (Ad Att.). Il
principio, insomma, che in un’altra posteriore circostanza, piena
di pericoli mortali, nella sua lotta contro Antonio, egli enuncia a
Planco così : “ mihi ma- ximae curae est, non de mea quidem vita, cui
sa¬ tisfeci vel aetate vel factis vel gloria, sed me patria sollicitat (
Jld Dio.), questo è il principio che domina costantemente nell’animo di
Cicerone, insieme con l’insormontabile ripugnanza, o meglio con 1’
impossibilità, di venir meno al rispetto verso se stesso. Allorché,
essendo Cesare incontrastato padrone, l’accomodante Attico gli dà
il consiglio di obbedire ai vincitori, “ non mihi quidem (egli risponde)
cui sunt multa po- tiora „ (Ad Att.). Certo, un uomo mosso
prevalentemente da sen¬ timenti di tale natura, nelle tragiche vicende
pub¬ bliche da cui si trovò avvolto Cicerone, va al fondo. Resta a
vedere se ciò sia un indice di inferiorità o se non lo sia piuttosto quel
successo che è raggiunto (e la cosa è facile) in grazia del¬
l’assenza di tali sentimenti, della mancanza d’ogni freno etico, dell
insensibilità ad ogni scrupolo di coscienza, della nessuna riluttanza a
violare cinicamente ogni principio di diritto e di morale. Nè r uomo che
aveva cominciato la sua carriera attaccando coraggiosamente nell’orazione
prò Roselo un favorito potentissimo di Siila, era un pavido.
Dimostrò ancora di non esserlo e nel suo conso¬ lato e nell’ultima fase
della sua vita. L’apparenza di timidità da lui talvolta offerta, deriva
da ciò che egli, come disse di sè, si preoccupava grandemente dei
pericoli nella rappresentazione e raffigurazione mentale anticipata di essi,
non già che titubasse poi ad affrontarli nella realtà. Quintiliano
narra : “ Parum fortis videtur quisbusdam : quibus optime respondit ipse,
non se timidum in susci- piendis, sed in providendis periculis. E’
press’a poco ciò che egli scrive a Toranio: mi accusavano di essere
timido, “ eram piane, timebam enim, ne evenirent, quae acciderunt „
; mi dicevano timido, “ quia dicebamus ea futura, quae facta sunt „
(Ad Dio.). Nè è giusto accusarlo di non aver saputo intuire con
chiarezza le situazioni e di essersi per questa deficienza di
sguardo gettato a corpo perduto a combattere per soluzioni che la realtà
escludeva. È questa la so¬ lita iniqua condanna che ì posteri,
aggiungendosi ai contemporanei nell’incensare i vincitori e nel
dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano contro colui che difese
la causa rimasta storicamente soccombente. Quasiché il fatto che una causa sia
rimasta storicamente sconfitta dimostri anche che era giusto e logico che
essa lo fosse ; quasiché il mero fatto, il fatto del successo, sia anche
verdetto di giustizia e logicità ; quasiché assai spesso la causa
storicamente prostrata non sia quella che avrebbe dovuto vincere. Che la
cosa stia così nel caso di Cicerone, lo dimostra il fatto che la causa da
lui combattuta e che vinse costituì la rovina della vita di Roma :
basta per accertarsene constatare che nella stessa nostra memoria di
posteri la vita di Roma resta chiaramente presente e attira la
nostra appassionata attenzione appunto sino ad Augusto; ci
rimangono ancora come appendice già torbida i primi imperatori ; poi
tutto ci si confonde di¬ nanzi in un lungo stato comatoso chiazzato di
continui sussulti sanguigni, in cui (se non siamo sto¬ rici di
professione) non distinguiamo piu ne nomi, nè persone, nè eventi, di cui
non ricordiamo, nè c’importa ricordare, più nulla. Si rammenti come, per
es., scorgeva Roma Mas¬ simo d’ Azeglio. “ Fra tutti gli Stati
dell’antichità è Roma quello che ho in maggior stima, fino all’epoca dei
Gracchi, intendiamoci ! lo ammiro que’ tempi durante i quali dominò
la legge ; durante i quali le più bollenti passioni agitate dai più
vitali interessi, non cercavano altr armi nè altre vittorie che un voto
ne’ Comizi „. E poco prima : Se è giusto e vero il principio fondamentale
delle Società moderne, essere la legalità di un governo dipendente
dalla volontà del popolo che vi è governato, vorrei sapere se 1’umanità
consultata avrebbe ne’ tempi dei Romani votato [Nemmeno i mezzi che egli
aveva messo in opera per sostenere la causa che soccombette, erano
ina- deguati. Tutto, invece, egli aveva provvisto ; tutto quanto
era necessario perchè essa vincesse: aveva cercato di assicurare ad essa l’appoggio
e la fedeltà dei maggiori personaggi militari e poli¬ tici ; aveva
costituito e messo in campo eserciti poderosi ; con la sua parola teneva
altissimo il tono morale del popolo all’ interno. Se la causa non
vinse, lo si deve, non a un fato storico, a condizioni incoercibili
insite nella realtà e sfuggite allo sguardo di Cicerone, o al logos
immanente nella storia ; ma unicamente a due o tre puri casi, che
potevano accadere diversamente e in tal modo rovesciare la situazione.
Dice in qualche luogo Rosmini che “ uno de’ mezzi, co’ quali 1’
uomo può sciogliere la propria mente da molti pregiu¬ dizi e da’
legami delle consuetudini sensibili, si è l’esercitarsi a considerare le
cose non solo come sono, ma come potrebbero essere. Se vogliamo applicare
questo precetto al periodo di storia in discorso (come Renouvier in
Uchwnie l’ha applicato in modo grandemente interessante a tutta la
storia occidentale dagli Antonini in poi), scorgeremo agevolmente che due
o tre futili casi, per l'impero (Miei Ricordi, Barbera). Antologia
Pedagogica a cura di G. Pusinieri, Rovereto, Mario] i quali fossero avvenuti
diversamente, sarebbero bastati a cambiare del tutto la faccia delle
cose; se, p. e., Lepido non avesse tradito, o se un gia¬ vellotto
l’avesse ucciso quando egli si mosse per portar soccorso ad Antonio ormai
disfatto, se Planco non avesse fatto il doppio giuoco, ciò sarebbe
ba¬ stato per far di Cicerone il capo dello Stato romano, e perchè egli
occupasse nella politica di Roma d’allora, e nella storia, il posto
d’Augusto. E quanto lo Stato romano e la posterità sareb¬ bero
stati più fortunati se il potere fosse venuto in mano ad un uomo di
rettitudine profonda e di vivo senso del diritto e del dovere, come
Ci¬ cerone, anziché ad un uomo la cui bassezza d animo è provata
luminosamente dal fatto che, avendo cominciato ancora puer o adolescens,
come sempre Cicerone lo chiama, (sed est piane puer n \Ad Att. XVI,
11), ad essere qualcosa solo per 1 ap- poggio datogli appunto da Cicerone
e con lo stri¬ sciarsi umilmente ai suoi piedi (“a me postulat
primum ut clam conloquatur mecum Capuae vel non longe a Capua... ducem se
profitetur nec nos sibi putat deesse oportere „ ; binae uno die
mihi litterae ab Octaviano; “ deinde ab Octaviano cotidie litterae,
ut negotium susciperem, Capuani venirem, iterum rem publicam servarem » ;
mihi totus deditus „ ; “ nobiscum hinc perhonorifice et amice
Octavius „ — Ad Jltt. XVI, 8, 9, 11, XIV, 11, 12), non si trattenne dal
sacrificare ad una propria maggiore ascesa la vita di colui
che l’aveva sorretto nei suoi primi passi. Uomo egli, si, veramente,
pusillanime, che vinse le guerre solo per mezzo dei suoi generali e
specialmente di A- grippa (1), e non aveva il coraggio di presentarsi
nel campo se non dopo che Agrippa gli annunziava la vittoria (Svet. Aug. 16).
Fondamental¬ mente istrione e poseur come risulta dal fatto,
narrato da Svetonio (Aug. 84), che non comu¬ nicava mai nemmeno con sua
moglie senza scri¬ vere prima e leggere ciò che voleva dire, nonché
dall’altro, sempre narrato da Svetonio, che egli amava stilizzare a
particolare espressività e lu¬ minosità i suoi occhi, “ quibus etiam
existimari volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque
[Octave lui [a Sesto Pompeo) fit deux guerres laborieuses ; et
après bien de mauvais succès il le vain- quit por i’habilité d’Agrippa...
Je crois qu’ Octave est le seul de tous les capitaines romains qui ait
gagné 1 affection des soldals en leuv donnant sans cesse des marques
d’une làcheté naturelle „ (Montesquieu, Grandeur et Dócadence des
Romains. Tanto Cesare quanto Augusto avevano l’abitudine di citare dei
versi delle Fenicie di Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva
scelto è rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare amava
citare i versi 524-525 : “se c' è un caso in cui sia bello violare il
diritto, è quando lo si viola per conseguire la tirannide citazione
signifìcatiice dello spirito violento e illegale. Augusto amava citare il
verso 559: è meglio per un generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che
es¬ sere ardito (ihf aouc) „ ; citazione significatrice della vi¬
gliaccheria (cfr. Cicer. De Off. Ili, 21, 82 e Svetonio Aug.] si qui sibi
acrius contuenti quasi ad fulgorem solis vultum summiteret e infine in
modo palmare dalle parole (“ ecquid iis videretur mimum vitae commode
transigisse „) e dalla citazione greca richie¬ dente 1 applauso per la
commedia ben riuscita, con cu; egli chiuse la sua esistenza (ib. 99).
Uomo che desta particolare antipatia precisamente in grazia del suo
proposito di moralizzare la vita romana ; perchè niente è più ripugnante
del dis¬ soluto che si da il compito di costringere gli altri alla
virtù e posa a restauratore della morale pubblica ; e Augusto aveva cambiato
tre mogli prendendo 1 ultima al manto sotto ì suoi stessi occhi,
conducendola con sé in un altra stanza donde era ritornata spettinata e
con gli orecchi rossi, e poi introducendola in casa propria incinta d’un
altro (ib 62, 69) ; aveva commesso le oscenità che narra Svetonio,
irripetibili, tranne forse una : “ adultena quidem exercuisse ne amici
quidem negant; e dopo ciò faceva udire le parole am¬ monitrici di
vita austera e imprendeva a ricondurre i costumi alla prisca severità
(I). La scandalosa con¬ dotta di sua figlia e di sua nipote, che
condusse [A cool head, an unfeeling hcart, and a cowardly
disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to assume thè maske of
hypocrisy, which he never afterwards laid aside. With thè saine hand, and
proba’bly with thè same temper, he signed thè proscription of Cicero and
thè pardon of Cinna. His virtues, and even his vices, were
artifìcial „ (Gibbon, Decime and Fall] all’esilio di entrambe, e di Ovidio
complice o pronubo, dimostra che nella sua famiglia stessa si aveva il
senso netto del come si poteva prendere sul serio una riforma morale che
pretendeva at¬ tuare un individuo di siffatta ìndole e di siffatti
precedenti. Non ostante che all’epoca del trionfo di Cesare si
avvicinasse alla sessantina, Cicerone non. era uomo che non sapesse
comprendere i tempi. Li comprendeva benissimo, più profondamente e
sapientemente di Cesare e di Ottavio. La sua mente era in pieno vigore.
Subito dopo quell epoca egli poteva scrivere quei suoi libri di filosofia
che su¬ scitarono l’ammirazione dei contemporanei e furono e
saranno letti con entusiasmo o rispetto da tutte ( I ) Coglie
veramente nel segno Aurelio Vittore : Cum esset luxuriae serviens erat eiusdem
vitii severissimus ultor, more hominum, qui in ulciscendis vitiis, quibus
ipsi velie- menter indulgent, acres sunt . (cap. 1). E s. può dire
d. lui quel che il Boissier dice di Domiziano : 1 ar malheur,
ce prince si sevère pour les defauts des autres, etait lui- mème
très vicieux. 11 avait fait des lois rigoureuses contre l’adultere et il
vivait publiquement avec sa mèce, la bile de Titus, qu’ il avait enlevée
à son mari et dont il causa la mort en essayant de la taire avorter. Ce
contraste etait choquant, et il n’ ignorait pas qu’on en etait indigne
„ (Tacite] le generazioni successive (I). Poco più oltre egli
svolgeva anzi la sua azione politica più abile, più decisa, piu energica
e più importante, e, insieme, con le filippiche raggiungeva un’altezza da
lui ancora non tocca nella forma d’arte che gli era propria : “
divina „ chiama giustamente un giudice certo non facile, Giovenale (X,
125), la seconda di esse. La sua idea di portare alla luce del
mondo politico, sotto la sua direzione, il proni¬ pote e figlio adottivo
di Cesare, ancora ragazzo (aveva appena diciannove anni), accordandogli
an¬ che onori che a molti parevano eccessivi, e di riuscire così
giovandosi del nome di Ottavio a far rientrare il ribollente partito
cesariano nell’ordine costituzionale e a dominare in tal modo una
si- Inazione difficilissima, era una idea geniale, abi¬ lissima, da
politico grandemente avveduto, l’unica (I) Sull immensa influenza
esercitata da Cicerone sui a t“ di tutti ' tempi ' veg § asi
‘'furiente r “, Z r fe ,v C f er , 0 o ™ Wandel dcr Jahrhunderte I
d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson nella sua Vita di Cicerone (
Heroes of thè Nations Series „) dice giustamente che se si dovesse
decidere quale degli scrittori antichi maggiormente influì sul mondo
moderno, la decisione sarebbe ,n favore di Plutarco e Cicerone —
hrasmo, scrivendo ad un amico, diceva che, se da giovane aonr enVa
rf matUra era andato sempre più apprezzando Cicerone. Ld è proprio
giusto il noto giu- d. Z .o di Quintiliano : “ Ille se profecisse
sciat, (e s. può aggiungere: tanto gusto letterario, quanto in retti
Jne etico-politica) cui Cicero valde placebit „ (X, 112). G.
Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi ] idea che in quel terribile
cataclisma poteva dar buoni frutti. Non è sua colpa se 1 idea non
riuscì, e proprio sopratulto per la perfidia senza scrupoli del
futuro Augusto. Per quanto avveduto e gran¬ demente intelligente, un uomo
di Stato fondamen¬ talmente onesto come Cicerone, non fa entrare
nel suo giuoco la supposizione di una perfidia enorme, di gran lunga
travalicante la media ne¬ quizia umana, come fu quella di Augusto; nè
si può accusarlo di incapacità se non ve la fa entrare, e se essa
gli si rizza impensatamente dinanzi man¬ dando a picco i suoi piani più
accortamente e sapientemente elaborati (1). Fra il 4 1 e il 40 a.
C., cioè all’età di circa sessantaqualtro anni, Cicerone assume
risolutamente, nel momento più pieno di vicissitudini e pericoli, la
parte di leader del Se¬ nato e del popolo romano, come egli stesso
scrive a Cornificio, “ me principem Senatui populoque romano
professus sum (Ad Dio. Xll, 24 2) ; spiega un’attività prodigiosa, tanto
verso gli eserciti quanto rispetto alla situazione interna, per
dirigere (I) Giustamente Platone osserva (Rep. 409 A-D) che
le persone oneste sono facili ad essere ingannate dai malvagi perchè non
hanno in sé il modulo dei sentimenti di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv
éaotoT; ^ 7 iapaos'y|J.axa óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però
il malvagio, a- bilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta
ingan¬ nato quando tratta coi buoni, perchè, giudicando da se, e
ignorando le indoli onesti, vede dappertutto inganni (àruaT&v Tiapà
xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;)] la lotta contro Antonio ; getta di nuovo,
attesta scrivendo ancora a Cornificio, 1 fondamenti dello Stato con
la prima Filippica: “ fundamenta ieci reipublicae „ (Ad D/v. XII, XXV,
1); e al gio¬ condo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto faccia
e come ritenga che se dovesse in tale sua azione perdere la vita
l’avrebbe spesa bene ; “ sic tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes
mini aliud agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi liberique
sint : nullum locum praetermitto mo- nendi, agendi, providendi : hoc
demque animo sum, ut si in hac cura atque admistratione vita mihi
ponenda sit, praeclare actum mecum putem „ (Ad T)iv. IX, XXIV, 3). “ In
questi primi mesi del 43, Cicerone fu veramente il princeps,
ch’egli aveva idealizzato nel De republica : consigliere,
esortatore, ispiratore del Senato, dei consoli, dei governatori delle
provincie „ (1). Non è questa la condotta d un uomo le cui facoltà
spirituali siano illanguidite. Ma, sopratutto, a prova della
sua esatta com¬ prensione dei tempi, basta ricordare come la ri¬
forma che occorreva allo Stato romano, pessima¬ mente attuata, secondo
attestò la susseguente vita (1) F, Amateli, Cicerone, (Bari,
Laterza I929‘ p. 187). Jamais Ciceron n a joue. un plus grande róle
politique qu à ce moment ; jamais il n’a mieux mérité ce nom d’hom-
me d Etat que ces ennemis lui refusent „ (Boissier, Cr- céron et ses amis]
dell’Impero, da Cesare e da Augusto, fosse stata prospettata per primo da
Cicerone nel De Re¬ pubblica. L’introduzione, cioè, d’un nuovo e
più fermo principio d’autorità sotto forma di un rector
rerumpublicarum d’un “ moderator reipublicae d’un “ princeps civitatis »
(De Ti,ep. V, 3, 4, 6). Senonchè Cicerone, con molto maggior senso
della necessaria continuità di sviluppo dello Stato romano e con
molta maggior disinteressata cura di esso, non intendeva che questa
riforma dovesse rivol¬ gersi a distruzione della costituzione esistente,
bensì che dovesse ingranarsi in essa e formarne un na¬ turale
complemento e uno svolgimento spontaneo e logico ; “ homines non tarai
commutandarum quam evertandarum rerum cupidos „ , egli giudica i
cesariani .(De Off. 11 c. 1), mentre per lui la costituzione romana, come
esattamente nota lo Zielinski, era “ capace di ogni progresso in
quanto questo conducesse all’accettazione e allo sviluppo di idee
feconde (fordeTnder), non di idee distruttive. La differenza tra il modo con
cui egli concepiva la riforma e il modo con cui la attua¬ rono
Cesare ed Augusto è si può dire scolpito dalle seguenti sue due
proposizioni : “ me nun- quam voluisse plus quemquam posse quam
uni- versam rempublicam „ (jdd Div • VII, 3); “ ego sum, qui
nullius vim plus valere volui, quam ho- nestum otium „ (ib. V, 21).
Ovvero: la differenza tra la concezione ciceroniana del princeps e la
pratica applicazione fattane da Cesare è resa nel bell’ emistichio con
cui Lucano (1, 150) de¬ scrive il modo di operare di quest’ultimo : «
gau- dens viam fecisse ruina. Basta riflettere a tutto ciò per scorgere
tosto che non solo la mente di Cicerone era nel suo pieno vigore,
ma altresì la sua comprensione dei tempi (se per questa s’intende, non
già furbesca valutazione personalmente opportunistica delle cir¬
costanze, ma avvertimento delle necessità profonde che ad un dato momento
si presentano nella vita sociale e politica d’un paese) era
perfetta. (1) Il * ‘ sovversivismo „ di Cesare è provato dal
dolore che per la sua morte manifestarono sopratutto gli Ebrei (“
qui etiam noctibus continuis bustum frequentabant„ — Svet, Caes. 84),
cioè precisamente coloro che nel seno nello Stato romano, da essi
violentemente odiato, costitui¬ vano la catapulta diretta a farlo
saltare, e che, sotto la veste del Cristianesimo, a farlo saltare
effettivamente riusci¬ rono. Si può anzi con sicurezza dire che l’impero
romano si deve agli ebrei, perchè furono i loro lunghi tetri
lamenti intorno al cadavere di Cesare che suscitarono nella ple¬
baglia quella sommossa per e attorno al rogo del ditta¬ tore, la quale
fece prender nuova forza al cesarismo. “ É noto come per la commozione
popolare che lo straziante rito ebreo provocò colle sue lugubri
lamentazioni orientali, se ne ingenerò quel tumulto che doveva mutare la
faccia de! mondo, mandando in fumo i diplomatici accordi con Bruto
e Cassio, che dovettero fuggire in Illirio : sicché ne vennero le lunghe
guerre civili e l’Imperio di Augusto „ (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano]
Mente possente, senso politico sicuro, compren¬ sione dei tempi piena.
Non si può dunque attri¬ buire a deficienze intellettuali il modo con
cui Cicerone valutò Cesare e il movimento da costui capeggiato.
Egli non vide certamente Cesare come la sua figura si è plasmata nella
storia, che corona con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha
trovato in ogni presente la consacrazione del bruto suc¬ cesso di
(atto. Lo vide come glielo presentava la realtà immediata. Lo vide come
lo vide Catullo: Pulcre convenit improbis cinaedis, Mainurrae
pathicoque Caesarique ; E questo Caesar era proprio Caio Giulio Cesare e
quel Mamurra (da Catullo soprannominato Men- tula) il suo generale del
genio. A permettere al quale di “ mangiare „ (il verbo si usava anche
in latino con questo preciso significato) milioni su milioni, il
commovimento politico aveva principal¬ mente servito. Doveva essere una
cosa nota a tutti, se Catullo la mette correntemente in versi: Cinaede
Romule, haec videbis et feres ? Es inipudicus et vorax et
aleo. Eone nomine, imperator unice, Fuisti in ultima
occidentis insula. Ut ista vostra diffutata Mentula Ducenties
comesset aut trecenties ?] Cinaede Romule Romolo debosciato, impu¬ dico,
vorace e giuocatore : cosi Catullo vede Ce¬ sare. E press’a poco così lo
vede Cicerone. Egli non scorge Cesare, quale il fanatismo in¬
teressato dei seguaci e poi gli storici l’hanno co¬ struito: gli storici,
i quali (in generale) non fanno mai altro se non aggiungere, per supino
servilismo postumo, la loro adulatrice consacrazione al suc¬ cesso
di fatto e di solito non osano mai, per la paura di passar per
“singolari,,, sviscerare il clamoroso successo di fatto ottenuto da un “
grande „ nella età in cui visse, mettendone coraggiosamente in luce
le vere molle, spessissimo casuali, o basse, o vili, ma sempre invece per
essi è “ grande „ colui che nella sua epoca le circostanze, o la
perfidia, o i misfatti hanno portato in alto (I). (1) “Si vous avez
une vue nouvelle, une idée origi¬ nale, si vous présentez !es hommes et
les choses sous un aspect inattendu, vous surprenez le lecteur. Et le
le- cteur n’aime pas à ótre surpris. Il ne cherche jamais dans une
histoire que les sottises qu’ il sait dejà. Si vous essayez de
l’instruire, vous ne ferez que l’humilier et le fàcher. Ne tentez pas de
l’éclairer, il criera que vous insultez à ses croyances... Un historien
originai est 1 objet de la défiance, du mépris et du dégoùt
universels». Questo è l’abituale comportarsi degli storici, secondo
la satira, aggiustatissima, che ne schizza A. France (L’ ile des
Pingouins, préf., p. IV-V). Ci sarebbe solo da ag¬ giungere che spesso il
servilismo degli storici verso i personaggi della storia che scrivono serve al
loro servilismo verso i personaggi della storia che vivono. Cicerone
vede Cesare muoversi davanti ai suoi occhi, nella vita vera, non nella
luce abbagliante del mito. Esso gli appare screditato, corrotto,
senza senso di morale nè privata nè pubblica, uomo la cui vita, i
cui costumi danno la certezza che si condurrà male : e sopratutto la
danno la gente che lo circonda. “ O Dii, qui comitatus ! in qua
erat area scelerum! scrive ad Attico (IX, 18), dopo uno dei suoi
abboccamenti con lui. Egli sa che Cesare aveva cominciato a costruirsi la
sua potenza accaparrandosi e tenendo alle proprie dipendenze i
manigoldi audaci e bisognosi (2). Egli scorge ( I ) Nell'
interessantissima antologia di pagine storiche di Chateaubriand, testé
pubblicata dall’editore Tallandier sotto il titolo Scénes et portrails
historiques, si legge (p. 269 ) : “ Tout personnage qui doit vivre ne va
point aux générations futures tei qu’ il était en réalité : a
quelque distance de lui, son epopèe commence : on idéalise ce
personnage, on le transfigure ; on lui attribue une puissance, des vices
et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange les hasards de sa vie, on
les violente, on les coordonne à un système, Les biographes répètent ces
mensonges ; les peintres fixent sur la toile ces inventions et la
posterité adopte le fantóme. Bien fou qui croit à l’histoire. L’histoire
est une pure tromperie „. E Montesquieu, dal canto suo aveva già
osservato : “ Les places que la posterité donne sont sujettes, corame les
autres, aux caprices de la fortune „ ( Grandeur et décadence des Romains,
Ch. 1 ! (2) “ Habebat hoc omnino Caesar : quem piane per-
ditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam homi¬ nem audacemque
cognorat, hunc in familiaritatem liben- tissime recipiebat „ (Fi/. Il,] radunata attorno a Cesare tutta la gente
equivoca e sospetta, violenta e disperata, tutte le anime dan¬
nate, vexu (<x (Ad Att. IX. 18), “ omnes damnatos, omnes ignominia
affectos, omnes damnatione igno- miniaque dignos, omnem fere inventutem,
omnem illam urbanam et perditam plebem „ (Ad Att. VII, 3,), tutti i
giovani circa i quali pensava che “ma¬ ximas republicas ab adolescentibus
labefactas,, (De Seti. VI), tutti coloro ch’egli chiamava « perdita
iuventus » (Ad Att. VII, 7) e poc’anzi « barba¬ tuli iuvenes, grex
Catilinae » (ib. I, 14), «feccia di Romolo » (ib. II, I), i precursori di
quella che poi Giovenale denominerà «turba Remi» (X, I, 3);
cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare è raggruppato tutto il
canagliume della penisola, « cave autem putes quemquam hominem in
Italia turpem esse, qui hinc absit » (IX, 19); osserva¬ zione
identica a quella che è costretto a fare il cesariano Sallustio: “
occupandae reipublicae in spem adducti homines, quibus omnia probo ac
luxu- ria polluta erant, concorrere in castra tua,, (De Rep. Ord.
II, 2). Come Catullo, Cicerone vede con disgusto i cesariani ormai
dominatori darsi al lusso ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre
Balbo (altro comandante del genio di Cesare e sua longa manus in
Roma) si costruisce dei palazzi, “quae coenae? quae deliciae?... at
Balbus aedificat „ “(Ad Att XII, 2) (1), e Antonio scorrazza l’Italia
con¬ fi) Val la pena di riportare tutto il passo perchè esso
ducendosi dietro in una lettiga aperta la sua amante in un’altra sua
moglie, “ septem praeterea coniun- ctae lecticae amicarum sunt an
amicorum ? „ l^/JJ Att. X, IO) (I). Tutto ciò desta in Cicerone una
nausea invincibile: “ nosti enim non modo sto¬ machi mei, sed etiam
oculorum, in hominum inso- contiene un’osservazione di indole
psicologica e morale eternamente vera e colta da Cicerone dalla vita
stessa che lo circondava : “ At Balbus aedificat ; tl yàp «ÒTfij
péÀst ; Verum si quaeris, homini non recta sed vulupta- ria quaerenti
nonne [kfifwTai ? „ Cioè: “ Balbo pensa a costruirsi palazzi. Che importa
a lui di tutto ciò ? E in verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità
e la co¬ scienza, ma solo il suo interesse, fa bene a far così :
può dire ho vissuto (1) La ributtante figura d’Antonio
risalta scolpita non solo nelle lettere di Cicerone, ma, più ancora nelle
Filip¬ piche (v. specialmente FU. He. 18 e s.). Pagine che stanno a
dimostrare una volta di più come, in una situa¬ zione politica tirannica
ed eslege, anche persone notoriamente turpi possano salire ai più alti
gradi, perchè il controllo dell opinione pubblica e la possibilità di
censure sono sop¬ presse dalla forza e la gente costretta al silenzio. —
Non ostante, in un primo tempo Cicerone, usando l’avveduta prudenza
dell’uomo politico, aveva cercato di persuadere quasi amichevolmente
Antonio a rimanere nell'orbita della legge. Ciò con la Fil. I, di cui è
il caso di citare le se¬ guenti righe : “ Sin consuetudinem meam, quam in
repu- blicam semper habui, tenuero, id est, si libere, quae sen-
tiam, de republica dixero; primum deprecor ne irascatur, deinde, si haec
non impetro, peto ut sic irascatur, ut civi „ (c. XI).] lentium
indignitate, fastidium™ (Ad T)iv.] Quanto a Cesare, egli è per Cicerone “
hominem amentem et miserum che non ha mai conosciuta neppur l’ombra
dell'onestà, che considera la tiran¬ nide come il maggior dono degli Dei,
(Ad Alt. VII, 1 1 ), capace di ogni scelleraggine, “ omnia taeter-
rime facturum „ ( ib . VII. 12), uomo del quale “ vita, mores, ante
facta, ratio suscepti negotii, so¬ di „ fanno ritenere che non potrà
comportarsi se non “perdite,, (ib. IX 2 A, alias 2, § 2 e s.) La
sua condotta sarà anche resa peggiore di quel che per l’indole di
lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella guerra civile deve pur
contro sua volontà operare ad arbitrio di coloro che l’hanno aiutato a
vincere. “ Omnia (scrive a Marcello) sunt misera in bellis
civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria : quae etiamsi ad
meliores venit, tamen eos fero- (1) La stessa ripulsione, e per la
stessa ragione, Filippo destava in Demostene. È circondato (egli dice) da
ladri, da adulatori, da gente che si abbandona a immo¬ ralità che non oso
neanche ripetere (01. 11, 19). E De¬ mostene si illudeva che anche perciò
Filippo sarebbe ca¬ duto. Geloso e ambizioso com' è (egli dice) allontana
gli uomini di valore, che gli danno ombra ; gli uomini assen¬ nati
e morigerati, che sono rivoltati dalle sue immoralità (àxpaafav xoO pioti
-/.al xal xopSaxia|jioOs) sono da lui cacciati e ridotti a nulla,
TrapEwaHa'. xal sv Ò'jSevò; s!va'. |ispei (ib. 18). Ma pur troppo i
fatti hanno sempre provato che è vana speranza contare che que¬ ste
ragioni facciano cadere un uomo dal potere. L’esigenza morale non trova
sanzione nella storia e nella politica.]ciores impotentioresque (più sfrenati)
reddit ; ut etiamsi natura tales non sint, necessitate esse co-
gantur ; multa enim victori eorum arbitrio per quos vicit, etiam invito,
facienda sunt„ (Ad Div. IV, 9). E su questo stesso pensiero insiste anche
con Cor- nificio (Ad ©iv. Xil, 18) : “ Bellorum enim ci- vilium hi
semper exitus sunt, ut non ea soium fiant, quae velit victor, sed etiam,
ut iis mos gerendus sit, quibus adiutoribus sit parta victoria „. La
situazione scaturita dalla vittoria di Cesare appare a Cicerone un
mostruoso sfacelo dell’eticità pubblica. “ Tutto allora in Roma
precipitava a rovina, religione, costumi, esercito, cittadinanza,
po¬ polo, senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio d’ogni
cosa umana e divina, poneva i fondamenti sanguinari la tirannia degli
imperatori „ (2). Cice¬ rone vede come non appena Cesare, annientati
i suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica, ha messo
violentemente le mani sullo Stato, e in ( I ) Il modo genuinamente
italiano di considerare Cesare è quello che un veramente grande italiano,
il Carducci, ci presenta nei due sonetti II Cesarismo , che
cominciano con le parole, estremamente significanti e pregnanti,
Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto Svolge il diritto, e dal misfatto
il fatto. Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente
letti, con la nota al v. 14 del secondo, che li accompagna.
(2) Barzellotti, Delle Dottrine Filosofiche nei libri di Cicerone.]
seguito a ciò “ omnia delata ad unum sunt „ (jdd Div. IV, 9) al punto che
Cesare redige in casa sua, a suo libito, quelli che devono apparire
come senatusconsulta (Ad Div. IX, 1 5), si formi un’at¬ mosfera di
falsità, di servilismo, di adulazione uni¬ versale, tanto da parte di
privati quanto di enti pubblici, cosicché non si distingue più il
sentimento sincero dalla simulazione, “ signa perturbantur, quibus
voluntas a simulatione distingui posset « (Ad Att. Vili, 9); (1)
quell’adulazione e quel servilismo, che, diventati poi a poco a poco
ora¬ mai di rito, Lucano, più tardi sotto Nerone, sti¬ gmatizza con
magnifici versi, facendone risalire 1' inizio appunto al dominio di
Cesare : - V (1) “ Cette abjection de la patrie releva
I’ àme de Cicéron par l’indignation et par la honte. La victoire de
Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna. Le succès, qui est la
raison du vulgaire, est le scandale des grandes àmes (Lamartine, Cicéron,
Calmati - Levy, 1874, pag. 167). E’ un libro, poco conosciuto, in cui
Lamartine, in forma simpaticamente piana e scevra da ogni erudizione,
presenta, nella sua nobile luce, e con accenti assai elevati, la figura
di Cicerone. Ne vogliamo, a conferma di prece¬ denti osservazioni,
estrarre ancora due passi. “ Les ambi- tieux, les factieux, les
séditieux, les corrupteurs et les cor- rompus, la jeunesse, la populace
et la soldatesque, les barbares mèmes enrólés dans les Gaules, étaient
avec Cesar „ (p. 186). “ Coriolan... n’avait rien fait de plus
monstrueux... et cependant l’histoire a flétri Coriolan et a déifié
Cesar. Voilà la justice des hommes irréfléchis, qui prennent le succès
pour juge de la moralité des événe- ments „ (154).] Namque omnes voces,
per quas iam tempore tanto Mentimur dominis, haec primum repperit
aetas. Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar, abesset,
Ausonias voluit gladiis miscere secures, Addidit et fasces
aquilis et nomen inane Imperii rapiens signavit tempore digna
Maestà nota (I). Cicerone vede come, appena risultò che
Cesare era saldamente stabilito al potere, non solo i “sovver¬ sivi
ma anche gli “ ottimati le vecchie figure (1) V. 386, —Si avverte
che la parola “ imperium „ qui non significa il nostro “ impero „ ma “
officio pub¬ blico legale Lucano vuol dire che Cesare copri l’usur¬
pazione, assumendo falsamente il semplice nome d’un officio pubblico
legale. Come è noto, è sopratutto col nome di potestà tribunicia che (
usurpazione si effettuò. Nel libro, ricco di dottrina e di acume, di G.
Niccolint, Il Tribu¬ nato della Plebe (Hoepli, 1932) si mostra che 1’
impero si costitui deformando e nell’ istesso tempo assorbendo la
potestà tribunicia. « L'impero non era, in ultima analisi, che il trionfo
della democrazia [più esatto sarebbe dire : demagogia], e se chi aveva
fondato il suo potere sul partito democratico, non poteva abolire la
pericolosa magistratura, non gli restava che appropiarsela nella sua
sostanza, se non nella forma esteriore... Cosi la temuta
magistratura, nata per difendere la libertà del popolo, che
conteneva perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi in tirannide...
costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca » (pag. 1 59). —
11 contegno adulatorio e vilmente opportu¬ nistico comincia con gli
uomini il cui prototipo è Attico. “ C’est assurément ce qui nous répugne
le plus dans sa vie ; il a mis un empressement fàcheux à s’accomoder
au regime nouveau „ (Boissier, Cicéron et ses amis.] politiche, abili a
restar sempre a galla, “ huic se dent, se daturi sint „, sia pure perchè
terrorizzati, sebbene essi ora dicano che lo erano quando os¬
sequiavano Pompeo (Ad Alt IX. 5); come essi se^ venditant „ a lui, mentre
i'municipi fanno di lm vero Deum „ (ib. Vili, 16), e il grosso del
pubblico sta inerte, passivo, indifferente, non pensa che alla propria
tranquillità (“ otium „), non rifiuta, come non ha mai rifiutato, nemmeno
la tirannide dummodo otiosi essent „ (ib. VII, 7), non si occupa
che dei campi, delle ville, dei quattrini, nihil prorsus aliud curant
nisi agros, nisi villulas, msi nummolos suos „ (ib. Vili, 13) ; atonia
che si aggravo ancora più tardi quando diventava po^ tenie Antonio
: “ mihi stomachi et molestiae est populum romanum manus suas non in
defendenda YA/I own , " plaudendo consumere (Ad Att. AV|
. lU- Ma questa prosternazione e adula- (I) Anche qui si riscontra
un parallelo nella potente e \ ibrante invettiva di Demostene per
l’inerzia dei Greci del suo tempo. Non e senza ragione (egli dice) che
i Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora invece hanno a
cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi iTera^ C ° Sa 'vi
^ ^ Persian ° e fece la Grecia def rarH mVlnC |! bl 6 “ T* ® “ mare
: ed era la fermezza (Filla 36 C 37ìT 81 asciavano corrompere e
comprare uiterr di bene ** Gr “ j .' , , 1 era un tempo
non avere fil ventre el’ ^ “7 qUa 'Ì la misura della felicità
e il ventre e 1 inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole V ' l0X °
tS Tr ' v £tJ °aqtovtav) l a libertà fu bevuta alla ] zione universale,
questo continuo panegirismo or¬ mai diventato di prammatica, non è, per
Cicerone, se non un’universale falsificazione di coscienza, quella
stessa per cui più tardi egli osservava che i cittadini gementi sotto l’oppressione
avevano dato a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della
patria il titolo di parens patriae : “ potest cuiquam esse utile
faedissimum et taeterrimum parricidium patriae, quamvis ìs, qui se eo
abstnnxerit, ab op¬ pressi civibus parens nominaretur ? ,, {De Ojf.
Ili, 83) (1). Questa situazione che fa fremere d’or¬ rore Cicerone (2),
nella quale egli trova che non c e salute di Filippo e di
Alessandro. E, data questa vostra viltà e servilità, (dice altrove) è
mutile che speriate nella malattia o nella morte di Filippo : anche se
muore, vi creerete tosto voi stessi un altro Filippo, "ay^Éu;
upet; gxepov OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil. IV, 11). (1) In
questo stesso luogo, volendo Cicerone dimostrare che l'utile e il giusto
non possono distinguersi, scrive fra l'altro : « Hanc cupiditatem [quella
di Cesare di voler dominare tirannicamente la patria] si honestam quis
esse dicit, amens est ; probat enim legum et libertatem mteritum,
earumque oppressionem taetram et detestabilem glonosam putat ». Come,
aggiunge, può essere ciò utile all usurpatore? Anche i re legittimi hanno
avversari ; « quanto plures ei regi putas, qui exercitu popuh romani
populum ipsum romanum oppressisset ? ». (2) Ricco com’era
d’un pathos etico affine a quello di Kant, si intuisce chiaramente dalle
sue lettere e dai suoi scritti che egli sentiva profondamente, come il
filosofo tedesco, che il “ dovere relativo alla dignità dell
umanità in noi, e che è per conseguenza un dovere verso noi piu
posto“ non modo pudori, probitati, virtuti, rec- tis studiis, bonis
artibus, sed omnino Iibertati ac Dh - V. 16), gli appare
sopraia!,„ basata sulla menzogna e sul falso, perchè sotto 1
adesione, 1 adulazione, l’apoteosi che l’atmosfera ufficiale orma,
impone, circola larghissimamente quel malcontento e quell’esecrazione
generale verso ì distruttori dello Stato legale, che egli
constatava già precedentemente quando essi avevano iniziata tale
loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium omnium hominum in eos qui
tenent omnia ; mu- tationis tamen spes nulla Ad Alt. Il, 22). Que¬
sta esecrazione generale, sotto le parvenze dell’os¬ sequio più profondo,
s’è ora concentrata in Cesare, il quale, dopo poco tempo di dominio,
ormai in realta persino “ egenti ac perditae multiludini in odium
acerbissimum venerit „ ( ib . X, 8). Invero, Cesare stesso sapeva
d’essere odiato e di dover esserlo, sopratutto per la posizione di
superiorità e distanza, così urtante al senso cittadinesco ro¬
mano, che egli aveva finito per prendere : dopo la sua uccisione, Mazio
racconta a Cicerone che stess., può esprimersi in modo più o meno
chiaro nei seguent, precetti: non siate schiavi degli uomini: non
permettete che , vostri diritti siano impunemente calpe¬ stati „ (Dottr.
della Virtù § 12). Che è, del resto, il precetto evangelico : \ii) r
£veafre SotW.c- àv&pdmwv (1, SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É
Xptaxòs UylCWXw!]) ^ ” 4Xlv tu r» G. Reati . Vita
parallele di due filosofi avendo dovuto una volta Cesare far fare
anticamera a quest ultimo, aveva detto : se un uomo come Cicerone deve
attendere per essere introdotto da me e non può a piacer suo parlarmi, “
ego dubitem quin summo in odio sim „ ? (Ad Att. XIV, 1 e 2)
(I). (1) A proposito dell’uccisione di Cesare. Vi sono molti
i quali pensano che perchè Bruto era stato « perdonato » da Cesare e poi
anzi « beneficato », egli dirigendo « il tradimento e l’uccisione del suo
benefattore », abbia dato « perfido esempio di cuore ingrato e
irreverente » (A. Corradi). Questa opinione è la tipica prova della
completa mancanza d’ogni senso di ciò che è diritto. Proprio il fatto
che Cesare gli aveva * perdonato », doveva essere per Bruto una giusta ed
onesta ragione di più per abbonirlo. Bruto aveva preso le armi contro
Cesare in difesa dello Stato legale : dunque conforme al diritto.
Decidere sul suo caso, condannarlo od assolverlo, spettava alle autorità
legali (Senato), non a un individuo. Il solo fatto che non già le
leggi o le autorità legalmente costituite, ma l’individuo Cesare, potesse
a suo beneplacito interrompere o far proseguire i processi, ordinare
condanne o assoluzione, assolvere Bruto, « perdonare » a Bruto (quasiché
condannare od assolvere, e, peggio, « perdonare », supposto si
trattasse di delitto, fosse di competenza d’un individuo, e
quasiché questo stesso fatto non comprovasse lo sfasciamento dello
stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di più per avversare e
condannare legittimamente l’uomo e il sistema, e per ricorrere ad ogni
mezzo onde liberarsene. — Che, per citare un altro fatto, onde far
ritornane Marcello dall esilio ì senatori abbiano dovuto pregare un
individuo, gettarsi ai piedi d un individuo, dell' individuo Cesare,
è un fatto che doveva legittimamente suonar condanna per [Era,
insomma, la situazione che un filologo ita¬ liano contemporaneo
descriveva di recente crn tutta esattezza così : “ La crescente potenza
di Cesare, il quale, dopo la funesta giornata di Far- salo,
erigendosi a signore assoluto, e sopprimendo la libertà della vita
politica di Roma, aveva, per primo, inaugurato la lunga e mostruosa serie
degli questo individuo, che si sovrapponeva in tal guisa
alle leggi : condanna, anche quando « perdonava », perchè
precisamente così dimostrava che dipendeva, non più dalle leggi assolvere
o condannare, ma da lui perdonare o no. — Piena ragione ha Seneca quando
in un capitoletto pieno di considerazioni interessanti circa l’atto di
Bruto, dice che egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare,
perchè questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se
non violando il diritto e perchè chi non uccide non arreca un beneficio,
ma si astiene da un maleficio : « in ius dandi beneficii iniuria venerai;
non enim servavit is, qui non interficit, nec, beneficiun dedit, sed
missionem » (De Benef. Il, 20). Del pari piena ragione ha Cicerone, il
quale, ad Antonio, che gli rinfacciava come un benefizio usatogli
di non averlo ucciso al suo sbarco a Brindisi, rispondeva : questo
è lo stesso beneficio di cui potrebbe vantarsi un assassino per non aver
ucciso taluno : « quod est aliud beneficium latronum, nisi ut commemorare
possint iis se dedisse vitam, quibus non ademerint ? » (Fil. II, C.
111). E si noti ancora che Seneca e Lucano, vivendo entrambi alla
corte di Nerone, il quale, pure, era della casa Giulia, poterono il primo
dare a Bruto la massima delle lodi facendo dire da Marcello a sè stesso :
“ tu vive Bruto miratore contentus „ (Ad Helviam IX, 8), il secondo
dipingere nel suo poema con smaglianti colori di gran¬ dezza morale “
magnanimi pectora Bruti „ (11, 234 e s.). ] imperatori romani ; la viltà
degli adulatori, che disertavano il partito dei vinti per quello più
van- taggioso dei vincitori ; le mene degli ambiziosi, che, r er
trar partito dalle circostanze ad accu¬ mular potenza e ricchezze,
pullulavano su su dal fondo di quella corrotta società, come marcida
fungaia dal fondo d’un’ acqua stagnante ; le cru¬ deltà dei prepotenti,
che volevano, anche a mezzo di violenze e di sangue, aprirsi un varco
nella folla dei concorrenti a quella specie d’albero della cuccagna
ch’erano le usurpazioni dei poteri dello Stato con le loro mille
seduzioni e promesse di dominio e di saccheggio dei beni pubblici e
pri¬ vati ; il vivo cordoglio e l’abbandono sconsolato in cui
vivevano, nell’esilio volontario o non volon¬ tario, le anime dei
virtuosi e degli onesti, fautori del partito repubblicano ; tutto insomma
contribuiva a mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe...
Anziché assopirsi, cresce a dismisura nelle classi non mai dome nel loro
caratteristico orgoglio, il malcontento per il nuovo regime... La miseria
in¬ tanto cresce spaventosamente in Roma e nella provincia ; lo
spettro della fame s’aggira nelle campagne desolate e incolte dell’
Italia ; le classi medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed
alla disperazione... Torme di miserabili si vedono per ogni dove languire
d’ozio e di fame „ (I) (1) U. Moricca, Introd. a Cicer. De Finibus,
Torino, Chiantore, 1932. p. XXVIII, XXXI. Ora, tanto appare a
Cicerone falsa e menzognera la situazione che egli è certo che non può
durare. La maschera di clemenza di Cesare e le sue bugie circa la
restaurazione finanziaria (“ divitiarum in aerario „) sono cadute; è
impossibile che egli e i suoi, non d’altro capaci che di scialacquare,
rie¬ scano ad amministrare soddisfacentemente le pro- vincie e lo
Stato ; cadranno da sè, per gli errori propri, “ per se, etiam
languentibus nobis ,,, “ aut per adversarios aut ipse per se, qui quidem
sibi est adversarius unus acerrimus „ ; questa tirannide non può
reggere sei mesi, “ iam intelliges id re¬ gnimi vix semenstre esse posse
„ (ib. X, 8) ( I ). ( 1 ) Probabilmente, ciò di cui Cicerone
avrebbe sopra¬ tutto incolpati i cesariani è che essi cadevano in
quel¬ l’errore che il Romagnosi descrive così : “ La temerità e
l’intolleranza sono i vizi che sogliono guastare questo pro¬ cedimento
[inventivo dell’ incivilimento). Si pecca di teme¬ rità allorché si
tentano innovazioni o rifiutate dalla natura o non preparate sia nei
fondamenti, sia dal tempo. Si pecca d’intolleranza allorché si vuole
seminare e racco¬ gliere ad un sol tratto, e però si passa ad infierire
con¬ tro attriti che da se stessi vanno cessando in forza della
riforma fondamentale già praticata. Siate severi nel man¬ tenere la
giustizia, e nel rimanente lasciate operare il tempo sul fondo ben
disposto. 1 vostri stimoli artificiali, le vostre correzioni minute,
invece di giovare nuociono, invece di affrettare ritardano; e se per caso
avrete un frutto precoce, ne avrete mille falliti » {Dell’ Indole e
dei Fattori dell’ Incivilimento, Avvertimento finale). Auree pa¬
role d’uno dei nostri massimi pensatori politici, che an¬ drebbero anche
oggi meditate e tenute presenti. Alle] Tale previsione di Cicerone andò
incontro ad nna smentita colossale. Quella “ divinatio „ del¬
l’andamento degli eventi che egli, ricavatala dallo studio e dalla
pratica, aveva la coscienza di pos¬ sedere ( 1 ), qui gli fallì del tutto.
E' vero che Cesare quali vanno accostate, sempre ad illustrazione del
sentimento politico, che, in quelle perturbate circostanze, si sprigionava
vivo in Cicerone, le seguenti: “ guai a quel popolo, nel quale, spento il
punto d’onore, non prevalgono che poteri individuali! „ (/„,/. di Ciò. FU
Giurispr. T e ° r \. P \ 1,1 C - 1V ): nonché la sua
affermazione dei diritti dell uomo, da lui chiamati originaria padronanza
naturale di ogni individuo. Quelli che vennero appellati diritti
dell'uomo formano appunto il complesso di questa originaria padronanza.
L’indipendenza, la libertà 1 eguale inviolabilità e il diritto di difesa
e di farsi render ragione, sono tutte condizioni di questa originaria
padronanza „ (Lett. a G. Valeri). Cu, quidem divinationi hoc plus
confidimus, quod ea nos mhil in his tam obscuris rebus tamque
perturbatis umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae ante futura
dixissem, ni vererer ne ex eventis fìngere viderer. Ad Dio.Exitus, quem
ego tam video animo, quam ea quae ocuiis cemimus. Ad Dio.Tamquam ex
aliqua specula prospexi tempestatem futuram „ (Ib. IV, 3). Questa
sicura previsione degli eventi, questo sicuro presentimento, Cicerone lo
possedeva in effetto. Anche nella circostanza suaccennata egli prevedeva
giusto, preveveva cioè quello che tutto faceva ritenere dover accadere.
Se i fatti si svolsero in senso del tutto opposto alla sua previsione, si
può, in un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non Cicerone. Cioè
che la realtà è irrazionale e casuale, e che mai vi tu un periodo di
storia che sia stato come quello irrazionale e casuale.] è ucciso poco
dopo e probabilmente lo fu quando e perchè divenne chiara a tutti l’impossibilità
in cui egli era di dominare la situazione, di riordinare cioè seriamente
lo Stato e di soddisfare insieme le brame dei suoi seguaci (1), cosicché
Mazio — uno dei pochi cesariani onesti, che, come risulta da una sua
nobilissima lettera (Ad T)iv. XI, 28), non aveva sfruttato Cesare vivo, e
che gli rimase fedele anche morto, e anche durante quel momento in
cui, subito dopo l’uccisione del dittatore, il cesarismo sembrava
crollato e i cesa¬ riani in pericolo — diceva, deplorandone la
morte: che catastrofe ! non c’è più rimedio ; se lui, con 1’
ingegno che aveva, non trovava la via d’u¬ scita, (exitum non
reperiebat), chi la troverà ora ? ,, (Ad Att. XIV, I ). Ma dopo la
morte di Cesare, come appunto prevedeva Mazio le cose finirono per
peggiorare rapidamente. Anche Cice¬ rone è costretto a constatarlo. Il
tiranno perì (egli dice) ma vive la tirannia (Ad Att. XIV, 9 e 14);
(I) Va però tenuta presente anche la profondissima osservazione di
Montesquieu : « Il étoit bien difficile que Cesar pùt défendre sa vie ;
la plupart des conjurés étoient de son parti ou avaient été par lui
comblés de bienfaits : et la raison en est bien naturelle. Ils avoient
trouvé de grands avantages dans sa victoire : mais plus leur
fortune devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part au
malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il importe peu à certains
égards en quel gouvernement il vive » (Grandeur et décadence cfr. XI). ]
d siamo liberali dal re „„„ dai regno (yìj Di,. ■’ /aj' fi marzo
non consolano più come pnma (Ad AH. XIV, 12, 22): " stolta L
iZZ Martmrum consolano, animis usi sumus virilibus cooubs puenbbus
; excisa est arbor, non avulsa ^ i, fi ; e st . a ‘° Iasc,al ° vi
vo in Antonio 1 erede del regno (ih. XIV, 21); si poteva con
piu libertà parlare contra illas nefarias partes xiv r vivo
che non ucci - tó ' X V ’ 1 : lnfine crebbe meglio che Cesare
vivesse ancora “ nonnumquam Caesar desideran- dus , (,b. XI V, 13).
Infatti, la situazione era di¬ ventata quale la descrive ad Attico così •
“ S ed vides magistrati ; si quidem illi magistratus'; vides
tyranni satellites m impems ; vides eiusdem exer- cniis ; vides in latere
veteranos „ (ib. XIV 5) In conseguenza il sistema di governo che
Cicerone prevedeva non poter durare un semestre, durò invece,
continuamente aggravandosi o peggiorando per quattordici secoli, cioè per
quanto visse l’im¬ pero bizantino. Ma la fallacia di questa
previste la torio all. mente di Cicerone. E' la fallacia
propria delle menti profondamente razionali, che hanno una fede
inconcussa nella ragione ; e la mente di Cicerone era appunto secondo la
felice dennizione che ne dà Io Zielinski, un “ Aufkà- rungsvers
tand» (I). A codeste menti è impossibile (I) O. c. P . 147.
ammettere che la mostruosità, l’irrazionalità, l’as¬ surdo
vengano a tradursi permanentemente nel fatto, si facciano solida e
stabile realtà. "Ciò è assurdo, quindi è impossibile „ ; questo è
per siffatte menti un canone assolutamente insopprimibile,
sradicando il quale essa sentirebbero di strappar le proprie
medesime radici. A cagione della stessa forza della loro compagine
razionale, è ad esse impossibile riconoscere che il fatto che una cosa
sia assurda non impedisce menomamente che essa divenga realtà e che
anzi quasi sempre nella storia umana avviene che ciò che all’ inizio la
mente scorgeva come cosa “ assurda », “ pazzesca „, implacabil¬
mente ciò non ostante si realizza. Come buon platonico Cicerone non
poteva a meno di essere fermamente convinto che oòx eattv Sit àv xij
|a£r;ov xoótotj xaxòv TTaìfoi y) Xóyou? (juar^aag (Fed. 89 d.). Nel
logos egli aveva indefettibile fede. Egli scorgeva dietro a sè, fin dove
1 occhio della memoria poteva giungere, soltanto governo di popolo.
Questo era per lui una conquista permanente» della civiltà, la ci¬
viltà stessa, la civiltà che non può perire. Con tale forma di governo il
suo spirito si era immedesi¬ mato ; essa faceva parte essenziale della
sua co¬ scienza d uomo, formava il cardine su cui poggiava tutta la
sua vita spirituale. Pensare che tale [Che tale stato d'animo fosse
non solo “ cicero¬ niano „ ma “romano,,, emerge anche da ciò che
l’in¬ dignazione per la caduta di quella forma di governo si formi
potesse crollare e permanentemente scom- parire, era come pensare che potesse
precipitare tutto ciò che si è sempre visto stabile, la terra, il
sistema solare, ciò che è l’incarnazione di un’e¬ terna legge della
natura. Sempre gli uomini quan- o si sono trovati in una fase di
cangiamento analoga a quella in cui si trovò Cicerone_e
tanto più quanto più la loro mente era fortemente razionale hanno
emesso la medesima errata pre¬ visione di lui ; ciò è assurdo, quindi
impossibile, quindi non può durare. ( 1 ) prolunga sino in S.
Ambrogio, in cui, da signore romano d antica razza quale era, la romanità
viveva ancora, “ Hic erat pulchemmus rerum status, nec insolescebat
quisquam perpetua potestate, nec diuturno servitio frangebatur.
Nemo audebat alium servitio premere, cuius sibi successuri in
honorem mutua forent subeunda fastidia; nemini labor gravis quem dignitas
«ecutura relevaret. Sed postquam do- mmandi libido vindicare coepit
indebitas et ineptas nolle deponere potestates... continua et diuturna
potentia gignit msolentiam. Quem invenias Hominem qui sponte
deponat impenum et ducatus sui cedat insigne, fiatqe volens nu-
mero postremus ex primo ? „ {Hexameron, XV). ... ^ osa & nota :
lo stesso errore, la stessa illusione— nobilissimo errore ! —
troviamo, come già si e rilevato, in Demostene, il dramma della cui vita
fa esattamente riscontro a quello di Cicerone. Anche Demo- j. en „
e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca prevedeva che la potenza di rilippo
era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv teXsut^v t« «payiiax aòttji (§
5). E questa previsione era per lui principalmente fondata appunto sul
fatto che una potenza costrutta sulla malvagità non può durare. Oò yàp
gcmv, ] Il dramma, terribile dramma, della vita di Ci¬ cerone, è
appunto questo. II dramma dell’uomo oìjy. laxiv, u> àvopEg
’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruop- xoOvxa xa: ^£'joÓ|ìsvov Sóvajuv
j3ej3aiav XTiqaaad’at... xwv jrpà^ewv xàg àp%à<; xxl xàg ÒTtofliaeig
àX^S-sT; xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei (§ 10). E nemmeno dieci anni
dopo Filippo trionfava definitivamente a Cheronea. Ad ogni momento
troviamo questi pensieri nelle orazioni di Demostene, che perciò sono
cosi istruttive circa le illusioni in cui il « razionalismo » induce gli
uomini. Ma neppure la battaglia di Cheronea guarì Demostene dal- 1
illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu assassinato, Demostene
comparve nell’assemblea, raggiante, tpatSpòg, splendidamente vestito,
incoronato : con la morte dell’uomo, secondo lui, la costruzione
improvvisata ed effimera doveva certo crollare. E quando Alessandro si
fece avanti a sor¬ reggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille,
ndsioa xai |ia T txT)V (Plot., Dem. § 23). Ma la costruzione
fondata sulla perfidia, e che perciò, secondo Demostene, non poteva
reggersi, sboccò invece nel trionfo addirittura fantastico ottenuto
appunto da Alessandro. Gli uomini non possono rassegnarsi a credere che
una politica malvag-a possa ottenere un successo duraturo, che il male
trionfi permanentemente. Pur troppo, invece, è questa una pia
illusione; e le cose vanno precisamente cosi. E gli astrattisti, 1
« razionalisti », gli spiritualisti, non sanno ricavare dal male che
sotto ì loro occhi permanente trionfa, neppure quell unico bene che vi si
potrebbe ricavare : quello cioè di essere definitivamente istrutti dell
andamento assoluta- mente arazionale, alogo, ateo, del mondo e della
vita. Chiusi nel loro mondo dei meri concetti, è a quelli e alle
deduzioni da quelli che continuano a credere, anziché aprire gli occhi ai
fatti. < Sapiunt alieno ex ore petuntque res ex auditis potius quam
sensibus ipsis » (Lucr. V. I 1 30). ] che con disperazione vede rovinare
intorno a sè senza possibilità di salvezza il mondo civile di cui
la sua più intima vita stessa era intessuta, il mondo “ razionale „, e
trionfare ineluttabilmente, “ in causa impia, victoria etiam foedior „ (
T)e Off. 11, c. Vili), l’ingiustizia ed il male, una forma di mondo
umano “ impensabile „, “assurda,,. 11 dramma della coscienza eticamente
desta che vede con orrore ciò che essa giudica aberrazione morale e
iniquità acquistare ufficialmente il carat¬ tere di nobiltà, grandezza,
elevazione, e avviarsi a restare definitivamente sotto questo aspetto
nella storia. Quando si fa a poco a poco chiaro nella mente di
Cicerone 1 ineluttabilità dell’evento, quando egli è ormai costretto a
vedere che non c’è più speranza, a domandarsi: “ quae potest spes
esse in ea republica, in qua hominis impotentissimi (violento) atque
intemperantissimi armis oppressa sunt omnia ? „ (Ad Div. XI); quando deve
con¬ statare che “ tot tantìsque rebus urgemur, nullam ut
allevationem quisquam non stultissimus sperare debeat „ (Ad Div. IX, I),
il suo strazio non ha confini- Ciò che già precedentemente, quando tale
condizione di cose si delineava, egli cominciava a sentire, civem
mehercule non puto esse qui temporibus his ridere possit „ (Ad. Div. II,
4), diventa ora il suo stato d’animo permanente. La vita non ha più
sorriso : “ hilaritas illa nostra erepla mihi omnis est „ (ib. IX, II).
Il suo grido è quello del coro degli Spiriti nel Fausi (v. 1 608 e
seg.). Du hast zerstòrt Die schòne Welt Mit
màchtiger Faust ; Sie stiirzt, sie zerfàllt ! Ein
Halbgott hat sie zerschlagen ! Wir tragen Die Triimmern
ins Nichts hinuber Und kiagen Uber die verlorne
Schòne. Questo dramma strappa a Cicerone espressioni di
dolore profondamente dilacerante. E la sua corrispondenza è forse la
lettura più viva che l’antichità e probabilmente la letteratura d’ogni
tempo ci offra, appunto perchè, come in nessun altro scrit¬ to, vi
si scorge con l’immediata evidenza della vita vissuta e quasi vedessimo
la cosa svolgersi giorno per giorno sotto i nostri occhi, come sotto
quel dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo anche la terribilità
della sua rovina personale affligge gravemente Cicerone : “ natus enim ad
agendum semper aliquid dignum viro, nunc non modo a-
gendi rationem nullam habeo, sed ne cogitandi quidem „ (Ad
Div. IV, 1 3) ; ed egli ha ragione di deplorare di essere stato
travolto proprio nel momento in cui avrebbe potuto e dovuto,
cogliendo il frutto dell’opera della sua vita, toccare l’apice
della sua carriera. “ Omnis me et industriae meae fructus et fortunae
perdidisse „ (ib. XI, V). “ Casu nescio quo in ea
tempora aetas nostra incidit, ut cum maxime florere nos oporteret, tum
vivere edam puderet „ (ib. V. I 5). Certo anche la ro¬ vina che
incombe sulla sua famiglia e specialmente sulla sua figlia lo tortura. “
Quibus in miseriis una est prò omnibus quod istam miseram patre,
patrimonio, fortuna omni spoliatam relinquam (Ad Att. XI, 9). Ma ciò che
forma il crepacuore di Cicerone non è la sua situazione personale,
bensì il baratro in cui è precipitato lo Stato.' “ Sed tamen ipsa
republica nihil mihi est carius (Ad Dio. II 15, XV, li). “ Ego enim is
sum, qui nihil umquam mea potius, quam meorum ci- vium causa
fecerim „ (ib. V. 21 ). Ma ora ? “ Ego vero, qui, si loquor de re
publica, quod oportet, insanus, si, quod opus est, servus existimor,
si taceo, oppressus et captus, quo dolore esse de¬ beo ? „ (Ad Att.
IV, 6). Due sono sopratutto le note in cui erompe 1
espressione di questo suo strazio. In primo luogo, andarsene, andarsene
dovunque, pur di non veder più simili cose: “ evolare cupio et aliquo
pervenire ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta audiam „ egli ripete
con un tragico antico (ib. VII, 28, 30, Ad Att. XVI, 13, XV, 11); “ ac
mihi quidem iam pridem venit in mentem bellum esso aliquo exire, ut
ea quae agebantur hic, quaeque dice- bantur, nec viderem nec audirem „
(Ad ‘Dio. IX, 2); “ longius etiam cogitabam ab urbe discedere,
cuius iam etiam nomen invitus audio „ (ib. IV, I).
95 Tu mi sembravi pazzo (scrive a Curio) quando abbandonasti
Roma per la Grecia, ora veggo che sei “ non solum sapiens, qui hinc
absis, sed etiam beatus : quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc
esse beatus potest ? „ (Ad Db. VII, 28). E’ il desiderio che si fa strada
persino nei suoi trat¬ tati, p. e. nelle Tusculane, dove parlando di
Da- marato. Io giustifica cosi : “ num stulte anteposuit exilii
libertatem domesticae servituti ? (V, § 1 09). O, se andarsene non si
può, almeno ritirarsi in solitudine : “ nunc fugientes conspectum
scelerato- rum, quibus omnia redundant, abdimus nos, quam- tum
licet, et saepe soli sumus „ (De Off. Ili, 3). In secondo luogo,
morire. “ Perire satius est, quam hos videre „ (Jd Db. Vili, 1 7) <
Mortem] quam etiam beati contemnere debebamus, prop- terea quod
nullum sensum esset habitura (I), nunc [Che cosa pensi intimamente
Cicerone della vita futura, risulta, non già dal quadro, avente scopi
puramente estrinseci, che traccia nel Somnium Scipionis. ma dalla
sua corrispondenza Oltre il passo sopra ricordato, e due altri, (Ad Dw.
VI, 3 e 21) ricordati più innanzi, basterà citare: « Fraesertim cum
impendeat, in quo non modo ^ or ,*. v erum finis etiam doloris futurus
sit » (ib. Vi, 4). E anche in altre opere di Cicerone questo suo
vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane (V. I 1 7) : Mors.
aeternum nihil sentienti receptaculum ». Cosi in Pro Marcello (IX) c Q uo
d (la fine) cum venit, omnis voluptas preterita prò mhilo est, quia
postea nulla est futura» Cosi in Pro Cluentio (cap. LXI § 171):
«quid ei tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ?] sic affecti, non modo contemnere debeamus,
sed etiam optare » ( ib. V. 21); la filosofia sembra <
exprobrare quod in ea vita maneam, in qua nihil insit, nisi propagatio
miserrimi temporis > (ib. V. 15) ; non si sa < si aut hoc lucrum
est aut haec vita, superstitem reipublicae vivere > (ib. IX. 1
7) ; « nam mori millies praestitit quam haec pati > (Ad. AH. XIV, 9) ;
« eis conficior curis, ut ipsum quod maneam in vita, peccare me
exi- stimem > (Ad Div. IV. 13); « mortem cur con- sciscerem
causa non visa est, cur optarem, multae causae > (ib. VII, 3). In uno
spirito, così pro¬ fondamente romano, cioè volto all’attività
pratica e civica, la desolazione dello Stato faceva spun¬ tare
questo pensiero : « Ipsi enim quid sumus ? aut cum diu haec curaturi
sumus ? » (jdd Att. XII, li); * quid vanitatis in vita non dubito
quin cogites > (Ad Div. II. 7). Cosi, pur nell'atto che prevede
la prossima caduta del cesarismo, dice : Allo stesso modo la
pensava Cesare, il quale nel discorso, riferito da Sallustio, da lui
tenuto in Senato circa la pena da darsi ai complici di Catilina, si
oppose alla pena di morte appunto perchè con questa cessa la coscienza
e quindi ogni male : « Eam cuncta mortalia dissolvere ; ultra neque
curae neque gaudio locum esse» (Cat. LI). Va però notato che Cicerone dà
un’altra interpretazione a questo punto del discorso di Cesare. Cesare
cioè era contrario alla pena di morte. Egli « intelligit, mortem a
diis immortalibus non esse supplici causa constitutam, sed aut
necessitatem naturae, aut laborum ac miseriarum quietem esse » (In S.
Catilinam, IV, cap. IV. § 7.).] id spero vivis nobis fore ; quamquam
tempus est nos de illa perpetua iam, non de hac exigua vita
cogitare » (Ad. Att. X, 8). E il pensiero della morte come unico scampo e
rifugio viene a gran¬ deggiargli dinanzi in modo, che bene spesso
lo vediamo insinuarsi anche nei suoi scritti teorici : così, p. e.,
nel proemio del terzo libro del De Oratore : « sed 11 tamen rei publicae
casus secuti sunt, ut mihi non erepta L. Crasso a dis immor-
talibus vita, sed donata mors esse videatur > (IH, 2); e così nelle
Tusculane : « multa mihi ipsi ad mortem tempestiva fuerunt, quam utinam
potuis- sem obire ! nihil enim iam acquirebatur, cumu¬ lata erant
officia vitae, cum fortuna bella restabant (I, 109). Morte per sè, morte
per coloro che amiamo ; questo soltanto è ciò che lo « status ipse
nostrae civitatis » ci costringe a desiderare : « cum beatissimi sint qui
liberi non susceperunt, minus autem miseri qui his temporibus
amiserunt, quam si eosdem, bona, aut denique ahqua republica,
perdidissent... non, mehercule, quemquam audivi hoc gravissimo,
pestilentissimo anno adolescentulum aut puerum mortuum, qui mihi non a
Diis immorta- libus ereptus ex his miseriis atque ex iniquissima
conditione vitae videretur > (Ad Div.V. 16). Ne solo nell animo
di Cicerone il trovarsi « in tantis tenebris et quasi parietinis rei publicae
> (ib. IV, 3) induceva il desiderio di sfuggire a questo sfacelo
con la morte ; ma tale sentimento era certo diffuso. Nella bellissima
lettera con cui G. Renai • Vita parallele di due filosofi] Servio
Sulpicio cerca di consolare Cicerone per la morte della figlia, 1
argomento principale che egli fa valere e, nelle circostanze presenti, “
non pessime cum iis esse actum, quibus sine dolore licitum est
mortem cum vita commutare „ e che Tullia visse finché visse lo Stato,
“una cum repu- blica fuisse „ (Ad Dio. IV, 5) ; al che Cicerone
dolorosamente risponde che l’attività pubblica lo consolava dei dolori
domestici, l’affettuosa intimità con la famiglia delle traversie
pubbliche, ma ora “ nec eum dolorem quem a re publica capio do- mus
iam consolari potest, nec domesticum res pu¬ blica „ (ib. IV, 6). Ed
anche in Catullo, il di¬ sgusto invincibile suscitatogli dai “
turpissimorum honores „, disgusto che faceva gemere dal suo canto
Cicerone, cosi ; “ o tempora ! fore cum du- bitet Curtius consulatum
petere ? „ (Ad Att. XII, 49, e circa Vatinio II, 9) suscita 1’
aspirazione alla morte (LII) : Quid est, Catulle ? quid
moraris emori ? Sella in curulei struma Nomus sedet,
Per consulatum peierat Vatinius ; Quid est, Catulle ? Quid
moraris emori ? Donde attinge Cicerone qualche conforto in questa
immensa iattura ? Non dal foro che egli (interessante confessione)
dichiara di non aver mai amato e nel quale del resto oggi non c’è più
nulla 99 da tare : “ quod me in forum vocas, eo
vocas, unde, etiam bonis meis rebus, fugiebam : quid enim mihi cum
foro, sine iudiciis, sine curia ? „ (Jld Jltt. XII, 21). Era il momento
in cui i vincitori della violenta lotta politica, giravano per Roma
baldanzosi ed allegri, e i sostenitori dello Stato legale, battuti, erano
melanconici : “ Mane saluta¬ rne domi et bonos viros multos sed tristes
(1), et hos laetos victores, qui me quidem perofficiose et
peramenter observant „ {Ad Div. IX, 20). Due di essi, anzi, Irzio e
Dolabella, si erano messi a prender lezioni d’eloquenza da lui, o forse,
con questo pretesto, lo sorvegliavano per conto di Ce¬ sare. Anche
queste lezioni recano a Cicerone qual¬ che sollievo {yld Di\>. IX,
18). In maggior mi¬ sura, egli ne ricava dal far udire, quando e
come era possibile, qualche parola di ammonimento. Così, pur avendo
risoluto di non più parlare in Senato, allorché sulla universale istanza
di questo, Cesare amnistia Marcello (che non aveva fatto nessun
passo per essere richiamato e sembrava non de¬ siderarlo — e che fu, del
resto, assassinato da un suo impiegato nel momento in cui stava per
par¬ tire alla volta di Roma), Cicerone prende la pa- (0 La
voce dei gaudenti sfruttatori di situazioni im¬ morali rinfaccia sempre a
coloro che le condannano, come un torto, di essere afflitti o
melanconici. Cosi quella voce si fa udire, secondo Seneca : c Istos
tristes et superciliosos alienae vitae censores, suae hostes, publicos
paedagogos assis ne feceris » (Ep. 123, § 11).] rola per ringraziare il
dittatore ; ma sa anche at¬ traverso i ringraziamenti esporgli il parere
più libero e ^coraggioso che forse mai Cesare abbia sentito. “
Quodsi rerum tuarum immortalium (egli ha 1 ardue di significargli) hic
exitus futurus fuit, ut devictis adversariis rem publicam in eo
statù relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne tua divina
virtus admirationis plus sit habitura quam glonae „. (Pro Marc. Vili). Tu
devi, egli incalza, preoccuparti della vera gloria, del giudizio che
da¬ ranno i posteri sulle tue azioni, saper considerare ciò che tu
fai, non cogli occhi abbacinati dei con¬ temporanei, ma con quelli di
coloro che giudiche¬ ranno le cose a distanza, nell’avvenire. Se tu
non avrai ristabilito la vera legalità nello Stato, tu sa¬ rai
certo sempre ricordato, ma non con giudizio concorde : “ erit inter eos
etiam, qui nascentur, sicut mter nos fuit, magna dissensio, cum alii
lau- dibus ad caelum res tuas gestas efferent, alii for- tasse
ahquid requirent, idque vel maximum, nisi belli cmlis incendium salute
patriae restinxeris, ut illud fati fuisse videatur, hoc consilii „ (ib.
IX). E questo un nobilissimo linguaggio da cittadino onesto e
d’animo forte ; linguaggio che, bisogna riconoscerlo, Cesare sa
ascoltare, come altri e ben più vivaci attacchi contro di lui, con
tolleranza ed equanimità, “civili animo,, (Svet,, Caes., 75) (1).
(1) Anche Cicerone nella sua corrispondenza talvolta constata che
Cesare andava orientandosi a mitezza. P. e.:] L intolleranza, 1 oppressione, 1
uso del potere per far tacere censure al detentore di esso, e persino
per impedire di rispondere agli attacchi, comincia con Augusto ; ed è ciò
che fa uscire Asinio Pol- lione (lo stesso, alla nascita del cui figlio
il servile Virgilio, pronto a vendersi a tutti i potenti e a
prostituire poi il suo genio a colui che tra questi occupa nella storia
per bassezza e nequizia uno degli “ nam et ipse, qui plurimum
potest, quotidie mihi delabi ad acquitatem et ad rerum naturam videtur „
Ad Dio. VI, 10!, Che cosi fosse (ed è la stessa cosa che accadde
con Augusto) è naturale, perchè, se un uomo non è straor¬ dinariamente
perverso, il suo grande successo e trionfo personale lo rende incline
alla benevolenza verso gli altri, a diffondere anche intorno il
sentimento di felicità che il successo gli dà. Solo un uomo dal cuore
fondamental¬ mente malvagio nel suo più pieno e grandioso trionfo,
quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più duro e crudele, e
non è pago se non condisce quel trionfo col darsi la sensazione di poter
a suo beneplacito tor¬ mentare, perseguitare, far soffrire altri uomini.
Tale era Siila, secondo le parole che Sallustio mette in bocca ad
Emilio Lepido : “ Cuncta saevus iste Romulus, quasi ab externis rapta,
tenet, non tot exercituum clade neque con- suhs et aliorum principum,
quos fortuna belli consumpse- rat, satiatus : sed tum crudelior, curri
plerosque secundae res in miserationem ex ira vertunt „ (Hist. Fragni.).
Ra¬ ramente, si, ma però talvolta avviene che un uomo, favorito dalia più
straordinaria fortuna, diventi sempre più bramoso di far del male agli
altri. “ Felicitas in tali in¬ genio avaritiam, superbiam ceteraque
occulta mala pate- fecit „ (Tac., Hist.] Itimi posti, Ottavio, (I) dedicò
la sconciamente cortigiana e piagg.atr.ee Egloga IV) nell’elegante
epigramma, riportato da Macrobio (Satura II 4) che non si può più
scrivere dove in risposti si può proscrivere : temporibus triumviralibus
PoIIio cuna fescenmnos ,n eum Augustus scripsisset, ait: g
taceo ; non est emm facile in eum scribere qui potest proscribere
(2) Più ampio conforto ricavò Cicerone dagli studi, bbene una
volta fuggevolmente accenni che forse senza la sua cultura sarebbe più
atto a resistale! exculto emm animo nihil agreste, nihil inhuma-
(I) Si vegga nel libro diV. Alfieri D»/ p • , » I J1 '> e la dimostrazione che questa
viltà ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte divTna e ha per
base il vero robusto pensare e sentire tm-,1 niente manca in Virgilio „
(L. II C VI) “ V -esse avuto nell’animo quella P napesco,
assai maggiore sarebbe stato egli stesso e quindi assai maggiore il suo
libro „ (L. II C VI • vegga anche il C. Vili) E il Canti 1 . Ci j ;• , C S ‘ uh. ed. I. 582 n
94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani, V l D < ’ . .: Vlr g‘lio si
lascia traricchire • anche Boissier, Lopposition sous tes Césars p.
I3Ì” RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma ’ senza citare la fonte
il Les e Rom P - r0ba . b,,mente a memor ia, la seguente
versione: Les Komains disaient avec raison qu’ il est rare mi’ num est „.
(Ad Alt. XII, 46) ; e sopratutto dallo studio della filosofìa, la
passione per la eguale '’quo- tidie ita ingravescit, credo et aetatis
maturitate ad prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia
levare animum molestiis possit. „ (Ad Dio. IV, 4). Le sue lettere di
questo periodo sono piene delle sue attestazioni che non vive se non
negli studi filosofici e non trae conforto che da essi (ib IV 3 ;
VI, 12 ; IX, 26 ; XIII, 28). Ad aumentare questo conforto, ad aiutarlo a
stornare il pensiero dalle calamita dello Stato, s aggiunge la sua
atti¬ vità di scrittore. Sono questi gli anni della sua intensa e
feconda produzione filosofica. “ Nisi mihi hoc venisset in mente,
scribere ita nescio quae, quo verterem me non haberem „ (Jld Alt. XIII,
9) Equidem credibile non est, quantum scribam die, quin etiam noctibus,
nihil enim sommi „ (ib. XIII, 26). “ Nullo enim alio modo a miseria
quasi aberrare possum „ (ib. XIII, 45). Vero è che le afflizioni e
le ìnquietitudmi, I incertezza dell’avve¬ nire, derivanti dal pessimo
andamento degli affari pubblici, non permettono piena pace nemmeno
nello studio : Utinam quietis temporibus, atque aliquo, si non
bono, at saltem certo statu civitatis, haec inter nos studia exercere
possemus ! „ Però, ap¬ punto in tali circostanze, “ sine his cur vivere
ve- limus ? „ (Ad Dio. IX, 8). Così nascono i trat¬ tati di
filosofia di Cicerone, circa i quali si cita sempre per aiutare a
deprezzarli la fuggevole frase “ sono copie „ cascatagli dalla penna
scrivendo al 104 suo amico e certo come
convenzionale espressioni t Xlì Vf fr ° nte j 1Iammiraz ' on e di
lui (Ad X ’ I 52 ’ ma 51 dimentica di affrontare tale fra e con le
sue numerose e consuete esternaziom dalle quali risulta che ben altra era
la stima ch’egli off" 3 de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “ Res
difficiles „ (ib. XII 38) egli dice di star scrivendo ; quanto alle
Jìc- G Q rto -5 C ° nVInt ,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere ne aVud ,
cos quidem simile quidquam „ (ib. XIII 1 3)- le chiama “ argutolos
libros „ ^ XIli.Y 8 ,00^ XIII 19? ac n ra ? posset supra ”
r/4. XIII, 9); 1 libri del De Oratore gli sono “ ve -
hementer probati (ib.) e così il De Finibus ib ?AJ ÀI XvT i ,
soddisfa Attico bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT L'P'a (M AA-
( ’ 8 ^ eSpnme anehe ,a sua Propria soddisfazione per queste due
opere ; » mihi vakle pbcent, maHem tibi dice dei libri, perduti
d! Giona (Ad Ali XVI, 2). In particolare, i| e sua opere filosofiche
le Tusculane, che facilmente si prendono per un mero esercizio
letterario, sono invece un libro profondamente vissuto, rampollato
da a tragica realtà di vita i„ cui Cicerone" si di¬ batteva e che
come tale, come idoneo cioè a for¬ nir conforto e forza in quelle
circostanze doveva essere generalmente sentito, e certo da Attico
se Cicerone gl, scrive : “ quod prima disputatio Tu- scu ana te
confirmat, sane gaudeo : neque enim ndhim est perfugium aut melius aut
paratius ,, (XV, 2 e v. anche XV, 4). Bel libro, che in ogni epoca,
nelle medesime circostanze da cui esso è nato, è servito allo scopo per
cui era stato scritto : “die Eroica der romischen Philosophie „
come con calzante espressione lo definisce lo Zie- linski ( I ).— Ma il
supremo conforto di Cicerone è un altro. # *
* Esso consiste non tanto nell’ immergersi nella filosofia
come un’occupazione mentale opportuna a distornare il pensiero da quello
che poi Lucano, il grande poeta anticesariano, definirà “ ius
sceleri datum „ (II, 1), quanto nel rivivere in sè i con¬ cetti
della filosofia come atti a fornire forza d'a¬ nimo per affrontare e
sopportare le sciagure de¬ rivanti da una situazione politica e sociale
particolar¬ mente triste : filosofia cioè non come “ ostenta-
tionem scientiae, sed legem vitae „ ( Tusc. II, 1 1). Anche in lui, per
usare l’espressione di cui poi si servì Marco Aurelio (VII, 2) zi 5
óypaia (2). (1) O. c., p. 87. — Giustissimamente il Moricca:
“Sa¬ remmo forse anche noi tentati di ritenere l’operetta tul¬
liana un’amplificazione rettorica, se non pensassimo che quelle parole...
furono scritte per una generazione d’uo¬ mini... nelle cui orecchie
esse... andavano diritte al cuore „. “ Un libro di morale
dell’epoca di Cicerone è da con¬ siderarsi non come una fredda e vuota
argomentazione rettorica bensi come un’eco squillante delle voci del
pas¬ sato, che sale dalle tombe e vince i secoli „ (O. c. p. XXIX).
(2) Secondo il testo di Trannoy (* Les Belles Lettres »).
106 bisogno di vivere tali precetti A' i ,•
. ventar succo e sangue e il f T l d ‘ faHl dl gere a ciò, Cicerone
Lnl f" 0 S ° rZ ° per 8 iun ' maniera singola,«sima,
scnVoSo^v"' 0 i'I “ na consolazione a se stesso “ D • Un ^ ro
dl profecto anfe me TeZ. ^Z 'T *** consolarer ; que m librum jf .
me per i‘ tera s serint librari; affirmo tibi^nuLm” 3 " 1 S
‘,^'P' esso talem ; totos die® U c °nsolationem quid, sed t
n^sper 1 C ; ,b ° 5 T“ qU ° proflci ™ XII 14) p t,sper im P e dior,
relaxor „ (Ad 4tt « 'a ll'Tlzr ™ di r'* d«„e
meditazioni morali!^ e8mam0 le Mslre '4«fr-r v lLStó et,r°d servire
4 stoicismo, di cui poi in ,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,, ° e d
oppressivi, uomm Lme° Tm "p" ^ tehi vid.o Prisco
fornirono ° Peto ed EI ’ e che successivamente si anc ° Ta p ‘ù
insigni, .1 hiosofo :z :L: r , ai ^ cristiano, il
sacerdnie • ’ p ° SCIa> n el mondo c„i i,Tat'„ e ' „x:; a ” d f
« molti tenevano costantemente in d m ° nre ’ anZI rettoredi
coscienza e confortatore, iHoro ZofoOX .(I) Plauto, fatto morire
da Neron» • mi istanti assistito e confortato dai “ / V ‘ ene " ei
3U0 ' u,tl Cerano e Musonio (Tac., Ann. XwTv)), Trlse^’’] O Socrates et
socratici viri ! (esclama Cice¬ rone, qui, veramente riguardo a traversie
di ca¬ rattere privato). Numquam vobis gratiam referam Un
immortales quam m ihi ista prò nihilo,, (Ad Alt. XIV, 9). Attico (egli
scrive al suo liberto e se¬ gretario Tirone) mi vide agitato, crede che
sia sem¬ pre lo stesso, “nec videt quibus presidii philosophiae
septus sim „ (Ad Div. XVI, 23). La disperata e rovinosa condizione dello
Stato “ quidem ego non ferrem nisi me in philosophiae portum con-
tulissem „ (ib. VII, 30). “ Equidem et haec et omnia quae homini accidere
possunt sic fero ut philosophiae magnam habeam gratiam, quae me non
modo ab sollecitudine abducit, sed etiam con- tra omnes fortunae impetus
armat, tibique idem censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quid-
quam m malis numerandum „ (Ad Di\>. XII, 23) E noi vediamo
veramente questo pensiero centrale dello stoicismo, cioè lo sforzo di distornare
il proprio interesse da ogni cosa esteriore per con¬ centrarlo
unicamente nel nostro comportamento, e m ciò trovare appagamento e pace
(questo, come si può chiamare, ottimismo della disperazione, che e
il solo che resta nei momenti di maggiormente infelici condizioni esterne,
perchè vuole appunto, riconoscendo tale inguaribile infelicità, trovare
an- Demetrio (ib. XVI, 35): e Seneca dice di Cano. dato al
supplizio da Caligola, “ prosequebatur illuni Losophus suus „ (De Tranq.
An. XIV, 9). man- phi- ] cora una tavola di
salvezza), vediamo questo pen¬ siero centrale dello stoicismo svelarsi
sempre più chiaro agli occhi di Cicerone e proprio come po¬ stogli
innanzi delle circostanze di fatto. “ Sic enim sentio, id demum, aut
potius id solum esse mi- serum quod turpe est „ (Ad Att. Vili, 8 e
v. anche X, 4). “ Video philosophis placuisse iis qui mihi soli
videntur vim virtutis tenere, nihil esse sapientis praestare nisi culpam
„ (Jld Dio. IX, 19). Cogliamo il procedere di questa appassionante
tra¬ gedia, per cui un uomo di indole ilare e disposto a gioire
delle cose, degli spettacoli naturali, del- I arte, della letteratura,
delle relazioni sociali, del- I attività pubblica e anche della
ricchezza, è, a poco a poco, dal rovinio politico, risospinto entro
se stesso e costretto a vedere e cercare la feli¬ cita soltanto nel
proprio retto comportarsi. Le meditazioni filosofiche (scrive a Varrone)
ci re¬ cano ora maggior frutto “ sive quia nulla nunc in re alia
acquiescimus, sive quod gravitas morbi tacit, ut medicmae egeamus eaque
nunc appareat, cuius vim non sentiebamus cum valebamus (Ad r i0 ’
IX> 3 \ Naturalmente con questo alto sen¬ timento a cui Cicerone è ora
pervenuto, il pen¬ siero della morte, qui fonte anchesso di
consola¬ zione e forza, viene a intrecciarsi. “ Nunc vero, eversis
omnibus rebus, una ratio videtur, quicquid e veni t ferre moderate
praeserlim cum omnium rerum mors sit extremum... magna enim consolatio
est cum recordere etiamsi secus acciderit te tamen recta
109 vereque sensisse „ (Ad Div. VI, 21). “ Nec enim
dum ero angar alia re, cum omni vacem culpa ; et si non ero, sensu omnino
carebo „ (ib. VI, 3) Il crollo dello Stato è cosa gravissima, “
tamen ita viximus et id aetatis iam sumus, ut omnia quae non nostra
culpa nobis accident, fortiter ferre de- beamus „ (Jld Div. VI,
20). E tali pensieri, tali alti ed austeri conforti ed
incoraggiamenti, i grandi spiriti di quel periodo si scambiavano tra di
loro, prova, sia di quanto il dolore per la catastrofe dello stato era
largamente sentito, sia dell’estensione che a lenimento di questo
dolore siffatto ordine di pensieri allora aveva preso. È la genuina
visuale stoica a cui i nefasti avvenimenti politici ha tutti guidati. Non
aliundo pendere, nec extrinsecus aut bene aut male vivendi suspensas habere
rationes (Ad Div.). Se Cicerone ad ogni momento ripete di sè quidquid
acciderit, a quo mea culpa absit, animo forti feram (Ad Div.), nec esse
ullum magnum malum praeter culpam. Sed tamen vacare culpa magnum est
solatium. Se per sè pensa -- fortunato, quam existimo levem et imbecillam,
animo firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo frangi oportere. Se
l’esperienza di quella dolorosissima fase lo fa approdare alla definitiva
conclusione che -- in omni vita sua quemque a recta conscientia
transversum unguem non oportet discedere (Ad Att.) — queste sono amici, «
a Lucccio7“'“ 8 “ 1 humanas contemnentem
et opule Cont r 7 c„ g „„ vi „ {Ad0 7 casu, et deiicto h Z ,n
non aP r l “ 1U,piludi ”' non veri „ (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una
commo- Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° ; " “ÌJ— digni
et Ss TstrrdublteTo; ea maxime conducant ! P ° SSimus ’ V. 19 ) : e
a Torquato ‘ ‘ f T Tectl8s (A.
praesertim quae absit a ancora a Torauato “ P ) e delio Stato) vereor ne I
^ n 3 ' (,a rovina teperiri, praete, i|| am q “ a TtaMa"e“ “ P
°7 “r: e, atque noTZIt,» questi sentimenti ogni
IralToìtTd' !“l “ 7 ° a anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e oh 7 ?
scrive Sulpicio in morte di Tullia) Cicerón 1 et eum aui a Ine ' '-' ,cer °nem esse
9 ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et dare con- Ili silium quae
alns praecipere soles, ea tute tibi subirne, atque apud animum propone;
vidimus ali- quotiens secundam pulcherrime te ferre fortunam fac
ahquando intelligamus adversam quoque té aeque ferre posse. Dalle lettere
di Cicerone si potrebbe così ricavare un antologia di massime di vita stoica
da servire efficacemente in ogni tempo al ripresenarsi di analoghe
circostanze (e tale è forse sopratutto la ragione per cui queste lettere
suscitarono in ogni tempo I ammirazione, anzi il culto di nobili animi),
pm efficacemente ancora che non i suoi trattati, come le Tusculane e il
De Officiis, ove egli dava sistemazione teorica alle medesime idee
1 qual, però appunto perchè non contengono se’ non quelle dee morali che,
suscitate in Cicerone dalle vicende di ogni giorno, riempiono la sua
cor¬ rispondenza, ci si ridimostrano, non mere eserci¬ tazioni
letterarie, ma anzi libri cresciuti su dalla vita vera e scritti col
sangue che le ferite inferte da questa facevano stillare dal suo cuore. «
Herzenphilosophen > chiama giustamente Cicerone lo] Plutarco racconta
(Oc 49) che un giorno OTTAVIANO essendosi accorto che un suo nipote scorgendolo
nascondeva impaurito un libro sotto la oga, glielo prese, e visto che era
di Cicerone ne lesse un tratto, poi lo reshtui al ragazzo, dicendo
• uomo dotto e amante della patria, Xó r ,o : *vl' ?. «rat, io T ,o
£ *«l Tardo (come al so’ hto) riconoscimento del meriti di colui
che egli ave¬ va raggirato, tradito, abbandonato al carnefice Ma
Cicerone e qualcosa di più. Spirito altissimo e st'anzetn m n “'T'?
1 "” da »! le circo- ero \ „ j " 6 r 1 ' **' vivere,
espres. sero, m ragione di tale sua sensibilità, una soma
d dolore enorme, egli seppe da questa esperienza d, dolore trarre
un-espenenza morale di elevazione e di purificazione del dolore
stesso nel fuoco della filosofia intesa come via, di cui molti e b
dTrendl' ' aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò che rende
appassionatamente attraente la sua grande figura alla quale
veramenle-secondo un penTero che trova eco sino m Giovenale (Vili,
243)-e Roma' ltf !a " “ u la 8erva arl “lazione lo dava
Sr p a,t a , a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad Sed Roma
parentem, Roma patrem patriae Ciceronem libera
dixit. Platone Cicerone Ultime pubblicazioni dello
stesso Autore Pesco Piente Fu , un [Mi|an0i
CogliariJ. f? Ap ° r ' e Jella R'Hgiont [Catania, - Etna 1 Motwl
Spirituali Platonici [Milano, Gilardi e Noto] nSTT, d ' W Jr
aZl0nalim0 |N«poli. Guida], Materialismo C„„ c0 [R om ., CaS a Pagine di
Diario : Scheggio [Rieti, Biblioteca Editr.J, Cicute [Todi,
Atanórj. Impronte [Genova, Libt. Ed. Italia] Sguardi [Roma.
La Laziale], Scolli [Torino, Montes, 1934],
Imminenti : Critica deir Amore e del Lavoro [Catania.
Critica della Morale [Catania, “ Etna ..Etna. Cicerone. Keywords: Marc’Antonio,
untranslatable, signans/signatum, signans, signatum. Cicerone, Cicero = Tully.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Ciliberto: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del principe -- il suo
principato– filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Cilberto; he philosophised on
Machiavelli – in an interesting way: confronting his ‘reason’ with the
‘irrational’; myself, I have not explored the irrational, too much – but I
suppose Strawson might implicate that everything I say ON reason is an
implicature on the irrational – Ciliberto uses the vernacular for the
‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del pensiero di Bruno. Si laurea a
Firenze sotto Garin con “Machiavelli”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna
a Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Presidente di I. R.
I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di
Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento
con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica,
no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile,
Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi
della democrazia rappresentativa. Altre opere: “Il rinascimento. Storia
di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari,
De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri);
“Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel
Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del
tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza);
Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura);
“Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il
dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze,
Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I
contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura); “Il teatro della vita” (Milano, Mondadori); “Il laico” “Il
libero” dell'Italia moderna, Roma-Bari, Laterza); “Democrazia dispotica” –
etimologia di dispotismo – (Roma-Bari, Laterza); “Intellettuale nel Novecento,
Roma-Bari, Laterza), “Parola, immagine, concetto” (Edizioni della Normale,
Pisa); “Croce e Gentile” “La cultura italiana e l'Europa, (direzione) Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani,. Rinascimento, Pisa, Edizioni della
Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo, neo-umanesimo”, classicism,
neo-classicismo come ironia” (Roma-Bari, Laterza); “Pazzia e ragione” (Roma-Bari,
Laterza); “Il sapiente furore” (Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) Michele
Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno. Preludio al Machiavelli *
Mre a dh e im h ol Un TT “‘i 0 annunciato da Imola — dalle legioni
chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma
’ 1 Cum parole non si mantengono li Stati”. Ciò troncò gli
ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi sottopongo
? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924 \l Pnncipe di
Machiavelli, al libro che io vorrei cHamare Vade ZldlZtfìl U °™° dt
g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà Slfia ’ a . 8glU f? e ? e
cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio- ftreTdJI VCdra “3 r 8UÌt0 f H °
rilett ° attentame nte il Principe loe7olnf »Z P ? e dd 8rande S ,
e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem - po e voionta per leggere tutto
ciò che si è scritto in Italia e nel Ma chiavelli.Ho voluto mettere il
minor numero possi- velh ^ mt0rmedlari vecchl e nn °vi, italiani e
stranieri, tra il Machia- dottrin, e’l^ non .8 uastare la di contatto diretta
fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie
osservazioni di n0mmi , e f° Se ’
3 SU f C k mia pratica di governo. Quella che mi )t0 ,\ le Z 8e ™
no « f quindi una fredda dissertazione scolastica irta di citaziom
altrui, è piuttosto un dramma, se può considerarsi come io credo, m un
certo senso drammatico il tentativo di gettare NorL d te^fo: abisso
deUe genera2ioni ° ^ cveuti La domanda si pone: a quattro secoli di
distanza che cosa c’è an- cora di vivo nel Prmcipe? I consigli di MACHIAVELLI
potrebbero ave- * Da “Gerarchia”,
I ,i . •>\fruzione del regime
i. iniit t|ualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni?
II tl.iic del sistema politico del Principe è circoscritto all’epoca
in > 111 1 11 scritto il volume, quindi necessariamente limitato
e in parte > I.luco, o non è invece universale e attuale?
Specialmente attuale? I i inin tesi risponde a queste domande. Io affermo
che la dottrina • li Machiavelli è viva oggi piu di quattro secoli fa, poiché
se gli nnpctti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non
si h« i(io vcrificate profonde varia^ioni nello spirito degli individui e
dei itopoli. ln politica è l’arte di governare gli uomini, cioè di
orientare, uti- li znre, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro
interessi in < nin di scopi d’ordine generale che trascendono quasi
sempre la i'iin individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è
la poli- lioi, non v’è dubbio che l’elemento fondamentale di essa arte, è
l’iiomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel siste- inn
politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uominl? E egli
ottimista o pessimista? E dicendo “uomini” dobbiamo Inlcrpretare la
parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli Ilnliani che
Machiavelli conosceva e pesava come suoi contempora- nci o nel senso
degli uomini al di là del tempo e dello spazio o pcr dirla in gergo
acquisito “sotto la specie della eternità”? Mi pare ilic prima di
procedere a un piu analitico esame del sistema di po- lllica
machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe, oecorra
esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli de- gli uomini in
genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene, t|iicl che
risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del Vrincipe, è
l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della nntura umana. Come
tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto commercio coi
propri simili, Machiavelli è uno Kpregiatore degli uomini e ama
presentarceli, come verrò fra poco documentando, nei loro aspetti piu
negativi e mortificanti. (,li uomini, secondo Machiavelli, sono
tristi, piu affezionati alle cose chc al loro stesso sangue, pronti a cambiare
sentimenti e passioni. A1 capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si
esprime: perrché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili .imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno
e mentre fai loro bene, ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la
roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi, .piando el bisogno è
discosto, ma quando ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel
l>rincipe che si è tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre
prepa- rn/ioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che
si faccia mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da
uno vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni
occasione di propria utilità (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura
di pena che non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani,
trovo fra le Carte varie quanto segue. Gli uomini si dolgono piu di un
podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro
morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La
ragione ò pronta; perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno
fratello non può risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere. E al
capitolo terzo dei Discorsi. Come dimostrano tutti coloro che ragionano del
vivere civile e come ne è prenia di esempii ogni storia, è necessario a
chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti
gli uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità
dell’animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini
non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà
abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di
confusione e di disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma
non è necessario. I brani riportati sono sufficienti per dimostrare cbe
il giudizio negativo su- gli uomini, non è incidentale, ma fondamentale
nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata
e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna
tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi dei pensiero di
Machiavelli. È anche evidente che il Machiavelli, giudicando come
giudicava gl’uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai
fiorentini ma agl’uomini senza limitazione di spazio e di tempi tempo ne e
passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei,
io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei,
forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe.
L’antitesi fra Principe e POPOLO, fra STATO e individuo è nel concetto di
Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo,
cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione
iniziale. La parola “principe” deve intendersi come STATO. Nel concetto di
Machiavelli il principe è lo stato. Mentre gl’individui tendono, sospinti dai
loro egoismi, all’atonismo sociale, LO STATO rappresenta una
organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere
continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a
non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi [nelle parole di
Urmson – H. P. Grice] — che sacrificano il proprio io sull’altare dello STATO.
Tutti gl’altri sono in istato di rivolta potenziale contro LO STATO. Le
rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di
ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come hii.i enianazione della libera volontà del POPOLO.
C’è una finzione .• tma illusione di piu. Prima di tutto IL POPOLO non è
mai definito. I una entità meramente astratta, come entità
politica. Non si sa iltivc cominci esattamente, né dove finisca.
L’aggettivo di “sovrano” applicato a “popolo” è una tragica burla. II POPOLO
tutto al piu, DELEGA, ma non può certo ESERCITARE SOVRANITÀ alcuna. I sistemi “rapprenntativi”
appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove
questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore
solenni in cui non si domanda piu nulla al POPOLO, perché si sente che la
risposta sarebbe fatale; gli si strappnno le corone cartacee della sovranità —
buone per i tempi normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una rivoluzione
o una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al POPOLO
non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete
che la sovranità elargita graziosamente al POPOLO gli viene sottratta
nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata
solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di
ordinaria ainministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per
referendum? II referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il
luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio. Ma quando gl’interessi
supremi di un POPOLO sono in giuoco, anche i governi ultra-democratici si
guardano bene dal rimetterli al giudizio del POPOLO stesso. V’è dunque
immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dall’Enciclopedia
— che pecca, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo —
il dissidio fra forza organizzata dello STATO e il frammentarismo dei
singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai
esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del
mio oramai famoso articolo “Forza e consenso”, Machiavelli scrive nel
Principe. Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati
ruinarono. Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro
una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però
conviene essere ordinato in modo, che quando non credono piu si possa far
credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, ROMOLO non avrebbero potuto
fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussino stati
disarmati. IL SINGOLARE SAGGIO SU MACHIAVELLI DI MUSSOLINI. "PRELUDIO"
DI MUSSOLINI POI "FORZA E CONSENSO" + NOTA DE SANCTIS POI UN
ARTICOLO SU MACHIAVELLI DI FUSARO CON UN ARTICOLO – Pellegrino. Mangieri
ED INFINE ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE "IL
PRINCIPE" PREMESSA: Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è
strettamente connessa con alcuni nodi centrali della storia del pensiero
politico. A parte una serie di revisioni critiche dei giudizi tradizionali
fatti da dotti fiorentini nel periodo del granduca Leopoldo, un grosso
contributo del movimento riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino,
lo si deve a G.M. Galanti, autore di un "Elogio di MACHIAVELLI".
Galanti fa propria quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già
era stata consacrata nell'articolo "machiavelisme"
dell'"Encyclopededie" (scritto attribuito a Diderot) e nel
"Contratto sociale" di Rousseau ("Fingendo di dare lezioni ai
re, egli ne ha date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il
libro dei repubblicani"). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi
in "Dei sepolcri". Contro questa interpretazione Vincenzo
Cuoco, con trasparente riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica,
mise in luce il realismo politico di Machiavelli, che aveva indicato in una
monarchia o Stato forte, l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i
partiti. Fuori dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi
machiavelliche come risposta a una particolare situazione storica e, al tempo
stesso, vedevano nell'autore del Principe un precursore dello stato etico che
doveva godere di lunga fortuna nello storicismo tedesco. In Italia nell'età
risorgimentale l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna
dell'"immoralità" di Machiavelli e la sua "esaltazione"
come profeta della riscossa nazionale. Il superamento di tali posizioni
si possono considerare le pagine appassionate di Sanctis (saggio che fra breve
riporteremo qui integralmente - e che come diremo più avanti fu poi molto
(pretestuosamente) utile a Mussolini - leggendolo capiremo perchè). A De
Sanctis, Machiavelli appariva non solo come il profeta dell'idea di nazione ma come
"fondatore dei tempi moderni", come interprete lucido e impietoso
della crisi degli istituti e delle concezioni medievali, e autore di una
rivoluzione copernicana nelle considerazioni dell'uomo, che "ha in terra
la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi". Poi anche per Benedetto
Croce scrisse che l'autore del Principe è lo scopritore della politica come
attività autonoma dello spirito. Entrammo poi nel
"Ventennio" fascista e qui una facile strumentalizzazione di
Machiavelli e del suo mito fu fatta da Mussolini che prima un suo articolo lo
scrive su "Gerarchia", poi cura a prefazione (che chiama
"PRELUDIO") di una edizione del Principe, adornandola
opportunisticamente con il saggio - citato sopra – di Sanctis). In queste
pagine su MACHIAVELLI, è piuttosto singolare che per fornire una comprensione
al machiavellismo, andiamo a scomodare MUSSOLINI. Ma singolare non lo è
affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera di Machiavelli ma anche lo
stesso Mussolini e il suo Fascismo. In queste tre paginette del preludio, c'è
tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea
di una educazione del POPOLO a un nuovo fascismo !! (prima ve ne sono molti di “fasci”,
creati dai socialisti violenti, che incitano a ribellarsi con i vari scioperi i
lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare libretto che possediamo
lo riportiamo integralmente, perchè all'interno Mussolini fa alcune singolari
affermazioni (tutte fascistiche) sulla dubbia validità del potere esercitato
dalla "sovranità POPOLARE", e sulla stessa utopica "democrazia POPOLARE".
Per Mussolini il Principe del suo tempo è LO STATO. E LO STATO è il Principe,
cioè - nei tempi moderni - che dopo aver preso il potere doveva essere Lui e
solo Lui. (Siamo lontani da quando prima come anarchico poi come socialista -
lui esalta il proletariato come futura classe dominante, e fa l'apologia della
rivoluzione violenta indicata dalla dottrina di Hegel che presenta nella sua
teoria la "morte dello Stato.” E nell'organizzare gli scioperi, lui è un
vero e proprio fascista socialista violento, così chiamano fin dai primi fasci
i socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi sono QUI in Togliatti E nel
farli gli scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche lui era un violento
socialista, e anda più volte anche in galera come sovversivo. Poi
improvvisamente lui diventa inter-ventista nei confronti dei suoi ex socialisti
che come ANTI-inter-ventisti si opponeno a quella guerra che diceno voluta
dalla più becera borghesia con nessun vataggio per IL POPOLO ANALFABETO
chiamato SOLO A DARE IL SUO SANGUE. Segue la famosa rottura di Mussolini con i
suoi ex socialisti, uscendo dal giornale "Avanti" che dirige – ed è
poi perfino cacciato dal partito socialista. Poi durante e dopo la guerra
- soprattutto per come finisce il conflitto per l'Italia - lui va a fondare i
suoi "fasci", cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex
soldati, i lavoratori e anche una certa nuova borghesia, che ora guardano a lui
che mira a un socialismo sociale e non a quell' eterno conflitto sviluppatisi
fra operai e industriali -- soprattutto nelle sciagurate Settimane Rosse. Dove
o per i loro scioperi, o per le serrate degli industriali, a pagare sono gl’operai
sempre più a spasso, ovviamente senza stipendi e a fare la fame. "La
sovranità, al popolo - afferma Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo
quando è innocua -- es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la
fontana del villaggio. Mentre quando gl’interessi supremi sono in gioco, anche
i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del
popolo. La sovranità applicata al popolo é una loro tragica burla. Il popolo
tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. Mussolini
inizia a guardare proprio alla forza, che prima è usata dagl’inconcludenti
socialisti, proseguita poi in peggio anche dai nuovi comunisti. Ci vediamo in
questo suo preludio su Machivelli un opportunistico utilizzo di Mussolini del principe;
e come detto sopra, appoggiandosi pure al saggio Sanctis. Abbiamo detto “utilizzo”,
perchè Machiavelli è stato l'uomo che ha intuito una nuova forma di filosofia
umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella collettività,
nello STATO, il quale così diventa uno Stato etico. È evidente quindi che in
tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia del singolo individuo
al proprio utile per l'utile generale dello stato, concezione questa che viene
a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso -- es. "usare la
forza" -- dando origine a quel mito
del "machiavellismo" che è stato via via da alcuni esaltato, mentre
da altri ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la
personalità del singolo uomo. Insomma Mussolini fa del Principe il suo
vademecum. Sbagliando però. La sua storia è poi infatti molto diversa. Lui
stesso - nel fidarsi troppo di quella gente che lo circonda - finì molto male e
sbaglia proprio sul POPOLO, che alcune volte nella storia con la sua vituperata
irrazionalità "fa quello che vuole". E suona dunque privo d’effetto
quel volerci ricordare Mussolini una massima di Machiavelli. Quando non credono
più, bisogna ricorrere alla forza. È questo sì l'espediente del suo Fascismo,
forse fin dalla sua nascita, ma poi è perdente. Perchè la sua forza inizia a
farla con i suoi imbelli gerarchi e a dire lui solo tante parole, parole,
parole, seguite da riti, proclami, dottrine, vangeli -- oltre ...le
pagliacciate di STARACES. Lui - in questo Preludio - cita due frasi di
Machiavelli, ma non ne sa coglierne l'essenza. Cum parole non si mantengono li
Stati. Quel Principe che si é tutto fondato sulle parole, trovandosi nudo,
rovina --- che profezia!!! E Mussolini nudo si ritrova prima in quel famoso 25
luglio. Lui si aspetta una reazione al suo arresto. Ma fu una realtà molto
amara. Ma come, dice preoccupato, mi hanno abbandonato anche i 150.000 arditi, di
assoluta provata fede? Si, eccellenza, tutti uccel di bosco - anzi i loro
comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e mettendoli a sua disposizione.
Lo aveva abbandonato perfino suo genero: CIANO. Ma poi - perso per strada anche
gli altri "amici", andò ancora peggio il 27 aprile del '45, quando il
popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel fare "quello che
voleva" lo appese a un distributore a Piazzale Loreto. "Non
sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una
razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci
sono anche queste contraddizioni. E sono del resto queste che ci distinguono
dagli animali e soprattutto dal capo branco che - illudendosi - li vorrebbe
guidare come belanti pecore". "I meccanismi politico-sociali ed
economici realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli delle formiche,
perchè altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le formiche nè gli
uomini. "L'individuo umano ha sempre rappresentato un costoso
investimento di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al potente di turno
disfarsi dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di altro materiale
per organizzare lo "Stato" delle formiche, questo dio che si crede
onnipotente, si rende responsabile di una degradazione della natura stessa
dell'uomo e che se un essere umano è condannato a svolgere le funzioni limitate
della formica, non soltanto cesserà di essere un uomo ma non sara' neppure una
buona formica". E ancora ("non sempre nell'asservimento (l'azione),
la retroazione è controllabile"). Questo non è il ragionamento di un
filosofo, ma del Padre della Cibernetica moderna (Teorie dell'informazione):
Norbert Wiener - Mussolini usò tante parole. "Ma quale
fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse accompagnato la civile
prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche il grande Napoleone:
"qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse accompagnata la civil
prudenza machiavellica" Paradossalmente proprio su Napoleone,
Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: "lui fallì miseramente perchè
aveva creduto troppo negli uomini". Solo lui credeva di aver capito
gli uomini, credendolo "suo il popolo": "devono solo Credere,
Obbedire, Combattere". e "Quando mancasse il consenso, c'è la
forza" ..."Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo
prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto
spirito di patriottismo o subirli". (Disc. Risposta al Ministero delle
Finanze, 7 marzo 1923 - S. e D., vol III, pag 82 E pensare che un Mussolini più
razionale aveva scritto un giorno "Io grande? Io forte? Io potente? basta
un titolo su un giornale e ti ritrovi nella polvere". A Piazzale Loreto
andò peggio! Fu un cattivo profeta di se stesso. * ecco qui sotto
il "preludio" di Mussolini * subito dopo il saggio di F. De Sanctis
(datato ma ancora molto attuale) * seguono alcune note sulla vita, le opere e
il contesto storico di Machiavelli. Mussolini: " Accadde che
un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di
una spada con inciso il motto di Machiavelli "Cum parole non si mantengono
li Stati". Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema
che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo un "Commento
dell'anno 1924, al «Principe» di Machiavelli, al libro che io vorrei chiamare:
Vademecum per l'uomo di governo". Debbo inoltre, per debito di onestà
intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia,
come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il Principe e il resto delle
opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto
ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il
minor numero possibile di intermediari vecchi o nuovi, italiani e stranieri,
tra il Machiavelli e me, per non guastare la presa di contatto diretta fra la
sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini
e cose, fra la sua e la mia pratica di governo. Quella che mi onoro
di leggervi non é quindi una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni
altrui, é piuttosto un dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo
senso drammatico il tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso
delle generazioni e degli eventi. Non dirò nulla di nuovo. La domanda si
pone: A quattro secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I
consigli del Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i
reggitori degli Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe é
circoscritto all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente
limitato e in parte caduco, o non é invece universale e attuale? Specialmente
attuale? La mia tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di
Machiavelli é viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti
esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate
profonde le variazioni nello spirito degli individui e dei popoli. Se la
politica é l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare,
educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi
d'ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si
proiettano nel futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento
fondamentale di essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire. Che cosa
sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli
degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E dicendo «uomini » dobbiamo
interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani
che Machiavelli conosceva e pensava come suoi contemporanei o nel senso degli
uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito
"sotto la specie della eternità" ? Mi pare che prima di
procedere a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così
come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale
concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in
particolare. Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una
superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti
della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e
vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore degli uomini e
ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro aspetti più
negativi e mortificanti. Gli uomini, secondo Machiavelli, sono tristi,
più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a cambiare
sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si
esprime: "Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e
mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i
figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si appressa,
e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato sulle parole
loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini hanno meno
rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia temere,
perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini
tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é tenuto da
una paura di pena che non abbandona mai". Per quanto concerne gli egoismi
umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: "Gli uomini si dolgono più
di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro
morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione é
pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non
può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere".
E al Capitolo III dei Discorsi: "Come dimostrano tutti coloro che
ragionano del vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é
necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre
tutti gli uomini essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità
dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non
operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che
vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine
». Le citazioni potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I brani riportati
sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è
incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue
opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto
iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi
sviluppi del pensiero di Machiavelli. E' anche evidente che il
Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a
quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo
fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di
tempo. Di tempo ne é passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e
contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di
Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e
non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo
é nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo,
pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione
iniziale. La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel
concetto di Machiavelli il Principe é lo Stato. Mentre gli individui tendono,
sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una
organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente.
Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la
guerra. Pochi sono coloro -eroi o santi - che sacrificano il
proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta
potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII eXVIII hanno tentato
di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni organizzazione sociale
statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del
popolo. C'é una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo
non fu mai definito. E' una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano
applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non
può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi
appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi
meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui
non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe
fatale; gli si strappano le corone cartacce delle sovranità - buone per i tempi
normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace
o di marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che
un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita
graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe
sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o é reputata
tale, cioè nei momenti diordinaria amministrazione. Vi immaginate
voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si
tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del
villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in gioco, anche i
governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo
stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati
dalla Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso
incommensurabile di ottimismo - il dissidio fra forza organizzata dello Stato e
frammentarismo dei singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente
consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente
mai. Ben prima del mio ormai famoso articolo "Forza e consenso"
(vedi subito sotto) Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: "Di qui
nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la
natura dei popoli é varia ed é facile persuadere loro una cosa, ma é difficile
fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che
quando non credono più, si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro,
Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro
costituzioni, se lussino (fossero) stati disarmati". POCHI MESI
PRIMA DI QUESTO ARTICOLO SU MACHIAVELLI E SEMPRE SU "GERARCHIA"
MUSSOLINI NEL '23 L'ARTICOLO "FORZA E CONSENSO" E MERITA DI LEGGERE
ANCHE QUESTO ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI Mussolini, da
Gerarchia. Forza e consenso. Certo liberalismo italiano, che si ritiene unico
depositario degli autentici, immortali principi, rassomiglia straordinariamente
al socialismo mezzo defunto, poiché anche esso, come quest'ultimo, crede di
possedere "scientificamente" una verità indiscutibile, buona per
tutti i tempi, luoghi e situazioni. Qui é l'assurdo. Il liberalismo non é
l'ultima parola, non rappresenta la definitiva formula, in tema di arte di
governo. Non c'è in quest'arte difficile e delicata, che lavora la piú
refrattaria delle materie e in stato di movimento, poiché lavora sui vivi e non
sui morti; non c'è nell'arte politica l'unità aristotelica del tempo, del
luogo, dell'azione. Gli uomini sono stati piú o meno fortunatamente
governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e il metodo del
XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci sono secoli
stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità alternata,
in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo. Non é detto che il
liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo, cioè,
dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e
l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto
al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che individuarono
il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza piú della
dottrina. Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle che sono in
stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del liberalismo.
In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di fuori, al
disopra e contro tutta la ideologia liberale. Il comunismo e il fascismo
sono al di fuori del liberalismo. Ma insomma, in che cosa consiste questo
liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano oggi tutti i
nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale e generi
affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra
l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in
nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di
tutti? Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo
Stato e lavorano attivamente per demolirlo? E' questo il
liberalismo? Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una
pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come
mezzo deve essere controllato e dominato. Qui cade il discorso
della "forza". I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella
storia vi fu governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e
rinunciasse a qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai
stato, non ci sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia
in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun
governo é mai esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque
soluzione vi accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi
della saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti.
Se finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a
quadrare il circolo. Posto come assiomatico che qualsiasi
provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo
malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo
eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si
renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza
fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel
Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad
abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali.
Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi
e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque
non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di
libertà. Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine
casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima
metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si
affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che
esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia,
disciplina. Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e
battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È
completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi
che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre
invernale. Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario
quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante,
non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il
fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali. Si sappia dunque,
una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è
già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul
corpo piú o meno decomposto della Dea Libertà". Benito Mussolini, da
Gerarchia. SAGGIO DI DESANCTIS CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la
nuova edizione de "IL PRINCIPE" Testo integrale originale (che è
comunque un ottimo saggio, proprio utile per capire il ns. passato) DE
SANCTIS: "Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in
luce l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere
dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto,
dei poeti italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il
secolo nella sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano
ignoti l'uno all'altro. Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una
fisionomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de'
Medici. Era un piacevolone, che se la spassava ben volentieri tra le
confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello
spirito arguto e beffardo che vede nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e
in Lorenzo e nel Berni. Poco agiato nei beni della fortuna, nel
corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra i tanti
stipendiati a Roma o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici,
restaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima
nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori,
acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla
repubblica, per la quale non gli parve molto il sostenere le torture, poiché
tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò le sue
tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio
di San Casciano meditò sui fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi
d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mentenere le
sue indipendenza se non fosse unita, tutta o gran parte, sotto un solo
principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare
l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e trarlo di ozio e
di miserie. All'ultimo, poco e male adoperato dei Medici, finì la vita
tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che il nome. Di lui fu
scritto: "Tanto nomini nullum par elogium". I suoi Decennali,
arida cronaca delle « fatiche d'Italia di dieci anni », scritte in quindici dì;
i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri
fiorentini; gli altri suoi capitoli dell'Occasione, delle Fortuna,
dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i suoi canti carnascialeschi, alcune sue
stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari sui quali è
impressa le fisionomia di quel tempo: alcuni tra il licenzioso e il beffardo,
altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il
colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini. Ma in
questo fondo comune e sgraziato appaiono le vestigie di un nuovo essere, una
profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca l'immaginativa:
sovrabbonda lo spirito. C è il critico: non c è il poeta, non c è l'uomo nello
stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è
l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e
dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere: Io
spero, e lo sperar cresce il tormento; io piango, e il pianger ciba il lasso
core; io rido, e il rider mio non passa drento; io ardo, e l'arsion non
par di fuore; io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento; ogni cosa
mi dà nuovo dolore: così sperando piango, rido e ardo, e paura ho
di ciò ch'i' odo o guardo. Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle
cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto?
Qualche verso ingegnoso, come nei Decennali: la voce d'un Cappon tra cento
Galli, .....e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De' diavoli
o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime la
chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente la
scrittore del Principe e dei Discorsi. Anche in prosa Machiavelli ebbe
pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si
mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite,
nella descrizione della peste e ne' discorsi che mette in bocca ai suoi
personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al
tempo della peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli artifici
dello stile; ciò che si chiamava "eleganza". Ma nel Principe, nei Discorsi,
nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla milizia, nelle Storie,
Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria di chi
reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e ai' periodi.
Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la
prosa italiana. E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e
beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel
tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle
cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo generalmente
negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli,
quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro, e gli
ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti
presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era
l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze era ancora il cuore
d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della
patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era
spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura
classica, che, fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle
memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le
lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile
Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale resistenza agli eserciti
papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore della
libertà erano forze morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più acute
e vivaci dal contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per la vita
licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al
Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna
religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi
passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e
rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e
solitari. E la sua coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e
l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli
consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide
perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo
strumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione,
un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma
un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità
della sua fede. Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più
esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già
vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e
circondata di una aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del
patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilità e
di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu
pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe
oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta,
le "abitudini plebee e fuori della regola", come gli rimproverava il
correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano reputazione. Consapevole della
sua grandezza, disprezzava quelle esteriorità delle forme e quei mezzi
artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili ai mediocri.
Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita
sempre ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il
suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno battagliato le nuove
generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora indietro ora innanzi. C è
un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che
ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo
libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e
scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un
codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i
mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato "machiavellismo"
questa dottrina. Molte difese si sono fatte di questo libro,
ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno
lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli
rimpiccinito. Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una
meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa
reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercarvi i fondamenti
della sua grandezza. Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e
seria di tutto quel movimento, che, nella sua spontaneità, dal Petrarca e dal
Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia
veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche
lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le
tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso
sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società
e interrogarla: - Cosa sei? dove vai? - L'Italia aveva ancora il suo
orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del
Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era
il mondo greco e romano, che si studiava di assimilarsi. Sovrastava per coltura,
per industrie, per ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza
contrasto il primato intellettivo in Europa. Grave fu lo sgomento
negl'italiani quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si abituarono e
trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superiorità
dell'ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri,
tedeschi e francesi e spagnoli, l'alto e spensierato riso di letterati,
artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei
campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i
lazzi di Pietro Aretino. Gli stranieri guardavano attoniti le meraviglie
di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro
principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza
celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia era inchinata e studiata
dai suoi devastatori, come la Grecia fu dai romani. Fra tanto fiore di
civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto
Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove altri vedevano la più prospera
salute. Quello che oggi diciamo « decadenza » egli disse « corruttela », e base
di tutte le sue speculazioni fu questo fatto: la corruttela della razza
italiana, anzi latina, e la sanità della germanica. La forma più grossolana di
questa corruttela era la licenza de' costumi e del linguaggio, massime nel
clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in
mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della società
e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che
dava sapore alla vita. La licenza, accompagnata con l'empietà e
l'incredulità, aveva a suo principal centro la corte romana, protagonisti
Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le
ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi
concittadini. Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal
pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non
contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero
non era più la parola, e la parola non era più l'azione; non c'era armonia
nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio
e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli. Nessun italiano,
parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui
allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E
nessuno poteva , non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione
della coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei
baccanali. Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita
seriamente. Pure erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e
agevolarono l'opera del concilio di Trento e la reazione cattolica.
Rifare il medioevo e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una
ristaurazione religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola,
ripreso poi e purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile
alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a'
loro mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel
carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto.
Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella
coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che
pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo,
concorse alla sua demolizione. L'altro mondo, la cavalleria, l'amore
platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la
letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o
meno consapevole. Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento
ironico quando parla del medio evo, sopratutto allora che affetta maggior
serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua
opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il
suo Belfegor è della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua
negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza
vuota. In quella negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua
coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero,
guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni
sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto
un nuovo edificio sociale e politico. Le idee che generarono quelle
istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza,
rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana.
Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a
questo che attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da
lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la
ricostruzione. Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare.
Basti qui accennare la idea fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa
base: che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la
virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa
vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non
quello che è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è
l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla
verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita, teologico-etico, uscì
la Divina commedia e tutta la letteratura del Duecento e del Trecento. Il
simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La
realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E
l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o
nelle universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo,
l'universale da cui esce il particolare. Tutto questo, forma e concetto, era
già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di
passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a
base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo,
reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti visionari:
conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della luna
ariostesco. In teoria c' era una piena indifferenza, e in pratica una piena
licenza. Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza
nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è
straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di
erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di
enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo
spirito è tutto nella vita pratica. Nelle scienze naturali non sembra sia
molto avanti, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle
stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta. Niccolò
non è filosofo della natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa
l'argomento e prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha
la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non ha la faccia tranquilla
e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora
intorno ad uno scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo
le sue attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non è
contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua
serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena,
darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire
l'uomo nella sua serietà e nella sua attività : questo è lo spirito che aleggia
in tutte le opere del Machiavelli. E' negazione del medio evo, e insieme
negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come
la contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non
tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita. Combatte
l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in
immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha da
curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come
debbono essere. Quel «dover essere», a cui tende il contenuto nel medio
evo e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all' « essere » o, com'egli
dice, alla verità « effettuale ». Subordinare il mondo dell'immaginazione, come
religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e
dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli. Risecati tutti gli
elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria.
La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo,
la gloria, la grandezza, la libertà della patria. Nel medio evo non c' era il
concetto di patria: c' era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini
nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio:
l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società. Intorno a questi due «
Soli » stavano gli astri minori: re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di
contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio
papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e
perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o
imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù
Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo.
E' un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo. C'era ancora il
papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro
potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e
l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio: il papa ingrandito di
territorio, diminuito di autorità; l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di
papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per
riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di
quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli
avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un
sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia.
Combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i
gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la
prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e
svolge largamente il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale,
nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo.
La «patria» del Machiavelli è naturalmente il Comune libero, libero per sua
virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti
nell'interesse di tutti. Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il
fenomeno storico de' grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il
Comune era destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio
evo. Il suo Comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare davanti
a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano
"Stati" o "Nazioni". Già Lorenzo, mosso dallo stesso
pensiero, avea tentato una grande lega italica, che assicurasse l' « equilibrio
» tra i vari Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire
l'invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone addirittura la costituzione
di un grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il
concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è
tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca è il «giardino dell'impero»;
nell'utopia del Machiavelli è la « patria », nazione autonoma e
indipendente. La « patria » del Machiavelli è una divinità, superiore
anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici
assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli
eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata
sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. «Ragion di Stato» e
«salute pubblica» erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo
diritto della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo
in terra e si chiamava la « patria », ed era non meno terribile. La sua volontà
e il suo interesse era «suprema lex». Era sempre l'individuo assorbito
nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua
volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù. Libertà era
la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti
dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L'uomo non era un
essere autonomo e di fine a se stesso: era lo strumento della patria o, ciò che
è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni
specie di governo, anche il dispotico, fondato sull'arbitrio di uno solo.
PATRIA era dove tutti concorrevano più o meno al governo e, se tutti
ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi "repubblica". E dicevasi
"principato" dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o
principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella
società o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato. Queste idee sono
enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e analizzate, ma come già per
lunga tradizione ammesse e fortificate dalla coltura classica. C è lì dentro lo
spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertà
attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo
nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato. La patria assorbe anche
una religione. Uno Stato non può vivere senza una religione. E se il
Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè a difesa del suo
dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perché coi
suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della
religione. Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano
del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed
era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la
moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede,
la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se
le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come ostacoli, li spezza.
Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni
principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo
della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un
sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che vediamo le cose di
lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla
teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e
'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce
dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua
legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di
subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto
divino. Il fondamento delle repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti. E
il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata
dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze
atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.
Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli
non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno «
disarmato il cielo ed effeminato il mondo » e che rendono l'uomo più atto a «
sopportare le ingiurie che a vendicarle». « Agere et pati fortia romanum est
». Il cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire
che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e
contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani
inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della
patria. La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa « forza »,
« energia », che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi
imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri
riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina o, come egli
dice, « i buoni ordini e le buone armi », che fanno gagliardi e liberi i
popoli. Alla virtù premio è la gloria. «Patria», « virtù », « gloria », sono le
tre parole sacre, la triplice base di questo mondo. Come gl'individui hanno la
loro missione in terra, così anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza
virtù, senza gloria sono atomi perduti, «numerus fruges consumere nati». E
parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè
nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio
nell'umanità o, come dicevasi allora, nel « genere umano », come Assiria,
Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra,
gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale.
Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le idee
che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca.
E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre nazioni. Il
mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano,
che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non
è la provvidenza e non è la fortuna, ma la « forza delle cose », determinata
dalle leggi dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue
facoltà ed immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento
di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di
effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni
e dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo
campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il
mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere
e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa
calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini. La grandezza
e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti
necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E
quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli
che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o
la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che
muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro,
diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o
diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la
guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai.
Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue
leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di
questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica,
determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del
genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò
che poi fu detto « filosofia della storia ». Di questa filosofia della storia e
di un dritto delle genti non c è nel Machiavelli che la semplice base
scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi
successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia. Questi
concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una
lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel
grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo
l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la
conoscenza e il possesso di se stesso. E ai contemporanei non parvero nuovi nè
audaci, vedendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago.
L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo: anche in Dante
Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma
di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato.
Dante chiama le gloriose imprese della repubblica « miracoli della provvidenza
», come preparazione all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli,
o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà
principalmente alla virtù. Di lui è questo motto profondo: « I buoni ordini
fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle
imprese ». Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto alla quale le
due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante c'è il
misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il nocciolo è
medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito moderno che
ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi tempi, dove «
non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio,
e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono
maculati di ogni ragione bruttura ». Crede con gli ordini e i
costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi
tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti le vestigia di
quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e
una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in
quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del
Risorgimento, con quel suo risolino equivoco. Savonarola è una
reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in
quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale
tra uguali, che ti parla alla buona e al naturale. E' in lui lo spirito ironico
del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni. Il medio
evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa, morale, politica,
intellettuale. E non è solo negazione vuota. E' affermazione, è il verbo. Di
contro a ciascuna negazione sorge un' affermazione. Non è la caduta del mondo:
è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e
l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità
politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla quale il
Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la lingua, la
storia, i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già una
specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli
altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un
presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i
primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in
Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare. Si veda, fra l'altro,
dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi Stati, e sopratutto della
Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla
religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de' due
reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la
profondità dell'ironia. La religione, ricondotta nella sua sfera
spirituale, è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione,
come strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa
nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli interessi della
nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la
santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il
Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno
severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è
la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la
vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I suoi santi sono più
simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O,
per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota. E si
rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli
non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e,
quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal
suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base
l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore
della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso «cogito », nel
quale s'inizia la scienza moderna. E' l'uomo emancipato dal mondo
soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la
sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il
Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce
autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di
etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è
la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata
con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti. Tutto il formolario
scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte
dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali,
sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni
generali, le « maggiori » del sillogismo, sono capovolte, e compaiono in ultimo
come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del
sillogismo hai la «serie », cioè a dire concatenazione di fatti, che sono
insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città di
Firenze... perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre, fu
necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le occupava
era potente, ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun
risultato: dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite,
insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una
magistratura di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con
loro come se fossero cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti
sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una
doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo
intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e
superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte
l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica
la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella
natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi
sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il
suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta
la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione:
sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche
pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo
alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti
intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra
nulla. Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da
un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di
questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di
tutti, com'è quel « ritirare le cose ai loro princìpi », o quell'ironia de' «
profeti disarmati », o « gli uomini si stuccano del bene, e del male si
affliggono », o « gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli ». Di queste
sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un intero arsenale, dove
hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie. Come
esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina,
ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica rovina la
forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era
una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua
«maggiore» e dalle sue idee medie: ciò che dicevasi «dimostrazione », se la
materia era intellettuale, o « descrizione », se la materia era di puri fatti.
Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive
e non dimostra; narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo
uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo
nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto
perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è
tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la
cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o
materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o
bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è
inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e
perciò del sapere, è il « Nosce te ipsum », la conoscenza del mondo nella sua
realtà. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare
sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati
all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento
astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo
motto è: « Nil admirari ». Non si meraviglia e non si appassiona, perchè
comprende; come non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la
cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni,
le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come
ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la diritta:
non si distrae e non distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di
proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti e
tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che «non curat de minimis », di un
uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia di guardarsi attorno.
Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in
Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale chiarezza di visione, che gli
rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno
bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di
cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con
belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli oziosi. La sua
semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è magrezza: difetti
delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e
gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino
latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze. La prosa del
Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione vi
abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del
Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui
espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di
congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione
interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e
scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori.
Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti
gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o
frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo
vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a
Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che
qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti
riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel
tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di
fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la
principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi. Anche
l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza
della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale,
un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo.
I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti
petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico,
con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o
indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di
tutta l'anima. C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu
considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che
dicevasi « forma letteraria », nella piena indifferenza dell'animo: divorzio
compiuto tra l'uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose
rettoriche e poetiche, comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della
prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non c è lo scrittore, o c è solo in quanto
uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere,
ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci
riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato, anche lui. L'uomo è in lui
tutto. Quello che scrive è - una produzione immediata del suo cervello, esce caldo
caldo dal di dentro: cose e impressioni, spesso condensate in una parola.
Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con
lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la
cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò
naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, di indignazione, di
dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è
chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua è là venato. E' la grande maniera
di Dante che vive là dentro. Parlando dei mutamenti introdotti dal
medio evo nei nomi delle cose e degli uomini, finisce così: «Gli uomini ancora,
di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono ». Qui non c è che il
marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le
impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei
Cesari e Pompei il disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel
mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento
in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico "diventarono",
che accenna a mutamenti non solo di nomi ma di animi. Questa prosa,
asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto
già adulto, emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il
supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno.
Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo
concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è: un
attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi
«fato», non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze,
appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da
una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di
Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era
sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola
delle forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare - dice Dante. -
Bisogna intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore,
l'anima del mondo machiavellico è il cervello. Quel mondo è
essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La
virtù muta il suo significato: non è sentimento morale, ma è semplicemente
forzao energia, la tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la
forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva
accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è
tutta e sola cervello. Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue
applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli
avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto
gli par nuovo, tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento
etico, come in Dante, nel Mussato, in tutti i trecentisti. Ma ciò che interessa
il Machiavelli è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e
narra calmo e meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del
mondo. I personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto
dell'azione: non è una storia drammatica. L'autore non è sulla scena nè
dietro la scena, ma è nella sua camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti,
cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo,
inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto
da emozioni e impressioni. E' l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con
compassione a' moti convulsi e nervosi delle passioni. Ne' Discorsi ci è
maggior vita intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per
attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira.
Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne.
Ma, appena finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come
rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali,
sorpreso e contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio
intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano
paradossi. Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non
penetra niente dal di fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel
calore della produzione, tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti
annunzia la fermentazione, come avviene talora anche ai più grandi pensatori.
E' l'intelletto pieno di gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza e
in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti,
paragoni, giri viziosi, perplessità di posizioni: tutto è bandito in queste
serie disciplinate d'idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor d'analisi
insolito e legate da una logica inflessibile. Tutto è profondo, ed è così
chiaro e semplice che ti pare superficiale. Il fondamento dei' Discorsi è
questo: che gli uomini « non sanno essere nè in tutto buoni nè in tutto tristi
», e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno
volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni
tolgono loro la risolutezza. Perciò « stanno » volentieri «in sull'ambiguo», e
scelgono le «vie di mezzo», e «seguono le apparenze ». C è nello spirito umano
uno stimolo o appetito insaziabile, che lo tiene in continua opera e produce il
progresso storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di
un'ambizione a un'altra, e prima si difendono e poi offendono, e più uno ha,
più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono
perplessi e incerti. Quello che degli individui, si può dire anche dell'uomo
collettivo, come famiglia o classe. Nella società non c' è in fondo che due
sole classi: degli « abbienti » e de' «non abbienti», de' ricchi e de' poveri.
E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha.
Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi
quando hanno a fondamento l' « equalità ». Perciò libertà non può essere dove
sono « gentiluomini » o classi privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte
politica non è possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia
su che si ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò
una gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o
delle plebi, degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de'
tedeschi, degli spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per
originalità di osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il
« carattere », cioè quelle forze che muovono individui e popoli o classi ad
operare così o così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria
e immediata, e perciò freschissime e vive anche oggi. Poiché il carattere
umano ha questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole
ed esitante è la virtù di conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi;
onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza
politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione
dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia
intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il
mondo. Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica
all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di
uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa
e più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro.
L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua
immaginazione e dalle sue passioni, com'è proprio del volgo. Un'applicazione di
questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per
frode o per forza tolgono la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro
con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria,
ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso,
provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non
può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza
de' cittadini. Deve mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo,
tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non
ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli: «non ingannato da loro, ma
ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le
buone apparenze, e, non volendo essere, parere almeno religioso, buono,
clemente, protettore delle arti e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto;
perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più
efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare.
Sopratutto eviti di rendersi odioso o spregevole. Chi legge il trattato De
regimine principum di Egidio Colonna, vi troverà un magnifico mondo etico,
senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del
Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo
e della vita. L'uomo vi è, come natura, sottoposto nella sua azione a leggi
immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli
si deve domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole
o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato
dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza. L'Italia non ti
poteva dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in
lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo
dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli
bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà
intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto
senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi
accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da
elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E
il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e
regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere
lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la
voce e protestare in nome del genere umano.Vedasi il capitolo decimo, una delle
proteste più eloquenti che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo,
la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo.
La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la
responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella
fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo.
Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l'intelletto ti dice che pur bisogna andare. Quando Machiavelli
scriveva queste cose, l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con
lo straniero in casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato.
La tempra era rotta. Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti «puzzava il
barbaro dominio»; ma erano solo velleità. E si comprende come il
Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella
sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al
contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli
glorifica la tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia,
intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che
il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. «anima sciocca», che per la sua
incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica. Ma, se in Italia
la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli
poneva a base della vita l'essere « uomo », iniziando l"età virile della
forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello spirito
italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè
a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in
Italia, era ridicolo per questo: che si presentava all'immaginazione come un
esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza serietà di scopo e di mezzi,
la forza come forza, e tutta la forza nei fini più seri e più frivoli: ciò che
rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa. C' erano certo i fini
cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi; ma che
parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che
quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire, di quei cavalieri
foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a Mandricardo,
quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello che aveva
fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse: « fu naturale
ferità di core ». - Lo spirito italiano dunque da una parte metteva in
caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra
gettava la base di una nuova età su questo principio virile: che la forza è
intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò
che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un
secolo. Ma in Italia c'era l'intelligenza e non c'era la forza. E si
credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era
una intelligenza adulta, svegliatissima ma astratta, una logica formale nella
piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per
l'arte. Nella coscienza non c'era più uno scopo nè un contenuto. E quando la
coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca, anche nella
maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato
assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze
indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che
mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità intellettuale e
della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica e non il coraggio che
ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una
idea e risoluti a vivere e a morire per quella. Machiavelli ebbe una
coscienza chiarissima di questa decadenza o, com'egli diceva, «corruttela»: Qui
- scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse nei capi.
Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano
superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno. Pure l'Italia
era corrotta, perchè difettava di forze morali, e perciò di un degno scopo che
riempisse di sè la coscienza nazionale. Di lui è questo grande concetto: che il
nerbo della guerra non sono i danari nè le fortezze nè i soldati, ma le forze
morali o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione
italiana la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui
queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento: "La... religione,
se nei principi della repubblica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal
datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche più unite e
più felici assai ch'elle non sono. Nè si può fare altra maggiore congettura
della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più
propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno
religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto
è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o
il flagello". Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio
paese, ma è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza:
"Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia
oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi
suoi". Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo.
Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in
Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de'
franchi, il regno de' turchi, quello del soldano, e le geste della « setta
saracina », e le virtù « de' popoli della Magna » al tempo suo. Lo spirito
umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la sua
virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più
belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di
altre città italiane, in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo
paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia
vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio
di uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande
elevatezza morale: "Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora
regna non fussero più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto. Ma,
essendo la cosa così manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire
manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli
animi de' giovani, che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e
prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che
per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare,
insegnarlo ad altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più
amati dal cielo possa operarlo". Queste parole sono un monumento. Ci si
sente dentro lo spirito di Dante. Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica
con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è
più indulgente verso i principi: "Questi nostri principi, che erano stati
molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna,
ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano
mutarsi... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a
difendersi". Degli avventurieri De Sanctis scrive: "Il fine
della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa da Carlo, predata da Luigi,
forzata da Ferrando e vituperata dai svizzeri;... tanto che essi hanno condotta
Italia schiava e vituperata". Ne è meno severo verso i gentiluomini,
avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura "
"Gentiluomini" sono chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi
delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare
o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in
ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più perniciosi sono quelli che, oltre
alle predette fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a
loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di
Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai
stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè tali generazioni
d'uomini sono nemici di ogni civiltà". Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna,
che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior nemico della civiltà è
l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi ed ha rovinato dalla radice non
solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato
su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei molti. Un uomo, che
con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza
italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola: "Ond'è che a Carlo, re
di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne
erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che
credeva, ma questi ch'io ho narrati". Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano
tutto con la fortuna o la sfortuna. Anche allora dei mali d'Italia accusavano
la mala sorte. Machiavelli scrive: "La fortuna... dimostra la sua potenza
dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi rivolge i suoi impeti dove sa
che sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete
l'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto,
vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo".
Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un redentore, un
principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la riordini,
persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di uno solo, a
governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un
dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che
nella dittatura: "Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe
desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come
Cesare, ma per riordinarla, come Romolo". Di Cesare -scrive un giudizio
originale rimasto celebre: "Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria di
Cesare, sentendo le massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo
laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza
dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli
scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli
scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono di Catilina. E tanto è
più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto che
quello che ha voluto fare un male. Vedasi pure con quante laudi celebrano
Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano
il nemico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il
mondo abbia con Cesare". Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la
forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo:
"Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro
proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende
gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare
di sè una sempiterna infamia". Invoca egli dunque un qualche amato dal
cielo, che sani l'Italia dalle sue ferite, «e ponga fine... a' sacchi di
Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di
quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite » E' l'idea tradizionale del
redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia politico, il
veltro. Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di
Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero: dove il
salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua
Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di essa era straniero,
barbaro, «oltramontano ». Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da
Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col
Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma. L'idea del
Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile
assegnarne le ragioni. « Patria », « libertà », « Italia », « buoni ordini », «
buone armi », erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun
raggio d'istruzione e di educazione. Le classi colte, ritiratesi da lungo
tempo nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite,
animate dagli interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno
patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua
indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la
spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine,
inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per lungo tempo gl'italiani,
perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi, per bocca dei' loro
poeti, signori del mondo e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli
stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma c'era così poca
fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello
stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio,
per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un
linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le
aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico.
Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' di traverso dai suoi desidèri. Il suo
onore, come cittadino, è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come
pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli
della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un
avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del
presente erano la verità del futuro. Non è meraviglia che il Machiavelli, con
tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione, abbia avuto
illusioni, perchè nella sua natura c'è entrato molto del poetico. Vedilo
nell'osteria giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a « picca »
e a « trie trac »: "E... nascono mille contese e mille dispetti di parole
ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti
nondimanco gridare da San Casciano". Questo non è che plebeo, ma
diviene profondamente poetico nel comento appostovi: "Rinvolto in quella
viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte,
sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne
vergognasse". Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un
Dante, « libertineggiare » con lo spirito, fantasticare, abbandonalo alle onde
dell'immaginazione: "Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio
scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di fango e
di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente entro nelle
antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi
pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi
vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, ed essi
per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna
noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte: tutto mi trasferisco in loro". Quel « trasferirsi in loro », quel «
libertineggiare » sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico,
entusiastico. C'è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato
dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa
della « divina commedia » e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia
è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco il
principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! --- a modo di Giulio. Il
poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione: Quali porte se gli
serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli
opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio? E finisce co' versi del
Petrarca "Virtù contro al Furore prenderà l'arme, e fia il combatter
corto : chè l'antico valore negl'italici cuor non è ancor morto". Ma
furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo
morale e civile e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica
Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un
mondo poetico troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da
quel tipo, troppo simile per molte parti ai suoi contemporanei. Ond'è che la
sua vera musa non è l'entusiasmo: è l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta
con la sagacia dell'osservazione, lo chiariscono uomo del Risorgimento. De'
principi ecclesiastici scrive: "Costoro soli hanno Stati e non li
difendono, hanno sudditi e non li governano, e gli Stati per essere indifesi
non sono loro tolti, e i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè
pensano nè possono alienarsi da loro... Essendo quelli retti da cagione
superiore, alla quale la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne; perchè,
essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo presuntuoso e
temerario il discorrerne". In tanta riverenza di parole, non è difficile
sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi nei
contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell'
osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive: "Il francese ruberia con lo
alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha
rubato. Natura contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi
niente". Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da
questo spirito ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel quale finirono le
sue illusioni e i suoi disinganni. Dopo i primi tentativi idillici, la
commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scriveva
per la corte di Ferrara; il Cardinale di Bibbiena scriveva per le corti di
Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni
dal latino. Talora gli attori erano fanciulli. "Fu pur troppo nuova cosa -
scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella
gravità, quelli gesti così severi, [simular] parassiti e ciò che fece mai
Menandro". Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o
intromesse erano le «moresche», balli mimici. Le decorazioni magnifiche.
"Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un tempio...
tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile a credere
che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie
bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le cornici
d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di marmo...:
colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di
marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In cima
dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello
atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi". L'Italia
si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura,
pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro
intromesse, una «moresca di Iasòn» o Giasone, un carro di Venere, un carro di
Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal
Castiglione: "La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella
scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa
bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero
che alcuni pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A
questi s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro;
e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini
armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono
una fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare, s'ammazzavano
ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn, e
subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando eccellentissimamente. E
questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa. Finita la commedia nacque
sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò con alcune stanze il
significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa di quattro viole, e
poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di
musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la festa, con grande
satisfazione e piacere di chi la vide"; .....dice sempre il
Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad
ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi
Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un
facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone,
rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante
o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e
una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna,
generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il
furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui
pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e
Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come
si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è
antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più
ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è
vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di
Lorenzo de' Medici. E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul mondo. I
caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti
più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili
a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che
quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la
loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta
nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie
dette « d'intreccio », sullo stesso stampo delle novelle. A prima vista, ti
pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche qui vi è grande varietà
d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al
caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha concepito la storia. Il suo
mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che
debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto
nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco.
Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istruito e che sa di
latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina dì lui ma più
pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più profondo che non in
Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la
moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di
vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a
quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua
bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria, risoluto di farla sua.
La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e
rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli ha potuto esercitare
il suo ingegno a scriver commedie? Scusatelo con questo: che
s'ingegna con questi van pensieri fare il suo tristo tempo più
soave, perchè altrove non ave dove voltare il viso; chè gli è
stato interciso mostrar con altre imprese altre virtue, non sendo premio
alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di
malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo
d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da Bibbiena, «
assassinato di amore », e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno
scrivea gli Asolanie l'altro la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto,
ammonendo, consigliando; e non udito e non curato, fece come gli altri: scrisse
commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali. Callimaco,
l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parassito che
usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa,
come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa muovere tutti gli
attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li muove. Ligurio
è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe
Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè Nicia non è Otello. E' un volgare
mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e
spregevole, il peggior tipo di uomo che abbia nel Principe concepito
Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile.
Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste
in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti
riesce volgare e fredda. Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro.
Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce
tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo
ai' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui
freddo: ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria. Colui, che è
dietro la scena e fa ballare i suoi figurini, è Ligurio. E sembra che
l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè e mettere in vista tutto il
suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi
lui di vista. Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete
false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i
deliri. Non è amore petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale
coi colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende
comico "... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte
mi assalta tanto desio d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle
piante dei piè al capo tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si commuovono,
il cuore mi si sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa
muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira". Ma queste sono figure
secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì
sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui
stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie,
concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più
acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta
presunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico
se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene
sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene
c' è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e
moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione,
così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela
inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il
confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa
dell'altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente
ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in poche
pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco criterio, e
avvezza a pensare col cervello del suo confessore. Alle ragioni
della figliuola risponde: - « Io non ti so dir tante cose, figliuola mia. Tu
parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai
consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene». - E non si parte mai di là:
è la sua idea fissa, la sua sola idea: - « Io t'ho detto e ridicoti che, se fra
Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza
pensarvi ». - Il confessore sa perfettamente che madre è questa. - « ... E'...
una bestia - dice - e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia) alle mie
voglie ». Il carattere più interessante è fra Timoteo, precursore
di Tartufo: meno artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa,
della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega
redde poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere
la reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: "Io dissi il
matutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una
lampada ch'era spenta, mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante
volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi
se la devozione manca... Oh quanto poco cervello è in questi miei frati!"
Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: colto sul fatto in un
dialogo con una sua penitente: pittura di costumi profonda della sua semplicità.
Sta spesso in chiesa, perché "in chiesa vale più la sua mercanzia".
E' di mediocre levatura, buono a uccellar donne: " ...Madonna Lucrezia è
savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte le donne hanno poco
cervello; e come n'è una che sappia dire due parole, e' se de predica; perché
in terra di ciechi chi ha un occhio è signore". Conosce bene i suoi polli:
"Le più caritative persone che ci siano son le donne, e le più fastidiose.
Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i
fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele senza le mosche".
Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del mestiere con
la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio, che, promettendo
larga lemosina, gli richiede che procuri un aborto, risponde: - « Sia col nome
di Dio, si faccia ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa...
Datemi... cotesti denari, da poter cominciare a far qualche bene ». -
Parla spesso solo, e sì fa il suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che
gliene venga utile: " Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno
per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che sia segreta,
perchè l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne
pento". Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia "Dio sa
ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio
officio, intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di Ligurio,
che mi fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e
tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforto
che, quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura". Questo è
l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua
industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa
del Vangelo e della storia sacra: "Io son contenta - conclude Lucrezia; -
ma non credo mai esser viva domattina". E il frate risponde: "Non dubitare,
figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol
Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo
misterio, chè si fa sera". "Rimanete in pace, padre" - dice la
madre; e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira "Dio m'aiuti
e la Nostra Donna ch'io non càpiti male". Quel fatto il frate lo chiama un
« misterio », e il mezzano è l'« angiol Raffaello » ! Queste cose movevano
indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia faceva invece
ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso
dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e non vi è rimedio.
Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso del
Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura e
nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non
lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia
ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza
spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo
stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il
poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista. Appunto perciò
la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. E' troppo incorporata
in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei
sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La
depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla
famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue non possiamo farne una
commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui
perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia piuttosto un anatomico
che snuda le carni e mostra i nervi e i tendini. Nella sua immaginazione
non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella
spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o l'avventuriero o il
gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e
descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle
impressioni. La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. E'
un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo
governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più
profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da
forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi per
indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui
premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi
meglio sa calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il meraviglioso, il caso
sono detronizzati. Succede il carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia
e nella politica, è ancora nell'arte. Si distinsero due specie di commedie :
«d'intrecci» e di caratter». «Commedia d'intrecci» fu detta dove l'interesse
nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle di
quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza e nella
complicazione degli accidenti. « Commedia di carattere » fu detta dove l'azione
è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da
una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra
commedie scarne per troppa povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due
qualità. La sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti
e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o
istrumenti e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo,
come forza operante, non come qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il
pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente, fino della più
volgare e cinica buffoneria, come è il « don Cuccù », e la « palla di aloè ».
C'è lì tutto Machiavelli, l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava
allo scrittoio. Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli
una parte è morta: quella per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua
parte più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte
sua vitale, così vitale che è stata detta il «machiavellismo». Anche
oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama
«patria di Dante e di Savonarola», e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo
chiamarci «figli di Machiavelli». Tra il grande uomo e noi c'è il
machiavellismo. E' una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che
parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco. Del Machiavelli è
avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato «petrarchismo » quello che in
lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato
«machiavellismo » quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è
dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così è nato un
Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno interessante. E'
tempo di rintegrare l'immagine. C'è nel Machiavelli una logica formale e
c'è un contenuto. La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò
ch'egli chiama « virtù »: Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi
conseguirlo, è da femmina. «Essere uomo» significa «marciare allo scopo». Ma nella
loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la volontà
intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono
spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose come le paiono e non come
le sono, a quel modo che fa la plebe. Cacciar via dunque tutte le vane
apparenze e andare allo scopo con lucidità di mente e fermezza di volontà,
questo è essere un uomo, aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un
tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento,
è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che riguarda Machiavelli è di vedere se è un
uomo: ciò che mira è rifare le radici alla pianta « uomo », in declinazione. In
questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza,
la paura, l'oscillazione. Si comprende che in questa generalità c'è lezioni per
tutti, per ibuoni e per i birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il
codice dei tiranni e agli altri il codice degli uomini liberi. Ciò che vi
s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la
storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e
calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo,
come essere collettivo o individuo, non è degno di questo nome se non sia anche
esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce
l'età virile del mondo, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione
e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio e con mezzi precisi. Questo è il
concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio
astratto e ozioso: c'è un contenuto, che abbiamo già delineato ne' tratti
essenziali. La serietà della vita terrestre col suo strumento, il lavoro;
col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà;
col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo spirito o il pensiero
umano, immutabile ed immortale; col suo organismo, lo Stato, autonomo e
indipendente; con la disciplina delle forze; con l'equilibrio degl'interessi:
ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui
è di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la
virtù o il carattere: « altere et pati fortia ». Il fondamento scientifico di
questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza e
l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così
perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la scolastica : nasce la
scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. E' il
programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno
realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siano dunque
alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando crolla alcuna parte
dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo
! In questo momento che scrivo (1870), le campane suonano a distesa e
annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere temporale crolla, e si
grida il «viva » all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli ! Scrittore non
solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni politiche discerni
sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antifeudale, civile, moderno. E
quando, stretto dal suo scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe,
protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in
tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il mondo è fatto così, la colpa non è
mia. Ciò che è morto del Machiavelli non e il sistema, è la sua
esagerazione. La sua «patria» mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e
assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo « Stato » non è
contento di essere esso autonomo, ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente.
Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La « ragione di Stato
» ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la «salute
pubblica» le sue mannaie. Fu Stato di guerra, e in quel furore di
lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno.
Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte uscì la libertà di coscienza,
l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la nazionalità. E se
chiamate «machiavellismo» quei mezzi, vogliate chiamare «machiavellismo» quei
fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore: i
fini rimangono eterni. Gloria del Machiavelli è il suo programma; e non è
sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati de' mezzi, i quali la storia
posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu più facile il biasimarli
che sceglierne altri. «Dura lex, sed ita lex ». Certo, oggi il mondo è
migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più tollerati e
produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli:
allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il tradimento, la frode,
le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già
tempi più umani e civili, dove non sono più possibili la guerra, il duello, le
rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica. Sarà l'età
dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che
d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel programma. E quantunque sembri
un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a
maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire. Ma siamo ben lontani dal
Machiavelli. E anche dai nostri tempi. E non è con i criteri di un mondo
nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare
Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della
storia; ma quella è. Nel machiavellismo c'è una parte variabile nella
qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della
coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi,
è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà radicalmente
rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata sulle
qualità immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa
quella teoria, è questo: che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il
calcolo delle forze che muovono gli uomini. E' chiaro che in queste forze c'è
l'assoluto e il relativo; e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutti i
grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è
essenzialmente relativo e variabile. Il machiavellismo, in ciò che ha di
assoluto o di sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e
bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le
leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e
come società. Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze
sociali. Gli inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo
che alla coltura classica unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e
libero. Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero
moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il
machiavellismo sui rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale,
visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico: un mondo
fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul
lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto immediato
del machiavellismo è la storia e la politica emancipate da elementi fantastici,
etici, sentimentali, e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli
studi positivi dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche
e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del
meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale della
conversazione e del discorso. E' l'ultimo e più maturo frutto del genio
toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini, con tutti gli
scrittori politici della scuola fiorentina e veneta; poi Galileo Galilei, con
la sua illustre coorte di naturalisti. Francesco Guicciardini, di pochi anni
più giovane di Machiavelli e di Michelangelo, già non sembra della stessa
generazione. Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e più
corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse
aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia
unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo suo, con una immagine di
governo stretto e temperato, che si avvicina ai presenti ordini costituzionali
o misti. Ma sono semplici desidèri, e non metterebbe un dito a
realizzarli. "Tre cose - scrive - desidero vedere innanzi alla mia
morte; ma dubito che io viva molto, da non vederne alcuna: uno vivere in una
repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia liberata da tutti i
barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi scellerati preti".
Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni,
l'affrancamento del laicato: ecco il programma del Machiavelli, divenuto il
testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte
civile europea. Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi
colte. Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il
ritratto di quella società è il Guicciardini, che scrive: « Conoscere non è
mettere in atto ». Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la
pratica. Pensa come vuoi, ma fai come ti torna. La regola della vita è «
l'interesse proprio », «il tuo particulare ». Il Guicciardini biasima «
l'ambizione, l'avarizia e la mollezza de' preti » e il dominio temporale
ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre « questa caterva di
scellerati ai tempi debiti, a restare o senza vizi o senza autorità » ; ma «per
il suo particulare » è necessitato amare la grandezza de' pontefici e servire
ai preti e al dominio temporale. Vuole emendata la religione in molte
parti; ma non ci si mescola, lui, « non combatte con la religione nè con le
cose che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa forza nella mente
delli sciocchi ». Ama la gloria e desidera di fare «cose grandi ed eccelse »,
ma a patto che non sia «con suo danno o incomodità ». Ama la patria, e, se
perisce, gliene duole, non per lei, perchè « così ha a essere », ma per sè, «
nato in tempi di tanta infelicità ». E' zelante del ben pubblico, ma « non
s'ingolfa tanto nello Stato » da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole
la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè «
mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul popolo
», e, quando la vada male, ti tocca « la vita spregiata del fuoruscito ».
Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che « governano non ti abbiano
in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti». Quelli che altrimenti fanno
sono uomini « leggeri ». Molti, è vero, gridano « libertà », ma « in quasi
tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo ». Essendo il mondo fatto così,
devi pigliare il mondo com'è, e far in modo che non te ne venga danno, anzi la
maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini « savi ». La
corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava
ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della
vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui,
ma c'è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini,
come cose belle e buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto
che sieno conciliabili col tuo « particulare », come dice, cioè col tuo
interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al
sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette sè
francamente tra questi più, che sono i «savi »; gli altri li chiama « pazzi »,
come furono i fiorentini, che « vollero contro ogni ragione opporsi », quando «
i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta », e intende dell'assedio di
Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano
Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana e non
dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella
generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e
non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel
Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché
non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua
saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana
codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del Guicciardini è il suo
particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo
Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso,
morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla
scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo
non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina
predicata e inculcata, è l'arte della vita. Il Guicciardini si crede più savio
del Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con
l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: "Quanto
si ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani! Bisognerebbe avere
una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello
esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionali è tanto
disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un
cavallo". In questo concetto della vita il Guicciardini è di così
buona fede, che non sente rimorso e non mostra la minima esitazione, e guarda
con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che
avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma « per debolezza di
cervello », avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni,
dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui
giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via
l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come dice
il Guicciardini, « ingegno positivo». Perché l'ingegno sia positivo si richiede
la « prudenza naturale », la « dottrina » che dà le regole, l' « esperienza »
che dà gli esempli, e il « naturale buono », tale cioè che stia al reale e non
abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la « discrezione »
o il discernimento, perché è « grande errore parlare delle cose del mondo
indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola, perché quasi
tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si
trovano scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione ». Il vero
libro della vita è dunque « il libro della discrezione », a leggere il quale si
richiede da natura « buono e perspicace occhio ». La dottrina sola non basta, e
non è bene « stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa volere
vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in
speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in
modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di
dotti». L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che « ai volgari
» pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli che
scrivono le cose sopra natura o che non si vedono « e dicono mille pazzie » :
perchè in effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagine ha
servito e serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità. Questa
base intellettuale è quella medesima del Machiavelli: l'esperienza e
l'osservazione, il fatto e lo « speculare » o l'osservare. Nè altro è il
sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma
anche più recisa; e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico
e più conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un illusione a
volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo quando esso le ha di
asino; e lo piglia com'è, e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo
istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella
tua coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il
mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè « gli uomini si
riscontrano ». Stai con chi vince, perchè « te ne viene parte di lode e di
premio ». «Abbi appetito della roba », perchè la ti dà reputazione, e la
povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, « quando sia il caso di simulare,
più facilmente acquisti fede ». Sii stretto nello spendere, perchè « più onore
ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi ». Studia
di « parer buono », perchè « il buon nome vale più che molte ricchezze ». Non
meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i buoni, «
credi poco e fidati poco ». Questo è il succo dell'arte della vita
seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma
il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza
e sull'interesse individuale. E' il codice di quella borghesia italiana,
tranquilla, scettica, intelligente, e positiva, succeduto ai codici d'amore e
alle regole della cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza,
trovò un altro più saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo,
avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il
Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni
e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè si
riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il
Guicciardini usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia. Se guardiamo alla
potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da da mente
italiana. Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica,
sulla quale facevano i loro esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il
Giambullari e gli altri storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da
lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e
non si maraviglia e non si commuove più di nulla. Non ha simpatie o antipatie,
non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi o preconcetti intorno
ai risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto
chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo
turbi o lo svii. E' l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo
notate e che in lui sono egregie: la prudenza naturale, la dottrina,
l'esperienza, il naturale buono e la discrezione. Meravigliosa è
soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere principi nè regole assolute,
e giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità,
quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un
altro; dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste
disposizioni, è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena,
dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli
il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere; e lo
studio dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non
la sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li
vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con
la stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è
il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui fatti. Il motivo
determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagine non meno
degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di
re e di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono
sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà,
l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o
gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica ad
usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che non guardano nel fondo e si
lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come
strumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li muovono con
la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini loro. Lo storico avea
intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei Ricordi, ha la precisione
lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza
che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia
i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore
intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più raggiunto. Ma il
Guicciardini, di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani, aveva
de' preconcetti in letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perchè
ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la
tradizione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto
complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue
prove. Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione e il
Salviati e lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed
educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida
percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del
suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle
pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua
franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e
rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue
orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di
sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori
artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo,
freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo
se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da
un intelletto superiore. La Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal
1494 al 1534. Comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di
Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo
terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo
storico si può chiamare la « tragedia italiana », perchè in questo spazio di
tempo l'Italia dopo un vano dibattersi passa in potestà dello straniero.
Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa
tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano. La
tragedia c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui: le
arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali della guerra. Avvolto fra tanti «
atrocissimi accidenti », sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel
carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge. La
Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la
trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di Lorenzo
divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti generali
preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri pettegolezzi
tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi erbe, piante e
minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia, che li fa
essere così o così. L'uomo vi appare come un essere naturale, che operi
così fatalmente come un animale, determinato all'azione da passioni, opinioni,
interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessità che l'animale
è determinato da' suoi istinti e qualunque essere vivente dalle sue leggi
costitutive. Considerando l'uomo a questo modo, lo storico conserva
quella calma dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo
nella spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo
stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante, perchè la sua azione è
meno spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca
questo concetto della storia: che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni
libero, è determinato da motivi interni o dal suo carattere, e si può calcolare
quello che farà e come riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella
storia naturale. Perciò chi perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a
se stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa
specie di fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui
come una specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi
poco interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui
escono quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato nello studio
dell'ingegno. Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di
fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non
solo gli individui, ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà,
nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che
le passioni, gli interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E
se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo
da imparare nelle sue opere. Indi è che, come carattere morale, il
segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti
elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine;
e, come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una
virtù sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di
partenza nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis. Nel 1512
quando ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da
antica e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e
veniva inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico
perchè tutta l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al
servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva
riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle
vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi
scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva
iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa
col rogo l'avventura savonaroliana) , ottenendo l'incarico di segretario della
seconda Cancelleria . Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul
piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di
acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di
quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e
della nostra indipendenza e lo scontro , sul nostro territorio , delle due
nuove potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò
numerose volte (nel 1500, nel 1504 , nel 10 e nell'11 ), tanto da conoscere
molto bene la struttura di questo stato e da poter analizzare con precisione le
ragioni della forza e del prestigio dei Francesi e, insieme , le cause dei loro
insuccessi. Ma non meno importanti furono le esperienze che egli potè fare
presso Cesare Borgia , l'inquieto spregiudicato e ambizioso figlio naturale del
papa Alessandro VI , che aspirava alla creazione di un forte stato nell'Italia
centrale e minacciava direttamente e indirettamente Firenze. Presso
il Valentino (così era chiamato il Borgia) Machiavelli si recò due volte nel
giugno e nell'ottobre del 1502 in occasione della ribellione della Valle di
Chiana contro il dominio fiorentino ( ribellione fomentata dal Valentino stesso
) e da tali legazioni potè trarre argomento di ammirazione per l'energia,
l'audacia, le capacità diplomatiche di questo signore "molto splendido e
magnifico" che diverrà poi quasi l'incarnazione del suo principe. D'altra
parte egli non fu solo testimone della fortuna del Valentino, ma anche del
crollo di tutte le sue ambizioni , perchè, dopo l'improvvisa morte di
Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III , fu inviato dal governo
fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere all'elezione di
Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua " ultima ruina " . In quella
occasione , e in una successiva legazione nel 1506 , il Machiavelli potè anche
rendersi conto del temperamento del nuovo papa , dell'energia e del "
furore " che lo misero al centro degli avvenimenti politici di quegli anni
. Se si aggiunge che il 1507 il nostro segretario si recò in Germania presso la
corte imperiale ( rimanendovi per oltre sei mesi ) , che nel 1509 assistette
alla resa di Pisa e soprattutto, alla disfatta della maggiore potenza italiana,
Venezia, e che , dal 1506 in poi , negli intervalli fra una legazione e
l'altra, fu incaricato di arruolare e istruire un corpo di truppa cittadina, si
vedrà quanto varia e complessa fosse l'esperienza di Machiavelli. I
problemi di fondo della politica europea gli si erano così progressivamente
chiariti: la necessità di uno stato unitario moderno, la necessità di truppe
non mercenarie, il dramma della divisione italiana e della inettitudine della
nostra classe dirigente. Questi problemi egli era già venuto elaborando in una
serie di scritti minori : Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello
ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca
di Gravina Orsini; Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati;
Parole da dire sopra la provvisione del denaio fatto in loco di pèroemio e di
scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di Firenze in armi; Discorso sopra
l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto delle cose della Magna; Ritratto
delle cose di Francia; il Decennale primo e il Decennale secondo . E' del tutto
comprensibile il cruccio del Machiavelli vedendosi mettere da parte proprio nel
momento in cui era giunto alla sua completa maturità e poteva guardare le cose
dall' alto di una ricchissima esperienza . Ma i Medici furono inflessibili : in
un primo tempo addirittura lo imprigionarono ( e lo torturarono pure ) ,
sospettando che avesse partecipato alla congiura del Boscoli , poi lo tennero
inoperoso per quasi otto anni , sino al 1520 , e infine gli assegnarono qualche
incarico minore : di esprimere un parere a riguardo della costituzione
fiorentina ( e lui scrisse il Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze )
, di narrare la storia della città ( di qui le Istorie fiorentine ) , di andare
come ambasciatore presso la " repubblica degli Zoccoli " , cioè
presso il capitolo dei Frati minori di Carpi . Solo nel 1526 gli
venne affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori
delle mura , preposti alla difesa di Firenze . Ma i Medici vennero di nuovo
scacciati e Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato
da parte. Morì tra il 20 e 22 giugno 1527. Durante gli anni del suo ozio
forzato, Machiavelli si ritirò in una villa presso San Casciano. Qui egli
passava la giornata a caccia di uccelli, o nella lettura dei poeti latini, o
imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste, il mugnaio, il beccaio, o
infine standosene sulla porta dell'osteria e scambiando impressioni e notizie
coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo studio e leggeva le antiche storie
e interrogava gli antichi scrittori: "e non sento per quattro ore di tempo
alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte; tutto mi trasferisco in loro". E' dalle meditazioni che ispira
questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi passanti e i loro
"vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini dell'antichità, che
nascono quasi d'un sol getto (fra il 1512 e il 1520) le grandi opere
machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, i
dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castruccio Castracani, La
Mandragola. Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è
questo che fa grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza
più alta del Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel
suo dramma profondo, e non soltanto - come accadeva al Castiglione e al Bembo -
nei suoi elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire,
nello stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che
lo circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non significa evadere dal
presente. Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi
astratti (anche quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si
pongono sul piano delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e
così via), ma sono problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una
situazione storico-politica concreta, quella dell'Italia nei primi decenni del
sec. XVI Per questo non è la scoperta della categoria dell'utile diversa e
distinta dalla categoria della morale l'elemento caratterizzante del pensiero
machiavelliano: Non già che il problema dell'autonomia della politica, rispetto
alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al
capitolo del principe dedicato a coloro "che per scelleranza sono venuti
al Principato" con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all'esaltazione
del Valentino - ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi
delitti - o al capitolo XVIII della stessa opera dove si pone il problema se i
principi debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando di Agatocle il
Machiavelli sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la
"virtù" - sia pure nella particolare accezione in cui egli usava
questo termine di "energia" e "capacità" - con le
scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli non manifesta più dubbi.
La politica ha alcune leggi che non coincidono sempre con con quella
della morale: essere buono può sovente procurare la "ruina" di un
principe, al contrario, mancare di parola, ingannare, assassinare spesso può
salvare uno stato. Di qui l'accusa di immoralità che gli venne presto rivolta,
e la formula del "fine che giustifica i mezzi" che gli viene
attribuita. In realtà Machiavelli si limita a costatare scientificamente le due
sfere diverse in cui agiscono politica e morale. Si rende conto con chiarezza
dell'autonomia di una rispetto all'altra, non ne individua il punto di
congiunzione. Ma il secondo problema non lo interessava: la "realtà
effettuale" italiana non suggeriva certo un discorso sulla morale. Per
questo l'interesse del Principe si accentra tutto, invece, sulla figura del
"principe nuovo" come la sola che possa sciogliere positivamente la
complessa trama della crisi italiana: anzi fra l' elogio del Valentino e la
condanna di Cesare . Contraddizioni inesistenti se si considera che Il principe
poneva soprattutto il problema della creazione di uno stato nuovo nella
situazione italiana di quel periodo e i Discorsi pongono soprattutto il
problema del mantenimento dello stato , dei suoi ordinamenti migliori . Per la
stessa ragione nei Discorsi al popolo si dà un posto che non ha mai nel
Principe , fino all'affermazione che il popolo é " più prudente , più
stabile e di migliore giudizio che un principe " e che " se i
principi sono superiori a' popoli nello ordinare le leggi , formare vite civili
, ordinare statuti ed ordini nuovi , i popoli sono tanto superiori nel
mantenere le cose ordinate " . Così Machiavelli può arrivare a una
stupefacente scoperta che sembra preludere alle concezioni politiche moderne :
che cioè le lotte fra patrizi e plebei non indebolirono Roma , ma le permisero
di raggiungere ordinamenti sempre più perfetti . Insomma nei Discorsi l'
argomentazione é più distesa e distaccata e può , quindi , abbracciare un campo
più vasto anche se meno omogeneo . Così Machiavelli può riprendere il discorso
sulla religione non tanto considerandola uno strumento del potere costituito ,
quanto un costume morale che regola i rapporti civili fra i cittadini come
individui privati e , di conseguenza , rende più ordinati e stabiliti i
rapporti fra il cittadino e lo stato . Può riprendere anche il discorso sulle
milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi , ripudiando in questo modo
definitivamente il concetto di città - stato e sostenendo la necessità di uno
stato con una larga base territoriale . Tale collegamento alle cose e il
carattere di ricerca della sua speculazione si rivelano pienamente " nella
prosa e nello stile stesso " del segretario fiorentino , in " questo
tipo nuovo e liberale di prosa " in cui la sintassi " é già
consapevole della sua libertà ed individualità " e il " ragionamento
a piramide degli scolastici " cede il posto al " ragionamento a
catena " della prosa scientifica moderna . Il lettore ha costantemente l'
impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare a un laborioso
processo di ricerca , irto di dubbi e di contraddizioni . La prosa
del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che squaderna agli
occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era in possesso ;
essa piuttosto sollecita a provoca il lettore , cui si rivolge , di frequente ,
con un " tu " perentorio e aggressivo , a farsi compagno e sodale del
suo autore , lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di questo . In tal
senso la prosa di Machiavelli é eminentemente moderna . E quando d' improvviso
il periodare serrato e incalzante del segretario fiorentino s' impenna e si
apre in una di quelle rappresentazioni o formule condensate e chiarissime che
sono tipiche della sua opera , il lettore ha la sensazione di assistere al
germinare di un' intuizione nuova preparata e resa possibile da un lungo e
penoso lavoro intellettuale , si sente partecipe della gioia della scoperta e ,
al tempo stesso , stupito della semplicità rivoluzionario della medesima .
Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una realtà mortificante , la " ruina
d' Italia " , nelle sue istituzioni comunali o signorili , nei costumi dei
suoi principi , nell' avvilimento del popolo . Di qui il pessimismo della sua
intelligenza , quel contemplare distaccato e disgustare un mondo sordido e
canagliesco , impastato di bassi appetiti , di astuzie meschine , di stupidità
e di ingordigia che sta al fondo della Mandragola , il capolavoro del teatro
del '500 . Egli , però , ha compreso l' importanza delle grandi formazioni di
stati unitari verificatisi in Europa , sa che in questa direzione si muove la
storia e il progresso ed é consapevole che il grande patrimonio della civiltà
italiana potrebbe esprimere il principe capace di imprimere un suggello su
quella materia informe e corrotta . Machiavelli non è un puro teorico ,
inteso a costruire freddamente una teoria politica per così dire " in
laboratorio " : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la
realtà storica , in cui egli é impegnato in prima persona grazie agli incarichi
che ricopre nella Repubblica fiorentina , e mirano a loro volta ad incidere in
quella realtà , modificandola secondo determinate prospettive . Il suo pensiero
si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi : la teoria nasce
dalla prassi e tende a risolversi in essa . Alla base di tutta la riflessione
di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che l' Italia
contemporanea sta attraversando : una crisi politica , in quanto l' Italia non
presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori
potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e
cittadini deboli e instabili ; crisi militare , in quanto si fonda ancora su
milizie mercenarie e compagnie di ventura , anzichè su eserciti "
cittadini " , che soli possono garantire la fedeltà , l' ubbidienza , la
serietà di impegno ; ma anche crisi morale , perchè sono scomparsi , o comunque
si sono molto affievoliti , tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un
vivere civile , e che per Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall'
antica Roma , l' amore per la patria , il senso civico , lo spirito di
sacrificio e lo slancio eroico , l' orgoglio e il senso dell' onore , e sono
stati sostituiti da un atteggiamento scettico e rinunciatario , che induce ad
abbandonarsi fatalisticamente al capriccio mutevole della fortuna , senza
reagire e senza lottare . Perciò , come hanno dimostrato le guerre che si
sono succedute dopo la calata dei Francesi nel 1494 , gli Stati italiani sono
prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire satelliti delle
potenze europee che si stanno disputando il territorio della penisola .
Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così straordinaria "
gravità de' tempi " é un principe dalla straordinaria "virtù"
capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle
genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da
contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini . A questo obiettivo
storicamente concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di
Machiavelli , la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio
di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio
paese . Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano
porterebbe a travisarne completamente il senso . Tuttavia quel
pensiero non resta limitato a quel campo così contingente , poichè altrimenti
non avrebbe la forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella
situazione particolare , cercando di dare una risposta immediata ed efficace a
quei problemi di traumatica urgenza , Machiavelli elabora una teoria che aspira
ad avere una portata universale , a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e
tutti i luoghi . Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore
, quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere
uno straordinario valore letterario , ma poi la sua speculazione assume anche
la fisionomia di una vera teoria scientifica . Concordemente
Machiavelli é stato definito come il fondatore della moderna scienza politica:
innanzitutto egli determina nettamente il campo di questa scienza ,
distinguendolo da quello di altre discipline che si occupano ugualmente dell'
agire dell' uomo , come l' etica . Machiavelli , poi , rivendica vigorosamente
l' autonomia del campo dell' azione politica : essa possiede delle proprie
leggi specifiche , e l' agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in
base a tali leggi : occorre cioè , nell' analisi dell' operato di un principe ,
valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere
propri della politica , rafforzare e mantenere lo Stato , garantire il bene dei
cittadini . Ogni altro criterio , se il sovrano sia stato giusto e mite o
violento e crudele , se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data , non
é pertinente alla valutazione politica del suo operato . E' una teoria di
sconvolgente novità , veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura
occidentale . Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che
avviene realmente nella politica , non di delineare degli Stati ideali "
che non si sono mai visti essere in vero " . Proclama infatti di voler
andar dietro alla " verità effettuale della cosa " anzichè all'
" immaginazione di essa " , proprio perchè non gli interessa mettere
insieme una bella costruzione teorica , ma scrivere un' opera " utile a
chi la intenda " , fornire uno strumento concettuale di immediata
applicabilità alla politica reale e di sicura efficacia . Oltre al campo
autonomo su cui applica la nuova scienza , Machiavelli ne delinea chiaramente
il metodo . Esso ha il suo principio fondamentale nell' aderenza alla "
verità effettuale " : proprio perchè vuole agire sulla realtà ne deve
tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica parte sempre dall'
indagine sulla realtà concreta , empiricamente verificabile , mai da assiomi
universali e astratti . Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può
poi giungere a costruire principi generali . L' esperienza per Machiavelli può
essere di due tipi : quella diretta , ricavata dalla partecipazione personale
alle vicende presenti , e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi
. Machiavelli le definisce ( nella dedica del Principe ) rispettivamente
" esperienza delle cose moderne " e " lezione delle antique
" . In realtà si tratta solo apparentemente di due forme diverse perchè
studiare il comportamento di un politico contemporaneo o di uno vissuto cento
anni fa é la stessa cosa , cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati ,
dell' informazione su cui lavorare , ma il contenuto é lo stesso . Alla base di
questo modo di accostarsi alla storia vi é una concezione tipicamente
naturalistica : Machiavelli é convinto che l' uomo sia un fenomeno naturale al
pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non variino nel tempo , come
non variano il corso del sole e delle stelle . Per questo ha
fiducia nel fatto che , studiando il comportamento umano attraverso le fonti
storiche o l' esperienza diretta , si possa arrivare a formulare delle vere e
proprie leggi di validità universale . Proprio per questo la sua storia é
costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la prova che il
comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi può essere di
modello . Per lui gli uomini " camminano sempre per vie battute da altri
" , perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell'
imitazione : Machiavelli nota che ai suoi tempi l' imitazione degli antichi é
pratica costante nelle arti figurative , nella medicina , nel diritto e depreca
quindi che lo stesso non avvenga nella politica . Da questa visione
naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell'
agire politico , che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici
rispondono necessariamente e quindi sappia suggerire le sicure linee di
condotta statistica . Il punto di partenza per la formulazione di tali leggi é
una visione crudamente pessimistica dell' uomo come essere morale : l' uomo
agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne teorizza filosoficamente le cause
, non indaga se lo sia per natura o in conseguenza ad una colpa originariamente
commessa , ma si limita a constatare empiricamente gli effetti della sua
malvagità sulla realtà . Gli uomini sono " ingrati , volubili , simulatori
e dissimulatori , fuggitori de' pericoli , cupidi di guadagno " e
dimenticano più facilmente l' uccisione del padre che la perdita del patrimonio
: la molla che li spinge é l' interesse materiale e non sono i valori
sentimentali disinteressati e nobili . Tra tanti uomini malvagi il principe non
deve nè può " fare in tutte le parti la professione di buono " perchè
andrebbe incontro alla rovina : deve anche sapere essere " non buono
" laddove lo richiedano le necessità dello Stato . Il vero politico agli
occhi di Machiavelli deve essere un centauro , ossia un essere metà uomo e metà
animale , deve cioè essere umano o feroce come una bestia a seconda delle
situazioni . Tuttavia Machiavelli sa bene come il venir meno alla
parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un principe siano cose
ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente é malvagio in
politica diventa buono , perchè uccide per difendere lo Stato e le sue
istituzioni ; allo stesso modo i " buoni " moralmente sarebbero
" cattivi " politicamente perchè non uccidendo e non compiendo azioni
malvagie lascerebbe perire lo Stato . Machiavelli quindi non é il fondatore di
una nuova morale , anzi , moralmente parlando é un tradizionalista e considera
" cattivo " chi uccide o non mantiene la parola data ; egli
semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su altri
criteri , non il bene o il male , ma l' utile o il danno politico . E'
interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe
é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene , in favore dello Stato ; tiranno ,
invece , é chi li usa senza che ci sia necessità . E' solo lo Stato che può costituire
un rimedio alla malvagità dell' uomo , al suo egoismo che disgregherebbe ogni
comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle altre
. Per quel che riguarda il rapporto con la religione , a Machiavelli non
interessa nella sua prospettiva concettuale , come contenuto di verità , nè
tanto meno nella sua dimensione spirituale , come garanzia di salvezza , ma
solo ed esclusivamente come " instrumentum regni " , ossia come
strumento di governo . La religione , in quanto fede in certi principi comuni ,
obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la parola data :
questa era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi degli antichi
Romani , secondo Machiavelli . Tuttavia nei Discorsi Machiavelli muove anche un
biasimo alla religione , accusandola di essere spesso stata colpevole di
rendere gli uomini miti e rassegnati , di far sì che essi svalutassero le cose
terrene per guardare solo al cielo . La forma di governo che meglio compendia
in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella repubblicana , che argina e
disciplina le forze anarchiche dell' uomo . Il principato é per Machiavelli una
forma d' eccezione e transitoria , indispensabile solo in certi momenti , come
quello che l' Italia sta vivendo ai suoi tempi , per costruire uno Stato
sufficientemente saldo . La forma repubblicana é la migliore perchè non si
fonda su un solo uomo , ma ha istituzioni stabili e durature. Dall' esilio
dell' Albergaccio , Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto
un " opuscolo de principatibus " , in cui si trattava " che cosa
é principato , di quale spetie sono , come e' si mantengono , perchè e' si
perdono " . L' indicazione fissa il momento in cui l' opera può dirsi
compiuta , ma lascia aperti altri problemi di datazione : in quale periodo sia
stata composta , se sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse e
soprattutto quali siano i rapporti che legano ai " Discorsi sopra la prima
deca di Tito Livio " . Oggi gli studiosi tendono a collocare la
composizione in una stesura di getto , mentre si ritiene che posteriormente sia
stata scritta la dedica a Lorenzo de' Medici e probabilmente anche il capitolo
finale che , nel suo carattere di appassionata esortazione a liberare l' Italia
dai " barbari " , sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo
del resto del trattato . Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é
pensato che la stesura di tale opera sia iniziata precedentemente e sia stata
interrotta nel luglio per far posto alla composizione del trattatello , che
rispondeva a bisogni di maggiore urgenza , agganciandosi direttamente ai
problemi attuali della situazione italiana . Il Principe é un'
operetta molto breve , scritta in forma concisa e incalzante , ma densissima di
pensiero . Si articola in 26 capitoli , di lunghezza variabile , che recano dei
titoli in latino come era usanza dell' epoca . La materia é divisa in diverse
sezioni . I capitoli I - XI esaminano i vari tipi di principato e mirano a
individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo ,
conferendogli forza e stabilità . Machiavelli distingue tra principati
ereditari ( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi ultimi a loro
volta possono essere misti , aggiunti come membri allo Stato ereditario di un
principe o del tutto nuovi; a loro volta questi possono essere conquistati con
la virtù e con armi proprie ( capitoli IV - V ) , oppure basandosi sulla
fortuna e su armi altrui ( capitolo VII , in cui si propone come esempio il
duca Valentino ) . Il capitolo VIII tratta di coloro che giungono al principato
attraverso scelleratezze , e qui Machiavelli distingue tra la crudeltà "
bene e male usata " : la prima é quella impiegata solo per stati di
assoluta necessità e che si converte nella maggiore utilità possibile per i
sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il tempo anzichè cessare ed
é compiuta per l' esclusivo vantaggio del tiranno . Machiavelli affronta
il principato " civile " , in cui cioè il principe riceve potere dai
cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei
principati e nell' XI si tratta dei principati ecclesiastici , in cui il potere
é detenuto dall' autorità religiosa , come nel caso dello Stato della Chiesa .
I capitoli XII - XIV sono dedicati al problema delle milizie : Machiavelli
giudica negativamente l' uso degli eserciti mercenari ( cosa che per altro
aveva fatto già Petrarca ) , abituale nell' Italia del tempo , perchè essi
combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle
cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte
subite nelle recenti guerre ; di conseguenza , per lui , la forza di uno Stato
consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie , su un esercito
composto dagli stessi cittadini in armi , che combattano per difendere i loro
averi e la loro vita stessa . Machiavelli tratta dei modi di comportarsi del
principe con i sudditi e con gli amici . E' questa la parte in cui il
rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente é più radicale e
polemico , in cui Machiavelli , anzichè esibire il catalogo delle virtù morali
che sarebbero auspicabili in un principe va dietro alla " verità
effettuale della cosa " : poichè gli uomini sono malvagi , avidi ,
mancatori della fede e violenti , il principe che é costretto ad agire tra loro
non può seguire in tutto le leggi morali , ma deve imparare anche ad essere
" non buono " , dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al
fine , che é vincere e mantenere lo Stato : i mezzi se vincerà saranno sempre considerati
onorevoli . Sono questi i capitoli che hanno immediatamente suscitato più
scalpore , ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l' esecrazione e la
condanna . Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani ,
nella crisi successiva al 1494 ( il crollo della libertà italiana ) hanno perso
i loro Stati . La causa per lo scrittore é essenzialmente l' " ignavia
" dei principi , che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la
tempesta che si preparava ( solo Savonarola aveva avuto l' intuizione ) e porvi
i necessari ripari . Di qui scaturisce naturalmente l' argomento del capitolo
XXV , il rapporto tra virtù e fortuna , cioè la capacità , che deve essere
propria del politico , di porre argini alle variazioni della fortuna , paragonata
a un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti
e gli abitati . L' ultimo capitolo é , come accennato , un' appassionata
esortazione ad un principe nuovo , accorto ed energico , che sappia porsi a
capo del popolo italiano e liberare l' Italia dai barbari . (il testo
sopra è di F. - visitate il suo sito di filosofia )
.filosofico.net/filos1.html ANDIAMO ALL'ARTICOLO di Pellegrino.
Mangieri IL PENSIERO POLITICO DI MACHIAVELLI OPPURE SE L'AVETE GIA
LETTA ANDIAMO ALLORA DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE IL
PRINCIPE > > HOME PAGE STORIOLOGIA. Grice: “When I created
Deutero-Esperanto, I felt like the principato senza il principe!” --. Michele
Ciliberto. Keywords: il principe, intelletuale fascista, lessico, lessico di
Bruno, lessico di grice, lessico filosofico europeo, umbra profunda,
implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il libero, despotismo,
immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto
su studi sul rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica
italiana, democrazia rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e
Ciliberto sulla rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi
costituenti. Il barone della camera alta del parlamento, parlamento ed
implicamento, il team di cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra
quello che Inghilterra non puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool Library. Ciliberto.
Grice
e Cilone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone).
According to Giamblico. C. seeks to join the circle of Pythagoras. He is
rejected because Pythagoras sees in him a tendency to violence and tyranny. In
response, C. leads the people of Crotone in a campaign against the sect -- as a
result of which Pythagoras has to decamp to Metaponto. “At least he left with
his judgment vindicated – Pythagoras did.” Archita said. Cilone.
Grice e Cimatti: l’implicatura
conversazinale del pooh-pooh and other products -- il non-naturale -- fondamenti
naturali della comunicazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “I like Cimatti – for one, he develops a biological
semiotics, and he takes seriously the issue that man IS an animal -- -- and has
thus philosophised on animality!” Si laureato sotto Mauro con “La communicazion
animale” -- Insegna ad Arcavacata di Rende. Altre opere: “Linguaggio ed
esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale e Librario); “La scimmia che si
parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell'animale umano” (Bollati
Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio Prodi,
Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani” (Editori
Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica
cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo”
(Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita. Elementi di filosofia per Scienze
della comunicazione,Carocci); “Il volto e la parola. Per una psicologia
dell'apparenza, Quodlibet, Il possibile
ed il reale. Il sacro dopo la morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino
Filosofico. Linguaggio ed emozioni” (Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le
ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente comunisti. Politica, linguaggio
ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che verrà. Biopolitica per Homo
sapiens,, ombre corte, Filosofia della psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno
passi” (Quodlibet); Filosofia dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e
psicoanalisi” (Quodlibet); “A come Animale: voci per un bestiario dei
sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio e pulsione di morte,
Quodlibet); Filosofia del linguaggio:
storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot, La psicoanalisi e
l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per una filosofia del
reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il linguaggio” (Orthotes,
Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata); “La fabbrica del ricordo
(Il Mulino). Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione
convenzionalelnaturale6 permet te di distinguere anche tra il linguaggio umano
e i suoni emessi dagli animali, questi ultimi essendo, per altro, ugualmente
vocali e interpretabili. Già la nozione di "voce" (phone) presenta
alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono può
essere definito una "voce" quando è emesso da un essere animato ed è
dotato di significato -- semantikos. Ora, un suono emesso da un animale non
umano, per quanto definito psophos (''rumore" – cf. gemito, riso, pianto),
ha tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalla voce
emessa da un uomo sono due fattori: non è “convenzionale” -- e di conseguenza
non può essere né simbolo né nome -- ma è "per na tura" (De int.); ed
è “a-grammatos”, cioè "inarticolabile" o "non combinabile"
(Pot.). La nozione di combinabilità, del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue,
è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui
suoni semplici -- adiafretoi, "invisibili" -- possono articolarsi in
unità più grandi dotate di significato. L’animale non umano, invece, emette
solo un suono indivisibile, ma non combinabili (Pot). Si possono illustrare
riassuntivamente i caratteri del linguaggio umano in contrapposizione al suono
emesso dall’animale non umano, attraverso il seguente schema: linguaggio umano
- per convenzione - elementi indivisibili combinabili e elementi divisibili -
lettere - elementi dotati di significato - simboli - nomi suoni degli animali -
per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che
rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi. Si deve rilevare, tra
l'altro, che la semanticità del suono emesso dall’animale non umano è espresse
dal verbo dlofìsi (''rivelano", De int.), fatto che conferma l'idea che
per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del suono
da un animale, torna di nuovo in primo piano il carattere SEMIOTICO –
SEMANTICO d'una espressione. Il suono dell’animale è SINTOMO che rivela la loro
causa. IDel resto, l'opposizione convenzionale/naturale permette di
distinguere anche tra il linguaggio umano e il suono (vox, Grice’s ‘sound’,
‘groan’) emesso dall’animale, questo ultimo essendo, per altro, ugualmente
vocale (vox, vocatum, ‘sound’ – the characterization of a product, groan) e
interpretabile. Già la nozione di "voce" (phone, vox – cf. Grice’s
‘sound’ ‘characterisation of a product’, groan) presenta alcune interessanti
particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono – cf. il ‘sound’ di Grice –
‘I shall use utterance to include the characterization of a product (e.g. a
sound)] può essere definito una "voce" [phone, vox] quando: (i) sia
emesso da un essere animato (II); (ii) sia dotato di significato (semantikos)
(Il, 420 b, 29-33). Ora, un suono emesso da un animale, per quanto definito psophos
(''rumore"), ha tuttavia le due precedenti caratteristiche. Ciò che li
distingue dalls voce emesse dagli uomini sono due fattori: (i) il suono no e convenzionale
(e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma è "per natura"
phusei (De int., 16 a, 26-30); (ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili"
o "non combinabili" (ibidem, e Poet., 1456 b, 22-24). La nozione di
"combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e
sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, il
cui suono (‘sound’) semplice (“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi
in unità più grandi dotate di significato. L’animale, invece, emette solo un suono
(Grice’s ‘sound’) in-divisibili, ma non combinabili (Poet., 1465 b, 22-24). Si
possono illustrare riassuntivamente i caratteri di una lingua come il inglese linguaggio
umano in contrapposizione al repertorio di suoni emessi da un animali,
attraverso uno schema. Lnguaggio umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per
convenzione, or decisione. II. Formato di questo o quello elemento in-divisibile
ma combinabile e questo o quello elemento divisibili – fonema, lettere (cfr.
Grice: utterer’s meaning, sentence-meaning, word-meaning – below the word –
meaning), di questo o quello elemento dotato di significato - simbolo – nome.
Questo o quello suono di questo o quello animale: I. per natura. II. Elemento
in-divisibili MA non combinabili - non lettere – elemento che rivela o
manifesta (deloflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra
l'altro, che la semanticità di un suono emessi da un animali è espressa dal
verbo delofìsi (''rivelare", De int., 16 a, 28), fatto che conferma
l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o la
decisione razionale (Deutero-Esperanto), come nel caso del repertorio
comunicativo di un animale, torna di nuovo in primo piano il carattere
semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un animale e un sintomo
o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una affettazione dell’anima. The
Bow-Wow Theory. According to the bow-bow theory theory, language began when our
ancestors started imitating the natural sounds around them. The first speech
was onomatopoeic—marked by echoic words such as moo, meow, splash, cuckoo, and
bang. What's wrong with this theory? Relatively few words are
onomatopoeic, and these words vary from one language to another. For instance,
a dog's bark is heard as au au in Brazil, ham ham in Albania, and wang, wang in
China. In addition, many onomatopoeic words are of recent origin, and not all
are derived from natural sounds. The Ding-Dong Theory The
ding-dong theory, favoured by Plato and Pythagoras, maintains that speech arose
in response to the essential qualities of objects in the environment. The
original sounds people made were supposedly in harmony with the world around
them. What's wrong with this theory? Apart from some rare instances
of sound symbolism, there is no persuasive evidence, in any language, of an
innate connection between sound and meaning. The La-La Theory The
Danish linguist Otto Jespersen put forward the la-la theory. He suggests that
language may have developed from sounds associated with love, play, and
(especially) song. What's wrong with this theory? As David Crystal
notes in "How Language Works" (Penguin, 2005), this theory still
fails to account for "... the gap between the emotional and the rational
aspects of speech expression... ." The Pooh-Pooh Theory The
pooh-pooh theory holds that speech begins with an interjection – a spontaneous
cry or GROAN of (naturally meaning) pain ("Ouch!"), surprise
("Oh!"), and other emotions ("Yabba dabba do!").
What's wrong with this theory? No language contains very many
interjections, and, Crystal points out, "the clicks, intakes of breath,
and other noises which are used in this way bear little relationship to the
vowels and consonants found in phonology." The Yo-He-Ho Theory
According to the yo-he-ho theory, language evolves from the grunt, the groan,
and a snort evoked by heavy physical labour. What's wrong with this
theory? Though this
notion may account for some of the rhythmic features of the language, it
doesn't go very far in explaining where words come from. Wikipedia
Ricerca Origine del linguaggio umano come, dove, quando e perché è nato il
linguaggio Lingua Segui Modifica L'origine del linguaggio umano è un argomento
che ha attratto una considerevole attenzione nel corso della storia dell'uomo.
L'uso della lingua è uno dei tratti più cospicui che distingue l'Homo sapiens
da altre specie. A differenza della scrittura, l'oralità non lascia tracce
evidenti della sua natura o della sua stessa esistenza, perciò, i linguisti
devono ricorrere a metodi indiretti per decifrare le sue origini. Secondo
la Genesi, la grande varietà di lingue umane si originò dalla Torre di Babele
con la confusione delle lingue (immagine dalla Bibbia illustrata di Gustave
Doré). I linguisti si trovano d'accordo che non ci sono lingue primitive
esistenti, e che tutte le popolazioni umane moderne usano lingue di simile
complessità[senza fonte]. Mentre le lingue esistenti si differenziano nei
termini della grandezza e dei temi del proprio lessico, tutte possiedono la
grammatica e la sintassi necessarie, e possono inventare, tradurre e prendere
in prestito il vocabolario necessario per esprimere l'intera gamma dei concetti
che i parlanti vogliono esprimere[1][2]. Tutti gli esseri umani possiedono
abilità linguistiche simili e relative strutture biologiche preposte innate, ma
nessun bambino nasce con una predisposizione biologica ad imparare una data
lingua invece di un'altra[3]. Le lingue umane potrebbero essere
emerse con la transizione al comportamento umano moderno circa 164 000 anni fa
(Paleolitico superiore). Una supposizione comune è che il comportamento umano
moderno e l'emergere della lingua siano coincisi e fossero dipendenti l'uno
dall'altro, mentre altri spostano indietro nel tempo lo sviluppo della lingua a
circa 200 000 anni fa, al momento in cui apparvero le prime forme di Homo
sapiens arcaico (Paleolitico medio), o addirittura al Paleolitico inferiore, a
circa 500 000 anni fa. Tale questione dipende dal punto di vista sulle abilità
comunicative dell'Homo neanderthalensis. In tutti i casi, è necessario
presumere un lungo stadio di pre-lingua, tra le forme di comunicazione dei
primati superiori e la lingua umana completamente sviluppata. L’origine
del linguaggio negli studi di Schelling e GrimmModifica Il problema
dell’origine del linguaggio fu una tematica fondamentale del Romanticismo.
Schelling (filosofo dell’idealismo) e J. Grimm (glottologo, grammatico e autore
di fiabe insieme al fratello) sono due autori che hanno due posizioni
differenti sull’origine del linguaggio. Schelling, nel suo testo, parla di tre
ipotesi fondamentali: Ipotesi teologica, secondo la quale il linguaggio
ha origine divina e viene tramandato di generazione in generazione. Ipotesi
istinto-naturalistica, secondo la quale il linguaggio ha avuto origine grazie
all’istinto, che è una qualità innata dell’uomo. Ipotesi secondo la quale
l’uomo ha imparato a parlare progressivamente: partendo, cioè, dall’urlo e dai
gesti, l’uomo è andato a mano a mano costruendo il linguaggio. Il testo di
Schelling rimane però indefinito, non arriva cioè ad una conclusione. Il testo
di Grimm[5] è stato scritto in contrapposizione al testo di Schelling: egli
parte nell’analizzare l’ipotesi teologica, suddividendola in due sottoipotesi,
una secondo cui il linguaggio è stato creato insieme alla creazione dell’uomo
ed una quella secondo la quale il linguaggio è successivo alla creazione
dell’uomo. Entrambe fanno comunque giungere alla conclusione che la lingua
appartiene solo alla specie umana e che il linguaggio sia una conquista
dell’uomo. La lingua è una conseguenza del pensiero ed inizia nei bambini
insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il linguaggio nella sua evoluzione,
suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è quello delle prime produzioni
vocali, formate da una sillaba. Nel secondo stadio vi è il passaggio dai
monosillabi a parole composte da più sillabe e la composizione del linguaggio
non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è in grado di esprimere
pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel terzo stadio, migliora
sempre di più e si possono esprimere liberamente i propri pensieri[7]. Grimm
conclude affermando la grande complessità del tema riguardo all’origine del
linguaggio e riconosce che il linguaggio è una proprietà fondamentale dell’uomo
strettamente connessa con il pensiero. Parola e linguaModifica I
linguisti fanno distinzione tra il parlare, il discorso e la lingua. Il parlare
comporta la produzione di suoni dall'apparato fonatorio. I volatili parlanti,
come alcuni pappagalli, sono capaci di imitare parole umane. Ad ogni modo, quest'abilità
di imitare i suoni umani è molto diversa dall'acquisizione di una sintassi.
D'altro canto, i sordi generalmente non usano il discorso parlato, ma sono in
grado di comunicare usando la lingua dei segni, che viene considerata una
lingua moderna, complessa e pienamente sviluppata. Ciò implica che l'evoluzione
delle lingue umane moderne richiede sia lo sviluppo dell'apparato anatomico per
produrre foni sia specifici mutamenti neurologici necessari a sostenere la
lingua stessa. Comunicazione animaleModifica Sebbene tutti gli animali
usino una qualche forma di comunicazione, i ricercatori generalmente non
classificano questa comunicazione come una lingua. Ad ogni modo, il sistema di
comunicazione di alcune specie animali condivide alcune caratteristiche con le
lingue umane. I delfini, ad esempio, sono in grado di comunicare come gli
esseri umani, chiamandosi per nome. Linguaggi dei primatiModifica Non si sa
molto a proposito della comunicazione tra i primati superiori nell'ambiente
naturale. La struttura anatomica della loro laringe non permette alle scimmie,
come ai bambini, di produrre la maggior parte dei suoni di cui sono capaci gli
esseri umani. In cattività è stata insegnata alle scimmie una rudimentale
lingua dei segni e l'uso dei lessigrammi — cioè simboli astratti corrispondenti
a una parola del vocabolario - e l'uso delle tastiere. Alcune scimmie, come
Kanzi, sono riuscite ad imparare ed usare correttamente centinaia di
lessigrammi. Le aree di Broca e di Wernicke nel cervello dei primati sono
responsabili del controllo dei muscoli della faccia, della lingua, della bocca
e della laringe, così come di riconoscere i suoni. I primati sono noti per le
loro "grida vocali", che vengono generate dai circuiti neurali
presenti nella corteccia cerebrale e nel sistema limbico. Nell'ambiente
naturale, la comunicazione tra le scimmie Chlorocebus è stata la più
studiata[9]. Esse sono note per la produzione di dieci differenti
vocalizzazioni. Molte di queste vengono utilizzate per avvertire gli altri membri
del gruppo di predatori in avvicinamento ed includono un "grido del
leopardo", un "grido del serpente" ed un "grido
dell'aquila". Ogni allarme mette in moto una diversa strategia difensiva.
Gli scienziati sono stati in grado di ottenere risposte prevedibili dalle
scimmie usando altoparlanti e suoni pre-registrati. Le altre vocalizzazioni
vengono probabilmente usate per l'identificazione. Se un cucciolo di scimmia
grida, la madre si gira verso di lui, ma le altre scimmie si girano verso la
madre per osservare quel che essa fa[10]. Antichi ominidiModifica C'è una
speculazione considerevole sulle capacità linguistiche degli antichi ominidi.
Alcuni studiosi ritengono che l'avvento della postura eretta, circa 3,5 milioni
di anni fa, abbia apportato importanti cambiamenti al cranio umano, formando un
tratto vocale più a forma di L. La forma di tale tratto ed una laringe
relativamente bassa nel collo sono requisiti necessari per produrre molti dei
suoni che si producono nelle lingue umane, soprattutto le vocali. Altri
studiosi invece credono che, basandosi sulla posizione della laringe, neanche i
neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria a produrre l'intera gamma di
suoni delle lingue dell'Homo sapiens. Un altro punto di vista considera invece
irrilevante l'abbassamento della laringe per lo sviluppo della parola. Una
proto-lingua assoluta, così come definita dal linguista Derek Bickerton, è una
forma di comunicazione primitiva, a cui manca: una sintassi pienamente
sviluppata; tempo, aspetto, verbi ausiliari, ecc.; un vocabolario chiuso (cioè
non lessicale). In breve, si tratterebbe di uno stadio nell'evoluzione del
linguaggio intermedio tra il linguaggio dei primati superiori e le lingue umane
moderne pienamente sviluppate. Le caratteristiche anatomiche come il
tratto vocale a forma di L erano in continua evoluzione, piuttosto che apparire
improvvisamente[13]. Anche se i primi ominidi utilizzavano una rozza tecnologia
basata sulla pietra, era già più avanzata di quella degli scimpanzé e dei
gorilla. Da ciò si deduce che probabilmente gli esseri umani possedessero già
una forma di comunicazione più sviluppata degli altri primati. Neanderthaliani La
scoperta nel 2007 di un osso ioide di un neanderthaliano ha suggerito l'idea
che i neanderthaliani potessero essere anatomicamente capaci di produrre suoni
simili a quelli moderni umani e altri studi indicano che 400 000 anni fa il
canale ipoglosso degli ominidi aveva raggiunto la dimensione di quello degli
umani moderni. Il canale ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si
ritiene che la sua dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che
vivevano prima di 300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli
di uno scimpanzé che a quelli umani. Comunque, anche se i neanderthaliani
fossero stati in grado di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio
che potessero possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò
il suo dubbio sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra.
Per 2 milioni di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli
attrezzi in pietra cambiò molto poco. Richard G. Klein, che ha lavorato
intensamente sugli antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli
antichi esseri umani come impossibile da separare in categorie basate sulla
loro funzione ed afferma che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso
interesse per la forma finale dei propri attrezzi. Klein sostiene che il
cervello dei neanderthaliani probabilmente non aveva raggiunto la complessità
necessaria per una lingua articolata, anche se l'apparato fisico per la
produzione dei fonemi era già ben sviluppato. La questione sul livello di
sofisticatezza culturale e tecnologica dei neanderthaliani rimane tutt'oggi
controversa. Homo sapiens. I primi esseri umani anatomicamente di tipo
moderno apparvero per la prima volta nei reperti fossili di 195 000 anni fa in
Etiopia. Nonostante fossero anatomicamente di stampo moderno, però, i
ritrovamenti archeologici disponibili non indicano che si comportassero diversamente
dagli ominidi che li avevano preceduti. Essi utilizzavano gli stessi attrezzi
in pietra grezza e cacciavano meno efficientemente degli esseri umani che li
avrebbero seguiti[20]. Ad ogni modo, all'incirca da 164 000 anni fa nell'Africa
meridionale, ci sono prove di un comportamento più sofisticato e, da quel
momento, si ritiene si sia sviluppato il comportamento moderno[20]. A quel
punto, una vita di tipo costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura associata
rimanda evidentemente ad un consumo di molluschi. Questo stile di vita può
essere dovuto a pressioni climatiche, conseguenti a condizioni di glaciazione.
Gli attrezzi in pietra del periodo mostrano caratteristiche regolari che furono
riprodotte o duplicate con più precisione. In seguito, apparvero anche attrezzi
fatti di materiale osseo e corna. Questi artefatti possono essere facilmente
suddivisi in base alla funzione, come punte per scalfire, attrezzi di
incisione, coltelli e attrezzi per trapanare e forare[18]. Insegnare alla prole
o ad altri membri del proprio gruppo come produrre tali strumenti dettagliati
sarebbe stato difficile senza l'aiuto della lingua[21]. Il passo più
grande nell'evoluzione del linguaggio fu probabilmente il passaggio da una
comunicazione primitiva di tipo pidgin ad un linguaggio di tipo creolo, con la
grammatica e la sintassi di una lingua moderna[9]. Molti studiosi ritengono che
questo passaggio può essere stato compiuto solamente insieme ad alcuni
cambiamenti biologici nel cervello, come una mutazione. È stato ipotizzato che
un gene come il FOXP2 potrebbe aver subito una mutazione che permise agli
esseri umani di comunicare. Le prove suggeriscono che questo cambiamento ebbe
luogo in un punto imprecisato dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai
50 000 anni fa, cosa che apportò cambiamenti significativi nei resti
fossili[9]. Non è ancora chiaro se le lingue si svilupparono gradualmente in
migliaia di anni o apparvero relativamente all'improvviso. Le aree di
Broca e di Wernicke apparvero anche nel cervello umano, la prima coinvolta in
scopi cognitivi e percettivi, la seconda collegata alle abilità linguistiche.
Gli stessi percorsi neurali ed il sistema limbico degli altri primati
controllano i suoni non verbali anche negli esseri umani (risata, pianto,
ecc.), cosa che suggerisce che il centro del linguaggio umano sia una modifica
dei percorsi neurali comune a "tutti" i primati. Questa modifica e le
abilità per la comunicazione linguistica sembrano essere uniche degli esseri
umani e ciò implica che l'insieme degli organi per il linguaggio parlato si sia
sviluppato dopo che il ramo evolutivo umano si è separato da quello degli altri
primati. In tal modo, il linguaggio parlato è una modificazione della laringe
unica degli esseri umani. Secondo la teoria dell'origine "Out of
Africa" ("Uscendo dall'Africa" o "Dall'Africa verso il
mondo"), circa 50 000 anni fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò
l'Africa e procedette nella colonizzazione del resto del mondo, inclusa
l'Australia e le Americhe, che non erano mai state popolate dagli ominidi che
le avevano precedute. Alcuni scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non
abbandonò l'Africa prima di allora, perché non aveva ancora acquisito le
cognizioni moderne ed il linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità,
nonché il numero di persone sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto
che l'Homo erectus riuscì a lasciare il continente molto prima (senza un
utilizzo diffuso delle lingua, attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le
ragioni per cui gli esseri umani anatomicamente moderni rimasero in Africa
probabilmente ebbe maggiormente a che fare con le condizioni climatiche.
MonogenesiModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Lingua primigenia. La teoria dell'origine monogenetica è l'ipotesi
per cui ci sarebbe stata una singola protolingua (la "lingua
primigenia" o protolingua mondiale) dalla quale si sarebbero poi distinte
tutte le lingue parlate dagli esseri umani. Tutta la popolazione umana, dagli
aborigeni australiani ai fuegini, possiede delle lingue. Questo include popoli,
come gli aborigeni tasmaniani o gli andamanesi, che sono rimasti isolati dagli
altri popoli per anche 40 000 anni. Così, l'ipotesi dell'origine poligenetica
comporterebbe che le lingue moderne si siano evolute indipendentemente su tutti
i continenti, un'ipotesi considerata non plausibile dai sostenitori della
monogenesi[24][25]. Tutti gli esseri umani odierni discendono da una Eva
mitocondriale, una donna che si ritiene vivesse in Africa circa 150 000 anni fa.
Ciò ha sollevato la possibilità che la lingua primigenia possa essere datata
approssimativamente a quel periodo[26]. Ci sono anche teorie su un effetto a
collo di bottiglia sulla popolazione umana, soprattutto la teoria della
catastrofe di Toba, la quale ipotizza che la popolazione umana ad un certo
punto, circa 70 000 anni fa, si sia ridotta a 15 000 o 2 000 individui[27]. Se
ciò avvenne realmente, un tale effetto a collo di bottiglia sarebbe un
eccellente candidato per il momento della protolingua mondiale, anche se ciò
non implica che sia anche il momento in cui sia emerso il linguaggio parlato
come capacità. Alcuni sostenitori di tale ipotesi, come Merritt Ruhlen,
hanno tentato di ricostruire la lingua primigenia. Ad ogni modo, la maggior
parte dei linguisti rifiutano questi tentativi ed i metodi utilizzati (come la
comparazione lessicale di massa) per varie ragioni[28][29]. Scenari
dell'evoluzione della linguaModifica Teoria dei gestiModifica La teoria dei
gesti afferma che il linguaggio umano parlato si sia sviluppato dai gesti che
venivano usati per la semplice comunicazione. Due tipi di prove
sostengono questa teoria. Il linguaggio dei gesti e quello vocale
dipendono da sistemi neurali simili. Le regioni della corteccia cerebrale che sono
responsabili dei movimenti della bocca e di quelli delle mani si trovano a
stretto contatto. I primati usano gesti o simboli per una forma primitiva di
comunicazione, ed alcuni di questi gesti assomigliano a quelli umani, come la
"posizione di richiesta", con le mani allungate in fuori, che gli
esseri umani hanno in comune con gli scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un
considerevole supporto per l'idea che il linguaggio verbale e quello dei segni
dipendano da strutture neurali simili. Pazienti che usano la lingua dei segni e
che hanno sofferto di una lesione all'emisfero cerebrale sinistro, hanno
dimostrato gli stessi disordini linguistici nella lingua dei segni dei pazienti
capaci di parlare.[31] Altri ricercatori hanno rilevato che la stessa regione
sinistra del cervello è attiva sia durante la produzione di una lingua dei
segni, sia durante l'uso di un linguaggio vocale o scritto.[32] La
questione più importante per la teoria dei gesti è per quale motivo ci fu un
passaggio allo strumento vocale. Ci sono tre possibili spiegazioni: I
primi esseri umani cominciarono ad utilizzare sempre più strumenti, che
tenevano loro le mani occupate, senza poterle usare per gesticolare. La
gesticolazione richiede che gli individui si debbano vedere tra di loro. Ci
sono molte situazioni in cui gli individui hanno bisogno di comunicare senza
contatto visivo, ad esempio quando un predatore si avvicina a qualcuno che è su
un albero a raccogliere frutta. Il bisogno di cooperare effettivamente con gli
altri per sopravvivere. Un comando dato da un leader di una tribù di 'trovare'
'pietre' per 'respingere' 'lupi' avrebbe creato un gruppo di lavoro e una
risposta più potente e coordinata. Gli esseri umani utilizzano ancora i gesti
manuali e facciali quando parlano, specialmente quando le persone che
comunicano non usano la stessa lingua.[33] I sordomuti usano lingue composte
interamente da segni e gesti. Pidgin e creoliModifica Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua creola e Pidgin. Un
pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa come mezzo di comunicazione
tra due o più gruppi che non parlano la medesima lingua, in situazioni come il
commercio, il cui vocabolario è generalmente derivato dalle lingue dei vari
gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano è d'interesse per comprendere le
origini del linguaggio verbale umano. I pidgin sono lingue significativamente
semplificate, con una grammatica rudimentale ed un vocabolario ristretto. Nei
primi stadi del loro sviluppo i pidgin consistono soprattutto di nomi, verbi ed
aggettivi, senza articoli e verbi ausiliari e con pochissime preposizioni e
congiunzioni. La grammatica consiste di parole senza ordine fisso e senza
desinenze di declinazione.[9] Se questi contatti tra i gruppi si
mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i pidgin possono diventare pian
piano sempre più complessi attraverso le generazioni. Se i bambini di una
generazione adottano il pidgin come lingua madre, questa diventa una lingua
creola, che si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con una
fonetica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia di
tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non derivano dalle
lingue da cui sono nate. Gli studi sulle lingue creole del mondo hanno dimostrato
che possiedono somiglianze evidenti nella grammatica e si sono sviluppate
uniformemente dai pidgin in una singola generazione. Queste somiglianze sono
evidenti quando le lingue creole non condividono alcuna lingua originale.
Inoltre le lingue creole hanno delle somiglianze anche se si sono sviluppate
isolatamente rispetto alle altre. Le somiglianze sintattiche includono l'ordine
delle parole Soggetto Verbo Oggetto. Anche se una lingua creola nasce da lingue
con ordini delle parole differenti, sviluppa spesso un ordine SVO. Le lingue
creole tendono ad avere modelli di uso simili per gli articoli determinativi ed
indeterminativi e regole di movimento simili per le strutture frasali anche
quando le lingue-genitori non le hanno.[9] Grammatica universaleModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Grammatica
universale. Dato che i bambini sono largamente responsabili della
creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e Noam Chomsky hanno
concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica universalegià inclusa
nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste di un'ampia gamma di
modelli grammaticali che includono tutti i sistemi grammaticali di tutte le
lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa grammatica universale sono
rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle lingue creole. Queste
impostazioni di base vengono annullate dai bambini durante il processo di
acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua locale. Quando i bambini
imparano una lingua, dapprima apprendono le caratteristiche più simile a quelle
creole, e poi quelle che entrano in conflitto con la grammatica
creola.[9] Un'altra questione che viene spesso citata come supporto per
la grammatica universale è il recente sviluppo della lingua dei segni
nicaraguense. A partire dal 1979, il neonato governo del Nicaragua dette inizio
al primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini sordomuti. Prima di ciò
non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un centro d'educazione speciale
stabilì un programma inizialmente seguito da 50 bambini sordomuti. Nel 1983 il
centro aveva 400 studenti. Questo centro non aveva accesso alle strutture di
insegnamento di una delle lingue dei segni usate nel mondo; perciò non veniva
insegnato ai bambini nessun linguaggio. Il programma linguistico invece
enfatizzava lo spagnolo parlato e la lettura delle labbra, nonché l'uso di
segni da parte dell'insegnante che assomigliassero alle parole dell'alfabeto.
Il programma ebbe uno scarso successo e la maggior parte degli studenti non
riuscirono a comprendere il concetto delle parole spagnole. I primi
bambini arrivarono al centro con pochissimi gesti sviluppati in precedenza
all'interno delle proprie famiglie. Ad ogni modo, quando i bambini vennero
messi insieme per la prima volta cominciarono a costruire una forma di
comunicazione usando i vari segni di ogni bambino. Più bambini si aggiungevano
più la lingua diventava complessa. Gli insegnanti dei bambini, che avevano
avuto uno scarso successo nel comunicare con i propri studenti, guardavano
meravigliati i bambini che riuscivano a comunicare tra di loro. In
seguito il governo nicaraguense sollecitò l'aiuto di Judy Kegl, un'esperta
della lingua dei segni alla Northeastern University. Quando Kegl ed altri ricercatori
cominciarono ad analizzare la lingua, notarono che i bambini più giovani
avevano preso le forme pidgin dai bambini più vecchi e le avevano portate ad un
alto livello di complessità, con un accordo verbale e altre convenzione della
grammatica.[34] Approccio sinergicoModifica La Azerbaijan Linguistic
School ritiene che il meccanismo per la nascita del linguaggio umano moderno,
sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo evolutivo della
scrittura. Lo sviluppo della scrittura ha vissuto differenti fasi:
Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase II: Grafema = parola o
sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema = sillabario (scrittura
sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica) Allo stesso modo una
lingua avrebbe passato stadi simili: Fase I: Fonema = frase (linguaggio
pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma (linguaggio ideografico) Fase
III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico) Fase IV: fonema = suono
(linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido, all'inizio sostituiva
l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e poi la parte della
parola[non chiaro][35],[36] StoriaModifica La ricerca delle origini della
lingua ha una lunga storia, come testimonia anche la mitologia classica.
Storia della ricercaModifica Verso la fine del XVIII secolo od agli inizi del
XIX gli studiosi europei ritenevano che le lingue del mondo riflettessero i
vari stadi dello sviluppo da una lingua primitiva a quelle più avanzate,
culminando nella famiglia indoeuropea, ritenuta la più avanzata. La linguistica
moderna non nacque prima del tardo XVIII secolo e le tesi romantiche di Johann
Gottfried Herdere di Johann Christoph Adelung rimasero molto influenti fino al
XIX secolo. La questione delle origini della lingua si dimostrò inaccessibile
agli approcci metodici, e nel 1866 la Società Linguistica di Parigi vietò
clamorosamente le discussioni sull'origine della lingua, ritenendola un
problema irrisolvibile. Un approccio sistematico alla linguistica storica
divenne possibile solamente con l'approccio neogrammaticale di Karl Brugmann ed
altri a partire dal 1890, ma l'interesse degli studiosi per la questione
riprese gradualmente piede a partire dal 1950, con idee come la grammatica
universale, la comparazione lessicale di massa e la glottocronologia.
L'"origine della lingua" come materia a sé stante emerse dagli studi
di neurolinguistica, psicolinguistica e di evoluzione umana in generale. La
bibliografia linguistica introdusse l'"origine della lingua" come un
capitolo separato nel 1988, come un argomento minore dalla psicolinguistica,
mentre istituti di ricerca di evoluzione linguistica emersero solo negli anni
novanta. Esperimenti storiciModifica La storia ha un vario numero di
aneddoti su persone che tentarono di scoprire le origini della lingua per
esperimento. Il primo tentativo viene riportato da Erodoto, che racconta che il
faraone Psammetichus (probabilmente Psametek) fece crescere due bambini da
pastori sordomuti, volendo vedere alla fine quale lingua avrebbero parlato
senza influenze. Quando i bambini furono portati di fronte a lui, uno di essi
disse qualcosa che al faraone suonò come bekos, la parola frigia per pane.
Perciò Psammetichus concluse che il frigio fosse la prima lingua. Si racconta
che anche il re Giacomo V di Scozia tentò un esperimento simile, e questi
bambini avrebbero infine parlato ebraico. Anche il monarca medievale Federico
II ed Akbar, un imperatore indiano del XVI secolo, tentarono un esperimento
simile ma i bambini utilizzati alla fine non parlarono e
morirono.[37][38][39] Nella religione e nella mitologiaModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua
sapienziale. Le religioni ed i miti etnici spesso danno delle spiegazioni per
le origini e lo sviluppo del linguaggio verbale. La maggior parte delle
mitologie non ritengono l'uomo inventore della lingua, ma credono in una lingua
divina, antecedente a quelle umane. Lingue mistico-magiche usate per comunicare
con gli animalio gli spiriti, come la lingua degli uccelli, sono pure state
analogamente ricercate, ed erano di particolare interesse durante il
Rinascimento, per la loro capacità di penetrare l'essenza della realtà tramite
un'apprensione immediata di natura intuitiva anziché discorsiva. Uno dei
migliori esempi nella cultura occidentale è il passaggio della Genesi nella
Bibbia riguardo alla Torre di Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi
abramiche, racconta di come Dio punì gli uomini per aver costruito la torre,
confondendo la loro lingua e creandone di nuove (Genesi 11:1–9). Un
gruppo di persone dell'isola di Hao, in Polinesiaracconta una storia molto
simile a quella della torre di Babele, parlando di un dio che, "in preda
alla rabbia scacciò via i costruttori, distrusse l'edificio e cambiò la loro lingua,
così che parlassero differenti lingue". Primitive languages, su Language
Miniatures. URL consultato il 27 febbraio 2007 (archiviato dall' url
originale l'8 febbraio 2007). ^ Steven Pinker, The Language Instinct: How
the Mind Creates Language, New York, Harper Perennial Modern Classics, 2000,
pp. 13–14, ISBN 0-06-095833-2. ^ a b (2001). The Handbook of Linguistics, eds.
Mark Aronoff & Janie Rees-Miller. Oxford: Blackwell Publishers, pp. 1-18.
ISBN 1-4051-0252-7 ^ Vorbemerkungen zu der Frage über den Ursprung der Sprache
(Premesse alla questione sull'origine del linguaggio), in: Schelling, Werke (a
cura di. M. Schröter), 4. Ergänzungsband (volume supplementare), Monaco 1959,
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prodotto dall'evoluzione è utile solo nel presente, e non in futuro indefinito.
Così l'anatomica vocale ed i circuiti neurali necessari per la produzione dei
suoni delle lingue non possono essersi evoluti per qualcosa che ancora non
esisteva» ^ Merritt Ruhlen, Origin of Language, 1994, ISBN 0-471-58426-6.
«Earlier human ancestors, such as Homo habilis and Homo erectus, would likely
have possessed less developed forms of language, forms intermediate between the
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previously been used to date the origin of human-like speech capabilities to at
least 400,000 years ago and to assign modern human vocal abilities to
Neandertals. These conclusions are based on the hypothesis that the size of the
hypoglossal canal is indicative of speech capabilities.» ^ Johansson, Sverker,
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dall' url originale il 15 ottobre 2006). «Hyoid bones are very rare as
fossils, as they are not attached to the rest of the skeleton, but one
Neanderthal hyoid has been found (Arensburg et al., 1989), very similar to the
hyoid of modern Homo sapiens, leading to the conclusion that Neanderthals had a
vocal tract similar to ours (Houghton, 1993; Bo¨e, Maeda, & Heim, 1999).» ^
a b Klarreich, Erica, Biography of Richard G. Klein, in Proceedings of the
National Academy of Sciences of the United States of America, vol. 101, n. 16,
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accessexcellence.org. URL consultato il 10 novembre 2007. «You've had modern
humans or people who look pretty modern in Africa by 100,000 to 130,000 years
ago and that's the fossil evidence behind the recent "Out of Africa"
hypothesis, but that they only spread from Africa about 50,000 years ago. What
took so long? Why that long lag, 80,000 years?» ^ Wade, Nicholas, Early Voices:
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settembre 2007 (archiviato dall' url originale il 18 febbraio 2008). ^
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Marinotti, Lingua (linguistica) Linguaggio Oralità Tradizione orale Teoria
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fa di Paroll PAGINE CORRELATE Grammatica universale Teoria linguistica che
postula che i principi della grammatica siano condivisi da tutte le lingue, e
siano innati per tutti gli esseri umani. Rilessificazione Origine africana
dell'Homo sapiens Wikipedia Il Grice: “I share a lot with Cimatti; we both
believe that there’s a semiotic continuity, and more important that it’s
psi-transmission that matters: a pirot perceives that the a is b, and
communicates that the a is b to another pirot, who perceives the communicatum,
‘the a is b’ and comes to think that the other pirot thinks that the a is b – I
use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to cover willing, since it’s willing
that’s basic, though! Felice Cimatti. Keywords: fondamenti naturali della
comunicazione, homo sapiens, storia innaturale, non-naturale, unnatural –
non-natural, naturalization, animale, bestia, linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica,
prodi, corpo, codice, mente, cognitivismo, comunicazione, animale, soglia
semiotica, mentalismo, storia innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti
naturali della comunicazione, percezione e comunicazione, comunicazione come
percezione trasferita, psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” –
The Swimming-Pool Library.Cimatti.
Grice
e Cincio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). A philosopher of the Porch.
Grice
e Cinna: il portico a Roma -- il tutore
del principe – filosofia italiana (Roma). A member of the Porch and
tutor to Antonino. The emperor claims to have learned from C. the value of
friendship, children, and praise. Cina Catulo. Cinna.
Grice e Cione: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del corporazionismo -- Dedalo
ed Icaro – l’idea corporativa come interpretazione della storia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
italiano. Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which
reminds me of Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the
story of a failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects
as well, such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand
knowledge! – and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks
there is a Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his
study of ‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette!
– especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze
socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce.
Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di
Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo
indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale
Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende
esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica
indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano
Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso
Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del
Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa,
tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato
per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a
dichiarare: «Per ingannare i nostri
avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia
fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra
l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di
Cione. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta
cercando di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta
per il comitato di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle
epurazioni partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia
repubblicana. Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il
partito di Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne
eletto consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al
Senato con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto.
Deluso dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una
militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il
messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la
cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso
con una completa della sua opere e degli
scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera
filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica”
(Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore);
“Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea corporativa
come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli e
Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale italiana”
(Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi); “Crociana”
(Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele); “Fascino
del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce”
(Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia
degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi,
Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica
editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta
di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli
Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di Salò crea un
"partito contro" su suggerimento del ministro dell'Educazione Biggini
di Silvio Bertoldi. Per ultimi ma non meno importante ricordiamo anche
l’esperienza della rivista La Verità diretta da Nicolò Bombacci, tra i
fondatori del partito comunista e in seguito avvicinatosi al Fascismo, pur con
posizioni indipendenti tendenti al socialismo nazionale, e dove ne sarà
portavoce anche nella successiva esperienza di Salò assieme ad altre
personalità come Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la magistrale figura del
poeta americano Ezra Pound, il quale giudicò positivamente il modello politico
ed economico dello stesso Fascismo. Home Cultura Cultura (di
G.Parlato). Perché leggere “Storia della Rsi” di C. By Redazione 4
anni Ago Il sigillo della Repubblica Sociale ItalianaIl sigillo della
Repubblica Sociale Italiana Sarà forse una caratteristica tipicamente italiana,
ma da noi persino le guerre civili lasciano molto, moltissimo spazio alle
mediazioni e ai tentativi di compromesso. Vi furono diversi tentativi, tutti
falliti, di dare alla guerra fratricida un altro esito, meno sanguinoso, più
indirizzato verso un passaggio “indolore” dei poteri dalla Rsi al movimento
partigiano e, infine, al Regno. Si trattò di operazioni sotterranee molto
complesse, spesso contraddittorie, che si fondavano su un equivoco: la
possibilità che una parte del movimento partigiano (i socialisti, e neppure
tutti) potessero staccarsi dalla opprimente pressione delle Brigate Garibaldi
gestite dal Pci e realizzare una soluzione pacifica di passaggio dei poteri nel
Nord Italia in nome di un socialismo che avrebbe dovuto riunire tutti, da
Mussolini a Nenni. Protagonisti di questo tentativo, un po’ nobile, un
po’ ingenuo, un po’ velleitario furono diversi personaggi di ambo le parti: da
parte fascista, i ministri della Rsi Carlo Alberto Biggini e Piero Pisenti, i
sindacalisti Manunta e Dinale, il capo della polizia di Salò Renzo Montagna, il
capo della Decima Junio Valerio Borghese, più altri minori; da parte
socialista, Bonfantini,Vigorelli, Silvestri, Zocchi e soprattutto Andreoni,
autore di un confuso ed equivoco tentativo di “collaborazione militare ma non
politica” (!!) tra fascisti di Salò e socialisti di sinistra contrari alla
egemonia comunista nel Cln. Punto di raccordo di molti di questi fiumi
sotterranei è C., filosofo, collaboratore di Croce, antifascista liberale,
confinato politico, il quale alla vigilia della guerra civile decide di puntare
sulla riconciliazione degl’italiani. Un progetto ambizioso, non sempre
sorretto da una vera lucidità politica, che comunque portò a tre risultati
importanti, nel crepuscolo della Rsi: in primo luogo, C. riuscì a catalizzare
attorno a sé un gruppo di fascisti e di antifascisti che opera per il passaggio
indolore dei poteri. In secondo luogo, riusce ad avere la fiducia di Mussolini
che gli finanzia un quotidiano, “L’Italia del Popolo”. Infine riusce a
costituire un movimento politico di opposizione in Repubblica Sociale, il
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista che doveva essere il primo
segnale verso la liberalizzazione dei partiti in Rsi. Naturalmente ciò
avvenne con l’approvazione dei fascisti “moderati”, come Borsani, Agazio
e Pettinato, e con la violenta opposizione degli intransigenti, come Pavolini,
Mezzasoma ed Almirante. La dettagliata storia di queste più o meno
sottili trame, di questi tentativi è il filo conduttore del volume di C., STORIA
DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (Altergraf). Si tratta di una storia che, tra
le prime, ricostruisce le vicende della Rsi e il suo valore è soprattutto
questo. Il mondo variegato e talvolta contraddittorio di quelli che
cercarono di costruire dei ponti tra
fascismo e antifascismo è complesso ma, in genere, comprendefascisti di
sinistra -- più moderati e aperti al pluralismo -- e socialisti -- insofferenti
al peso del Pci. Che qui ci si trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio
un elemento di novità. Perché un liberale e, pur con tutti i distinguo,
crociano accetta di sostenere i punti di Verona, la socializzazione, l’ultimo
fascismo mussoliniano, rivoluzionario, socialista e anticapitalista? Si tratta
effettivamente di un problema non da poco che può essere spiegato solo con il
costante richiamo alla CONCORDIA nazionale.
Una concordia che non è però soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia
di un elemento a nostro avviso centrale: la necessità del superamento
dell’antitesi fascismo – antifascismo, considerando C. il fascismo un elemento
essenziale nella storia italiana, del quale è indispensabile tenere conto -- non
per esaltarlo ma piuttosto per proseguire nel cammino della comunità nazionale
senza parentesi e senza demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per C., è
quello di ritenere di potere cancellare il periodo fascista dalla storia
italiana e soprattutto di potere non considerare con attenzione le
soluzioni che il fascismo, pur in un quadro autoritario, individua allo scopo
di contribuire a fare ritrovare unità e concordia nella società italiana. In
questo senso l’esperienza corporativa, che C. intese sempre in senso
produttivistico piuttosto che in termini rivoluzionari, può essere interessante
da recuperare in una chiave pluralistica. Più complessa la risoluzione
dell’altro problema che lo assilla e che, in qualche modo, è correlato con la
ricerca della concordia: il persistere, nella dinamica politica italiana, della
categoria del nemico assoluto da abbattere. Essendo più FILOSOFO che storico, C.
non si rende conto che l’Italia dopo la prima guerra mondiale non è più quella
precedente. Il pretendere che le contrapposizioni, giunte fino alla guerra
civile, si componessero con un semplice richiamo alla concordia, dimostra quello
che acutamente aveva colto Artieri, e che cioè C. pensava e scriveva come se
vivesse nell’Italia di Giolitti e di Scarfoglio. In questa sua incapacità
di leggere fino in fondo la lezione della storia si trova la inattualità
politica del saggio di C. sulla Rsi, ma
anche il fascino dell’impolitico, di chi cioè preferisce manifestare le proprie
convinzioni anche se esse non sono più in grado di produrre effetti
politici. La sua originalità risiede anche in un ultimo aspetto. Se è
vero che in Italia il filosofo tende a correre verso il carro del vincitore,
la storia di C. è quella di un filosofo che pur provenendo dalla parte dei
futuri vincitori, volle stare dalla parte dei perdenti per cercare, senza
riuscirci, di rendere meno dura la vendetta finale. C. compiuti i suoi
studi prima presso il consolato germanico, poi presso il Liceo-ginnasio
Vittorio Emanuele II, si iscrive al collegio militare della Nunziatella. C.,
sottoposto a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa
disciplina scolastica, manifesta idealmente i primi segni di ribellione
rivolgendo precocemente il suo interesse verso la filosofia e allontanandosi
dall'ambiente autoritario della Nunziatella. Grazie a Secolo comincia a
frequentare la casa di Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno
le idee e gli insegnamenti. Un saggio suo, pubblicato a Napoli e
intitolata "Il dramma religioso dello spirito moderno e la
Rinascenza", in cui prende posizione contro Gentile, gli procura violente
critiche da parte dei fascisti. La frequentazione di casa Croce non gli impedì
tuttavia, di collaborare con alcuni giornali e periodici del regime. Consegue
la laurea e concorsa a un posto di ordinatore di biblioteche e ne ottenne
l'incarico presso la Biblioteca di Venezia, poi trasferito presso la Biblioteca
di Firenze. A questi anni risalgono i suoi rapporti epistolari con alcuni
esponenti dell'opposizione liberale come Sforza, Vinciguerra, Casati ed altri. A
causa dell'intercettazione di una sua lettera, il cui contenuto era stato male
interpretato, C. è arrestato dalla polizia e internato nel campo di
concentramento di Colfiorito presso Foligno, e in seguito confinato a
Montemurro Lucano. Revisa le sue idee antifasciste e decide di abbandonare le
posizioni liberali. Eento non meno significativo nella vita di C. è la rottura
dei suoi rapporti con Croce, a causa della revoca da parte di Croce della
compilazione di un volume celebrativo, che C. aveva preparato sull'opera e sul
filosofo. Il volume è poi pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari
con il titolo "Croce". Dopo l'internamento e il confino,
ritornato in libertà, C. è in servizio come bibliotecario presso la Biblioteca
Braidense di Milano. Collabora alla rivista diretta da Chabod
"Popoli", dell'Istituto per gli studi di politica. Ottenne la libera
docenza di storia della filosofia. Tra i suoi saggi, il volume edito a Milano e
intitolato "Croce", la cui polemica prefazione era stata pubblicata
anticipatamente sul Corriere della Sera, procura a C. numerosi consensi anche
da parte di MUSSOLINI, che C. incontra personalmente grazie alla mediazione
dell'allora Ministro della Cultura Biggini. Cione fonda, col consenso di
Mussolini, il "Raggruppamento nazionale repubblicano socialista" e il
giornale "L'Italia del Popolo" che, sollevando l'ostilità dell'ala
fascista più estrema, dopo soli 12 numeri è sospeso a causa di una polemica con
l'Associazione dei mutilati. Soggetto all'epurazione alla fine della seconda
guerra mondiale, C. è reintegrato nel suo posto di professore di filosofia a Napoli.
Entra nel Movimento Sociale Italiano e fonda la rivista "Nazionalismo
popolare". Eletto consigliere e poi assessore allo Stato civile della
Giunta di Napoli, che ha alla sua testa Lauro. Dopo essersi candidato al Senato
come esponente del M.S.I. senza riuscire eletto, entra nelle file della
Democrazia Cristiana. Collabora con numerose riviste filosofiche e con diverse
testate giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il
"Tempo" di Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra
le opere a stampa ricordiamo la "Bibliografia Crociana" -- nella
quale sono riportate sistematicamente e cronologicamente le opere DI Croce e le
opere SU Croce --; "Sanctis e i suoi tempi” -- vincitrice del Premio
Napoli --, e due volumi di resoconti di viaggi, "Quest'Europa" e
"Fascino del mondo arabo", pubblicate la prima a Napoli e la seconda
a Bologna. In esse l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente
attribuiva all'esistenza umana. Muore a Napoli. Fra le sue ultime volontà vi fu
quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli il suo archivio personale,
affinché esso non andasse disperso e perché fosse messo a disposizione degli
studiosi. documentazione collegata. C. fontiGennaro Incarnato, in Dizionario
biografico degli italiani, pagg. 677-680. Lutz Klinkhammer, L'occupazione
tedesca in Italia (1943-1945), Torino, Bollati Boringhieri, 1993. CIONE,
Domenico Edmondo di Gennaro Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani -
Volume 25 (1981) Condividi Pubblicità CIONE, Domenico
Edmondo. - Nato a Napoli il 7 giugno 1908 da Stefano, avvocato di origine
pugliese inurbatosi di recente e artefice della sua fortuna, ed Emilia Faraone,
figlia di commercianti di, relativa agiatezza, cominciò a studiare presso il
consolato germanico, poi al liceoginnasio "Vittorio Emanuele II", per
iscriversi infine alla Scuola militare della Nunziatella (1923). L'accurata
istruzione integrò la severa educazione familiare tesa a salvaguardare una
dignità ed un decoro con fatica raggiunti e difficili da mantenere in una città
come Napoli in permanente e gravissima crisi economica. Alla Nunziatella
si tendeva a sviluppare "l'attitudine al comando" ponendo l'accento
sull'educazione fisica intesa come coercizione e disciplina. Le aspirazioni del
C. ne furono frustrate accentuandone le tendenze al ribellismo, tipiche di
tanti meridionali e l'indirizzo precoce agli studi storico-filosofici nella
ricerca di un'identità ristretta al piano culturale, dati gli ostacoli
frapposti dall'ambiente circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e
meno unilaterali. Le stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle
gerarchie che avevano provocato la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da
cui uscirà nel 1926, lo allontanarono da un'adesione piena al fascismo.
Introdotto in casa Croce da Floriano Del Secolo, ne accettò pienamente le idee,
attirandosi con la sua prima pubblicazione Il dramma religioso dello spirito
moderno e la Rinascenza, Napoli 1929 (di cui già nel 1923 aveva mandato
un'saggio al Croce), in cui prese posizione contro il Gentile, gli attacchi
violenti dei coetanei fascisti. Lo difese sin dal '29 C. Di Marzio che gli aprì
le porte del Meridiano di Roma nel '37 e gli evitò guai peggiori. Erano gli
anni del "consenso" al regime; la pregiudiziale antifascista e la
frequenza di casa Croce non impedirono al C., come ad altri, la collaborazione
a giornali o periodici del regime, ormai tanto forte da poter controllare e
tollerare la "fronda" liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo
gratificava e sembrava soddisfarlo pienamente. I numerosi studi sul De
Sanctis, culminati nella biografia, la continuazione dei lavori sulla
Rinascenza e la Riforma sfociati nel lavoro su Valdés e infine le ricerche
sulla vita culturale di Napoli nell'800 rivelano tutti l'impronta del Croce.
Tuttavia si può cogliere una costante del pensiero del C., la tendenza alla
mediazione, non tanto espressione di debole sincretismo, quanto costante
rifiuto di ogni estremismo, che gli faceva preferire il sereno misticismo di
Valdés ai rigori di Calvino ed il tentativo di mediazione della cultura
umanistica col vecchio mondo della Chiesa e della cultura medioevale alla
rottura drammatica della Riforma. 16 un equilibrio raggiunto a fatica, non
scevro di contraddizioni, presenti soprattutto negli studi su Napoli. La
ricerca appassionata e puntuale sulla vita del primo Ottocento napoletano
(Napoli romantica, Milano 1942) non poteva non approdare alla constatazione del
suo carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine comparse di secondo
piano, quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui protagonista è lo
sviluppo culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico europeo, non
propriamente favorevole a Napoli, il malessere napoletano interpretato come
un'incapacità tutta locale di liberarsi dai languori e dalle malinconie
romantiche di origine più spirituale che socioeconomica. La mediazione, eterno
mito del C., riemerge con l'esortazione all'unione dei giusti per la salvezza e
lo sviluppo. Tale gli è già apparso il messaggio dell'ultimo De Sanctis, di
cui, a conclusione di numerosi saggi e la pubblicazione (Milano 1943) del
famoso Viaggioelettorale, traccia una biogr. (2 ed., ibid. 1944).Nel 1930, per
venire incontro ad aspirazioni familiari, il C. si laureò in giurisprudenza e
nel 1932, seguendo i suoi reali interessi, in lettere e filosofia. Le fortune
familiari registrano nel 1933 un tracollo che lo spinse a concorrere ad un
posto di ordinatore nelle biblioteche, un ruolo subalterno per il quale non
veniva ancora richiesta l'iscrizione al partito fascista. Nel 1936 fu
trasferito alla Nazionale di Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti
con l'opposizione liberale al fascismo; corrispondeva con il conte Sforza ed
aveva rapporti di amicizia e scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli,
Casati, Ramat, Russo ed altri, anche se spesso si aveva la sensazione che fosse
frequentato più perché allievo ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti
intrinseci. Tra il 1930 ed il 1940 l'adesione al sistema crociano era del resto
indiscussa. Malgrado una tendenza all'accentuazione dei valori individuali
emergente dagli studi sul Berdjaev (di cui lo colpirà durevolmente la critica
al marxismo), sul Valdès e dal taglio stesso degli studi sul De Sanctis,
l'emancipazione non era così consapevole come tenterà ad affermare in
seguito. Nel settembre 1940 l'intercettazione di una lettera da parte
della polizia, che ne interpretò malamente il contenuto, provocò il suo
internamento nel campo di concentramento di Colfiorito di Foligno, i cui rigori
furono mitigati dal confino a Montemurro Lucano. Qui maturò la sua crisi
politica e la rottura col Croce. La convivenza con oppositori socialisti,
anarchici e comunisti aveva su di lui un effetto contraddittorio. Il contatto
con uomini che, non solo si opponevano al fascismo sino alle ultime
conseguenze, ma che non disdegnavano nei loro programmi di far uso degli stessi
mezzi coercitivi del fascismo, sia pure per fini ad esso antitetici, lo indusse
alla revisione e all'abbandono, dell'antifascismo. La compilazione di un
volume celebrativo del Croce, una laboriosa ricerca degli studi sul filosofo
dallo stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì la rottura definitiva con
questo, anche se un compromesso rese possibile la pubblicazione L'opera
filosofica, storica e letteraria di B. Croce, Bari 1942), dopo strascichi
giudiziari. Risolto il dissidio col fascismo, tornò nelle biblioteche,
stavolta alla Braidense di Milano; collaborò nel 1941 alla rivista
Popolidell'Istituto per gli studi di politica internazionale, diretta da F.
Chabod. Nel 1942 conseguì la libera docenza in storia della filosofia; fu
professore di ruolo di storia e filosofia nei licei, e nell'aprile 1943
ottenne, sia pure non a pieni voti, un giudizio di maturità in un concorso, poi
annullato, a professore di storia della filosofia, nell'università di Napoli.
Nel 1949 conseguì la libera docenza in storia moderna. L'armistizio lo
colse a Roma in contatto col movimento "L'unione nazionale" di P.
Martini, antifascista di tendenze moderate e conciliatrici; il movimento venne
poi stroncato in seguito all'arresto dello stesso Martini, il quale finì
trucidato alle Fosse Ardeatine. Il C. ritornò a Milano con un giudizio negativo
sull'antifascismo del quale coglieva solo gli atteggiamenti scomposti di una
fazione politica che per spirito di parte sembra gioire dalla disfatta. A
Milano stampò il suo B. Croce (Milano 1944). Il momento ed il luogo della
pubblicazione, cui venne data ampia risonanza con l'anticipata apparizione
della polemica prefazione del C. sulle colonne del Corriere della sera, nella
Milano della ormai condannata Repubblica di Salò, gli offrirono la
soddisfazione di una momentanea popolarità. Mussolini mostrò
d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione del Biggini, ministro della Cultura,
s'incontrò col C., libero docente all'università di Milano, proprio in virtù
dei suoi precedenti di antifascista. In una lettera al Biggini del 21 ottobre
1944 il C. scriveva: "Il Duce ha scelto il momento buono per parlare il
linguaggio della conciliazione sconfessando così quello della minaccia e
dell'intimidazione usate da molti gerarchi e gerarchetti. Gli antifascisti
hanno dubbi perché temono di avere a che fare con un movimento di copertura a
sinistra del fascismo. Il Duce si deve liberare del passato e puntare sulla
vecchia fama di socialista. La gente odia la Muti ed ha fatto buona impressione
l'eliminaziene della banda Koch, una polizia costituita da masnadieri"
(Archivio di Stato di Napoli, Carte Cione, 73). Sembra che Mussolini mirasse a
servirsi del C. per attenuare e confondere i rancori degli antifascisti.
Il C., sfruttando le tendenze "liberali" favorite da Mussolini dopo
il discorso alla brigata Resega, fondò, col suo consenso, il Raggruppamento
nazionale repubblicano socialista, col motto "Repubblica e socializzazione"
ed un organo di stampa dalla testata mazziniana L'Italiadel popolo. Al
movimento non erano estranee connivenze e strumentalizzazioúi come il rilascio
di alcuni dirigenti democristiani, operato a fini puramente propagandistici. Si
attirò così l'ostilità violenta dell'ala estremista del fascismo ormai troppo
compromessa. Il 31 marzo 1945 Cesare Spinelli, direttore dell'Ente italiano
audizioni radiofoniche gli negò la pubblicità per il giornale, considerando il
suo "un tentativo di conciliazione sul piano dell'antifascismo". Una
polemica con l'Associazione dei mutilati provocò l'assalto all'Italiadel popolo
e la sua chiusura dopo appena dodici fascicoli, che riprese, ancora per un
numero, le pubblicazioni il 24 aprile, un giorno prima della Liberazione.
Il C. dovette sottostare ai rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa
ammissione meno duri del previsto. Venne reintegrato nel 1946 al posto di
professore e nel 1948 riammesso nel servizio universitario a Napoli. I numerosi
attacchi ne stimolarono il temperamento di polemista che si esercitava con
virulenza a vari livelli. I sarcasmi sul Merlo giallo di A. Giannini, e nei
giornali locali ("6 e 22" e il Monsignor Perelli)offrono un quadro
comico ed esasperato di troppi disinvolti opportunismi. Sulle colonne del Brancaleone
e del Meridiano v'è un'appassionata difesa della sua azione al tempo della
Repubblica sociale che lo spingeva a scriverne la storia (Storia della
Repubblica sociale italiana, Caserta 1948; 2 ed. 1951). Nel 1946 ilC.
aveva pubblicato a Roma La filosofia della personalità ove lapolemica
anticrociana si stemperava in una graduale adesione a valori tradizionali e nel
recupero del cattolicesimo cui approderà, salutato con soddisfazione, ma non
con convinzione, dagli organi ecclesiastici. Del resto non rinunciava alle premesse
storiciste e restava a mezza via tra l'adesione mistica al cristianesimo ed
un'accettazione piena del neotomismo. I numerosi lavori filosofici sono le
tappe di questo processo (Dall'idealismo al cristianesimo, Napoli 1960, Fede e
ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa dell'opera sul Valdés, Napoli
1963, e Leibniz, ibid. 1964). Collaborò alla rivista di C. Ottaviano
Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di filosofia all'università di
Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei, prestò servizio presso la
Direzione generale dell'istruzione media non statale. Aderì alle illusioni
provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo qualunque" ma ne uscì
per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento sociale italiano con una
posizione personale espressa con la sua rivista Nazionalismo popolare fondata
nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli organi ufficiali del partito
con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo d'Italia. Rimproverava al
gruppo dirigente l'esasperazione del nazionalismo e della gerarchia e
l'abbandono delle tendenze socializzatrici dell'ultimo Mussolini. Sospetto ai
superstiti uommi di Salò, malgrado i suoi sforzi, non entrò mai nella direzione
nazionale dei partito. Sull'onda dello spostamento a destra del 1952,
espressione soprattutto dei disagio del Sud, venne eletto prima consigliere e
poi assessore allo Stato civile della giunta di Napoli capeggiata da A. Lauro.
Nel 1953 si presentò candidato al Senato, senza essere eletto. Ormai deluso dei
Movimento sociale aderì alla Democrazia cristiana, ove però non svolse una
milizia attiva, pur collaborando nel 1960 a Europa sociale di S. Riccio.
Nel 1953aveva iniziato la collaborazione al Roma (Napoli) di Lauro, cui si,
aggiunge quella più sporadica al Tempo (Roma)di Angiolillo e alla Gazzetta del
Mezzogiorno (Bari). Si accese di speranza per il contenuto sociale del
messaggio di Giovanni XXIII e per le speranze suscitate dal mito di Chruščëv,
di cui guardava con simpatia l'esperimento (Aldi là della cortina, Napoli
1962). Intanto portò a termine la Bibliografia crociana (Roma-Milano
1956) e riprese gli studi su F. De Sanctis e i suoi tempi (Napoli 1960)per cui
ottenne il premio Napoli nel 1961.Ancora una miscellanea di saggi sul concetto
di estetica (L'età di Dedalo, ibid. 1960)affianca la rievocazione di personaggi
e momenti della vita meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano 1949, Il
suoconcetto finale dell'esistenza si può cogliere in due volumi di impressioni
di viaggi, Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo (Bologna
1962). Il C. morì a Napoli. Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli,
Carte C. (finora sono stati parzialmente riordinati 102, fasci); F. Penati,
Metodo storicoe ricostruz. storicistica..., in Cronache della Facoltà di
lettere e filosofia dell'Istituto magistero di Napoli, anno acc. 1960-61, pp.
65-69; A. Manno, Dall'idealismo al cristianesimo, in Studi francescani, LX
(1963), 3-4, pp. 1-57; F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino
1963, pp. 733, 762 ss., 777; R. Battaglia, Storia della Resist. ital., Torino
1964, pp. 438, 495; E. Capanna, Di una polemica Croce-C., in Il Ponte, XII (1965),
pp. 1637 ss.; E. Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Roma
1967, II, pp. 568, 570;G. Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre
1943-Maggio 1945, Bari 1966, pp. 527528; Id., La Repubblica di Mussolini, Bari
1977, pp. 130, 308, 310 ss., 329. APPENDICE I.
Sulla bibliografia Fascista
Molti sarebbero i lavori di carattere descrittivo meritevoli di essere ricordati
i quali espongono e commentano l’azione del Fascismo in tutti i campi.
Ottima la «Bibliografia del Fascismo», pubblicata a cura della
Confederazione Nazionale Professionisti ed Artisti, Poma, 1932. Qui
ricordiamo le pubblicazioni riassuntive e quelle in Occasione del
decennale: La civiltà fascista, con introduzione di B. Mussolini, a cura
di G. L. Pomba, Torino 1928 (complesso di 35 studi dei vari aspetti ed
attività del Fascismo, con saggio bibliografia fascista a cura di L. Màdaro);
Il Libro (Vita- ha; nel decennale della Vittoria, Milano, 1929 (complesso
di 28 studi) ; Mussolini e il suo Fascismo, a cura di C. S. Gutkind, con
introduzione di B. Mussolini, ed. tedesca, Heidelberg, 1928; ed.
italiana, Firenze, 1927. Studi vari : Opere e leggi del Regime Fascista,
Roma, 1927; Mussolini e il Fascismo, Roma, 1929 (complesso di 30
studi); Dottrina e Politica Fascista, Venezia, 1930 (scritti vari). Lo
Stato Mussoliniano e le realizzazioni del Fascismo nella Nazione,
pubblicato a cura della « Rassegna Italiana Politica Letteraria », Roma.
Il Bilancio dello Stato e la Finanza Fascista a tutto Vanno Vili. A cura
del Ministero delle Finanze, Roma, Polig. dello Stato, 1931. Questo studio
è aggiornato a tutto l’esercizio 1932-33 con la seguente pubblicazione
annuale a cura dello stesso Ministero: Il Bilancio e il Conto
Generale del Patrimonio dello Stato per l’esercizio finanziario
19... ecc. Per la storia finanziaria fascista si vegga : De Stefani A. La
Restaurazione finanziaria (1922-25). Bolo¬ gna, Zanichelli, 1926; Volpi
di Misurata: Finanza Fascista, Roma, Libreria del Littorio; Gangemi: La
politica economica e finanziaria del Governo fascista nel periodo dei pieni
poteri, Bologna, Zanichelli, 1924; Gangemi L. : La politica finanziaria
del Governo Fascista 1922-28, Palermo, Sandron, 1929; Gangemi L.:
Le Società Anonime miste, Firenze, « La Nuova Italia ». Opere Pubbliche
(pubblicazione a cura del Ministero dei Lavori Pubblici). Roma, 1934. La
Nuova Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del Mi¬ nistero delle
Colonie, con prefazione di Mussolini). Mondadori, Milano. Nei riguardi
della difficile questione meridionale, si vegga l’esauriente volume
di Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel mezzogiorno d’Italia, 2
voli. Milano, Treves, 1933. Fra le pubblicazioni straniere quelle
tedesche sono le più ricche e meglio informate. Le opere e
gli scritti dei seguenti autori sono più conosciuti in Italia come quelli che
meglio compresero il Fascismo e la sua organizzazione economica, e
cioè: Andreae W.; Beckerath (von) E.; Bernhard L.; Eber- lein G.;
Ermarth F.; Eschmann E. W.; Heinrich W.; Heller H.; Leibholz G.; Leinert
M.; Mannhardt J. W.; Mehlis €.; Reupke H.; Vochting F.; (per i
particolari bibliografici si vegga: Bibliografia del Fascismo, Voi. 1., a
cura della C. N. P. A., Roma, X.). Si vegga inoltre: Beckerath (von) E.:
Wirtschaftsverfassung des Faschismus; Singer (von) K. : Die
geistesgeschichtliche Bedeutung des italienischen Faschismus, entrambi
pub¬ blicati in « Festgabe fùr Werner Sombart », lierauegege- ben
von Arthur Spiethoff, Munchen, 1933; ed anche: Die fascistische
JCirtschaft - Problema und Tatsachen, herausgegeben von G. Dobbert,
Berlin, Hobbing,(è una raccolta di studi dovuti ad italiani, tedeschi e
svizzeri). Bibliografia essenziale sulle interpretazioni dell’azione
economica corporativa Per una rassegna delle interpretazioni
dell’azione economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti
di politica economica corporativa. Voi. L, Cap. IV. Catania, Studio Editoriale
Moderno, 1932. Sono ivi ricordati i contributi più notevoli,
teorici e descrittivi, nel campo dell’azione economica corpora¬
tiva. Si vegga pure il nostro studio : « Homo Oeconomi- cus » e Stato Corporativo
in : Giornale degli Economisti del gennaio 1932. Riportiamo qui la
bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio dell’economia
corporativa, tralasciando di segnalare gli studi, nume¬ rosi, di
carattere polemico e giornalistico, ma privi di consapevolezza scientifica
e, spesso, deformatori della stessa realtà politica corporativa : Alberti
M. : L’ « Homo Ooecomoinicuis » e V Esperienza Fascista in Gior¬ nale
degli economisti, gennaio 1929; Arias G. : L’Eco¬ nomia Nazionale
corporativa, Roma, Libreria del Lit¬ torio, 1929, idem. idem. Economia
Corporativa, Firenze, Poligrafica Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’
Ste¬ fani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R.
; Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica
economica, in « Giornale degli Economisti ». Febbraio 1934 (Classifica le
varie politiche economiche. Carattere di quella corporativa: autogoverni
economici particola¬ ri, con il compito di emanare misure rispondenti,
nei rami particolari, alla politica economica generale emanante dal
governo economico centrale. Le corporazioni sarebbero gli autogoverni
economici particolari). Bruguier G. : A proposito di interventi statali, in
«Ar¬ chivio di studi corporativi », Anno IV, Fase. III, Pisa, 1933
; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. : Lineamenti di politica
economica corporativa; Carli F. : Teoria generale della economia politica
nazionale, Milano, Hoepli, 1931; e dello stesso: Le crisi economiche delV
ordinamento corporativo della produzione, in « Atti del II Convegno di
studi sindacali corporativi», Ferrara, 1932; Chessa: Caratteri e forme
delT attività economica, in «Rivista di Politica economica » del 31
gennaio 1931. (Secondo questo autore J economia corporativa non è altro
che un’ economia di complessi economici, che dev’ essere studiata nella
sua realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni dell
individuo con la società e di questa con lo Stato). Dello stesso autore:
Vecchio e nuovo corporativismo eco¬ nomico in «Saggi di Storia e Teoria
economica, in onore di Prato», Torino, 1931 (In questo studio l’autore
conclude che il corporativismo italiano pur traendo alcuni suoi elementi dalle
teorie enunciate dal Ge¬ novesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da
queste in quanto che inquadra le sue idee in una concezione piu
larga, che non tiene solo conto degli interessi dei singoli, ma anche di
tutta la collettività nazionale, che per essere sempre più aderente ai
bisogni ed agli interessi della Nazione, viene organizzata
gerarchica¬ mente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma e la
sostanza della economia corporativa, Firenze Poligrafica Universitaria, 1932;
Del Vecchio G.: Teoremi economici deW ordinamento corporativo. Comunicazione
alla XIX riunione della «Società pel Progresso della Scienza», riassunta
in « Lo Stato » settembre-ottobre 1930; Einaudi L. : Trincee economiche e
corporativismo in « La Riforma Sociale », novembre-dicembre 1933; e dello
stesso: Corporazione aperta in «La Riforma Sociale ». Fanno M. scritto cit.;
Fasiani M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in « Studi
sassaresi », fase. IV. voi. X. 15 gennaio 1933; Ferri C. E.: L’ordinamento
corporativo dal punto di vista economico, Padova, CEDAM,; Fovel M.:
Economia e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E., 1929 e dello stesso:
La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei « Pro¬ blemi del
Lavoro», 1930; Politica economica ed econo¬ mia corporativa, Ediz.
«Diritto del lavoro», 1929; Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E.
Ferrara 1930; Fossati A.: Premesse per lo studio di ima economia e di una
pplitica economica corporativa, in : « Rivi¬ sta di Politica Economica »,
fase. IX.X.1933. (Ritiene questo A. che tanto la politica economica corporativa,
quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica de¬ gli individui
dei gruppi animati di una coscienza corporativa sono teorizzabili: il secondo
per definizione, e in tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi
alla co¬ scienza corporativa (all’autore parendo il più adatto
perchè conforme alle direttive del Regime quello che ha a base 1
interesse della Nazione, ossia il massimo be¬nessere individuale compatibile
col benessere della Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano suffi¬
ciente chiarezza (univocità) e costanza da consentire una costruzione
logica di conseguenze possibili. Pur¬ ché non si mescolino precetti e
teoremi, e peggio, non si confondano gli uni con gli altri, è
perfettamente legittimo fare della economia corporativa una « eco¬
nomia » astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto empirico). Gobbi
U. : Il procedimento sperimentale della economia corporativa, « Giornale degli
economisti», ottobre 1930; Galli R. : Corso di economìa politica,
Firenze, Poligrafico Universitario, 1932, e dello stesso: Corso sulle
imprese industriali, Firenze, Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La
scienza economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto
all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di Torino), e dello
stesso : Scienza, critica e realtà economica, in « La Riforma Sociale »;
Lanzillo A.: Studi di economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso
A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in ««Rivista Bancaria », novembre
1928, ed Economia corpora¬ tiva e politica economica, in « Giornale degli
Economisti »; Lo Stato come fattore di produzione, in « Rivista Bancaria » (Lo
Stato come inserzione di volontà nell’ attività economical. Anche
Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la scienza economica
tradizionale e la notevole incompren¬ sione degli economisti ortodossi i
quali riescono interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee
li- erali o di altre tendenze, ma come scienziati dell’economia,
riconosce che per dare un carattere di socialità, che concili l’interesse
privato con quello sociale o nazionale, alla economia privata, non è
necessario giungere alla totale abolizione dell’economia privata ed alla
identificazione dell’ economia pubblica, come ha fatto Spirito, il quale
col porre erroneamente al centro dell attività economica umana la
produzione e non lo scambio non ha visto che nello scambio si ha la
sintesi dell’ interesse individuale e dell’interesse sociale, perchè
nello scambio, mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per
eliminare del tutto, come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico
dei valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e
identificare F iniziativa economica privata coll’ iniziativa economica
pubblica o statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la
perso¬ nalità economica umana e con essa tutte le diff erenze di
bisogni, di desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli
uomini, differenze che costituiscono la base dello scambio e la molla del
progresso economico e che nessun sistema di economia socialista è mai
riu¬ scito a sopprimere. Il porre a fondamento dell’economia
corporativa la produzione e quindi l’organizzazione e la gestione
economica della produzione invece dello scambio, inteso nel senso della
ripartizione del prodotto di ogni grande ciclo produttivo fra tutti i
fattori della produzione mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del
lavoro, del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli
intermediari, porta a delle conseguenze pratiche fonda- mentali per la
definizione dei fini e delle funzioni della Corporazione. Nel primo caso,
infatti, si dovrebbe giungere alla Corporazione organo di gestione
economica col passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla
Corporazione e con la conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in
economia pub¬ blica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non
as¬ sumerà la direzione della gestione economica della produzione, ma
avrà la funzione economico-sociale di eliminare il classismo o particolarismo
economico, di impedire che uno o più fattori della produzione si facciano la
parte del leone nei confronti con gli altri fattori e di adeguare
l’andamento dei prezzi al produttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr.
di questo A. : Il problema fondamentale delTeconomia corporativa,
in « Critica Fascista », 15 dicembre 1933 ; Masci F.: scritti cit. e:
Saggi critici di teoria e metodo¬ logia economica, Catania (Sono raccolti
con lievi modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni
C.: A proposito di un tentativo di teoria pura del corpora¬
tivismo, in « Fiamma italica », gennaio-febbraio 1930 e dello stesso:
Strumenti teorici di corporativismo, in «Giornale degli economisti»,
settembre 1930 (in questi scritti il Pagni critica a fondo la costruzione
teorica cor¬ porativa del Fovel. Contro questi si schiera anche
Bru- guier nello scritto sopra citato ed anche noi nei nostri
scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.: L’equazione
dell’equilibrio economico nei regimi corpo- rativisti, in «Lo Stato»,
aprile, maggio ed ottobre 1933; Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in
«Educazione Fascista », giugno-luglio 1927 e, dello stesso : Economia
cor¬ porativa e agricoltura, in « Atti del II Convegno di studi
sindacali e corporativi», Ferrara, 1932; Spirito U.: La critica
dell’economia liberale, Milano, Treves, 1930, dello stesso: I fondamenti
dell’ economia corporativa, Milano, Treves 1932, e Capitalismo e
corporativismo, Firenze, Sansoni, 1933. L’interesse suscitato
degli scritti filosofici di questo A. sono dovuti a ragioni di carattere
esclusivamente polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane
filosofo. Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che
ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai seguaci della
scuola storica tedesca e dagli istituziona- listi americani contro la
economia liberale. È confusa la scienza economica con la praxis dei
governi liberali e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa
che ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha espresso
nella sua opera monumentale sul capitalismo e quanto altri economisti
contemporanei hanno scritto contro il sistema capitalistico, e che l’A. si
guarda bene dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra
capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che m
Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei tentativi di
costruzione teorica del corporativismo fascista tiene conto, in particolare delle
dichiarazioni della << Carta del Lavoro» che rincalzano la propria
tesi per Ja quale vede la soluzione corporativa n clini entità
assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il pen- siero di Hegel e
di Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la
quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammis- sione della
corporazione come proprietaria. Propugna, inoltre, 1 A. il
partecipazionismo operaio, altro espe¬ diente vecchio e già discusso
ampiamente nei tempi passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere
nel sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per cui dopo
aver letto gli scritti di questo A. del corpo¬ rativismo si riuscirà a
capire meno di prima. E non m tenrnamo quii su altri grossolani errori
espressi dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corporative, come
per es. su quelle in cui consiglia per il nostro Paese una
industrializzazione ad oltranza, la emissione di prestiti esteri, una
politica commerciale che sara forse realizzata nell’anno 2000, ecc
(Tutte queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Corporativismo,
Sansoni, Firenze, 1933). Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit.,
Jannaccone, cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci,
ap¬ presso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’eco¬ nomia
filosofata e attualizzata, in «Critica», 20 gen- naio 1931 ; Galli R. :
SulF identità delV individuo con lo Stato in «La Vita Italiana», novembre
1933; (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corpo -
ratina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi Sinda¬ cali e Corporativi
», Ferrara, 5-8 maggio 1932; Bruccu- leri A.: L economia corporativa, in
«La Civiltà Cattolica», 16 dicembre 1933 e dello stesso: Crisi e capi-
talismo, nella stessa rivista del 6 gennaio 1934, etc.
Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e Stato nelle
Corporazioni (« Archivio di Studi Corpora- .V'iV-’i 193 - 3 ’ anno
*V, f asc - IV) mostra come la formula dell identità è chiarissima nel
pensiero dei socialisti e dei liberali. L’individualismo moltiplicando le
sue forze non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato
del Corporativismo è la disciplina economica nazionale. Con il
Corporativismo si passa dal soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione
professionale è affidata, sopratutto la oggettivazione delle scelte
economiche. Il nuovo modello della realtà economica non potrà non
essere anch’eseo, naturalistico e deterministico: non c’è scienza senza
determinismo. Caratteristica delle concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per
es. nello Stato Corporativo non vi saranno più disoccupati!).
La nostra divergenza ideale con l’economia de¬ gl idealisti non va
assolutamente confusa con le invettive di quei messeri interessati ad un
intervento che oggi chiedono e ieri respingevano, nè con le
interpretazioni di coloro che hanno gli occhi sulla nuca!
Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii della Scienza Economica
e l’economia corporativa («Rivista di Politica Economica», marzo-aprile
1934). Il M. rifiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo. Integrando
® correggendo le opinioni di Arias e Fovel considera l’economia
corporativa come una economia non eu¬ clidea. Papi U. : Un
principio teorico deW economia corporativa, in « Giornale degli Economisti »,
maggio 1930 e più diffusamente in « Lezioni di Economia Generale e
Corporativa», voi. Ili, Gedam, Padova, 1934. (Il P. ritiene che il
sistema corporativo si possa considerare come lo strumento capace di
assicurare le imprese contro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi,
scioperi, etc.). Rossi L. : Economia e Finanza, cit. (Chiarifica
il concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teo¬ ria
dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento corporativo traduce nel
diritto positivo un complesso di norme di diritto naturale, che
presiedono al fenomeno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto
cor¬ porativo, definizione giuridica della libertà economica c e
sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la figura dell’uomo
corporativo si risolve nell’uomo economico libero. L’economia corporativa
importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un sistema or¬
ganico, razionale di politica economica. L’economia corporativa risolve il
contrasto fra l’essere e il dover essere della vita economica. Dover
essere: razionalità (teoria economica pura), eticità (politica
economica). Le forze direttrici corporative devono fornire al dina¬
mismo economico il volano regolatore). Vinci F. : Il corporativismo
e la scienza economica («Rivista Italiana di Statistica» etc., febbraio
1934. Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fattori di
produzione e fra le varie imprese e delle con¬ dizioni di concorrenza
mondiale, ha dimostrato che la « disciplina unitaria e l’autodecisione,
ove conducesse fino ala determinazione delle produzioni e dei consumi,
esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni dell’uria o dell’altra Corporazione
investirebbe i rapporti reciproci, non solo fra due o tre, ma fra tutte
le Cor¬ porazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle Cor¬
porazioni un continuo, pericoloso compito di revisione e di conciliazione
in base a valutazioni complicatissime, a criteri di difficile determinazione
oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa. Si espressero anni
addietro a favore del contingente : Griziotti, Finanza di guerra e
riforma tributaria, in «La Riforma Sociale», 1916, pag. 150-174. Contro
il contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Fi¬ nanze,
Torino, 1932, pag. 257-262. Ed oggi, a favore del contingente (citiamo
gli scritti più seri): Benini, loco cit. ; Montemurri G. : Per una
finanza corporativa, in « Echi e Commenti », 1929, n. 12, e dello stesso
: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti del II
Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬ rara, 1932, voi. II;
Bonanno: L’extra-individualismo nelle entrate del bilancio dello Stato, «
Dir. e prat. trib. », 129, 89, e dello stesso: Lo Stato corporativo e
la sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I, 357; Uckmar :
Ordinamento Corporativo e ordinamento tri¬ butario, « Relazione al I
Convegno nazionale di Studi Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso:
Verso una revisione corporativa della pubblica finanza, in «
Diritto del Lavoro », Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato
corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Fi¬ nanza corporativa,
in « Diritto e Pratica Tributaria ». Roma, 1929, ed infine, sempre dello
stesso: Ordina¬ mento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti
del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬ rara, 1932, voi.
I. I ra questi autori la corrente radicale trova favorevoli Benini,
Bonanno e Montemurri. Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e
per¬ ciò la vorrebbe riformata in un senso meno individualista, ma nei
suoi studi esprime delle proposte che trova consenziente tutti coloro,
fra i quali lo scrivente, che riconoscono doversi inserire
nell’ordinamento corporativo anche la finanza allo scopo di raggiungere
quei fini che gli conferiscono caratteri fascisti. Sono
contro D’Alessio, in un suo articolo: Eva¬ sione fiscale e riforma
tributaria («Augustea», N. 4 del 1929), e Genco («Comunicazione al II
Conve¬ gno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara, 1932, voi.
II) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per lo meno alla
riduzione degli organi finanziari statali ed alla loro sostituzione con
le Corporazioni! Uckmar, contingentista moderato, riconosce che il potere
impo- sizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può
inscriversi fra i fautori di una finanza coordinata all’ordinamento
corporativo, ma è lontano dalle Improvvisate e rivoluzionarie
trasformazioni. La finanza oltre a presentare un contenuto politico,
riveste un contenuto tecnico con il quale male si accorda la improvvisazione
degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi- stazione di essere
considerati rivoluzionari al cento per cento, mentre agli altri rimarrà
la soddisfazione di non avere incoraggiato i salti nel buio che in
materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò si
ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non meno
rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano i ce piu radicali. Il
tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti scritti
fra i tanti che accolgono, con moderazione, una riforma tributaria
in ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca- Problemi di
Finanza, Torino, Giappichelli 1930; Scandali: E.: Imposizione tributaria
e Stato Cor- porativo in « Echi e Commenti », 1929, N. 10 e dello
TTr- A r- ,ane r e in «Giustizia tributaria», giugno 1929;
Gangemi L- rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica
Economi- Stato C e dell ° stesso: La finanza nello Stato
Corporativo, in « Commercio », Roma, gennaio e S“,° Ì 93 £ r”
cernii in «Rivista di Politica Economica», fase. VII-Vili
(e una carica a fondo contro la funzione graduale, ransitona e
limitata del contingente come è propugnata da Montemurri e dal Cardelli il
quale ultimo ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il Commercio» f
, 7 iarzo \ a f, rlIe 1931 )i Toselli Colonna: Teoria e problemi della-
economia finanziaria corporativa, Ales¬ sandria Colombani, 1932 (è questa
una diligente ras- segna dei problemi corporativi della finanza). Infine,
si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni m7rzoT932
** WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t
SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra opportuno affidare
all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari a gin
associati. Le associazioni sindacali, probabilmen¬ te « non sarebbero
neppure molto disposte ad assumersi tali compiti, ohe spesso non
sarebbero neppure in grado di svolgere efficientemente data la
limitatezza e l’inade- guatezza dei mezzi che hanno a propria
disposizione, anche a prescindere dal giusto timore dei dirigenti
di potersi creare m tal modo animosità lesive di quella compattezza
dell’Associazione Fascista, che costituisce uno dei suoi requisiti più
essenziali in relazione ai fini propostisi dal nostro
legislatore». Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La
ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per quanto riguarda
l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa: due tipi di imposte dirette, proporzionali,
l’una sul reddito totale di famiglia, l’altra sul patrimonio-.
Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il procèsso evolutivo della
legislazione fiscale degli Stati moderni pongono in evidenza i tributi
globali e personali come il fondamento di un corretto sistema di
imposizione di¬ retta in luogo delle imposte reali imperfette e causa
di sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro sistema at¬ tuale
è fondato appunto sui tributi reali, integrati da una imposta personale,
la complementare, che con i procedimenti fatti approvare dal Ministro
Jung pre¬ senta una struttura che le consente di assolvere agli im¬
portanti suoi compiti. Ma, appunto perchè la riforma proposta dal
Benini muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’imposizione
diretta, sono necessari, per giungere ad essa, lunghi e ponderati studi
sulla entità, sulla composizione, sulla distribuzione e sul
raggruppamento dei redditi, sulla organizzazione tecnica della nuova
amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una
riforma così vasta e complessa che le condizioni del- 1 economia
nazionale e della pubblica finanza entrino in un periodo di sufficiente
tranquillità e stabilità. Tutte cose queste di cui il Benini è consapevole.
Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra le due opposte
opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il contrario che questa non
esiste sostiene una terza e differente che trova riscontro nei
seguenti scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello
Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee generali sulla
trasformazione del nostro sistema tributario, esposte al Primo
Convegno di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.
glio Prov. dell’Economia di Pavia», maggio 1930; Le finanze pubbliche e
l’ordinamento corporativo, in « Economia », N. 6 del 1930. Il Griziotti, se non
erriamo, desidera un sistema di imposte congegnate in modo da
rispettare le esigenze della produzione. Vuole un sistema tecnico e razionale
che sodisfi anche i criteri della giustizia nella ripartizione dei
carichi pubblici. Rico- Gangemi, Dottrina Fasciata ed
economia. nosce che l’opera del primo periodo della finanza
fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione. Queste idee
evidentemente indicano nel Grìzìotti un fautore della finanza
corporativa. Dove il nostro non ci trova consenzienti è nei dettagli
(ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei
sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.
Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese (La Finanza
e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati Moderni, Padova, GEDAM) «
Nello Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fonda¬
mentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè alcuno dei
principi che reggono l’economia capitalista viene apriosticamente
ripudiato: ma vi si aggiunge un elemento che è quello del controllo
sociale che, sulla iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato
dallo Stato ». . Nello Stato corporativo anche la politica
finanziaria deve necessariamente seguire le direttive, che non coincidono
nè con quelle del sistema liberale-capitalista (benché ad esse siano
assai più vicine) nè con quelle del sistema collettivista.
Essendo l’imposta uno dei principali strumenti di cui lo Stato —
qualora rispetti il principio della proprietà privata — si può valere, per
intervenire nel cam¬ po dell’economia, individuale, è logico che ad essa
faccia più largo ricorso uno Stato, che ha per principio l’intervento,
ogni qualvolta l’interesse nazionale lo richieda. E essenziale
rilevare che nel sistema corporativo, mutano fondamentalmente i modi
dell’azione statale: mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si propone
fini di benessere e prosperità, che vengono attuati mediante la
protezione di tutte quelle forze individuali che si dimostrano utili a
tale intento, lo Stato corporativo, oltre a proseguire per tale via i propri
fini, si fa esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli
scopi suddetti, non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri
fini, ma facendosi iniziatore dei provvedimenti atti ai dirigere le forze
individuali all’obbiettivo prefisso. Non possiamo chiudere questa
nota senza ricordare il contributo che, anche in questo campo ha dato
Maf¬ feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in «
Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova- tori sistematici ed
i creatori di schemi astratti fareb¬ bero bene a leggere ed a meditare se
veramente sono, come si ritengono, difensori dell’interesse
nazionale. Capitoli della storia: “Mussolini ed il fascismo” p. 1; “La
respnsabilita della guerra ed il “tradimento militare” p. 25; “La preparazione
del colpo di Stato”, “L’antifascismo del Governo Badoglio e la capitolazione”;
p. 99; “La liberazione di Mussolini”; “La proclamazione della Repubblica
Sociale”, “Il Manifesto di Verona”, “In lotta per la difesa dell’onore
italiano”, “La lotta per la difesa del patrimonio nazionale italiano”; p. 211,
“La politica di conciliazione nazionale;” “Conati di revision in senso liberale
della tendenza autoritaria e per la instaurazione della legalita”; “Il processo
di Verona e quello degli Ammiragli”; “La politica sociale, dindacale ed
economica”; “Il regno d’Italia”, “I comitati di liberazione”, “La guerra
partigiana”, “Il Ragrgruppamento Nazionale Repubblicano Socialista”, “La
catastrophe militare”; “L’instruzione dei ‘sanguinari’.” – Tra Croce e
Mussolini, contributo a ”Gentile” – “Nazionalismo Sociale” – contribute alla
rivista La Verita (fascista). “Nazionalismo Sociale”: L’idea corporative come
INTERPRETAZIONE della storia – con una conclusion politica di Augusto de
Marsanich, Achille Celli Editore. Domenico Edmondo Cione. Keywords: ICARO, l’idea
corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale, icaro, la caduta
d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana, corporativa, principio
corporativo, principio cooperativo, corpotivismo, corporatismo, corporativismo,
ideale corporativo, conservativo come corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cione” – The Swimming-Pool Library.Cione
Grice
e Citrone: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A
member of the Cinargo and a friend of Giuliano. Chytron
Grice e Civitella: la ragione conversazionale e ’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montorio al Vomano). Filosofo italiano.
Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love
Delfico – while he wrote on Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read!
– mine is his (Delfico’s, not Hart’s) little thing on the beautiful – we must
remember that back in them days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is
a diminutive of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the point is important for for
Platonists, love (that makes the world go round) is desire for the ‘bello’
including the MORAL bello – so it is the key concept in philosophy – and not as
Sibley and Scruton narrowly conceive it!” Civitella è giustamente ritenuto il Nestore della
letteratura napoletano. Questo illustre autore di molte opere di storia e di
una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta istruzione una
accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua
terra; e possiede, ad un'età così avanzata, l'ancor più raro merito di saper
comunicare le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere, una
facilità e semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli che
le ricevono. Figlio di Berardo e Margherita Civica nacque nel castello feudale
di Leognano, in provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano
almeno al secolo XVI quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente
riconosciuto come il capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in
“Delfico” e adotta il motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni,
e tra questi Luigi Savorini, il cognome originario era “de Civitella”.
All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben
presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato
a Napoli, per il completamento degli
studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le
materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per
il diritto e Mazzocchi per l'archeologia. Nella città partenopea si
laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito
diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se
ne spogliò subito per motivi di salute. Nella prima parte della vita si
dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia
politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel
miglioramento e l'abolizione di molti abusi. Con il ritorno in patria si
inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di
Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le
premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del
territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi,
Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio Delfico, il figlio di Giamberardino, che fu
allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto
noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di
libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente
del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio
della Repubblica Partenopea. Caduta la Repubblica Partenopea anda in
esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza.
Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima
storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una
serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale
di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio
territorio. Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far parte del
Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali. Restaurato il
governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli archivi e
successivamente Presidente della Reale Accademia delle Scienze. Venne
eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla presidenza della
Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia
di C. si estingue con Marina, sposata al conte Gregorio De Filippis di Longano,
dando origine all'attuale famiglia dei conti De Filippis marchesi Delfico. La
filosofia di C. si forge nel fermento culturale del Secolo dei Lumi e del
diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche furono compiutamente esposte
da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in quella di Rousseau, nelle quali i
principi del diritto naturale erano rappresentati dalle idee di libertà e di
eguaglianza di tutti gli uomini. I fermenti culturali del periodo assunsero una
valenza rivoluzionaria e contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale
logora ed invecchiata, che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità
invadente. Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a
cui si richiamò l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla
compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto
dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del
regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione
dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole
della morale corrente. Come politico e come giurista, e eminentemente
pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori
del suo tempo. Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto
nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede
nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a
filosofo. Altre a Teramo e alla frazione
di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla
Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo;
Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche
intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato
massone. Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non
esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie
relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo
all'appendice del volume di Eugeni, Forti, allievo di Fergola. I principali
indizi si possono così riassumere: I maestri ed amici di C., come
Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni; In un diario del
curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente
a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove
un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella
rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski
ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda
il nipote Orazio C., futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare
a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.
Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti
massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo
nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre saggi: “Saggio
filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria
sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti
del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita
de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso
Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità
della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul
bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città
di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo,
Angeletti). Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita Perrone, La Loggia della Philantropia. Un
religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza
massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni,
Sulla vita e sugli scritti del commendatore C., in Giornale arcadico di
scienze, lettere ed arti, Raffaele
Liberatore, Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili del Regno delle
Due Sicilie, Ristampato come C. in: De Tipaldo Biografia degli Italiani
illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù
di C., Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle
opere, Teramo, Angeletti, Aurini, C., in: Dizionario bibliografico della gente
d'Abruzzo, ITeramo, Ars et Labor, ora in
Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda editrice, Vincenzo Clemente,
Rinascenza teramana e riformismo napoletano, l'attività presso il Consiglio
delle finanze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Clemente, Dizionario
biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella
Striglioni ne' Tori, L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di
Teramo, Teramo, Centro abruzzese di ricerche storiche, Carletti, C.. Riforme
politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni
ETS, Perrone, La Loggia della
Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo,
Sellerio. Treccani. Il DRITTO ROMANO è sempre incerto ed arbitrario. Tale il
suo carattere, poichè, sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure
quelle sole qualità -- incertezza e arbitrarietà -- sono bastanti per renderlo
mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle
che portarono a luce LA VANTATA GIURISPRUDENZA ROMANA. Ed accio questo
ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e
de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gl’innumerevoli
doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti I FILOSOFI si
servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già si vede che io parlo
delle opera del giureconsulto SESTO POMPONIO, della quale si avvalsero i
compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo dell’origine del
dritto, tutto cid che il nomato giureconsulto raccolgeo su tal oggetto nel suo manuale.
E poichè POMPONIO incomincia la storia del dritto da ROMOLO e dagl’altri seire
di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca, abbastanza
oscura, non vi sarà pero materia di dispute, poichè SESTO POMPONIO parlando
conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con
incerte leggi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè
si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia –
GL’OTTIMAT -- nella qual forma Roma ha il suo incominciamento. Quindi POMPONIO
si espresse nelle precise parole. POPVLVS SINE LEGE CERTA SINE IVRE CERTO
PRIMVM AGERE INSITVIT. N’altrimenti dove avvenire, poichè quella prima
associazione essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non
avendo ancora positiva forma di società, dove essere piuttosto REGOLATA DALLA
FORZA DEL COMMANDO che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che ROMOLO, per
accrescere il numero de primi suoi compagni, prese l’espediente d’APRIRE UN
ASILO da era retto ve s9 da che si puo
comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i
più valorosi briganti, e questi divenneno i padri della patria, i forti, i
primi quiriti, e formano il SENATO. Dopo questi primi tratti caratteristici
relativi alla legge, POMPONIO segue a raccontare tradizione, che essendo
cresciuta in qualche modo la città, ROMOLO divide il popolo in tante parti
chiamate “LE CURIE” e col voto di esse prende. LA CURA DELLA PUBBLICA COSA e in
seguito FA LA LEGGE CHE CHIAMA “LEGGE CURIATA” -- come ne fanno ancora i sei re successivi.
TUTTA LA LEGGE CURIATA è raccolta da SESTO PAPIRIOS, il quale viv al tempo di TARQUINIO
il superbo – e, dal nome dell'autore, quella raccolta è chiamata il “DRITTO
PAPIRIANO”. Non m'impegno nelle dispute storiche e critiche delle quali si occuparono
gl'interpreti di POMPONIO, ma osservo che, sebbene da principio, parla dello
stato informe di Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa
dindi vedere come è data una forma, non una costituzione, alla città, e come
dai re è promulgata la legge curiata. Per quanto durano i regii signori, Roma
non ha dunque che QUESTA O QUELLA legge occasionale, e LA SOCIETÀ È MANTENUTA
PIÙ COL GOVERNO CHE COLLA LEGGE. Prima intanto di passar oltre, e per la
migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non è inutile il presentare lo stato
politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale è l’indole della
legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non hanno autori contemporanei
o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed esattezza; percio
scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni pervenutaci,
m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra l’oscurità delle
origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia da un ADUNAMENTO
DI PERSONE APPARTENENTI A VARI POPOLI -- non solo ITALICI, ma greci e celtici
ancora. Codesta tumultuaria associazione, avendo ROMOLO per capo vive, da principio,
di prede e di rapine, gusto che fa il perpetuo carattere della nazione, trasformato
poi in quello di conquiste, come gli avoltoi comparsi a ROMOLO nel prendere gli’auguri
sono poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose, da
principio NON VI È BISOGNO DI LEGGE, poichè non vi era proprietà, essendochè
Roma è fondata come LIVIO si esprime in fondo alieno, e le piccole private
dispute sono decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari,
e nelle società de’ briganti è sempre avvenuto. Avviene similmente che, nel
formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia –
GL’OTTIMATI -- e così avvenne di Roma. Il palagio di ROMOLO è una succida
capanna. Il di lui TRONO quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il SENATO è
la scelta de’ commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che
poterono vantare certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto
il resto è vile plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale
dell’aristocrazie nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ sono nomi di versi
appartenenti alle stesse persone secondo i va apporti ne' quali sono considerati,
o di Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata sulle
divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia
non ha alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi
autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle
parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagl’antichi autori,
parlando dell’origine del CLIENTE, si esprime in termini rappresentativi della
verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. PATROCINIA
APPELARI CAPRA SVNT CVM PLEBS DISTRIBVIA EST INTER PARES. Ne si devono contare
per un ordine intermedio di cittadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati
fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato
militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società
nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma
nella quale da principio è stata abbozzata. Sotto il re NUMA vediamo i primi
passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale:
la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei
ministri e degl’interpreti della divinità. In somma, il principio di un GOVERNO
TEOCRATICO, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare
sulle cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che
specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo hanno i primi
principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar
gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gl’atti umani e farli
nascere ancora in UN POPOLO QUANTO IGNORANTE TANTO SUPERSTIZIOSO. Così par che
fa Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel
natural corso del sociale andamento. Cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia
sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del
sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale:
GL’OTTIMATI. Su questo piano Roma cresce successivament sotto i re. L’aristocrazia
è sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali
mezzi crudeli e sacri sa sostenersi. MASSACRARONO ROMOLO E NE FECERO UN DIO.
Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta. Il primo
per quanto io so a darne l’idea è VICO, il quale, riunendo alla multiplicità
delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali,
fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degl’antichi
costumi sa scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso
delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale
nasce dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della
compagna superstizione. Le luminose tracce di VICO sono poi seguite da DUNI, e
fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nasce
aristocratica – Gl’otimati --, che il RE non è che il capo dell’aristocrazia,
che i soli patrizi – gl’ottimati – hanno la quarta di cittadini che sono in perfetto
stato di combinazione l’aristocrazia POLITICA e l’aristocrazia sacerdotale, e
che il nome di ‘POPOLO’ ne’ primi tempi ai soli patrizi (ottimati) appartenne,
come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza – CIVES, POLIS -- i
quali poi sono gradatamente dalla PLEBE acquistati. DUNI concilia luminosamente
la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto POMPONIO e fa vedere
che il re NON HA CHE UNA *PARTE* del governo o dell’amministrazione, ma che LA
SOMMA DELL’AUTORITÀ, LA VERA SOVRANITÀ, il
potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedeno nel corpo de’
patrizi – L’OTTIMATI -- come anche il dritto di eliggersi il loro re o
principe. Sono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (DUNI, Orig.
del Citted. Romano) ministri ed interpreti. E, siccome per un’eterna verità, l’aristocrazia
– GL’OTTIMATI -- non si sostiene che
sull’appoggio della SUPERSTIZIONE POLITICA. Cosi, dal corpo aristocratico –
Gl’OTTIMATI -- si sceglievano i vari sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici
è specialmente destinato a dar i giudici alle cose umane. Quindi la CONOSCENZA della
legge e l’amministrazione delle medesima è un dritto esclusivo e divenne una
dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a
modo d’oracoli e strettamente CUSTODITA NELL’ORDINE de’ patrizi – GL’OTTIMATI.
Codesta emanazione della prima ‘teocratica’ idea non solo si conserva per
quanto ha di durata il governo del re ma per quanto vive la Roma. Una
repubblica, colla sola differenza pero che come crescheno le cognizioni ed i
necessari riflessi della ragione, e da essi RIFLESSI DELLA RAGIONE POLITCA nasceno
i sentimenti di libertà e d’eguaglianza, così quelle idee si andano a poco a
poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli simboli commemorativi, o il
nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva influenza. È necessaria questa
breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo stato della legge, dell'
amministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’ primi tempi di Roma. Senza
impegnarci nella particolari legge sotto il re emanata dal senato regnante, possiamo
con sicurezza affermare che la legge è minima, eventuale ed incerta -- e che l’interpretazione
delle medesine essendo stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni
individui, possiamo dire ancora che la giurisprudenza è incerta, irregolare,
arbitraria, e quale AD UNA NAZIONE IGNORANTE E SUPERSTIZIOSA può solo convenire,
e per conseguenza esser stato pur vero ciocchè POMPONIO scrivee, che sotto i re
sine lege Gerta – SINE IVRE CERTO -- ine jure certo viveno i romani. Lascio agl’ambiziosi
di glorie filologiche legali l’andar raggruzzolando i pochi superstiti frammenti
della legge regia, poichè i stessi antichi giure-consulti ne fanno poco conto e
le lasciano perire. Chi vuole però riconoscerle, trova in esse la conferma di
quell’idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche
associazione. Espulso il re col ratto di LUCREZIA, si crede comunemente che il
governo di Roma cangia d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gl’eroi
della libertà. Ma chi giudica senza
prevenzione non vi trova che gl’eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano
di libertà; della propria libertà però non della libertà pubblica -- per
servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio sugl’altri.
Quindi, Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge
e l’amministrazione politica e civile rimaneno nella stessa condizione.
L'incertezza è seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio. Ciocchè ci dà
manifestamente ad intendere POMPONIO dicendo: EXACTIS DEINDE REGIBVS AE
ITERVMQUE CÆPIS POPVLVS ROMANVS INCERTO MAGIS IVRE ET CONSVETVDINE ALIQVAM PER
LATAM LEGEM IDQVE PROPE SEXAGINTA ANNIS PASSVS EST. L’aristocrazia è stata
alquanto abbassata dall’ultimo re, per cui ha fine il suo governo. Ma dopo la sua
espulsione ritorna presto nel primiero vigore. Quindi gl’effetti doveno essere
conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infattim si sa che DALL’ANNO
FATALE AI TARQUINI FINO AL TEMPO DELLA LEGGE DECEMVIRALE, il potere legislativo
ed il potere giudiziario sono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo è
ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i
plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della
forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale sono tenuti, tentano
de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi.
Ottenuto il TRIBUNATO si avvidero ben presto che esso è troppo debole ostacolo
contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente è annidata dentro la
stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo che fieramente la difende.
L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo
ancora dell'opinione, sono più volte ripetute. Ma le loro domande sono incerte,
le loro querele generali, ed i loro desideri si riduceno ad essere considerari
come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus. In questo
stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi può essere migliore
per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè
la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser
riguardati come uomini cittadini. Strano ed ARROGANTE sembra al patrizio il
desiderio della plebe, e strano pare sempre al possessore del potere arbitrario
il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio
non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione
e persuaderli che i patri costumi sono sufficienti e che di nuova legge non vi è
bisogno – MORES PATRIOS OBSERVANDOS LEGES FERRE NON OPORTERE. Sono intanto
inutili le persuasioni, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trova detta suo
questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul
modo di sedare le civiche discordie rispose loro. Fatevi la legge; i Romani
plebei senteno l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je
gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche
sono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposa colla più buona
fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali
doveno mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a
raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occultano in qualche
luogo d'Italia, e la legge poi è tirata dall’arche pontificali e perchè nulla manca di condimento
aristocratico, si fanno poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da
Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle
XII tavole se è trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, è un
articolo sommamente istruttivo. Ma questa ricerca veramente politica è stata
molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dove
servire e che non dove aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata
autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde
che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastano l’usanza, no la legge. Il
popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso
parla per bocca de buoi e d’altri animali, del linguaggio de quali si fa un
merito d'essere interprete. I plebei vuoleno che la legge si fa dal popolo
legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi è altra
legge che quelle ch'essi stesse fanno: darurum legem neminem, nisi ex parribus
ajebant. Il popolo vuole una legge d’uguaglianza. Il patrizio le promette in
parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente, dopo
tante vicende le X tavole furono pubblicate – E SUCCESSIVAMENTE L’ALTRE DUE -- come
ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e
resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il
popolo la esamina e la approva solennemente. Ma la storia stessa ci dice che
quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno che sconvolsero tuttol'ordine
pubblico e secondo LIVIO nihil juris in civitate reliquerant, che PER QUELLE
LEGGE OGNI CONSUETUDINE ARISTOCRATICA È CONSERVATA, che la vantata uguaglianza
resia in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconosce d'
essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata
pienamente scoverta da molti autori e specialmente da VICO, da Bonamy e da DUNIi:
la favola d;essere state leggi d’uguaglianza e di giustizia, la può scoprire
facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia gl’avanzi di quelle
leggi. La scovri ancora il [VICO, Scienza
nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris; Duni: Dėl Cittad.
Rom.] popolo, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato può
tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse
la gente come uomini e come cittadini, non trova che UNA LEGGE CIVILE, una
legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco
l'interessano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognano UNA
LEGGE COSTITUZIONALE che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse
egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi.
Niente di tutto questo. E la plebe resta delusa della sua troppo malfondata
speranza. Ma sa rinnovare le giuste sue pretenzioni; ed in tanto senza voler
fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali, è pur giusto
portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gl’elogi de'
quali sono state ciecamente onorate dagl’antichi é da moderni; ed osservare in
seguito, se ne provenissero quegl’effetti felici, ai quali produrre sono
destinate. CICERONE in più luoghi esaltandole sopra tutte le leggi conosciute,
non è poi molto felice nel darne le pruove. Così condanna Solone, per non aver
imposto pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo
tale per onore dell'umana natura; ed eleva la seviezza della Romana
legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola,
sem sapientiam! esclama CICERONE dopo aver lungamente ragionato con logica
forense. Tale è la saviezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi;
poichè se si riguardano per la parte criminale esse sono aristocratiche,
ingiuste, severe, é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale
poch’indizi ci sono restati, andano alla conservazione dell’aristocrazia: se
per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi
concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, doveno
esser analoghe alle leggi ed all'usanze: se per la parte testamentaria, è
facile il vedere, ch' esse conteneno la massima ingiustizia politica, per
conservare in forza gl’aristocratici dritti. Della stessa indole sono le
indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche
nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al CONTRATTO, la
legge è pur sempli ci, come dove essere in un popolo barbaro con pochi rapporti
civili. Ma l’usure d'ogni specie sono terribili. Chiunque vuole esaminar quelle
leggi in buona fede, e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi dove
avere colla natura e collo stato civile, trova senza fallo ingiusti ed
irragionevoli gl’encomj alle medesime attribuiti. Ma forse neppur in Roma si
pensa tanto favorevolmente di esse, poichè col tempo par che sono del tutte neglette
e dimenticate. CICERONE stesso riferisce che, al suo tempo neppure erano ben
intese, e sebbene egli nell'infanzia le avesse apprese a memoria, era poi
passato di moda tal costume -- discebamus enim pueri XII. ut carmen necessarium,
quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio sono cadute. in tale
disprezzo ed obbllo, che sono derise come fossero le leggi dei Fauni e degl’aborigeni.
Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gl’antichi
panegiristi delle leggi decemvirali. Poichè per quanto fossero selvatiche
quelle leggi, godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' antichità; e
paragonata la giurisprudenz'antica a quel la degl’ultimi tempi della Repubblica,
il paragone risulta in favore della prima. Ma che i giure-consulti moderni, e
quelli specialmente della setta degl’eruditi riguardino ancora lo studio dei mi
peri frammenti superstiti come il più interessante per la conoscenza del
giusto, e rincariscano sugl’elogj degl;antichi, cið non può essere che
l'effetto d'un letterario fanatismo Se LIVIO chiama le leggi delle XII tavole
fonté ogni equità è troppo credulo all’espressioni ed alle promesse degl’iniqui
decemviri. Qual nie è infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed
ingiusta costituzione non è cangiata, e da quella vantata uguaglianza la plebe
neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata. Per quel principio teocratico,
di sopra accennato, ciò che distingue in tutti gl;effetti civili tanto pubblici
che privati, il patrizio dal plebeo, è il dritto degl’auspicj. È questo dritto
che da la vera qualità di cittadino negl’affari civili; ed incominciando dal
primo vincolo sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj si produce il
connubio o nozze solenni, dalle qua li deriva il carattere di padre di famiglia,
la patria potestà, e la facoltà di testare; e questa specie di nozze è de' soli
patrizi, poichè gl’altri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj
auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e
propriamente gl’auspicj maggiori poi sono i soli mezzi per aver drito alle
Magistrature, e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun cangiamento
è fatto da quelle vantate leggi su di un articolo tanto importante in quella
costituzione nella quale tutto è sacro; e la Storia c'insegna, quanto poi
costasse di tranquillità alla Repubblica, il voler introdurre in qual che modo
l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più
antichi di Roma, pure si può asserire ch ' esse non hanno propriamente la loro
origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole. Si crede intanto che quel
prezioso codice avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser PUBBLICO
e generale, avesse resa certa e stabile
la legislazione. Autorizzato dal popolo, fisso nel foro e delle curie, ciascuno
dove trovarvi la certezza de' giudizj, la sicurezza de'suoi dritti la
legittimità de' suoi dominj. Ma su questa conseguenza ci fanno nascer gran
dubbj gl’antichi autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che
il principal caractere delle prische aristocrazie è la misteriosa custodia
delle leggi o consuetudini, e della religione, ciocchè forma il privilegio
esclusivo, o la privatiya di quella sola sapienza che gode del bujo & del [(Det
ZE =]; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta sapienza romana è fondata
parte sull’ingiustizia, parte su l'errore. Su questo, perchè la loro scienza
sacra ed arcana non consiste nel celare al volgo i misteri della natura,
l'origine della cose, l'energia della forza motrice, la fecondazione
dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni:
la loro scienza arcana si raggira sul cantare o cibarsi dei polli, sul volo
degl’uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere, e simili cose,
alle quali non può appartener mai il nobile titolo di scienza o sapienza, ma
quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo fanno servire all'ingiustizia,
poichè con tali mezzi si manteneno nell'assoluta disposizione delle leggi,
facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più forte, cioè
alla sovversion ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi
qualunque sono pur pubblicate, una parte della scienza arcana e dell'
aristocratico potere anda a svanire, se non si trova un modo col quale si
ripara una perdita si grave. Quessto si effetrul col conservare il potere
giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col rendere inutili le lege es za 7 bid
SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78 )* gi; se non sono avvalorate
dalla doro recondita sapienza. Essi doveno spiegarne il senso; essi conoscere
qual dritto nasce da una tal legge; qual era l'azione che ne provenne, quale il
modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che può impedirla; e finanche
si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si può amministrar la
giustizia senza offendere i numi. Ecco insomma la giurisprudenza, ossia il
mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una legislazione.
Essa vanta un origine aristocratica, un origine che si confonde coll' errore,
colla malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la giurisprudenza è nata
subito che vi sono leggi incerte ed arbitrarie; pu e non si conferma, estese e
stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII. tavole; dopo questo
prezioso compendio dei dritti degl’uomini. POMPONIO conferma le mie parole. Dopo
pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente avvenir
suole, s'incomincia a desiderare per l'interpretazione delle medesime
l'autorità de' giurisprudenti, e le necessarie dispute del foro. Tali dispute e
tal dritto non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però
un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con vocabolo comune è
chiamato DRITTO CIVILE. Quasi nel tempo medesimo da quelle stesse leggi si fanno
nascere le azioni, colle quali si dove discettare a litigare: ed saccia non è in
libertà di ciascuno il farne uso, si pensa a farle essere certe e solenni; e
questa parte del dritto è denominata azioni della legge, o sia azioni legittime.
E cosi quasi ad un tempo nasceno queste tre specie di dritto cioè leggi delle
XII. tavole; dritta çivile derivato da esse; ed azioni della legge, composte
sui s dritti antecedenti, La scienza poi tanto delle leggi quanta
dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse è riservata al collegio de
Pontefici, quali in ogni anno destinano persona che presedesse ai privati
affari o litigi; e con questa, consuetudine vive il popolo per cento anni in
circa. Quale orribile contradizione! Appena pubblicata una legislazione tanto
vantata per la sua perfezione, è trovata cosi insufficiente che ha immediato
bisogno di sostegni e di interpretazioni. E codesto è il codice superiore a tutte
le biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di POMPONIO contiene una contradizione
alle idee di leggi e legislazione che somministra il buon senso il più comune.
Il dritto civile tanto encomiato non è altro dunque che il risultato dell’interpretazioni
de'Giurisprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti sono mai
quelli! Ciascuno sa che quella è l’epoca della più crassa ignoranza; la spada,
la zappa, i polli e le usure sono le sole idee che fiorisceno in quelle teste
leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi
qualunque è stato quel dritto consuetudinario può pur ridursi in massime o in
principj di giustizia, e cosi divenire di comune intelligenza e di un uso
generale. Si pensa il modo onde questo non avvenisse, e si mantenne sempre le
leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið è sicuramente per una vanità dottorale,
ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitraria, qual è il grande
scopo dell'ordine aristocratico. L'unico mezzo che essi viddero il più opportuno
è quello d'inventare le azioni, cioè delle formole colle quali non solo si dove
agire o eccepire in giudizio, ma secondo le quali si dove regolare i contratti
e gl’altri atti civili, accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non
basta loro di aver la privativa de' giudizj; poichè colla legge certa
difficilmente si può abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso
e della nuova pratica una nuova legislazione da surrogare all'antica scienza
mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá custodia, colla quale
prima delle XII. tavole tenne le antiche consuetudini. E perchè non si manca di
venerazione a tale straordinario stabilimento, i pontefici ne sono fatti
depositarj egualmente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di
legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diretta non a dispensar
giustizia, ma a conservare ľaristocratico dispotismo, da segno, di non aver mai
idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si tratta già di
fare la legge, si tratta solo di tener il popolo in schiavitù: perchè se avendo
già esso acquistato i dritti di privata cittadinanza può godere anche quello d'ISONOMIAI,
cioè dell' eguaglianza delle legge, qual'è il suo intendimento nel promuovere
una pubblica leggislazione, ha un gran passo verso quella libertà che tanto F
ambe, ma che più sente che conosce. Escla. md esso sovente contro quella specie
di occulta o privata legislazione, dicendo, che la sua condizione de ea in
questo assai peggiore di quella dei popoli vinti; essendogli negato il poter
sapere cioc che riguarda i più comuni affari çivili, e fino i giorni legali e
feriali, ciocchè agl’altri non è ignoto: segno sicuro che l'aristocrazia romana
e inolto più feroce o severa di quella delle altre città o popoli vicini. Il
dottissimo VICO con gran proprietà d' intelligenza pensa che quel notissimo
motto di Solone: conasciti, è piuttosto un précetto politico che morale. Pieno
l'animo di tutti i sentimenti della vera giustizia Solone ricorda con quel
motto all'oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè di riconoscersi per
uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il popolo romano non
ha un Solone, che gli da così utili ricordi; ne forse ne ha bisogno, poichè
abbastanza si riconosce, ed agl’insulti de'patrizi risponde, che non sono fioalmente
essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù dall' Empireo. Avrebbe però avuto
bisogno di un Solone, per aver lidea d'una costituzione, senza la quale arrivo
si a distruge gero gere la maggior parte degl’abusi del potere aristocratico,
ma non giunse mai a formare una pefetta repubblica, fondata su i veri rapporti
sociali e su i dritti primitivi della giustizia naturale e positiva: per cui se
Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde
anche presto nella voragine del dispotismo. Ma ritornando a quella giurisprudenza
che succedè immediatamente alle XII tavole, e che da nascita a quel nuovo
dritto così stranamente amministrato, dico che, sebbene da quanto semplicemente
espone POMPONIO, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza
aggiungerd, che l’illustre GRAVINA, tuttochè pieno d' entusiasmo per la romana giurisprudenza,
non sa nascondere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'quali ragionamo.
Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum
prodiit: aspera quidem illa tenebricosa & tristis non tam in æquitate quan
in verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiudizj filologici,
vuole mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. cap. 46. F 2 di giudicare
giustamente, come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza, avrebbe
riconosciute per arbitrarie e maligne le successive giurisprudenze dette media
e nuova, ed avrebbe disconfessato gl 'inopportuni encomj, che in generale yolle
ad esse tributare. Per quanto però si è finora ragionato, non ho toccato che
leggermente la nequizia della giurisprudenza e della giustizia sacerdotale; ma
chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie
maggiori in fatto d'amministrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e
conoscenza, e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani
misteriosi. Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile, è precipitar gli
uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità
d'espressione si chiamano LA RAGIONE CIVILE la, onde il celarle, il corromperle,
val lo stesso che privare gl'individui del corpo politico di quella ragione che
loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurisprudenti
non lasciano mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo coll'inventare
le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le
guastarono; ma de' nuovi stabili menti anche s'impossessavano per poterne
disporre a loro talento. LIVIO n'è amplissimo testimone dicendo: institutum
etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut senatusconsulta in ædem
Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante atobitrio Consulum supprimebantur
vitiabanturque. Non è però sufficiente questa legge, e i giurisperiti
seguitarono ad essere veri monopolisti della legge. Dobbiamo credere però che i
più virtuosi romani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di
soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali
quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti
rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro di allori trionfali. Si sa
che Roma allora e per alui secoli non presenta alcuna occupazione che potesse
allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle belle arti, dalle scienze, e
dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole; perciò chi non
ama l'intrigo, nè la vita oziosa soffre, in vece di darsi alla cabalistica (LIVIO)
e viziosa giurisprudenza, si ripara nella esercizio dell'agricoltura sempre
preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire,
mostrandoci, che la famiglia la più infesta allo stato, la perpetua
persecutrice della libertà popolare e della giustizia pubblica è una famiglia
di giurisprudenti. Tale è LA CLAUDIA; e sempre si è veduto che dove dottori e
forensi sono, la discordia prende il luogo della pace e della naturale
tranquillità. Ma ritorniamo a POMPONIO. Egli ci dice che quella mistica
giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero agl’altri autori
dicono, che ha una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene alcune
differenze dalle quali non è alterato il fondo del la cosa. Seguita dindi POMPONIO
a raccontare come quelle formole ed azioni, essendo RIDOTTE IN FORMA D’APPIO
CLAUDIO, cotal mistico libro gli è involato da GNEO FLAVIO, figlio d'un
libertino e scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato e fattone un
dono al popolo, questo gli è si grato, che lo fa pervenire ad esser tribuno
della plebe, senatore, ed edile. Questo libro contenente quelle azioni delle
quali si è già parlato, dal nome dell'editore è deno. Si po, mitato DRITTO
CIVILE FLAVIANO, benchè egli nulla vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in
Roma la popolazione e nel multiplicarsi gl’affari maticando alcune specie di
formole, SESTO ELIO non » guari dopo compone nuove azioni e ne pubblico co un
libro chiamato DRITTO ELIANO,. trebbe" ragionevolmente pensare, che
pubblicate le leggi e resa publica la scienza arcana, il dritto cívile, le
azioni, la pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che
il popolo illuminato su i principj legali, sulla condotta degl’affari, sul modo
di amministrar la giustizia, sull’ordine giudiziario, non avesse più bisogno
della maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi
d'ottenerlo. Ma tuu ' altrimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i
patrizj – gl’ottimati -- perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione
di quella scienz'arcana, che forma la base principale del loro ingiusto potere,
trovano il'modo, onde far rimaner il popolo defuso. E come nelle sette se si
vengono a scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, presstamente
si cangiano, e de ' nuovi si surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi
Giurispe siti eseguirono, cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti
dell'ordine, e conservano il grande arcano della giurisprudenza. Le formole e
le azioni sono cangiate, e forse in maggiori cifre involute onde potessero
rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma
ascoltiamone, CICERONE, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento.ERANT IN
INIGNA POTENTIA QVI CONSVLEBANTVR A QVIBVS ETIAM DIES TAMQVAM A CHALDÆIS
PETEBANTVR INVENTVS EST SCRIBA QVIDAM GNAIVS FLAVIVS QVI CORNICVM OCVULOS
CONFIXERIT ET SINGVLIS DIEBVS EDISCENDOS FASTOS POPVLO PROPOSVERIT ET AB IPSIS CAVRIS
IVRISCONSVLTIS CORVIN SAPIENTAM COMPILARIT ITAQVE IRATI ILLI QVOD SVNT VERITI
NE DIERVM RATIONE PERVULGATA ET COGNITA SINE SUA OPERA LEGE POSSET AGI NOTAS
QVASDAM COMPOSSVERVNT VT OMNIBVS IN REBVS IPSI INIERESSENI (CIC. PRO PUR.) Non è
d’alcun utile dunque l'aver trafitti gli occhj a quelle cornacchie poichè in
breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosegue,
la storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli
stessi sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes cha stessa condotta. La
Giurisprudenza è latente, incerta, arbitraria, ignota al popolo, e privativa
del solo ordine patrizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù che sola
consiste nella beneficenza »da quella sapienza che cerca il vero, per render lo
di comune demanio; da quella giustizia trova i principj nella ragione, e gli
espansivi sentimenti nel cuore; da quella naturale benevolenza e da quel
sentimento di pietà, che distinguono l'uomo civilizzato; da'veri sentimenti di
patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla giustizia; lungi dico da
tutte queste qualità e gl’eroi del Campidoglio non sembra che provassero altri
sentimenti che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario, anzi
distruttivo de' sentimenti sociali, dal vile interesse personale e pecuniario
Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso d’un illegitimo potere. E pure questi
furono i patriarchi della giurisprudenza! Seguitando quindi POMPONIO ad esporre
i fonti del dritto romano ci accenna l'origine de' plebisciti e de'
senatusconsulti, specie di leggi dettate dal popolo o dal senato, e delle quali
si vedeno gli effetti ee'l'l valore, e soggiunge, che nel tempo stesso anche
dai magistrati nasce un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè,
tecid saw pessero i cittadini, di qual dritto i magistrati in si sarebbero
serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura, e perchè vi andassero premuniti,
pubblicarono degl’editri, da quali si costitui IL DRITTO ONORARIO, cost detto
perchè proveniya DALL’ONOR del pretore. E dopo aver parlato finalmente
dell'altra parte del dritto che nasce delle costituzioni de' principi, cost ri-epiloga
tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano., Nel la nostra Città dunque
dice egli ) la legislazione è costituita del dritto o sia legge; da quello che
propriamente si chiama DIRTTO CIVILE, che non è scritto, è consiste nella sola
interpretazione de' prudenti: dalle azioni della legge le quali contengono le formole di agire; dai plebisciti
che sono fatti senza l'autorità del Senato, dagl’edini de'magistrati, da' quali
nasce il dritto onorario; dai Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge
particolare; e finalmente, dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la
Storia seguita, che POMPONIO ci ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla
quale presso a poco gl’autori tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale è
il dritto é la giurisprudenza romana prima è dopo dello leggi decemvirali, e
quindi come per quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1
caratteri d'irregolarità, d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la
ragion popolare andasse acquistando qualche dritto su l'aristocrazia, puro
questa sostenuta dal sacerdozio, qnantunque per necessità cede in qualche cosa
de’dritti pubblici, fa perð ogni sforzo per tener recondita le legge, e sotto
le chiavi del mistero tutto quello che riguarda l'anministrazione della
giustizia. Conoscheno ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno
veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle
leggi e della giustizia, e che tanto più diventa tale autorità efficace quanto
più la legge e oscura, incerta, ed arbitraria. Ma per vedere come questo
continuassets e come la giurisprudenza segue ad esser sempre della stessa
indole, prima di venir a ragioniare de' plebisciti e de' senatusconsulti ch'
ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto cui si volle dare
il titolo di ONORARIO, ma che vedremo' non essere stato degno di alcun onore.
Se si vuole parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole, che costituivano
la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a perdita di tempo, ma se i Romani di
buon senso e CICERONE stesso le. derideno e teneno in altissimo disprezzo,
credo che dopo due mille anni potremo far noi altrettanto, e chiunque non sia
un’ vero divoto, e cieco adoratore della Romana antichità e giurisprudenza.
Rifletterà solamente che quando di cose semplicissime si vogliono far misteri,
allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre, le idee semplici si devono
involgere in un numero di parole non necessarie, e surrogare impropriamente le
immagini e le finzioni alla semplicità e realità delle cose e delle idee:
specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura
Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di
Roma, mà solo indicare il corso infelice delle legge e della giurisprudenza,
cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i
patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e questi per
allontanarli, fanno tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi IL FORO ROMANO. Ma
accennerò solamente ciocchè importa, per passare all'origine del dritto
onorario. La forza dell' opinione non ha più molio. scevano valore contro la
forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad
alcuni di quegli officj che fin allora sono privativi de patrizi, come è quello
della questura e de' TRIBUNI MILITARI, non parve foro di aversi assicuraii i
sospirati dritti, se non otteneno la massima delle magistrature, vale a dire il
consolato. E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col
manto della religione i patrizj cercao coprire le loro pretese, o tependone
lungi il volgo profano, ailontanarlo da tutte le magistrature che de' sacri
auspicj abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al consolato,
si rende necessario l’ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar anche
essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni
che fecero cor endo alla fine il quarto secolo di Roma, sono queste cose
combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de
Decemviri, e che di questi V patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella
nuova elezione de consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro patrizio.
Invano APPIO CLAUDIO montà in tribuna per fare non arringa ma una predica teologica
contro le nuove idee filosofiche sorte negl’animi della plebe Romana: invano
ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minaccia d anate ma
quel popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma, dice egli, è fondata
cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano,
in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare:
che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del
dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo è mai creato cogl’auspicjse
che in fine canto è il creare i Consoli dalla plebe, quanto il rovesciare
interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non
ostantino però tante e si gravi rimostranze LUCIO SESTIO ottenne finalmente il
consolato. Se questo colpo è doloroso a sostenere per i patrizi, è facile
l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo efficace,
si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel
privativo potere che dipende dal consolato. Pensano dunque sta (12 ) Lir. lib.
YI. cap. 36 mabilire una nuova magistratura che può conservare nell'ordine
patrizio l'amministrazione della Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò
che riguarda l'esecuzione della legge civile. Quindi col pretesto che i consoli
sono quasi sempre fuori di città alla testa degl’eserciti, onde non possono
adempire agl’ufficj della giudicatura, proposento di stabilire un nuovo
magistrato che adempisse e questa parte dell'amministrazione, ed è ordinato che
si traesse dai patrizj e si chiamasse PRETORE. La pretura dunque è stabilita
per conservare nell'ordine de' padri tutto il sistema giudiziario o forense del
quale hanno facto fin allora uno scempio cosi crudele. La legge e la
Giurisprudenza segueno ad essere malversate, ma per poia chi anni dura
privativamente nelle mani de' patrizj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel
quale si può fissare veramente l' epoca di quella Giurisprudenza che passo di
mano in mano fino agli ultimi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il nome
Romano e l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato POMPONIO,
nasce dagl’editti, che emanano į pretori nell'entrare in esercizio della loro magistratura,
ed essa fa il maggior latifondio della scienza forense. L'importanza dunque
della medesima ci merte nel dovere di portarvi sopra uno sguardo particolare,
seguendola brevemente nel corso della Storia, ve derne in qualche modo l'uso,
il carattere; e gl’effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della
comunicazione a tat officio delle plebe, e più dopo eseguito il censo di FABIO
MASSIMO il governo di Roma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse
lo spirito; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse
mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà
popolare è molta, e qualche volta eccessiva a segno che degenera in licenza,
poichè essa non era limitata dalla legge; ed il dritto de' suffraggj ed il
potere legislativo non hanno mai quela regolarità ed uniformità, che può
rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo. E non è mai tale il
popolo Romano, poichè la forma del suo governo non è costituita su d'un piano
antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti
sociali si fosse rimontato alla necessaria divisione del pubblico potere, e
questo ripartito in modo che le varie parti non si potessero nuocere fra loro,
e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte
coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione
sociale. Non avremo perciò quind' innanzi frequente occasione di parlare dei
disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del
disordine e della corruzione, essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo
adattato alla facile germinazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki,
non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione.
Ma passiamo finalmente a vedere quale fosse stato il fato della Giurisprudenza
in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più
accuratamente trattarono degli editti pretorj sono da distinguere il celebre
Giureconsulto Eineccio ed Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per
trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo
articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non
tralasciarono ricerca alcuna conducente al loa G TO (1 ) Heinec. Hist. Edict. (12
) Memor. de l'Accadem. des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in
Roma e per l'Impero ancora non solo quelli che propriamente Mangistrati sono
detti, ma diverse altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere,
ebbe To pure il dritto o il costume di fare deg’edinti Quante che fossero
adunque le divisioni e suddivisioni del potere esecutivo o giudiziario, ed in
quanti diversi rapporti fossero esse costituite, prendendo un tal dritto, hanno
l'uso e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai pontefici
e dai tribuni della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai
Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vollero avere il
dritto di far editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà
o prerogativa è compresa. Fra tanti Magistrati però che hanno o si arrogano
cotale autorità, gl’editti di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare
una nuova Giurisprudenza sono quelli de'Pretori. Dai patrizj è inventata e
fatia stabilire questa nuova Magistratura a consolazione ed indennizzamento
della perdita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe; e quindi
ottennero, che il pretore dal loro ordine dove essere prescelto Non dura mol, (99
molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza
fosse la Pretura, non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche paratecipare a
tal carica, mentre ancora è unica e non divisa nei due Pretori Urbano e
Peregrino; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo. Coll’andar del tempo si
multiplicarono maggiormente, ed oltre dei due mentovati e dei Pretori
Provinciali altri ve ne furono nella Città, de' quali alcuni sono addetti a
rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la
origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10 da LIVIO e da altri, cioè
che essa è surrogata al potere giudiziario, che i Consoli esercitano, si
dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori cagionarono alterazione
nell'antica Giurisprudenza, e ne fecero nascere una puova, çið essere accaduto
per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze, le quali avessero per la
loro giustizia meritata la conferma della pubblica autorità, e passate quindi
in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo, nè si potrebbe
facilmente immaginare, che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e
d'una nuova Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essendo essi semplici
giudici o ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli editti seppero per
tal modo usurpare l'autorità legislativa, che il dritto è cangiato, e gl’editti
più che la legge sono osservati, e maggior uso ed autorità hanno nel Foro. Ma
se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro
officio è solo di applicare la legge al caso particolare, o sia ve der i
rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si disputa. Un Giudice non può
creare un dritto colle sue sentenze, poiché esse altro non sono che la
dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel caso proposto si
verifica per la tale azione o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo,
cioè esercitando l'attualità della Magistratnra non può crear un dritto, molto
meno dee ciò poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della
Magistratura. Gl’editti pretorii dunque per i quali si alterano, si cangiavano
le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie, ci presentano degl’atti d’autorità
arbitraria, temporaria, ed incerta che non possono formar mai una parte del
dritto, il quale può solo emanare dalla potestà legislativa, e dev'essere certo
generale o perpetuo, fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando
dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion
pubblica quelle facoltà, che devono essere divise da limiti insurmontabili, si
può dire che tal carica contenga almeno in potenza, come diceno i scolastici, i
principj del disporisano, e dispotico si può chia mar il Magistrato che
l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre
un mostro di tal fatta, ma come codesta carica è surrogata al potere
giudizionario che avevano prima i Consoli, il quale era riunito al potere
esecutivo, cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall’ordine
da cui erano tratti, non è difficile il farvi passare di tali abusi. A
considerar dunque giustamente la cosa non nasce nella Pretura tale abuso dal
semplice potere giudiziario, ma da quello di far gl’editti. In fatti se si va
all'origine di questo dritto, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli
antichi) quod jubemtis fieri: espressione tanto generale, che potrebbe
comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la legislativa; e
perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti sono di uso promiscuo:
Ma PAPINIANO è quello che più nettamente
ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che è introdotto a
pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il dritto civile. Jus
prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia propter
publicam utilitatem introducium. Ecco dunque la vera origine del dritto
Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gl’editti. Ajutare
intanto indica debolezza, supplire, mancanza, correggere, errori. Si dice ch'è
nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si
trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del
Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro
piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o
nociva alla Repubblica. Ma che altro è mai il dispotismo, l'odio de' popoli
czualmente e de' buoni regnanti: Se la legge manca, bisogna farla, e non solo
il Ministro di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare
alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge,
ma nè a soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle
erronee, nè ad interpretarle oscure. Lascio le tre prime condizioni o
circostanze delle leggi, sopra le quali non può cadere alcun dubbio che il
restituirle in qualunque modo non possa spettare ad altri che al Sovrano. Ma in
quanto all'interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia
stabilita la sua autorità, rifletterò che l'interpetrare o interpatrare da
principio è in Roma del soto ordine del patrizi, quando tutti i poteri e
specialmente il legislativo sono ristretti nell'ordine aristocratico. Essi
dunque che fanno la legge sono i soli che potessero interpretarle, uno e
l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato.
Quando una legge è oscura, non vuol dir altro, che il non sapersi precisamente,
ciocchè essa comandi o prescriva; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stessa
autorità, che l'ha emanata, sola interprete legitima di se stessa. Ne i giudici
dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale
è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi legislatori e GIUSTINIANO stesso
ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104 ) no. Le leggi bisognose di
sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti, de' quali di
sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior male da esse prodotto è d'
aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito la corruzione della
giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i Romani furono cogli Ebrei
sotto lo stesso parallelo. Or l'autorità data ai pretori cogl’editti prova
visibilmente due punti: il primo che la legge è così incompleta, come è quella
dei popoli barabari; e che i Romani lo furono a tal segno, che non seppero
conoscere, quanto il confondere le potestà, ed il lasciar il poter arbitrario
ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon
governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle
Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù, e che connobbe più delle
altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma gl’onori che merita. Essa
è la prima inventrice degli editti, essa è la sola Re. Heinec. De prohib. a
Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia, che li
avesse in costume. A vedere quale è il dritto Pretorie lungi dal dover credere
i Pretori Magistrati giudiziarj, dovremmo anzi prenderli per riformatori o
correttori delle leggi. Tali sono in fatti, ma non per uno stabilimento
autorizzato dalla potestà legislativa: lo furono solo per abuso, vergognoso ai
costituenti di sì strana Magistratura, e pernicioso sommamente al popolo
soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi, e l'incongruenza
nella quale dovevano essere per la differenza de' tempi, e per i politici
cangiamenti; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i stabilimenti d’Atene,
avrebbe trovato più opportuno mezzo a
correggere e modificare la sua barbara legislazione. Ciascuno sa che in Atene
vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propone annualmente i
cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste sono poi approvate o
riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta meraviglia che
la pretura s' introducesse con tali abusi e tant'autorità straordinaria, se
rifletteremo che quella. Magistratura è da principio stabilita privativamente
per l’ordine patrizio, il quale la conserva in suo potere per anni. Per sapere
poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo ricordare, che vi sono IV
specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi fionis caussa: translaticia:
nova. E senz' andar esponendo il valore di ciascuno, ciocche fino alla sazietà
da molti autori è stato eseguito, mi ristringo ad alquante osservazioni più
importanti. E primamente dirò, che quelli editti i quali dovevano contenere il
sistema giudiziario attuale del la pretura, sono quelli appunto, da'quali
derivarono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa, pei
quali il pretore espone nell' albo le formole delle azioni, delle cauzioni,
delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che
la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole è compreso,
chi è autore delle formole, lo è in conseguenza del dritto medesimo. Chiunque
nell'agire in giudizio manca a quelle formole per qualun que causa, cade dall '
azione, o rimane con inutile eccezione cioè perde la lite anche che
intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle
leggi. Ecco dunque il Magistrato divenuto legislatore, ed arbitrario it sistema
di giudicare. Dobbiamo però credere, che tuttociò fosse fatto senza principj, e
che non avendo idee certe e generali de' principj del driito, facessero gl’editti
ciascuno secondo le proprie cognizioni ed idee: poichè come le ultime
derivazioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta
ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero
derivati da tali fonti, non sarebbero stati prescrizioni annuali, ma avrebbero
avuta una continuazione o vera perpetuità. NÈ SI FACCIA ILLUSIONE IL NOME DI
PERPETVÆ IVRISDICTIONIS, POICHÈ QUELLA PERPETUITÀ ERA RISTRETTA AD UN SOL ANNO.
Il Pretore o Pretori che succede alla carica, ha il dritto assoluto di proporre
nel nuovo albo un nuovo sistema giudiziario, e cangiare a lor grado la formola
ed i principj; e sebbene questo non si fosse fatto sempre nè in tutto, poichè
spesso i succes'sori conservano integralmente o parzialmente gl’edirii an
tecedenti, ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, è
sempre però in libertà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo conio, che perciò
portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj.
si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare
agl’amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipende solo dal
capriccio pretorio, e gl’attori in giudizio dovevano essere ben intrigati in
variar le loro formole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le
disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo porta col tempo, che
fossero molte le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè fa un nuovo intrigo, ed
accresce l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere quando i Pretori
sono varj, e vi è in Roma quasi una popolazione di Magistrati, poichè ciascuno
a suo modo proponendo gl’editri, quel ch'era giusto presso di uno, si trova
ingiusto presso un altro. La morale pubblica e quella delle leggi
particolaramente è dunque così incerta che non ha per regola che le opinioni o
il capriccio, e si dilata o ristringe, allungava o accorciava secondo le
sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sempre dall'arbitrio e dalla
corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Amministrazione
giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura, non
avrebbe potuto 1 diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza
dell' arbitrio: ma gl’ammiratori o visionarj della Sapienza Romana, trovano
ragioni sufficienti per ogni disordine. Il progressivo accrescimento della
Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari,
per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistrature e le
Giurisdizioni. Esempio pur croppo funestamente imitato nei vari stati di
Europa! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la popolazione o il
numero degl'individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e
necessarj che essi hanno collo stato, col governo, e fra se stessi. Non
crescendo i rapporui non devono multiplicarsi e variarsi le leggi, le quali ne
sono I espressione; ne devono quindi crescere e diversificarsi in varj generi e
classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori. Possono crescere in
numero bensi ed in divisioni, ma de vono essere costantemente della stessa
specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj criminali e civili in
tante varietà, giurisdizioni, e legislazioni differenti è il produrre
volontariamente una confusione, e multiplicare gl’abusi dell'arbitrario potere:
ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti
del cittadino. In questo caso, la legislazione sarà univoca, generale, uniforme;
i limiti del potere giudiziario resteranno distintamente marcati; e le
giurisdizioni, e le Maggistrature non saranno stabilite e divise sopra rapporti
immaginarj e fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di
corpo per cui sono in continua contesa o guerra fra loro, e, per conseguenza
col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inversa della
grandezza del corpo medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti
della picciolezza, più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della
forza e dei momenti favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e
convenevolmente diviso, senza gelosia e senza interessi contrarj avrà la dignità
che deve aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto però fosse
ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non sembro loro
ad ogni caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o mal
circoscritte dalla legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non fu
sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per quella
perpetuità annua, ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere
Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una
magistratura costituzional mente arbitraria, si arroga anche il dritto di can.
giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione, e farne
delle nuove senza pre, vio esame, come, un corpo leggislativo farebbe, ma di
propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva
nel foro Ro mano, e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi
magicamente scomparir l'albo espo sto, ed un altro a quello sostituito. Pensi
chi vuole, che fosse quella una sublimità di condos. ļa, o la surrogazione d'
idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i
pretori, nol fecero per altro che per favore, per interesse e per altre tali
cagioni, stimate ferite mortali per la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio,
il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto
pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati
talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero
scempio della giustizia, si svegliò finalmente un'anima virtuo sa
compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi
riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli
stes si di lei sacerdoti, e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente
e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra
sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva
con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto
nelle più infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli
oppressi, ed i Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole
della Romana virtù. Sdegnò egli (come rapporta PLUTARCO) i studii che la nobile
gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non
comparve mai nel foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po
polo per ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i
suoi contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere
per attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di
corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le
sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la
pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i
loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti
prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. PAULO EMILIO fu in dovere di
partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani
nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura.
Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non è raro che i nimici
del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno
cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della
Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto vantavano nei loro editri a
nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in disordini correva già al suo
termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma tra i disordini, la
Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile. A nulla valevano
le accuse contro de ' Magistrati, poiché i mezzi di salvarsi erano molto
conosciuti. Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto
susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato
contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. CORNELLIO SILLA il quale o tocco
dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle
depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili leggi, propose la
rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori. LIVIO
e DION CASSIO ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la
sfrenatezza pretoria, « ma il grand' interesse de nobili specialmente a
conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale
ne' Comizj, che i fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi
sentire più delle vo ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa
ad altro tempo più tranquillo. Infatti secondo ASCONIO PEDIANO la legge passò =
Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus
dicere assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto
impedirla, rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia, e
Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di CICERONE: Troppo tardi
perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era già spirante i
disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon. in Orat. pro Cond.
le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non seppe conoscerla, nè
conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe potuta ren: derla eterna,
Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori, e se nuova
Legislazione, nuova Giurisprudenza e nuovo metodo giu diziario furono
introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza, l' ordine
giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar
te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva. Nuove
parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la
giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se
stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di
considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le
finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza.
Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione
per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni
della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que'
moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far
sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’ALTESERR, il quale offerendo a Lamoignon
l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones,
quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus difficiliores casus
expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur? = e peg
gio altrove. Tale fu EINECCIO ancora il quale nel la Dissertazione, De
Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le
finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di
conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà consultare i cita ti autori
e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo aggiungero soltanto, che
esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne, che nei
progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de'
tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che fosse cangiata la
realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati. Per la
secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro
prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente
par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo VICO portando
le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai
loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè le
immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi
espressioni più semplici e più adattate. „ In con „, fum tà di tali nature (dice
il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva
i farti non facii, i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i
viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredilà: introdusse tan, te
maschere vane senza subjenti, che si dissero, » jura imaginaria; ragioni
favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim „ trovare sì
fatte favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti
somministrassero la ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza
furono verità mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per
le loro circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre
si dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3
bara sia: 99 he: (VICO Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la
paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,,
ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti,
o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era
appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò
si rileva, che sebbene la Romana Repubblica progredisse in quanto allo stato
politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in
quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in
quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo
stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la
cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel
perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono
essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi
dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le
novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora,
la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse
meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno
sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose
e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del
Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di
molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti
sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell '
obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata
dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto -
ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader
suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative
', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le
leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda
dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono
ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che
ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel
tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente
circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio
abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza
equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali
qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del
potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più
usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e
coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià
pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo
valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando
le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci
com parirà molto giusto che GIUSTINIANO le chiami favo le cioè azioni
Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano
innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem
instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis
discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della
Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero
rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può
sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di
mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte
della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs &
libram, le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di
nuove opere, le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni & c.
non solo erano faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere,
me con azioni e rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le
processure giudiziarie. Questo però non significa altro, se non che, nei tempi
d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale
delle idee e de sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le
gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é
divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro; in che principalmente
consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di
sociabilità, i piaceri della società, le regole che all'adempimen to di essi
prescrive la Natura. Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si
disputò, si discusse, si combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè
mai seppero elevarsi a generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per
la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi
continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla
frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai
sentimenti univoci, e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia
conservò sempre la sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che
vergognosamente li caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il
cittadino dal cittadino. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi
non poterono averla della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato
censo, non diro quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica
non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad
alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurisprudenza Romana,
rispondero, che tali non sono poic (Det poichè quando si parla delle leggi,
convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore,
dei suoi sentimenti, e della forma e condizione del potere legislativo. Or
potrà sembrare strano il dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno
nell'altro, e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in
tre, e che poi quelle leggi fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma
nel tempo in cui fu più celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella
undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani,
dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata, poichè i
fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine. E
quantunque io sia nell' idea, che quella tavola non contenesse che i prin
cipali dritti dell' Aristocrazia, qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto
detestata dalla plebe, e ro versciata vittoriosamente da CANULEJO; pure in un
frammento rimastoci, troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento
del dritto Legisla tivo, cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $
TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni,
la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio; e nel significato
generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo
stato, ma di quelli soli che godevano il dritto, e meritava no il vero nome di
Cittadini, quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a
partecipare alle qualità civiche, la parola po. " polo divenne generale, e
non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di
classi, ciocchè la cennata legge prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso
e valore, cioè, a far, sì che legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea
prescritto e comandato. Se tale è però il principio costitutivo delle Rear
pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana,
vi devono esse re delle regole, accið lespressione della volon tà generale sia
certa legittima libera ed uguale, onde ciascun cittadino senta essere una parte
in tegrante del Sovrano, dello Stato, e della Patria: Tali sono le leggi
costitu zionali, che riguardano il dritto del suffragio, o la maniera di
communi care la propria volontà al corpo sociale, e fare che la volontà
pubblica sia realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di
suffragio costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no,
e il modo di darlo, forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede
simo. cioè che tanto più si è Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è
libero ed uguale. Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do
particolarinence colla Storia, come questo drit to si stabilisse in Roma:, cioè
nella formazione casuale di quella Repubblica, alla quale contribul molto più
la natura o il corso naturale delle sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e
di ragione. Dirò solo, che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto
lontano dal conoscere l'importanza di queste idee, che şi conteniò di essere
con vocato al suon d'un corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra
od ovile fu chiamato quel luogo, dove si radunava, per compir l'atto il più
degno, il più glorioso p er un popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma
cotai nomi ed usanze erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e
mandre sono correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si
diedero į suf (18) DIONYS. ANTIQV. ROMANARVM
(126 e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che fondasse
veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè i Comizj delle Curie
furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere legislativo; ed i Comizj
centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze. Vi fu
inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto, che di esaminare o
consultare, si arrogo pure in parte il potere legislativo. O la Nazione dunque
radu nata per Tribd, o essa stessa convocata per Centurie, o il Senato ebbero o
in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo. Le risoluzioni per
tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo molte contese la vera for za di
leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni, giacchè da principio non
obbligavano che la plebe soltanto. Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un
altro popolo un altra Nazione; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto
far prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol to tempo non le fecero
valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva, poichè
nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da
se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. el 3 2 tiva. Quelle
risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi,
furono le de cisioni dei Comizi centuriati, delle quali non oc corre ripetere
nè il metodo nelle proposizioni, nè quello della convocazione, nè quello delle
deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca, e si può trovare
presso mille autori, che del governo Romano anno ragionato. Ho voluto solo
ricordare queste poche notizia per mostrare, come il potere legislativo fu
stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la
realità, e come il dritto di suffra. gio, non fu lo stesso nè uguale nei
diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misurata su le
ricchezze, e non si può dire, che fosa se la volontà del maggior numero de'
cittadini, che rappresentasse la volontà generale, come don vrebb' essere per
natura. Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le
decisioni del minor numero, e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva
già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile
e, delusa. Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente
gli Entusiasti, ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione:
Dirò di più, e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione, che
quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà
governativa', ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario; ciocchè
indica, qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema. Fu
sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire,
che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati, perchè non avevano nè imperio
nè dritto di vocazione, nè giu risdizione, nè auspicj, ma in verità se non
erano magistrati nominali, lo erano in effetto, ed eser citavano un potere
amplissimo su la plebe, sul Senato, e sopra tutta la Repubblica: ad es si
apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero
corpo le gislativo, se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente
ed integralınente ad ogni. cittadino. Il Cittadino vi figurava come Citra dino
libero, e non era il rango o la ricchezza, che davano la preponderanza. E pure
questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge, come l'ebbero
le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo non decido pai se al paragone le leggi
Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato, che quelle
proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori. Possiamo però ri
Aettere, che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica, o relative
alla libertà ed al lo stato popolare, le quali si possono chiamare leggi di
Umanità e di Giustizia uni versale, furono tutte o quasi tutte proposte dai
Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le
leggi naturali della libertà, e quindi necessarie e costituzionali per un
popolo che voleva essere libero, Nè è da imputar loro che non fos sero migliori;
giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai
ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo, non potè
far a meno, di con fessare, che se si avessero voluti annoverare i misfatti de'
Consoli, non sarebbero stati pochi, ma che toline i due GRACCHI, non si
potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi
alla Repubbiica, e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse
furono effettiva. mente a pubblico vantaggio. La maggior parte però delle leggi,
dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o
temporarie, essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari; ¢ sebbene
si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne, non si riducevano
però in un corpo, che avesse l'autorità d'un codice di legislazione; ne io
credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di
bronzo, come pur ci vo. gliono far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto
a pensar cosi da varie testimonianze, e spes cialmente da una di CICERONE.
Possiamo da esse raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de'
Patrizj e de' Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con
mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come
abbiamo veduto molto dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a
ciò destinato, e poi il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le
corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica,
gli antichi curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la
custodia Al (131 ) si. Almeno cosi ci attesta CICERONE, assicurandoci, che per
saperle, o per conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti =
Legum custodiam nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri
volunt; a librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam
nullam ha bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi
solum literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta
hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria,
che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la
conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero,
che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che TACITO caratterizza
con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità
e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re
golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori,
prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i
co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le
leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la
confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la
cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da
privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito
dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges,
etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et
adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava,
per vim taie sunt. Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo
detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti
encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e
giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della
posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci
avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della
Storia, e sce vri (TACITO, Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile
prevenzione tutt'altro abbiamo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen
" ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli
alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri
mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le
qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi
successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare
su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini
civili. In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo
una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le
consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie
società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi
de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per
diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio
espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono
dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere,
che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che
assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono
prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con
cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima
formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e
tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili
affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna
particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l'
incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca
vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi
furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia
il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre
più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque
poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma
na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed
indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che
poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna
della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio;
ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del
resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si
fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente
ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli
edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di
durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di
Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e
nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi
l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso,
credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio
quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione
arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione
della legge e nella generale corruzione.
Dell' origine dell'idea che abbiamo della
Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della imitazione e del
Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere
del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete (Teramo,
Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento morale.
L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione
della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della
morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione
morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La
benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La
felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana
dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere
della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza.
L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S.
Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei
varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della
Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le
memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento
delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle
memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto
il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela
del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi
ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed
inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine
naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica
incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità
della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli
antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I
bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il
bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello
ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del
bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica
della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini
italiche. Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E.
reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società
Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri
nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte
sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D.
Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca
Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio
istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo
oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della
milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio
del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere
uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità
di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea
riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria.
L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio
fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle
nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla
medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità
organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale
Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali
bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche
allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di
pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi
alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di
Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica
di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti
(Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene
(Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo
Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri
a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis.
Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli. Spallanzani a M.
Delfico. Luigi Grimaldi a M. Delfico..... pag. 141 Toaldo a M. Delfico..Spannocchi
a M. Delfico.V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle]. Michele Torcia a G.
Berardino Delfico..Mollo a M. Delfico. Carli...Mùnter a M. Delfico..... pag.
154 Mùnter a Delfico in Napoli..... pag. 159 Mùnter a M. Delfico..Filippo
Mazzocchi a M. Delfico..Gazola a M. Delfico..Giuseppe Micali a M. Delfico..Bertola
a G. Bernardino Delfico..Il medesimo a M. Delfico..Brugnatelli a M. Delfico..Anutos
a M. Delfico..Gio. Andrea Fontana a M. Delfico. Il Duca di Cantalupo a M.
Delfico..Palmieri a M. Delfico...Gargallo a M. Delfico in Teramo...Galante a M.
Delfico..Amaduzzi a M. Delfico..Zarillo a M. Delfico..Giovene a M. Delfico..Amoretti
a M. Delfico. Francesco Soave a M. Delfico..Acton a M. Delfico (Teramo).Fortis
a M. Delfico..Zannoni a M. Delfico..... pag. 206 Bossi a M. Delfico..Tommaso
Frantoni a M. Delfico..Felici a M. Delfico..... pag. 209 G. Napoleone a.
M. Delfico.Trivulzio a M. Delfico..Melzi a M. Delfico..San Severino a M.
Delfico..Il duca di Sant'Arpino a M Delfico..... pag. 231 Tracy a M.
Delfico. Antonio Canova a M. Delfico..Ricci a M. Delfico..Gioli a M. Delfico..Dragonetti
a M. Delfico..Zurlo a M. Delfico..... pag. 246 Michele Arditi a M.
Delfico...Orsini a M. Delfico...Burini a M. Delfico...Taranto a M. Delfico.....
pag. 252 Francesco Sorricchio a Delfico..Cicognara a M. Delfico..Santangelo
a M. Delfico...Ciampi a M. Delfico..... pag. 260 Donato Tommasi a M.
Delfico.. Il Duca di Laurenzana a M. Delfico...Grimaldi a M. Delfico..Santangelo
a M. Delfico..Lodovico Bianchini a M. D..Filangieri a Melchiorre Delfico.Niccolini
a M. Delfico...Rangone a M. Delfico..Pilla a M. Delfico Il Duca di Gualtieri a
M. Delfico...II Barone Poerio a M. Delfico..Armaroli a M. Delfico..Neroni a
Leopoldo Armaroli.Fuoco a M. Delfico..... pag. 287 Giuseppe Micali a
Gregorio de Filippis..Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..Al sig.
Pasquale Borelli..Al sig. Antonio Orsini..Al sig. Conte Armaroli..Volta a
Orazio Delfico.. Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M.
Delfico. Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana..... pag. 326 Stati
Romani.Napoli. Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella
provincia di Teramo.Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in
occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di
Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo..La famiglia e le opere di
Melchiorre Delfico. I titoli nobiliari. Episodi della vita del Delfico. Opere
ignorate del Delfico. Il contenuto delle opere. Catalogo per materia delle opere
di M. Delfico. Lettere del Delfico e al Delfico. La Repubblica di S. Marino in
onore di M. Delfico. M. Delfico a Gaspero Selvaggio. A Paolo D' Ambrosio M.
Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico è uno dei più cosmopoliti e al tempo
stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali della
seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli,
interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane
intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il
gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate (2), che dal 1754 al
1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa
scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed
altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3) alla cultura napoletana e avviare
negli anni successivi un serrato e articolato dibattito sui problemi più
urgenti del Regno, suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della
società civile che non di rado contrasteranno con l'angusta politica del
governo borbonico (4). È soprattutto dalla rilettura del genovesiano
Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (5), considerato il
manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico
del sapere, che Delfico matura una nuova concezione della cultura e
dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più pratica che
teoria» (6), e la convinzione della necessità di un impegno politico più
diretto. Un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza
giannoniana (7) e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori,
con i quali inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei
diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il
dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato
ecclesiastico (9). Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali
dell'autorità ecclesiastica, dimostrando «false o insussistenti» le pretese
giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per
legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo «vergognoso»
perché «prodotto per dolo o per frode» (10). Sebbene notevole sia stata
l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le
molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta
possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano.
Anche per i rappresentanti della corrente «più provinciale», «più tecnica e
descrittiva»(11) della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non
sempre costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso C., sebbene riconosca il
suo debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore che la
propria ragione gli faceva desiderare, bensì il pubblicista che ricerca e
analizza i mali economici e sociali della sua terra. «La fortuna però -
scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di
Loke [sic] e di Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova
modificazione, e quindi una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per
i morali sentimenti. Già nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo,
alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento
filosofico dello scrittore abruzzese basato su una visione tutta empiristica e
sensistica dei rapporti umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a
porre l'opuscolo nell'Index librorum prohibitorum. L'opera è una vera e propria
esaltazione sia dello stato coniugale che dell'amore, inteso come desiderio,
come piacere fisico ma soprattutto morale. In polemica con Rousseau, C.
considera il vincolo matrimoniale una fonte continua di sensazioni e di
sentimenti aggradevoli e sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere
il più possibile completo e duraturo. La critica del celibato e più ancora del
libertinaggio è l'occasione per un'attenta disamina della condizione della
donna, di cui sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e
nella società, fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e
dei doveri fra i sessi. Del 1775 sono gli Indizi di morale, interrotti
per ordine dell'assessore Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono
ancora in corso di stampa, i quali svelano assai più a fondo e gl'ideali
politici di C. e la sua cultura» (15). Sul piano filosofico infatti essi
segnano una piena adesione all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac.
Dalle idee filosofiche dei due pensatori il Teramano non si discosterà più,
restando sino alla fine legato alla dottrina sensistica. Confessa ad un amico:
«Dopoché il mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sensazioni,
non l'ho turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non trascurando però le
successive osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo. Egli riconosce alla
morale il fondamento empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce
l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gl’uomini
acquisiscono le prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o
dannose, ne consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro
attività si dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente
cresce la possibilità di comprensione della qualità degl’oggetti e gli
individui sono messi nelle condizioni che meglio permettono la individuazione
dell'amor proprio. È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare, scrive,
che le nazioni godono del colmo della virtù e nasce quella gara d’Eroismo che è
difficile a trovarsi nelle Monarchie e che si verifica ogni qualvolta
«l'interesse di tutti i particolari va a riunirsi col pubblico e i cittadini
partecipano maggiormente alla sovranità e al potere. L'affermazione non
si concreta in una scelta della democrazia come forma di governo, né in una
rivendicazione di ordinamenti politici alternativi a quelli in cui si incarna
la monarchia borbonica. L'allusione alla repubblica resta in lui vaga,
sottintesa e comunque priva di un reale contenuto politico-istituzionale,
mentre egli non nasconde la propria simpatia per il despotisme éclairé. Vi è,
da parte sua, una svalutazione della politica in quanto problema teorico, a
favore di un impegno politico più immediatamente finalizzato alla soluzione di
questioni politiche contingenti. Suo obiettivo principale è il perseguimento
del bene pubblico, realizzato attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di
riforme. Un processo di trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza
politica e che non ha niente a che vedere con la «fatale» comunione dei beni,
fomite di disordini e di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui
le garanzie politiche costituiscono una imprescindibile componente, consente a C.
di condurre a fondo l'attacco contro la struttura feudale della società
napoletana, in cui ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa
generata dall'abuso del potere che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i
mali che provengono dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo
sulla proprietà - deve essere un canone politico quello di ravvicinare gli
estremi, e non dar luogo ad altre ricompense che a quelle del merito personale
e dell'industria. Al contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che
produrre «lusso e corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più
miserevoli, privati della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare
persino «la vita, l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri. Dopo
il sequestro degli Indizi di morale e la messa all'Indice del Saggio
filosofico, C. incorre in un nuovo
spiacevole episodio con le autorità provinciali. Soprattutto a causa del
vescovo Pirelli e dell'assessore Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti
di amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe
monache dal monastero di S. Matteo di Teramo. L'exequatur del Tribunale del capoluogo
abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine di carcerazione, emesso
nei confronti suoi e di altri «lajci seduttori» (22) presunti responsabili
dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a
Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda
giudiziaria, giunta con l'indulto regio del 17 giugno 1780. Questo
secondo soggiorno partenopeo, avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del
primo, si rivela assai fecondo per lo scrittore teramano che ha l'occasione
di rinsaldare i legami con gli ambienti riformatori della capitale e
stringere rapporti con vari esponenti della cultura, quali tra gli altri i
fratelli Di Gennaro e Grimaldi, Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il
periodo in cui egli matura l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso
la denuncia dei mali prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso
alla politica governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del
rapporto tra capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e
quella Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di
riforme. Ritornato a Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo
stabilimento della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo, la
nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato
all'amico FILANGIERI, inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista
abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel Discorso la questione
militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l'Autore l'importanza che
una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di uno Stato.
Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento dissociale» che
li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una classe di
privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del
soldato all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche,
soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la
qualità di soldato a quella di cittadino (23), così che i due termini diventino
sinonimi fra loro. Ad alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si
potesse realizzare sul piano legislativo e amministrativo quanto si veniva
sostenendo su quello dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale
Accademia di Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le attese
suscitate) che quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Il Consiglio si prefiggeva
di riformare gli antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire
l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei
sudditi e dello Stato. Ad esso C. vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla
coltivazione del riso nella provincia di Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783.
Considerato «forse il più limpido e ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti
economici di quegli anni, il testo è una dura requisitoria contro il persistere
di pesanti imposizioni feudali e di certi abusi economici e politici,
responsabili di mantenere tale coltivazione in uno stato di sottosviluppo. La
risposta delficina è in favore di un ammodernamento della tecnica di produzione
e della rimozione di tutti gli ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni
governative, che impediscono la realizzazione di un'economia di mercato.
Nell'estate dell'83 Delfico è di nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine
dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole. All'entusiasmo
iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda amarezza per
l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende coscienza della
incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di risanamento
dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile terremoto
calabrese. La condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata
e piena di incertezze e di contraddizioni. Ritornato a Teramo è
raggiunto, nel febbraio del 1784, dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio
Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il
pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere, lo scrittore
abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini,
pubblicate a Napoli in tre volumi tra il 1779 e il 1780. In esse l'Autore
confuta le tesi roussoiane sull'uguaglianza tra gli
uomini, correggendo quei «paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere
e nobili osservazioni» (28) sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité.
Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere «presque nulle
dans l'Etat de Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio dell'origine
naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una
particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi,
gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una
storia non più concepita come piacevole passatempo per «gli oziosi e gli
annojati», ma in funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità e, in
particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più
il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del
momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita
morale delle nazioni. Alla fine di giugno del 1785 Delfico si trasferisce
di nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città
natale nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a questo periodo
l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in
Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine degli
Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a
Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà
da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che
trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto,
per la numismatica. A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul
Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il
vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco
contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il
confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello
«più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di
scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e
lasciando quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione» (35). Vi è nella
Memoria l'affermazione del principio della libertà di commercio e
dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del quale vengono
fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il
Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle nazioni.
Nel 1788 vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui C.
rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e
il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei
contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata
alla pastorizia. In un Paese così «infelicemente» amministrato, dove regna una
troppo marcata diseguaglianza e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione
tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non
soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato.
Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei
proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino. La proprietà
infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei
proprietari «sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono
di riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni
altra classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta
applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia
l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nel 1784 nella pur
breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero
«desolato» che va dal Fortore al Tronto, in cui denunciava le gravi «avarie»
commesse dai governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il
libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle
sempre più. Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione
di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo
Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla
libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che
egli affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli
anni Ottanta, in cui esalta il principio del laissez-faire contro le
regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di «ogni
coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione,
di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo
economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato
stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che
ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche
si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte
al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della
ricchezza e del benessere individuali. In quest'ultimo soggiorno
napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, Delfico si attiva
non poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e
soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non
sempre trovano il riscontro desiderato. Ciò non fa che accrescere in lui un
sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza,
quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà nell'estate
del 1788 ad allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere,
non prima però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria
per la vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la
giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e
inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o
di usurpazione della sovranità stessa «non solo un atto nullo, ma anche
ingiusto» (42). La notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico
lontano dal Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era
recato nel novembre del 1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che
studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo
soggiorno ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare
in contatto con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli
Verri, Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso
di scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei
quali manterrà un rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è
difficile tenersi informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli
guardi con simpatia a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la
determinazione con cui si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono
a ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e
rappresenti «un esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non
indugino più sulla strada delle riforme. Rianimato da queste speranze,
nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale (44),
Delfico si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del 1790, le
Riflessioni su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al dibattito
costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed esplicito contro
il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791
pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi
cultori, che rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero
illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato
ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed
uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo
legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e
dei governi presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo
scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare,
una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il
necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda
sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento
dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza
restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della
giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e
provinciali. Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale C. non si
allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le
condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua
predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa
nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che
lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali,
e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare
un programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si
sorprende sempre più spesso «scontentissimo». Il rientro a Teramo, nel
dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e
letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la
rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo
napoletano. È, questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti,
come C., avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la
consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa
è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della
sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo
vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di
rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante
il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A
Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca
della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna
di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e
concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano
venga presto scagionato. L'accentuarsi del carattere reazionario della
politica napoletana non determina tuttavia in Delfico, come in altri
illuministi, il passaggio «da regalista in giacobino» (50) o repubblicano,
anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia
del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli
eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà
fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della
rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase
successiva, il '93, caratterizzata da tanti orrori. C. lascia di nuovo
l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma,
restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera
successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali
e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese
André-François Miot (51). A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia
politica per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla
libertà che ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del
1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in
Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui
disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche
le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati. Nella
seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la
Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la
possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di
trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse
che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un
viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua
partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della
Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese (27 settembre 1796)
sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di
cui risulterà vincitore il piacentino Melchiorre Gioia (53). Immutato è
invece il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97
egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico (54), non scorge
alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi
dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà nominato
portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo.
La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle
trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per il
susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da
parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale
prova del suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni
«malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura» (55).
Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica,
tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio palazzo,
assieme a tutta la famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo
a Teramo delle truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della Municipalità
della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale
dell'Alto Abruzzo. Èchiamato a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio (58),
l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto
fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi
repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il
generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il
territorio regionale. Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico
con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di
reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre
confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore
teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina
(59), dal momento che l'esperienza non provoca quella vera e propria
«lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che è stata
riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione (60).
Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la
parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del
passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei
Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno VII
(12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo
pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui
maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi
e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i
provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica
napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il
decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni
capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento;
l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio
ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria;
l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici
nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a
meno che non venisse provata la «frode» del debitore; il controllo dell'attività
giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello. Volentieri
egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era
stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo
Championnet. Ma a Napoli C. non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze
antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare all'attività
legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver non solo
«abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi, lasciando che
ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di
scorribande antifrancesi (62). Non è da escludere a questo punto che proprio
durante il periodo pescarese C. abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto
diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei
Doveri dell'uomo e del Cittadino (63). Il testo, che si ispira alle
Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama
l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà,
sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di
subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la
sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le
leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ammette
la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia
e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre
condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse
delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti
sobillavano le masse contro le nuove istituzioni. Di fronte al crescente
stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da
Teramo, C. preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana,
lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle
Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino (64). Nella
piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re
di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di
Stato. Durante il soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo
sulla «tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come Cuoco (65), critica
l'«immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il metodo
rivoluzionario, ritenuto «distruttivo» (66). La confusione dei princìpi,
l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle
idee politiche così «mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano
potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni
politici «falsi e irregolari». L'Italia, «abbagliata ed attonita - scrive - non
ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le
provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi
politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa
veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza
del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze
intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia» (67).
Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione della
necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: «Se si fosse
consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo
spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede
della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso di moderazione
l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed i fatti antichi
devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua
felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in
definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non
miri alle magiche trasformazioni ma proceda per «proporzionate graduazioni»
alla realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito aspirare.
Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e
convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche
stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana,
nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il
suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni,
rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, «mostrava
non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società» (69).
Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per riordinare la
biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella
casa del marchese Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784, o per andare a
Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca
nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803 soggiornerà ad Ascoli
Piceno dal fratello Giamberardino. Si porterà a Milano per seguire la stampa
del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove sarà
l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale di Georg
Ludwig Schmidt d'Avenstein, rivedrà Vincenzo Cuoco e stringerà nuove amicizie,
tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi.
Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara,
grazie al quale entrerà in contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a
sua moglie Massimiliana Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre
Cesarotti, con il quale resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine,
dall'autunno all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli,
da suo fratello. È, quello sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori
dalla vita politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche
della Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808,
vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta
relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova
nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari,
nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro
i quali riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice della
civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e
vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San
Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria
libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere
a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico
Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della
piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le
vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione»
(72). Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare quanto meno
strana in un pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale
dell'antistoricismo italiano (74). Nei Pensieri C. affronta il problema
della conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire
«se la scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza. Con
quest'opera esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una
storia utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma
perché questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla
tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi
metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata
conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert,
Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire (76) risente la
stesura dei Pensieri, nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora
condotte siano state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se
priva di certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere
umano. Egli si pone principalmente il problema della manière d'écrire
l'histoire, proprio della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze
e manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la
proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro
stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri
della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre
il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le
circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli
effetti e le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica
di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più
semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo
che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da
percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla
luce. Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare
positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria
per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una
convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del
1824, Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita
l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in
funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e
quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la
pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di
protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca
storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia
«qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico
chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il
carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore
intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della
sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è»
(80). Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle
mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad
incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso
degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro
cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa
di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Grimaldi (81) e rimasta
a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La dissertazione, che si colloca nel
filone della letteratura illuministica di confutazione delle superstizioni, è
una dura requisitoria contro gli «impostori» serpari, i quali spacciano per
miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma
sarebbe solo il risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche
dei serpenti o di effetti naturali. Una diversa considerazione, invece,
egli ha dei cosiddetti «favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il
«divino» Platone, Delfico tiene in grande considerazione il racconto
allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle favole
esopiane del 1792 (83), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze
necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e
proprietà di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento
di giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero
acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così «la morale dell'infanzia
dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal
momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non
soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima
dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno stato «più infelice» (84) di
quello dei secoli remoti. Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio
del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso
rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che «era ormai
tempo che si facesse» (85) e che lo induce a riportarsi, nel giugno di
quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea
dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese.
Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello
«spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la
politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di
sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze
dei reazionari. Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3
giugno 1806), Delfico viene assegnato alla sezione delle Finanze, per poi
passare nel 1809 alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei
quattro presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il
ministero dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le
pensioni, per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause
feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la
ripartizione dei demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della
Commissione degli Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine
delle Due Sicilie, nel 1815 viene insignito da Gioacchino Murat del titolo di
Barone (86). I numerosi incarichi di responsabilità non lo distolgono
dalla tensione intellettuale, tutta incentrata sullo studio della fisiologia e
di altre fisiche cognizioni. Evidente appare il suo debito nei confronti di
Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808), sostenitore della sensibilità fisica
quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei Rapports du physique et
du moral de l'homme, l'opera più importante del filosofo francese, risentono
soprattutto le Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il
principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli
e delle Nazioni del 1813 (87) e la Memoria su la perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla
medesima del 1814, cui segue, l'anno successivo, la Seconda memoria (88). Del
1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello, pubblicate a Napoli da Agnello
Nobile. Con la restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico dirada il suo
impegno nella vita politica. Ciò nonostante, all'indomani dello scoppio
insurrezionale del 1820, Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre la
Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme
ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire
il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente sarà uno degli 89
deputati di quel Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820, vivrà solo
fino al marzo 1821, quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per
porre fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo
reazionario. Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti
governativi. Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non
soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si
interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale,
avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese.
Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della
ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede
profilarsi la minaccia di rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di
farlo a grandi passi o salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso,
ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non
ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali
ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico
l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico
pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così,
agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune dottrine
politiche del Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di confrontarsi
con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il
problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi che
si sarebbero formati sotto la sua «potente autorità, senza tuttavia tralasciare
alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le civili società.
Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno accentuate o
giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive. Dell'«illustre
autore» Delfico sottolinea il realismo politico e l'aderenza alla realtà
effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta speculazione politica,
bensì come uno scritto d'occasione contenente una particolare proposta
operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente, qual è la
rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi un precorritore del
Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione
del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la «viva passione», la
disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi
della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di
decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la
soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo
scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario
fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» afferma
«questo non vale per le sue dottrine» (93). Infatti, se da un lato egli
comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una
prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi
eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo
realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione
machiavelliana tra etica e politica e il principio che «per regnar tutto lice»
(94). Divergenze emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito
compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi
valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze storiche,
politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte sono
tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come
l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza
giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo
e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei «gentiluomini»,
di quegli uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti
possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver
legato la «questione militare» alla «questione politica», di aver ritenuto la
soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione
presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul
reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria «affezione»
allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi,
di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo
sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico fa derivare
dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è concepito
all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più
«conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra
rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva
manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde
soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei
diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e
personale. Nel maggio del 1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno
successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla
primavera del 1823, quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel
capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più
allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i
lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non
terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della
importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della
filosofia intellettuale, in cui ribadisce la sua concezione materialistica
della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico e operativo,
che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e tutto ciò
che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e necessarie al
benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla numismatica
pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il titolo Della
antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare
su le origini italiche. Non verrà meno neppure il suo impegno riformatore
che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera
franca in Pescara del 1823 e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi
alla foce del fiume Pescara del 27 aprile 1825 (99), con i quali si prefigge di
rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora poco sviluppata del
Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del commercio,
considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza delle
Provincie» (100), non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture
necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di
un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le
frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di
provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di
importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari
abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato
pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia.
Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe
così finalmente «divenir attivo» (101) e moltiplicare i capitali e far nascere
nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti. La
creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara
costituisce l'oggetto della riflessione che C. conduce nel Brevecenno. L'idea
che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro» (102),
permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la determinazione
dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità che la
creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l'incremento del
commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale
centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina
adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto centrale nel
litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade, l'una diretta
verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato
pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe
anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che renderebbe sicuro il
trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe
riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto
con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire
le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi
commerciali (103). A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo
La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance
projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles
1825), di cui uscirà nel 1829 una traduzione italiana incompleta dal titolo
Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la
falsa indicazione del luogo e dell'editore del testo originale, riferisce di
una congiura che sarebbe stata ordita nel 1814 da alcuni italiani per affidare
la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti
anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto del conte Luigi Corvetto
(1756-1821), «justement regardé comme un des meilleurs jurisconsultes de Gênes»
e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus vertueux de l'Italie»,
ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al Teramano viene anche
attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M. l'empereur Napoléon à l'île
d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, sulle condizioni politiche e
morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore
francese per meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma
nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da
successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del
Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia. Nel 1829
Delfico pubblica la lettera Della preferenza de' sessi (105) alla contessa
Chiara Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed
emancipazione della donna affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul
matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi
interessi intellettuali. A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza
medica testimoniati da numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il
«Fondo Delfico» della Biblioteca Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni
manoscritti di cui uno dal titolo Sugli antichi confini del Regno e un altro
dal titolo Sull'origine e i progressi delle Società civili che invia al
marchese aquilano Luigi Dragonetti, il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma
invano perché il suo autore intende «rivederlo» (106). Nel 1832 riceve la
visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno, e viene insignito,
l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore dell'Ordine di Francesco
I. Nel capoluogo abruzzese Delfico muore il 21 giugno 1835. Dopo la
notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte C. cade in un lungo e
ingiustificato oblio. Uscito grazie a
Gentile dal ristretto ambito locale, che lo aveva reso per tutto
l'Ottocento un autore sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una
dimensione più ampia, nazionale, C. è oggetto di una diversa considerazione a
partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si determina in
coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia,
e, in particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche
significative dell'illuminismo. Merito di questa storiografia è quello di aver
ricondotto e legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore
culturale del movimento riformatore napoletano. Una lettura che ha privilegiato
il C. riformatore, la sua fase riformistica, contrapponendosi alle
rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neo-idealistica che
del ventennio fascista. Di recente, nuove linee interpretative stanno
approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di C.
(alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella relativa al decennio
rivoluzionario o quelle che contrassegnano la sua evoluzione durante gli anni
della Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a
filosofo della storia e della politica. Era nato il 1° agosto 1744 in un
paesino vicino Teramo, Leognano, dove i genitori, Berardo e Margherita Civico,
si erano rifugiati durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Morirà a
Teramo il 21 giugno 1835, all'età di novantun anni. Per le notizie biografiche,
la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-Delfico, Della vita e
delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo 1836,
arricchita di un'elencazione degli scritti editi ed inediti del Nostro (alcuni
dei quali successivamente pubblicati), nonché di quelli non terminati e dei
frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continuò sul «Giornale abruzzese di
scienze lettere e arti», a. col titolo
Notizie intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico
e, sempre sulla stessa rivista, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di
Melchiorre Delfico. (2) Molti degli amici e dei discepoli del Genovesi
furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino,
Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso
Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto
Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e
Troiano Odazi di Atri, che nel 1781 successe al Maestro nella cattedra di
economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il
«partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo borbonico. Cultura,
società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto 1984, pp. 23-31 e
46-49; U. Russo, Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti
1990, pp. 25-31 e 53-63. (3) F. Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento
dei popoli, Il Mulino, Bologna 1986, p. 317. (4) Sul riformismo
borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma
1990, pp. 103-155; I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di
M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799,
in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni,
Edizioni del Sole, Roma 1986, pp. 373-467, e la sintesi di a. M. Rao, Il
riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il
secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa
contenuta. (5) Lo scritto, dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato
assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura
dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche detta
volgarmente succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli, uscì a
Napoli nel 1753. (6) A. Genovesi, Lettere accademiche su la questione se
sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli 1764), Lettera XI, in
Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Feltrinelli,
Milano 1962, p. 497. (7) Per una valutazione dell'influenza di Pietro
Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo oltre al lavoro sempre
valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento.
Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del regno,
Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro
Giannone, Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura
di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La
tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, vol. II, pp.
744-780. (8) Sulla posizione di Genovesi nei confronti dell'autorità
temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, Antonio Genovesi. Dalla
politica economica alla «politica civile», Olschki, Firenze 1984, p. 158 sgg.;
G. Galasso, La filosofia in soccorso de' governi. La cultura napoletana del
Settecento, Guida, Napoli 1989, p. 383 sgg. (9) Le due Memorie, dal
titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio
istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo
oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico dall'avvocato della Corona
Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa
presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo Delfico», b. 16, fasc. 178, dal
titolo Del territorio beneventano. La seconda, invece, fu pubblicata la prima
volta su «La Rivista abruzzese di scienze e lettere» nel 1890 (a. V, fasc. I,
pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI, pp. 2), preceduta dalle
Notizie di L. Volpicella sulle vicende del manoscritto. Il Saggio istorico è
stato riedito nelle Opere complete, vol. III, Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La
raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei quali
pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo dal 1901 al
1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L. Savorini. (10) M.
Delfico, Del territorio beneventano, cit., p. 17. (11) F. Venturi,
Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani,
Ricciardi, Milano-Napoli G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di
Melchiorre Delfico, cit., p. 11. (13) M. Delfico, Memoria autobiografica,
inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo
«Manoscritti Delfico», Misc. 3, n. 846. (14) M. Delfico, Saggio
filosofico sul matrimonio, in Opere complete, cit., vol. III, p.
126. (15) A. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e
il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano
(16) Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti del 10 luglio 1826, in
Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a
cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale,
Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M. Delfico, Indizi di
morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr.
M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia,
Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino
1988, pp. 501-508. (19) M. Delfico, Indizi di morale, cit., (20) Ivi, p. 47. (21) Per una
ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e
riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il
Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, pp.
71-85. (22) L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi
Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio del 14 febbraio 1778, in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 86-99.
(23) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in
Opere complete, F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori
napoletani, cit., p. 1168. (25) Favorevole nel 1783 ad un più moderno
sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua provincia,
Delfico assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente contrario
alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della
defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane in «Itinerari», M.
Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo
Orsino, Napoli 1784, in Opere complete, cit., vol. III, pp. 222-260. (27)
Delfico ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in
essa l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con
la storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di
costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione»
(Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 235). (28) M.
Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 245.
(29) J.-J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité
parmi les hommes (1754), in Oeuvres complètes, vol. III, Gallimard,
Paris 1964, p. 193. (30) M. Delfico, Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi, cit., p. 253. (31) Su tale associazione,
fondata il 1° maggio 1776 ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich,
Gli Illuminati di Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini
alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 309-334.
(32) Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere
complete di Delfico, cit., pp. 154-162; altre sono apparse nel primo volume di
Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen
Gelehrten 1780-1830, herausgegeben von Ø. Andreasen, Erster Teil, P. Haasse,
Kopenhagen-Leipzig 1944, pp. 215-220. Due di queste ultime sono state
riprodotte in appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre
Delfico. (Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G.
D'Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti 1978, pp. 154-155 e
157-160, il quale ha pubblicato altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad
alcune lettere di Delfico alla sorella del Danese Federica Brun (ivi, pp.
140-166). Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca
Provinciale di Teramo. (33) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della
Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno,
Porcelli, Napoli 1785, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp.
265-323. (34) G. Solari, Studi su Francesco Mario Pagano, a cura di L.
Firpo, Giappichelli, Torino 1963, p. 201. Sullo stesso piano l'Autore pone
l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla libertà del commercio, e l'opera
sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata anonima a
Palermo nel 1783. (35) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia,
cit., p. 279. (36) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la
necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna
temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp.
359-396. (37) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia, cit., p.
370. (38) Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita
di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e Sud», a. XXIV (1977), terza
serie, n. 31-32, pp. 191-199. La lettera è datata Teramo, 7 ottobre 1784.
(39) Scritta tra il 1789 e il 1790, su invito dell'Accademia di Padova agli
scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la
Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, nel t.
XXXIX della raccolta Scrittori classici italiani di economia politica, a cura
di P. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985)
con un'introduzione di M. Finoia. Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo
con il Ragionamento su le carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e
moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di commercio,
auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il
compito di prevenire il «terribile flagello» delle carestie e di altri simili
avvenimenti. Il testo, letto il 1° dicembre 1818 nella Reale Accademia delle
Scienze di Napoli e pubblicato nel 1825 negli Atti dell'Accademia stessa (vol.
II, parte I, pp. 3-43), è stato riedito a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria
sulla libertà del commercio. (40) Se, dopo varie insistenze, all'inizio
del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il
ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 255-257), il
ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più
agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno
invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del
1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo
«fisico» ed orientamento laico, avanzata agli inizi di maggio del 1788. Sugli
sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e
Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi «G.
D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo 1978, pp. 7-24, la quale
pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo
sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una
«piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo 1999,
n. 6, pp. 3-7. (41) La Memoria è pubblicata in appendice al volume di a.
M. Rao, L'«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione
feudale a Napoli alla fine del '700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-367.
(42) M. Delfico, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p.
354. (43) Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita,
conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti
Delfico», Ined., n. 402. (44) In Lombardia Delfico si trattenne fino al
mese di giugno del 1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due
mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre
del 1789 rientrò in patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe
modo di stringere e di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e
delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 25 sgg. (45) Ora in Opere
complete, cit., vol. III, pp. 403-431. (46) L'opera, che provocò subito
«molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che
ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli,
nel 1791 e fu ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli
nel 1815. (47) C. Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di
Melchiorre Delfico, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII
(1954), vol. VII, parte II, p. 432. (48) M. Delfico, Ricerche sul
vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I, pp.
225 e 105. (49) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia di
Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del
Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle
lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di
Etica nel Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a
ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e
rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu
coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida nelle carceri della
Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani,
Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo politico del 1794 in Napoli,
in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp.
853-867. (50) B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari
19264, p. 24. (51) Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De
Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp.
38-46. (52) Si veda la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da
Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico,
in «Rassegna della letteratura italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, p.
419. (53) L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De
Filippis-Delfico, il quale riporta tra le opere delficine «non-terminate» (cfr.
Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 122), un opuscolo di
26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il
miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito
a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione
biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda G. Carletti, A proposito di
un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di Melchiorre
Delfico al concorso del 1796, in «Trimestre», a. XXXII (1999), n. 3-4, in corso
di pubblicazione. (54) Sono del 1797 le delficine Memoria per la Decima
imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo
dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da
ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per
rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte
inedite. (55) Lettera di Delfico a Fortis del 7 novembre 1793, in M.G.
Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp.
415-416. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli (1740-1820), nobile di
Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777
al 1804 e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione
risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da L. Tossini,
Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane»,
terza serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), egli era costretto a difendere la
propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di «vaghe» e
«calunniose imputazioni» di qualche delatore. La denuncia del '93, pur non
avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che Delfico succedesse al
fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo. Nel 1794 una
nuova denuncia anonima era stata all'origine del rifiuto del Supremo Consiglio
di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. Non avrebbe
ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815
Gioacchino Murat gli avrebbe conferito quello di barone. (56) Il pretesto
è fornito da alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica,
da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la
donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio
Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la
Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799, scritta
presumibilmente da Giamberardino Delfico «allo scopo - è precisato in
un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni», dopo che,
condannato dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e
trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in
seguito all'indulto generale del 1° maggio 1801. Il testo è stato pubblicato da
V. Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-385 e a. V
(1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a p.
375 sgg. (57) I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in
Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre in 1500 arrivarono a Teramo. Messe in
fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città il 23
dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne il 24 e Chieti il 25. Per
una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L.
Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni,
L'Aquila 1928, voll. III e IV, Tip. Consorzio Nazionale, Roma 1939. Sull'arrivo
e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr. anche le tre cronache del periodo
rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri
luoghi d'Abruzzo 1777-1822 (in L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli
Abruzzi, cit., vol. III, pp. 38-440); G. Tullj, Minuta relazione dei fatti
sanguinosi seguiti in Teramo dall'anno 1798 al 1814, con postille e con la continuazione
del canonico Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca
inedita teramana (1798-1814), in «Storia e Civiltà», a. IX (1993), n. 3-4, pp.
269-285; a. X (1994), n. 1-2, pp. 93-116 e n. 3-4, pp. 148-172; a. XI (1995),
n. 1-2, pp. 94-118 e n. 3-4, pp. 175-196; a. XII (1996), n. 1-2, pp. 58-86 e n.
3-4, pp. 171- 195); C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal 1798 al
1809, Teramo 1999. (58) Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a
Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna, entrò in
funzione subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo
presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M.
Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una repubblica giacobina, in «Rassegna storica
del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 11-12, ora in La Repubblica
napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp. 188-189.
Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F. Masciangioli,
Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed
esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp.
41-69. (59) Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a
trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie,
cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica
di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg. (60) Cfr. G.
Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI (1984),
fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi, cit., p.
519 sgg. (61) Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni
ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio
del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere
ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-439. Senz'altro meno
importante è l'altro atto a firma di Melchiorre Delfico, Proclama sulla
sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con il quale
venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. (Ivi, pp.
441-442). I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti
delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce,
Pescara 1999, pp. 51-55 e 57-58. (62) Cfr. la lettera di Delfico al
Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27 marzo 1799),
in Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974,
pp. 695-696. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze
di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica», a. XX (1981),
fasc. 1, pp. 1-46, e il più recente volume Per una rilettura
socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del
Sole, Napoli 1995. (63) Per il testo cfr. G. Carletti, Melchiorre
Delfico, cit., pp. 138-139. (64) Sulla permanenza del Teramano nella
Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica
di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935. (65) Cfr. V.
Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, II ed. con
aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, p.
96 sgg. (66) Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete, cit., vol. I, pp.
249-250. (67) Ivi, p. 472. (68) Ibidem. (69) Ivi, p.
250. (70) Il libro, il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei
suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che Delfico l'aveva consegnato
alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione uscirono a
Napoli nel 1809 e nel 1814. (71) M. Delfico, Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino, cit., p. 249. (72) Ivi, p. 246. (73) Cfr.
M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre
Delfico, in «Itinerari», a. XXIII (1984), n. 3, p. 94. (74) Cfr. G.
Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli 1903, p. 46
sgg., il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel
modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo nell'«antistoricismo»
delficino è stato rilevato anche da B. Croce, La storiografia in Italia dai
cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della
storia» e 2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», a.
XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp. 16-18 e fasc. II, p. 95, poi
rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana nel secolo
decimonono, Laterza, Bari 1921, e da G. De Ruggiero, Il pensiero politico
meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921, pp. 158-165.
(75) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità
della medesima, in Opere complete, cit., vol. II, p. 11. (76) Il
titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale
en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson,
Paris an VIII. (77) Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. C.
Rosso, De Volney à Melchiorre Delfico: l'histoire, une discipline aussi inutile
que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Presses
de l'Université, Angers 1988, pp. 345-356. (78) M. Delfico,
Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p.
43. (79) Ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 307-325. (80) M.
Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima,
cit., p. 174. (81) Porcelli, Napoli 1781, Epoca I, pp. 329-338. Grimaldi
si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella
Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali
relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata
alle pp. 18-21 della recensione al volume di Grimaldi apparsa nel fascicolo del
febbraio 1784 del «Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente,
del suo principale estensore Alberto Fortis. (82) Per un esame critico
del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione
di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares», a. XLV (1979),
n. 1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi
guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma 1995, pp.
79-138. (83) Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora
inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in
«Aprutium», a. IV (1986), n. 3, pp. 32-48. (84) M. Delfico, Discorso
sulle favole esopiane, cit., pp. 39-40. (85) Lettera di Delfico a Teresa
Onofri del 21 marzo 1806, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre Delfico.
Lettere sammarinesi, Arti grafiche Della Balda, San Marino 1934, p.
53. (86) Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr.
G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese (1806-1815), Edizioni
del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in appendice alcuni
scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il
sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli 1985, pp. 125-135.
(87) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 471-497. (88) Ora
in Opere complete, cit., vol. III, rispettivamente pp. 501-528 e pp.
531-550. (89) Ripubblicate nelle Opere complete, le Nuove ricerche sul
Bello sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni, Ediars, Pescara
1999. (90) Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e
dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume,
notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione del 1941, di A.
Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino 1976, pp.
231-332, cfr. P. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, vol.
IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, cit., pp. 575-639. Spunti
critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815), a
cura di A. Lepre, Liguori, Napoli 1985. (91) Rimasto inedito, il testo
finale è tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da
A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986,
rispettivamente pp. 19-42 e 59-79. (92) M. Delfico, Osservazioni sopra
alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, cit., p. 20. (93)
Ivi, p. 67. (94) Cfr. ivi, pp. 29 e 70. (95) Cfr. N. Machiavelli,
Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario
fiorentino, Italia 1813, vol. I, lib. II, cap. XII, p. 79. (96)
Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere,
cit., vol. III, lib. I, cap. LV, p. 159. (97) Ora in Opere complete, cit.,
vol. III, pp. 567-588. (98) L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata
a Napoli nel 1826, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica
Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini
italiche, ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 299-505. (99)
Pubblicati nelle Opere complete, vol. IV, pp. 293-305 e vol. III, pp. 631-644,
i due testi sono stati riediti da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre
Delfico, cit., rispettivamente pp. 23-36 e pp. 37-50. (100) M. Delfico,
Breve cenno, cit., p. 37. (101) M. Delfico, Fiera franca in Pescara,
cit., p. 32. (102) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 38. (103) Cfr.
ivi, pp. 47-49. (104) Ora, tradotto, in Opere complete, cit., vol. IV,
pp. 325-333, col titolo Rapporto sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a
M. Delfico. (105) M. Delfico, Della preferenza de' sessi. Lettera
all'ornatissima signora contessa Chiara Mucciarelli Simonetti del 12 marzo
1827, pubblicata a Siena nel 1829 ed ora in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 31-45.
(106) Cfr. la lettera di Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature
nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p.
156. (107) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cit., pp.
18-87. (108) Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume
di D. Carpanetto - G. Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi,
trasformazioni, lumi, Laterza, Roma-Bari 1993, e la ricca bibliografia in esso
contenuta. Per una ricognizione degli studi delficini, cfr. G. Carletti,
Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica della storiografia
delficina, in «Trimestre», Saggio filosofico sul matrimonio. I. voi. in
16. 1774* ( segnato nell'indice de' libri proibiti ). a
Indizi di morale ( proibito prima di pubblicarsi ) Discorso sullo stabilimento
della milizia provinciale. TeramoMemoria sulla coltivazione del riso
nella provincia di Teramo
Napoli Porcelli Elogio del marchese D. Francescantonio
Grimaldi . Napoli 1784* presso Vincenzo Orsino Memoria sul tribunale
della grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti
del regno . I. voi. in 4 * Napoli 1785. presso Porcelli .
Memoria sulla necessità di rendere uni- formi i pesi e le
misure del regno. I. voi. iti 4 * Napoli 1787. presso Porcelli . ’
- 8 Memoria su’ regii stucchi , o sia su la servitù de’
pascoli invernali nelle provincie ma- rittime degli Àpruzzi. I. voi. in
8. Napoli 1787. 9 Discorso sul tavoliere di Puglia e su la
necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad
alcuna temporanea rifor- ma. I. voi. in 8. Napoli 1788. 10
Memoria per la vendita de’ beni dello Stato d’Atri. I. yol. in 4 *
Napoli. 1788. ( stampata una col reai dispaccio di appro- vazione )
. I I Riflessioni su la vendita de’ feudi umi- liate a S. R.
M. I. voi. in 8. Napoli 1790. presso Porcelli . 1 2 Ricerche
sul vero carattere della giu- risprudenza romana e de’ suoi cultori . un
voi. in 8. Napoli 1791. presso Porcelli : ( ristam- pato in Firenze
, ed in Napoli un altra volta nel 18 15 ) 1 3 Lettera del
signor duca di Cantalupo ( su feudi ) Napoli Memorie storiche della
repubblica di San Marino I. voi. in 4 * Milano 1804. dalla
tipografia di Francesco Sonzogno . 1 5 . Memorie sulla libertà del
commercio : ( stampate nella Collezione de classici italia- ni di
Economia politica : parte moderna : Milano i Pensieri su la storia e su la
incertezza ed inutilità della medesima . I. voi. in 8. Forlì
Pensieri sopra alcuni articoli relativi all’ organizzazione de’
tribunali : ( stampati sen- za il nome delF autore , nè V epoca ,
dalla stamperia reale di Napoli nel 1808. ) 18 Lettera al
Climo sig. Abate D. Gasparo Selvaggi ( sulla Tragedia. Pubblicata dal
Gior- nale enciclopedico di Napoli An. Nuove ricerche sul Bello. I. voi.
in 8. Napoli 18 j 8. 20 Ricerche sulla sensibilità imitativa
con- siderata come il principio tìsico della sociabilità della
specie , e del civilizzamento de’ popoli e delle nazioni ( Memoria letta
nella reale Ac- cademia delle scienze di Napoli il: pubblicata tra gli
Aiti della medesima Napoli, insieme alle altre due seguenti Memorie ) .
21 Memoiia su la perfettibilità organica considerata come il
principio fisico dell’ educa- zione , con alcune vedute sulla medesima
: Seconda memoria sulla perfettibilità organica ec. ( letta nel
1816. , e pubblicala come sopra ) . Ragionamento su le carestie (
letto nell ’ Accademia delle Scienze di Napoli il 1. dicembre 1818
, e pubblicato negli Atti della medesima voi. II. Napoli 18 2 5 ) .
Poche idee su V accusa de' ministri . Pubblicate in uno de'
giornali costituzionali di Napoli il z 3 . dicembre i 8 ao. a
5 Dell* antica numismatica della città d’ Atri nel Piceno con un discorso
preliminare su le Origini italiche ed un appendice su’ Pelasgi ed i
Tirreni. I. voi. in fol. Teramo 1824. con tavole in rame .Rischiarimenti
ad alcune osservazioni fatte dal Micali su la stessa , e di una Lettera
al sig. Conte Zuroli su le antiche ghiande missili di piombo. I.
voi. in fol. Napoli 1826. , dalla tipografia di Angelo Trani : con più
tavole in rame . 27 Della preferenza de’ sessi. Lettera
all’or- natissima signora contessa Chiara Mucciarelli Si- monelti .
I. voi. in 8. Siena 1829. ( Ristam- pata in Napoli insieme ad alcune poesie
del Conte di Longano ) Lettera
all’ autore delle Memorie in- torno i letterati e gli artisti ascolani. (
Stampa- ta in fine delle stesse Memorie , Ascoli i 83 o ). 29
Espressioni della parlicolar riconoscenza della provincia e città di
Teramo dovuta alla memoria dell’ immortai Ferdinando I. Annali civili del
regno delle due Sicilie Inforno a’ dritti sovrani di Napoli sul- la
città di Benevento. Memoria. 1768. 3 1 Intorno a’ diritti sovrani
di Napoli sul- la città di Ascoli . Memoria . 1 768. 3 a *
Lettera a' fratelli sulla eruzione del Vesuvio Estratto ragionevole del
trattato degli animali . pag. 8. 34 Lettere sulla cavalleria
ed i romanzi . P a S- 7 - 35 Lettera al sig. Michele
Torcia sul tratto di paese che si estende dal Fortore al Tronto .
1784 . pag. 1 5 . 36 Supplemento alla Memoria su la gra- scia
, per rapporto all' estrazione degli animali vaccini . Memoria per lo
ristabilimento del tri- bunale collegiato nella provincia di Teramo
. 1786. pag. 11. 38 Memoria per lo stabilimento d’ una
uni- versità in Teramo . 1786. pag. 7. • I titoli in
carattere corsivo sono per ^quegli scritti che 1’ autore lasciò senza una
denominazione . ** S’ intende per lo più di pagine scritte , come
si dice , alta spagnola , ossia nella sola metà . Pel resto si troverà
sod- disfacente spiegazione nel prosieguo del libro . Su' danni de'
terremoti in Calabria nel iy 83 . - 0 sii ministro Corradini sulle
maioliche de' Castelli. Lettera. 1788. pag. 24* 4 1 Appendice
al discorso sul Tavoliere di Puglia . 1788. pag. 84. 42 Sull’
aumento de' soldi a.' magistrati nel iygo. pag. 8. 43
Estratto ragionato del Saggio analiti- co su le facoltà dell’ anima di
Carlo Bonnet . pag. 100. 44 Seconda Memoria sulla vendita de’
be- ni allodiali. 1791. pag. 7. 45 Breve Saggio su l’
importanza di abo- lire la giurisdizione feudale , e sul modo di
ese- guirlo . pag. 32. 46 Supplemento alla Memoria pe’
regii stucchi .Degli Appalti. Memoria, pag. g. 48 Per la
città di Teramo intorno d beni dell' abolito convento di S. Agostino
. pag. 11. 4 g Memoria per la decima impesta al re- gno
. 1797. pag. io. 5 0 Memoria intorno a’ danni sofferti nella
provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e
de’ mezzi opportuni da ripararli. Osservazioni su la nuova
monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio
delle provincie confinanti del regno . 1797. pag. 17. 5
a Discorso sulle Scienze morali, pag. ira. Novena di San Marino . Intorno
all’ imposizione per la caccia , ( Questo ed i selle seguenti scritti si
suppongono composti in Napoli dal 1806. al 18 15. 55 Rapporto
alla reai società d’ incorag- giamento sul progetto di stabilire nelle
provin- cie del regno altre società simigliatiti , Considerazioni sul
debito pubblico , e su’ beni nazionali relativamente alla legge de’
a. luglio 1806. pag. ia. « 57. Breve esame dell’ indole delle
dogane interne . pag. 20. 58 Rapporto per gli stabilimenti di
uma- nità e di pubblica beneficenza Osservazioni su d’ un progetto d’
istruzione pubblica Sulla tassa fondiaria . pag. 1 3 . 6j
Osservazioni sulle procedure criminali die si chiamano Nullità . pag.
14. 62 Parere intorno ad un’ opera del Sig. Biie D. Davide
JV'uispeare , intitolata : Storia degli abusi feudali. Delle cause perchè
siano molto scar- si i buoni scrittori . Opuscolo, Lettera sulla imputabilità de’ muti .
65 Pochi cenni su’ fondamenti delle Scien- ze morali. Discorso (
letto nella reale Accade- mia delle Scienze di Napoli nel iSlij , e
de- stinato a stamparsi nel voi. III. degli Aiti della medesima ,
insieme al seguente Opuscolo ) .Sulla necessitò di cangiare i metodi d’
istruzione usati in Europa . 67 Alla Giunta preparatoria del
Parlamen- to nazionale . Allocuzione . Memoria in favore di alcuni
impie- gati destituiti Osservazioni sopra alcune dottrine po-
litiche del Secretano fiorentino. Proposta di alcuui mezzi economici per
supplire agli attuali bisogni dello Stato . 3 o. t&arzo 18 23. pag.
19. 7 1 Deli’ importanza di far precedere le co- gnizioni
fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale . Discorso (
mandato alla reale Accademia delle Scienze di Napoli il 26. lu-
glio 1823. ) pag, 18. 72 Elogio in morte della Duchessa di S.
Clemente . Lettera al Cav. e Ferri. Lettera in difesa de' Pensieri sulla
Sto- ria e sulla incertezza ed inutilità della medesi- ma , per
risposta alle obiezioni di Amaury D re- vai pubblicate nel Mercurio
straniero tom . A ( Questa lettera , e tutti gli altri scritti che
seguono nella presente classe furono compo- sti dopo V ultimo ritorno
dell' Autore in Apruzzo ) Sulle origini ed i progressi delle So- cietà
ossia Saggio filosofico sulla storia del genere umano Proposta di alcune
riflessioni sulla filo- sofia medica ed intellettuale. Opuscolo, Giudizio
sulla storia fi losofica di Da - miron. Lettera, pag. 3 .
Lettera su cF un manoscritto comuni- cato , riguardante politica, pag.
28., 78 Due biografie di se stesso : una scrit- ta nel i 8 z
5 , t altra nel 182J. 79 Delle cagioni per le quali il
civilizza- mento non ebbe molti progressi . Opuscolo Sulla
perfettibilità. Sulla guerra. Lettera, pag, 8. 82 Sulla medicina
omiopatica . Lettere due. Sulla dottrina medica di Samuele
Hanhemann. Memoria sul riso secco cinese, Sullo stesso argomento . Lettera
al Mse. Tommasi. pag. 18. 86 Sullo stesso argomento. Lettera
pole- mica. De' confini del regno di Napoli nella linea del Tronto
; ossia : Sugli antichi confi- ni del regno, Sugli stabilimenti di
beneficenza. Let- tere 3 . Élen^UtmlnìxU Catechismo di moral
; civile , ossia trattato pratico de’ doveri del cittadino. Del dritto
naturale delle genti , ossia della morale delle nazioni, Sistema di
ragione e benevolenza uni- versale. Sull’origine de’ popoli, Sulle
Capitali. Opuscolo, Degli affari fiscali. Memoria. Sulle proprietà, pag.
123. 96 Sugli stabilimenti di umanità, Deir unione della Ideologia
colla Fi- losofia. Dissertazione, pag. 12. 98 Dell’
eguaglianza de’ diritti delle donne , considerati specialmente nelle
successioni, Distinzione fral merito c la gloria. Dritti politici e
dritti civili, pag. 14. 100 Sul quesito : Quale sia il
miglior de governi per 1 ' Italia ? Opuscolo, pag. 26. 101
Ricerche su le teorie fisiche della ragion degli Stati , o sia de’ veri
principi della Politica, Delle leggi e del regimento de’ comu- ni.
Sulle leggi forestali. Discorso, Sulla vociferata abolizione della pro-
vincia di Teramo . Memoria, pag. q 3 . Ricerche su le leggi
coniugali , con- siderate ne’ rapporti da’ quali devono sorgere ,
nelle cause produttrici , e negli efl’etti inorali e civili, pag. 3
fi. 106 Sulla Vita e la Vitalità, Della specificità in medicina.
Pensie- ri. pag. 5 fL 108 Osservazioni sull ’ opera
intitolata : De’ principi della scienza etimologica, pag. niL
109 Saggio filosofico su la guerra e su la pace. pag. fili.
i_lq Igiene, pag. % JFritmmitttt
iti Di ciò che si chiama quadro dello stile , pag. sLm
112 Sul poeta Orazio. Critica, Pensieri divèrsi filosofici e
letterarj. pag.’ 224. 1 1_4 Qualche osservazione sull' opera
di Neker Sur 1 ’ administration. pag. t i fi Del Vesuvio, pag.
£L 1 ifi Del tempo musico e filosofico, Idea d’ una legislazione, Per le
origini civili, Alle nobili fanciulle mie concittadinc. (
Prefazione per una raccolta di aneddoti ) . pag. 2. m 120
Sulla Città di Reggio, Sul travaglio, pag. 2« 1 22 Progressi dello
Spirito - Orgoglio na- zionale - Viaggiatori - Filosofia - Eccesso
di tipografia, pag. 18. 128 Su’ pastori, pag. 2.
124 Saggio sull’ adulazione. ( Progetto di un' opera ) . pag.
2. iz 5 Ricerche storico - filosofico - polili- clie su la
nobiltà. ( Progetto di un' opera ) . pag. a. 126 Istoria
dell’ anima, pag. 5 L 1 27 Sugli ospedali. ( Molti pensieri
non legati) . pag. 96. 128 Progetto d’ un nuovo giornale
delle mode. pag. 1 Q. 129 Notizie su le opere impresse nel
pri- mo secolo della stampa , per ordine alfabeti- ca fino alla
lettera P. pag. io 4 < 180 Qualche pensiero di dritto pubblico,
Delleraccomandazioni. Articolo morale. Considerazioni su’ magistrati
munici- pali. pag. 4^ 1 33 Della Solitudine, Qualche
osservazione sulle Lezioni di Filosofia de Laromiguiere. pag. 8.
1 35 Qualche osservazione sull’ opere fi- siologiche di
Spurzheim.pag. 8. 1 36 Della civiltà, Catechismo universale, pag.
2. 1 38 Della ragion di stato, Estratto della politica d’
Aristotile. Morale nelle leggi,
Piano di scienze morali, pag. 4- 14 ^ Dell’ origine e significato
della parola morale , e delle varie applicazioni della medesima Frammenti
diversi sulle Leggi, Osservazioni sulla
risposta di Serbatti ad una lettera del cav. Monti sulla lingua italiana,
Esame de' classici italiani, Su' trecentisti, Romantici Osservazioni sull ’
opera di Lemer- cier riguardante i teatri, Osservazioni sul passato
secolo ad uti- lità del presente Viste politiche e morali sugli
effetti della rivoluzione Frammenti diversi sugli affari politici L’
obolo della vedova . All’ Italia Qualche ossen’azione sopra alcune espressioni
di Romagnosi. Rapporto storico su’ progressi delle Scienze naturali, pag.
io. Al sig. Ab. D. Cataldo Jannelli . Dell’ uso vero della Storia,
Meditazioni d’ un solitario che vive in mezzo alla società. Sull’
Inghilterra. Sopra un libretto che riguarda la divozione pel Sangue di
Gesù – Cristo Miscellanea di cose
Jìsiologiche .Miscellanea di cose economiche .Miscellanea di cose filosòfiche
Miscellanea di cose politiche. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei
Marchesi Delfico. Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella.
Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul bello, estetico, 'l’estetico,
l’imitazione della natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione.
La storia romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla
caduta della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza
conversazionale tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Clarano: Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. A friend of Seneca from the time they study
philosophy together under Attalo. In a letter to Lucilio the Younger, Seneca
contrasted the ugliness of his body with the beauty of his soul. Grice:
“Strictly, this is Chiarano – since the Italians, unlike the Romans, seem
unable to pronounce the ‘cl-‘ cluster.” Clarano.
Grice e Claudiano:
l’anima di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Writes a treatise on the
sould against Fausto d Riez. Claudiano Mamerto. Claudiano.
Grice e Claudio –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. best under Appius. Appius
Claudius. A reforming politician who, according to Cicerone, was at least
influenced by Pythagoreanism.
Grice e Claudio:
la sofistica a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The son of the sophist
Marco Antonio Polemo. Primarily known as a sophist himself, he was also a
logician. Publio Claudio Attalo. Claudio.
Grice e Claudio: Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofi italiano. A philosopher highly regarded for his moral virtue. Claudio
Antonino. Claudio.
Grice e Claudio:
il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Porch and
a friend of Antonino. He had a career in public life and was highly respected.
Antonino says he leart the value of self-control from him and admired him for
his cheerfulness, modesty, imperturbability, and generosity of spirity. He
presided over a trial involving Lucio Apuleio. Claudio Massimo. Claduio.
Grice e Claudio:
il lizio a Roma – filosofia italiana – Luigi Spranza (Roma). FIlosofo italiano. A Lizio -- a friend of Antonino. The emperor admired him
for his kindness, warmth, and honesty, as well as for his dedication to
philosophy. Claudio Severo. Claudio.
Grice e Cleemporo:
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Plinio
Maggiore, some attributed to Cleemporo a treatise on the property of herbs that
others attributed to Pythagoras.
Grice e Cleomene:
la gnossi a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A gnostic who founded his
own set in Rome. Originally a pupil of Epigono.
Grice e Cleonte:
la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean
according to Giamblico di Calcide.
Grice e Cleofronte:
la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico
di Calcide, a Pythagorean.
Grice e Cleostene:
la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to
Giamblico, a Pythagorean.
Grice e Clinagora:
la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to
Giamblico, a Pythagorean.
Grice e Clinia:
la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. The information about
Clinia is confusing, but running through it all is the constnt theme that he
was a Pythagorean. Iamblicus di Calcide associates him with both Taranto and
Heraclea. Clinia and Amiclo are said to have prevailed upon Plato not to burn the
works of Democrito di Abdera. Iamblico mentions Clinia in an illustration of
Pythagorean friendship, claiming he went to the financial aid of Proro di
Cirene at considerable cost and risk to himself. Although neither story is
possible to date with any precision, if both are true, Clinias would appear to
have lived a very long time. A confusion of two people with the same name is
perhaps more likely.
Grice e Clitomaco:
la setta di Thurii -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Thurii). Filosofo italiano. Probably a pupil of
Euclide di Megara. According to Diogenes Laerzio, Clinomaco was the first to
write about propositions and PREDICATES. He was interested in logic and
attached great value to the use of argument. Some regard him as the initiator
of the dialectical school.
Grice e Clodio –
Roma: la setta di Napoli -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. According to Porfirio,
Clodio wrote a book arguing against vegetarianism.
Grice e Clodio:
all’isola -- Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano Clodio Sesto – a
teacher of rhetoric.
Grice
e Cocconato: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “I like Coconato – I
used to say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless
you are a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato!
He spent some time in London, as I did – and he shows that the average Italian
philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato,
as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato
(Torino), filosofo. Libero pensatore, fu il «primo illuminista della penisola»,
secondo una definizione di Piero Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero
anti-clericale nel clima dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni
settori della corte di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della
sua prima formazione, verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un
infelice matrimonio precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e
già due volte padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato
travalica i conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si
mobilita il partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi
appoggia il re sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia
romana. Il grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a
Londra e ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern
Cannibal's Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare
della crisi della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto.
Nell'opuscolo autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso
emblematico di «uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal
contrasto tra santoni bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli
agostinianisui presunti miracoli operati da un'immagine della Vergine,
rinvenuta nel convento agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la
fede e come, verso i vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a
far uso della mia ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione
intellettuale è il viaggio compiuto nella Francia della "Reggenza"
tin cui poté ampliare il raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi
libertine come La Sagesse di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité
contre la Médisance di Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e
sviluppo nelle sue opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali,
storici e politici redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato
clima conseguente alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e
Benedetto XIII diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da
un riacquisito potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà
e per la sua stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a
Londra, dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il
sequestro e la confisca dei beni. A Londra pubblica con un discreto
successo l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione
di Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e
radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che,
tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo.
Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della
tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e
all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge
nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di
senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si
inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere
Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il
suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua
prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità
occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in
termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto
individuale alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul
suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni
confessione ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente
nella gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede,
considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo
cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma
l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per
secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile
dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà
divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la
crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro
eredi. Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da
una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari
di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di
una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi
occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella
Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio
muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana.
Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega
affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio vitae,
apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di servitù a una
condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente, incremento della
capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi per realizzare la
sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le cose. Definisce
l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa intrattiene con il
tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia della materia che
costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La certezza che ci
resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e dagli idola tribus,
i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo vicissitudini della
materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio londinese e poi olandese
non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci giunge fino a Cartesio che,
limitandosi a identificare materia ed estensione, continua ad aspettarsi dal
Dio creatore l'impulso motore e la creazione continua. Come per il Toland delle
Lettere a Serena e del Pantheisticon, la materia pensata dal Radicati è la
materia actuosa che reingloba nel meccanicismo moderno motivi provenienti dal
naturalismo rinascimentale a cui ineriscono direttamente movimento e
autoregolazione. L'universo è un mondo infinito in perpetuo movimento: in
esso nulla continua ad essere anche solo per un istante la stessa cosa. Le
continue alterazioni, successioni, rivoluzioni e trasmutazioni della materia
non incrementano né diminuiscono tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera
dell'alfabeto si aggiunge o si perde per le infinite combinazioni e
trasposizioni di essa in tante diverse parole e linguaggi. La natura, mirabile
architetta sa sempre come utilizzare anche il minimo dei suoi atomi. La fine
della nostra individualità costituita dalla morte non è quindi fine assoluta,
perché niente si annichila nella materia e il principio vitale che ci
anima come non è nato con noi troverà sicuramente altre forme di esplicazione:
come la nostra nascita non è avvenuta dal nulla, non sarà nel nulla che ci
dissolveremo.-- è estranea ogni forma di lirismo e, tuttavia, una concezione
non lontana dalla sua rifiorirà in una delle pagine finali di uno dei maggiori
romanzi lirici della modernità, nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua
eroina, Diotima: “Noi moriamo per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non
conoscono se non il ciarpame arrabattato dalle loro mani, che sono
esclusivamente servi del bisogno e disprezzano il genio e non ti venerano, o
fanciullesca vita della natura, a ragione possono temere la morte. Il loro
giogo è diventato il loro mondo, non conoscono niente di meglio della loro
schiavitù: c'è forse da stupirsi che temano la libertà divina che ci offre la
morte? Io no! Io l'ho sentita la vita della natura, più alta di tutti i
pensierie anche se diverrò una pianta, sarà poi così grande il danno? Io sarò.
Come potrei mai svanire dalla sfera della vita, in cui l'amore eterno che è
partecipato a tutti, riunifica le nature? come potrei mai sciogliere il vincolo
che riunisce tutti gli esseri?» Opere Antologia di scritti, in Dal
Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del primo Settecento, tomo V, F.
Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, Dodici discorsi morali, storici e politici,
T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Dissertazione filosofica sulla
morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e
Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Discorsi morali, istorici
e politici. Il Nazareno e Licurgo messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati
(check); edizione e commento di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore,
Dissertazione filosofica sulla morte, F. Ieva, Indiana, Milano Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi
sul pensiero nel Risorgimento, Torino, anche in Opere completeSpriano, Torino,
Einaudi Franco Venturi, Adalberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi, Franco Venturi, Settecento riformatore, I,
Torino, Einaudi, Silvia Berti, Radicati
in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti,
in «Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo,
libero pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in «Rivista
Storica Italiana», J. I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the
Making of Modernity Oxford, Oxford University Press, passim Tomaso Cavallo,
Introduzione a A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa, Ets,
Tomaso Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e Licurgo:
impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione ad A.
Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri Levante,
Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in «I Quaderni di
Muscandia», G. Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and Unbelief in
Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves and Others
in the Early Modern Period, ed. by Broomhall and JGent, Ashgate, Treccani Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite
Parallele di Alberto Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come
uomo politico e consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di
filosofo; e la sua filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che
riuscirono a destare interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli,
giacquero come cose inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse
private, come il loro autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E
l'oblio scese su di loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza
di la sua filosofia. Infatti il Saraceno pubblicando il « Manifesto» e le due «
Lettere » indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III
e premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e
bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia
a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a
Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il
suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei
pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono
vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come
non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile
lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune
notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e
la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca
di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in
Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate
invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al
British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino,
dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta
in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P.,
Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata
al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio
Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che
intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia
della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S. Sebastiano.
Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII
Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted”
(London. Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by
the Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of
Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of
Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown
in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to
repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his
Restauration. On a letter frorn the Marquis de T... a Piemonlais now at the
Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd
without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa
recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange; and by the Booksellers
and Pamphletsellers of London and Westminster. “A phliosophical [sic] dissertation
upon death composed for the consolation of the unhappy, by a friend to Truth”
(London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill). Lettera
a S. M. il Re Carlo Emanuele III colla quale supplica la prelodata S. M. di
voler gradire la dedica della opera da lui composta e già presentata alla fu S.
M. il Re Vittorio Amedeo IIC. (Arch. Slato Torino - Storia Real Casa - Cat. Ili
- Storie particolari). Twelve discourses concerning Religion and Governement,
Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by Albert Comte de Passeran,
Written by Royal Command, The second Edition” (London, printed for the
Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad Westminster). Recueuil de
pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez la
Veuve Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A. R.
de P. parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage.
Douze Discours Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration
de l'Auteur, Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne
a la tres illustre et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker
Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius
neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la
religion des Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare
les motifs qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe
a Rome par M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda
fide, con prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour
rendre utile à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son
maintenant fort à charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la
grande assamblé des Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée,
traduit de l'Anglois a Londres, au depens de la Compagnie. La religion
Muhammedane comparée à la paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem
epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour traduit de l'Arabe. A Londres au
depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste opere le notizie e di caratteri
più salienti. È edita dal Saraceno, nell'opera più volte citata. Il testo
rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le inconstanze di scrittura
(et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo; alquanto mutata è invece
la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta nel testo originale, i
secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito. Questa lettera con la
quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli pervenire la
cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix, sia dalla
risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto, per quante
ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata possibile
trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di Torino. Fu
edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata perduta. Delle
lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia da una lettera del
Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma non mi è
stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita, in un elegante
Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente
dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece incompleta
contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author gives a
particular account of his conversion” e il Discourse I, “Of the Precepts and
Life of Jesus Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto mutato nella
forma e nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde
invece esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi
integralmente dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei
Douze Discours, moreaux ecc.editi nel Becueil „. Ritornando al Preliminary
discourse abbiamo detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue linee
sostanziali dal Recit incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di
valore capitale sussistono fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di
vista generale, le caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior
importanza che può avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese;
e infatti, pur essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel
testo di Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di
Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e
date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del
filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente
preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal
semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del
filosofo al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più
attenuata, in taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali
fra le due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla
Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the
Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the
Religion of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption
of the Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the
great Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the
Bishop of Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse
VII: That neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by
the Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has
maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can
make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns
and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of
Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual
as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical
Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to
Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere
dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli
contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso
contenuto nella Christianity del tutto analogo al primo di quelli
contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e
facilmente confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur
essendo vi qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente
un analogo contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British
Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad
un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al
filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo
potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo.
Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve
les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de
son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est
repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à
entreprendre son rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à
la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S.
1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La
politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de
Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione:
Génève contenente una seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de
filosofo. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris,
in 4°, erratament e attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio
identificato. L'Oettinger dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a
Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de
sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui
obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son
fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre.
Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à
présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui
regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux
affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de
l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure attribuita
dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie biographique universale,
Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne etc. de sa
detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il s'est servi pour remonter
sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal. Anecdotes de l'abdication du Roi
de Sardaigne Victor Amédée II, Anecdotes
de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II. Edita sotto il nome di
Marchese di Fleury che il Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié.
Histoire de l'abdication de Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention
au Ghateau de Rivole, et des moyens dont il s'est servi pour remonter sur le
trone. Nouvelle édition sur celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non
abbiamo creduto necessario per quanto il testo inglese rappresenti il testo
originale redatto dal P. di annotare le poche varianti che esistono più di
forma che di contenuto. N. 9 di questa operetta, che ho trovato solamente al
British Museum, catalogata sotto il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della
bibliografia del B. M. è: " A philosophical dissertation upon Death -
Composed for the consolation of the Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano
translated or edited by John, or rather Thomas Morgan? era data notizia tanto
dal Cav. Ossorio, che ne espone in brevissime righe il contenuto e ci avverte
che fu causa di prigionia per l'autore e il traduttore, quanto dal Lilienthals,
dal Kahl e dall'Henke (1). Completamente dimenticata dai più recenti studiosi
del R. compare citata dal Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di
stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana
dal R. sarebbe stata tradotta da " un de ses compagnons „ " en bon
Anglois „ e sotto il nome di questo traduttore, che si seppe più tardi essere,
Thomas Morgan essa andò per alcun tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno (4) ed è
una copia della lettera originale andata smarrita. La scoperta di questa nuova
edizione, ricordata in alcune opere Cfr. HENKE, op. cit. loco cit. LILIENTHALS,
op. cit. loco cit. FREYTAG, op. cit. loco cit. VOGT, op. cit. loco cit. BAUER:
op. cit. loco cit., WAHIUS, op. cit. loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove
però compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di
luogo di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che
i " Discours „ siano stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel
" Recueil „, e che quindi sino al 1736 i " Discours „ medesimi siano
rimasti manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista
la primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere
edita prima del 1733 per le ragioni stesse che giustificano l'edizione de!
1734) che il nostro si decise a dare alle stampe i " Discours „ dopo aver
visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di
conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più
dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo
l'edizione inglese dei " Discours „, la quale messa in confronto con
quella di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese
la " Dedica „ a Don Carlos (sedizione Rotterdam pag. Ili a pag. X) e il
" Factum „ fonte di preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da
pag. 1 a pag. 10). mentre che la Declaration de Vauteur „ contenente i motivi che
hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo
svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto
riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. TH E
AUTHOR' S DECLARATION. Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the
benevolent reader will forgive me for making a short declaration concerning the
publication of this work, as follows. BAUMGARTEN: Narichten von einer
Ilallischen Bibliothec, ENGEL: Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum
omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS: Freydenken Lexicon. -
Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon, Voi. I, pag. 1098.
MASCH I Beilriige zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK:
Cristliche Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig SCHLEGELS: Kirchengeschichte des 18
Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur citato dal QUERARD. Les supercheries
litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma parlando
del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand papier, celui
de la Bibliotheque du Roi, et le mien „ Di questa edizione, probabilmente in
foglio o in 4° grande, (" sur grand papier „) non siamo però riusciti ad
averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO
EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis & ante
omnia. I do declare that this Work was written at the Command of a great
PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters contain'd in it: and
as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest Politicians of his
Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his profound Capacity. So that
if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery, which had generally been
conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason for it: However, I have
alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to make them more
intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in
all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word,
the Good of Mankind in general; and I flatter my self that all who shall peruse
it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do
declare, that I have kept dos e throughout this Work to the Doctrine and
Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge; and I hope I
have not advanc'd anything without good authorities. I do protest before GOD
and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or Clergy is
to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really have long
since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER)
and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very
humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and
Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples,
and of those primitive good Prelates (*) instituted by the Apostles. (*) See
the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and with
what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e
opposed the superstitious Tenets of the Popish Church; for this has been so
often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it
would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time
wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of
Saints, and such like; as (pag. X ) things, which ways affect their temporal
Interest: so, whethe r these opinions are well or ill-grounded; whethe r they
spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to
know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the
WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the
proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin; and this
is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work. I
tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of
some service to this Country, particularly at this time, whe n " the
Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their
Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in
every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age
„. (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18, LASTLY, ] declare that I have made
use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII
) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in
Mysteries; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and
that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish
them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know
myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent
Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my
Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII )
And I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with
this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha
s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous;
nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to
rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who
labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss
of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this
plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope
that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice,
will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for
having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz. lond.
pag. 1-13; Ediz. Rot. pag. 15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione
olandese: uniche varianti sono le seguenti: Pag. 2 - in not a Collins è
qualificato: 0 great and goodman „ attribut i c h e mancan o nell'Ediz.
de l 1736. Pag. 11 - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e si trov a a pag.
2 4 dell'Edizion e di Rotterdam. Il Discors o II (Ediz. lond. pag. 14-25; Ediz.
Rot. pag. 27-37 ) è pur e ess o integralment e riprodotto. Unich e varianti:
pag. 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag. 3 5 ediz. di Bot.) è aggiunt o "
and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „.
Pag. 24-25, nota, dop o le parol e " universally observed „ "
généralement observées „ pag. 3 7 ediz. Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion
e del 1736: " I say universally observed: for wer e there a Society or
Republic, however great it might be, that should be inclined to observe the
Laws of Gbrist, it would be obliged for their own preservation, to lay aside
the laws of Christ, or suffer themselves to be destroyed by following them. -
In a word, a Society of true Christians, wer e they as numerous as the whole
Empire of China, could no more make head against a single Infide], who had a
mind to plunder them, than a hundred thousand Rabbits could make head against a
hungry Lion, that should fall in among them. But if ali Men, without
exception, were good Christians, it is most sure they would be exceding happy.
For, being without Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di
sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 -
continuation des Pensées - Ghap. 123 - 124 „. Il Discorso III (Ediz. lond. pag.
26-52; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il
medesimo riportato in Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è
quasi del tutto riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole
" le gouvernement de leur Eepublique „, pag. 69 dell'ediz. di Rot.) il
testo prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo. But they wer
e never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles,
we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the
Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles
of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that
Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many
words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone
in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save (*); but to him,
saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly,
his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the
other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not
amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith
without good woorks will neither justify, nor save „; and gives us to'
understand that " good works will save us independent of Faith”This
Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha
t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he
is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5. (**) James II, etc. (***)
Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better
without that Belief, but good, charitable, and humble? it is much better for a
man to be a Christian in practice without speculation, than to be a Christian
in speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage,
who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian,
who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio'
he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice
and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to
Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by
building Religion upon various. and different foundations bave caused an
infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian
Gommon-wealth, by whieh it ha s been, and will ever be tome asunder most
assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible
speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets,
which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same
as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali
ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke
upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find
rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„,
and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*)
Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è
riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S.
Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in
Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns
misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium
callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de
Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di
Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot. pag. 95-123) è
riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg.
125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche
varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag.
128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et
Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo
enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „.
Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è
tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con "
Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è
riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag.
165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti
sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant
ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.;
Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz.
Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By
natural right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each
individual, whereby each of them is forced or determined to act, according as
he finds it necessary for the preservation of his own being. All animals are
forced by nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they
eat, drink, and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of
them. In the same manner, fish being by nature determined to swim, and the
greater to devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right,
and the greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are
determined by nature to fly, and by consequence possess the air by natural
right, and birds of prey by the same right feed upon the tame. For it is most
certain that Nature considered in the general, has an unlimited right over
every part of herself: that is, this right extends as far as her power extends,
so that every thing that she can do is lawful for her to do. For the power of
nature is the very same as that of God, whose right is eternal, and
consequently unalterable. Now as the power of nature is the same with that of
every individual who make up that Nature, without exception, it follows, that
the right of no one is limited, but extends as far as the strength and industry
that nature has bestowed on them; and as it is a general law for all beings,
that each of them in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in
his power, without regarding anything save his own preservation. it follows,
that the natural right of every indivual is, to subsist and act to that end
according to the power which nature has given him. In this state man is not to
be distinguished from the rest of natural beings, no more than the words,
reason, or wisdom, and folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and
unjust are, etc. Wherefore there is no difference between the wise and the
foolish, the virtuous and vicious; for every individual has a right to act
according to the laws of his constitution or organization. that is, according
as he is determined by nature to such and such a thing, without being able to
act otherwise. So that considering man under the empire of nature, as
unacquainted with what philosophers call reason, or virtue; and not having
acquired a habit of either, they have, I say, as much right to life in pursuing
the dictates of their appetite, as they have that live according to the laws of
reason, virtue, and justice, with which they have conneted their ideas. That
is, that, as he who is called wise in society has a right to do any thing that
is dictaded to him by reason, and to live according to the light of it; so the
ignorant and foolish man in the state of nature has a right to every thing his
appetite suggests, and to live according to its dictates. For, according to the
apostle’s opinion before the law, or in the natural state of man, no man could
sin. Rom. 4. V. 15. It is not then the business of that reason, or
justice, to regulate the right of nature, but of the desire or strength of
every individual. For, so far is nature from determining us to live according
to the law and rules of this reason, that, on the contrary, notwithstanding
education, and the penalties appointed in order to natural impulses. Such is
the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to preserve
our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to the laws of
appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and none of us
are more obliged to live according to the rules of good sense, introduced among
us by the civilised part of mankind, than an ant is to live according to the
nature of an elephant. From whence it follows that, in the state of mere
nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things whatever without
exception, because nature has given all to every man, and may use it without a
crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by entreaties, or
threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or endeavours to
hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural right, an animal
may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his power to support
his own individual, or satisfy his inclination. However we are not to imagine
that so unlimited a liberty can produce any great disorder amongst animals of
the same kind, as many have thought, because nature has previded them
necessaries in abundance; upon which foot, they can have none, no, not thel
esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with
Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state of
nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an
implacable hatred reign between one species and another. And this would in
reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted
in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon
would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient
strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same
complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would
be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited
time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being
may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an
animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily
die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that
manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the
wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured
them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion,
languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides,
a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making
him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones,
and throughout their whole bodies, which feeding upon the best and finest
substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him
without mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a
man too, and every beast that dies of a natural death has no more thought of
the mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he
kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so
by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining,
tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him,
in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had
shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no
condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom.
As we see by those, who having passed most of their time in the polite world,
are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that
lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he
that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and
wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may
be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his
life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the
pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels. Part
3) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they
complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which
they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal,
who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy
his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most
signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of
her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them
equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man,
since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an
animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small
point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and
that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that
what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man,
appears such only because we know things but in part, and because we cannot
have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending the
immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what reason
sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and laws of
universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme natural
right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which is
really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action of
an animal tending to the preservation and propagation of his own individual or
his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end,
proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali
those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to
those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that
they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for
perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender
mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those
notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like
punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and
avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such
rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well
knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which
is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several
cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high
fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort
of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring,
has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty
and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them,
which notions tend to the destruction of their own individuai, and to make
their Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali
Animals, except Man, act according to the notions infused into them by Nature,
commonly called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions
to be performed in order to live in health, and perpetuate its Species.
Consequently to these notions it acts, by chusing at first such places as are
agreable to it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains,
and others on Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called
amphibious, live bo!h on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what
they are to do in order to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of
their females, when they have occasion; mor did, or do, any one of them ever
force itself to eat, or drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor
did ever any of them ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of
their females, whenever Nature required it; thus by denying themselves nothing
necessary, and by never forcing themselves to do what is beyond their strength,
they lead a healthy and a happy life. But this is not the case of Mankind. For,
tho' they pretend to a greater share of wisdom and reason than other Animals,
their actions shew they have less than the rest of them; some thro' excessive
folly eating and drinking when they are neither hungry, nor dry, so far as lo
bring distemper upon and kill Ihemselves; and forcing themselves upon
venereal pleasure when they are exhausted, is so much as to destroy themselves:
Others from a contrary madness, denying themselves meat, and drink, and the
enjoyment o' Women, and dragging a miserable life, consume and pine away. Thus
by not allowing Nature what she absolutely requires, or forcing her beyond her
strength, they are guilty of real moral evil, from whence the Physical takes
its rise, which cruelly torments them their whole life time. Anolher madness,
to which Mankind are subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually
heaping up riches, without making any use of them, for fear of wanting; so that
the Miser not only makes himself miserable, but greatly contributes to the
misery of others. There is stili another kind of madness, called ambition, that
lords it over Man, which puts most Men upon depriving themselves of what is
really necessary to life, for Ghimeras, that are entirely useless and
superfluous to them. The ili effects of this last folly have not stopped there,
but produced the greatest disorders amongst Men, and made theme more unhappy
than alt other Animals. For, it has happened, that some of them thinlcing
themselves better than others, have endeavoured to get above them, appropriate
to themselves what belonged to the rest by Naturai right, and make their
companions their slaves. which by the opposition they have found, has
occasioned tumults, and civil Wars. These different Phrensies that have taken
possession of the minds of Men, and that have in ali times scattered trouble
and confusion amongst the race of Men, have from time to time obliged wise Men
(who made use of their reason in order to preserve themselves from falling into
that sad and terrible Delirium to which they were liable) to admonish the rest
with a view of reclaiming them from their errore; and those admonitions had
sometimes so good an effect, that a whole Nation perceiving anddetecting their
Frenzy, voluntary submitted to the decisions of those wise Men, and each Man,
renouncing and disclaiming his naturai right, promised obedience to them, upon
condition that they on their side should always endeavour to make that Nalion
happy. This was the rise and formation of Aristocratical Government. Da pag.
200 in poi (pag. 186 Ecliz. 1736) il test o corrispond e esattament e nelle du
e edizioni; salvo le lievi differenz a qui sott o notate. Pag. 207 - i puntin i
di quest a edizione son o son o sostituiti nell'edizione olandes e (pag. 102)
" le coeur de Nobles en àrbitraire ou absolu „. Pag. 22 3: mancano le
ultime due righe del testo di pag. 20 6 ediz. Rol. 11 Discorso XI (Ediz. lond.
pag. 224-248; Ediz. Rot.) Titolo: "Wherein it is proveci that religion was
introduced into Society by legislatore, in order to give a sanction to their
laivs; and that consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to
the Prince „. Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto
dell'edizione olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima
parte del titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve
riassunto di queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente.
Il R. così comincia: My design then in this Discourse is to make Princes
sensible that Religion was institued by legislators, in order to give strength
and credit to their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration
of civil Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1
propose tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil
authority in one, and the second, to the People, by rescuing the from the
Tiranny of Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us
concerning the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi,
l'intera pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49,
Ediz. Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag.
524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e
Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav.
Joseph, contra Appion. libr. 2, pag. 1071 - Edit. 1634, in fol., e " a
very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2
eh. 5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron: " Ile was
Canon and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in
Montagne's time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide,
Charron „. E con tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: "
Wherefore 1 may be allowed to say without any impietg, that lleligion might be
subject to the Prince, to Religion „ (pag. 235). Dopo di che da pag. 236 a 248
continua con la seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz.
Rot. Unica differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter,
late Czar of Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant
authority io his own power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di
Rotterdam. " Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso
XII (pag. 249-271 Ediz. lond.; Ediz. Rot. pag. 211-238) è riprodotto
integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag. 259 della
esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a proposito
del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „ ed a
proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro
prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e
quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.
Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal
" Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P.; nè
infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736,
nè elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere
presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse
già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale
per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più
possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella
loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la traduzione dell'operetta
analoga dello Svvift: " A modest proposai for preventnig the children of
poor people in Ireland from beìng a burden to their parents or country, and for
making them beneficiai io the publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni
alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due
uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione a pag. 369 del "
Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il
titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain
„ del testo inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. pure a
pag. 369. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa di tutto il N. 12 ("
Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus interessantes par A. R.
comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib.
Querini-Stampalia di Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di
stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume
solo, senza titolo generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il
testo n. 13, da 49 a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del
primo di questi opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il "
Dictionary of National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il
Barbier, ma dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei
" Twelve discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché
originai „ manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del
testo ingl.; pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. op. cit. in: The Works of
Jonathan Swift, London MDCCLX, V, IV, pag. 66-77. (2) Cfr. Dictionary of
national biography, edited by LESLIE STEPHEN, sotto 'Elicali.’ Cfr. QUERAR D op.
cit. Col. 1231, T III. Cfr. BARBIER: Dictionaire des onorages anonymes etpseudonym.es
- Paris, 1827 > T. III. N. 16186. commento e la cit. del testo ingl.;
pag. 8, nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere
celeste „ manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del
testo ingl.; pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17
" ces Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e
il comrn. del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel
testo ingl.; pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2:
manca la spiegaz. esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment
auroit-il mieux „ manca la nota del testo ingl.; pag. 26: " Amerique „
manca la nota del testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „
mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota 2: manca il lungo coni, del testo ingl.;
pag. 24 nota 2; manca la citaz. del testo ingl.; pag. 35: " les hommes
hereux „ manca nel testo ingl. la nota corrispondente; pag. 38 dopo le parole
"... leur dependence „ manca quasi l'intera pagina 47 del testo ingl.;
pag. 40: " mes cheres Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 4 nota 2:
differisce dalla rispondente nel testo ingl.;: l'ultimo periodo (“l'esprit...
vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito al N. 14 l'attribuzione di esso
al R., è affermata dal Querard (1) e dal Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo
Ali-EbnOmar con il nome del R., è confermata dal fatto che a pag. 100
dell'operetta in una nota l'autore citando se stesso rinvia al " Discorso
Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14,
sostengono pure lo Henke, il Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di
quest'ultimo che viene ad affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene
seguita dalla n. 14 con un seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è
l'ediz. da noi esaminata), come facenti parli del " Recueil „ edito a
Londra e Rotterdam nel 1736, facciamo rilevare come ciò non risponda a verità.
A parte la confusione dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese,
tanto nell'una che nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si
tratta, nè infatti potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute
alla luce la prima volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la
precedente, nè possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo
esaminata, come stralciata dal volume del 0 Recueil „ stante la
appariscente diversità dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite
a Londra, mentre già da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in
grado di dire: forse trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da
qualche suo amico nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove
era già uscito per i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato?
Sono questi tutti interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di
potere rispondere, per mancanza di documenti che giustifichino una ragione
piuttosto che un'altra; e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza
della vita del R. Cocconato. [H] Desideri: fenomenologia
degenerativa e strategie di controllo 1. I/epithymia nella
fenomenologia degenerativa Il processo degenerativo che dal nobile
desiderio per il sa- pere del filosofo giunge infine alla liberazione e
soddisfazione dei più feroci desideri attuata dal tiranno è innescato, da
una prospettiva psicodinamica, dall'adozione di particolari moda-
lità repressive. Queste, e più in generale le strategie paradig- matiche
di controllo del desiderio, sono il nostro oggetto d'in- dagine
privilegiato. La loro analisi ci condurrà direttamente al- la disamina
delle molteplici specie di desideri, alla caratterolo- gia e alle derive
psicopatologiche tracciate da Platone nel libro Vili, nonché alla
dinamica dei processi onirici e alla mania di- segnate nel IX. Da ultimo
ci soffermeremo sulla contrapposi- zione strutturale tra repressione e
canalizzazione, parimenti inerente a epithymiai ed eros, che attraversa
il grande dialogo. A monte, Yepithymia platonica è un moto psichico
volto a riempire, soddisfare, generando piacere, una mancanza di
ori- gine somatica come di matrice intellettuale; 1 essa viene così
a convergere con l'ampio spettro semantico dischiuso dal termi-
1 Cfr. 585a-b, 437b sgg., 439d8, 571a7; sull'intera questione cfr. qui
voi. Ili, [H], pp. 251 sgg.; sulla "interiorizzazione" della
sfera del desiderio cfr. M. VEGETTI, L'io, l'anima, il soggetto, in S.
SETTIS (a cura di), I Greci, voi. I, Noi e i Greci, Torino 1996; pp.
431-67 (p. 441); sul rapporto complessivo psyche-so- ma, cfr. T.M.
ROBINSON, Plato 's Psychology, Toronto 1995 2 , pp. 50-54.
472 ' PLATONE, LA REPUBBLICA ne "desiderio". 2 Tale
estensione, uno dei cardini metapsicolo- gici della fenomenologia
degenerativa del libro Vili, fa tutt'u- no con la diretta attribuzione ad
ogni istanza di una sfera "pro- pria" di desideri esplicitata
nel libro IX: «siccome tre sono le parti della psyche, triplici mi
sembrano anche i piaceri, ognuno proprio di ciascuna parte; e similmente
i desideri e il loro ruolo di comando» (580d6-7). Con ciò la statica
tripartizione deli- neata nel libro IV (436a7 sgg.) viene calata,
retroattivamente, all'interno della dinamica psico-politica e quindi
delle forme caratteriali disegnata nell'VIII. Più da vicino,
l'attribuzione rende conto del legame tra il governo del logistikon e il
desiderio di sapere del filosofo, il go- verno dello thymoeide s e
il desiderio di onori e gloria del carat- tere timocratico, e le tre
forme caratteriali dischiuse dal gover- no del polimorfo epithymetikon, contenente
tre specie di desi- deri e piaceri: 1) i «necessari», dei quali «non ci
si può libera- re», quali fame, sete ed eros riproduttivo, il cui
appagamento è utile e salutare; 2) i «non necessari», che possono essere
«al- lontanati», la cui soddisfazione non frutta alcun bene,
talvolta anzi un male (558d8-559c7); 3) i paranomoi, fuorilegge,
per- versi e malvagi, sottospecie dei non necessari, anch'essi
allonta- nabili (571a7 sgg.). Partizione metapsicologica sulla quale
pog- gia la fenomenologia caratteriale: l'avaro uomo oligarchico,
do- minato dai desideri necessari, nel quale il legittimo desiderio
per il denaro degenera in ossessione; il disinvolto carattere de-
mocratico, assediato dalla cangiante moltitudine dei desideri non
necessari; le inquietanti e parzialmente convergenti figure 2 La
convergenza con il nostro "desiderio" è già attestata in Marsilio
Fici- no, Sopra il Convito di Platone, ove Amore è sempre "desiderio
di bellezza"; soluzione che venne a sciogliere, indirettamente, le
tensioni tra concupiscentia, appetitus e desiderium derivate dalle
letture scolastiche della metapsicologia aristotelica: cfr., per es.,
TOMMASO d'Aquino, Summa theologiae, 30, 1-4; sul- la revisione
dell'impianto platonico dell'ultimo Aristotele cfr. per es. A. GRAESER,
Probleme der platonischen Seelenteilungslehre, Mùnchen 1969, pp.
22-24. Vm E IX, [H] 473 deYL'erottkos e del tirannico, invasi
e pervasi dai desideri para- nomoi? Questa diairesi delle
specie del desiderio, tassonomica- mente inerente d& epithymetikon,
eccede euristicamente la ca- talogazione tipologica su due fronti. Su un
versante viene con- 3 Sulla convergenza tra la tripartizione delle
specie dei desideri e il poli- morfo epithymetikon, cfr., per es., D.
HELLWIG, Adikia in Platons 'Politela'. Interpretationen zu den Bùchern
Vili undlX, Amsterdam 1980, pp. 47-50. Ha sostenuto la forte
«discrepanza» e «aperta contraddizione» tra la tripartizione psichica e
r«improwisata» diairesi dell' 'epithymetikon, N. BlÓéNER, Dia- logform
und Argument. Studien zu Platons 'Politeia', Stuttgart 1997, soprat-
tutto pp. 61-62, 237-40, -appellandosi alla possibilità che le forme
costituzio- nali e caratteriali potrebbero essere più numerose, e che la
partizione psichica sia forzatamente modellata su quella politica.
Sebbene sia vero che rimangano delle tensioni nel testo - soprattutto
rispetto al desiderio necessario del carat- tere oligarchico:
l'ossessione per il denaro potrebbe a rigore esser interpretata quale
elemento appartenente al regno del non necessario - tuttavia Y epithy-
metikon stesso, in ragione della sua natura polimorfa, supporta
perfettamente i tre tipi caratteriali degenerati, come anche eventuali
altre forme "interme- die". Sul rapporto complessivo tra la
tripartizione psichica e le cinque forme politiche cfr. TJ. Andersson,
Polis and Psyche. A motifin Plato's 'Republic', Goteborg 1971, pp.
155-92. G.R.F. Ferrari, City andSoulin Plato's 'Repu- blic', Sankt Augustin
2003, ha ultimamente sostenuto, di contro a Andersson, il carattere
meramente «analogico», «non causale» dell'isomorfismo, cfr. so- prattutto
pp. 50-53, 60, 65-66. Tale tesi implica però l'esclusione della kallipo-
lis e della tirannia (p: 53 e pp. 85 sgg.) nonché, di fatto, della timocrazia
(p. 69); vi è poi una tendenza a caricare eccessivamente alcune tensioni
del testo (cfr. per es. p. 71) e a trascurare la dimensione dialettica e
temporale della di- namica degenerativa. Inoltre, Ferrari è costretto a
eludere interi brani, come 544d, e nello specifico la dimensione sociale
nella quale è calata la degenera- zione caratteriale come a p. 67 ove non
considera che il giovane timocratico «esce di casa» etc. (550a), e che la
figura paterna risulta infine «sconfitta» per- ché è collocata in un
contesto etico-politico che osteggia il suo modello psico- caratteriale
(549c, 550b); analoga la questione rispetto al carattere oligarchico (pp.
71-71) ove Ferrari elude 553a-d, e rispetto al carattere democratico (p.
74) ove tace su 557b, 563d e 564a, nonché 559d sgg. In breve ritengo, di
con- tro a Ferrari, che i due piani, psicologico e politico, siano in una
relazione di corrispondenza biunivoca circolare che garantisce ad ognuno
un'autonomia semi-ontologica dal punto di vista descrittivo, statico, ma
che preserva nel templata la possibilità che i desideri
possano essere allontanati o meno, approccio che mostra come la materia
epithymetica sia analizzata ad iniziare dalle strategie di controllo adottabili
nei suoi confronti. E questa la prospettiva all'interno della qua- le si
articola la catalogazione, non viceversa. Sull'altro fronte, anche qui
sorvolando al di sopra dei contenuti specifici veico- lati dalle singole
epithymiai, viene rimarcato il peso che la loro soddisfazione gioca
rispetto al benessere o al malessere psicofi- sico complessivo del
soggetto. Questi due fattori, modalità di gestione tese al contenimento e
allontanamento del materiale epithymetico più pericoloso, insidie e derive
psicopatologiche ad esse correlate, sono i primi due assi sui quali corre
la dege- nerazione che conduce infine alla mania. Essi trovano la
loro unità nel concetto di repressione, dal quale cominceremo, ri-
percorrendola a ritroso, la nostra ricostruzione della degenera-
zione. 2. Repressione ed esilio Kolazomenai: i desideri
possono essere e talvolta vengono repressi: Fra i piaceri e i
desideri non necessari, alcuni mi sembrano essere contrari alle leggi.
Essi probabilmente nascono in ognuno, ma se ven- gono repressi
(kolazomenai) dalle leggi e dai desideri migliori con l'aiuto della
ragione, nel caso di alcuni uomini si allontanano del tutto oppure
restano pochi e deboli, in altri (restano) più forti e numerosi. La
repressione dei desideri non necessari, ed in particolare di quelli
paranomoi, genera una dislocazione topica, bipartita rispetto alla
modalità funzionale, tripartita quanto alle catego- rie
caratterologiche. contempo la relazione causale circolare
dal punto di vista dinamico-tempora- le, dialettico. E IX, [H] 475 a)
L'allontanamento: 1) nel primo caso i desideri repressi «si al- lontanano
del tutto» (pantapasin apallattesthai). Stesso esito viene ascritto, più
in generale, alla repressione giovanile dei de- sideri genericamente non
necessari: «si potrebbero allontanare (apallaxeien) , se ci si prendesse
cura di farlo fin da giovani» (559a3). Ancora: se il desiderio non
necessario «è represso ed educato {kolazomene kai paideuomené) fin da
giovani, può es- sere tenuto lontano {apallattesthai) dalla maggior parte
degli uomini» (559b9-10). b) La permanenza: i desideri
repressi permangono esplicita- mente (leipesthai) . Esito a sua volta
ramificato: 2) in un caso permangono «pochi e deboli» desideri;
condizione che non viene però contrapposta al loro intero allontanamento:
le due forme riguardano la stessa categoria di persone. 3) Nel
terzo caso permangono desideri «più forti e numerosi»» sì che viene
delineata una seconda categoria di persone. 4 Per comprendere la
dinamica, la forma, la topica e le con- seguenze che comporta l'adozione
delle suddette strategie re- pressive fornisce un contributo essenziale
il brano sulla transizione dal carattere oligarchico a quello
democratico. Analizzando l'aspro conflitto intrapsichico che lacera
il giovane democratico, 5 Platone traccia anzitutto una esplicita
distinzione inerente alle strategie di repressione e contenimen- to del
desiderio: alcuni desideri (non necessari) vengono di- strutti
{diephtharesan), altri banditi {exepeson). Ab- bandonati i desideri
banditi al proprio destino, Platone si con- 4 Analoga la
ricostruzione, che coniuga le modalità che permettono di «abwenden» i
desideri non necessari e il «fortdauern» dei paranomoi attestata
dall'analisi dei processi onirici, di H.P. VoiGTLÀNDER, Die Lust und das
Gute bei Platon, Wurzburg. Cfr. 559e4-560a2: il conflitto vede ivi
schierati su un fronte la specie dei desideri necessari,
"alleati" alla figura paterna, rappresentanti della parte oli-
garchica, e la specie dei desideri non necessari, fomentati dalle cattive
compa- gnie, rappresentanti della parte democratica.
I 476 PLATONE, LA REPUBBLICA centra quindi
sull'analisi di «altri desideri affini a quelli che so- no stati messi al
bando», dei quali scrive, in un passaggio ne- vralgico, che, in talune
occasioni, «cresciuti di nascosto» (hypo- trephomenai) , diventano infine
«molti e vigorosi» (560a9-b2). Hypotrephomenai: le epithymiai
crescono di nascosto, in- sensibilmente; carattere subito rimarcato da
Platone: esse «unendosi di nascosto [tra loro] ne partoriscono una
folla» (560b4-5). Essendo tale proliferazione «nascosta»,
«segreta», «furtiva» {lathra), 6 siamo di fronte ad una crescita
effettiva- mente «inconsapevole»: ciò alle spalle di cui crescono, ciò
da cui si nascondono non può essere se non ciò che noi usualmen- te
indichiamo con l'espressione «coscienza». In breve, sfuggo- no alla presa
di coscienza. La proliferazione dei desideri non necessari è dunque in
questo caso collocata in un luogo intra- psichico oscuro, nascosto,
tenebroso, al di fuori della sfera co- sciente. Tale sito è quasi
certamente lo stesso dei desideri para- nomoi repressi nel caso in cui
restano «forti e numerosi». L'individuazione e concettualizzazione
di processi psichici pacificamente definibili come «inconsapevoli» è del
resto atte- stata in diversi altri brani della Repubblica. Ad esempio
ove leggiamo che si deve evitare che i giovani, frequentando perso-
ne viziose, ammassino «senza accorgersene {lanthanosin) un'u- nica grande
mole di vizio nelle loro psychai» e che, al contrario, devono crescere
tra «opere belle» così che la loro «aura», «fin da bambini,
inconsapevolmente {lanthane)», li conduca «al- l'armonico accordo con la
bella ragione» (401cl-d3). 7 Ed an- 6 Anche D. HELLWIG, op.
cit. (n. 3), pp. 121-22, 130, sottolinea come le «Begierden gewaltsam
unterdriicken» rompano la Harmonie psichica e pos- sano poi rafforzarsi
«in heimlichem». 7 W. Jaeger, Paideia (1944), trad. it. Firenze
1954, voi. II, pp. 601, 395 parla a questo proposito di «inconscio», così
come J. Lear, La psicoanalisi e i suoi nemici (1998), trad. it. Milano
1999, pp. 183, XVIII; il termine «incon- scio» però, in questo caso
specifico, non può essere inteso nel senso classico e ristretto
(dinamico) di Freud, poiché slegato da processi riconducibili alla ri-
mozione. cora ove leggiamo che in certi casi «un'opinione esce
dalla mente» «in modo involontario» (412el0-413al), come accade in
«coloro che vengono indotti a mutare le loro convinzioni e che se le
dimenticano, perché agli uni il tempo, agli altri il ra- gionamento, le
portano via di nascosto {exairoumenos lantha- nei)» (413M-7).
Ora, i suddetti processi repressivi sono collocati da Plato- ne
all'interno di una ben precisa topica metapsicologica: i desi- deri
repressi, una volta rinvigoritisi e cresciuti di nascosto, «hanno infine
conquistato l'acropoli della psyche» (560b7-8). L'acropoli raffigura il
centro direttivo della psyche-polis, il luo- go nel quale si controlla
l'azione, dal quale ognuna delle tre istanze e le particolari sfere di
desideri ad esse pertinenti pos- sono governare l'individuo. I conflitti,
lo scontro tra sfere di desideri alternativi che segnano intimamente la
psyche hanno quindi un obbiettivo ultimo: conquistare la «regale
fortezza», penetrare attraverso i «portali» che conducono al cuore
del soggetto, al sé (553b7-d7). La repressione che si limita
ad allontanare, ma forse anche a bandire, e comunque esclusivamente a
dislocare topicamente il desiderio senza distruggerlo, si lascia allora
intendere quale espulsione dall'acropoli e attività di continua difesa,
resistenza e opposizione al loro rientro in essa. Dinamica raffigurata
nel mettere «guardie e sentinelle» ai suoi portali, che altro non
so- no che discorsi, opinioni, convinzioni che sbarrano l'accesso
alla pressione del materiale pulsionale (560b-e). Anche qui la
politicizzazione platonica della psyche mostra di non esser solo
metafora, ma descrizione, non anatomica o fisiologica, dei pro- cessi
psicologici di per se stessi, che divengono intelligibili, di-
rettamente, in questa dimensione concettuale. Un ultimo elemento
chiave inerente alle strategie repressi- ve, sempre di matrice psico-politica,
è la schiavitù cui sono soggetti i desideri repressi. Una prima chiara
indicazione in tal senso ci è data nella discussione del carattere
oligarchico che letteralmente «rende schiavi», «mette in schiavitù» i
desideri non necessari (554a7: doulomenos). Modalità che riemerge,
in generale, anche ove leggiamo che «bisogna reprimere e mette- re
in schiavitù» i «desideri malvagi» (561c2-3: kolazein te kai
doulousthai). Vedremo meglio come anche nell'analisi dei pro- cessi
onirici la «schiavitù» (574d7: douleia), cui sono soggette le opinioni
che sorreggono i desideri paranomoi, svolga un ruo- lo cruciale. Il punto
che ora ci preme sottolineare è che la re- pressione in taluni casi si
configura come un processo seguito da una forma di controllo radicale, di
incatenamento. In conclusione, la repressione dei desideri,
paranomoi ma più in generale non necessari, è un processo tale per cui
essi vengono allontanati, non distrutti; in alcuni casi essa
comporta la loro esplicita permanenza, in catene, al di fuori della
co- scienza, dell'acropoli; dimensione dalla quale, rinvigorendosi
di nascosto, inconsapevolmente, possono, in un secondo mo- mento, tentare
un attacco alle sue porte. 3. Il ritomo onirico del represso
I desideri paranomoi repressi, scrive Platone all'inizio del libro
IX, «sono quelli che si risvegliano nel sonno» (571c3), inaugurando così
l'analisi dei processi onirici. Disamina che ci offre un contributo tanto
stringato quanto sorprendente per la sua modernità, essenziale nell'architettura
metapsicologica complessiva delle strategie di controllo deH'epithymia
nonché ai fini della definizione della specie dei desideri paranomoi
e della deriva psicopatologica complessiva della fenomenologia
degenerativa. II «risveglio» avviene quando il resto
della psyche - il logistikon e ciò che è socievole e adat- to al comando
- riposa, mentre la parte ferina e selvaggia, piena di ci- bo o di vino,
si sfrena nella sua danza e, scacciando il sonno, cerca di aprirsi la via
per dare sfogo ai suoi abituali costumi (571c3-7). Vi è, dunque,
una condizione positiva: Yepithymetikon, sti- molato fisiologicamente
(cibo e vino), si sfrena e respinge via il sonno; ciò
comporta il sincronico «risveglio» dei suoi desideri; ed una condizione
negativa: il logistikon dorme, perciò non può dominare la parte
desiderante. E associato ad esso anche ciò che è «socievole», 8
probabilmente lo thymoeides. Il proseguo del brano fa luce su tale
stato psicologico: «Sai bene che in un simile stato essa osa fare di
tutto, come sciolta e liberata da ogni freno di vergogna e di
ragionevolezza» (571c7- 9). H sonno del logistikon, l'istanza cui va
ascritta la phronesis, e verosimilmente dello thymoeides, al quale
possiamo attribui- re, quando è sotto l'egida della ragione, Yaischyne,
viene quindi a rappresentare la mancanza di quell'attività di resistenza
che impedisce la manifestazione dei desideri repressi. Il fattore
quantitativo e la struttura dinamica delle due precondizioni so- no
perfettamente convergenti: al «risveglio» indotto dall'ecci- tazione
della parte desiderante, quindi ad una rinnovata pres- sione dei
desideri, segue la loro emersione e soddisfazione per- messa
dall'inattività delle forze razionali, morali. Date tali
condizioni, tentare di accoppiarsi con la madre (così s'immagina)
non la imbaraz- za affatto, o con chiunque altro fra uomini, dèi,
animali, e commette- re qualsiasi assassinio, e non astenersi da alcun
cibo (571c9-d3). Quadro «edipico», 9 perversione, aggressività
omicida. Questo l'inquietante scenario che si apre dinanzi agli
occhi dell'impotente sognatore. Posto che l'attività onirica
rappresenta la «soddisfazione» «immaginaria» o «visionaria» di desideri
repressi (571dl; 572a9-bl), riprendendo la topica dell'acropoli la loro
appari- 8 Su hemeron e thymoeides cfr. W. JAEGER, A New Greek Word
in Plato's 'Republic' (1946), in Scripta Minora, 2 voli., Roma 1960, voi.
II, pp. 314-16. ' Hanno richiamato al riguardo l'edipo freudiano,
tra gli altri, K.R. POP- PER, La società aperta e i suoi nemici (1966 5
), 2 voli., trad. it. Milano 1996, voi. I, p. 421; C.H. Kahn, Plato's
Tbeory of Desire, «Review of Metaphysics», XLI/1 (1987) pp. 77-103 (p.
83); O. GlGON, Erlàuterungen, in Plato. Der Staat, Munchen 1991, p.
506. zione e sincronico appagamento potrebbero essere
interpretati come se essi vi penetrassero nottetempo, superando la
vigilan- za di sentinelle assopite. 10 Trattandosi di una soddisfazione,
an- che se solo immaginaria, è difatti lecito raffigurarsela
nell'uni- co sito nel quale essa sembra poter realizzarsi. Nel sonno
l'a- cropoli si verrebbe così a configurare come sfera della
coscien- za, come teatro dell'immaginazione nel quale i desideri
impon- gono la visione della loro drammatica rappresentazione,
diven- tando coscienti e trovando soddisfazione senza però attivare
le funzioni psico-motorie. La ricostruzione di quest'immagine,
priva di riferimenti diretti, mira soltanto a rendere in termini spaziali
il fatto che, come emerge senza incertezze dal testo, il sogno
rappresenta il momento privilegiato grazie al quale è possibile prendere
coscienza di quei desideri repressi e tenuti in schiavitù che nella
veglia sfuggono al suo sguardo. 11 Platone ha così dischiuso e
percorso la «via regia per l'in- conscio» tracciata nel Novecento da
Sigmund Freud. A monte, la repressione platonica si lascia intendere alla
luce della rimo- zione {Verdràngung), o viceversa, anzitutto perché
quest'ultima, che è una forma particolare di repressione {Unterdrùcken),
12 Cfr. anche E. VEGLEEIS, Platone e il sogno della notte (1982), trad.
it. in G. GuiDOKIZZI (a cura di), Il sogno in Grecia, Roma-Bari 1988, pp.
103-20 (p. 109). La più articolata trattazione platonica di ciò che noi
indichiamo con le espressioni «coscienza» e «autocoscienza» è
probabilmente quella di Filebo 33b-42c. Ivi, utilizzando la metafora del
pittore, Platone scrive che un indivi- duo «vede in qualche modo in se
stesso le immagini delle cose dette o opina- te» (39b-c), poi che egli
«scorge in sé anche se stesso» (40a). Il passo della Re- pubblica,
limitato alla percezione di immagini prodotte psichicamente, pare
presupporre una concezione della «coscienza» simile. u Parlano di
desideri allo stato di «latenza» C.H. Kahn, op. cit. (n. 9), p. 82, e J.
LEAR, op. cit. (n. 7), p. 142. 12 «Ci sono nella vita psichica
desideri rimossi [...]. Ci sono non è inteso storicamente, nel senso che
simili desideri sono esistiti e poi sono stati distrut- ti; per la teoria
della rimozione [...] simili desideri rimossi esistono ancora, ma
contemporaneamente esiste un'inibizione che pesa su di essi. Il
linguaggio COMMENTO Al LIBRI Vm E LX, [H]
481 dal carattere «morale», 13 tesa a contrastare una
sfera di deside- ri «immorali, incestuosi e perversi, o di voglie
omicide, sadi- che», 14 anziché condurre ad «una completa distruzione» 15
dei desideri, si limita al loro «allontanamento» (Entfernung) dalla
coscienza. 16 Questi perciò «permangono» (Fortbesteben) al di là dei
confini della sfera cosciente. 17 In una sola parola, il rimosso è
vogelfrei, 18 ovvero "bandito", "proscritto",
"fuori- legge". La rimozione rappresenta, dunque,
un'arma a doppio ta- glio. Su un fronte, al rimosso viene normalmente
impedito di «scaricarsi nell'azione reale», 19 gli viene metaforicamente
nega- to l'accesso alla Festung freudiana, la «fortezza» dalla quale
si colpisce nel giusto quando parla della
"repressione" (Unterdrucken) di tali impulsi. L'organizzazione psichica,
che permette a codesti desideri repressi di realizzarsi, rimane intatta e
utilizzabile» (S. Freud, L 'interpretazione dei sogni, in Opere complete,
12 voli., trad. it. Torino 1967-80, voi. Ili, p. 220; originale: Die
Traumdeutung, in Gesammelte Werke, 18 voli., rist. Frankfurt a. M. 1999,
voi. Il/in, p. 241; d'ora in poi, tutti i richiami a Freud si riferiscono a
queste edizioni). 13 S. Freud, L'Io e l'Es, voi. LX, p. 498;
cfr. anche Lo., Breve compendio di psicoanalisi, voi. IX, p. 592. 14
S. FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni',
voi. X, p. 158. 15 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 201 [S. FREUD, Neue Volge der
Vorlesungen zur Einfiihrung in die Psychoa- nalyse, voi. XV, p. 98: «eine
vollstandige Zerstòrung»]; il richiamo successivo è certamente a Id., Il
tramonto del complesso edipico, voi. X, p. 3 1; cfr. anche S. Freud,
Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 290. 16 S. FREUD,
Metapsicologia, voi. Vili, p. 40, e ivi p. 37: «la sua essenza consiste
semplicemente nelPespellere e nel tener lontano qualcosa dalla co-
scienza» [Die Verdràngung, voi. X, pp. 252 250]; cfr. anche Lo., L'Io e l'Es,
voi. IX, p. 480. 17 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p.
39 [Die Verdràngung, voi X, p. 251]. 18 S. FREUD, Inibizione,
sintomo e angoscia, voi. X, p. 300 [Hemmung, Symptom undAngst, voi. XIV,
p. 185]. 19 S. FREUD, Al di là del principio di piacere, voi. IX,
p. 205. 482 PLATONE, LA REPUBBLICA «domina la
motilità». 20 Sull'altro però esso «sopravvive al di fuori» della
coscienza godendo del «privilegio della Exterrito- rialùàt»: 21 una volta
estromesso dal dominio cosciente può «sviluppare derivati e annodare connessioni»,
«prolifera per così dire nell'oscurità», im Dunkeln. 22 Proliferazione
che rap- presenta la possibilità del suo sempre possibile «ritorno». 23
Da qui la necessità di una costante attività di «resistenza» alle
so- glie della coscienza. 24 In termini spaziali: espulso un ospite
in- desiderato si deve «poi far sorvegliare perennemente la porta
da un guardiano giacché altrimenti l'individuo respinto la for- zerebbe».
25 Poste queste premesse, Freud, ricalcando ancora le orme
platoniche, 26 individua nel sogno la via regia per l'inconscio perché in
esso i desideri repressi, approfittando del cedimento della sorveglianza
deU'«Io dormiente», 27 e godendo del casuale 20 S. Freud, L
'interpretazione dei sogni, voi. Ili, p. 517 [Die Traumdeu- tung, voi.
II/III, p. 573]. Riprende questa stessa immagine, accostandola ai
conflitti della psyche platonica, M. Stella: cfr. qui voi. III, [J], p.
317. 21 S. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, pp.
247-48 [Hem- mung, Symptom und Angst, voi. XIV, p. 125]; cfr. anche Id.,
Il problema del- l'analisi condotta da non medici, cit, voi. IX, p.
370. 22 S. Freud, Metapsicologia, voi. VIII, p. 39 [Die
Verdrdngung, voi. X, p. 251]. 23 Sui meccanismi di difesa
cfr., per es., S. Freud, Metapsicologia, voi. VILT, p. 44. 24
Sul dispendio psichico della resistenza cfr. per es. S. Freud, Metapsico-
logia, voi. Vili, p. 41; Id., Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 303.
Sulla distinzione tra derivati e rimosso originario, e tra rimozione
originaria e post- rimozione, cfr. Id., Metapsicologia, voi. Vili, pp. 38
sgg. 25 S. Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p. 43 e nota; cfr.
anche Id., Cinque conferenze sulla psicoanalisi, voi. VI, pp. 143 sgg.;
Id., Introduzione alla psicoa- nalisi, voi. Vili, pp. 454 sgg.
26 Cfr. in questo senso anche A. KENNY, The Anatomy of the Soul,
Oxford 1973, p. 12. 27 S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 134. Vili E IX,
[H] 483 rinvestimento energetico pre-notturno, 28 riescono talvolta
a farsi breccia nelle «porte custodite da resistenze» della co-
scienza. 29 Non dunque nella Festung, la cui «porta che condu- ce alla
motilità» durante il sonno viene «chiusa» dal «guardia- no», 30 il sogno
rappresenta infatti la «soddisfazione allucinato- ria», non certo reale,
del desiderio. 31 Al di là dei meccanismi peculiari del sogno 32 e delle
possibilità con le quali la censura inconscia può deformare i pensieri
onirici latenti, anche per Freud accade talvolta, sebbene «raramente»,
che si formino sogni che «significano proprio quello che dicono, e non
hanno subito alcuna deformazione dalla censura», 33 «come quello
cui allude Giocasta nell'Edipo re». 34 Infine, considerato
che il concetto di inconscio in senso stretto (dinamico e non
descrittivobè direttamente «ricavato» dalla dottrina della rimozione, nel
senso che il rimosso «è per 28 Cfr. S. FREUD, Inibizione,
sintomo e angoscia, voi. X, p. 304; Id., Intro- duzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 134; Id., Metapsico- logia, voi.
Vili, pp. 40-42; in Id., Analisi terminabile e interminabile, voi. XI, p.
509, viene ribadito «l'irresistibile potere del fattore quantitativo» nei
pro- cessi di rimozione; sulla diversità dei vari stimoli cfr. per es.
Id., L 'interpreta- zione dei sogni, voi. Ili, cap. I, § C.
29 S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io, voi. IX, pp.
317-18; cfr. anche Id., Autobiografia, voi. X, p. 111. 30 S.
Freud, Il interpretazione dei sogni, voi. HI, pp. 517-18; al limite ci si
può rifare all'immagine delle «guardie alle porte dell'intelletto», ivi, pp.
104- 05. 31 Ivi, p. 125. Cfr. anche S. FREUD, Introduzione
alla psicoanalisi, voi. VTII, p. 265; Id., Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), voi. XI, pp. 134, 142. 32 Cfr., per
es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le- zioni),
voi. XI, pp. 135 sgg. 33 S. FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla
'Interpretazione dei sogni' , voi. X, p. 158. 34 Ibidem.
Freud allude qui al passo dell'Expo re in cui Giocasta dice: «Tu non
temere le nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in so- gno
con la propria madre» (980-82; trad. it. di R. Cantarella).
4 noi il modello dell'inconscio», ove l'elemento
essenziale è dato dal fatto che i desideri confinati «non possono
divenire co- scienti perché una certa forza vi si oppone», 35 esattamente
co- me accade per i desideri repressi platonici tenuti in
schiavitù, possiamo concludere affermando che, di fronte alle
analogie tra le due concezioni complessive, questi ultimi possono
essere considerati alla stregua di desideri rimossi, dunque inconsci
in senso stretto (dinamico). 36 4. Difese pre-oniriche
La difesa approntata da Platone per prevenire l'emersione onirica
dei desideri repressi o se si vuole «rimossi» è così deli- neata: ci si
deve «accostare al sonno dopo aver tenuto ben de- sto il logistikon»,
facendo nel contempo «rimanere assopito Ye- pithymetikon» - conducendolo
cioè in una condizione tale per cui non resti né «affamato» né sia
«troppo riempito» - ed infi- 55 S. Freud, L'Io e l'Es, voi. IX, pp.
477-78. 36 Cfr. nello stesso senso W. JAEGER, op. cit. (n. 7), voi.
II, pp. 599, 602; T. GOULD, Platonic Love, London 1963, pp. 175, 108; J.
Lear, op. cit. (n. 7), pp. XIX, 34, 140-42; A. HOBBS, Platon and the
Hero. Courage, Manliness and the Impersonai Good, Cambridge 2000, p. 57;
O. GlGON, op. cit. (n. 9), p. 506; L. MONTONERI, Platone: l'eros, il
piacere, la bellezza, in Id. (a cura di), I filosofi greci e il piacere,
Roma-Bari 1994, p. 103; G. REALE, Corpo, anima e salute, Milano 1999, pp.
281, 308-09. Nello stesso senso, ma un po' più cauti, cfr. E.R. DODDS,
Plato and the Irrational Soul, «The Journal of Hellenic Studies», LXV
(1945) pp. 16-25 (p. 22); A. KENNY, op. cit. (n. 26), p. 11. Di diversa
opi- nione G.RF. FERRARI, 'Akrasia' as Neurosis in Plato's 'Protagoras' ,
in Procee- dings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy, VI
(1990), pp. 115-140, rispetto a Repubblica cfr. soprattutto pp. 116-18,
135; egli rimanda però alla messa in schiavitù del logistikon da parte
déH'epithymetikon (589c6- 590c6), che abbiamo visto essere di natura
diversa, in quanto tesa allo "sfrut- tamento" e non
all'allontanamento (cfr. n. 42), dalla messa in schiavitù dei de- sideri
paranomoi etc. Ho cercato di affrontare l'intera questione in M. SOLI-
NAS, Unterdrùckung, Traum und Unbewusstes in Platons 'Politeia' und bei
Freud, «Philosophisches Jahrbuch», CXI/1 (2004) pp. 90-112. ne
«ammansendo lo thymoeides»; in questo caso «le visioni fantasticate nei
sogni sono le meno contrarie alle leggi» (571d6-572bl). 37
Rispetto all'emersione" onirica lo thymoeides presenta un
carattere asimmetrico: la sua inattività sembra agevolare l'e- mersione
del materiale represso, il suo risveglio rappresenta però un pericolo.
Ciò è verosimilmente dovuto alla sua costitu- tiva ambivalenza: privo
della guida del logistikon mostra la sua natura bestiale, aggressiva
(cfr. 441a sgg., 590b); caratteristica che potrebbe suggerire che esso
possa contribuire alla manife- stazione stessa dei desideri paranomoi nel
loro carattere marca- tamente omicida, e che renderebbe conto del legame
tra il logi- stikon ed un vago «ciò che è socievole». Quanto
all' epithymetikon, il rimarcare la pericolosità del lasciarlo «affamato»
può esser inteso sia come un richiamo alla concezione del desiderio quale
soddisfazione di una mancanza (cfr. 43 9a), sia alla formazione di sogni
non appaganti, avvalo- rata dal fatto che l'attività onirica dell'
'epithymetikon è detta comprendere oltre alle sue «gioie» anche i suoi
«dolori» (572al: %aipov r\ À.imo'unevov). Richiamo all'incubo che
trova un puntello già nel libro I: l'uomo ingiusto «spesso si
risveglia dal sonno, come i bambini, in preda al terrore» (330e6-7).
Anche rispetto al logistikon, ora nutrito da «buoni discorsi e
ricerche» (571d7), emerge un'asimmetria funzionale: il sonno rappresenta
l'inattività delle sue funzioni di controllo e resi- stenza, il suo
risveglio non comporta però la capacità di svolge- re alcuna attività
inibente, è limitata allo svolgimento di funzio- ni intellettuali
interne: «solo in se stesso nella sua purezza» po- trà «venire in
contatto con la verità» (572al-3). 38 Attività che 37 Anche in
Timeo 45e-46a emerge uno stretto legame tra tranquillità e qualità dei
sogni, e in 71c-d tra condizioni pre-notturna e sogno. 38 Cfr.
nello stesso senso anche E. VEGLERIS, op. cit. (n. 10), p. 108.
Profondamente diversa è la concezione del Timeo ove<è il fegato a fornire
una conoscenza non razionale (cfr. 71d sgg.) che la ragione deve
«interpretare con non ha, quindi, niente a che fare con
l'emersione dei desideri repressi. (Rispetto a Freud si potrebbe pensare
alla netta di- stinzione tra il lavoro intellettuale preconscio svolto
nel sonno dall'Io e l'emersione onirica del rimosso). 39
Platone non afferma del resto mai la possibilità di un inter- vento
diretto (notturno) del logistikon teso a calmare o sedare o compiere una
qualsiasi operazione tesa ad arginare eventuali intemperanze delle altre
istanze. Il loro assopimento, come vie- ne ribadito due volte nel
proseguo del passo, deve essere per- seguito e raggiunto prima di
abbandonarsi al sonno; soltanto dopo aver assolto questo compito ci si
può finalmente conce- dere il riposo (572a7). La non-emersione dei
desideri è, dun- que, garantita univocamente da un intervento
consapevole, pre-notturno. Le possibilità di interrelazioni nei processi
oniri- ci paiono perciò significativamente ridotte rispetto a
quelle della veglia, tanto da non contemplare casi di vero e
proprio conflitto. Tutt'al più la parte razionale può essere
«turbata» dalle gioie o dai dolori dell' epithymetikon (571e2),
accenno che sembra indicare che essa si limiti a percepire passivamente,
ad assistere impotente alle sue turbolente manifestazioni. In
conclusione, il quadro dei processi onirici è così artico- lato: o il
logistikon è desto e le altri parti dormono, ed allora «le visioni
fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle il ragionamento»
(72a) dopo il risveglio. Sempre diversi da quelli di Repubbli- ca sono i
sogni quali appaiono in Fedone 60e, Critone 44b, Leg. 909e-910a,
Epinomide 985c, poiché veicolano messaggi di origine extra-psichica: cfr.
al riguardo E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale (1951), trad. it. Firenze
1997 2 , pp. 122-31. 39 Cfr., per es., S. FREUD, Lio e l'Es,
voi. IX, p. 489: «un lavoro intellet- tuale sottile e difficile, che
normalmente richiede una rigorosa meditazione, può essere effettuato in
modo preconscio senza pervenire alla coscienza. Non vi sono dubbi su casi
del genere: essi si verificano ad esempio nel sonno», e Id., Introduzione
alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 136: la funzione
preconscia svolta dall'Io può ben accadere «durante la notte» ma «non ha
nulla a che fare con il lavoro onirico». leggi», ed esso può attivare le
sue funzioni intellettuali; oppure V epithymetikon e verosimilmente lo
thymoeides son desti e il logistikon dorme, ed allora emergono i desideri
repressi. Es- sendo l'esito univocamente determinato da un intervento
indi- retto e consapevole, tale concezione non ha niente a che fare
con la «difesa» di Freud, incentrata sulla censura onirica, di- retta ed
inconscia. 40 In Platone, nel sogno, i desideri repressi o non
compaiono affatto o dilagano senza indossare maschera alcuna.
5. Strategie di controllo e caratteri universali Ora, poiché
leggiamo che proprio chi «si trovi in una con- dizione di sanità e
moderazione» deve ottemperare alle sud- dette misure preventive prima di
concedersi il riposo, sì da evi- tare la manifestazione delle empie
visioni, è necessario che sia presente, anzi incombente il pericolo della
loro comparsa. La ragione metapsicologica fondamentale della precarietà
di ogni forma di difesa nei confronti dei desideri paranomoi, anche
ri- spetto ai moderati, ci è data nel brano che chiude l'analisi
dei processi onirici: Però parlando di queste cose siamo
andati troppo lontano. Ma ciò che vogliamo capire è questo: in ognuno -
anche in quei pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati - è
senza dubbio presente una forma di desideri terribile, selvaggia e
illegale, che si manifesta chiaramente appunto nel sonno (572b2-8).
Il sogno rappresenta, dunque, lo smascheramento delle ap- parenze,
il riconoscimento che «in ognuno», anche in coloro che più sembrano
moderati, nonostante ciò possa parere inam- 40 Cfr. per es. S.
FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le- zioni), voi.
XI, p. 130; sulla metafora politica del sogno come «conquista» e sulla
«resistenza delle popolazioni soggiogate» cfr. Id., Compendio di psicoa-
nalisi, voi. XI, p. 594. missibile, ebbene anche in loro,
anzi in «noi» - Platone qui sembrerebbe includere anche se stesso -
questa specie di desi- deri esiste: essa «si manifesta appunto nel
sonno». Poiché il moderato è sicuramente colui che ha operato
la migliore repressione, i desideri paranomoi in lui debbono esse-
re stati «interamente allontanati» (57 lb), non sono perciò né pochi né
deboli né schiavi. Ciò nonostante tale operazione la- scia aperta la via
alla possibilità del loro ritorno. Lo stesso peri- colo affiorava del
resto nel brano sull'acropoli, ove Platone scriveva che gli uomini «cari
agli dèi», in altri termini i mode- rati, predispongono la «guardia» alle
porte dell'acropoli (560bl0). Ta hautou ethe: nel sogno V
epithymetikon soddisfa «i suoi abituali costumi» o «i propri caratteri»
(571c7). In questa defi- nizione sta la chiave che spiega l'incombenza del
pericolo: sia- mo di fronte ad una «specie di desideri tremenda,
selvaggia e illegale» che costituisce un elemento strutturale dell'
'epithyme- tikon (572b4-5). Trattandosi di un'istanza costitutiva e
origina- ria della psyche, la specie epithymetica ad essa connaturata
non può che essere presente in ogni uomo. E universale. Con ciò
Platone sembra fugare ogni dubbio rispetto al fatto che i desi- deri
paranomoi «probabilmente nascono in ognuno» C571b5- 6). Del resto i
desideri non necessari bussano alle porte dell'a- cropoli fin dalla
giovane età, come mostrano i molteplici ri- chiami ad operare una loro
repressione ed educazione «fin da giovani» (559al sgg.).
Certo, il fatto che i desideri paranomoi repressi e allontana- ti
«esistano» anche nei moderati non significa che il loro status sia lo
stesso di quelli repressi e tenuti in schiavitù nei non-mo- derati. Con
ciò veniamo all'intreccio tra i vari tipi di repressio- ne i cui fili è
giunto il momento di provare a dipanare. Bipartiamo dal carattere
oligarchico. Egli «rende schiavi» i desideri non necessari (554a7), in
altri termini essi «vengono tenuti sotto controllo con la forza» (554cl:
katechomenas bia); spiega ancor meglio Platone:
[il carattere oligarchico] con una sorta di apprezzabile violenza su
di sé tiene a freno gli altri cattivi desideri interni che pure lo
abitano, non perché li convinca che non vanno nella direzione migliore,
né li ammansisca con un discorso razionale, ma con il peso della
necessità e della paura (554cl2-d3: èrcieiKeì xivi èonnou pm Karéicei
[...] oì> TteiOcov [...] ot>8' finepcòv A,óy(p). La
capacità di convinzione e persuasione {peithó) della sfe- ra razionale è
qui direttamente contrapposta alla forza o vio- lenza (bia) di una
repressione che, sebbene nei suoi intenti sia apprezzabile, lodevole
(epieikei), con le catene della schiavitù non risolve il problema. Siamo
di fronte a due modelli di ge- stione del desiderio alternativi: l'uno
repressivo, negativo, l'al- tro persuasivo, positivo. 41 Di
contro, è anche vero che Platone discutendo del carat- tere democratico
scrive: se accade che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono
relativi ai desi- deri belli e buoni, altri a quelli malvagi, e che bisogna
praticare e ono- rare i primi, reprimere e mettere in schiavitù i
secondi, in tutte queste occasioni scuote la testa e afferma che essi
sono tutti uguali e di pari rispetto (561b8-c4). Poiché qui
la messa in schiavitù assume un valore positivo, sembra emergere una
contraddizione. In verità però come il processo di repressione svolto
dall'oligarchico è «apprezzabi- le» nelle intenzioni, è comunque meglio
di niente per un indi- viduo degenerato, così nel «discorso vero» che
deve esser fatto passare nella psyche del giovane carattere democratico,
che è ancora più avanti nel processo di degenerazione, tanto da non
41 Anche D. Hellwig, op. cit. (n. 3), soprattutto pp. 147-54, insiste
su «die Alternative bia-peitho», ovvero tra l'atteggiamento che «mit
Gewalt un- terdriickt» e quello «durch Peitho», non solo rispetto al
carattere ed alla co- stituzione oligarchica ma nei confronti dell'intera
fenomenologia degenerati- va; la Hellwig inoltre riferisce tale
alternativa, ai paradigmi naturalistici di fon- do adottati da
Platone. preoccuparsi ormai di controllare alcun desiderio, sarebbe
già sufficiente se egli comprendesse che deve tentare di contrasta-
re perlomeno i suoi desideri peggiori. Includendo a tal fine l'a- dozione
della strategia più drastica: la loro repressione e messa in schiavitù.
Del resto, tale strategia dovrebbe essere l'unica a disposizione dei
degenerati caratteri oligarchico e democratico (e anche del timocratico),
nei quali il logistikon, l'unico in gra- do di gestire i conflitti in
modo «armonico», è ormai «asservi- to» 42 all' ' epithymetikon (o allo
thymoeides: 553dl-7) 43 Stringente il parallelismo semantico e
concettuale che si pone a livello politico nell'oligarchia. Ivi la
degenerazione poli- tica e sociale permette la nascita e proliferazione
di «ladri, ta- gliaborse e saccheggiatori» «nascosti» negli angoli della
polis che «le autorità provvedono a tenere sotto controllo con la
for- za» (552d3-e3: . . . ove, èni\i£teiq pUa KoaéxoDow ai àp%ou).
Il circolo della degenerazione, a livello sia psichico che politico,
si avvita su stesso: conflitto e disarmonia generano elementi con-
turbanti, laceranti, patogeni, annidati negli anfratti di psyche e polis,
di fronte ai quali l'unica arma, ormai, è quella inefficace e patogena,
ancorché lodevole, della repressione violenta. 44 42 In
questo caso la «schiavitù» va intesa nel senso dell'asservimento, del- lo
sfruttamento positivo: «l'una calcolando e studiando il modo di aumentare
le ricchezze, l'altro onorando le ricchezze»; viceversa la schiavitù dei
desideri ha carattere esclusivamente negativo: di incatenamento,
espulsione, allonta- namento. 43 Sull'armonia psichica
instaurata dal logistikon nel filosofo, e sulla sua contrapposizione con
la scissione psichica dei caratteri degenerati cfr. R. KRAUT, Plato's
Comparison of Just and Unjust Lives, in O. Hòffe (Hrsg.), Pla- ton.
Politela, Berlin 1997, pp. 271-90 (pp. 277 sgg.). 44 Diversa la
questione che si pone rispetto alla kallipolis in 590c2 sgg., ove
Platone, rimarcando il suo elitarismo e pessimismo antropologico, difen-
de la necessità di «asservire» ai filosofi, ovvero di «imporre dall'esterno le
di- rettive corrette» agli individui ed alle classi sociali da lui
considerate non pie- namente educabili. Se in entrambi i casi si tratta
di una extrema ratio, nell'uno si fa fronte a differenze antropologiche
costitutive, tali per cui l'auspicata ar- monia sociale trova agli occhi
di Platone dei limiti invalicabili; nell'altro inve- Riprendendo i fili
delle diverse strategie di controllo dei desideri non necessari emergono
allora quattro modelli para- digmatici (escludendo la loro
soddisfazione): due repressivi, uno misto, uno persuasivo: 1) quello per
cui essi vengono «di- strutti»; 2) quello che li «reprime e mette in
schiavitù»; 3) quel- lo in cui il desiderio «represso ed educato» viene
«allontana- to»; 4) quello in cui il desiderio, anziché esser
«controllato con la forza», è «convinto» e «ammansito». 45
Ciò considerato, l'indeterminata «repressione» dei deside- ri
paranomoi che conduce al loro intero allontanamento od alla loro
esplicita permanenza in condizione di schiavitù non è esattamente una
medesima operazione repressiva come l'ab- biamo interpretata inizialmente,
ma rimanda a due strategie af- fini ma distinte. La prima rientra nel
modello che «reprime e mette in schiavitù» ed ha l'esito univoco di
spostare e incatena- re il desiderio. La seconda rientra nel modello per
cui il deside- rio «represso ed educato [...] viene allontanato». Qui la
com- presenza di repressione e educazione, sì che il desiderio
«allon- tanato» non è né pienamente persuaso né brutalmente incate-
nato, designa un approccio misto, e spiega l'unificazione in un'unica
categoria di persone, i moderati, di coloro che hanno interamente
allontanato i desideri paranomoi o nei quali per- mangono ma sono «pochi
e deboli». Modalità nella quale po- tremmo forse inserire anche quei
desideri «banditi» che Plato- ne abbandonava al proprio destino: in tutti
e tre i casi i deside- ri vengono repressi, non distrutti, ma si tratta
di una repressio- ne per così dire morbida, tendente perlomeno in parte
alla loro «educazione», sì che essi non permangono, in massa, alle
porte dell'acropoli. Viceversa, la strategia puramente repressiva, di
ce viene criticata una modalità di controllo metapsicologica che adotta,
a priori ed unilateralmente, un approccio brutalmente repressivo,
lacerante. 45 Cfr. rispettivamente: 1) 560a5: diepbtbaresan; 2)
561c2-3: kolazein te hai doulousthai; anche 554a7: douloumenos; 3)
559b9-10 kolazomene kaipai- deuomene [...] apallattesthai; anche 559a3:
apallaxeien; 4) 554cl2-d3: bia ka- techei [...] oupeitho [...]
oud'henieron logo. messa in schiavitù, lascia
intonso il potenziale energetico dei desideri; è questa la via che
conduce prima al democratico, poi' alla mania del tiranno. In
conclusione, l'eventualità che anche nei moderati emer- gano oniricamente
i desideri paranomoi si lascia intendere co- me se, piuttosto che singoli
desideri incatenati che premono ininterrottamente alle porte
dell'acropoli, siano gli ethe origina- ri e costitutivi dell' '
epithymetikon a riuscire talvolta ad approfit- tare di una certa
eccitazione pre-notturna e del sonno del logi- stikon per mostrare le
strutture universali, esse stesse «incon- sce», 46 che generano e
sospingono in avanti i singoli desideri paranomoi - come sarà poi per
l'Es, non solo per i singoli desi- deri rimossi, di Freud -, 47 Al di là
di ogni modalità di controllo adottata e adottabile, siano pure le più
persuasive, il sogno mo- stra che è impossibile sradicare definitivamente
la «specie» dei desideri paranomoi in quanto tale, parte propria di
quella «be- stia policefala», tremenda e selvaggia, che abita ogni uomo,
e fa sentire, di tanto in tanto, la sua minacciosa presenza, «anche
in quei pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati». 48
46 W. Jaeger, op. cit. (n. 7), voi. II, p. 600, scrive che siamo di
fronte alle «regioni istintive subcoscienti dell'anima»; cfr. nello
stesso senso A. Kenny, op. cit. (n. 26), p. 11; E. Vegleris, op. cit. (n.
10), p. 108; W. Janke, AAH0E- LTATH TPAmiMA, «Archiv fiir Geschichte der
Philosophie», XLVII/3 (1965) pp. 251-60 (pp. 257-59). Anche Freud opera
del resto una distinzione tra singolo desiderio rimosso e strutture
«istintuali», «innate» ed «inconsce» dell'Es, cfr. S. Freud, Compendio di
psicoanalisi, cit., voi. XI, pp. 572 e 590; Id., Luomo Mosè e la
religione monoteistica: tre saggi, voi. XI, pp. 417-18; Id., Metapsicologia,
voi. Vili, pp. 78-79; sulla differenza tra individuo e specie cfr. Id.,
Dalla storia di una nevrosi infantile, voi. VII, p. 591. 47 Cfr.,
per es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, voi. VIII, p. 495:
«tutti gli uomini hanno questi sogni perversi, incestuosi e omicidi», e Id.,
Al- cune aggiunte d'insieme alla Interpretazione dei sogni', voi. X, p.
159; Id., I miei rapporti con Popper-Lynkeus, voi. XI, pp. 311-12; T.
GoULD, op. cit. (n. 36), p. 175. 48 Sostengono apertamente
l'universalità dei desideri paranomoi, tra gli altri, Guthrie, A History
ofGreek Philosophy, IV: Plato, Cambridge Dal sogno alla realtà:
derive psicopatologiche Se ritorniamo alla degenerazione
caratteriale, è facile ora riconoscere come rispetto alle modalità
intrapsichiche di con- tenimento del desiderio l'approccio univocamente
repressivo alle epithymiai sia il principale responsabile della deriva
psico- patologica. La rottura dell'armonia intrapsichica,
condizione necessa- ria dell'integrità, salute e euàaimonia individuale
assicurata dal governo del logistikon, ha inizio con il carattere
timocratico, che colloca sul trono dell'acropoli lo thymoeides (cfr.
550b4 sgg.; 553b7c2). 49 Se egli non rappresenta ancora una figura
pa- tologica in senso stretto le conseguenze del defenestramento si
fanno però sentire nella figura immediatamente successiva: il carattere
oligarchico, dominato ormai dai desideri necessari dell 1 '
epithymetikon, non trova altra strada che reprimere e met- tere in
schiavitù gli altri desideri. Così facendo egli però non ri- solve ma
acuisce la scissione e la lacerazione intrapsichica: «un simile uomo non
potrà dunque esser libero da conflitti interio- ri, e non sarà uno ma in
un certo senso doppio» (554d9-10). In negativo: «la vera virtù, quella
della psyche concorde a armo- niosa, fuggirà via lontano da lui»
(554e4-5). La stessa strategia repressiva è adottata dal giovane
figlio democratico: «Anche lui, dunque, si impegnerà a governare
con la forza quei piaceri che vi insorgono [...] chiamati non 1975,
p. 534; A. BlRAL, Platone e la conoscenza di sé, Roma-Bari 1997, p. 150;
C.H. KAHN, op. cit. (n. 9), p. 83; G. Klosko, The "Rule" ofReason in
Plato s Psychòlogy, «History of Philosophy Quarterly», V/4 (1988) pp.
341-56 (p. 347); H.D. VoiGTLÀNDER, op. cit. (n. 4), pp. 114-55; J. Lear,
op. cit. (n. 7), p. 142, con linguaggio freudiano scrive che «anche nel
migliore dei casi nella psiche vi saranno sempre desideri paranomoi da
rendere inoffensivi o da ri- muovere». 49 L'approccio
duramente repressivo mostra in questo caso la sua nefasta presenza
nell'interazione psyche-polis: i timocrati sono «educati non con la
persuasione ma con la forza» (548b7-8). 4 necessari»
(558d4-6: Bice Sri kou oinoc, ap^cov xcòv év anta» èSovcòv), In questo
modo però, se talvolta alcuni desideri ven- gono distrutti, talaltra
invece proliferano «inconsciamente», rafforzandosi fino alla conquista
dell'acropoli. Saranno allora «i discorsi cialtroni» di cui si fanno
scudo a «chiudere le porte della regale fortezza» a più miti consigli e
ad «esiliare il pudo- re» (560c2 sgg.). 30 Solitamente, tuttavia,
superata la lacerante fase adolescenziale, l'uomo democratico riequilibra
parzial- mente i suoi desideri e richiama a sé alcuni degli elementi
in passato sconsideratamente «esiliati» (561a6-b5). Il passo
che porta alla mania tirannica, nell'arbitrario de- terminismo
degenerativo disegnato da Platone, è però ormai cortissimo: l'Eros
tyrannos, che raccoglie intorno a sé l'intero sciame dei desideri
paranomoi, facendosene «capo» e «guida» (573 a-b), e quelle opinioni che
gli fanno da «scorta», si libera- no definitivamente «dalla schiavitù»,
mentre prima, quando egli «si autogovernava in modo democratico, esse [le
opinioni] si liberavano solo in sogno, nel sonno» (574d5 sgg.). 51 Le
cate- ne della schiavitù sono state spezzate: Ma sotto la
tirannide di Eros, divenuto in ogni momento della sua vi- ta da desto
quello che raramente gli capitava di essere in sogno, non si asterrà da
alcun tremendo assassinio né da alcun cibo né azione (574e2-4).
L'uomo tirannico è «colui che da sveglio è proprio come l'avevamo
descritto nei suoi sogni» (576b4-5). Dal punto di vi- sta della fenomenologia
degenerativa questa figura è dunque dovuta, a livello psicodinamico, al
«ritorno» di un represso che scavalca le barriere oniriche: si transita
dall'appagamento oni- 50 Cfr. anche J. Lear, op. cit. (n. 7), p.
193: «La comparsa dell'uomo de- mocratico è, in linea di principio, il
ritorno del represso nella generazione successiva»; sull'oligarchico cfr.
ivi p. 182. 51 Se sono le opinioni che si liberano dalla schiavitù,
è però l'Eros con i suoi desideri a riempire di contenuti sia le
manifestazioni oniriche sia le azioni dissolute del tiranno. rico
a quello reale dei desideri repressi, dall'estemporanea rap-
presentazione della loro soddisfazione nel teatro dell'immagi- nazione
alla conquista permanente dell'acropoli. L'Eros «spadroneggia» ora
incontrastato, «governa ogni settore della psyche abitandovi come un
tiranno» (577d; 329c- d; 573 d; 575a). I rapporti di forza della
psyche-polis vengono nuovamente ribaltati: è l'Eros a «sopprimere e
scacciare fuori di sé i desideri e le opinioni oneste» (573a3-b7).
Tirannia che genera una profonda lacerazione, un'espropriazione della
«vo- lontà» (577e). 52 Il soggetto è in balìa dei suoi desideri più
sel- vaggi, rafforzatisi al grado estremo, ne ha perso ormai
comple- tamente il controllo e, messo all'angolo dalla loro inappagabile
ed ininterrotta pressione, «ogni giorno e ogni notte», ne cade preda. 53
Siamo alla mania: l'uomo tirannico è «reso folle dai suoi desideri e
amori». 54 Riepilogando, dal punto di vista intrapsichico il
processo di degenerazione avviato dal defenestramento dell'armonico
ed armonizzante logistikon e concludentesi con la tirannia del- l'Eros si
configura, perlomeno nelle sue ultime tre fasi, quale risultato di un
approccio brutalmente repressivo del materiale epithymetico. La
repressione permette difatti la permanenza e il rafforzamento
«inconscio», accertato grazie all'analisi dei processi onirici, dei
desideri repressi, i quali, una volta rinvigo- ritisi, riescono a
penetrare nell'acropoli, generando stati psico- patologici di
lacerazione, frammentazione, dispersione ed espropriazione maniacale.
Dalla nostra prospettiva psicodina- mica è dunque a tale strategia di
controllo che deve essere at- tribuita la più grave responsabilità della
fenomenologia dege- nerativa. 52 Sul doppio livello
psico-politico della «schiavitù» e sulla metameleia, cfr. O. GlGON, Die
Unseligkeit des Tyrannen in Platons Staat (577c-588a), “Museum Helveticum”.
54 578all: navvo|iévcp imo èniQv\ii&v te k<xì épcÓTCOV.
7. L 'altra via: la canalizzazione PLATONE, LA
REPUBBLICA La strategia antitetica alla repressione è quella
della per- suasione e educazione del desiderio. L'architrave
metapsicolo- gico sotto il quale si dispiega tale modalità è
rappresentato dal- l'adozione di un modello pulsionale
"idraulico" che assicura all' epithy mia, e all'eroi-, una
intrinseca malleabilità. Uepithymia, anzi le epithymiai dal punto
di vista dinamico si delineano quale forza fluida, canalizzabile, come
emerge lim- pidamente nei libri VI e V: «Sappiamo che quando le epithy-
miai di una persona si concentrano con forza in una sola dire- zione,
esse ne risultano indebolite nei riguardi di tutto il resto, come una
corrente lì incanalata». 55 Così, prosegue Platone, «in quella persona in
cui esse (le epithymiai) sono rivolte agli studi e a ogni attività
simile, esse riguarderanno, credo, il piacere della psyche per se stessa
e trascureranno i piaceri del corpo», come accade nel philosophos (VI
485dl0-12). Se, allora, si con- sidera non Yepithymia nella sua
fenomenica e contingente sin- golarità, si tratti di specifici desideri
necessari, non necessari e/o paranomoi, ma le epithymiai nella loro
plurale unitarietà, esse risultano essere una forza energetico-pulsionale
unitaria, canalizzabile verso mete diverse, anche opposte, secondo
un modello economico. Anche da qui l'insistere di Platone, a monte,
piuttosto che sui contenuti specifici, sulle strategie di gestione del
materiale epithymetico. Questa è la ragione, dalla nostra
prospettiva psicodinami- ca, con la quale si spiega perché l'estensione
metapsicologica della tripartizione del libro IX poteva coniugare
esplicitamen- te, in modo simultaneo e complementare, piaceri, desideri
e governi: ogni parte, in conformità con la sua natura intrinseca,
«ha» dei desideri specifici, ma essi possono essere preservati,
rinforzati e quindi soddisfatti soltanto in virtù dell'egemonia
intrapsichica raggiunta dalla singola istanza anche perché le
Resp. VI 485d6-8: lóonep pev\ia éiceìae àjicoxexE'Uiiévov.
COMMENTO AI LIBRI VHI E epithymiai sono una risorsa unitaria e limitata.
56 Modello rafforzato, descrittivamente, da una sorta di
estremizzazione erotico-caratteriale operata da Platone: si tratti del
filosofo o meno, chi «ama» veramente una cosa la «ama in tutta la
sua forma» (V 474d8-10), come chi «desidera qualcosa la desidera in
tutta la sua forma». Estremismo che conforta la tipologia caratteriale
del libro Vili. L'integrazione tra queste due dimensioni, psicodinamica
e caratterologica, è, infine, rinsaldata dall'eros: unità di misura
comune à tutti i tipi, dal filosofo, letteralmente erastes della ve-
rità, 57 aìl'erotikos e al tirannico. La stessa contrapposizione
strutturale tra repressione e canalizzazione risulta così radica-
lizzarsi nel nome dell'eros. Ai due estremi: su un versante scor- re il
fiume impetuoso dell'eros tyrannos, ove confluiscono i ter- ribili
desideri paranomoi, che trascina il soggetto verso il mare .aperto
deìl'adikia; sul versante opposto si distende l'intensa ma benefica
corrente epithymetica dell'eros filosofico, la sola forza psichica che in
virtù della sua potenza può supportare la lunga navigazione che permette
infine di approdare nel porto sicuro della dikaiosyne. 38 In
conclusione, posta la permanenza di specie di desideri stabili,
indissolubilmente legate alle tre istanze di riferimento, come quella dei
desideri paranomoi, dalle quali non si può mai svincolarsi del tutto, una
parte cospicua del materiale epithy- metico, decisivo rispetto agli
equilibri o squilibri dei rapporti 56 Cfr. in questo senso anche J.
ANNAS, An Introduction to Plato's 'Repu- blic', Oxford -Sulla centralità
psicologica, etica e politica dell'eros e la possibilità di una sua
«canalizzazione» o «sublimazione» nella Repubblica ma anche nel Simposio
e nel Fedro cfr. M. VEGETTI, Quindici lezioni su Platone, Torino, Rimarca la
necessità di non confinare l'eros nel- la dimensione subconscia L.H.
CRAIG, The War Lover. A Study of Plato's 'Republic', Toronto «a psychology that
confines eros to the sub-rational parts of the soul most definitely falls short
of the truth. PLATONE, LA REPUBBLICA di forza intrapsichici complessivi,
è intrinsecamente trasformabile, manipolabile. E questa l'energia pulsionale,
in gran parte riconducibile all'universo dell'eros, che non è solo
possibile ma doveroso utilizzare, canalizzandola verso nobili mete,
anziché tentare, inutilmente ed invero assai pericolosamente, di
annientarne il potenziale con strategie brutalmente repressive. E questo
lo snodo cruciale di fronte al quale vediamo divaricarsi i due approcci
fondamentali, le due strategie basilari di con- trollo del desiderio
adottate da Platone: repressione versus canalizzazione, violenza versus
persuasione, schiavizzazione versus educazione. È questo il bivio dal quale si
può imboccare la via che conduce all'armonia, alla salute, all'
'eudaimonia e alla giustizia del filosofo, o invece il cammino
psicopatologico che sbocca, da ultimo, nella mania del tiranno. L'uomo
massimamente ingiusto, infelice, malato, espropriato, travolto da una
massa di epithymiai feroci, incontrollabili, ormai liberatesi dal- le
catene di quella schiavitù che le relegava al di là dei confini della
coscienza, sottraendole ad ogni controllo diretto e per- mettendo così il
rafforzamento fino al massimo grado, e quindi l'esplosione finale del
loro devastante potenziale. Alberto Radicati, conte di Passerano e
Cocconato. Keywords: implicature della morte, eros e tanatos, amore e morte. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Coco: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del mutuale prevalente – il
contratto di carattere mutuale prevalente -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Umbriatico).
Filosofo italiano. Grice: “Typically, while in the
Italian North, Conte can play with words, in the Italian South, Coco must work
for the workers! Is conversation a work? I think so – lavoro – In the ‘codice
civile’ or rather the ‘codice’ of the civil laws – there is a section on
‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’, short for ‘cooperative society’ – This
is all due to Coco – It sounds slightly fascist, and he did write a little
tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco is a performativist, so he
understands that ius must ‘constitute’ and define: so he goes on to analyse
what I’ve been analysing too – what is to cooperate – in a common task or
‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements for mutuality, and
so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it provides a
framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a Griceian one,
can be VERY SMART! Coco is!” -- Dal
punto di vista sistematico molto vicino alla visione del grundnorm, teoria da
Kelsen. Si laurea a Napoli. Sostituto
procuratore del Re a Cassino. La Regia Procura di Roma. Procuratore Generale
presso la Corte d'appello di Roma. Fondatore dell'Ufficio del Massimario.
Insegna a Roma. Noto soprattutto per aver partecipato ai lavori di stesura del
nuovo codice civile italiano nonché del codice di procedura civile, entrambi
entrati in vigore nel 1942. Si occupa prevalentemente della stesura di leggi in
materia del contratto, obbligazione, e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli
eclettismi contemporanei e le lezioni di filosofia del diritto” (Lagonegro, M.
Tancredi & Figli); “La filosofia del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio
in tema di farmacie” (Milano, Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo
capoverso dell'art. 375 del codice penale” (Milano, Società Editrice Libraria);
“Luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed.
Meridionale); “Per la tradizione giuridica italiana” (Milano, Società Editrice
Libraria); “Saggio filosofico sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del
diritto del lavoro); “Sulla costituzione di parte civile delle associazioni
sindacali” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale
(recensita da Santi Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, MILANI);
“Intorno alla pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma,
U.S.I.L.A.); “Raffaele Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro
e la impresa cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli,
SIEM). Annuario Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna
di dottrina, legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista
di diritto pubblico. La giustizia amministrativa, Roma, Società per la Rivista di diritto
pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per il Diritto Giusto, La
giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza, dottrina e
legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale
trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli
allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e
Giacomo Calabria. La giustizia
tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città di Castello, Società
tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr.
Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e
procedura penale, Milano, Vallardi. Nominato pretore di Lagonegro. Pretore di
Moliterno, assume in seguito le funzioni di sostituto procuratore a Cassino.
Venne trasferito a Roma presso la Procura. Presidente di sezione della Corte
Suprema di Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di
una solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo, partecipa ai
lavori per la stesura del Codice Civile e del Codice di Procedura
Civile.Cura vari aspetti della normativa: contratto, obbligazione, diritto del
lavoro. Una delle sue grandi doti è quella di riuscire a non farsi condizionare
dal regime dell’epoca. Non accetta la candidatura in parlamento offertagli dai
suoi conterranei della Calabria. “Una Vita per il diritto giusto” si
lascia leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che
lo hanno contraddistinto come uomo, come magistrato e giurista,
troveremo, inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica. Sotto
il profilo sistematico si accosta alla visione di Kelsen per quanto riguarda
l’ordinamento e le codificazioni, nonché, proprio per la ricerca e per
l’identificazione di una grande norma fondamentale. Dal punto di vista
epistemologico, rappresenta la condanna dell’ideologia e della prassi delle
scomposizioni in una galassia di frammenti superficialistici. Lo sguardo al
pensiero C. ci consente anche di sottolineare la sua analisi critica, egli non
si ferma alla semplice stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei
confronti del singolo. Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare
come all’accanimento contro la condotta individuale della persona fisica non
corrispondesse eguale severità verso gl’atti illeciti e dannosi della pubblica
amministrazione. Scrive “la responsabilità della pubblica
amministrazione”. -- è stato anche filosofo e storico al tempo stesso.
Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso ricordare. Dal
padre, persona di cultura, ricevette i primi rudimenti di
storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno, successivamente, in
taluni suoi saggi filosofici su AQUINO (si veda). Inizia la carriera
giudiziaria come pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di Moliterno, per
assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del Re a Cassino.
Trasferito a Roma, presso quella Regia Procura, col viatico di rapporti oltremodo
favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali Pagliano e
Calabria della Corte d’Appello di Napoli, dove vi
permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello.
Ottenne la nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello
di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a
presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della
Corte Suprema di Cassazione. Il giornale “Il Tribunale”,
pubblicazione mensile edita a Roma, lo saluta a tale nomina. È della
nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla quale non
disdegna di appartenere, nonostante l’altissimo grado che ricopre
nell’ordine giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense,
Presidente di Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di
Cassazione sin dagli anni ormai lontani della sua felice unificazione. E
stato, infatti, tra i fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che
raccoglie il vasto e prezioso materiale giurisprudenziale della Suprema
Corte. Non appena conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica
di Consigliere, partecipando attivamente alla funzione giudiziaria di così
eminente consesso. Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non
sarebbe di buon gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaboratore;
non possiamo, peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo
di Professore di Filosofia del Diritto nella Scuola di Perfezionamento
di Diritto Penale né l’altro, per noi particolarmente caro, di
Redattore Capo della Rivista di Diritto Pubblico. La recente
nomina, se indubbiamente costituisce un nuovo riconoscimento dei meriti
di così eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore
di così ambita carica. Ma l’accoglierà di buon grado,
assolvendo anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate funzioni
giudiziarie, alle quali porta il valido contributo della sua competenza, ma
soprattutto una grande serenità ed equanimità. Riguardo ai meriti
illustrati dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non
è stato caratterizzato soltanto da solidissima dottrina e da rigorosissimo
lavoro applicativo, ma anche dalla partecipazione costante all’evoluzione
dell’ordine giudiziario, e tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina
a membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ossia dell’organo politico
e politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il
Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e
l’importanza che la Costituzione e la successiva normativa di attuazione gli
diedero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della
Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i
principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè
all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino
esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli
e di Palermo (che assunsero anch’esse la denominazione di Corte di
Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre
quella di Roma fu trasformata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare
dell’insegnamento di filosofia a Roma. In questo ambito, svolse attività
accademica per quel periodo che vide la Scuola annoverare i più bei nomi della
dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base
della trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua
eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote dell’alto
Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore Nicola Coco,
dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente riferimento
alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali unica garanzia
di contratto sociale. Per questo, il periodo che va dal primo
dopoguerra all’ avvento del fascismo, costituisce una parentesi temporale di
efficace e prorompente elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro
e sindacale, o “giuslavorismo”, costituendo davvero una novità assoluta
nelle scienze giuridiche del tempo. Così, quando si verificheranno gravissime
crisi socio0economiche che metteranno a rischio l’assetto della produzione, la
politica e i sindacati troveranno i loro punti d’incontro nel noto
Statuto del Lavoratori, una ri-edizione aggiornata delle linee guida
tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i
quali appunto C. Altro aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso
alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e
Grandi (che è il sottoscrittore anche del Codice di Procedura Civile,
emanato anch’esso, furono chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e
giuristi. Cura vari aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione,
diritto del lavoro), tant’è, che nell’imminenza della promulgazione, il
Ministro Grandi gli inviò una lettera personale di ringraziamento per il
prezioso contributo offerto per il codice. Sua vita coincide con
l’immane conflitto mondiale, con la guerra civile e con la scia di
vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga del Re e la costituzione
della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad assumere la Presidenza
della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e fors’anche la carica di
Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta. Ha, nonostante tale ferma
presa di posizione nei confronti del regime fascista, sulla base di taluni
articoli che aveva scritto su “Il Messaggero” di Perrone, di commento a leggi
e questioni giuridiche di alto livello, ovviamente di epoca fascista, l’occhiuta
Commissione di epurazione, su decine di articoli scritti in una pluridecennale
collaborazione, ne scova qualcuno che suona come apologetico del Fascismo.
Nulla di più falso, quando era nota a tutti la dirittura morale del magistrato
integerrimo, del quale va appena ricordato, ammesso ve ne fosse bisogno, che
la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli fece pervenire sollecitazioni per
una causa che la interessava. Ebbene, Coco procedette secondo coscienza,
quindi non nel modo auspicato dalla sorella del Duce! L’epurazione ingiusta,
nella quale probabilmente influirono anche motivazioni non occulte di gelosia e
invidia da parte di taluni, soprattutto per il fatto che per meriti poteva
benissimo aspirare alle funzioni di Primo Presidente della Suprema Corte, ne
mina rapidamente le condizioni di salute. Negli ultimi mesi non volle proporre
ricorso contro i provvedimenti che lo avevano colpito e rifiuta cortesemente
anche una candidatura in Parlamento, per le elezioni, che i conterranei di
Calabria gli avevano offerto con affetto e riconoscenza. Spira serenamente,
non mancando nel suo testamento di perdonare cristianamente quanti gli avevano
provocato tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa
cooperative e della mutue assicuratrici, delle societa cooperative –
disposizione generali – cooperative a mutualita prevalente. Articoli: societa
cooperative; societa cooperative a mutualita prevalente, criterio per la
definizione della prevalenza, requisiti delle cooperative a mutualita
prevalente. Del Lavoro. Le Società
di Mutuo Soccorso in Italia. Il prof. Gobbi, nel suo pregevole
libro: « Le Società di Mutuo Soccorso » dice che « il nome di Società di
Mutuo soccorso è comunemente assunto da associazioni, le quali hanno per loro
scopo principale di dare ai soci sussidi in caso di malattia o in altre
eventualità che interessino la loro famiglia o l’esercizio della loro attività
economica, ricavando i mezzi all’uopo principalmente da contributi dei soci
stessi ». Considerato così il carattere economico-sociale dei
sodalizi muralisti, non possiamo sicuramente affermare che le prime
traccie di essi si riscontrino nelle antiche Corporazioni di arti e
mestieri, nelle maestranze, nei Collegi, nelle Università. Queste
associazioni si proponevano scopi di difesa professionale, di
perfezionamento nelle arti esercitate dagli associati ; qualche volta, in
via secondaria, l’esercizio di pratiche religiose; e spesso assumevano
importanza politica di prim’ordine e conferivano dignità nobiliare, come
nelle arti della repubblica Fiorentina. Abbiamo però nel
nostro paese esempi di società mutualiste sca¬ turite dal vecchio tronco
della corporazione o del Collegio, o meglio che'di questo possono
reputarsi trasformazione. Così e non altrimenti noi possiamo considerare
la Società fra i falegnami e fabbri di Faenza che fa rimontare la sua
origine al 1410; l’altra pure di Faenza fra calzolai ed arti affini che
si dice sorta nel 1474; la Società Veneta Sovvegno Calafati al R. Arsenale del
1454 ; la Società Calafati del porto di Genova del 1456; la Società dei
Cappellai di Padova del 1530; il Consorzio degli Orafi ed Argentieri capi
d’arte di Roma del 1509. Nè diverso giudizio possiamo recare sui
sodalizi che sorsero nel secolo decimosettimo e nella prima metà del
deci- mottavo. E questi sono: la Società dei calzolai di Cesena (1610);
le due Società Maestri falegnami, ebanisti e carrozzai e fra
falegnami ed arti affini di Torino (1636); la Società fra carrozzai,
sellai, fabbri¬ canti di Torino (1653); la Società fra calzolai padroni
di Asti (1681); la Società Archimede fra operai fabbri, meccanici ed
affini e fra fabbri ferrai e serraglieri (proprietari di officina)
(1700); la Confraternita Sovvegno fra israeliti di Padova; le Società
Riunite Sovvegni spagnuoli e tedeschi di Venezia; il Pio Istituto
lavoranti Milano, Società editrice libraria, pellai di Torino (1736); la
Società Cocchieri e palafrenieri di Torino. Quantunque sorta nel 1738, la
Unione Pio-Tipografica Italiana di Torino può dirsi la prima che abbia
assunto dalle sue origini e poi meglio perfezionati con successivi
adattamenti, i caratteri del mutuo soccorso. Essa fu approvata con Regie
patenti e poi nel suo riformato organismo con Regie patenti 28 settembre
1770. E ira i sodalizi che sorsero nella seconda metà del secolo
decimottavo e possiamo considerare, al pari della Unione Pio Tipografica
di To¬ rino, come le più antiche Società di mutuo soccorso, meritano
par- ticolar menzione: la Pia Unione fra lavoranti calzolai di Torino
del i/54 e la Società dei Servitori di Faenza T . 1 -^ a s ? c °nda metà del secolo
decimottavo sorsero quindi in rippnr, • P rim ? Società di mutuo
soccorso, secondo il concetto mo- Daese affe[>m are che di buon'ora si
manifestò nel nostro Fara il^KfrfSr? 11 6 J° Uta A } P rev idenza
sociale. Ed è cosa singo- concettn°df nnl a Che ’ “® ntre secoQdo la
evoluzione logica del Sassari dalIe , f orme più semplici di essa
dovrebbe videnza tipIIa lesse, il risparmio, forma primigenia della
pre¬ previdenza mutuaPs/nT 116 0I ! ganicile . sorse in Italia più
tardi della Hlllacoo^fonì qUale C r blna * due elementi del
risparmio auanrìn <yìà ^ !• ^ prime Casse di risparmio sorsero nel
1822, litaria, la quale si esu M , Jl ns P arm io, che è virtù
so- adatto a raccoglierlo duò P«p.»?r ma - pa e ® e quando trova
l’organo domestiche, ed in questa anche nel segreto delle pareti
quanto l’economiaVonetaria dp? 0 ^^^ fumare che esso è antico che
l’atto primo deTsodalizfo ? 10va inoltre considerare contributo che
versa il socio 1Sta + e Un atto dl ris P a nmio; il fini della
mutualità, rappresenta La - 1 fondi occorren ti ai “lata, sottratta
alle spese vofottSie sp t np dei SU01 guadagni rispar- occorre per i
bisogni della vita 6 6 n pUre risecata su quanto me„fo 0 U“liX a .S
a m m uta 4 ,I?5', ’ ec ?l° 1 . d!,olmo " 0 no rapido l'inoro- primo
dofsecoli“orsòrKtcietó Fi ” 0 al 1851 società di mutuo soccorso
(1). di dii Gl0va rammentarle dl Bergamo : nel 1810.
Pr« ’camnen*»! !’ ls p. tut0 n | armoniTo’dS el Teatr’f) 1 r?Ìni
SU Ì“ t ^ municipale Simoiie Mayr ano. la Pia Unione tessitori in
seta areento l a Società di M. S. fra cap- ’ aigento e oro di Tonno; nel
1884, la Società Assieme a’gli altri benefici di ordine politico e
'sociale che la unificazione del Regno ci recò, dobbiamo segnalare anche
il rapido incremento nelle Società di mutuo soccorso. Durante il periodo
della prima metà del secolo decimonono solo 48 Società nuove videro
la luce, come abbiamo veduto. Al 31 dicembre 1885, cioè dopo 35
anni soltanto, la statistica a quella data denunzia la esistenza di 4896
So¬ dalizi e ah 31 dicembre 1894, dopo nove anni, ne troviamo 6722,
con un aumento di 1826. Vedremo in seguito quante e di qual forza
siano quei sodalizi al 31 dicembre 1904, secondo la recente statistica,
pubblicata dall’Ispettorato Generale del Credito e della Previdenza. Le
Società di mutuo soccorso italiane, nella loro generalità, sono
associazioni che esercitano in modo prevalente funzioni di carattere
assicurativo col principio della mutualità, aggiungendo spesso a queste
altre funzioni accessorie dirette ad accrescere le forze economiche e
intellettuali e morali dei soci. Fra le funzioni di carattere
assicurativo ha prevalenza in tutte l’assicurazione di un sussidio in
caso di malattia. Spesso vi si aggiungono le spese funerarie in caso di morte
ed un sussidio una volta tanto ai superstiti. I sussidi di malattia sono
commisurati ai contributi, spesso con calcoli empirici, qualche volta
alla stregua di previsioni tecnicamente calcolate. Quasi tutte le
Societàc he concedono sussidi di malattia, per conseguire il diritto al
sussidio fissano un periodo di tempo dall’ ammissione, che comunemente
chiamasi periodo di noviziato. Sono poche le Società che accordano il
sussidio subito dopo l’ammissione: 45 secondo l’ultima statistica (1);
tutte le altre vanno da un minimo di un mese ad un massimo di 24 mesi,
e ve ne ha 120 nelle quali il periodo di noviziato supera i 24
mesi. Ma il numero maggiore si condenza intorno al periodo da uno a
12 mesi: il 76 per 100 del totale. Non tutte le Società concedono
il sussidio dal primo giorno della malattia, sono anzi pocchissime quelle
che lo concedono; le al¬ tre fissano un periodo, che chiamono periodo di
carenza, nel quale i soci non hanno diritto al sussidio. Il periodo di
carenza è di ordinario di uno a tre giorni, ma giunge sino a dieci e per poche
So¬ cietà va oltre i dieci giorni. orefici ed arti aifiai di
Bologna, la Società Sant’Anna fra i maestri muratori di Pinerolo; nel'
1835, la Società cocchieri e domestici di Sant’Antonio Abate di Verona; nel 1836,
la Società •di M. S. fra parrucchieri di Novara, la Società di M. S. fra
brentatori di Vercelli, la Società di M. S. fra lavoranti guantai,
tintori e conciatori di pelle di guanto di Torino, la Società operaia di
M. S. fra conciatori di Torino; nel 1812, la Società di M. S. fra parrucchieri
di "Torino, la Società dì vi. s. fra barbieri, parrucchieri e
profumieri di Bologna; nei 1444, il Pio Istituto di M. S. pei medici e
chirurgi della città e provincia di Bologna, la Società fra medici e chirurgi
di Lombardia in Milano, la Società di M. S. fra farmacisti, medici e
veterinari di Parma, la Società lavoranti calzolai di Pinerolo, la Società di
M. S. fra marinai pescatori di Trapani; nel 1846, la Società di M. S. dei
medici-chirurgi della città e provincia di Ferrara, l’Istituto di M. S.
fra medici, chirurgi e farmacisti di Roma e sua pro¬ vincia, la Società
mutua beneficenza di Citta di Castello; nel 1847, la Società di M. S. tra
calzolai di Alba, la Società medico-farmaceutica di Padova; nel 18 - 1 S, l’Unione
operaia pa¬ triottica fratellanza di Asti, la Società Femminile di M. S.
S. Bonifacio di Pinerolo, la Società Generale fra gli operai di Pinerolo,
l’Unione per le malattie di Verona, la Federazione italiana fra lavoranti
del libro (compositori) di Tonno; nel 1849, la Società di M. S. fra i
pompieri municipali di Ancona ; nel 1764, la Università dei pescivendoli
patentati di Roma Questi dati e i seguenti concernono le Società
riconosciute soltanto, per la quale la statistica ha potuto registrare notizie
più copiose. Si tratta quindi di osservazioni che concernono 1548 Società
soltanto. Nè il sussidio è concesso per tutta la durata della
malattia.Società soltanto sussidiano la malattia fino al suo termine; ma
nelle altre assai raramente il sussidio va oltre i 180 giorni in un anno,
e il numero maggiore si conta fra quelle che non vanno oltre 120
giorni La misura del sussidio di malattia per mo te Società (il 4-2
per 1001 rimane invariata per tutta la durata della malattia, in
molte altre (il 50.4 per 100) varia, sia aumentando dopo alquanti
giorni sia diminuendo. L’assicurazione obbligatoria contro gl
infortuni del lavoro tutela oggi in Italia una larga massa di operai, ma
non H tutela tutti: l’artigianato, la mano d’opera agricola, le industrie
ohe non appli¬ cano macchine, sono ancora oggi fuori il campo dell
assicurazione obbligatoria. E’ confortante perciò osservare nell azione
dei nostri sodalizi muralisti, in via se pur vuoisi sussidiaria, un aiuto
inte¬ gratore pei casi di infortunio. Per quanto concerne la
invalidità temporanea il numero maggiore delle Società (823 su 965)
conside¬ rano questa agli effetti-del sussidio come una malattia
ordinaria; le altre danno il sussidio in misura diversa. Piu scarso è il
numero delle Società che danno sussidio in caso d’invahdita
permanente (542), e il sussidio per alcune è determinato sia in un
assegno una volta tanto, sia in forma continuativa;- per altre, e sono il
numero maggiore, il sussidio è indeterminato, viene dato, cioè, secondo
la entità e la disponibilità dei fondi sociali. E ancora in minor
numero sono le Società che danno sussidi in caso di morte per fa,tto di
in¬ fortunio sul lavoro (464 soltanto); e questi sussidi sono in
misura determinata sotto forma di assegni per una volta o continuativi
o di pensioni o di spese funerarie, o in misura indeterminata.
Quantunque riferentisi alle Società riconosciute soltanto, hanno
valore, come indice tecnico, i dati relativi ai casi di malattia sussi¬
diati, ai soci sussidiati, alle giornate di malattia sussidiate ed agli
oneri finanziari che ne derivano alla Società. Di questi dati ripor-
Per ogni Società, in media, sono sussidiati 45.1 soci all’ anno,
per 52 6 casi di malattia e per 995.3 giornate di malattia, con una spesa
media di 1007.02. Su 100 soci si hanno 29.1 casi di malattia, sussidiati
e sono sussidiati 25 soci. Per ogni caso di malattia sono sussi¬ diate
giornate 18.7; e per ogni socio esistente sono sussidiate giornate 5.52.
Questa media può rappresentare l’indice di morbosità nei soci delia
Società di mutuo soccorso ed ha grande valore per il migliore ordinamento
tecnico di questi sodalizi, per una più razionale corri¬ spondenza fra i
mezzi di cui dispongono e gli impegni che assumono con la promessa
statutaria. La spesa media pei sussidi di malattia, annualmente, risulta
di lire 5.64 per ogni socio esistente. Nell’ordine stesso del mutuo
soccorso devono porsi i sussidi per spese funerarie di soci defunti.
Molte Società provvedono diretta- mente alle spese funerarie, alcune concorrono
con la famiglia alle spese stesse. Non sono infrequenti poi i casi di
Società che danno sussidi alle famiglie dei soci morti sia una volta
tanto sia in forma continuativa. Sono relativamente poche le Società che
concedono sussidi di puerperio e di baliatico (l’8.9 per 100). Nè sono
molte le Società che provvedono con sussidi ai soci disoccupati (il 6.5
per 5 — 100). Questi dati si riferiscono a tutte Società delle quali
si occupa la statistica recente. Carattere degno del
maggiore studio delle nostre Società mu- iualiste è di aver attinto alla
forza delle loro organizzazioni per dar vita ad istituzioni cooperative a
vantaggio dei propri soci. Questa geniale filiazione della cooperazione
dal seno della previdenza mu- tualista fu rilevata ed illustrata dal
Mabilleau in occasione di uno studio che, per conto del Musee Sociale di
Parigi venne a fare in Italia delle nostre Istituzione di previdenza
assieme al Conte di Rocquigny ed al Rayneri (1). La statistica recente ne
dà una conferma luminosa. Nel quadro seguente è indicato il numero
delle Società di Mutuo Soccorso che esercitano funzioni
cooperative. COMPARTIMENTI Prestiti ai soci Magazzini di
consumo Cooperative di lavoro Cooperative
di credito Piemonte. 174 281 2 Liguria 19 15 Lombardia
233 46 1 Veneto 161 32 Emilia. 182 23
1 Toscana. 92 58 1 Marche 128
24 1 Umbria. 72 18 Lazio 63 2 .
Abruzzi. 82 5 Campania. 150
10 Puglie 1 • 57 7 1
Basilicata. 27 Calabria 47 14 Sicilia.
95 17 Sardegna 15 Regno . .1597 552 5 2 Nella maggior parte dei
casi non si tratta di istituzioni autonome fondate secondo le norme del
codice di commercio, ma di i-ami di attività della stessa Società di
mutuo soccorso operante coi fondi di questa. Le Casse di prestiti sono
principalmente dirette al fine di produrre un maggiore rendimento coi
fondi sociali, e quindi si com¬ prende come esse siano in numero maggiore
(il 24.9 per 100). I ma¬ gazzini di consumo, che sul totale rappresentano
8 6 per 100 delle Società esistenti, primeggiano nel Piemonte, dove il
21.3 per 100 delle Società hanno annesso il magazzino di consumo, e
merita par¬ ticolare mensione quello della Società Generale operaia di
.Torino, reso ancora più forte dalla alleanza con la Cooperativa di
consumo dei ferrovieri. La Prévoyance Sociale en Italie - Paris,
Armand Colin et C.« Editeurs Fra gli scopi accessori delle nostre Società
mutualiste meritano poi particolare mensione quelli diretti alla
istruzione dei soci; le Società vi contribuiscono mediante biblioteche,
scuole serali o festive, scuole di disegno o industriali, ó pure mediante
I’ assegnazione di premi, la provvista dei libri e così via.
Altri scopi accessori sono il collocamento dei soci disoccupati^ ed
alcune Società hanno annessi veri e propri uffici di collocamento; il
conferimento di doti alle figlie dei soci; la costruzione di abitazioni
operaie; la concessione dei sussidi alle famiglie dei soci richiamati
sotto le armi. Nei riguardi della costruzione delle case operaie la
legge del 1903 sulle case popolari contempla in modo particolare le
Società di mutuo soccorso, dando ad esse facoltà di impiegare una parte
dei loro fondi in costruzione di case pei propri soci. La legge
vuole soltanto che le Società, le quali questa impresa intendono
assumere, costituiscano una sezione speciale. E già sotto l’impegno di
quella legge parecchie Società hanno chiesto ed ottenuto 1’
autorizzazione di intraprendere la costruzione di case Operaie.
Un nuovissimo ufficio assunto delle nostre Società di mutuo soccorso è
quello di promuovere la iscrizione, collettiva o individuale, dei soci
alla Cassa Nazionale di providenza per la invalidità e la vecchiaia degli
operai. Contiamo nel nostro paese Società le quali assicurano
pensioni di vecchiaia tecnicamente calcolate: sono modelli del genere le
due Società, maschile e femminile, di Cremona. E sonovi Società le
quali non pensioni ma sussidi di invalidità o di vecchiaia promettono
ai loro soci in misura e qualità corrispondenti ai fondi
disponibili. E siccome le Società che corrispondono pensioni o
sussidi' di vecchiaia ai soci hanno per tale servizio costituito un fondo
speciale alimentato da speciali contributi o da avanzi di bilancio, la
legge institutrice della Cassa Nazionale di previdenza consente’ a
queste Società di versare alla Cassa i fondi così raccolti e le future
contribuzioni, inscrivendo ad essa collettivamente i soci aventi diritto
a pensione ed accorda a quei soci, segnatamente i più anziani,
qualche maggior favore. Quel precetto della legge è provvido, contiene un
germe che dovrebbe essere sviluppato, fecondato da nuove e più larghe
concessioni per condurre i sodalizi mutualisti a divenire organi intermedi
attivissimi fra l’operaio e la Cassa Nazionale, sull’esempio di quanto
con maravigliosi risultati viene praticandosi nel Belgio. Alcuni
credono che, per mantenere vivo lo spirito di fratellanza per aumentare
gli elementi che fanno fiorire e cementano la soli¬ darietà mutualista,
sia opportuno conservare alle Società di mutuo- soccorso il servizio di
pensioni di vecchiaia, di perfezionarlo. Ed altri persuasi che quei
sodalizi non possono coi soli contributi dei b^ C n t rni°HAi I ìr e i+
PenS10ni vec ?. hiaia sufficienti ai più elementari vorrebbero che una
parte delle risorse assicurate - e i ^ preTld ® nza 0 nu °ve risorse
affluissero a quelle Società che intendono mstituire o continuare un bene
ordinato servizio di pensioni di vecchiaia. ordinato Io non posso,
senza venir meno alle mie convinzioni, manifestate già in pubbliche
conferenze, accogliere 1’ una tesi nè 1’ altra. Non occorrono lunghe
considerazioni per dimostrare condannevole la prima. In un paese in cui è
sorto un Istituto, il quale, con mezzi forniti dallo Stato, può
assicurare pensioni di vecchiaia in misura superiore a quella cui possono
provvedere istituzioni o sodalizi privati, si renderebbe un cattivo servizio ai
lavoratori consigliandoli a preferire la cassa pensioni della Società mutualista
cui appartengono. Nè si può ammettere che le inscrizioni dei soci di un
gruppo operaio alla Cassa Nazionale rallenti i vincoli della fratellanza
e della soli¬ darietà. La Società, organo intermedio fra il socio e la
Cassa Nazionale, non affievolisce perciò i suoi rapporti coi soci, anzi li
afforza, procurando ad essi maggior vantaggio. E poi, come in tutti i
fenomeni sociali ed economici, vi sono virtù compensatoci che colmano le
lacune e riconducono rapidamente 1’ equilibrio per un momento turbato.
La seconda tesi è pericolosa per le conseguenze cui condurrebbe: il
fatale spezzamento delle forze le quali per dare il maggiore effetto
utile devono convergere in un unico grande e solido organismo, nel quale
soltanto può giuocare, in tema di assicurazioni, la legge così proficua
dei grandi numeri. In un sistema d’assicurazione libera, nel quale,
pure come nella obbligatoria, devono nécessariamente concorrere i tre
elementi: lo Stato, il padrone, l’operaio, non si può ammettere che,
accanto all’Istituto nazionale, il quale può funzionare e divenire centro
potente di attrazione soltanto per la larghezza dei mezzi che gli si
procurano, vivano Istituti privati e diano gli stessi buoni risultati
anche procurando ad essi aiuti speciali e peggio ancora se questi vengono
sot¬ tratti all’Istituto Nazionale, L’esperimento
dell’assicurazione libera non può farsi che all’ombra di un grande
Istituto verso il quale convergano le cure assidue dello Stato, la
simpatia delle classi dirigenti, la fiducia dei lavoratori. La
legge operò quindi saviamente quando volle associare alla grande opera
dell’assicurazione per la invalidità e la vecchiaia degli operai le
forze, le iniziative dei sodalizi mutualisti ; ed il legislatore farà
ancora meglio se aumenterà gli stimoli, con un ben congegnato sistema di
premi, per la iscrizione dei soci della Società di mutuo soccorso.
Intanto sono salutari gl’incitamenti che l’amministrazione del
grande Istituto adopera presso le nostre Società mutualiste, fu provvido il
pensiero del Ministero di agricoltura, industria e commercio, il quale,
con R. Decreto 19 marzo 1905, bandì un concorso a premi in danaro ed in
medaglie d’oro e di argento da conferire a quelle Società di mutuo
soccorso che al 30 giugno del corrente anno di¬ mostreranno di avere
contribuito efficacemente alla iscrizione dei propri soci alla Cassa
Nazionale di previdenza. Di queste buone iniziative già si
raccolgono copiosi i primi frutti. Sono molte le società che hanno
inscritto collettivamente o procu¬ rato le inscrizioni individuali dei
loro soci. Si hanno notizie precise di 73 sodalizi a tutto il mese di
febbraio scorso. Queste 73 Società hanno inscritto alla Cassa Nazionale,
16,078 soci. Meritano particolare mensione: la Società di m. s. della
ditta Ginori, di Sesto Fiorentino che ha inscritto tutti i soci (587); la
Società Generale di m. s. per le operaie di Milano che ne ha inscritto
568; la Società operaia di m. s. di Modena che ne ha inscritto 519; la
Società di m. s. di Mol- fetta. (Bari) che ne ha inscritto 512.
3.° La legislazione e la giurisprudenza. Le Società di mutuo
soccorso sono regolate in Italia dalla legge 15 aprile 1886. Questa
contempla però soltanto le Società Operaie. Il legislatore temè che con
le forme assai semplici per il riconosci¬ mento giuridico fissate nella
legge, senza alcun controllo della potestà politica, potessero rivivere, sotto
la specie dell’ associazione mu¬ tualistica. le soppresse corporazioni
religiose e quindi volle che le Società composte di operai soltanto potessero
chiedere ed ottenere il riconoscimento giuridico con il procedimento
escogitato. La for¬ mula rigida della legge è stata però largamente
temperata dalla giurisprudenza; la quale ha ammesso che possa considerarsi
operaia una Società costituita in gran parte da operai. E così si è
potuto ammettere anche nelle Società operaie l’intervento di soci
benemeriti, di soci fondatori, che con largo concorso pecuniario
esercitano il benefico ufficio del patronato. Le Società di
mutuo soccorso non composte di operai possono ottenere il riconoscimento
giuridico in base all’articolo 2 del codice civile, come enti morali, e
seguendo le norme che all’ uopo furono tracciate dal Consiglio di
Previdenza (1). Qui è opportuno rilevare che la giurisprudenza ha riconosciuto
nelle Società di mu¬ tuo soccorso i caratteri dell’ ente morale. E quindi
non ammette che in caso di scioglimento, il patrimonio sociale possa
essere distribuito fra i soci superstiti,jjma debba essere devoluto a
scopi afllni o in opere di beneficenza, e vuole che le Società di mutuo
soccorso nello acquisto di immobili, nell’accettazione di doni o di
legati siano autorizzate con decreto Reale, ai termini della legge del 1850 che
contempla appunto enti morali. a uà, ^aucenena aei j naie
Civile, depositando copia autentica dell’atto costitutivo e
statuto. statuto. Le condizioni che la legge vuole adempiute
sono soltanto le seguenti : 1. Le Società devono proporsi tutti o
alcuni dei fini seguenti: assicurar ai soci un sussidio nei casi di
malattia, di impotenza al lavorò o di vecchiaia ; venir in aiuto
alle famiglie dei soci defunti. Possono inoltre;
cooperare all’ educazione dei soci e delle loro famiglie ;
dare aiuto ai sòci per l’acquisto degli attrezzi del loro mestiere
; esercitare altri uffici propri delle istituzioni di
previdenza economica. 2. Gli statuti delle Società devono
determinare espressamente; la sede dèlia Società; i Ani
pei quali è costituita ; le condizioni, la modalità d’ammissione e
di eliminazione dei soci ; i doveri che i soci contraggono e
i diritti che ne acquistano ; le norme e le cautele per l’impiego e
la conservazione del patrimonio sociale ; la disciplina alla
cui osservanza è condizionata la vali¬ dità delle assemblee generali,
delle elezioni e delle deliberazioni; la costituzione della
rappresentanza della Società in giudizio e fuori ; le
particolari cautele con cui possono essere deliberati, lo scioglimento,
la proroga della Società e le modificazioni degli sta-, tuti, sempre che
le medesime non. siano contrarie alle disposizioni della legge.
La concessione della personalità giuridica alla Società di mutuo
soccorso è quindi secondo la legge del 1886, subordinata soltanto all’
esame estrinsero dell’adempimento delle condizioni dianzi indicate. Non
si chiede come ne fn manifestato il proposito in alcuni disegni, di legge
presentati prima che si giungesse alla legge del 1886, la dimostrazione
tecnica della corrispondenza fra contributi e sussidi, non si impone
l’impiego dei fondi sociali in determinate specie di investimenti. Deve
però avvertirsi che la legge parla di sussidi e dalla discussione
parlamentare risulta che si volle escludere pensatamente la parola pensioni,
implicando un regolare servizio di pensioni necessariamente la
dimostrazione di un ordinamento tec¬ nico adatto allo scopo. Nè si può
dire che la facoltà di corrispondere pensioni possa vedersi compresa nella
formula della legge : « esercitare altri uffici propri delle istituzioni
di previdenza economica ». Si tratta di una funzione che ha speciale
importanza che non può essere esercitata senza un ordinamento tecnico
preciso, che implica impegni a lunga scadenza e non si può in modo
assoluto ammettere, tenuto conto anche della discussione parlamentare,
che il legislatore abbia voluto concedere di straforo l’esercizio di una
. così importante funzione. B la giurisprudenza ha confermato
il pensiero del legislatore ammettendo che occorra una speciale concessione
governativa per' esercitare il ramo pensióni di vecchiaia o di
invalidità; concessione subordinata alla dimostrazione di un
ordinamento tecnico che dia sicurezza per il mantenimento degli impegni
assunti (1). Nelle norme preparate dal Consiglio della Prev^nza per
a concessione della personalità giuridica mediante deci eto .R®* 1 ® a
“® Società di mutuo soccorso non operaie, si chiede qualche cosa di
più di quello che la legge del 1886 chiede alle Società operaie. Può
sembrare a una prima impressione, che ciò costituisce una c0I1 ^ 10ne
meno favorevole alle Società che non possono ottenere i 1 1 conoscimento
giuridico altrimenti che con un atto del potere esecutivo. Ma ove si
consideri che si tratta di Società fra persone che hanno qualche maggiore
coltura, non sembrerà eccessivo chiedere ad esse una più razionale
discriminazione negli scopi, qualche maggiore det¬ taglio negli Statuti.
E nello stabilire quelle nome il Consiglio della Previdenza si è anche
proposto l’obbiettivo d additarle ad esempio alle Società operaie. La legge
chiede il minimo, e non può quinci escludere che si faccia di più e
meglio. I vantaggi che la legge del 1886 consente alle Società di
mutuo soccorso riconosciute sono i seguenti: esenzione dalle
tasse di bollo e registro, conferita alla So¬ cietà cooperative
dell’articolo 228 del codice di commercio; esenzione dalla tassa
sulle assicurazioni e dall' imposta di ricchezza mobile, come all’
articolo 8 della legge 24 agosto 1877, numero 4021; parificazione
alle Opere pie per il gratuito patrocinio, per la esecuzione dalle tasse
di bollo e registro e perla misura dell’imposta di successione o di
trasmissione per atti ira soci ; esenzione da sequestro e
pignoramento dei sussidi dovuti dalle Società ai soci. Gli
obblighi delle Società registrate, come anche di quelle riconosciute con
decreto Reale, si riassumono nell’invio del proprio Statuto al Ministero
di agricoltura, industria e commercio e nelle comunicazioni allo stesso
Ministero dei rendiconti annuali i quali sono compilati sopra moduli dal
Ministero stesso forniti gratuitamente. Il Ministero esamina i rendiconti
annuali e spesso dà buoni consigli per la migliore gestione del
patrimonio sociale, mettendo in guardia il sodalizio contro la tendenza
di spese suutuarie, per un più cauto impiego dei fondi disponibili.
Nessun altra ingerenza il Ministero esercita nelle Società registrate, nè
esercita ufficio di vigilanza so¬ vra di esse, non potendo sottoporle ad
ispezioni, scioglierne le amministrazioni, nominare Commissari Regi.
Nè la legge del 1886 nè altre leggi, oltre i vantaggi di ordine
fiscale, conferiscono alle Società di mutuo soccorso aiuti diretti o inni Il
Consiglio di Previdenza non espresse divei del 1897, cosi concepita « Le
Società di mutuo so< lità giuridica ai termini della legge del
15 aprile -- -.-e pensioni, ossia rendite vitalizie jn^misuraJìssa
e prestabi i una nota al modello di statuto spirano ad
ottenere la persona- s possono proporsi di assi- diretti
dello Stato. I nostri sodalizi mutualisti vivono esclusiva- mente, o
quasi, eccettuate le non frequenti obblazioni dei benefattori, attingendo le
proprie forze alle contribuzioni dei soci. E ciò, a mio giudizio,
costituisce il loro miglior vanto. Occorre però tener conto degli
aiuti di carattere non continua¬ tivo e straordinario che vengono ad esse
nei concorsi a premio e da sussidi speciali conferiti dal Ministero di
agricoltura, industria e commercio. Nel campo dei concorsi a
premio meritano particolare mensione quelli che una volta con alquanta
frequenza indiceva la Cassa di Risparmio di Milano fra le Società di
mutuo soccorso meglio ordi¬ nate. Nel 1882 fu bandito un
concorso a premio, di lire 3000 (1500 offerte dal comm Besso e 1500 date dal
Ministero) per il miglior ordinamento delle Società di mutuo soccorso; enei
1901 ne fu indetto un’altro dal Ministero con un premio di mille lire,
due di cinque¬ cento e con medaglie di argento o di bronzo a quelle
Società ope¬ raie di M. S. che avessero meglio provveduto ad organizzare
e garantire un servizio di rendite Vitalizie ai soci nei casi di
inabilità al lavoro o di vecchiaia, sia direttamente con apposito fondo
sociale, sia mediante l’inscrizione dei soci alla Cassa Nazionale di
previdenza. Ho rammentato più sopra il concorso a premi del
1905. Incoraggiamenti morali vengono dal Governo alle Società
di mutuo soccorso, mediante concessione di medaglie di benemerenza.
Nella occasione della Esposizione Generale di Torino del 1882, il
Ministero istituì premi consistenti di quattro medaglie d’oro di prima
Classe, cinque di seconda e 12 medaglie di argento da conferirsi a quelle
Società Operaie che avessero dato prova di miglior ordinamento e di più lunga
esistenza con risultati efficaci, giovando anche con le scuole e con le
biblioteche alla istruzione degli operai. E frequensemente il Ministero
concede medaglie di Benemerenza ai sodalizi operai che hanno dato prova
per lunga serie di anni di buon ordinamento e di costante devozione ai
principii della mutualità. Nè sono infrequenti i sussidi in denaro, non molto
larghi data la parità dal fondo all’uopo stanziato, che il Ministero dà
alle Società operaie che più si addimostrano bisognose di aiuti.
A. Lo stato attuale. La recente statistica sulle Società di mutuo
soccorso, elaborate dell’ Ispettorato generale del credito della
previdenza, registra la esistenza in Italia al 31 dicembre 1904 di 6535
Società delle quali riconosciute 1548 non riconosciute
4987 Abbiamo veduto più innanzi che la statistica del 1892 denunziava
al 31 dicembre di quell’ànno la esistenza di 6722 Società di mutuo
soccorso; e quindi nel decennio, in luogo di riscontrare un incremento, come
erasi verificata, e notevole, dal 1885 al 1894, si constata uua
diminuzione di 187 Società, e cioè, in cifra media, del 2 - 8 per cento.
La diminuzione più notevole si osserva nell’Italia meridionale e
nell’insulare ed in parte della centrale; si giunge sino al 48. 1
per cent© nelle Puglie. Ma per compenso si ha un aumento nell’ Italia
settentrionale e nel rimanente della centrale; aumento che riuscì
notevole nel Veneto col 24.2 per cento e nella Lombardia col .15.0 per
cento. Abbiamo detto più innanzi che la diffusione delle Società di mutuo
soccorso, assai lenta nella prima metà del secolo decimonono, andò
accentuandosi dopo la unificazione del Regno, e riportammo, a
dimostrazione, le cifre delle statistiche del 1885 e del 1894. La dimo¬
strazione riesce più evidente classificando il numero delle Società per
anno di fondazione. Dai numeri assoluti si traggono le medie seguenti su
100 Società esistenti al 31 dicembre 1904: Società fondate prima
del 18*0 — % . 1.0 » ,, dal 1850 al 1859 — » . 2.7 » »
dal 1860 al 1869 — » . 10 . 3 » » dal 1870 al 1879 — » . 19 .
2 » » dal 1880 al 1884 — » . 18 . 9 » » dal 1885 al
1889 — » . 14 . 5 » » dal 1890 al 1894 — » . 12 . 6 » »
dal 1896 al 1899 — » . 8.7 » » dal 1900 al 1904 — ». 12 . 1
Il decennio più fecondo è stato quello dal 1880 al 1889, con una inedia
di 33 4: vien dopo il decennio 1890-99 con 21.3; e terzo il decennio
1870-79 con 19 2. . Ma l'incremento più rapido si determina appunto
dal 1860 in poi. Esaminando le cifre afferenti ai vari
compartimenti è da notare che, mentre nell’Italia settentrionale e
centrale è piccolo il numero delle Società instituite negli ultimi anni,
questo numero è notevole nell’Italia meridionale ed insulare. E siccome
in queste regioni si riscontra pure la maggior diminuzione delle Società
nel periodo 1895- 1904, si deve concludere che in esse le Società hanno
vita più breve. Tale ipotesi trova conferma nelle cifre seguenti:
Su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1891, numero di quelle
sciolte nel decennio: Piemonte Liguria
Lombardia Veneto. Emilia.
Toscana Marche Umbria Abruzzi
Campania Puglie. Basilicata
Calabria Sicilia . Sardegna
Regno 25 . 2 L’indice più alto di diminuzioni lo
danno le Puglie; seguono la Basilicata, la Calabria, la Campania, la
Sardegna. ° Delle 6,535 Società esistenti al 31 dicembre
1904 sono composte di soli uomini . » » di sole
donne » » di uomini e donne se ne ignora la
composizione . 5,078 252 1,017
189 Le Società esistenti al 31 dicembre 1904, abbiamo veduto,
sono 1548. Di queste 42 soltanto sono riconosciute con decreto Reale
e 1506 con provvedimento del Tribunale, ai sensi della legge 15
aprile 1886. Al 31 dicembre 1894 le Società riconosciute erano 1156; vi
fu quindi nel decennio un aumento di 392 ed in media del 33. 6 per
%• L’aumento fu più sensibile nell’Italia meridionale. Su 100 Società
esistenti, si contano 23.7 Società riconosciute. Quando si consideri che
la legge del 1886 è sufficientemente liberale, non impone vincoli e
formalità costose, lascia ai sodalizi la maggiore libertà di azione nello
esplicamento dei fini che si propongono, sullo impiego dei fondi, non le
asservisce ad alcuna vigilanza governativa, male si spiega il lento
incremento delle Società riconosciute e il loro scarso numero rispetto alla
massa. Forse deve rintracciarsi la ragione del fatto in pregiudizi non
ancora rimossi dall’animo dei nostri lavoratori, nella imperfetta
conoscenza dei benefizi che la personalità giuridica reca,
indipendentemente da quelli d’ordine finanziario conferiti dalla legge.
Non vogliamo ammettere che influiscano anche tendenze che esulano dal
campo della mutualità, del fratellevole aiuto. Queste tendenze trovano
più conveniente esplicazione in altre forme di organizzazioni, che in ben
ordinato reggimento politico hanno diritto di cittadinanza per la legittima
difesa di interessi professionali e per la protezione del lavoro.
Il,numero dei soci aggregati alle Società di mutuo soccorso, secondo le
statistiche alle tre date, risulta nelle cifre seguenti: nel 1885 —
730,475 nel 1894 - 933,685 nel 1904 — 926,026 Siccome
però non tutte le Società diedero sulle tre indagini le indicazioni del
numero dei soci, assumendo, per la integrazione, il criterio della media
dei soci per ciascuna Società, si avrebbero le cifre seguenti :
nel 1885 — 760,085 nel 1894 — 956,328 nel 1904 —
953,455 La media dei soci per ogni Società nel 1885 risulta di
153.2, nel 1894 di 142 . 3, nel 1904 di 145 . 9. Il numero
dei soci è aumentato in tutti i compartimenti dell’Ita¬ lia
settentrionale, escluso il Piemonte: è aumentato anche nell’Emi¬ lia,
nella Toscana, nell'Umbria e nella Sicilia; ed è diminuito in tutti gli
altri compartimenti. Nel periodo 1895-1904 il numero medio dei soci è aumentato
in Liguria, Emilia, Campania, Sicilia e Sardegna, si è mantenuto eguale
in Lombardia ed è diminuito negli altri com¬ partimenti.
Sopra 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904, la diversa com¬
posizione numerica di esse è indicata dalle cifre seguenti: Sino a
99 soci . — 53 . 6 Con soci da » » da » »
da » » da » » da » » da b b da
1000 a 1500 — 0 . 5 b b oltre . 1500 — 0.3 100 a 199 —
27 . 6 200 a 299 — 27 . 3 300 a 399 — 4.5 400 a 499 —
2.3 500 a 699 — 1.2 700 a 899 — 0.8 In complesso, in
tutti i compartimenti, esclusa 1’ Emilia ove se ne ha il 43 . 2 per 100 e
la Lombardia ove se ne ha il 46 . 0 per 100, più della metà delle Società
conta meno di 100 soci; ed in ge¬ nerale un quarto circa delle Società
conta un numero di soci da 100 a 200. La statistica del 1904
discrimina anche i soci secondo i sessi. Dei 926,026, soci, 849,418 sono
uomini, 76,608 sono donne. Sul movimento economico dqlle Società
di mutuo soccorso si pos¬ sono fare raffronti con la statistica del 1885;
quella del 1895 non con¬ tiene alcuna notizia sul patrimonio sociale.
Ecco i dati riferentisi alle due date: Entrata. Spese
. Patrimonio L. 7. L. 14,632.425 .404.205
» 11.790.028 1.200.840 » 72.395.544 Il patrimonio medio per
ciascuna Società, che nel 1885 era di L. 9.147,97, nel 1904 ammonta a L.
12.-017,85. Volendo integrare le cifre per le Società, che nei due
tempi non diedero la indicazione del patrimonio sociale, assumendo come
cri- terio il patrimonio medio, si avrebbero le cifre seguenti:
Con lo stesso metodo si possono integrare le cifre afferenti alle
entrate ed alle spese. Secondo tali risultati,!che non si possono
discostare molto dalla ventarsi ha nel 1904 in confronto al 1885 un
aumento di L. 4.919.727 nelle entrate, di L; 5.089.469 nelle spese; e di
L 33.748 218 sul pa¬ trimonio, nella misura cioè del 75 . 13 per
100. t 9 o^? trata media .nell’ anno per ciascuna Società risulta
di L. 2,342,43, con un mimmo di L. 861,63 per le Società degli
Abruzzi e con un massimo di L. 3833,27 per le Società della provincia
di Roma. La media delle entrate per ciascun socio è di L. 16 con un
Lombardia L ’ 8 ’ 3 ° Pei> la Calabria e un massimo di L. 18,92 per la
„ n +S„ el ^ m . e ^ Ì prÌ - nc y? a À i .’ di cui si compongono le
entrate sono tre: “SJ on ? dl ® oc ì effettivi, contribuzioni di soci non
effettivi, do¬ nazioni ed altro (patronato), altre entrate. Sopra ogni
cento lire di entrate nel 1904 ,1 tre elementi davano le cifre
seguenti: Contribuzioni di soci effettivi .... 68 80
Contributi di soci non effettivi, donazioni, ecc 7 28 Altre entrate
. . y . . . 29 * 47 Il cfflpite inabor 6 di entrata è dovuto, come
abbiamo già no¬ tato, alle contribuzioni dei soci effettivi. E la
proporzione diventa maggiore quando si consideri che le altre entrate
slno in malsima dei fondi impiegati, i quali alla loro volta
derivano dalle contribuzioni dei soci. La media delle entrate 1eT3 V 9
ate 5 8 da nn ^urioni dei Soci effettivi Varia da^ SSmo Liguria 58 P °° m
Basillcata ad un mas simo dall’82 per 100 in Si hanno notizie più
particolareggiate sulle entrate delle Società riconosciute ; ma queste,
desunte dai loro rendiconti, si riferiscono al 1903. Le percentuali di
queste entrate sono le seguenti: Redditi patrimoniali
Contribuzioni di soci Introiti lordi . . . Redditi
straordinari | Rendita di beni immobili ... 1. 69 (
Interessi attivi.17. 13 (effettivi.38.60 ^ non
effettivi.0. 99 l di Magazzini di consumo ... 27. 58 1
di aziende sociali.6.85 .7.16 Anche per queste
Società, nella media generale del Regno, il maggiore delle entrate deriva
dalle contribuzioni dei soci effettivi, esclusi però il Piemonte, la
Toscana e la Calabria ove proviene da¬ gli introiti dei magazzini
cooperativi, e la Sicilia ove la maggior parte delle entrate sono dovute
alla assunzione da parte di due So¬ cietà di Palermo, quella fra la gente
di mare e T altra dei capitani marittimi, di appalti di carico e scarico
di merci. In Lombardia le contribuzioni dei soci effettivi eguagliano
quasi i redditi patrimo¬ niali; ivi infatti sono le Società più antiche e
con patrimonio più rilevante. Le contribuzioni dei soci non
effettivi variano dal 2. per 109 nell’Umbria, al 0. 5 per 100 nelle
Puglie, perchè appunto nelle Società di questa regione è minimo il numero dei
soci non effettivi. La spesa media per ciascuna Società nel 1904
risulta di L. 1902,84 e per socio di lire 13. Nelle medie per Società
della spesa si va da un minimo di lire 679,30 per le Soc età degli Abruzzi
ad un massimo di lire 2925.51 per quelle della provincia di Roma; il
minimo ed il massimo delle spese si riscontrano quindi nelle stesse
regioni nelle quali si hanno il minimo ed il massimo delle entrate. La
spesa per ciascun socio oscilla fra un minimo di lire 6-,67 negli Abruzzi
e un massimo di lire 16,51 in Liguria. Nello insieme delle
Società non è riuscita possibile una minuta discriminazione delle spese:
si è dovuto star paghi alle due grandi divisioni: spese per sussidi,
altre spese. Nel 1904, rispettivamente ad ogni 100 lire di entrata, si
hanno per il Regno le cifre seguenti: spese per sussidi.51.4
altre spese.29.7 Le spese superarono le entrate dell’1.8 per
100 soltanto in Liguria: nelle altre regioni le spese furono inferiori
alle entrate. Nelle So¬ cietà della Basilicata, della Calabria, della
Sicilia la proporzione delle altre spese alle entrate è superiore a
quella delle spese per sussidi ai soci e alle loro famiglie, indizio di
non buono e parsimonioso ordinamento amministrativo ; nel resto del Regno la
parte maggiore delle spese fu assorbita dai sussidi ai soci e alle loro
famiglie. Come per le entrate così per le spese si hanno più minuti
rag¬ guagli nelle spese delle Società riconosciute, erogate durante
l’anno 1903. Nelle cifre seguenti si dà la ripartizione di 100 lire di
spesa Spese di malattia j f^^se '. ! : Sussidi di cronicità
ed impotenza al lavoro Sussidi di vecchiaia. Soci
defunti Altri sussidi l Onoranze funebri. . ^
Sussidi alle famiglie 19,45 3.01 4,40 10
87 0.75 2.62 1.34 03 ( Magazzini di consumo .
“§ < Altre aziende sociali . ’S g ( Altre spese. Spese di
amministrazione Spese straordinarie. . . Le spese per sussidi
assorbono il 42.44 per cento del totale delle spese e vanno da un minimo
del 14.21 per cento in Sicilia ad un massimo del 69.57 per cento nell’
Umbria. In tutte le regioni, esclusa la Lombardia, si nota che la maggior
parte delle spese per sussidi va nei sussidi di malattie, col massimo del
50 per cento nel¬ l’Umbria. In Lombardia invece hanno prevalenza i
sussidi di vecchiaia. Le spese pei magazzini di consumo sono rilevanti
nel Piemonte (56.02 per cento), nella Toscana (43.51 per cento), in
Calabria (39.97 per cento). Le spese di amministrazione variano dall’
8.02 per cento in Piemonte, al 33.47 in Basilicata. .
28.78 . 7.05 . 2.6S . 13.14 . 5.91
La sostanza patrimoniale delle Società al 31 dicembre 1902 che come
abbiamo veduto, è di lire 72.395.544. ragguagliata per Società e per soci
e distinta fra Società registrate e Società non registrate, dà le cifre
seguenti: patrimonio medio. per ciascuna Società
Società riconosciuta 24.267,00 Società non riconosciuta
7.887,67 Riconosciute e non riconosciute 12.017,85 per
ciascun Sòcio 123.32 60,16 82,50
È più alta la media nelle Società riconosciute; e ciò non dimo¬
stra che il riconoscimento giuridico sia stato per quei Sodalizi elemento di
singolare prosperità, ma che i sodalizi più forti meglio do¬ tati e
quindi più evoluti hanno sentito e voluto tutti i vantaggi della
personalità giuridica. Dalla media generale del patrimonio per
Società si discostano, nel massimo la Lombardia con lire 20.655,70, nel
minimo la Calabria con lire 4 391,09; gli stessi scarti si riscontrano
nella media del pa¬ trimonio per socio : 122.97 in Lombardia, 40.15 in
Calabria. Si hanno i dati della composizione del patrimonio
soltanto per le Società riconosciute, e si riferiscono al 31 dicembre
1903. A quella data il patrimonio delle Società riconosciute
ammon¬ tava a lire 35.976.981 ed era cosi composto. Beni
stabili ...... L. 3.580.079 10,0 Titoli pubblici e privati .... »
15.239,047 42,6 Mutui e depositi a risparmio . « 14.648 374
40.7 Altre attività.» 2.50S.461 6,9 La misura massima
di impieghi in immobili è nelle Società delle Calabrie ove si ha il 33.5
per cento, il minimo si riscontra in quelle della Campania col 2.5 per
cento. Negli investimenti in titoli pubblici e privati il massimo è nella
provincia romana col 70.3 per cento. Nelle Marche invece si ha il massimo
in mutui e depositi a risparmio con 1’ 81.9 per cento ; la Liguria
presenta invece in questi impieghi il minimo col 13.8 per cento.
Hanno speciale importanza le cifre che discriminano le Società di
mutuo soccorso secondo la entità del patrimonio da esse posse¬ duto.
Riferiamo qui le cifre assolute e proporzionali del numero delle Società
per entità patrimoniale, al 31 dicembre 1904. Numero delle Società
che hanno un patrimonio: Da L. 0 a 999
Cifre assolute 1.517 Su 100 Società 23.6
11 1000 a 4999 2.117 35,3
» 5000 a 9999 9S9 16.5 n
10.000 a 49.999 1.239 20.6 n
50.000 a 99.999 156 2.6 n
100.000 a 249.999 60 1.0 ii
250.000 a 49.1,999 12 0.2 n
500.000 a 1.000.000 5 0.1 Oltre
un milione 4 tu Senza indicazione del
patrimonio 535 — Di 5999 Società che hanno comunicato
1’ ammontare del loro pa¬ trimonio, solo 81, delle quali 54 riconosciute,
hanno un patrimonio superiore a lire 100,000 ossia circa 1' 1.10 per
cento. 11 23.6 per cento delle Società ha un patrimonio inferiore a lire
1000; il 35 3 per cento un patrimonio da lire 1000 a 5000, il 16.5 per
cento un patrimonio da lire 5.000 a 10.0000 ; il 20.6 per cento un
patrimonio da lire 10.000 a lire 50 000 e il 2.6 per cento un patrimonio
da lire 50.000 a 100.000. 5. Le federazioni.
Nelle norme preparate dal Consiglio di Previdenza per il rico¬
noscimento giuridico delle Società composte di non operai è am¬ messa la
costituzione di consorzi fra Società riconosciute per formare un fondo di
riserva consorziale, per assumere impiegati comuni, per stipulare contratti con
medici e farmacie, per mettere in comune alcuni servizi, o anche alcune
assicurazioni. Si può stringere anche un accordo fra Società non tutte legalmente
riconosciute per esercitare un controllo sui soci sussidiati o per
regolare il passaggio dall’uno all’ altro sodalizio di quei soci che cambiano
resi- Ta legge francese del 1898 sulle Società mutualiste consente
la costituzione di unioni fra le Società, conservando ciascuna la
propria autonomia, aventi per oggetto principalmente : l’organizzazione
a favore dei membri effettivi delle cure e dei soccorsi indicati
nella legge e specialmente la instituzione di farmacie nelle condizioni
stabilite dalle leggi speciali sulla materia ; l’ammissione dei membri
effettivi che abbiano cambiato residenza; il regolamento delle pensioni di
vecchiaia; 1’ organizzazione di assicurazione mutua pei rischi diversi a
cui le Società debbano provvedere, specialmente la fonda¬ zione di Casse
di pensioni e di assicurazioni comuni a più Società per le operazioni a
lunga scadenza e le malattie di lunga durata; il servizio del
collocamento gratuito. La statistica ufficiale non registra la esistenza
in Italia di Consorzi o d Unioni costituiti per gli scopi predetti, che
hanno alquanta analogia eon quelli indicati nelle norme. In recenti
Congressi regionali di Società di mutuo soccorso fu deliberata la costituzione
di unioni regionali, ma ancora non possiamo dire se furono
costituite e per quali scopi. Nel primo Congresso nazionale
delle Società di mutuo soccorso tenuto a Milano il 29 giugno 1900 fu
deliberato «d'organizzare fra m loro tutte le Società operaie di mutuo
soccorso in federazione nazionale, salvo studiare il modo di organizzarle
razionalmente, con a nomma di una Commissione esecutiva provvisoria »,
fissando intanto a Hi n^ ta 1 o annUa dl , pre ,. 5 per le Societ à
aventi non più di 100 soci t pe f <3 £ e i e dl - un numero superiore;
e «di indire un mprf Ha] lavnnn Fede n azl one delle Società operaie,
quelle delle Ca- La fnlliìl! 6 ?r e Ì Ie delle Cooperative per un’intesa
comune ». con?t^ a aduna " za deI 5 settembre dello stesso anno
1900, Essa G ha S «Tintento F ri? e n aZ10D H SOn ° P reyaIen
temente d'indole morale. Società federate ed? ,?^ ed - ere . alla tutela
de ^ interessi delle nomico delle classi i a JÌ ,!f + lb - U ^ re a
miglioramento morale ed eco- raS ungeretei intenti ^ per mezzo delIa
Previdenza ». Per aggiungere p ento la Federazione si propone in modo
speciale: previdenza e cooperazionp A n< ?I 6 i ment + ) d '^
istituti di mutualità, di Sano effettì^SX*teoon P«r Chè ris
S°"- fare opera di solidarietà con tutte le li“■ ,QM . de !
lavoratori; e ,SC ° P0 .iirftr 1 " t‘la<i'asse lavoratrice;
“ P6r slazione che valga a svfiunnare^Am 6 dÌ U ° . si ,f tema
completo di legi- a tutelare le ragioni deMavoro “ p pi . u 1 . bene .
fiz i dell’associazione, sulle classi lavoratrici; 6 ad alIeviare i
tributi che gravano nella m^deUo^ ifm^ 00Ì ^ Società federate,
intervenendo mediante pubblicazionrco^fere^ze 0 ÒQWe CÌ * ZÌOn - e
6 di P revid enza, meZ SelK^ UÌ Ia C ° n tUttÌ 1 mutuo
soccorso rTcoifosS^e Sf parte tutte le Soc ietà italiane di siano
inspirate ai5? f a „ 08 ,? ute 0 di fatto - P^chè- videnza. P p l0
ndamentali della mutualità e della pre- di iirc 5 se
hanno^^numero^i^ff 1 - 6 UDa quota annua anticipata: se hanno da 100 a
500 soci di k p ® non superiore a 100; di lire 10 ài lire 20 se hanno più
di ìooo^om' 1 86 hann0 da 500 a 1000 soci ’ 6 «5dfott federa a e
hano diritt0: consigli ed aiuti morali^ ^ oinn: n ss mne esecutiva
in ogni circostanza teresse generale- 1 " 81 d<J1 seryizl
che la Federazione stabilirà nell’in- àana, monitore della 6
P^derazton^^d^ giorna l e La Cooperazione Ita- Congresso; ^aerazione, ed
una copia degli atti di ogni « d) di ottenere gratuitamente
consulti legali e pareri di in¬ dole amministrativa; « e) di
valersi del giornale La Cooperazione Italiana per trattare quelle
questioni che si riferiscono agli interessi della mutualità e della
previdenza ». Gli organi della Federazione sono: il Congresso delle
Società federate; il Consiglio Generale composto di 50 consiglieri eletti
dal Congresso fra i soci delle Società federate; la Commissione
esecutiva composta di nove membri scelti fra i soci delle Società
federate e residenti in Milano; i Comitati regionali, secondo le
circoscrizioni stabilite dalla Commissione esecutiva; il Collegio dei
Sindaci com¬ posto di tre sindaci effettivi e due supplenti, nominati dal
Congresso fra i soci delle Società federate residenti in Milano; le
Commissioni di consulenza, di statistica, di propaganda, ecc. quando ne
fosse re¬ clamata la costituzione. La Federazione ha
organizzato tre Congressi nazionali: quello di Milano nel 1900; quello di
Reggio Emilia nel 1901; quello di Fi¬ renze nel 1904. Le Società federate
sono andate crescendo nei cinque anni 1901-1905 nella proporzione
seguente: 1901 — 548 1902 — 573 1903 —
720 1904 — 733 1905 — 745 In un Congresso
internazionale e nel chiudere questa rela¬ zione la quale dimostra quale
sia la condizione delle organizzazioni mutualiste in Italia, io non credo
che si possano presentare, come epilogo dei fatti osservati, voti e
proposte che abbiano riferimento alle particolari condizioni delle nostre
Mutue ed al loro avvenire. Credo soltanto possibile esprimere un
voto il quale ha necessario legame con la proposta costituzione di una
Federazione internazionale della mutualità, che sarà vanto di questo III
Congresso, poiché, a mio giudizio, una Federazione internazionale deve
trovare il suo principale fondamento nelle organizzazioni federative
nazionali. Ed il voto è il seguente: Che si promuova in
Italia la costituzione di Federazioni od Unioni regionali di mutuo
soccorso, le quali si propongano i fini additati dalle Norme e meglio
specificati dalla legge francese, in quanto siano applicabili alle
particolari condizioni e funzioni delle nostre Società ; Che
le Federazioni regionali facciano capo ad una Federazione Nazionale, la
quale, pure esplicando l’azione d’indole morale che è nel programma
dell’attuale Federazione, compia anche alcuni uffici propri delle
federazioni regionali, specialmente quello di sovvenire i soci dei
sodalizi aggregati alle regionali, i quali, per ragioni di lavoro o per
altre ragioni, si trovino fuori del territorio nel quale la Federazione
regionale esplica la sua azione. Uo spirito cooperativo. Se
il tracollare di tante impresa o società sorrette da grossi capitali
aggiunge nuove pa^ne ai volume delle nostre afflizioni , è bello invece
vedere per virtù popo- lana sorreggersi liberi e sicuri nel loro corso
anche in Italia i sodalizii dèlia previdenza e* del mutuo soccorso.
Animati nelle loro operazioni dal sentimento della pietà , e non mossi da
studio di soverchio guadagno , finiscono col raccogliere anche la
ricchezza , come premio della loro virtù e col dare un'alta pro\a di
quella verità che gli affari più cauti ed onesti sono sempre in (in dei
conti i più lucrosi. Così queste società nuove di operai e di pic-
coli indaslriali , svincolale dai vecchi rancori , amiche deirordiiie e
della liherlA, v:inno sempre meglio disegnando ed aiiargaiido i contorni
dell' azione, c creando una buona Speranza per l'avvenire
della nostra patria. Fatta Tlta- lìa, è d'uopo per fare gP italiani che
alle vecchie e cascanti passioni di un popolo per secoli torpido e povero
, sì sostituisca la fede energica nel lavoro e neir associazione.
Occorrono a ciò quelle tempre d^ uomini gagliardi ai quali nulla di
onesto e di utile pare impossibile, e che nel meditare al proprio,
tornaconto non dimenticano quello degli altri. Occorre che in tutte le
citlà^ d'Italia sorgano e iiros|u'rino gli spirili benevoli, i quali
sappiano inlen- dere l' iiulirizzo del nostro secolo, e prodighino le
opere buono a quello stesso modo , e sto per dire , con quella
spensieratezza , colla quale i più le stemperano nella ca- scafigine e
nelT ozio. E queste qualità cominciano appunto a ravvivarsi
nei gruppi de' nostri cooperatori , le quali , mef^lio di tanti
discorsi accademici che entrano ed escono dalle orecchie 0 di certi
volumi di economia politica , senza lettori, val- gono a provare colla
evidenza dei fatti , che la maggiore delle industrie è l'onestà dei
costumi, e che il lavoro e r associazione non accrescono soltanto la
nostra fortuna materiale, ma ben di più» il patrimonio dei nostri
affetti e delle virtù nostre. Di fronte al movimento
d'associazione che si estende da tutte le parti, è. necessario stabilire
i cardini su cui s' aggiri ben definito l' oggetto e lo scopo dell'
associa- zione. Fino ad oggi te società di commercio e
dMndostrla avevano per unica mira il guadagno di coloro che le di-
rigevano. Questo guadagno talvolta eccessivo , aveva per motore
l'egoismo, c per mezzi i tranelli , la speculazione e r aggiolag!2Ìo. E
pur troppo mezzi così odiosi hanno fatto colossali e scandalose fortune
con desolazione c rovina di una falange di creduloni e di delusi. Le
società cooperative hanno invece per ragione la fra- ternità, per
principio l'eguaglianza, per mezzi l'onore, la probità e il lavoro dei
cooperatori associati ; e per ìscopo r emancipazipoe di tutti ; la
cooperazione dà ai- spiaiTo d' associazione. 25
r uomo il mezzo di amministrare e di gestire da sè stesso
ciò che gli appartiene , ed a ciascun cooperatore accorda la facoltà di
aver parte air amministrazione delle cose co- muni. Còsi la cooperazione
sorretta dall' intelligenza , vi* vificata dair amor fraterno , rivela
air uomo T arcano della sua forza e della sua potenza. Ma peicliè giunga
agli sperati e (Te ili senza deviare dai principii che sono fon-
damenlo di ogni rigenerazione sociale , si addomanda ai cooperatori
vigilanza attiva e studiosa, saggezza, aniiega- zione e virtù; nè, per
evitare gli scogli contro cui ruppero tanti , cessino di tenersi in guardia
contro i funesti allctlamenli, i desiderii ambiziosi , le passioni
egoistiche e gelose. Bando sopratutto ai sistemi esclusivi! essi
con- tengono i germi di discordia e di dissoluzione che bi- sogna
sradicare dalla loro prima comj)arsa. Quanto allo socielà cooperative
formate lìnora in Italia, mentre dobbiamo conoscere la devozione , il
disinteresse dei loro fondatori ed aderenti e i risultati abbastanza
fe- lici, tenendo calcolo delle difficoltà che erano da supe- rare,
converrà sìeno impiegate maggiori forze e sieno sbandite tutte quelle
mezze misure che conducono facilmente air aborto. Si ha bisogno di
uscire al più presto dalie vecchie abitudini, dai sistemi restrittiyi, e
rendersi p^puasi che un progresso non è realmente buono se non m
quanto possano tutti parteciparvi; che T eguaglianza è T anima
della cooperazionc , come d'ogni giustizia; che il genio cooperativo nel
suo oggetto , nel suo scopo e nelle sue conseguenze sociali , ha una
missione immensa da com- piere, e che deve penetrare come il sole, tanlo
nelle campagne quanto nelle grandi città. Ma perchè le società di
credito e di produzione pos- sano agire senza ostacoli deesi sgombrare il
terreno del- l' industria dall'impiccio delle tante braccia strappate
alle campagne e fioriate nelle città a far una disastrosa concorrenza
cogli operai. Per togliere dallo stato precario e dalla miseria, ove si
trovano, lutti questi campagnoli che disertano la gleba per cercarsi
lavoro nelle manifatture » bisognenibbe procurare la loro emancipazione
col mclterli anch'essi in grado di partecipare alla propriclà territoriale
per mozzo delle associazioni cooperative. Al che condurrebbero quando si
formassero de' sodalizii agricoli c industriali, abbastanza potenti per
oHrirc un asilo a coloro che non hanno una via aperta alla loro
aUivilà. Con questo mezzo il commercio e l’industria si troverebbero al
riparo dalia concorrensa industriaJi superflui, poiché ove le società
cooperative non propagassero ia loro azione nelle campagne, e restassero
nelle sole pitià, su- birebbero i maggiori disinganni. Ed
oltre a questa concorrenza dannosa, aggiunge quella che i lavoratori si
fanno fra essi e che forma reggette dMndebite lagnanze. E infatti
coltivatori, affit- jtaìuoli , proprielarii si lamentano troppo spesso dr
questa concorrenza che , a detto loro , impedisce di vendere i
frulli del campo e del lavoro a buon prezzo, e non pen- sano intanto che
la concorrenza de'' produttori coi prezzi moderali suscita un'altra
concorrenza, quella de' consumatori; non pensano che se essi hanno quelle
vanghe, quelle zappe, quei martelli, quelle seghe a buon patio, e
appunto per la concorrenza delle fucine che procura a minor prezzo il
ferro di che hanno bisogno per gli isiru- menti de' tgro mestieri ; che è
la concorrenza dei tes- sitori e de" granaiuoli che fa comperare ad
essi con modici valori il vestito e il nutrimento, e tutto quanto entra
nei bisogni della vita. Ma quando l’equilibrio si rompe anche la
concorrenza diviene dannosa; le braccia divelle dai campi e intrec-
ciate agli ordigni de^ mestieri devono rompere Tarmonia che è il supremo
beneficio d^ogni sociale interesse > ed è appunto un gran prezzo dell’opera
il far in modo che ì campagnoli restino nelle campagne , nò depongano
la marra e il sarchiello pel maglio o pel telaio. La
concorrenza è ìm gran motore delle attività umane, e trova la sua
perpetua alimentazione nelP interesse individuale. Essa non e che il risultato
dello sforzo che fa ciascuno pel proprio interesse , e porta poi come
ultima conseguenza il bene generale. Essa è dunque il principio deir
esistenza Jelle società, poiché dalla concorrenza degli uni e degli altri
promana il vantaggio di lutti; nè per- meile ad' alcuno di predominare a
scapito degli altri, è una compensazione che ci facciamo a vicenda.
Senza la concorrenza dei produUori i consumatori pa- gherebbero tutto ad
una esorbitanza di prezzi , e senza la concorrenza clie i consomatori si
fanno tutto cadrebbe a prezzo sì abbietto che nessuno sarebbe più
sollecitato alla produzione. E chi sconoscerà il vantaggio che ne
trae l’emulazione « che è uno stimolante prezioso per T intelletto e per
Fat- tività deir uomo , e ne sorregge ne^ suoi lavori la medi-
tazione e i sudori per trionfare sui competitori suoi. Per studiare a tale
intento , e trovare nuovi processi di produzione più economica e più
abbondante per accorciare il tempo e conseguire Y esito migliore , e per
soggiogare le forze delia natura, decuplicando e centuplicando la
forza deir uomo? Chi teme la concorrenza è solo colui che non
sa far meglio degli altri, o clic vagheggia guadagni più ghiotti;
egli sa che il consumatore si rivolgerà al fabbricatore che lavora
meglio, e al venditore che spaccia a minor prezzo; e chi invoca misure
restrittive, chi domanda ai governi la proibizione d' introdurre merci
forestiere , attenta alla liberti, ed è un egoista che vuoi prelevare a
suo pro- fitto la differenza tra i suoi prezzi e quelli degli stra-
nieri. Ha quando V equilibrio delle classi si rompe allora la
concorrenza conduce diviato alla ruina. E pur troppo vediamo i giovani
campagnoli non rare volte dalla mal tollerata loro condizione sospìnti a quella
delP artigiano delle città, perchè a questo la giornata si paga più cara
che ad essi , ed ogni sabato esce dall'officina col suo salario
alla mano. Queste braccia divelle dai campi e iuirecciate agli ordigni
degli opificii tolgono le larghe emanazioni di quella occupazi.one che
fin dai primi tempi alimentò l'uomo «uila terra. Eppure l uomo della
campagna quando pensa all'artiere della città, dice: in (jual minor conto
siamo ' noi tenuti! S'inganna esso a partito; nessuno tiene in
minor conto chi guida il solco e l’aratro, ed è necessario che i contadini il
sappiano, che abbiano ànch'essi le loro istituzioni da cui sieno
allettati, e che le provvide virtù camminino fra i popoli agricoli »
sotto i tetti di paglia , tra i novali e i vigneti , e che la vanga e
il sarchiello non restino mortificati dinanzi al maglio ed al
telaio. Nicola Coco. Keywords: mutuale prevalente, cooperativa, impresa
cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra,
giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto,
corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di
procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione,
sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico,
unica garanzia del contratto sociale, mutuo soccorso, la societa di mutuo
soccorso, le societa di mutuo soccorso, mutualita, mutualita prevalente,
contratto di carattere mutuale prevalente, lo spirito cooperativo,
considerazione sullo spirito cooperative. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco”
– The Swimming-Pool Library. Coco
Grice e Codronchi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del contratto -- giochi d’assardo
– contratto – gioco aleatorio – Ercole, l’Ara Massima, e il patto comunitario
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Imola). Filosofo italiano. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were
not for the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see
conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do
confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’
approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the
reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for
‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too
seriously – perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games –
and the subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was
talk about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract
bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the
‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that
‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la
laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In
seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con
Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue
saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità
l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di
contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto
tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato
nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato
sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel
quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una
legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was
attracted by the idea that observance of the CP and the maxims, in a talk
exchange, could be thought of as a quasi-contractual matter, with parallels
outside the realm of discourse. If you pass by when I am struggling with my
stranded car, I no doubt have some degree of expectation that you will offer
help, but once you join me in tinkering under the hood, my expectations become
stronger and take more specific forms (in the absence of indications that you
are merely an incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit,
characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative
transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting
a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in
conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the
other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even
if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each party
should, for the time being, identify himself with the transitory conversational
interests of the other. 2. The contributions of the participants.should be
dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding (which
may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being equal, the
transaction should continue in appropriate style unless both parties are
agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start doing
something else. SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO. C.
Sor's incerta vagatur, Fertque refertque vices. Lucan. FIRENZE PER GAETANO
CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO
LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI
TOSCANA &c. &c. & c. 1 NICCOLA CODRONCHI. Questa operetta che
sottopone il contratti d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per
fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea
bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati
tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il
vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la
felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi
all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non
sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio,
penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose
beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali
desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi
forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di
arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi
necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha
voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo
stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore;
acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi
della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e
l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende
talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un
piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in
un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e
sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i
grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i
lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato.
Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano
per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore
medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo
contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi
avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro
contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in
cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini,
che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da
esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta
al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori
che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla
polvere d’or, che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia
solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il
moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il
negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a
preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro
sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo
contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati,
o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render
giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in
tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che
arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre
vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica
politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte
a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi
veglia alla pubblica felicità. Ma io crederò di potere con parità di ragione
chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra
il certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato
quel seme fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee
produr nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce
dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil
cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una
sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su
di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al
contratto aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia
possibile investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura,
più o meno esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne
determini l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia.
Contratto aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un
diritto, o vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei
separatae), il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte
(cfr. Grice, “Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel
medesimo contratto considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i
contraenti. (parola chiave: “ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta
per far guadagno di una tenue somma di denaro (a) ma certa, vende la speranza
incerta di un gran guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che
avendo buon esito la ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio.
L'uguaglianza che dopo fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della
cosa ricercasa nel contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata
la cosa che ne forma l'oggetto, ritrovisi in Vedasi più sotto ove si parla del
contratto di alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che danno
nel contratto e reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che
l'avere un diritto o una speranza è molto più valutabile che il non averla? E
se ciò è vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un vero e real
prezzo nel commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere
un prezzo diverso, questa speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per
conseguen prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello
per cui alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad
una vera uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo
tale TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza,
che gli caratterizzi per giusti. ng Too vorrei potere esporre con la maggior
precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone
per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si
parla. Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi
l'opportuna applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti
osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a
dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello
o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità
che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per
cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per
nome di premio si può intendere, e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo
più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò
ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i
o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più
stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che
io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra
parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di estrinseco
valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore secondo che è
maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento rispetto al numero
de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che gradatamente, e per
serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera tavola delle probabilità.
Conſiderando però ciascun evento separatamente e senza rapporto ad altri; la
probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto* del numero de’ casi a
lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’ contrari. Poichè se
sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire la probabilità
dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10 bianche in
massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione dall'urna.
L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una speranza; giacchè
deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi favorevoli e dei
sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della umana vicenda.
Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una speranza, il numero
dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei sinistri, è troppo
chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario che il valore
intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio* del
prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del valore
intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà, che sola
è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto all'aleatorio;
e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità del buon esito
e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola infallibile
secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando in ugual
numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se si
accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore estrinſeco
della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente* l’intrinseco
accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza di cio
suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato numero e
suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri. In
questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e la
speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo
considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però
queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della
speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111
(a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di
ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del
premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già
sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per
punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se
il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di
tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto
farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della
speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza necessaria
converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo caso il
prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e quindi li puo
universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle speranze sono in
ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o reale sperato (res
sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto aleatorio allora
visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando il
prezzo che espone uno de contraenti stia al premio, come il numero dei casi
favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei contrari. Notisi che quì per
premio s’intende non solo la porzione che si lucra, ma di più il prezzo istesso
che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per quanti siano i prezzi dei
contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo rapporto al premio, ne
verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero dei casi favorevoli ad
uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e de’ contrari al numero de
favorevoli a quello con cui si istituisce il paragone, diviso anch’esso per la
somma dei favorevoli e dei contrari: e così dicasi di quanti siano i
contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente corollario. Nel contratto
aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i prezzi dei contraenti ſtiano
fra di loro, come i numeri dei caſi ri ſpettivamente favorevoli. Dagli
enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che per bene applicarli agl' indivi
dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente, qual ſia il vero valore del
prezzo con cui ſi compra la ſperanza; quali ſiano i veri caſi favorevoli, e
ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che convenga alla naturą
del contratto in queſtione. Conſiderando at; tentamente la natura e le leggi
dei diverſi contratti di azzardo, mi è parſo che preſen tino una facile e
natural diviſione, per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi li pof ſono
comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura, e dalle
diverſe leg gi che gli coſtituiſcono, ne naſce una diverſa maniera di fiſſare i
rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri. A tre fi
poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e
quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo.
Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura, e le leggi del
contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle
ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza, numero
determinabile, e ragioni certe, e ſicure. Il ſecondo è quello nel quale per la
natura del contratto, non ſi può fondare il rapporto, ſe non che ſulla
ſperienza, e ſulle oſſerva zioni eſatte perd, e molte volte replicate; e ſopra
cagioni incerte, e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e
dei fi niſtri, non può mai eſſer certo, determinato, e ſicuro. Terzo metodo è
quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione, parte alla conſiderazione
di leggi certe e ſicure, e par te alla ſperienza del paſſato, e a circoſtanze
incerte ', e di numero indefinito. Nei contratti adunque della prima fpecie,
conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire
ſull'oggetto del 1 4 13 contratto, ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali
poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei
caſi favorevoli ai finiftri. La ſcienza delle combinazioni, e permu tazioni è
ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta, e dall ’ Ugenio, e dal Bernullio, e
dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa, che vo lendo io trattarne a lungo, non
potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione,
e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe, che non laſciaffero
un neceffario deſiderio di molte più, intorno alle quali l'intertenermi, oltre
paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio; e tanto più, che
ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura
trattare tutti i caſi par ticolari. Nel venire però eſaminando la na tura dei
diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi, ſi vedranno di
trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati, ed indicata la
maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto,
e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed
aſtruſi. Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima
claſſe debbonſi riferire. Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo
Bernulli, per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il
numero dei caſi favorevoli e dei contrari, i vantaggi reſpettivi dei giocatori,
e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi
ſenza rinunziare alla miglior condizione, in cui l'hanno già poſto alcuni colpi
favorevoli. So che eſſendo la probabilità, o ſemplice, o compoſta, ne ha queſto
gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una
curva logaritmica, o di queſta con una pa rabolica, e così ſucceſſivamente
aſcendendo alle curve dei gradi più alti. Ma laſciando da parte i profondi
calcoli, e i miſteri della fublime Geometria, i quali però ben pene trati
ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo, piacemi in
quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi
del gioco, per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo, come ſi poſſa in eſſo e
dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori, e in tal guiſa applicare a
queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi. Il gioco di pura ſorte è una
ſpecie di con tratto, nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di
certe leggi, e condizio ni, ſi diſputano un premio, che ſi rilaſcia a chi ſarà
più felice, per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per
ve run modo dalla loro induſtria. E quì cade in acconcio fare una rifleſſione
comune a tutti i contratti di azzardo. Il dire che una coſa accada caſualmente,
non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta; e che
non vi abbiamo alcuna volontaria influenza. Per altro quan do fiegue in natura
un determinato effetto, qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea
ſeguire. Che due dadi gettati ſu di una tavola, ſcoprano piuttoſto un numero,
che un altro; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue
per le noſtre mani medeſime il tratto. E perd ugualmente vero, che dato quel
tal moto alla mano che gli getta, dato quel tal grado d'impeto, e non più nè
meno, data la mole dei medefi mi, e il piano ſu cui ſi aggirano, devono
neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro. Così dicaſi dei
giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di
meſcolarle, e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante; anzi
pure non ſolo del gioco, ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di
azzardo, e generalmente di qualunque evento fortuito (a ), (a) Non ſolo ne'
contratti ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura
diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente marcati, ma anche in tutto il tenore
di una vita diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il
premio. Le fatiche, gl'incomodi, le priyazioni dei piaceri formano il primo.
Nella gloria, nell'autorità, negli onori, nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo,
che molte volte defrauda le meglio fondate ſperanze, o almeno ad effe
perfettamente non corriſponde; onde può dirlig.Varie ſono le ſpecie principali
dei giochi di pura ſorte, ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il
premio.O due giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective
porzioni di depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il
quale felice mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente, che
ambi ſi ſono propoſti d'incontrare; o a quello, che in ugual nu mero di faggi,
ſotto le medeſime leggi, di pendentemente dalle medeſime condizioni, 6 2 che
così in queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui
s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile
divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe, e
del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi, ma che in tutti
i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere
pertinax. Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli
attributi della fortuna, o del caſo, quando ſono uſate dal Filoſofo, hanno un
fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia, e il volgo
che non ragiona. << tro, così dire nega incontra quelle combinazioni che
preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco, e
alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco
è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto
certe condizioni, d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di
altri ' compoſto, e quale non incontran do, la ſorte s'intende aver deciſo per
l'al la ſperanza di cui per tiva, non ha altro oggetto che l'eſito infe lice
delle mire dell'avverſario, non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente
ve run colpo di gioco. Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i
giocatori azzardare una egual fomma, o prezzo, altrimenti reſterebbe
manifeſtamente tolta di mezzo la neceſſaria uguaglianza. E' chiaro che allora
il prezzo con cui ſi acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell'
oggetto; poichè il primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei
giocatori e il ſecondo è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il
totaledepoſito.Ma co me trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli
uguale a quello dei ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria? E certamente
ſe fi conſiderino i caſi favorevoli, ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei
giocatori; non ſi potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque.
E' queſta una evidente verità, ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco,
per le quali dipendendo la ſorte di un giocatore, non dai ſuoi colpi ſolamente
ma da quelli ancora dell'avverſario, i ter mini della proporzione ſaranno
ſempre rela tivi, e per conſeguenza variabili. Eſaminata però più maturamente
la natura del gioco di cui ſi tratta, fi dee riflettere, che il nu mero dei
caſi favorevoli a un giocatore, è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di
rettamente, ma dei caſi altresì all'avverſario contrarj; e al contrario il
numero dei finiſtri, altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui, e dei
favorevoli all'avverſario. Ma quando fi giochi con condizioni eguali, queſte
due fomme fono eguali: dunque anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il
canone della ſtabilita proporzione, e i prezzi ſtare fra loro come i caſi
favorevoli ai finiſtri. Da ciò ne ſegue, che ſe due giocatori proponganſi di
incontrare la medeſima favo revole combinazione o la medeſima ſomma di
accidenti; ma che uno voglia far più ſaggi del gioco, o cercar con più mezzi
quelle combinazioni che preſentino maggior ſomma degli elementi del gioco,
nella guiſa di ſopra accennata; l'altro in tal caſo dovrà eſami nare di quanto
il numero delle combinazioni a ſe favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre, ed
eligere che la porzione di depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione
quella che egli conferiſce nel gioco. Sia concertato per eſempio, che abbia il
premio del gioco quello che fa più numeri con i dadi, ed uno voglia gettarli
più volte, o in ugual numero di volte gittarne un mag gior numero, è manifeſto,
che dalla natura, e dalle leggi di queſto gioco, ſi potrà con le note regole
delle combinazioni ricavare in che proporzione debba egli eſporre all'azzardo
ſomma maggiore. Che ſe poi trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata,
che è allor.quando uno ſolo dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più
favorevoli combinazioni, in un dato numero di faggi, e ſotto certe leggi, e
l'altro guadagna full infauſto eſito dell'avverſario, ſenza tentare egli di per
ſe alcuna forte di gioco, è più difficile allora, ed è più operoſo il fiſſare
gli opportuni termini della noſtra proporzione. L'intenzione e l'oggetto dei
giocatori in tal caſo può eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione, o
di eſporla diverſa. Nel primo caſo il giocatore che intraprende, e faminata la
natura del gioco, e le leggi chę a lui propone l'avverſario, potrà ricavarne il
numero dei caſi favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni
nelle quali queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi
quelle condi zioni nelle quali, il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto
quello dei contrari, di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella
dell'altro, o al contrario. Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera
che ſi ſcuopra la faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una
ſol volta, ſiccome ha cin que combinazioni contrarie, e una ſola fa vorevole,
converrà, che l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore, altrimente la
proporzione reſta alterata. Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da
entrambi i giocatori, e ſi voglia più volte ricominciare, erinovare il gioco,
converrà oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero
dei caſi favorevoli, ſia uguale a quel lo dei contrarj, del che, e
relativamente al noſtro addotto caſo, e ai fimili, ne da una eſtefa tavola il
gran Bernulli alla propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti
tolato ars conje &tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta
proporzione è facile a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla
prima apparenza, ſenza internarſi profondamente nelle fue leggi. Diffi, quan do
fi voglia più volte ricominciare, e rino vare il gioco, per le ragioni addotte
dal Ber nulli nel loco citato; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente,
egli è evidente che chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6.
per eſempio, ed azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario, do vrà
chiedere di gettare il dado tre volte; e cid col patto che non s'intendano in
queſto numero compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima
faccia del dado già ſtata ſcoperta. Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi
di più, e ſi conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei
giocatori, e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione, e ſi vedrà
che non reſta punto terata la noſtra teoria, benchè coll’eſporre una
determinata ſomma ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero
dei giocatori (a ). Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco,
ridurli ai ſem plici dei quali è compoſto, ed eſaminare in ciaſcuno di effi le
ſovra ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il
Corollario del Teorema III. che i vantaggi, che ha in alcuni giochi il
banchiere, per eſempio nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima
carta, ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono
l'uguaglianza, perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi
medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata
dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è maggiore del numero dei
favo revoli al ſecondo; o in ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo azzarda
più del primo. Si pretende nonoſtante, che ſe ſi conſideri, non la relazione
che ha ciaſcun giocatore in particolare al banchiere ma bensì tutto il ſiſtema
del gioco, vi ſiano molti rifleſſi che giuſtifichino queſto vantaggio di
condizione. Una ſplendida ſomma ſottopone egli alla cie ca ſorte, e ſi obbliga
di laſciarla ſempre in pericolo. Il puntatore per lo contrario può voltar le
ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for tuna, che tenta in vano di placare; o aven
dola provata propizia può aſſicurare i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua
volubilità. Oltre 1 1 27 di ciò la ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari
giocatori, delle quali alcune per dendo può il banchiere rimanere ftremo, ed
eſauſto, ſenza ſperanza di tirar profitto dalla incoſtanza della fortuna; le
altre ſe vin ce appena gli recano un tenuiſſimo guada gno; la non leggiere
fatica per ultimo del banchiere medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i
vantaggi che egli ha nel liſte ma del gioco. Io preſcindo dall' eſaminare quale,
e quanta conſiderazione eſigano le accennate circoſtanze. Due coſe ſolo aſſeri
ſco. E che alcune di queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime,
eſſendo relative a circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il
gioco in ciaſcuno a par te dei puntatori relativamente al banchiere, come par
certamente debbaſi conſiderare, la alterazione della proporzione ſtabilita è
mol to notabile in iſvantaggio dei primi, e in manifeſta utilità del ſecondo.
Non voglio perd omettere, che eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la
ſerie dei vantaggi del banchiere per ogni pofta femplice, cominciando dalla
ſuppoſizione che vi ſiano 52. carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due
delle quali ſiano dell'iſteſſa figura, ſi è rilevato che la media, è il 5. per
100. Ma in tutto un giro quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei
pa roli o delle paci la forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24.
carte, allora la media diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze
che eſigono compenſa zione non variano in modo da efigere que Ita differenza (a
). Non ſi ha dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare
la com penſazione delli ſvantaggi del banchiere. Bi ſognerà dunque per
ottenerla, o fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra, e fotto
de' quali non poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta: 0 tentar di fiſſare più che
fia poſſibile una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il
vantaggio di ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite
fi fanno, onde ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo. 29
effendo un di più della poſta medeſima, ma conoſciuto, non altererà le giuſte
proporzioni fra il prezzo ed il premio: o diſperare per ultimo di poter mai
annoverare fra i con tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente
dalle fagge leggi vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una
certa fatalità luſinghiera, ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure,
alle dotte occupazioni, ed al domeſtico reg gimento delle famiglie, alle quali
recano sì di frequente irreparabile ruina; che non è già sì di rado, che una
carta di gioco, o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia
di molti infelici. Si aggiunge a queſto, che la dura legge del biſogno, e la
ſevera faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno
oneſte, e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo; talchè ſi verificano di
troppo i celebri verſi di Madama Deshouliers. Le deſir de gagner qui nuit
&jour occupe Eft un dangereux aiguillon; Souvent quoique l'eſprit, quoique
le coeur foit bon, On commence paretre dupe, On finit par etre fripon. E quanto
il gioco di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le
Leggi Romane al tit. De aleatoribus, e nei digeſti, e nel codice, e legga i
dotti commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre
riguardata come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que
gl’incauti quos praeceps alea nudat. Io però e nel gioco, e in tutti i
contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra
eſpoſta neceſſaria ugua glianza, preſcindendo affatto da qualunque carattere
che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi, e ai
retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo,
che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri; cinque dei quali ſi
eſtraggono da un vaſo, e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza, che eſcano
31 dall'urna miniſtra della fortuna, azzarda una data ſomma di denaro. Troppo
ſon note le leggi di queſto contratto, e troppo è facile il conoſcerne e
combinarne gli accidenti, per poter francamente aſſerire che non vi è forſe
contratto di azzardo nel quale, e più nota bilmente e più ſolennemente la
ſtabilita pro porzione reſti alterata. Sempliciſſimi elemen ti formano il
ſiſtema di queſto contratto, e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è
baſtevole per far conoſcere, che ſebbene una tenue ſomma di denaro può
cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro, pure a fronte di un caſo favorevole ve
ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua
dagnare da quella di perdere, che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio
per ricco e grande che poſſa parere. Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco,
non giova il dire, che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà a
queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione,
che ſarebbe al trimenti tanto leſiva. Queſto argomento proverebbe troppo in
genere di contratti, e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be
queſta maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la difeſa di
infiniti illeciti guadagni. Oltre di ciò la maggior parte di quelli che giocano
al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare, che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di
chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come generoſa e prodiga
quella mano che premia i vincitori, come ſe foſſe un gratuito dono ciò che non
è ſe non una piccola parte di un debito. Più ſolida difeſa potrebbe recarſi
riflettendo doverſi in queſto contratto dal padrone del lotto impiegare molti
miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può eſigere ragionevolmente un
riſarcimento; ma tutto ciò ancora non baſta a rendere giuſto queſto contratto
fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia ridotto. Troppo anche più enorme
era la diſugua glianza, prima che con lo ſtabilito aumento foſſe migliorata la
condizione dei giocatori; condizione però, che tuttora è aſſai inferio re a
quella del padrone del lotto. Quì però fa d'uopo dileguare un inganno comune a
moltiſſimi che hanno le vedute corte, e limitate dalla prima ſuperficie delle
coſe. Altro è l'aſferire, che il lotto conſide rato ſemplicemente come un
contratto è in giuſto; altro è il dire che un Principe giuſto non poſſa
ammetterlo nel ſuo ſtato, e debba toglierlo affatto, e ſradicarlo come un mal
nato germe della rovina di tanti ſconſigliati. Il lotto può conſiderarſi come
un tributo, che viene impoſto a chi ſpontaneamente con fente di pagarlo;
cangiandoſi così in vantag gioſo al pubblico, ciò che potrebbe eſſer tan to
pernicioſo al privato. Non ſi può deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a
cercare in queſta guiſa un propizio ſguardo della for te; nè ſi può immaginare
quanto ſia pungen. te lo ſtimolo che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con
una tenue ſomma di denaro, che azzardi, può guadagnare di che ſoſten tare una
languente e numeroſa famiglia, o pur talora dilatare i confini del proprio luf
ſo, o accreſcer anco tal volta un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri. Quindi è
che tanti, e 34 tanti ſi affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati
dall'idea, e ſedotti dalla luſinga di (a) Non può negarſi per altro, che
riccome tutte le cofe hanno un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che
naſce dall' uſo che può o vuol farne chi ne è padrone: può conſiderarſi ſotto
l'iſteſſo aſpetto anche il denaro. Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal
rapporto che egli ha alla maſſa delle coſe che ſono in commercio, può dirſi che
un altro egli ne abbia privato e ſpeſſo mutabile, che naſce dalla qualità
e quantità deibiſogni, o reali, o di opinione che à nelle date particolari
circoſtanze, chi lo poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto,
levato da una gran quantità, fia una piccola por zione di eſſa, relativamente
ſuperflua; onde il ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma
ragguardevole che rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè
fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado di probabilità, che detto valore nella
eſtimazione di chi lo gioca ſia conſiderato come zero, o come una quantità più
o meno ad eſſo approf. fimante, formandoſi perciò, per così dire, una nuova e
riſpettiva proporzione, ſecondo la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla
ſua parte. Queſto ſe non baſta, come ognun yede manifeſtamente, a render giuſto
il contratto ſerve a render qualche ragione del traſporto, che hanno a tentar
la forte in queſto gioco tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni, e
calcolar le ſperanze. 35 quel bene che ſperano, non penſano a mi. ſurare i
gradi della ſperanza medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero,
getta ſugli occhi loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio
filoſofo, e il più freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno
che poſſa reggerlo, e non legge che poſſa vincerlo. Se un Principe tol ga dal
proprio ſtato queſto oggetto dei co muni voti, la ſconſigliata avidità ad onta
delle più fagge leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi
precipiterà in altri ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il
lotto ſia proibito ed eſcluſo. Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a
queſto torrente, accid non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi
tutto a pubblico vantaggio, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano
follemente alla loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli
per il medeſimo, e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio,
neſſun nocumento però ne venga alla Repub blica. Così facendo il faggio
Principe, e non 1fi attira la taccia di ingiuſto, e merita tutta la lode di
prudente, di politico, di difenſore e cuſtode della pubblica felicità. Di
queſta verità ne conoſcono per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial
maniera quei popoli, che hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani
e benefici, che per l'uſo che fanno del loro erario, anzichè pof ſeſſori, ſe ne
moſtrano piuttoſto amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio. Havvi
un'altra ſpecie di lotti nei quali non è un ſolo il premio, nè un ſolo il colpo
fa vorevole della forte, ma molti ſono i premi, come molti e vari i caſi
propizi; e ſecondo l'ordine dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na, o ſecondo
altre leggi convenute in pri ma ſi decide del maggiore, o minor premio. Tale è
il lotto che ſi è fatto in Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia,
nella quale occaſione ſiccome ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità, e
penetrazione di ſpirito di chi ha ideato il progetto della grand'ope ſi è
diſtinta non meno la finezza, e il di ſcernimento di chi ha regolato il metodo
di ra;. 2 37 accumulare le gravi ſomme di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo
diſpendio. In queſto contratto come nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare, che
varie ſono le ſperanze e molte, perchè vari e molti ſono i premi, e che la
ſomma di tutti reſta come venduta a quelli che hanno comprati i viglietti.
Sicco me queſti hanno sborſato un ugual prezzo, così devono avere fra loro
ugual numero di caſi favorevoli e finiftri relativamente ai di verſi, o
maggiori o minori premi; quali eſſendo per lo più vitalizj, l'uguaglianza fra
gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de dalle regole, ſecondo le quali
ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj. Ma non ſi troverà mai eſatta queſta
uguaglianza, poichè una parte notabile del denaro che contribuiſcono gli
azionarj, non già nel numero o nel valore dei premi ſi impiega, ma ſi deſtina
alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe. In queſto di Murcia però così ſono
ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj, e ſono ſtati così grada tamente
formati i premi, e in tal numero, e così bene è ſtata regolata l'economia di
queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato mai un'altro lotto, in
cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma ne ceſſaria alla
deſtinata opera, e ſia ſtata me no alterata la proporzione a ſvantaggio de gli
azzionarj. Troppo ſon note le lotterie, che con al tro nome chiamanſi dai
Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le qualità, e i
caratteri di tale contrat to. Dall'economo del gioco ſi mette in un vaſo un
certo numero di viglietti, dei quali alcuni ſon bianchi ed altri neri, e ſi
vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo eſtraſſe
il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto medefimo. Ognun
vede, che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla regola mede ſima, che
ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere pubbliche, avuta anche quì
in conſiderazione la fatica, e il diſpendio dell'economo del gioco, e
riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono vitalizj. Queſto è un contratto
della natura di quello che dai 39 Latini chiamavaſi olla fortunae. In fimil
guiſa Auguſto dilettavaſi al riferir di Svetonio di compartir doni ai ſuoi
cortigiani, chiaman do così la forte ad eſſer miniſtra della ſua beneficenza.
Talora un ſolo è il premio che ſi diſputa fra quelli che giocano alla lotteria,
e allora ſe il premio non è denaro ma un altra coſa qualunque che abbia prezzo,
ſi giuſtifica più facilmente, giuſta l'opinione del Barbeirac, la notata
diſuguaglianza: e l'economo del gioco può vendere non ſolo tanti viglietti
quanti corriſpondono al valore del premio, ma ancora in maggior numero anche di
quello che altronde eſiger pud e l'opera ſua, e il diſpendio, quando ve n'abbia.
Queſti lotti fi riducono, dice il citato au tore ad una ſpecie di compra, che
ſi fa in comune, a condizione che la ſorte decida a chi debba appartenere la
coſa comprata. Se ſiavi adunque dell'alterazione nella propor zione, ſi potrà
conſiderare come ſe fi foſſe comprata la coſa ad un prezzo un poco più alto del
corrente; penſando che ciaſcuno tra 1 ! fcuri queſto di più che in altra fpecie
di con tratto gli parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe ranza di guadagnare il
premio più o meno fondata a proporzione che uno ha comprata maggiore, o minor
quantità di viglietti. Queſta mallima, che non è certamente di ri goroſa
giuſtizia, non ſi potrebbe eſtendere perfettamente a quei lotti nei quali, e
molti e di vario prezzo ſono i viglierti, e molti e di vario valore i premi; a
tutti quelli in ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione
dei ſingoli poſſeſſori di ciaſcun viglietto, benchè lo ſia riſpettiva mente.
Prima di paſſare ad altri contratti giovami riflettere, che anche quando il
padron del gioco, o qualunque altro che ne abbia di ritto pretende, che ſiano
valutate le ſue fa tiche e il ſuo difpendio, non tanto ſi può dire che
v'intervenga una compenſazione; quanto che ſi verifica di fatto a tutto rigore
la noſtra proporzione, giacchè quel di più che fi paga, non è a titolo di
compra della ſperanza, ma bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio, e fatica; e
per conſeguenza eſſendo una quantità eſtranea alla detta proporzione non la può
in verun modo alterare. Si poſſono ridurre ad un contratto d'az zardo
appartenente a queſta claſſe le ſorti ancora propriamente dette. La ſorte, dice
l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria degl'ora coli, è l'effetto dell'azzardo,
e come la deci fione, o l'oracolo della fortuna; ma le ſorti fono gli ſtrumenti
di cui uno pud valerſi per ſapere qual ſia queſta deciſione. Le ſorti ſono
ſtate in uſo preſſo i più antichi popoli; e la forte s'interrogava, o col
gettare i dadi colle proprie mani, o col gettarli da un urna: e ai caratteri,
ed alle parole che ſu i dadi erano ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che
ne contenevano la ſpiegazione. Altre molte erano le maniere di tentare la ſorte,
e di a ſcoltarne gli oracoli. E' incredibile poi quan iti, e quanto gravi
affari ſi regolaſſero a ta lento di queſta cieca divinità. Baſta leggere gli
autori che trattano dei voti che ſi offe rivano a Preneſte, e ad Anzio, e che
parlano diffuſamente delle forti Omeriche, e Virgiliane. I verſi dell'immortale
Epico Greco, nei quali dipinge con sì vivi tratti l'impeto, e il furore
dell'indomito Achille, ritrovati a caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la
fola innocente cagione della rovina delle più floride città, e della
deſolazione d'intiere Provincie. E ſe per lo contrario, aprendo i libri della
divina Eneide s'incontravano gli amabili colori coi quali ſi dipinge la man
fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe, gli animi tutti non reſpiravan che
pace, e quei pochi verſi baſtavano per dar fine alle guerre più ſanguinoſe.
Aleſſandro Severo, ſalito al foglio dei Ce fari, credette di averne avuto un
preſagio, quando privato ancora, anzi odioſo all'Im peratore Eliogabalo,
aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di Virgilio, s'incontrò in quel tratto,
ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e piange i'immatura morte di Marcel lo, e
preciſamente gli ſi preſentarono quelle parole fi qua fata aſpera rumpas Tu
Marcellus eris. Ma io non parlo propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi
eſſere le medeſime uno dei monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa. Io quì
parlo delle ſorti, che chiamanlı elettive, diviſorie, attributorie, e ſimili
delle quali brevemente eſporrò la natura e le qua lità, ed applicherò alle
medeſime i più volte enunciati Teoremi. Due, o più perſone han diritto ad una
coſa medeſima; eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non
vogliono gettare, nè tempo, nè denaro in ſuſcitare queſtioni; aſcoltano anzi
ſentimenti più miti, e commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè
affidarlo alle lun ghe, e diſaſtroſe vie dei Tribunali. Conſe gnano i loro nomi
all'urna diſpenſatrice della forte, e quello è giudicato favorito dalla me
deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico, e ſolo
padrone di quella coſa alla quale avea con gli altri ugual diritto. Che ſia
lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non
v'ha dubbio alcuno, giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi
ſotto una condizione tale, che il purificarſi la mede fima dipenda dall'incerto,
e vario evento della forte. Ora ſe i diritti ſono uguali, ſe quanti fono i
concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna, ecco che i prezzi che
vengono rappreſentati dai diritti che ſi az zardano, ſtaran fra loro come i
numeri dei caſi favorevoli ad uno, al numero dei caſi favorevoli a ciaſcuno
degli altri riſpettiva mente; ed ecco ſalvata l'uguaglianza di pro porzione fra
i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i riſpettivi prezzi della ſperanza, la
ſomma dei quali è l'oggetto della medeſima nel caſo di cui ſi tratta. L'iſteſſo
può dirſi a proporzione, quando uno abbia un diritto, per eſempio doppio di
quello degli altri; e baſterà che in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome
all' urna fata le; e così dicaſi di altri ſimili caſi. E di fatto queſto
contratto a farne una giuſta analiſi ſi riduce ad un gioco di pura forte, in
cui molti depoſitando ugual por zione un ſolo guadagna tutte le porzioni de
poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato; e ſi 45 è detto, che uno depoſitando
maggior por zione, pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe.
L'iſteſſe maſſime regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano, quando molti
avendo un privato diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità,
troncano ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte, L'iſteſſo dicaſi
delle ſorti diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap
poggiano ai medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la
proporzione che coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti, Fin quì fi è
parlato di quei contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar
tengono. In effi fra la ſperanza che ſi acqui ſta, e il prezzo con cui ſi
acquiſta ſi può fif fare un eſatta, inalterabile, e matematica proporzione.
Note fono tutte le cagioni che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto
evento della ſorte, ſi conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le
varie combi nazioni, e ſi fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo
dei quali queſte fi forma no. E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa
applicare lo ſpiritoſo Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota
della fortuna, e ſopra di eſla una ſemicirconferen za di cerchio, che con le
ſue diviſioni ſerve a regolare quei capriccioſi giri, che ſono l'og getto di
tanti voti, e la cagione di tante vi cende dei mortali. Chi intraprende queſti
contratti pud, direi quafi, venire alle preſe con la ſorte, e conoſcendone la
forza e l'ar mi bilanciare il deſtino della lotta fatale. Non è così certamente
nei contratti che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono, ne' quali il rapporto
neceſſario a formare l'uguaglianza fra i contraenti, ſi appoggia alla ſola
ſperien za del paſſato, e a cagioni incerte, e varia: biliffime. lo ſo bene che
ſi ſono pur trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe. La
prima, che nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono
fortunoſi e irregolari, ſiavi un ordine coſtante, eun'originale diſegno per cui
dirette da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate
leggi, eſcano a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del
Mondo. La ſeconda, che l'irregolarità, che non agli eventi medeſimi e alle
vicende, ma alle noſtre cortę vedute deveſi attribuire, ſcom parirà finalmente,
e replicate l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita, e
ſi conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che
regolano con sì bella armonia l'intero univerſo. Da queſte due propoſizioni
argomentano, che dunque dopo un dato tempo, ſiccome cre ſcendo il numero delle
ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un
evento, che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la
regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza. Ecco
ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni Filoſofi, alla teſta dei quali
è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi
penetrali l'ordine della natura, e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto, che
non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego
lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo. Egli è
veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel
grande impulſo, che poi la mantiene in moto coſtantemente, e dal quale come da
prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima, benchè
immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono, e
le dan forza. Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa
per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano
di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele. Le grandi vedute di un
politico illumi nato, che formano il ſoſtegno e la forza del Trono, non ſono
agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute
cure di un ſelvaggio, dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita, e a
difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni. Che poi l'Eterna mente che tutto sà e
49 za, o del tutto regola, abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la
ſerie delle umane vicende, e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi
ſiavi un rapporto più che un altro, un tal'ordine e non un altro, queſto è
quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai. Che dopo un certo periodo
ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento, chedopo certe rivoluzioni torni
l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien
potere eterno, e ſovrano? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le
idee, che noi abbiamo di ordine, e conneſſione. O non vi è relativamente agli
occhi divini ordine e regola; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta; o
tutto deve dirſi averla ugualmente. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di
coſe infiniti altri pof fibili, vede un punto che non è ſuſcettibile di quei
rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite; o ne vede infiniti
altri, per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che
noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione, d 50 Ma non è forſe neppur vero
eſſere più van taggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta
regolarità. Fra le infinite vedute, che l'occhio im menſo ha preſenti per il
vantaggio delle ſue creature, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza
dell'altre? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe
che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione,
e ad allontanarne l'orgoglio: e ſe un padre, ben chè benefico fa l'iſteſſo
co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto, che ad animarne la cieca
confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore. Non vi è
dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi
fogliono chiamare fortuiti, e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu
che fondamento ſi aſſeriſca, che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta
comparir chiara, e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che
alla ſcarſezza delle noſtre notizie, e alla mancanza di eſperien ze, in tale
ipoteſi deveſi attribuire. SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un
evento, oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce, le circoſtanze che lo
accom pagnano, e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni.
Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in
quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare. Da queſto ap punto
argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a
ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a
ſenſo loro dalle noſtre corte vedute, e la regolarità che eſiſte di fatti
nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le
varie vicende. Replicando adunque le eſperienze, rinovan do le offervazioni, ſi
potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza; e a ſquarciare del tutto
quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità. Di fatto
ſoggiungono, che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è
una parte? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà
arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto: ed ecco fiſſata la
certezza di quegli eventi, che ſi fo no ſempre creduti giochi, e capricci di
una irregolare fortuna. E' egli per altro evidente queſto diſcorſo?
Potrebb'egli un animo, che non voglia ar renderſi ad altra forza, che a quella
della ve rità, dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno
hanno tenuto per certo? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei
quali ricompariſce l'evento medeſimo, convien riflettere di non notare ſe non
quelle volte, nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze. Se
così è, e ſe queſte ſono preſſo che infinite, e in finitamente variabili, ne
verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento
farà sì vaſta, e il circolo che la rappreſenta sì ampio, che o non ſi potran no
da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote, o sì poche ſe ne
po tranno fare, e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai
arrivare al 53 grado di confonderſi con la certezza. Tra= laſcio di oſſervare
che un evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed
eſſervi nulladimeno tanta va rietà, che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe
sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi
ri chiamare. Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che
fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire, e queſte in quante
maniere poſſano combi narſi; e vedremo, ſe per quante ſi vogliano replicate
ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre
volte fi videro accompagnare un evento, la eſiſtenza del medeſimo. Quelle
ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno
conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote, che innumerabili ſono
ancor eſſe, e capaci di innumerabili gradi di alte razione. E quì potrei
ricorrere a tante fiſiche teorie, le quali dimoſtrano, che un gran fe nomeno
può avere la ſua prima ſorgente, tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri, e
tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare; talvolta sì piccola, che dopo
averla conoſciuta, ap pena ſi può credere che da eſſa derivi. E la ragione, e
la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero
l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di
offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me, (ſe vogliano porſi
in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono, è relative ad oggetti ſimili ) e
l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità. Di quì deriva,
che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima, che la probabilità di
queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza. E quì fa d'uopo
riflettere, che la proba bilità, e la certezza ſono due atti eſſenzial mente
fra loro diverſi, come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità
che arrivi un evento, e la certezza, vi è di mez zo una ſerie infinita di
poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına pro. 55 babilità
e viene eſcluſo dalla minima cer tezza, è una barriera inſuperabile, per cui
non ſi poſſono giammai fra loro confon dere, ed è quello appunto che le rende (ſia
mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale
ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili. Le prime
oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento, non poſſono dargli
che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della
irregolarità, e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di
verſi, che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo. Siccome adunque
per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto
moltiplicare per l'in finito, così queſto grado di probabilità do vrebbe
ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi
poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza. Parlo di caſi nei quali la
ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza, è
compoſta di cauſe, che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere, e poterſi in
infinite maniere combinare. Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render
certe, o almeno eſcludenti un pru dente dubbio, alcune ſempliciſſime leggi
della natura, dove tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre
cagioni poſſibili, che anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi
deduce non eſſervi luogo a ſoſpettare che altre ve ne ſiano. E' ben diverſo il
caſo noftro ove trattaſi degli eventi che danno occaſione ai contratti di
azzardo; e riguardo a quali ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la
maſſima che promette che ſi abbia a cangiare in una aſſo luta e rigoroſa
certezza, quella che è mera probabilità, e forſe capace di creſcer ſolo pochi
gradi. Che non pud fare l'amor di ſiſtema? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a
portar lume ai più aſtruſi miſteri della geometria, e ad ana lizzare le
coſtanti leggi della natura col più felice ſucceſſo, ſi lancia ardito dal
gabinetto $ 7 di un filoſofo, e prefume di porre in mano ai mortali un filo che
ſegni la traccia co ſtante degli eventi più incerti, e di aſſoggets tare alla
ſua eſattezza ed uniformità, quan to v'ha di più vario, e mutabile. Non ſolo
hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne
riſpettato dai morbi, e dalla ineſorabil morte; ma hanno fperato di poterlo tro
vare anche in quegli eventi che più dipen dono da cauſe morali e libere, le
quali agi ſcono certamente, non perchè così voglia un ordine e non un'altro, ma
perchè così vo glion eſſe, e non altrimenti. Si è perfino tro vato chi ha
propoſto le tavole degl'incendii, delle cadute fatali da un precipizio, e di
molti altri ſimili fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in
eſſi a ſuo tempo regola, ed ordine. Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi
fiche cauſe trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie
concatenate, in guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che
un'altro; non ſi potrà mai dire 1 1. $$ altrettanto quando vi abbia luogo una
libera volontà che non ſiegue ordine, o conneſ fione, e che può produrre
un'atto ſenza rap porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto, o che
ſia per produrre in appreſſo. E ſe è vero, che negli eventi, e nei caſi preſi
in compleſſo di tutte le loro circoſtanze, e in quelli ſpecialmente che ſono il
ſoggetto dei contratti di cui parliamo, qualche o più proſſima, o più rimota
influenza vi hanno le cauſe morali; che ſi può egli penſare di più ſtravagante
che il volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro
babilità in certezza? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e
confuſe foglie, che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer
dotella di Cuma? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero
l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in
qualche certezza la probabilità, pro vano almeno, che per noi, e per ben mol te
generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca; giacchè per molti, e molti
ſecoli, (ac cordando anche più di quello certamente, che ſi può ) non ſi potrà
vincere quel diſordi ne, e irregolarità almeno apparente, che of ſervaſi nelle
umane vicende, e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto, che
pud conſiderarſi come infinitamente diſtante. Dal fin quì detto per altro non
ſi può ra gionevolmente inferire, che dunque dal com mercio degli uomini ſi
debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle
ſopra indicate clafli. Per provare la verità di queſta aſſerzione convien
fiſſare due maſſime conformi alla ragione, e che ſe non erro ſono il fonda
mento al quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza
fra i contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine
vago, e che non ha affiffa alcuna idea, ſe allo ſtato di natura vogliam rimon
tare. Il prezzo delle coſe introdotto o dalla legge, o dalla conſuetudine che
imitatrice della legge la vince di autorità, ecco ciò che ha chiamata l'
uguaglianza a preſiedere ai contratti. Alla ſocietà dunque, e alle fire maſſime
deveſi attribuire. Si eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che
nelle ſue maſſime generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello
ſpirito della medeſima l'eſcludergli, e l' eccettuarli. Si riduce al lora la
queſtione, ad eſaminare ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e
ſe nelle bilance del pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che
recano, o la preciſa offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti,
che è tanto neceſſaria generalmen te alla quiete, e felicità degli individui, e
al buon ſiſtema, e conſervazione di queſto cor po morale, e politico. Pochi
elementi, e poche idee ſciolgono il problema. Induſtria eccitata, commercio
invigorito, circolazione ampliata. Vantaggi fono queſti generalmente procurati
da tali contratti ben regolati, come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo
ſpirito, e le conſeguenze. Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo
rifleflo. In queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta
ugua glianza di condizione, perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro
forte. Ma ciò che manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi. Ad
entrambi è egualme ite i gnoto per chi debba eſſere il vantaggio, e per chi il
diſcapito, potendo ugualmente nel caſo noſtro, e l'uno, e l'altro a ciaſcun di
loro arrivare; e queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale, la quale pud
ſupplire a quanto manca alla perfetta uguaglianza. Diſli alla perfetta
uguaglianza, perchè le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate, vacil lano ſoltanto,
perchè oltrepaſſano certi li miti, dentro dei quali rinchiuſe provano
moltiſſimo, rapporto alla uguaglianza che deve eſſere nei contratti della
ſeconda claſſe. Inteſe le maſſime con la dovuta moderazio ne, è veriſſimo che
eſtraendo da un'urna ove ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti
neri, quante più eſtrazioni fi anderan no facendo, tanto più creſcerà la
conoſcen za del rapporto che hanno fra loro: è verif fimo che le oſſervazioni
ſegnate in tavole danno ai giovani la prudenza dei vecchi: ed è incontraſtabile
che quanto più ſpeſſo ac caderà in natura un evento, tanto più ſi po tranno
attrappare le circoſtanze che lo ac compagnano, e farà meno irragionevole l'in
duzione che dalla eſiſtenza di queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello.
Si potrà dun que avere un qualche dato per eſaminare la probabilità di
un'evento, e proporzionargli il prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza. Per
formare una ſerie dei diverſi gradi di tale probabilità gioverà eſaminare un
qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte;
poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una giuſta analiſi, o alme no
egualmente chiara, ſe fi conſideraſſero le idee in aſtratto, e ſenza applicarle
ad un de terminato ſoggetto. Fra tutti i contratti che ridur ſi poſſono a
queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente eſaminata
l'aſſicurazione, Efla è un contratto per cui uno dei contraenti ſi obbliga a
riparare tutti i danni che può un altro ſoffrire nelle ſue merci per naufragio,
o altre convenute cagioni; e queſti ſi obbli ga a pagarli una determinata
mercede in com penſo del pericolo al quale volontariamente ſi eſpone. 1
Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio per tutto il Levante aveano
fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di lo devole induſtria, e
fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno ſtato, e che fu ſempre del
loro carattere, furon quelli che riduſſero a certe leggi queſto contratto, e
gli diedero for ma e credito. Inſegnarono così alle altre na zioni commercianti
a tirarne quel profitto, che il profondo, ed illuminato Melon aſſe riſce dover
eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di eſperti, ed avveduti aſſicuratori.
Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb bonſi i primi capitoli di aſſicurazione
che furono diſteſi negli anni 1523., e 1525. A queſti ſucceſſero negli anni
1563., e 1570. le ordinazioni di Olanda. Non è ſtata queſta l'unica occafionein
cui abbiano, gareggiato in fatto di commercio 64 queſte due nazioni, la prima
delle quali ha faputo ſempre profittar pienamente delle fe lici fue circoſtanze,
e la ſeconda compenſare ognora in mille modi i danni della infelice ſua
ſituazione; e inſultar quaſi alla natura di ayerla in eſſa collocata. Gli
ſcrittori che hanno trattato di queſto contratto lo diſtinguono in due ſpecie.
La prima chiamano eſſi aſſicurazione propria mente detta, ed è quando le merci
che ne ſono l'oggetto appartengono di fatto a quello che ne chiede
l'aſſicurazione; e queſto è ciò che intendono ſotto il nome di riſico dell'
aſſicurato; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog gette a pericolo, o com'eſſi
dicono a ſiniſtro. Per la validità di queſto contratto ricercaſi la coeſiſtenza
del riſico, e del ſiniſtro; ed è quanto dire, che l'aſſicuratore non deve pa
gare la ſicurtà, nè l'aſſicurato la mercede, ſe le merci avean corſo già il
loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto, o ſe non apparten gono
all'aſſicurato. Per maggior comodo poi, e dilatazione di commercio fu
introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie, ma non nella
ſomma che ſi afferiſce, e che cade ſotto l'aſſi curazione: o appartenenti
affatto ad altra perſona. In queſto contratto il fondamento conſiſte nella fola
eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare un'apparenza di Scommeſſa
della quale però gli mancano ſe condo molti, alcuni caratteri. Anche in queſta
ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci ſiano in pericolo ancora
quando ſi fa il contratto; benchè in alcune piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo
che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi ſti puld il contratto,
purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti. Per ridurre pertanto in
qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta
regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di azzardo, fa d'uopo
con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono full'evento incerto, che ne
forma l'oggetto. Altre ſono le cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo
della materia agiſcono in dipendentemente da qualunque libera deter 66
minazione di una cauſa ſeconda; il mare cioè più o meno ſparſo di pericoli,
agitato da vortici, terribile per gli ſcogli; il vento che tormenta più un ſeno
di mare che un altro, e domina più in una ſtagione, che in un altra; la qualità
del naviglio, più o me no capace di reſiſtere agli urti, e di inſul tare gli
Aquiloni; e finili altre che a que ſte ridur ſi ponno, anzi con queſte confon
derſi. Più incerte affai, e più indocili all'eſat tezza del calcolo ſono quelle
cagioni che mo rali ſi chiamano, perchè o conſiſtenti nella libera
determinazione di un ente creato, o da quella dipendenti almeno mediatamente.
La deſtrezza, e la buona fede del capitano: l'abilità dei marinari e dei piloti:
il nume ro, e la gagliardìa dell'equipaggio: la mag giore o minor frequenza dei
pirati che infi diano fraudolenti, e poi attaccano rapaci; o dei nemici
armatori che appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti
della guerra, ſono o le uniche, o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali.
67 i Se il fondare un calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è
impoſſibile: il fondarlo che ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo: lo ſarà
molto più l'appoggiarlo alle cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione
di mo vimenti, e d'impulſi che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che
operano per una mera libera determinazione, che per qualunque congettura la più
apparentemente probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul
momento abbandonarſi, per cangiarla in una affatto diverſa, e talora dia
metralmente oppoſta, e contraria. Un canone perd univerſaliſſimo, e da non
preterirſi giammai in queſto contratto, parmi quello di non conſiderare neſſuna
cauſa, o fiſica, o morale, ſeparatamente o iſolata dalle altre; ma di oſſervare
l'influenza reci proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra, e
quella non meno che hanno ſulle morali; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto
alle fiſiche. Il momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente
è combi nata, o temperata colle altre. e 2 68 Per conoſcere però quanto poſſano
queſte cagioni, e ſingolarmente preſe, e in complef ſo, è neceſſaria una lunga
ſperienza. In queſto contratto, per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte
quelle combinazioni, che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore, e perder
la nave, nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili
violenze, la confe gnano al ſoſpirato porto. Fatta una tavola di accurate, e
frequenti oſſervazioni, e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze
ſiaſi perduta la nave, e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine;
la ſomma delle prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri; e quella delle ſe
conde ſi tiene per il numero dei favorevoli; e ſu queſti dati ſi forma la
proporzione da noi ſtabilita nel III. Teorema. Queſta è la ſpecifica differenza
che paſſa fra i contratti del primo genere, e queſti che al ſecondo
appartengono. Nei primi entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini
ſtri, e favorevoli, perchè ſi fanno tutti, e ſe ne conoſce perfettamente il
numero; noi 1 69 ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto, che dopo una lunga
ſperienza ſi ſono oſſervati; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri
pof ſibili, i quali perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in
proporzione di no tati. La proporzione ſi accoſta tanto più al vero, quanti più
ſono i caſi oſſervati, come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto
numero di palle bianche e nere: delle quali con tanto minor pericolo di errore
ſi può fiffare la proporzione, quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione.
In una parola, nei primi è incerto l'eſito della ſorte; nei ſecondi è incerto
anche ciò che può determinarlo. Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti
perfettamente delle medefine circoſtanze. Fa d'uopo adunque per formare la
propor zione ricorrere alle diverſe tavole, ove ſono notate le circoſtanze
preſe ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti
i dati della proporzione. Scioglie una nave dal Porto, e veleggia per un mare
tranquillo, e placido; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione
da ſtabilirſi fra il valor delle merci, e il prezzo dell'aſſicurazione; e la
tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe
queſta nave corra un pericolo di pirati, o di nemici che le altre navi facendo
il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai, nel formare la proporzione vi
entra anche queſto elemento, la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre
naviga zioni benchè fatte in altri mari, e ſi compone il minor pericolo che ha
queſta veleggiando per un mare tranquillo; col pericolo che cor ſer altre per
la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com
poſte di varj elementi, il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole,
non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca
loro influenza. Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far conoſcere
i gradi di probabi lità dell'eſito lieto, o infauſto. Monta per la prima volta
un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato naviglio alcuno:
infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche ſcoglio che
alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei quali ignoraſi
per anco il numero, ed il valore, o a meglio dire la violenza della eſecrabile
loro ſete dell'oro e del ſangue; chi potrà miſurare i gradi dell'influenza che
ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo, e ſull’infauſto
l'ardire, e la forza dei ſecondi? In tal caſo per quanto vogliaſi dare un va
lore anche a queſte circoſtanze nuove; fon dandolo ſu qualche piuttoſto appreſa,
che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però che ſenza una più
volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione di cui ſi
calcolino i gradi, e ſi nume rino i valori; e ſenza di eſſa non ſi può for mare
una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali contratti.
Tutto alla fine ci conduce a riflettere, che una e fatta proporzione nei
contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai; che in molti caſi ſi
potrà avere meño lontana dall' eſattezza; in altri ſi troverà dalla medeſima 72
più rimota, come dal fin qui detto chiara mente appariſce. Ma forſe gli
aſſicuratori interrogano que ſte tavole, formano calcoli, e ſciolgon pro blemi?
Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni
degli uomini e le bilancia, conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a
ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi
otterrà facilmente, quanto più ſiano frequenti queſte tavole, e numeroſi i caſi
che ad eſſe, come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi
accorto ed illumi nato le conſulta, o le deſidera; l'indotto, e meno avveduto
ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore, o minor frequenza de' fini ſtri
nelle date circoſtanze ſeguiti, e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo
giudicio più o meno eſatto, e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio
dell'incerta forte. In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore, è
il valore delle merci, che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all'
aſſicurato; quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga
all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo. Ma ſiccome fatto il
contratto di aſſicura zione, l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare
all'aſſicuratore la convenuta merce de, pare a prima viſta che per l'aſſicurato
non ſiavi azzardo alcuno; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa
la ſua forte; o a dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo
alcuno la forte. Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal
contratto, per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della
ſorte ſicco meancora l'infauſto. Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende
il contraente pago, e contento di aver fatto il contratto; talmente che ſe
aveſſe pre veduto l'eſito, conſultando ſolo il ſuo van taggio, l'avrebbe
nonoſtante fatto, anzi con tanto maggiore alacrità. Per lo contrario infauſto
può dirſi quello che in qualche modo gli dà occaſione di pentimento, in guiſa
che ſe aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora
quantunque 74 l'aſſicurato, fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare
la mercede, qualunque ſia l'evento; quando però la nave giunga a ſal vamento, è
in caſo di pentirſi del ſuo con tratto; poichè ſe non lo aveſſe fatto, e avreb
be avuta ſalva la nave, e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita
mercede. In queſto ſolo ſenſo, e non in altro, che ſareb be troppo contrario
all'umanità, poichè ſi riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no, che
neppur ridonda in proprio vantaggio, ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato
il caſo del ſalvamento della nave; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al
carattere di una vera ſcommeſſa, di cui è eſſenziale ſe condo alcuni, che
l'avvenimento favorevole ad uno dei contraenti, ſia per l'altro infau ſto, e
ſiniſtro. Conchiuſo il contratto, l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità,
deſi dera che ſi falvi la nave, ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il
contratto. Quello che non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo, ſi è nella
perdita di una na ve, la minore, o maggior quantità di merci, ! 75 che
ritoglier ſi potranno all'ingordigia dell onde, e ritrarre al lido; lo che
ſuccede mol te volte, e fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di
un carattere egualmente dannoſo; ma diverſi, a miſura, che più o meno delle
aſſicurate merci, ſi perde, e ro vinafi. Il poter prevedere, e calcolare in a
vanti tal quantità influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato
promet te. Ma chi potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra
un sì variabile ac cidente? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente
queſta varietà di combinazioni; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto
valore? I principj fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto, quando ha
per oggetto merci affidate al pericoloſo traſporto di mare, pof ſono facilmente
adattarſi alle merci traſpor tate per terra; anzi alle merci, o ſituate nei
magazzini, o in altra maniera cuſtodite. Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un
fatal accidente, e per quello perire, o deteriorarſi, fi fa eſſere oggetto di
queſto contratto. Anzi il guaſto di un incendio divoratore, le ruine 70 di un
turbine procellofo che abbatte caſe, porta la deſolazione per le campagne, la
vio lenta incurſione di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e
alle tenebre della notte dalle timide mani infidiatrici, ed altri pericoli di
tal fatta, che a prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di
divinazio ne, ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con
la ſorte, ſenza che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo
e colla maggiore ineſattezza, miſurarla. Un'altro contratto non meno
intereſſante, e che appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi
vitalizio. Gli uomini non contenti di affidare la loro forte a tante, e sì
varie combinazioni che alterano, e modificano sì ſtranamente gli ef Teri
inanimati; hanno voluto che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili, ed
hanno fatto sì che un uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo
tempo sì prezioſo dono del cielo. La vita iſteſſa è venuta tal volta in
bilancia con un tenuiſſimo guadagno. Il vitalizio altro non è che l'annuo inte
77 ! reſſe di un capitale collocato a fondo per duto. Chi colloca in tal guiſa
il ſuo capitale lo fa ad oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello
che riſerbandoſene il dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con
tratto e a coloro che non avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue
o di amicizia, o che non curando le veci dell' uno, o dell' altra, non hanno
nulla che gli ritragga dal provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei
biſogni che ſono figli del più molle, e faſtoſo luſſo; e a quegl' infelici, che
ſenza queſto compenſo condur dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno
all'inopia, e allo ſqual lore. Il vantaggio di liberarſi da tante fre quenti, e
penoſe cure della domeſtica eco nomia luſinga molto, ed è talor neceſſario, a
chi trovandoſi in un'età cadente, accom pagnata per lo più da una infaufta dote
di mali, vedrebbe da mercenarie mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi,
rendergli un frutto di gran lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne
perchè diviſo con tanci domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi
carica di pagare un frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di
fare in un colpo l'acquiſto di una ragguardevole ſomma, ma di vedere la vita di
quello a cui lo paga non oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita
ecceſſiva af forbiſca il capitale, e la ſomma degli inte reſſi ordinarj, che
egli ne ha ritratti. Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di
anni che fatta la ſomına delle an nuali rendite vitalizie, queſta ſuperi il
fondo perduto e di più le rendite ordinarie del medeſimo. Favoriſce il ſecondo
ſe la morte fi affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro.
Ecco lo ſpirito di queſto contratto. Per rintracciare nel medeſimo la
neceſſaria uguaglianza, e per verificare i noſtri teore mi è neceſſario
riflettere, che sborſato il ca pitale che ſi perde, e fiſſata la rendita mag
giore dell'ordinaria, vi ſarà un certo nume ro di anni, per il corſo dei quali
ſopravi vendo, la ſomma degli ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria
uguaglierà il capita 6 79 le. Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro
di ſopravivere un tal corſo d'an ni, non potrebbe eſiger di più di queſta de
terminata rendita vitalizia. Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro
di vivere un determinato numero d'anni; per poter rendere eguali le condizioni
dei contraenti, è neceſſario fiſſare un tal numero d'anni, che la probabilità
di ſopravivere ſia uguale a quella di premorire, e che al caſo che uno
ſopraviva o due o tre anni, o qualunque altro numero, ſi poſſa con ugual
probabilità contrapporre il caſo che muoja un egual nu, mero d'anni prima.
Quando dunque ſi tratta di formare un vitalizio, conviene eſaminare quanto
abbia ſopraviſſuto un gran numero di perſone, per eſempio mille, all'età di
quello che vuol farlo. La ſomma di tutti gli anni che tali perſone hanno ſopraviſſuto
di viſa per il numero delle medeſime, dà un numero, che ſi chiama l'età media.
Trovato queſto, ſi ſuppone che chi fa il vitalizio deb ba ſopravivere fino a
tal termine, e ſi fa il diſcorſo che ſi è detto di ſopra, quando ſi è 80 fatta
l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di vivere nè più nè meno un determinato numero
d'anni. Nel fiſſare la media ſi ſono conſide rati gli eventi che poſſono
favorire il caſo della ſopravivenza eguali in numero a quelli che vi ſi
oppongono; uguaglianza che ſi ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà mag
giore il numero delle vite dalle quali ſi ri cava la media. Ecco dunque, come
in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale al timore, e per con ſeguenza può
aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla giuſtizia, ed ecco finalmente ridot to
il contratto ai termini dei noſtri teore mi. La ſomma del capitale più le
rendite ordinarie, che è il prezzo eſpoſto da chi perde il fondo, deve ſtare
alla ſomma delle rendite vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro
contraente, come il numero dei cafi favorevoli al primo, al numero dei caſi fa
vorevoli al ſecondo; i quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata
ragione, ne ſegue che la ſomma del capitale, e delle rendite vitalizie dovrà
eſſere eguale alla fom 81 ma del capitale, e delle rendite ordinarie computando
tal ſomma fino al termine del la vita media, che per ipoteſi ſi dà ſtabilito
per l'indicato calcolo. Si ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a
diſtribui re per detto numero d'anni queſta ſomma; o ſia a rendere anche più
ſemplice l'eſpreſ fione, ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie
il capitale diſtribuito per detto numero d'anni. E'evidente che per rendere in
queſto contratto le condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu
mero di vite per formar la media. E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la
probabilità della du rata di una vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi
in certezza, ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto: lo che dee dirſi
di tutti i contratti di azzardo. Si penſa a can giare la probabilità degli
eventi in certezza. Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca
divinità alla quale ſi abbando nano gli uomini per formarne un ramo di
commercio. Vogliamo adunque miſurar la forte, non eſpellerla. f 82 Tanto più
farà facile in queſto contratto fiſſare la media, quanto più ſaranno ridotte a
claſſi diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano le età. Qualità di
profeſſione, carattere di temperamento, indole di clima, eligono ſeparate
oſſervazioni. In fatti, ſiccome per cali favorevoli s'intendono quelli per i
quali ſi prolungano le vite, per contrari quelli che le abbreviano; e i ſecondi,
nel fillarſi l'età media vengono conſiderati moralmente ugua li di numero ai
primi; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla vera, quanto maggiore ſarà la
parità di circoſtanze. Se abbiaſi però riguardo non ſolo alle an nue rendite
vitalizie, ma al frutto delle me deſime, potendoſi eſſe, e il frutto loro
cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera; fic come quello che paga l'annua
rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello che ritrae; dovrà a
proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'ordinaria. Queſto
però non ſi oppone alla verità del teorema terzo; poichè in tal caſo il prezzo
che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non farà più quell'ecceſſo
della rendita vitalizia ſull' ordinaria, che naſcerebbe dalla fillata
proporzione; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re, quanto è la differenza del
frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente, e per ferie
cangiato in forte fruttifera, dal frutto della rendita ordinaria conſiderata
nell'iſteſſa maniera, e così cangiandoſi pro porzionalmente le eſpreſſioni dei
due prezzi, non ſi cangerà l'analogia. Non farà difficile il perſuaderſi
dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte totale per
eſempio A, e una di lei porzione C, alla quale corriſponda l'annuo frutto B,
ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve ogni anno
nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte, eſpreſſa dalla ſeguente formola.
(C + B ) A,(B ) A (C (C + B С N o ſia eſprimendo per Nil numero degli anni
ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi cangia in ſorte fi
avrà una ſe C_A f 2 84 rie aritmetica il di cui primo numero cor riſpondente al
primo anno farà il capitale col frutto; il ſecondo il capitale col doppio del
primo frutto; il terzo il capitale col tri plo del primo frutto. Il valore
adunque del frutto del primo anno ſarà la differenza dei termini di queſta
ſerie. Siccome poi nel caſo dell'ultima ipoteſi, tanto la rendita ordiną ria,
quanto la vitalizia ſi cangiano in forte; fatte le due ſerie di potenze ſecondo
la eſpo fta formula, e ridotte ai termini individui del caſo di cui ſi cerca,
ſi conoſcerà il valore della ricercata differenza. Richiaminſi però a queſto
contratto i prin cipj ſtabiliti in quello dell'aſſicurazione, e ſi abbia in
viſta che per caſi favorevoli, altro non s'intende, che il numero di quelle per
ſone che in parità di circoſtanze hanno ſo pravviſſuto un dato numero d'anni,
per ſi niſtri poi il numero di quelle che ſono man cate prima; che queſta
parità di circoſtanze vien compoſta talora da molti elementi il valore de'quali
dev'eſſere prima a parte no tato; e che la vita dell'uomo dipendendo da 85
cagioni fiſiche e morali, fa di meſtieri riflet tere al diverſo loro carattere,
e alla recipro ca influenza delle medeſime. Lodevolilimo però è l'uſo di far le
tavole, o regiſtri, nei quali ſi notino la naſcita, la morte, e gli altri
accidenti della vita umana; poichè queſte ſole appreſtano il fondamento ſu cui
ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti; ed elle ſole danno la miſura delle
forti, e delle aſpettative dei contraenti. Sarebbe in conſeguenza deſiderabile
che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente le qualità, e gli accidenti
dellemalattie che egli tratta; ſiccome quelle del temperamento di ciaſcun
malato, che egli libera, o che non può ritrarre dalle prepotenti fauci di morte.
Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche riſparmierebbero molte volte la
pena di com binarne molte formate da indotti oſſervatori, anzi fovente
farebbero neceſſarie; poichè l'imperito regiſtratore omettendo tutte le
circoſtanze, o alcuna almeno delle eſſenziali, rende inutili le ſue
oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore, o irri
fleſſione. 86 Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura
della vita d'un uomo? Quot non ſunt caufae, dice S'graveſand intro duft. ad
Phil. a quibus vita hominis pendet? Una di queſte tavole forſe la più eccel
lente, perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie, è quella di
Pietro Süſmlich da lui intitolata: La divina providenza nelle vicende
dell'umana ſpecie, dimoſtrata dall'or dine delle naſcite, morti e
moltiplicazioni. Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le
annue penſioni vitali žie, e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra.
Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre
nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria, e di
curioſità, che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre
con la vera, ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche,
ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla
luce un libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte 87 í per un lungo
corſo d'anni. Più palpabile però, per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo
Filoſofo, e più immediata ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla. Vi è
tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità, ed efficacia dei
noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente.
Già dai regiſtri delle na ſcite, che la noſtra fanta religione rende neceffari,
ſonoſi ricavate delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione: ficcome
dalle oſſervazioni delle frequenti morti dei bambi ni, ſi è preſa occaſione di
rintracciarne la cauſa, e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi,
che sì facilmente foc combono anche ad un leggiero urto, e ad una tenue ſcoſſa.
Al genere dei vitalizj appartiene quella convenzione, che dal ſuo oggetto
chiamaſi: la dote della figlia. Un provido padre sborfa una determinata ſomma
di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi
prima dell'età nubile, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che
l'ha ricevuta; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una
ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro, e al pericolo in cui ella
è ſtata di morire in tal intervallo, e di per der così la ſomma dal padre
sborſata. Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo, che sborſa il
padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno
prefiffo; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata
ſomma, e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita.
Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino
alprefillo termine, ſta ai ſiniſtri (a), o fia ai favorevoli all'altro; così
ſtare la ſom ma sborſata dal padre, più le rendite ordi narie, all'ecceſſo
della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma
sborſata più le rendite ordinarie. Havvi un'altro contratto per cui un par
ticolare, che vuol comprare una conſidera (a) Anche in queſto contratto i caſi
favorevoli, e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89
bile carica; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una
famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla
deſolazione, e all'inopia; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo
di anni, pagando, o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore, che ſi
obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto
della carica, ſe egli muoja prima del termine ſtabilito. La eva luazione della
vita, si in queſto, come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab
baſtanza commendate tavole. Si oſſervi, che in queſto contratto quello che
riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della
vita di chi la sborſa, al contrario di ciò che accade nei vitalizj, e negli
altri contratti ad eſſi analoghi. Nel for mare adunque la proporzione cangian
nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del
reſto non vi è dif ferenza veruna. E' queſto un contratto di cui tanto meno
importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1
1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo.
Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo
inven tore chiamaſi Tontina. Non differiſce que fto dal vitalizio, ſe non in
ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui, che collocò
il ſuo capitale a fondo per duto; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che
appartengono alla medeſiına claſſe, e che hanno fatto un ſimile contratto col
padro ne della tontina. L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo
capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua
claffe. A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età. E' celebre la
Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni, e godeva
35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire. Dalle tavole
di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite
coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga. Da ciò il padrone della
tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le
ren dite; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto, val lo ſteſſo
per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere, che hanno quelliche
ſopravvivono, pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre.
Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni. Si è in
oltre trovata la formola che eſpri me, dato qualunque numero di vite coetanee,
il tempo in cui uno, o due, o più manche ranno, la formola per il caſo che più
perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono, da
dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo
praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi
durante la ſua vita; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione
che devono preſtare. E faminate queſte formole, ed avuto in conſi derazione il
metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj, ſi ritrova facilmente
la medeſima anche per le contine. 92 1 1 E' oltre ogni credere benemerito
dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre, che ha trovate, e applicate
le anzidette, e molte altre formole, che ſi trovano nella incomparabile ſua
opera intitolata la dot trina degli azzardi. Io non le ho riportate perchè il
far ciò e troppo lungo ſarebbe, e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro
poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti
d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè
ſian giuſti; voglio rammentare, che i più illuminati politici hanno deteſtato
l'a buſo di queſte pubbliche rendite, come ap punto ſono le tontine, ed altre
di fomi gliante natura. E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i germi
dell'induſtria, e ad appreſtare alla parte ozioſa, e indolente della ſocietà
armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà moto, ed
anima al ben eſſere dello ſtato; oltre di che ſi oppongono alla propagazione,
allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I 93 generar figli
ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici. En fin je ne me plaindrai plus
De l'etoile qui me domine; Il me reſte encore cent ecus Que je vais mettre a la
Tontine: O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages,
Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages, Je ferai ſur l'etat, & j'aurai
penſion. Così cantò un elegante Poeta Franceſe in tendendo così di far la
ſatira delle tontine; e pare di fatto che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu
queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate, e andate in diſuſo, benchè non così
gli altri contratti del genere di cui parliamo. Ma d'altra parte eſſendo
utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben dello ſtato il poter ſollecitamente
raccogliere una grandioſa ſomma di denaro, ſenza imporre perciò nuo ve
contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini, le circoſtanze dei quali
rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen 94. fioni vitalizie ſi
potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni, per fare un eſame regolato
dell'età, e delle circoſtanze di quelli che doveſſero eſſere ammeſſi alla
compra delle azioni, e con i neceſſari regolamentipreveni re gl ' inganni, che
in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le pubbliche vedute. 1 1 1
1. 1 Per eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il rapporto su cui
ſi fonda l ' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte alla
conſiderazione di leggi certe, e ſicure, e in parte alla ſperienza del paſſato,
e a cir coſtanze incerte e di numero indeterminato, ſi ripigli l'eſempio
dell'urna, nella quale ab biavi un determinato numero, per eſempio di go. palle.
Se la ſperanza dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una palla; per la
natura di tal contratto, o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il
numero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il
numero totale m farà il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1: m - 1 e
per conſeguenza l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112 95 Ma ſe ſia
vero che la palla alla quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente
dall'urna che qualunque altra, e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle
altre ſia Þ; il numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp; e
quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1, la probabilità della ſperata eſtrazione farà
Xp L'addotto eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti che poſſano mai
cadere for to queſta terza claſſe, come comprendenti le condizioni che ne
formano il carattere. Di fatti la probabilità dell'eſtrazione della palla
fatale dipende dalle leggi del contratto certe, e ficure che danno il rapporto
di e dalla ſperienza, ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della
medeſima, che danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre
palle nell' urna rinchiuſe, la quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I: m;
112 Non è neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto
ecceſſo p, non 96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla, di
quello che ne eſca un'al tra. E queſta è una di quelle circoſtanze che io
chiamo incerte e variabili. Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità
dell'eſtrazione fra due palle, ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e
ſicure è lo ſteſſo per tutte due, eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe
attendere ſolamen in te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due
palle. A queſto eſempio ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei
giocatori di lotto, e di quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi
moſtrino più ſovente, o quali facce del volubil dado, ad avvicendare
nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che
per quanto fiano replicate le eſperienze, in moltiſſimi caſi non apparendo
neppure in confuſo una minima conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa
da cui derivi, non potranno giam mai meritare che le abbia in viſta, chi ra 97
giona ſu dati veri, e non fa caſo di mere e vaganti accidentalità. Se ſi aveſſe
a queſte riguardo, molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho eſa
minati, a queſta terza dovrebbonſi riferire. Ma io per le indicate ragioni, a
quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere. Anche
in tali caſi perd vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto
dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora approverebbero la mia diviſio
ne; eſſendo queſta terza claſſe da me confi derata in modo che può, ſe
vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra
indicata conneſſione. Che ſe il numero delle offervazioni ſia grande, e i
riſultati coſtanti, ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito della ſperanza,
ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora
non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta terza claſſe, e la
diſtingue dalle altre. Vi ſono in fatti molti giochi, nei quali l'eſito
fortunato dipende in parte dalla pro g. 98 pizia ſorte, e in parte deveſi alla
propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti del gioco, e
rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del premio
deſiderato. L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola
avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del
gioco, che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando, e la replicata ſperienza
delle quali porge la norma ai caſi avvenire; o nella deſtrezza maggiore di
combinare gli accidenti medeſimi del gioco, di dedurre, di ſcuoprire gli
artificj dell'avverſario; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi
l'induſtria, è ſempre vero che i giochi che di effa, e della forte ſi chiamano
miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle
dei contratti di azzardo, In un gioco miſto è molto difficile che tornino per
appunto le medeſime circoſtan ze; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re
lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe
appartenenti; in certe cioè, e incapaci di rendere indubitato 99 e ſicuro
l'evento, ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua
glianza, acciò il contratto ſia giuſto. Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi
ſono dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili; quindi è che eſſi
appartengono alla terza claſſe, perchè regolati in parte da tali leggi, e in
parte da cagioni incerte e inde terminate, e dalla ſola ſperienza. Siccome però
poſſono eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito
medeſimo, a miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero, prevale nei
giochi miſti l'in duſtria o la ſorte. Inoltre la deſtrezza di combinare, di de
durre, di rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite
ſucceſſivamente dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco, è
variabile, come può ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a
nimo neceſſaria, la perfetta diſpoſizione di ſa lute, e per conſeguenza
l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre; in una parola l'atti vità
neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di
mente, e attuazione di fantasia. Conſiderate queſte come cauſe incerte ed
indeterminate, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni
fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo, e quanto alla loro
frequenza, e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco; ecco anche in
ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi
miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco, e da circoſtanze
incerte, e indeter minate, Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar
profitto dai colpi della ſorte, e il gioca tore avveduto, dice la Bruyere,
imita in queſto un gran generale, e un abile politico. Al valore del primo, e
alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte. Arrivano entrambi francamente al
loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo; e che là metton
capo, ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati, e i
piùmeditatiprogetti. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di
cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo. O i giocatori tentano con
eguali condizioni l'evento medeſimo; o un folo tenta la ſorte del gioco, e
l'altro ſta ozioſo ſpettatore, e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto
eſito dell'avverſario. Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e
dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco, è l'iſteſſo per ambidue, ſi
riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria, la quale ſi oſſerva nelle medeſime
circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco; calcolo
che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte. Giacchè farebbe d'
uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario; eſſendo la deſtrezza,
e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario; e
potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno, o reſtar coſtante ſecondo i
progrelli, o uguali, o proporzionali, o di verſi, che l'uno, o l'altro facciano
nel gio co. E' vero però non meno, che trattandoſi di rapporti, poſſono in
qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un 102 giocatore
riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia
quella dell'avverſario. Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva,
ma aſſoluta; e fi riduce a calcolo con l'offervare, nelle medeſime combina
zioni, o in non molto diffimili per la natura del gioco, quante volte
l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto, fotto le date
condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere
il premio dovea pervenire. Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi
favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco, in parte
dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva, e afloluta induſtria, converrà
diſtinguere, e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi
favorevoli, e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema
III.', e nel Corollario. Se non due, ina più ſiano i giocatori, ſi rammenti la
regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti, e di eſaminare in
103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto; ſe
io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe, e
in quelli della feconda. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove
trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe
e ſicure del contratto, convien ricorrere ai priini; ove poi fia queſtione di
offervazioni, e di cauſe indeterminate, conviene eſaminare i ſecondi; non
omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli
uni, ſu gli altri, e la varia loro com binazione. Stabilite così le leggi ſulla
ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque
claſſe di contratti di azzardo; non devo diffimulare, che uno dei più grandi
Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro
babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani. Accid, dic ' egli,
queſto cal colo foſſe applicabile, ſarebbe neceſſario, che tutti i caſi che
ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di
fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario, che gettata infinite volte in
alto una moneta, ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca, per
eſempio palle, e ſull' altra una diverſa, per eſempio croce, foſſe ugual mente
poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle, o croce; e che ſi ſcopriſſero
alternativamente queſte due diverſe marche. Ma benchè ciò ſia ugualmente
poſſibile matematicamente parlando, non lo è fiſicamente. E queſta di verſità
appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità, non è
applicabile ai caſi fiſici. Anzi non ſi potrà mai fiſſare il numero delle volte
per il quale duri la poſſibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia
della moneta, e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità,
durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo, ed oltre qualunque
aſſegnabile numero di getti, la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi
della medeſima faccia.: Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per
certa: che non è in natura, che un 1 1 1 IOS 1 effetto ſia ſempre, e
coſtantemente il mede fino; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi, ſi
raſſomiglino fra loro. Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro
babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone
accader più vol te, in parità di circoſtanze è tanto più pic cola, quanto
queſto numero di volte è più grande, di modo tale che quando queſto è maſſimo,
la probabilità è aſſolutamente nulla, o quaſi nulla; e all'incontro quando
queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco, o punto
diminuita per queſto riguardo. Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la
ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili,
quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica, ſono
ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura.
Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque
arrenderſi, e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili? 1 106 1
Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non
ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà, o le mede fime reftino ſciolte.
Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di
probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire. Se diaſi
dunque un caſo, che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente
poflibili, e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità; io
dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie; ma non concederò mai che per
queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai caſi, che ſiano di
fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le
combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria
una fre quente e replicata oflervazione. Che ſia fiſicamente impoſibiie (ſe
pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un
infinito numero di volte la ſtella faccia, donde ſi ricava, fe non dall'avere
offervato che una tale con 107 tinuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade,
ma che al contrario ſi vanno alter nando, e cangiando di tanto in tanto le
facce della moneta? Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il
caſo in cui per un infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia,
a meno che non vi ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò
non permetta. Se ſi concedeſſe ancora (benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato )
che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad
un altro, non che, come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert, che ſi
raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro; non correrebbe la parità, per
dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti di una moneta, l'uniforme
ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile. Poichè
vi corre una notabiliflima di ſparità. Tutte le combinazioni le quali fanno,
che una coſa non ſia fimile all'altra, danno tanti ios riſultati fra loro
diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A
non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B, naſceranno tanti alberi fra loro
diverſi; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà la diffe renza. Ma dalle diverſe
combinazioni che poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia
palle della moneta; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili, cioè
croce; poichè ogni volta che non ſi ſcopra palle, ſi ſcoprirà croce. Queſto
prova che le combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due
coſe, formano infi niti rapporti, infiniti riſultati dei medeſimi, infinite
diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni
delle particelle della materia di infinite poſſibili diverſe velocità, figure
ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano. Di fatto gli elementi
che formano la com binazione, che per infinito numero di volte preſenta palle,
ſono tutti ſimili fra di loro, ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto.
Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato 109 l'ordine col quale eſce prima la infinita
ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto, e ritor naſſe di nuovo a
ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle, ne verrebbe un or dine
fimiliſfimo al primo, potendoſi dire, che l'iſteſla relazione ha il primo
ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo, e così
dicaſi di tutti. Talmentechè a rigor parlando, non ſi può dire, che fra queſti
getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro. Non
così degli elementi che formano un dato fiore, o albero; eſſendo combinabili
fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate. Gli elementi fiſici
adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove
nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene, che
la parità non corre; e dalla fiſica impoſſibilità (ſe fi ammetta ) di trovare
mol te, o anche due coſe fra loro ſimili; non ne viene la fiſica impoſſibilità
che una monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia.
110 1 La diſparità compariſce più chiara, fe li rifletta che qualunque vedendo
in un dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi; e
riflettendo alle variazioni poſſibili della velocità, e della figura delle
medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero, avrebbe
ſubito infe rita l'impoſſibilità di una combinazione ta le, che ne riſultaſſero
due alberi ſimili. Laddove vedendo una moneta, e ſapendo che ſi deve gettare in
aria infinite volte, non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non
ſi ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia, e di credere
tal combinazione fiſicamente impoſſibile, come la pretende, fondato ſulle
addotte ri fleſſioni, il Sig. d'Alembert. In una parola della impoſſibilità (ſe
tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a
colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione; lo che non può dirſi dello
ſcoprimento della faccia di una moneta. Lo ſteſſo a proporzione dicaſi delle
diverſe, III combinazioni delle lettere che formano la parola
Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo, dice d'Alembert, che ſi
combinino in modo tante lettere che formino queſta pa rola? chi vorrà crederlo
poſſibile? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per
infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di una moneta. Queſto eſempio
è molto ſimile a quello dei due al beri fimili; e ſi riſponde anche a queſto,
che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte le altre, e che ciaſcun
riſultato ſarà diverſo. La Luna, aggiunge il Ch. Filoſofo, gira attorno al ſuo
alle in un tempo preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere
la ſua orbita intorno alla terra; e queſta eguaglianza di tempo produce ammirazione,
e ſi vuol cercare qual n'è la cagione. Se il rapporto dei due tempi foſſe
quello di due numeri preſi all'azzardo, per eſempio di 21: 33, niſſuno non ne
ſarebbe ſorpreſo, e non ſe ne ricercherebbe la cagione; e pure il rap porto di
uguaglianza è matematicamente و II2 parlando ugualmente poſſibile, che quello
di 21:33; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo, che non ſi cercherebbe
del ſe condo? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei pianeti e del rapporto che
ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro, alla sfera. Per chè ſi
conchiude egli che queſto non è effet to del caſo? perchè queſta combinazione,
benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre, ſi riguarda.come effetto di
un diſegno, e di una regolarità? E non ſi crederà poi, che il ſolo caſo non può
pro durre quella combinazione per la quale la moneta ſcopra infinite volte di
ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta fiſicamente impoſſibile, benchè
abbia una matematica poſſibilità eguale a quella delle altre combi nazioni? Ma
io riſpondo, che di fatto le com binazioni dei citati eſempi hanno avuta una
fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte l'al tre combinazioni; che non vi è
forſe argo mento che provi che il caſo non le aveſle po tute produrre; ma che
anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente impoſſibili al ſolo caſo; ciò è per chè
ſon compoſte di elementi infinitamente variabili; lo che appariſce a chi ſi
faccia di propofito a conſiderare le diverſe cagioni, e le diverſe poſſibili
combinazioni, che poſſon far sì che i tempi dei due giri lunari non ſia no
uguali; e che la zona delle orbite plane tarie abbia alla sfera un rapporto
diverſo da quello che ora ha infatti; cagioni tutte fi fiche, e meccaniche. Di
più dico, che l'uguaglianza dei corſi della luna intanto a noi fa impreſſione,
in quanto che il rapporto di uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire
tutti gli altri; e tutta la differenza che fra eſſo, e gli altri paffa, non è
che metafiſica; e nulla po ne di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere
più difficile dell'altre. Lo ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli
tanenſibus. Queſta combinazione di lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il
ſenſo della parola, e che al ſuono della medeſima abbia mo legataunidea; non
così a un Turco idio ta il quale non col nome di Coſtantinopli b 114 ma con
quello di Stamboul è avvezzo a no minare la ſuperba metropoli dell'Impero Ot
tomano. Non contento Monſieur d'Alembert degli eſempi addotti in conferma della
ſua aſſer zione, l'appoggia ad altre due rifleſſioni. Si fa che la durata media
della vita di un uomo, contando dal giorno della ſua naſcita è all'incirca di
27 anni; ſi è pure conoſciuto per mezzo delle oſſervazioni, che la durata media
delle ſucceſſive generazioni più ome no è di 32 anni; finalmente ſi è provato
per tutte le liſte della durata dei regni di ciaſcu na parte d'Europa, che la
durata media di ciaſcun regno è di circa a 20 in 22 anni. Si può dunque dic'
egli, ſcoinmettere non ſolo con vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli
nati nel medeſimo tempo non vive-, ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che
20 generazioni non dureranno più di 640 anni in circa; che 20 Re ſucceſſivi non
viveran no che intorno a 420 anni. Una combina zione adunque che non daſſe
intorno a 27. anni la durata media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento
a eſaminare, o non dalle di 32 anni la durata media di 100 fuccef five
generazioni; oppure portaſſe che 20 Re ſucceſſivi regnaſſero, o molto più, o
molto meno di 420 anni, non ſarebbe fiſicamente poſſibile; eppure lo ſarebbe
matematicamen te parlando. Dal che riſulta che vi ſono al cune combinazioni
matematicamente pofli bili, che ſi denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie
all'ordine coſtante della natu ra. Dunque la combinazione in cui, o infi nite
volte, o un gran numero veniſſe ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta,
benchè di matematica poſſibilità uguale a quella di qualunque altra
combinazione, dev’ eſſere rigettata. E' nell'ordine naturale, ché un banchiere
di faraone, che ha dei caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca
coll'andar del tempo. Di fatti ſi oſſerva coſtantemente, che non vi è banchiere,
che non accumuli groſſe fomme di denaro. Queſto prova, che quelle combinazioni,
che hanno più caſi contrari che favorevoli, ſono alla fine di un certo b 2 116
tempo, meno fiſicamente poſſibili che le al tre; quantunque matematicamente
parlando tutte le combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili. Dunque conclude
egli, la combina zione, la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di
volte ſempre la ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa. Per riſpondere
a queſti due eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica
impoſſibilità, che con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della
vita di un' uomo diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo
che eſaminando il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno
di quelle, o aſſai maggiori, o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni; dun que
tale combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo
dicafi di quella, per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal
gioco medeſimo ri dotto all' inopia; caſo che non è poi sì in frequente ad
accadere. Dicafi piuttoſto che l'una, e l'altra di queſte combinazioni con
tenute nei due eſempi addotti dal chiarilli 117 mo d'Alemberţ ſono molto
difficili, e tanto più, quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni
medeſime ſupera il numero dei favorevoli; lo che conviene appunto con li da me
ſtabiliti principj. Venendo poi al caſo noſtro dico, che fo no varie, e
moltiſſime in numero le cauſe vere, e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli
uomini. Ma trattandoſi del getto della mo neta, non vi ſono principj fiſici
diverſi, e tali, che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una, che
l'altra delle combi nazioni, che a rigor parlando non ſono che due, come più
ſopra ſi è offeryato. L'ordine delle umane coſe, e le fifiche qualità, e
coſtituzioni dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita, ſon con
ſultati nel primo caſo; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa
conſultare a formare il preſagio. Dunque fi pud predire, che ioo o maggior
numero di uomini avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di
altri 100 uomini; benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal
corſo file 1 b 3 118 ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni,
conoſciuto il ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto
maggiore farà quello dei banchieri che arric chiſcono, che non ſarà quello
degli altri che ſi rovinano. E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche
cagioni che portano a for mare queſto preſagio, e cagioni che naſcono dal
ſiſtema del gioco. Ma chi sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno, che
vedendo gettarall'aria una moneta, aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che
o per un maſſi mo, o anche infinito numero di volte, pre ſenti ſempre la ſteſſa
faccia? Varie poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta. Si può
gettare a una gran de altezza, e a una piccola; con poca forza, e con molta;
con tale direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte; o che lo
faccia obliquo; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela. Si può anche gettare
in ma niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo.
Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi ve 1 1 119 1 drà, che
laſciandola in tal modo cadere, ſpecialmente a piccola altezza, anche in finite
volte, non vi è ragione di preſagire, che non poſſa eſſere coſtante lo
ſcoprimen to della faccia medeſima. La impoffiſibilità di queſto uniforme
ſcoprimento, la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo, o negli
altri caſi? Se la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica, che il ſolo
or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento? Se poi non
la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica uni verſalinente la ſua
maſſima? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito delle ragioni del
Sig. d'Alembert, che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in cui non altro
appunto, che un non sò quale fatal ordine della natu ra,potrebbe cagionare la
preteſa variazione. Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi, dico che
nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto,dell'altezza, della
direzio ne; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente
impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120
riabili combinazioni, non ſono che due; o lo ſcoprimento di palle, o lo
ſcoprimento di croce; e non ogni variazione, e combinazione di tali cauſe
influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad
dotti dal Sig. d'Alembert, nei quali trattan doſi di rapporto, o di diverſa
conſociazione di parti, ognun vede, che ogni variazione influiſce a produrre un
effetto diverſo. O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti; e negli
addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due non
potendoſi voltare, che palle, o croce; o ſi ri guardi la diverſità nelle
cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe
infinite, giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa; nel caſo
della moneta non è così, potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza,
altezza, direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto; potendoſi anche
dare che in infiniti getti, o in un numero aſſai grande, ſi man tenga l'iſteſſa
direzione, benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1
pero, benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto. Parmi adunque che e queſti
ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con quello della moneta; o
al più provano una no tabile difficoltà nella combinazione che pre ſenti ſempre
l ' ifteffa faccia della moneta; verità che ſi accorda perfettamente con gli
eſpoſti principj; poichè le oſſervazioni me deſime ce lo fanno conoſcere,ed io
ſuppon go nell' applicargli, il caſo probabile, e con la ſcorta dei medeſimi ne
cerco il grado di probabilità; dal che ne viene che la teo rìa non è
applicabile ai caſi ove o neſſuna o quaſi neſſuna probabilità del buon eſito
appariſca, per poterne formare la propor zione.. Quando poi cominci il numero
in cui non ſia ſperabile un continuodiſcoprimento di una fola faccia della
moneta, le oſſervazioni, e non altro, poſſono moſtrarlo; quelle oſſer vazioni
io dico, che io medeſimo ho prefe per ſcorta in moltiſſimi caſi appartenenti
alla materia dei contratti di azzardo. 122 } E' poi tanto evidente che la
propoſizione del Sig. d'Alembert non atterra l'uſo del calcolo delle
probabilità, che anzi in qual che caſo ſe ne poſſono tirare delle conſeguen ze,
che lo conferinano. Chi gettando un dado intraprende di ſcuo prire per eſempio
il 6 non vorrà gettarlo una ſol volta, quando debba azzardare una fom ma eguale
a quella che azzarda l'avverſario; ma vorrà gettarlo più volte. La ſua ſperan
za è,che non voltandoſi ſempre l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi
ſcuopre, e che può non eſſere il 6, arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6;
altrimenti ſe non fcopren doſi alla prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in
tutti i tratti ſucceſſivi quel numero che ſi ſcopre il primo, la ſua perdita
ſarebbe ſicura. La ſperanza dunque di queſto gio catore acquiſta tanto maggior
fondamento quanto più è vero che ſia impoſſibile che ſi volti ſempre quel
numero che alla prima fi ſcoprì; impoſſibilità, che reſta compreſa nel la
impugnata opinione del Sig. d'Alembert. Stabiliti i principj regolatori dell'
ugua 123 glianza nei contratti d'azzardo, e difeſane l'applicazione non reſta
che a deſiderare, che uomini di ſublime ingegno, e di pro fondo ſapere ſi
applichino in gran numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di una dottri na sì
utile. Quanto a me, mi pare di aver ottenuto il mio intento, ſe poſſo
luſingarmi di aver formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo per
una parte sì arduo, e per l'altra sì intereſſante. Codronchi. (NrcoLA), na cque
in Imola il 2o aprile 1751 ed alla patria e al casato accrebbe lu stro e
decoro: perchè già rapida-, mente corsi gli studii delle amene lettere e della
eloquenza sotto la disciplina de' Gesuiti, e con pub blico saggio nelle materie
di filo sofia sperimentatosi non ancora compiuti gli anni 16, potè dallo stesso
genitore nelle matematiche, delle quali era egli peritissimo, essere
ammaestrato. E col magi stero di quella scienza sublime, illuminando la mente
già ordinata a diritti giudizii e scorto da pre cetti delibati dalla scuola non
fal libile degli antichi esemplari, com formò la scrittura alla altezza del
pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore dell'animo: nè i gravi
studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato (insegnatore
monsignor Giovan nardi concittadino di lui, e fiore de giureconsulti) gli tolse
di col tivare la poetica, alla quale senti vasi per tal guisa inclinato, che
poco oltre il terzo lustro di età bastò a dettare alcuni componi menti i quali
resi pubblici con le stampe trovarono grazia e lode somma ne cultissimi di quel
tem pi, e sì pure in Arcadia alla cui accademia appartenne col nome pastorale
di Cratino. E sono ne gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere
che a migliori poeti, onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se
come ne sono degni verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà
manifesto aver egli con arte maestra saputi attingere da cia scuno de più
valenti Imolesi quei modi sceltissimi onde le loro ope re di bella luce
risplendono mel l'italiano parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal
come u sciva dalla penna di Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed
elegante, quale il vedi in Camil lo, muove nel Codronchi con quella spontanea e
nobile sempli cità che t'invaghisce nel Canti; 282 e si abbella di quelle
grazie ed e leganze di che lo Zappi infioriva le soavi e dolci sue rime.
Tornato in Imola venne decorato della cro ce di Santo Stefano, e nella Imole se
accademia degli Industriosi di cui fu socio si mostrò erudito ed elegante
oratore e poeta: d'indi a non molto passato per le caro vame a Pisa ebbe colà
lezioni di pubblico diritto da quell'alto spi rito del Lampredi, che il tenne
in istima d'ingegnoso e di colto, e che lo ebbe sempre carissimo. Quindi il
magnanimo gran duca Leopoldo gli conferì la carica di ispettore delle carovane,
e ad un tempo la cattedra di etica; intor no a che compose un trattato qua si
corso di lezioni, degno per fer mo di essere fatto di pubblica ra gione: ed a
quel principe intitolò il Codronchi una eloquente e dot ta Orazione composta
eletta, per incarico da lui avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine,
le leggi ed i fasti dell'ordine, che fu pubblicata il 1779, pel Cam biagi in
Firenze, dai torchi del quale uscì nel seguente anno 1785 altro grave e
prezioso libro col titolo di Saggio sui contratti e giochi d'azzardo, ove
risplende la dottrina di pubblico economista e di filosofo; ed ove la materia
gravissima, e che diresti poter so lo dimostrarsi col soccorso del cal colo,
per la chiara sposizione pia ma e facile si mostra alla intelli genza comune,
Corse intanto tal fama del sa pere di lui alla corte di Ferdinan. do di Napoli,
che con reale decre to del 25 novembre 1787, il no minò membro del supremo
consi glio di Finanze; nel qual tempo venne ad egual carica eletto quel sommo
ingegno di Gaetano Filan gieri, cui il Codronchi fu poi sempre stretto con
vincoli di re ciproca stima e di amicizia tene rissima. E ben di questo è prova
il pa rere dal Filangieri proposto al re intorno all'enfiteusi del così no mato
Tavoliere di Puglia che leg gesi negli opuscoli di lui pubbli cati pel
Silvestri in Milano il 1818. ove egli da maestro discorre ciò che con grave
senno e sapere a veva il suo collega consigliere Codronchi proposto, quando a
questo fine per sovrano volere eb be a recarsi in queHa provincia. Del quale
importantissimo servi gio ebbe onore da maestrati quivi preposti alla agraria
economia che con parole di lode il provvedimen to del principe ed il nome del
be nemerito consigliere in latina e pigrafe eternarono; e n'ebbe dal monarca
eziandio meritato pre mio: imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo
con voto, e di sopraintendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che
adoperò a maniera, che sommo vantaggio m'ebbe lo stato per la retta
amministrazione di quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano
della stessa regnante Carolina onorevolissime lodi. Seguì il Codronchi la real
corte a Palermo quando dovè colà ri fuggirsi nel 1798: e con essa lei tornò al
suo impiego in Napoli nel seguente anno 1799. Salito al trono il re Giuseppe,
volse tosto gli sguardi ad esso lui come a spec chio di sapiente reggimento e
di non comune interesse, e gli confe rì la carica di consiglier di stato, di
cavaliere del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istitui to: ma la mal
ferma salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il
tolse a quel regno ove lasciò fama durabile del suo merito, procacciò alla
patria il conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali era de
siderio e delizia: e ben l'ebbero eglino zelantissimo della pubblica 283
morale, e civile istruzione dei giovani a quali col più potente dei precetti,
l'esempio, era di bel la guida e di stimolo; e per l'im portante buon regime
delle acque operoso; e di quant'altro poteva interessare il pubblico vantaggio
studiosissimo: nè mancavano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi
soccorsi i quali seppe providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a
meritato sollievo della vera indigenza. Illi bato del costume e per la esqui
sita erudizione della quale era for nito nella sociale consuetudine
piacentissimo, con la serena calma del giusto vide giungere l'ora e strema del
vivere, che a suoi cari ed alla patria il rapì nel giorno 15 novembre 1818, in
età di an mi 67: e della acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale
della città desolato per la perdita irreparabile di quest'uomo chia rissimo nel
quale si ammirarono congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e
di lette re, integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù. Whoever
has glanced through the pages of any text-book on mercantile law will
hardly deny that CONTRACT is the handmaid if not actually the child
of Trade. Merchants and bankers must have what soldiers and farmers
seldom need, the means of making and enforcing various agreements
with ease and certainty. Thus, turning to the special case before
us, we should expect to find that WHEN ROME IS IN HER INFANCY and when her
free inhabitants busied themselves chiefly with tillage and with
petty warfare, their rules of sale, loan, suretyship, were few and
clumsy. Villages do not contain lawyers, and even in tdwns hucksters
do not employ them. Poverty of Contract was in fact a striking
feature of the early Roman Law, and can be readily understood in the
light of the rule just stated. The explanation given by Sir Henry
Maine is doubtless true, but does not seem altogether adequate. He
points out 1 that the Roman household consisted of many families under the rule
of a 1 Ancient Law, p. 312. B. E. 1 2 paternal autocrat,
so that few freemen had what we should call legal capacity, and
consequently there arose few occasions for Contract. This may
indeed account for the non-existence of Agency, but not for that of
all other contractual forms. For if the households had been trading
instead of farming corporations, they must necessarily have been
more richly provided in this respect. The fact that their commerce
was trivial, if it existed at all, alone accounts completely for the
insignificance of Contract in their early Law. The origin of
Contract as a feature of social life was therefore simultaneous with the
birth of Trade and requires no further explanation. It is with the
origin and history of its individual forms that the following pages have
to deal. As ROMAN CIVILISATION progresses we find Commerce extending and
Contract growing steadily to be more complex and more flexible.
Before the end of the Roman Republic the rudimentary modes of agreement
which sufficed for the requirements of a semi-barbarous people have
been almost wholly transformed into the elaborate system f of Contract
preserved for us in the fragments of the Antonine jurists. At the
most remote period concerning which statements of reasonable accuracy can
be made, and which for convenience we may call the Regal Period, we
can distinguish three ways of securing the fulfilment of a promise. The
promise could be enforced either by the person interested, or by the gods, or by the community. When however we speak
of enforcement, we must not think of what is now called specific performance,
a conception unknown to primitive Law. The only kind of enforcement then
possible was to make punish- ment the alternative of
performance. Self-help, the most obvious method of redress in a society
just emerging from barbarism, was doubtless the most ancient protection
to promises, since we find it to have been not only the mode by
which the anger of the individual was expressed, but also one of the
authorised means employed by the gods or the community to signify their
displeasure. This rough form of justice fell within the domain of
Law in the sense that the law allowed it, and even encouraged men to
punish the delinquent, whenever religion or custom had been violated. But
as people grew more civilized and the nation larger, self-help must
have proved a difficult and therefore inade- quate remedy. Accordingly
its scope was by degrees narrowed, and at last with the introduction of
surer methods it became wholly obsolete. Religious Law, as administered
by the priests, the representatives of the gods, was another
powerful agency for the support of promises. A violation of Fides, the
sacred bond formed between the parties to an agreement, was an act of
impiety which laid a burden on the conscience of the delin- quent
and may even have entailed religious disabili- ties. Fides was of the
essence of every compact, but there were certain cases in which its
violation was punished with exceptional severity. If an agreement
had been solemnly made in the presence of the gods, its breach was
punishable as an act of gross sacrilege. III. The third
agency for the protection of promises was legal in our sense of the word.
It consisted of penalties imposed upon bad faith by the laws of the
nation, the rules of the gens, or the by-laws of the guild to which the
delinquent belonged. What the sanction was in each case we are left
to conjecture. It may have been public disgrace, or exclusion from the
guild, or the paying of a fine. And as some promises might be
strength- ened by an appeal to the gods, so might others by an
invocation of the people as witnesses. Agreements then might be of
three kinds corresponding to the three kinds of sanction. They might
consist of an entirely formless compact, (2) a solemn appeal to the gods,
or (3) a solemn appeal to the people. A formless compact is called pactum
in the language of the twelve Tables. It was merely a distinct
understanding between parties who trusted to each other's word, and in the
infancy of Law it must have been the kind of agreement most
generally used in the ordinary business of life. Such agreements are
doubtless the oldest of all, since it is almost impossible to conceive of
a time when men did not barter acts and promises as freely as they
bartered goods and without the accompani- ment of any ceremony. Compacts
of this sort were protected by the universal respect for Fides, and
their violation may perhaps have been visited with penalties by the guild
or by the gens. But intensely religious as the early Romans were, there
must have been cases in which conscience was too weak a barrier
against fraud, and slight penalties were ineffectual. Fear of the gods
had to be reinforced by the fear of man, and self-help was the
remedy which naturally suggested itself. In the twelve Tables
pactum appears in a negative shape, as a compact by performing which
retaliation or a law-suit could be avoided 1 . If this compact was
broken the offended party pursued his remedy. Similarly where a positive
pactum was violated, the injured person must have had the option of
chastising 1 GELLIO. zx. 1. 14. Auct. ad Her. n. 13. 20. the
delinquent. His revenge might take the form of personal violence, seizure
of the other's goods, or the retention of a pawn already in his
possession. He could choose his own mode of punishment, but if his
adversary proved too strong for him, he doubtless had to go unavenged ;
whereas if the broken agree- ment belonged to either of the other
classes, the injured party had the whole support of the priesthood
or the community at his back, and thus was certain of obtaining
satisfaction. It is therefore plain that though formless agreements
contained the germ of Contract, they could not have produced a true law
of Contract, because by their very nature they lacked binding force.
Their sanction depended on the caprice of individuals, whereas the
essence of Contract is that the breach of an agreement is punishable in a
particular way. A further element was needed, and this was supplied
by the invocation of higher powers. II. At what period the feshion
was introduced of confirming promises by an appeal to the gods it
would be idle to guess. Originally, it seems, the plain meaning of such
appeals was alone con- sidered, and their form was of no
importance. But under the influence of custom or of the priest-
hood, they assumed by degrees a formal character, and it is thus that we
find them in our earliest authorities. Since Religion and Law
were both at first the monopoly of the priestly order, and since the
religious forms of promise have their counterpart in the customs of
Greece and other primitive peoples, whereas the secular forms are
peculiarly Roman 1 , the religious forms are evidently the older, and
formal contract has therefore had a religious origin. Fides being a
divine thing, the most natural means of confirming a promise was to place
it under divine protection. This could be accomplished in two ways,
by iusiurandum or by sponsio, each of which was a solemn declaration
placing the promise or agreement under the guardianship of the
gods. Each of these forms has a curious history, and as they are
the earliest specimens of true Contract, we may discuss them in the next
chapter. III. Another method, and one peculiar to the Romans,
which naturally suggested itself for the protection of agreements, was to
perform the whole transaction in view of the people. Publicity
ensured the fairness of the agreement, and placed its ex- istence
beyond dispute. If the transaction was essentially a public matter, such
as the official sale of public lands, or the giving out of public
contracts, no formality seems ever to have been required, so that
even a formless agreement was in that case binding. The same validity
could be secured for private contracts by having them publicly
witnessed, and the nexum was but one application of this principle.
In testamentary Law it seems probable that the public will in comitiis
calatis was also formless, whereas in private the testator could
only give effect to his will by formally saying to his
fellow-citizens " testimonium mihi perhibetote" Thus the
two elements which turned a bare agreement into a contract were
religion and publicity. The naked agreements (pacta) need not concern
us, since their validity as contracts never received complete
recognition. But it will be the object of the following pages to show how
agreements grew into contracts by being invested with a religious
or public dignity, and to trace the subsequent process by which
this outward clothing was slowly cast off. Formalism was the only means
by which Contract could have risen to an established position, but
when that position was folly attained we shall find Contract discarding
forms and returning to the state of bare agreement from which it had
sprung. Art 1. Ivsivrandvm is derived by some from
Iouisiurandum 1 , which merely indicates that Jupiter was the god by whom
men generally swore. To make an oath was to call upon some god to
witness the integrity of the swearer, and to punish him if he swerved
from it. This appears from the wording of the oath in LIVIO, where SCIPIONE
says: Si sciensfalloy turn me, Iuppiter optime maxime,
domum familiam remque rneam pessimo leto afficias" and from the
oath upon the Iuppiter lapis given by Polybius and Paulus Diaconus, where
a man throws down a flint and says : " Si sciens /alio, turn
me Dispiter salua urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc
lapidem" A promise accompanied by an oath was simply a unilateral
contract under religious sanction. And it would seem that the oath was in
fact used for purposes of contract. CICERONE remarks 8 that the
oath was proved by the language of the XII Tables to have been in
former times the most binding form of promise ; and since an oath was
still morally binding 1 Cf. Apul. de deo Socr. 5. a xzii. 53.
» Off. ni. 31. 111. in the time of CICERONE, though it
had then no legal force, the point of his remark must be that in
earlier times the oath was legally binding also. From Dionysius we know
that the altar of ERCOLE (called ARA MASSIMA) was a place at which solemn
compacts (ovvdfjtcai) were often made 1 , while Plautus and Cicero inform
us that such compacts were solemnized by grasping the altar and taking
an oath 2 . It would seem probable that the gods were consulted by
the taking of auspices before an oath was made. Cicero says that even in
private affairs the ancients used to take no step without asking
the advice of the gods 8 ; and we may safely conjecture that whenever a
god was called upon to witness a solemn promise, he was first enquired
of, so that he might have the option of refusing his assent by
giving unfavourable auspices. The terms of the oath were known as
concepta uerba, at least in the later Republic, and like the other forms
of the period they were strictly construed 4 . Periuriv/m did not
mean then, as now, false swearing. It meant the breach of an oath 5 , the
commission of any act at variance with the uerha concepta There is some
dispute as to what were the exact consequences of such a breach. Voigt 7
thinks that it merely entailed excommunication from religious
rites, but Danz 8 is clearly right in maintaining that its consequences
in early times were far more serious ; 1 Dion. i. 40. 2 Plaut. Rud.
5. 2. 49. Cio. Flacc. 36. 90. 8 Div. 1. 16. 28. 4 Seru. ad Aen. 12.
13. 6 i.e. 8ciem fallere, Plin. Paneg. 64. Seneca, Ben. in. 37.
4. 6 Off. in. 29. 108. 7 Ius Nat. in. 229. 8 Ram. RG. n. § 149.
they amounted in fact to complete outlawry. Cicero says that
the sacratae leges of the ancients confirmed the validity of oaths. Now a
sacrata lex was one which declared the transgressor to be sacer
(i.e. a victim devoted) to some particular god 1 , and sacer in the
so-called laws of Seruius Tullius 2 and in the XII Tables 8 was the
epithet of condem- nation applied to the undutiful child and the
unrighteous patron. So likewise it seems highly probable that the breaker
of an oath became sacer, and that his punishment, as CICERONE hints,
was usually death. The formula of an oath given by Polybius 6 is
more comprehensive than that given by Paulus Diaconus , for in it the
swearer prays that, if he should transgress, he may forfeit not
onry the religious but also the civil rights of his countrymen. This
shows that the oath-breaker was an utter outcast; in fact, as the gods
could not always execute vengeance in person, what they did was to
withdraw their protection from the offender and leave him tolhe
punishment of his fellow-men. The drawbacks to this method of contract were
the same as those of the old English Law, which made hanging the
penalty for a slight theft ; the penalty was likely to be out of all
proportion to the injury inflicted by a breach of the promise. So
awful indeed was it, that no promise of an ordinary kind could well
be given in such a dangerous form, and consequently the oath was not
available for the 1 Festus, p. 318, s.u. sacratae. 2 Fest. p. 230,
s.u. plorare. 8 Seru. ad Aen. 6. 609. 4 Leg. n. 9. 22. B in.
25. 6 p. 114, s.u. lapidem. 7 Liu. v. 11. 16. common affairs
of daily life. The use of the oath therefore disappeared with the rise of
other forms of binding agreement, the severity of whose remedies
was proportionate to the rights which had been violated; while at the
same time the breaking of an oath came to be considered as a moral,
instead of a legal, offence, and by the end of the Republic
entailed nothing more serious than disgrace (dedecus). In one instance
only did the legal force of the oath survive. As late as the days of
Justinian^ the services due to patrons by their freedmen were still
promised under oath 1 . But the penalty for the neglect of those services
had changed with the development of the law. At and before the time
of the XII Tables, the freedman who neglected his patron, like the
patron who injured his freedman 2 , no doubt became sacer, and was an
outlaw fleeing for his life, as we are told by DIONISIO. But in
classical times the heavy religious penalty had disappeared, and the
iurisiurandi obligatio was en- forced by a special praetorian action, the
actio operarum*. By the time of Ulpian the effects of the iurata
operarum promissio seem indeed to have been identical with those of the
operarum stipu- latio*, though the forms of the two were still
quite distinct. We may then summarise as follows our
knowledge as to this primitive mode of contract : The form
was a verbal declaration on the part of the promisor, couched in a solemn
and carefully 1 38 Dig. 1. 7. a Sera, ad Aen. 6. 609. 8 n.
10. 4 38 Dig. 1. 2 and 7. 5 Cf. 38 Dig. 1. 10. 1 worded 1
formula (concepta tierba), wherein he called upon the gods {testari deos)*,
to behold his good faith and to punish him for a breach of it.
The sanction was the withdrawal of divine protection, so that the
delinquent was exposed to death at the hand of any man who chose to
slay him. The mode of release, if any, does not appear.
In classical times it was the acceptilatio*, but this Was clearly
anomalous and resulted from the similar juristic treatment of operae
promissae and operae iuratae. Art. 2. Sponsio. Though the
point is contested by high authority, yet it scarcely admits of a
doubt that there existed from very early times another form, known
as sponsio, by which agreements could be made under religious sanction.
This method, as Danz has pointed out, was originally connected with
the preceding one. It was derived from the stern and solemn compact made
under an oath to the gods. But Danz goes too far when he identifies
the two, and states that sponsio was but another name for the sworn
promise 4 . The stages through which the sponsio seems to have passed
tell a different story. The word is closely connected with
airovSij, tnrivSeiv, and hence originally meant a pouring out of wine 8 ,
quite distinct from the con- vivial \ocfirf or libatio 6 , so that "
libation " is not its proper equivalent. The other derivation given
by 1 38 Dig. 1. 7, fr. 3. 2 Plant. Rud. 5. 2. 52. * 46
Dig. 4. 13. 4 Danz, Sacr. Schutz, p. 106. 8 Festus p. 329 s.u.
spondere. 6 Leist, Greco-It. R. O. p. 464, note o.
Varro 1 and Verrius 2 from sports, the will, whence according to
Girtanner 8 sponsio must have meant a declaration of the will, savours
somewhat too strongly of classical etymology. I. This pouring
out of wine, as Leist 4 has shown, was in the Homeric age a constant
accom- paniment to the conclusion of a sworn compact of alliance
(optcia iriara) between friendly nations. The sacrificial wine seems
originally to have added force to the oath by symbolising the blood
which would be spilt if the gods were insulted by a breach of that
oath. In this then its original form sponsio was nothing more than an
accessory piece of ceremonial. The second stage was brought about by
the omission of the oath and by the use of wine-pouring alone as
the principal ceremony in making less important agreements of a private
nature. In the Indian Sutras for instance a sacrifice of wine is
customary at betrothals 5 , and comparison shows that the marriage
ceremonies of the Romans, in connec- tion with which we find sponsio and
sponsalia applied to the betrothal and sponsa to the bride 6 , were
very like those of other Aryan communities 7 . We may therefore
clearly infer that at Rome also there was a time when the pouring out of
wine was a part of the marriage-contract; and thus our derivation of
the word receives independent confirmation. III. In the third
and last stage sponsio meant 1 L. L. vi. 7. 69. 2 Festus, «. u.
spondere. 8 Stip. p. 84. 4 Greco-It. B. G. § 60. 8 Leist, AlUAr. I. Civ.
p. 448. 8 Gell. iv. 4. Varro, L. L. vi. 7. 70. 7 Leist, loc.
ciu nothing more than a particular form of promise,
and it is easy to see how this came about. At first the verbal
promise took its name from the ceremony of wine-pouring which gave to it
binding force ; but in course of time this ceremony was left out as
taken for granted, and then the promise alone, provided words of
style were correctly used, still retained its old uses and its old name.
Sponsio from being a ceremonial act became a form of words. Such
was the final stage of its development. The importance
attached to the use of the words spondesne ?, spondeo in preference to
all others 1 thus becomes clear. Spondesne ? spondeo originally
meant " Do you promise by the sacrifice of wine V "I do
so promise," just as we say, "I give you my oath,"
when we do not dream of actually taking one. Another peculiarity of
sponsio, noticed though not explained by GAIO 2 , was the fact that it
could be used in one exceptional case to make a binding agreement
between Romans and aliens, namely, at the conclusion of a treaty. Gaius
expresses surprise at this exception. But if, as above stated, a sacrifice
of pure wine {airovhal a/cprjTot) was one of the early formalities of an
international compact (op/cia mard), it was natural that the word spondeo
should survive on such occasions, even after the oath and the wine-
pouring had long since vanished. Sponsio being then a religious act
and subse- quently a religious formula, its sanctity was doubtless
protected by the pontiffs with suitable penalties. What these penalties
were we cannot hope to know, 1 Gai. in. 93. 2 in. 94.
though clearly they were the forerunners of the penal sponsio
tertiae partis of the later procedure. Varro 1 informs us that, besides
being used at be- trothals the sponsio was employed in money (pecu/nia)
transactions. If pecunia includes more than money we may well suppose
that cattle and other forms of property, which could be designated by
number and not by weight, were capable of being promised in this
manner. Indeed it is by no means unlikely 2 that nexum was at one time
the proper form for a loan of money by weight, while sponsio was
the proper form for a loan of coined money (pecunia nwmerata). The
making of a sponsio for a sum of money was at all events the
distinguishing feature of the afibio per sponsionem, and though we
cannot now enter upon the disputed history of that action, its
antiquity will hardly be denied. The account here given of the
origin and early history of the sponsio is so different from the
views taken by many excellent authorities that we must examine
their theories in order to see why they appear untenable. One great class
of commentators have held that the sponsio is not a primitive
institu- tion, but was introduced at a date subsequent to the XII
TABVLAE. The adherents of this theory are afraid of admitting the
existence, at so early a period, of a form of contract so convenient and
flexible as the sponsio, and they also attach great weight to the
fact that no mention of sponsio occurs in our fragments of the XII
Tables. While it would doubtless be an anachronism to ascribe to the
early 1 L. L. vi. 7. 70. a Karsten, Stip. p. 42. J
sponsio the actionability and breadth of scope which it had in later
times, still it may very well have been sanctioned by religious law, in
ways of which nothing can be known unless the pontifical Commentaries of
Papirius 1 should some day be discovered. As to the silence of the XII
Tables on this subject, we are told by Pomponius that they were
intended to define and reform the law rather than to serve as a
comprehensive code 2 . Therefore they may well have passed over a subject
like sponsio which was already regulated by the priesthood. Or, if
they did mention it, their provisions on the subject may have been lost,
like the provisions as to iusiurandum, which' we know of only through
a casual remark of CICERONE’s. 8 . The early date here
attributed to the sponsio cannot therefore be disproved by any such
negative evidence. Let us see how the case stands with regard to
the question of origin. (a) The theory best known in England,
owing to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was a
simplified form of neocum, in which the ceremonial had fallen away and
the nuncupatio had alone been left 4 . This explanation is now so utterly
obsolete that it is not worth refuting, especially since Mr
Hunter's exhaustive criticism 5 . One fact which in itself is utterly
fatal to such a theory is that the nuncupatio was an assertion requiring
no reply 6 , i Dion. in. 36. 2 1 Dig. 2. 2. 4. 8 Off.
in. 31. 111. * Maine, Am. Law, p. 326. 5 Hunter, Roman Law, p. 385.
6 Gai. n. 24. B. E. 2 whereas the essential thing about
the sponsio was a question coupled with an answer. (6) Voigt
follows Girtanner in maintaining that spondere signified originally
" to declare one's will," and he vaguely ascribes the use of
sponsiones in the making of agreements to an ancient custom
existing at Borne as well as in Latium 1 . He agrees with the view here
expressed that the sponsio was known prior to the XII Tables, but thinks
that before the XII Tables it was neither a contract (which is
strictly true if by contract we mean an agreement enforceable by action),
nor an act in the law, and that its use as a contract began in the
fourth century as a result of Latin influence 2 . In another place 8 he
expresses the opinion that its introduction as a contract was due to
legislation, and most probably to the Lex Silia. The objections to
this view are that the etymology is probably wrong, and that the
inference drawn as to the original meaning of spondere iuvolves us in
serious difficulties. An expression of the will can be made by a
formless declaration as well as by a formal one. And if a formless
agreement be a sponsio, as it must be if sponsio means any declaration of
the will, how are we to explain the formal importance attaching to
the use of the particular words " spon- desne ? spondeo." (3)
This view ignores the religious nature of the sponsio, which I have
endeavoured to establish, and (4) it forgets that sponsio, being
part of the marriage ceremonial, one of the first subjects 1
Rom. RG. i. p. 42. 2 16. p. 43. 8 Ius Nat. §§ 33-4. to
be regulated by the laws of Romulus 1 , is most probably one of the
oldest Roman institutions. Again (5), as Esmarch has observed 2 , the
legislative origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We
only know that the Lex Silia introduced an improved procedure for matters
which were already actionable, and had a new formal contract been created
by such a definite act we should almost certainly have been
informed of this by the classical writers. (c) Danz also derives
sponsio from sports, the will; but he takes spondere to mean sua
sponte iurare, and thinks that the original sponsio was exactly the
same as iusiurandum, i.e. nothing more than an oath of a particular kind
3 . . His chief argu- ment for this view is to be found in PAOLO DIACONO,
who gives consponsor = coniurator. But why need we suppose that Paulus
meant more than to give a synonym ? in which case it by no means follows
that spondere = iurare. For such a statement as that we have
absolutely no authority. Moreover, as we saw above, iusiurandum was a
one-sided declaration on the part of the promisor only. How then could
the sponsio, consisting as it did of question and answer, have
sprung from such a source ? especially since the iusiurandum, though no
longer armed with a legal sanction, was still used as late as the days
of Plautus alongside of the sponsio and in complete contrast to it
? (d) Girtanner, in his reply to the "Sacrale
Schutz" of Danz 4 , maintains that sponsio had nothing 1 Dion.
n. 25. 2 K. V. filr G. u. R. W. n. 516. 3 Sacr. Schutz, p. 149. 4
Ueber die Sponsio, p. 4 fif. 2—2 9
to do with an oath, but was a simple declaration of the individual
will, and that stipulatio had its origin in the respect paid to Fides.
This view however is even less supported by evidence than that of
Danz 1 . Arguing again from analogy Girtanner thinks that, as the Roman
people regulated its affairs by expressing its will publicly in the
Comitia, so we may conjecture that individuals could validly
express their will in private affairs, in other words could make a
binding sponsio. But this, as well as being a wrong analogy, is a
misapprehension of a leading principle of early Law. For, as we
have seen, no agreement resting simply upon the will of the parties
(i.e. pactum) was valid without some outward stamp being affixed to it,
in the shape of approval expressed by the gods or by the people. In
the language of the more modern law, we may say that such approval, tacit
or explicit, religious or secular, was the original causa ciuilis which
dis- tinguished contractus from pactiones. Now a popular vote in
the Comitia bore the stamp of public approval as plainly as did the
nexum. But the sponsio, requiring no witnesses, was clearly not
endorsed by the people ; therefore the endorsement which it needed in
order to become a contractus iuris cvuilis must have been of a religious
nature, and that such was the case appears plainly if we admit that
sponsio originated in a religious cere- monial such as I have
described. To recapitulate the view here given, we may
conclude that sponsio was a primordial institution 1 See
Windscheid, K. F. fiir G. «. R. W. i. 291. of the Roman and
Latin peoples, which grew into its later form through three stages, (a)
It was originally a sacrifice of wine annexed to a solemn compact
of alliance or of peace made under an oath to the gods. (b) Next it
became a sacrifice used as an appeal to the gods in compacts not made
under oath such as betrothals. Just as iusiurandum for many
purposes was sufficient without the pouring out of wine, so for
other purposes sponsio came to be sufficient without the oath, (c) Lastly
it became a verbal formula, expressed in language implying the
accompaniment of a wine-sacrifice, but at the making of which no
sacrifice was ever actually performed. In this final stage, which
continued as late as the days of Justi- nian, Its form was a
question put by the promisee, and an answer given by the promisor, each
using the verb spondere. " Filiam mihi spondesne ? "
" Spondeo? " Centum dari spondes ? " " Spondeo?
Throughout its history this was a form which Roman citizens alone could
use, in which fact we clearly see religious exclusiveness and a further
proof of religious origin. Why they used question and answer rather
than plain statement is a minor point the origin of which no theory has
yet accounted for. The most plausible conjecture seems to be that
the recapitulation by the promisee was intended to secure the complete
understanding by the promisor of the exact nature of his promise.
Its sanction in the early period of which we are treating was
doubtless* imposed by the priests, but owing to our almost complete
ignorance of the pontifical law we cannot tell what that
sanction was. Having now examined the ways in which an
agreement could be made binding under religious sanction, let us see how
binding agreements could be made with the approval of the
community. There is reason to believe that this secular class of
contracts is less ancient than the religious class, because nexum and
mancipium were peculiar to the Romans, whereas traces of iusiurandum and
sponsio are found, as Leist has shown, in other Aryan civilizations
1 . Art. 3. nexvm. There is no more disputed sub- ject
in the whole history of Roman Law than the origin and development of this
one contract. Yet the facts are simple, and though we cannot be sure
that every detail is accurate, we have enough information to see
clearly what the transaction was like as a whole. We know that it was a
negotium per aes et libram, a weighing of raw copper or other
commodity measured by weight in the presence of witnesses 2 ; that the
commodity so weighed was a loan 8 ; and that default in the repayment of
a loan thus made exposed the borrower to bondage 4 and savage
punishment at the hands of the lender. We know also that it existed as a
loan before the XII Tables, for it is mentioned in them as
something quite different from mancipium 6 . To assert, as Bech-
mann does, that since nexum included conveyance as 1 Alt Ar. I.
Civ. I« e Abt. pp. 435-443. 2 Gai. in. 173. 3 Muciu* in Varro, L.
L. 7. 105. 4 Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, E. R. L. § 22.
well as loan " mancipiumque " must therefore be an
interpolation into the text of the XII Tables 1 , is an arbitrary and
unnecessary conjecture. The etymology of nexwm, and of mancipium shows
that they were distinct conceptions. Mancipium implies the transfer
of mami8, ownership ; nexum implies the making of a bond (cf. nectere, to
bind), the precise equivalent of obligatio in the later law. It is true
that both nexwm and mancipium required the use of copper and
scales, to measure in one case the price, in the other the amount of the
loan. But this coincidence by no means proves that the two transactions
were identical. A modern deed is used both for leases and for
conveyances of real property, yet that would be a strange argument to
prove that a lease and a conveyance were originally the same thing.
Here however we are met by a difficulty. If, as some hold 8 and as
I have tried to prove, we must regard mancipium as an institution of
prehistoric times distinct from the purely contractual nexwm, how
are we to explain the fact that nexwm is used by Cicero 8 and by other
classical writers 4 as equi- valent to mancipium, or as a general term
signifying omne quod per aes et libram geritur, whether a loan, a
will, or a conveyance ? Now first we must notice the fact that neamm had
at any rate not always been synonymous with mancipium, for if it had been
so, there could have been no doubt in the minds of 1 Kauf f
p. 130. * Mommsen, Hist. 1. 11. p. 162 n. * ad Fam. 7. 30 ; de Or.
3. 40; Top. 5. 28; Parad. 5. 1. 35. ; pro Mwr. 2. 4 Boethius
lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallus Aelius in Festas, s.u. nexwm ; Manilim in
Varro, L. L. 7. 105. Scaeuola and Varro that a res nexa was the
same thing as a res mamipata. This Scaeuola and Varro both deny,
and we must remember that Mucius Scaeuola was the Papinian of his day.
Manilius 1 on the other hand, struck perhaps by the likeness in
form of the obsolete nexum to other still existing negotia per aes et
libram, seems to have made nexum into a generic term for this whole class
of trans- actions. In this he was followed by Gallus Aelius 2 . The
new and wider meaning, given by them to that which was a technical term
at the period of the XII Tables, apparently became general in
literature, partly for the very reason that nexum no longer had an
actual existence, partly because need liberatio, the old release of
nexum, had been adopted by custom as the proper form of release in
matters which had nothing to do with the original nexum, namely in
the release of judgment-debts and of legacies per damnationem*. One
peculiarity men- tioned by Gaius in the release of such legacies
seems altogether fatal to the theory that mandpium was but a species of
the genus nexum. Gaius says that nexi liberatio could be used only for
legacies of things measured by weight. Such things were the sole
objects of the true nexum, whereas res maricipi included land and cattle.
Therefore if mancipiwm were only a species of nexum we should
certainly find nexi liberatio applying to legacies of res mancipi,
but this, as Gaius shows, was not the case. The view that nexum was
the parent gestum per 1 Varro, L. L. vu. 105. a Festus, p. 165, s.
u. nexum. 3 Gai. iii. 173-5. aes et
libram, and that mancipium was the name given later to one particular
form of nexum, is worth examining at some length, because it is
widely accepted 1 , and because it fundamentally affects our
opinion concerning the early history of an important contract. Bechmarm 2
thinks it more reasonable to suppose that nexum narrowed from a general
to a specific conception. But it is scarcely conceivable that nexum
should have had the vague generic meaning of quodcumque per aes et libram
geritur* when it was still a living mode of contract, and the
technical meaning of obligatio per aes et libram when such a contractual
form no longer existed. What seems far more likely is that nexum had
a technical meaning until it ceased to be practised subsequently to
the Lex Poetilia, and that its loose meaning was introduced in the later
Bepublic, partly to denote the binding force of any contract 4 ,
partly as a convenient expression for any transaction per aes et
libram\ Even in Cicero we find the word nexum used chiefly with a view to
elegance of style 8 in places where mandpatio would have been a
clumsy word and where 7 there could be no doubt as to the real meaning.
But when Cicero is writing history, he uses nexum in its old technical
sense and actually tells us that it had become obsolete 8 . 1
See Bechmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. § 22. 2 .16. p.
181. • Varro, I. c. — Festus, *. u. nexum. 4 Cf. "nexu
uetu&ti " in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7. 5 Cic. de Or. in.
40. 159. 6 Uar. Resp. vn. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28.
7 As in pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35. 8 de Rep. 2. 34 and cf.
Liu. mi. 28. 1. Rejecting then as untenable the
notion that nexum denoted a variety of transactions, let us see how
it originated. The most obvious way of lending corn or copper or any
other ponderable commodity, was to weigh it out to the borrower,
who would naturally at the same time specify by word of mouth the terms
on which he accepted the loan. In order to make the transaction
binding, an obvious precaution would be to call in witnesses, or if
the transaction took place, as it most likely would, in the market-place,
the mere publicity of the loan would be enough. Thus it was, we may
believe, that a nexurn was originally made. It was a formless agreement
necessarily accompanied by the act of weighing and made under public
super- vision. It dealt only with commodities which could be
measured with the scales and weights, and did not recognize the
distinction between res mancipi and res nee mancipi, — a strong argument
that nescum and mandpium were, as above said, totally distinct
affairs. Its sanction lay in the acts of violence which the creditor
might see fit to commit against the debtor, if payment was not
performed according to the terms of his agreement. Personal
violence was regulated by the XII Tables, in the rules of manus iniectio,
but before that time it is safe to conjecture that any form of
retaliation against the person or property of the debtor was freely
allowed. The fixing of the number of witnesses at five 1 ,
which we find also in rnancipium, . is the only modification of nexum
that we know of prior to 1 Gai. hi. 174. .
the XII Tables. Bekker 1 suggests that this change was one of the
reforms of Seruius Tullius, and that the five witnesses, by representing
the five classes of the Servian ceruma, personified the whole
people. This is a mere conjecture, but a very plausible one. For we
are told by Dionysius 8 that Seruius made fifty enactments on the subject
of Contract and Crime, and in another passage of the same author 8
, we find an analogous case of a law which forbade the exposure of
a child except with the approval of five witnesses. But here a question
has been raised as to what the witnesses did. The correct answer, I
believe, is that given by Bechmann 4 , who maintains that the witnesses
approved the transaction as a whole, and vouched for its being properly
and fairly performed. Huschke, on the other hand, claims that the
function of the witnesses was to superintend the weighing of the copper, and
that before the intro- duction of coined money some such public
supervision was necessary in order to convert the raw copper into a
lawful medium of exchange 5 . This view is part of Huschke's theory, that
neacum had two marked peculiarities: (1) it was a legal act per-
formed under public authority, and (2) it was the recognised mode of
measuring out copper money by weight. The first part of
Huschke's theory may be accepted without reserve, but the second part
seems quite untenable. We have no evidence to show that nexum was
confined to loans of money or of 1 Akt, i. 22 ff. a iv. 13. » ii.
15. 4 Kauf, i. p. 90. 8 Nexum, p. 16 ff. copper.
Indeed we gather from a passage of Cicero that far, corn, may have been
the earliest object of nexum 1 , while Gaius states that anything
measurable by weight could be dealt with by neari solvtio*. No
inference in favour of Huschke's theory can be drawn from the name
negotium per cms et libram, for this phrase obviously dates from the more
recent times when the ceremony had only a formal signifi- cance,
and when the aes (ravduscvlum) was merely struck against the scales. If
then we reject the second part of Huschke's theory, and admit, as
we certainly should, that nexum could deal with any ponderable commodity,
it is evident that his whole view as to the function of the witnesses
must collapse also. The very notion of turning copper from
merchandise into legal tender is far too subtle to have ever occurred to
the minds of the early Romans. As Bechmann 8 rightly remarks, the
original object of the State in making coin was not to create an
authorised medium of exchange, but simply to warrant the weight and
fineness of the medium most generally used. The view of Buschke
seems therefore a complete anachronism. There is also another
interpretation of neawm radically different from the one here advocated,
and formerly given by some authorities 4 , but which has few if any
supporters among modern jurists. This , view was founded upon a loosely
expressed remark of Varro's in which nexus is defined as 1
Cic. de Leg. Agr. n. 30. 83. 2 in. 175. 8 Kauf, i. p. 87. 4 See Sell,
Scbeurl, Niebuhr, Christiansen, Puchta, quoted in Danz, Rom. RG. n.
25. a freeman who gives himself into slavery for a debt which he
owes 1 . The inference drawn from this remark was that the debtor's body,
not the creditor's money, was the object of nexwm, and that a
debtor who sold himself by mancipium as a pledge for the repayment
of a loan was said to make a nexum' 2 . Such a theory does not however
harmonize with the facts. The evidence is entirely opposed to it,
for Varro's statement, as will be seen later on, admits of quite
another meaning. Neither nexum nor man- cipium is ever found practised by
a man upon his own person. Nor could nexum have applied to a
debtors person, for the idea of treating a debtor like a res mancipi or
like a thing quod pondere numero constat, is absurd. Again, if nexum =
mancipium, the conveyance of the debtors body as a pledge must have
taken effect as soon as the money was lent, therefore (1) by thus
becoming nexus he must have been in mancipio long before a default could
occur, which is too strange to be believed, and (2) being in
mancipio he must have been capite deminutus*, which Quintilian expressly
states that no nexal debtor ever was 4 . Clearly then mancipium was under
no cir- cumstances a factor in nexum. Thus it would seem that
the theory which regards nexum as a loan of raw copper or other goods
measurable by weight, is the one beset with fewest difficulties. Such
goods correspond pretty nearly to what in the later law were called res
fungibiles. 1 Varro, L. L. vii. 105 and see page 52. 8
nexum inire, Liu. vn. 19. 6. 3 Paul. Diao. p. 70, *. u. deminutus.
4 Decl. 311. The borrower was not required to return the
very same thing, but an equal quantity of the same kind of thing.
And this explains why neanim, the first genuine contract of the Roman
Law, should have received such ample protection. A tool or a beast
of burden could be lent with but little risk, for either could be
easily identified ; but the loan of corn or of metal would have been
attended with very great risk, had not the law been careful to ensure
the publicity of every such transaction. lusiurandum or sponsio
might no doubt have been used for making loans, but they both lacked .
the great advantage of accurate measurement, which neanim owed to
its public character. It was the presence of witnesses which raised neanim
from a formless loan into a contract of loan. This general
sketch of the original neanim is all that can be given with certainty.
The details of the picture cannot be filled in, unless we draw upon
our imagination. We do not know what verbal agreement passed between the
borrower and the lender, though it is fairly certain that payment
of interest on the loan might be made a part of the contract. We cannot
even be quite sure whether the scale-holder (libripens) was an official,
as some have suggested, or a mere assistant 1 . Our description
of the contract may then be briefly recapitulated as follows:
The form consisted of the weighing out and delivery to the borrower
of goods measurable by weight, in the presence of witnesses, (five in
number, probably since the time of Seruius Tullius),
whose attendance ensured the proper performance of the ceremony.
The ownership of the particular goods passed to the borrower, who was
merely bound to return an equal quantity of the same kind of goods,
but the terms of each contract were approximately fixed by a verbal
agreement uttered at the time. The sanction consisted of the
violent measures which the creditor might choose to take against a
defaulting debtor. Before the XII Tables there seems to have been no
limit to the creditor's power of punishment. Any violence against the
debtor was approved by custom and justified by the noto- riety of
the transaction, so that self-help was more easily exercised and probably
more severe in the case of nexum than in that of any other agreement.
The release (nexi solutio) was a ceremony pre- cisely similar to
that of the nexum itself, the amount of the loan being weighed and
delivered to the lender, in presence of witnesses 1 . Art. 4.
We have now examined three methods by which a binding promise could be
made in the earliest period of the Roman Law. The next question
which confronts us is whether there existed at that time any other
method. The other forms of contract, besides those already described,
which are found existing at the period of the XII Tables, were
fiducia, lex mancipi, uadimonium, and dotis dictio. Did any of these have
their origin before this time ? Fiducia is doubtful, and lex mancipi, as
we shall see, owed its existence to an important provision 1
Gai. in. 174. \.t of that code. As to the
origin of uadirnonium, we cannot be certain, but judging from a
passage in Gellius 1 we are almost forced to the conclusion that uadimonium
also was a creation of the XII Tables. Gellius speaks of •' uades et
subuades et XX V asses et taliones...omnisque ilia XII Tabhlarum
antiquitas." We know that twenty-five asses was the fine imposed by
the XII Tables for cutting down another man's tree, therefore it would
seem from the context that uades had also been introduced by that
code. The point cannot be settled, but since the XII Tables were at any
rate the first enactments on the subject of which anything is known, we
may discuss uadimonium in treating of the next period. The only
contract of which the remote antiquity is beyond dispute is the dotis
dictio. Art. 5. DOTIS DICTIO. Dionysius 8 informs us that in
the earliest times a dowry was given with daughters on their marriage,
and that if the father could not afford this expense his clients were
bound to contribute. Hence it is clear not only that dos existed
from very early times, but that custom even in remote antiquity had
fenced it about with strict rules. From Ulpian 8 we know that dos could
be bestowed either by dotis dictio, dotis promissio, or dotis
datio. The promissio was a promise by stipu- lation, and the datio was
the transfer by mancipation or tradition of the property constituting the
dowry ; so that these two are easy to understand. But dotis dictio
is an obscure subject. It is difficult to know whence it acquired its
binding force as a contract, 1 xvi. 10. 8. 2 ii. 10. 8 Reg. vi.
1. since in form it was unlike all other
contracts with which we are acquainted. Its antiquity is evidenced
not only by this peculiarity of form, but 9,lso by a passage in the
Theodosian Code which speaks of dotis dictio as conforming with the
ancient law 1 . An illustration occurs in Terence 2 , where the
father says, "Dos, Pamphile, est decern talenta" and Pamphilus,
the future son-in-law, replies, "Accipio"; but we need not
conclude that the transaction was always formal, for the above Code 8
, in permitting the use of any form, seems rather to be restating
the old law than making a new enactment. A further peculiarity, stated by
Ulpian 4 and by Gaius 5 , was that dotis dictio could be validly
used only by the bride, by her father or cognates on the fathers side, or
by a debtor of the bride acting with her authority. Dictio is a
significant word, for Ulpian 6 distinguishes between dictum and
promis- sum, the former, he says, being a mere statement, the
latter a binding promise. This distinction should doubtless be applied in
the present case, since dotis dictio and dotis promissio were clearly
different. The following theories seem to be erroneous : (a) Von
Meykow 7 holds that dictio was adopted as a form of promise instead of
sponsio for this family affair of dos, in order not to hurt the feelings
of the bride and of her kinsmen by appearing to question their bona
fides. That theory would be a plausible explanation, if dictio could ever
have meant a 1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. 3 3. 13. 4.
4 Reg. vi. 2. 5 Epit. n. 9. 3. 6 21 Dig. 1. 19. 7 Diet. d.
Rfim. Brautg. p. 5 ff. B. E. 3 promise, but from
what Ulpian says, this can hardly be admitted. (6) Bechmann 1
, again, connects dotis dictio with the ceremony of sponsio at the
betrothal of a daughter. The dos, he thinks, was promised by a sponsio
made at the betrothal, so that the peculiar form known as dotis
dictio was originally nothing more than the specification of a dowry
already promised. The dotis dictio would therefore have been at first a
mere pactum adiectum, which was made actionable in later times,
while still preserving its ancient form. The objection to this theory is
tKat it lacks evidence : indeed the only passage (that of Terence) in
which dotis dictio is presented to us with a context goes to show
that this contract was in no way connected with the act of
betrothal. (c) Another explanation is given by Czylharz 2 ,
ie. that dotis dictio was a formal contract. His view is based on the
scholia attached to the passage of Terence, which say of the
bridegroom's answer: "Mle nisi dixisset ' accipio' dos non
esset." Czylharz therefore looks upon the contract as an
inverted stipulation. The offer of a promise was made by the promisor,
and when accepted by the promisee became a contract. Though such a
process is quite in harmony with modern notions of Contract, it
would have been a complete anomaly at Rome. And we cannot believe that,
if acceptance by the promisee had been a necessary part of the
dotis dictio, we should not have been so informed by Gaius, when he
has been so careful to impress 1 Rom. Dotalrecht. 2 Abt. p. 103. a
Z.f. R. G. vn. 243. upon us that the dotis dictio could be made
nulla interrogatione praecedente. Thus the view of Czylharz besides
being in itself improbable is almost entirely unsupported by evidence.
Even the scholiast on Terence need not necessarily mean that "
accipio " was an indispensable part of the trans- action. He may
merely have meant that the bride- groom at this juncture could decline
the proffered dos if he chose, and this interpretation is borne out
by Iulianus 1 and Marcellus 8 , who give formulae of dotis dictio without
any words of acceptance. A satisfactory solution of the problem
seems to have been found by Danz 8 . He looks upon dos as having
been due from the father or male ascendants of the bride as an officium
pietatis 4 , and quotes passages from the classical writers in
which they speak of refusing to dower a sister or a daughter as a most
shameful thing 5 . The source of the obligation lay in this
relationship to the bride, not in any binding effect of the dotis
dictio itself. But in order that the obligation might be actionable its
amount had to be fixed, and this was just what the dictio accomplished.
It was an acknowledgment of the debt which custom had decreed that
the bride's family must pay to the bridegroom. In this respect the dos
was precisely analogous to the debt of service which a freedman
owed as an offidum to his patron, and which he acknowledged by the iurata
operarumpromissio. The dos and the operae were both officio, pietatis,
but 1 23 Dig. 3. 44. 2 23 Dig. 3. 59. 3 Rom. RO. I. 163.
4 See 23 Dig. 3. 2. 5 Plaut. Trin. 3. 2. 63 ; Oic. Quint. 31. 98.
3—2 it became
customary to specify their nature and their quantity. In the one case
this was done by an oath, in the other by a simple declaration, and
in both cases the law gave an action to protect these anomalous
forms of agreement. What kind of action could be brought on a dotis
dictio is not known. Voigt 1 states it to have been an actio dictae
dotis, for which he even gives the formula, but formula and action are
alike purely conjectural. We can only infer that the dotis dictio was
action- able since it constituted a valid contract. How or when
this came to pass we cannot tell. A further advantage of Danz' theory, and
one not mentioned by him, is that it explains the capacity of the
three classes of persons by whom alone dotis dictio could be performed.
(1) The father and male ascendants of the bride were bound to provide a
dos under penalty of ignominia; the bride, if sui iuris, was bound
to contribute to the support of her husband's household for exactly the
same reason 3 ; and (3) a debtor of the bride was bound to carry
out her orders with respect to her assets in his posses- sion, and
supposing her whole fortune to have con- sisted of a debt due to her, it
is evident that a dotis dictio by the debtor was the only way in
which this fortune could be settled as a dos at all. Thus the hypothesis
that the dos was a debt morally due from the father of the bride, or
from the bride herself, whenever a marriage took place, completely
explains the curious limitation with 1 XII Taf. ii. § 123. 2 24
Dig. 3. 1. 8 Cic. Top. 4. 23. FORM OF D0TI8 DICTIO. 37
regard to the parties who could perform dotis dictio. The nature of
the transaction may then be summarized as follows : Its form
was an oral declaration on the part of (1) the bride's father or male
cognates, (2) of the bride herself, or (3) of a debtor of the bride,
setting forth the nature and amount of the property which he or she
meant to bestow as dowry, and spoken in the presence of the bridegroom.
Land as well as moveables could be settled in this manner 1 . No
particular formula was necessary. The bridegroom might, if he liked,
express himself satisfied with the dos so specified ; but his acceptance
does not seem to have been an essential feature of the proceeding.
Most probably he did not have to speak at all. Its sanction does
not appear, though we may be sure that there was some action to compel
perform- ance of the promise. This action, whatever it may have
been, could of course be brought by the bride's husband against the maker
of the dotis dictio. Perhaps in the earliest times the sanction was
a purely religious one. Art. 6. Now that we have seen the
various ways in which a binding contract could be made in the
earliest period of Roman history, we may con- sider briefly the general
characteristics of that primi- tive contractual system. The first striking
point is that all the contracts hitherto mentioned are unilateral:
the promisor alone was bound, and he was not entitled, in virtue of the
contract, to any counterperformance on the part of the promisee.
1 Gai. Ep. 3. 9. The second point is that the consent of the
parties was not sufficient to bind them. Over and above that
consent the agreement between them was required to bear the stamp of
popular or divine approval. Even in dotis dictio, as we have just
seen, a simple declaration uttered by the promisor was invested
with the force of a contract merely because the substance of that
declaration was a transfer of property approved and required by public
opinion. Thirdly we notice that the intention of the con- tracting
parties was verbally expressed, but that the language employed was not
originally of any impor- tance (except in the one case of sponsio),
provided the intention was clearly conveyed. We must
therefore modify the statement so commonly made that the earliest
known contracts were couched in a particular form of words. For how did
each of these particular forms originate and acquire the shape in
which we afterwards find it ? By having long been used to express
agreements which were binding though their language was informal, and by
having thus gradually obtained a technical significance. Conse-
quently the formal stage was not the earliest stage of Contract. The most
primitive contract of all was not an agreement clothed with a form, but an
agree- ment clothed with the approval of Church or State. Nicola
Codronchi. Keywords: Su i contratti e giochi d’assardo, contratto, tre tipi di
contratto, contratto epistemico, contratto empirico, contratto misto,
concordato puo essere informale o formale. tre tipi di concordi formali
nell’eta regale, il giuramento per giove, il sponsio (il vino come simbolo del
sangue dei vittimi) e il nesso. Il giuramento per Giove e lo sponsio sono ambi
religiosi in natura. Solo il ‘nesso’ e secular – e chiede o necessita la
presenza della comunita come testificatore – e una forma tipicamente romana e
consequentemente piu tard ache le forme religiose che vediamo in altre comuita
arie. Il nesso si manifesta nel templo publico – ara maxima per Ercole – e
invoca la regola del primo re Romolo, contratti bilaterali, forma dialogica, A
esprime la proposizione e B risponde assentendo alla comprehension e
all’accettazione di p. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The
Swimming-Pool Library. Codronchi.
Grie e Colazza: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into
‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much
different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito
agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle
dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro
con l'antroposofia C. apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di
concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la
«via del pensiero cosciente». Altre
opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni
Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur. A strong anthroposophical influence came from C.
and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close to the group,
which adopted the name UR, were Kremmerz, founder of the Fraternity of Myriam. Sedute
spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico C., e che talvolta si
protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA
DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu
consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da
tenere sempre presente come guida.
L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo
dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti
estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui
siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere
alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare
che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso,
che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile,
se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la
pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente
quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi. Si dice che è importantissimo cominciare
sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto
di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento
che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o
sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da
riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima.
L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di
nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore
di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali
rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con
atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del
cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la
gerarchia. Tale stato di nostre anime
destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali,
ai quali siamo debitori. Astenersi dalla
critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la
qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia
perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità
dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo
sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore,
soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla
sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da
cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima.
Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare
immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando
nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni.
Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli,
senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le
concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano
esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale
ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel
nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un
perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione
su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali
esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la
nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un
grande nemico. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti
i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo
gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi.
Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla,
visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente
tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. Altra
cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare
e realizzare la differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di
natura vegetale o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie
nel vento, il rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una
diversa manifestazione delle forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo
prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite
l’orecchio dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in silenzio il sorgere
di qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come
avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne
la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi
percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo
se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni
immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad
impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione
soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è
affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come
manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico,
genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità
che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene
in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico
ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel
mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo
fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna
sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e
sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL
TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti
dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una
direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza
accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra
direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre
e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di
colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi
all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di
colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi, nascendo
dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver avuto una
vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il sentimento di
aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine percepita ci è
a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è un qualcosa di
già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o lemurico). È un primo passo verso il riconoscere in
coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in completa unione con
il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli occhi fisici un
seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò, occorre
interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del seme, sforzandosi
di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi chiusi. Si pensi
che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera pianta: vi è in lui
un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la quale manifesterà in
un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente contenuta. In lui
dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla nostra vista,
invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di crescita in
successione, nel triplice ritmo della sua costituzione: radice, fusto, fogliame, fiori, frutto. Non è
importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione, la
potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze insite
nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è l’elemento
invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo vegetale
trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e percepibile. Ci
si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad esso l’intero processo
immaginativo delle potenziali forme di crescita, dell’invisibile che è
diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà in noi come facoltà
di visione: una specie di nube luminosa, una specie di piccola fiamma di colore
lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la vivente forza vitale che
edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare una pianta in completo
sviluppo, sforzandosi di vedere in essa immaginativamente l’attuarsi del ciclo
seme-pianta-fiore-frutto seme, realizzando così un senso di perennità della
vita vegetale, espressa nella sintesi della forma della pianta stessa. In un certo senso, è come se dalla
pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o
Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi
sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa
pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi
tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante.
Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna
sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che
appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta
morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare.
Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della
pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione
personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da
una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta,
solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare
la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il
modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale.
L’obiettivo di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per
arrivare al suo contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame
il ricordo di un evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei
movimenti e nei gesti di un individuo preda di un fortissimo desiderio.
Sforzarsi di sentire in noi quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo,
trasferendo in noi tale sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da
poterlo osservare obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri.
Appariranno diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi
inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza
spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza
stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o
intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente
protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale
qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse
verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia
in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da evitare,
anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso immette nel
sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una specie di
neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita, distorce o
impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del mondo
spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un naturale
disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono l’irregolare
autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa paralizza le
forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente spirituale. I
vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare, come funghi,
legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce solare, come i
pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGL’ESERCIZI. Tutti
gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità del
corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso
particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose:
si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se
si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo,
casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi
antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La
mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo
fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico,
avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate
come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema
osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli
come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare,
quale moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra
coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il
sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il
centro del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di
esso si percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il
sistema nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si
ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli
organi interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come
“attaccati” al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro
il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di
gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile
ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione
dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è
l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la
percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico
Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione dell’etere di
luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa
viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica
non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o
immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il cervello, ma
il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e conservata.
Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo sperimentati, sarà
possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria.
Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una grande
autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza esitazioni.
Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo spirituale,
una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare insegnamenti a
qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la responsabilità
karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo uso che questi ne
farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie misteriose, ma solo
non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla nostalgia del nostro
passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i
mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina. La parola chiave è
“Pazienza”. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per
potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo
calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali
sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter essere accolte
dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo consentano: esse,
datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente attesa di poter
riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di muoversi incontro a
loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi aprire ad esse. Esse
possono riversarsi in noi solo se trovano purezza interiore; esse sono sempre
pronte, dai limiti della nostra coscienza, a connettersi con noi. Sono soltanto
i veli della personalità soggettiva, l’irrequietezza, i timori, gli impulsi
inferiori, a impedire loro di avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire
fisico, ogni reazione istintiva, paralizza i sensi spirituali. Bisogna
rinunciare alla suscettibilità e alla collericità: tacitare le passioni e i
desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza del desiderio, che impedisce la
percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio dei sentimenti che sorgono
spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti con gli altri, non la
durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera invalicabile, spezzando
un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio: positività e astensione dalla
critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto dall’ambiente della vita di tutti
i giorni, per raccogliersi e meditare in mezzo alla Natura. Il rumore della
vita quotidiana, può impedire il manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il
discepolo mano a mano si libera così della vita istintiva e dei caratteri
ereditari della sua razza e famiglia: si svincola dall’azione delle entità spirituali
corrispondenti. Occorre sempre chiedersi se si è degni di questa libertà
interiore che si vuole conseguire e se si ritiene di avere le forze necessarie
per sostenerla, affinché tale libertà agisca positivamente e correttamente. LE
sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è
connessa al karma: molte volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel
campo morale che gravi sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca
l’atteso miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la
chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo
esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o
un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in
immagini: non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma
soprattutto la figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far
scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una
parte di questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo
apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale
dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna
aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire
consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza
che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto
concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà
responsabilità per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri
permangono e si diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di
esseri. Operare secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io
inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale
solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi
al mantenimento di una decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto
dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non
bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si
trova travolti dall’onda di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre
essere riconoscenti, grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve
ricordare che nell’era di Saturno, “Tutto era Uomo”, e che solo grazie al frutto
del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei
regni inferiori, è stato possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare
per il sostentamento giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo
la direzione enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria
ed equilibrata alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni
siano determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere
abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA
POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e
orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione.
Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna
vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa,
supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali,
inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il
corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso
longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane
connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la
coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio
che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di
percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi,
perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla
chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del
loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”, sul capo. In un lontano passato, i fiori di loto erano
attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro
metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a
muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci
petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore.
IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione
tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo
delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine
delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità
di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le
condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo
dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno,
prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività;
le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse
all’argomento; ogni gesto e atto deve
essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare,
pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità
e la giustezza delle proprie aspirazioni;
imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita; la giornaliera meditazione per interrogarsi
sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È
di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità
promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo
interiore. A volte non è molto
altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza.
Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’
E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità:
anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione
sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a
due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale
centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il
cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio
reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione. Bisogna suscitare un rispettoso silenzio
riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre
accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni. Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a
trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta
incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle
forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la
percezione delle “forme”. Come gli
altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni
da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad
ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema
o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente,
distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di
persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non
intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri
deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé.
Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo
dato dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai
movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire
determinate da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro
pensiero. Pratica della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità,
compiendo e portando sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi,
gli esercizi o le determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare
la conoscenza dei motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla
comprensione degli errori altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di
criticare o giudicare; occorre far nascere in sé il desiderio di voler essere
utili all’altro tramite consigli o considerazioni costruttive, non con giudizi
che bloccano la sua evoluzione. Pratica dell’obiettività o spregiudicatezza;
non respingere immediatamente qualcosa che ci venga detta, e parimenti non
rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose da noi già appianate e
conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità, equilibrio degli
esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere le normali
reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina certamente
difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un buon
esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente importante
ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con un’altro
pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici PETALI
(Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri le
potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo
sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma
piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera
condotta di Vita. Occorre considerare la
totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee
spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la
coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse
risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono
alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato
tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare
interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente
impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o
simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si
immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno
dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri
spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e
spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire
immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e
insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza
molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo
dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare
e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni
tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di
sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE
PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre
in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente,
seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da
localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono
agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale
imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della
testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono
congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di
rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un
centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore
condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto
stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà
venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di
concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella
testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione.
RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il
vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi
fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA
INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie
di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per
qualche cosa. E’ relativamente facile
contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però
realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella
vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo
l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo
può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente.
L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA”. Il corpo eterico è
di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di
sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o
di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui
generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate.
Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di
fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego. Si ha la percezione che tutto che era la
nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro
dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo
astrale. Il praticare esercizi in modo
non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida
base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme
ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e
anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però
indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che
comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia
quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale).
L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2
petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali. Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue
tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello
spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà
rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri
immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva,
passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è
rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir
sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà
spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo
apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano
nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere:
costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale
esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene:
il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la
sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più
indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di
quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di
veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno
ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La
coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà
percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si
percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la
sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in
noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio:
sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di
aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire. Poi, i rapporti con gli esseri spirituali
assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una
voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita
esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno,
ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al
risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare
nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante
la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di
sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà
portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la
stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione
indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione,
meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in
meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno
senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero
scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza.
Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere
degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza.
LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il
discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione
delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi
spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare:
divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e
indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel
proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può
sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un
estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del
Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il
mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO
ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato,
istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale
automatismo innato, predisposto in lui.
Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto
l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno
autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una
nuova personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di
ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve
la ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato
l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da
poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo
diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione
di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di
una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL
GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è
possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare
le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle
proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli
automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del
guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è
pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente,
al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con
ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta
esteriormente la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella
figura esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso,
appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile.
Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che
palesa il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono
la propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione,
quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un
carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta
al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare
terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il
viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale
sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà
la sua deformità? Prendere coscienza della propria figura interiore è
l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL
GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua
figura riassume il nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia.
Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da
quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri
debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni
tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro
nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma
demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il
sentimento della paura. Il coraggio di
affrontare il guardiano è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio
destino nelle proprie mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può
causare dolore, rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che
offre minore resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di
più difficile e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano
muterà di forma in modo direttamente proporzionale al nostro adempimento
karmico, sino ad assumere figure luminosissime nella misura in cui ci saremo
purificati. Fino al momento dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e
quanti pesi portiamo nel nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi
di prima, dopo aver visto la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più
possibile ingannare sé stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio
karma, non si può dire di essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida
delle Potenze del karma per prendere noi stessi la responsabile guida di tale
compito, solo allora si comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora
le forze del Cristo si sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI
CONFRONTI DELLE GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito
di popolo nel quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi
animici che condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente
spirituale, nel quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo.
Il riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo
che ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a
scorgere nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere
appieno la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi
a quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini
inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di
conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se
vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende
qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale
nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato
durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e
dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del
mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai”
a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza
risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti
dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione
dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo
nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire:
offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente
proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA.
Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le
regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra
veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare,
sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa
stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La
vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in
coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande
tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato
dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non
detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura. L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale
seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel
mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento
egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa
da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato
partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti
gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali
porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha
compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur. “
Giardino di Maturità , chiamano certi antichi saggi il luogo, in cui pone
piede l'uomo allorchè gli divengon palesi gli arcani del mondo. Secondo
quei saggi in quel giardino non ci sarebbe fiore, che non re- casse
il suo frutto, non uovo, che non por- tasse .a maturità la vita in esso
germinante. Ma come oscure e- pericolose vengono al tempo stesso
descritte le vie che menano alla «= Porta Stretta », la quale appunto
chiu- de quel giardino. Si assicura, però, che quel- l'oscurità
diviene più chiara del sole e che quei pericoli non hanno potere contro
le forze di cui ferve l'anima di colui, al quale queste vie sono
mostrate con provvida mano da un “mistico” da un “niziato.” Tutto ciò come
puerile concezione di un' e- poca, in cui nulla si sapeva delle scienze
dei giorni nostri, viene ripudiato dall’ i/lu- minato, che crede di saper
distinguere fra i vaneggiamenti di una fantasia brancolante e
le ponderate vedute d'un intelletto “ scier- “i So ca
| oggi tificamente disciplinato E chi, ciò nonostante, parla oggi di
coteste concezioni, può Al star certo di vedere sul volto di molti
dei È , suoi contemporanei un sorriso, se. non di di : ll sprezzo,
per lo meno di compassione. Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci
sono I alcuni che, come quegli antichi saggi, par- MAS lano del «
rondo dell'anima , e della “ pa- “N Cuina 7a dello spirito ». Costoro
vengono riputati | fe AMA ì È 3 | persone che parlano di un mondo
immagi- fa nario, figurato loro soltanto dalla propria | »
Sbrigliata fantasia. Si deplora perfino che essi, LA in mezzo a un mondo
che ha raggiunto i tanto grandiosi risultati, grazie alla pura e i,
now austera logica, vadano brancolando come eb- branco ‘@& bri, cui ad
ogni momento viene meno la li sicurezza, perchè non si attengono a
ciò È che esiste “ positivamente ,,. Ora, che cosa dicono
questi edbri stessi i a codesti contradittori ? Quando si sentono f
arrivati all'alto punto, in cui è loro conferito il diritto di parlare di
sè, allora dalle loro È labbra si odono uscire le parole seguenti
: È “ Noi comprendiamo benissimo voi, ‘che dovete essere i
nostri oppositori. Sappiamo che molti di voi sono persone da bene,
che senza riserva si pongono al servizio del Vero e del Buono; ma
sappiamo altresì che Bee a), jr er => voi non ci potete
capire, fin tanto che pen- sate come appunto pensate. Sulle cose,
delle quali noi abbiamo da ragionare, potremo di- iscorrere con
voî, soltanto quando vi sarete presi voi stessi la pena di apprendere il
lin- guaggio nostro. Dopo questa nostra dichia- razione molti di
voi, certo, non vorranno più oltre occuparsi di noi, perchè
crederanno di aver riconosciuto che al farneticamento della nostra
fantasia si accoppia in noi an- che un immedicabile orgoglio. Noi
però comprendiamo voi anche in siffatta affer- mazione e sappiamo
al tempo stesso che dobbiamo essere non già superbi, ma mo- desti.
Per incitarvi a tentare di entrare nel nostro ordine di idee non ci resta
che una cosa da dire: Credeteci, noi non ricono- sciamo un vero
diritto di parlare delle no- stre conoscenze se non a colui, il quale
sia capace di sentire con voi ciò che vi co- stringe alle vostre
asserzioni, e che cono- sca a fondo la forza, la potenza
convincente e la portata della vostra scienza. Colui che non reca
in sè la sicura consapevolezza di poter pensare ponderatamente,
scientifica mente, come l’ astronomo o il botanico 0 lo zoologo più
obbiettivo, costui in fatto di vita spirituale, di conoscenze mistiche
do- 9 e =
e Re vrebbe contentarsi di apprendere, e non
già volere insegnare. Ma non ci si frain- ‘tenda: noi parliamo
soltanto di insegnanti, non di studiosi, Studioso di misticismo
può : divenire chiunque, giacchè nell’ anima di ogni
persona si trovano le facoltà, i poteri presaghi, che si schiudono al
‘Vero. Il Mi- stico dovrebbe parlare in modo comprensibile, anche pei più
indotti; e a coloro, ai quali, secondo il grado del loro
intendimento, egli non potrebbe dire un centesimo della verità, ne
dirà ‘solo un millesimo. Costoro oggi riconoscono questa millesima parte
; domani riconosceranno la centesima. Tutti possono essere “
sfudiosi ,, ma “ insegnante ,, non dovrebbe voler diventare nessuno, che
sia incapace di assoggettarsi alla disciplina del più austero intelletto
e della scienza' più severa. Sono veri insegnanti di misticismo
soltanto coloro che sono stati precedente- mente rigidi cultori della
scienza, e che sanno perciò che cosa viga nella scienza. Anche il
vero mistico ritiene visionario, inebriato, chiunque non sia capace di
deporre in qua- lunque momento il solenne paludamento del mistico
per indossare la modesta tunica del fisico, del chimico, del botanico “e
dello zoologo », sitori ;' con la massima modestia li
assicura ‘che intende il loro linguaggio e che non si arrogherebbe
il diritto di essere un mistico, se si sapesse ignaro del loro
linguaggio. Al- lora, però, egli può anche aggiungere di sa- f
|pere, e di saperlo come si sanno i fatti della Ù vita esteriore, che,
qualora i suoi Opposi- ® \tori imparassero il suo linguaggio,
cesserebbero di essere suoi oppositori. Egli sa que- sto come
chiunque, il quale abbia studiato chimica, sa che, date certe condizioni,
dal- l'ossigeno e dall' idrogeno si forma l' acqua. Che Platone non
volesse ammettere ai gradi superiori della sapienza nessuno
che > mon conoscesse la geometria, non significa «già che
egli facesse suoi alunni soltanto i li Y T Così parla
il vero mistico ai suoi oppo- A 9 U L
dotti in geometria, ma significa che quei suoi alunni dovevano
essersi educati alla se- vera, rigida, ed esatta investigazione,
prima che venissero loro schiusi gli arcani della vita spirituale.
Una tale esigenza ci appari sce nella sua giusta luce se ‘riflettiamo
che nelle regioni trascendentali viene meno l'ele- |
mento di fatto, a cui si saggia e corregge ad ogni piè sospinto l'
investigazione ordi- naria del mondo. Se il botanico si forma
“concetti erronei, subito i suoi sensi lo illu- n
conci Da (UR IZA minano circa il suo errore. Tra lui e
il mi- stico corre il rapporto stesso che intercede fra chi cammina
su strada piana e chi ascende una montagna: il primo può cadere a
terra, ma solo in casi eccezionali potrà causarsi la morte ; all’
altro, invece, questo pericolo sta sempre dinanzi, E certamente
nessuno che non abbia imparato a camminare può ascendere una
montagna. Poichè ; fatti spi- rituali non correggono i concetti allo
stesso modo che li correggono i fatti del mondo esteriore, un
pensare rigorosissimo e degno della massima attendibilità è un ovvio
pre- supposto per l'investigatore mistico. Quando ci si dà tutti a
pensieri siffatti, si riconosce che cosa intendevano dire que- gli
antichi saggi, allorchè parlavano dei pe- ricoli che minacciano chi
voglia penetrare negli arcani del mondo. Se alcuno si ap- pressa a
questi arcani con mente indiscipli- nata, essi determinano nella sua
anima de- plorevoli disordini. Divengono pericolosi come una bomba
di dinamite nelle mani di un fanciullo. Perciò da ogni investigatore
mi- stico si esige rigorosamente che la norma- lità del suo
pensare, di tutta, anzi, la sua vita psichica, abbia saggiato le proprie
forze SE E attorno a problemi gravi e spinosi, prima
che egli si appressi ai compiti più elevati. Valga ciò come accenno a
quel che il mi- stico intenda dire, quando parla dei primi gradi
della Iniziazione nelle verità superiori. Moltissimi, i quali reputano di
starsi SUI Mrfica | più alti gradi della cultura moderna,
stimano che sano pensare e misticismo siano due termini
incolta sano che una illuminata educazione scienti- fica
debba estirpare dall'individuo qualunque | tendenza mistica. E costoro
trovano in par- b cora di tali tendenze chi conosca gli impor»
tantissimi risultati della moderna scienza na- | turale. Se avesse
ragione chi la pensa così, | si dovrebbe allora, certo, concedere che
la Mistica non abbia nel nostro tempo se non | piccola probabilità
di trovare accesso alle anime dei nostri contemporanei; giacchè
nes- «suno, il quale abbia intendimento dei biso- gni spirituali di
questa nostra età, può du- bitare che siano pienamente giustificati
i trionfi della scienza naturale già conseguiti. e ancora da
conseguire in avvenire. Biso- vi MER Na bilmefite antitetici.
Essi pen- K pate ticolar modo incomprensibile che abbia an)
"fi LI Peli so Naturalistici
itreprimibili do u + Con una certa tr ‘ zione cotesti
insoddisfatti <j O Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui
le” oro anime han Sete: ]ì gj affaccia loro ino Copiosa vena IÒ, di
cui il loro Cuore ha bj. Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale!
Si In contatto con e Sa costoro sentono | Propria Crescere; ivi tr
aNo ciò che ] uomo | eve incessanternente ce vino! D’
rcare: l’ali Ta parte, Però, essi sj Petere ;l ito
diate a monito: « Bj ‘formarvi, mediante Ja
cie rale, un pen | non vj chiappanuvole vai
monito, l’anima loro sj inaridisce, econdita , . tò, in fondo all’
an ogni individuo Verità, e i che grande maestra
dell’uomo è la ] mande AIR Chi
potrebbe non dare, per intimo consenso, ragione al Goethe, allorchè dice
che dagli errori e dalle disarmonie degli uomini egli si ritira
sempre con rinnovato contento, ri- volgendosi alle eterne necessità della
natu- ra? E chi potrebbe leggere senza incondizionato consenso quelle
parole, con le quali il grande poeta descrive i sentimenti che
lo assalirono in una solitaria meditazione sulle ferree leggi,
secondo le quali la natura forma le montagne ? “
Seduto su di un’ alta e nuda vetta, e spaziando con l'occhio su di una
vasta sottostante regione, io posso dirmi: “ qui tu poggi immediatamente
su di un suolo, che ‘arriva fin giù ai più profondi strati
della terra. In_questo istante, in cui le eterne forze di
attrazione e di movimento della terra quasi direttamente agiscono
su di me, in cui più presso a me aliano e mi avvolgono gli
influssi del cielo, vengo come sospinto a drizzare l'animo mio a studi
più alti sulla natura.... Così, dico fra me e me, mentre da questa
cima nuda volgo lo sguardo in giù, così sentesi solitario chi voglia
schiu- dere l'anima propria unicamente ai più pri- mordiali, più
antichi e più profondi sentimenti del vero. Sì, egli può dire a se
stesso: SONG). pe Qui, sull'antichissimo ed eterno
altare, im- mediatamente eretto sul punto più basso della
creazione, offro sacrifizio all'Essere di tutti gli esseri. E' pur
naturale che questa disposizione d'animo, per cui si resta reverenti
dinanzi alla grande istruttrice Natura, si trasferisca sulla
scienza ‘che ne discorre. Non deve esistere antinomia fra i
senti- menti che pervadono l'anima, quando essa si approssima alle
“ austere e profondissime verità primordiali , circa la vita
spirituale, e quelli che v'irrompono, quando l'occhio si posa
sull'attività costruttrice della natura. Manca forse intelletto al
mistico per co- testa armonia della natura coi sentimenti più sacri
all'anima umana? Tutt'altro; giacchè al di sopra dell’altare, sul quale
il vero mi- stico offre i suoi sacrifizi, in ogni epoca, in cui può
spingersi l'indagine umana, stette scritto a lettere di fuoco fiammante,
come legge. suprema: “ Natura è la grande guida al divino, e la
conscia ricerca umana delle fonti del Vero deve seguire le orme
della sua recondita, volontà. Se i Mistici seguono questa loro
norma suprema, nessuna antitesi dovrebbe sussi- stere fra le vie
loro e quelle su cui camminano gli investigatori della Natura. E tanto
meno tale antitesi dovrebbe determinarsi in un'epoca, che
tanto deve alla scienza na- turale. Per intendere bene quest’
ordine di de occorre domandarci: “ In che, dune ue consistere l’
accordo fra la Scienza*fi Lie e il Misticismo ? E in che potrebbe, invece,
aversi un'antitesi? ,, Ebbene, l'accordo non può venir cercato
| se non nel fatto che le rappresentazioni che ci facciamo
intorno alla entità dell’ uomo ‘non siano estranee a quelle che abbiamo
in- | torno agli altri esseri della natura; nel ravvisare, quindi, nel
’opera della natura e nella — vita dell'uomo uno stesso e unico tipo
di “ ordine retto da leggi ,. L Un'antitesi, invece, si avrebbe, se
si vo- lesse vedere nell’uomo un essere di specie
"completamente diversa dalle creature natu- rali. Coloro che
vogliono un' antitesi in tal senso si sbigottirono fortemente quando,
più di 40 anni fa, il grande scienziato Huxley, informandosi allo
spirito stesso della scienza — naturale moderna, sulla base della somi-
pigliante struttura anatomica, concluse la stretta parentela fra l’uomo e
gli animali supe- ori con queste parole: “ Possiamo prendere in esame un
sistema di organi qual- siasi; l'esame comparativo di essi nella
serie delle scimie ci conduce sempre a questo me- È desimo risultato:
che le diversità anatomi- che, per le quali l’uomo è distinto dal
go- rilla e dallo scimpanzè, non sono tanto grandi quanto quelle
che separano il gorilla dalle altre scimie inferiori. Una. tale
asserzione può, però, sbigottire solamente quando la si riferisca in
modo errato all’ essezza dell'uomo. Certo ne può. facilmente
rampollare il pensiero: “ Ma come è vicino, dunque, l’uomo alle bestie |
, Questa stretta affinità non suscita però nel mi- stico nessuna
preoccupazione , giacchè per lui ne balza subito anche l' altro pensiero:
| “A quali fini superiori, però, possono ser- \vire gli organi che
ritrovansi nelle bestie, — allorchè sono trasformati in organi umani!
» Il mistico sa che l'occulta volontà della na- tura muta la
percezione animale in percezione umana cofì lo sviluppare in altra forma
gli-organi animali. Egli segue le sicure orme della natura e ne continua
l'operato. Per lui i l'opera della natura non è punto terminata con
ciò che essa gli ha donato. Egli diviene un fido discepolo della natura
per il fatto appunto di portarne l’opera a maggiore al-
1 toi tezza. La natura lo ha portato
fino al pen- sare e al sentire umano; egli, però, non prende questo
pensare e questo sentire come qualcosa di fissato, d'immobile; ma li
rende capaci di attività superiori. Avviene per opera della sua
volontà ciò, che nell'ambiente na- turale esteriore avviene
indipendentemente da essa. Gli occhi, come sono ora in lui,
attestano che gli organi visivi sono capaci di ben altro ufficio di
quello che compiono «® ©» nelle scimie. Così l’ occhio può venir
tra- stormato. Le facoltà psichiche del mistico evoluto sono,
rispetto a quelle dell’ uomo non evoluto, nello stesso rapporto in
cui sono gli occhi umani rispetto a quelli delle scimie. Si capisce
che chi non è mistico.in- pelende tende l’anima del_ mistico nella stessa
scarsa 64 liel misura, in cui l’animale può intendere il, mote
pensare dell’uomo. E come alla creatura non pensante si schiuderebbe
tutto un nuovo mondo, se potesse svolgere in sè la facoltà
del pensare, così il mistico, dopo lo svi- luppo delle sue facoltà
superiori acquista la visione di un altro mondo. In questo “ altro
mondo ,, egli è “ iniziato ,. Chi_non_ di- Re »Yiene Mistico rinnega la
natura. Ègli non È a progredire ciò che essa ha prodotto
senza di lui con la propria volontà occulta. Per- di
mati Vella lastare Mor pTa ene dPR ULOPY CELL. PI
| Peg) AM e? lug las } "El n fe fest NL Los ; mid : ni gd ed deli è
y villa mM ni collo i fiat 1a CA di (ANI it pece iò egli si
pone in contrasto con la natura, «giacchè questa trasmuta
continuamente le proprie forme: dal vecchio essa crea eterna-
mente il nuovo. Ora, chi, conformemente %@. alla moderna
scienza naturale, crede a que- sta trasmutazione, crede a questa
evoluzione n) e, ciò nonostante, non vuole trasmutare se
esso , costui riconosce, sì, la natura, ma A; nella sua
propria vita si pone in contradi- &l-zione con essa. Non si
deve soltanto rice- > noscere l'evoluzione, si seno ivato Non
si limitino, dunque, le facoltà della nostra vita ;,
col tener conto esclusivamente della nostra ‘ parentela con gli
altri esseri. A chi per edu- cazione mistica diviene un fido alunno
della natura, si schiude il senso per la superiore
evoluzione. A proposito di questi cenni sulla Mistica e
sulla /riziazione molti diranno: Ma che ci giova questo discorrere
di facoltà a noi sconosciute! Dateci queste facoltà, e vi
cre- deremo ! ,. Nessuno, però, può dare a un altro
cosa che questi rifiuti. E il più delle volte ciò che incontrano i
nostri mistici è . un brusco rifiuto. Al presente essi non
pos- sono fare. molto .di più che raccontare le loro
cognizioni mistiche a quelli che vo- gliono prestare ascolto. Ciò ,
naturalmente n nt x IE RAIPAT cn potima tl — 29
C j Pa ENTI OT le ero Art 1 er? che, I, , a . = ì” \
wr / a) i e. e 7 pederntdt hern ci tCAns4- 1
È à a tutta prima un volersela cavare col RE ce raccontare
che cosa c'è in America a chi ci dicesse: “ Ajutatemi ad andarci!
,,. Ma pare, non è realmente una scappatoja, perchè i processi
dello spirito sono diversi da. quelli fisici Molto tempo prima che
l'uomo sia in grado di fissare la verità im piena luce, egli ha la
possibilità di intrave- derla, e di accoglierla nel suo sentimento.
E questo sentimento stesso è una forza, che lo può condurre più avanti.
E' questa una fase per cui è necessario passare Chi segue con
ricettivo abbandono la narrazione del Mistico, già calca il sentiero che
mena alle verità superiori. Solo l' Iniziatof'comprende
completamente l’Iniziato: ma angie per vero rende anche il non iniZiato
ricettivo alle parole del Mistico. E questa sua ricet- tività è
strumento con. cui egli lavora a schiu- dere i propri organi mistici. Ciò
che prima-, mente occorre è che si abbia questo senso | della
possibilità di conoscenze superiori: al- | lorà not si passa più
incurantemente ac- canto alle persone che di queste conoscenze
superiori tengono parola. E' stato già detto che anche al
presente ci sono persone che si adoperano a rinno- vare la vita
mistica. Up irene Kona diteou@ crt
u pe ud) fasi cl fa ine piftae 1 Om?
eudere } fnmmale tri rautwews i E Qui vi voglio
intrattenere di due esempi di tal genere, cioè del libro “ //
Cristiane- simo esoterico, (o i Misteri minori) ,,, di Annie
Besant, (1), e su “ / grandi Iniziati » el geniale pensatore e
poeta francese Edoardo Schuré (2). Ambedue queste opere gettano
luce sulla natura della così detta Iniziazione. Annie Besant, mostra come
il Cristianesimo debba venire compreso quale risultato di codesta
Iniziazione. Edoardo Schuré tratteg- gia le figure dei massimi duci
spirituali della umanità, fondandosi sulla convinzione che le
grandi confessioni religiose e le grandi filosofie cosmologiche da quei
duci dispen- sate all'umanità, celano verità eferne, che si
possono cercare e re soltanto in quelle dottrine filosofiche e
religiose. Ambedue queste opere trovano la propria giustificazione
unicamente nel campo del Mi- sticismo. Esse traggono la loro origine
da quella corrente spirituale dei tempi nostri, che è destinata ad
elevare l'umanità da un incivilimento puramente esteriore all'altezza
Traduzione Italiana di D. e O. Calvari, Roma, 1904, (2)
Traduzione Italiana edita da G. Laterza, Bari, suh Tor ella Vea dii Conti
| RA fOdeth4, nu pori? IU) di vedute
spirituali. Verrà tempo, in cui il “pensiero scientifico,, non potrà più
contrapporsi _ostilmente a questa corrente. La scienza naturale
riconoscerà allora che non si comprendé lo spirito col.negarlo , e che |
non si contr lle leogi naturali col_cer- re Treo © x iii dpi uelle
spirituali. Non si designeranno iù i Mistici come oscurantisti , giacchè
si saprà che soltanto pei loro avversari il campo di cui essi
ragionano è oscuro. E non s'irriderà più l' Iniziazione, come i non
si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla 2 gare la vita dei
microrganismi deve prima 4, tyoex94 imparare a userei.
microscopio. | "I vv trvalta L'indagine implica la necessità di
adem- ' 3 piere a certe condizioni preliminari. Queste P**
ic; condizioni per l'aspirante mistico non con- sistono ,
naturalmente, in pratiche di tecni- | cismo esteriore, bensì na
osservanza di un determinato orientamento della..vita si- È ‘
chica. Grazie a tale A si dischiude Tide il senso per certe verità, le
quali non con- templano ciò che è FARA, ma ciò, di, A cui, secondo
le parole de Goethe “ ib.tran-\ itori v Bi n_simbolo ». In_s sid |
oe alla esistenza umana giacciono capacità,su- | CRA i GIONO
CA \periori, come il frutto giace.in grembo al fiore. E perciò
nessuna creatura dovrebbe TI YOMOMono wu € 0kL Lia UT E E I
ipa ln Leno el muyert Sace caprata farvi vtuel' fa P
even ord LISI (NE presumere di dire che “ nel
suo mondo vi i è qualche cosa di esauriente, di compiuto ». Il Se
un uonio ha tanta presunzione, assomi- i glia al verme che ritiene_come
orizzonte i | della esistenza il mondo dei suoi sensi. li —_
* Giardino di maturità » Chiamasi quel IR luogo, dove divengono palesi
gli arcani del mondo. Per accedere a tal luogo bisogna tI che
l’individuo stesso. tenda la sua volontà AU x al raggiungimento della
propria maturità. Ù" qultan Vé“ Bisogna che tu rompa e getti via da
te È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano, e svegli
| see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi
en- n trare per la “ Porta stretta » Nel “ Giardino È di maturità
,. TAR Come molti uomini insigni, anche il p Goethe espresse
numerose verità dalla pro- fonda vena del suo intuito ,
enunciandole non già in diffusi e circostanziati discorsi, bensì in
brevi e spesso enigmatici accenni. sr Uno di tali accenni è in questo
periodo: dg “ Nelle opere dell’ uomo, come in quelle n e della
Natura, sono le intenzioni, che meri- / tano specialmente la nostra
attenzione ,,. E' questo un aforisma che verrà com- preso in
tutta Ia sua profondità quando lo Î si applichi ai più importanti
fenomeni della vita spirituale umana. Giacchè, come possiamo acquistarci
senso e comprensione per le azioni di un singolo individuo soltanto
quando ne veniamo a conoscere le_inten- zioni, così ci accade anche per
la storia del- l'intiero genere umano. Ma che abisso in- tercede
fra l' osservazione degli atti che si svolgono palesemente alla luce del
giorno, e il riconoscimento delle intenzioni che giac- ciono nelle
regioni occulte dell'anima! Si può essere addirittura rudimentali quanto
a intuito e a intendimento rispetto ‘a un altro uomo, ed essere
tuttavia capaci di osser- varne le azioni; ma bisognerà avere
almeno un po' delle sue qualità di spirito e della sua levatura
psichica, se si vuole penetrarne le intenzioni. Senza di ciò la
sorgente del suo ! agire rimane un arcano, un enigma, alla
cui soluzione ci manca la chiave, Non accade diversamente con i
grandi fatti della storia spirituale dell'umanità. Questi fatti stessi
son lì aperti davanti agli occhi dello storico; ma le intenzioni
giacciono in profondità molto recondite. In queste profondità deve
pene- frare colui, che vuol procurarsi la chiave per la
comprensione. Orbene, l'iptenzione di un’a- zione giacerà tanto più
profondamente re- condita, quanto più questa azione avrà im-
portanza e quanto più ampia sarà la sua portata. L'intenzione di un atto
della vita quotidiana non è difficile a penetratsi. Ma non può
essere così, naturalmente, di azioni, la cui portata abbraccia una serie
di secoli. Chi a ciò pon mente giunge a presentire che cosa siano i
Misteri: giacchè in cotesti Misteri sono riposte le irzfezzioni dei
grandi fatti dell’ umana evoluzione, involgenti il mondo intero
nella loro portata. E coloro che conoscono queste intenzioni e
posseno con ciò conferire alle proprie azioni stesse \ quel peso
che le rende realmente efficaci per lunga serie di secoli, sono gli
/niziati. Solo chi nella storia del mondo scorge unicamente una
mèra successione di casi fortuiti, può negare l'esistenza dei Misteri
e degli Iniziati. In tal caso non c'è che da attendere che un uomo
siffatto si ponga un bel giorno a studiare con occhio amorevole i
fatti della storia. Allora un po’ per volta albeggerà al suo sguardo un
significato, un nesso, ed egli finirà per non più conside- rare
Tortuiti quei fatti storici, come non con- sidera automa un individuo che
veda muo- versi ed agire. Giungerà così nella sua in- vestigazione
là, donde gli Iniziati dirigono il progresso umano, secondo le conoscenze
the sono avvolte nell'ombra dei Misteri. AA
vila AATZzat fer, i 40 dad x x £ > it hu v da ORI ig
tivfeco Vellar11W; 7 Di cotesti Misteri parlano i
testi religiosi di tutti i tempi. E ad essi vengono condotti
coloro, che non si fermano alla vita estrin- seca dei fondatori delle
varie religioni , nè alle vicende storiche del propagamento delle
loro dottrine; ma che, invece, cercano di elevarsi_alle intenzioni di
quei fondatori di | religioni. Non dovrebbe eccitare stupore il
fatto che queste intenzioni rimangano av- volte in arcana oscurità e
vengano comu- nicate soltanto a degli eletti entro le scuole di
sapienza, che sono appunto i Misteri; giacchè si fa opera saggia solo
quando a un individuo si comunica ciò che egli può capire, o, con
altre parole, quando gli si comunica qualcosa, soltanto quando egli
si sia messo in condizione di capirla. Per com- piere azioni che
abbiano peso e valore oc- |_——corre possedere un’alta sapienza, e per
ap- propriarsi un'alta sapienza bisogna passare per un periodo
lungo e arduo di prepara- zione. Così avviene nei Misteri. L’
evoluzione spirituale dell'umanità pro- cede innanzi per opera delle
varie religioni e cosmologie. Chi coopera a questa evolu- zione
mette in movimento le forze spirituali degli uomini. Bisogna che egli
conosca le leggi da cui dipende questo movimento, DE: pri
come deve conoscere le leggi della chimica chi vuol
mescolare le sostanze con effettuale risultato. Néi Misteri vengono
insegnate le . leggi supreme della vita spirituale; viene in- _
segnata la chimica dell'anima. E bisogna cercare di penetrare
nella natura di queste leggi, se si vogliono sorprendere , o
anche solo presentire, i moventi che stanno alla i A base delle
azioni dei grandi Istruttori della umanità. All'unisono
con tutti coloro che cercano di schiudersi per tale visione gli
occhi spi- rituali, Annie Besant parla nel suo libro « 7/
Cristianesimo esoterico, (0 I Misteri mino- ré) », di un “
lato occulto delle religioni , A lea Nell’analisi dei mistici arcani del Cristiane-
1% simo, del così detto suo contenuto esoterico, ne. essa
luminosamente si addentra e trascina. d il lettore nell'intimo
della questione relativa sperato! scopo delle religioni. ‘a questo pro-
| Posito l'autrice così scrive :..... “ Esse ven- gono date
al mondo da uomini più saggi delle masse etniche , alle quali le
religioni Stesse sono dispensate e hanno appunto lo Vedi pure
«Il Cristianesimo come fattore mistico » di Rudolf Steiner. (Deposito presso
l'Ed. Bem- 7 porad, Firenze). Lolo scrullo du fevomeri
sia Pe i Dul th h Ha DI ire _ eSleeml J > Uibftsore
» Sé Lap de scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità.
Per conseguire ciò effettivamente esse deb- di bono giungere fino
agli individui e avere in- fluenza su loro. Orbene, gli uomini non sono
î tutti allo stesso livello di evoluzione, anzi i l'evoluzione
potrebbe venire rappresentata come una scala ascendente di gradi, su
ognuno asLelo api dei quali si trovano
uomini. I massimamente evoluti stanno di un gran tratto più su dei
meno evoluti, sia in intelligenza che in ca- A rattere; ad ogni grado
varia la capacità di 4 .. comprendere egualmente che quella di agire.
} E' perciò vano dare a tutti ii medesimo in- FE _ segnamento
religioso; quel che gioverebbe all'uomo d'intelletto resterebbe
inintelligibil all'uomo ottuso, laddove ciò che leverebbe e in
estasi il santo lascerebbe del tutto indif- Ì ferente il delinquente...2
LE La religione deve essere graduata con l’e- = voluzione,
altrimenti essa manca al suc scopo SI UGANB: Es. Chr. pag. 3-4): ;
Il modo, dunque, in cui il maestro di re- : ligione parla a uomini di
grado evolutivo i - . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e
(1 . del cuore di coloro, ai quali egli vuol giun- N | gere. Per
riuscirvi bisogna che egli stesso | porti nell'anima propria il nocciolo
della sa- "i | pienza, per mezzo della quale egli ha da
START. agire; e il modo come egli porta in sè
que- sto nocciolo deve essere tale da renderlo capace di parlare ad
ognuno secondo la sua comprensione. Perciò chi studia i discorsi
degli Istruttori religiosi dal loro lato este- riore, conosce soltanto un
lato e precisa- mente quello più estrinseco della loro sa- pienza.
Acutamente accenna a questi fatti Edoardo Schuré nel suo libro sui “
Grandi Iniziati ,. Ivi egli descrive i grandi Maestri di sapienza:
Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo , Pitagora, Platone, Gesù, da
quello investigatore intuitivo, da quel nobile artista dei
pensiero, da quell'anima satura di pro- fondo sentimento religioso ch’
egli è. Così nell'introduzione al libro egli espone il suo. modo di
vedere : “ Tutte le grandi religioni hanno una sto- ria
esteriore ed una interiore; l'una visibile, l'altra nascosta. Per istoria
esteriore sono da intendersi i dogmi & i miti pubblicamente ©
insegnati nei fémpli e nelle” scuole, ricono- sciuti nei culti e nelle
superstizioni popolari. Per istoria interiore è da intendersi la
scienza profonda, la dottrina segreta, l’occulto agire dei grandi
Iniziati, profeti o riformatori che hanno istituite, sorrette e propagate
le reli- gioni predette. La prima la storia ufficiale, quella che si
legge dovunque, si svolge alla vista di tutti, ma non per questo è
meno oscura, complicata, contradittoria. — La se- ‘conda, che io
chiamo la tradizione esote- |, rica, o dottrina dei misteri, è
difficilissima € Î a districare dai veli che l’avvolgono. Essa
infatti si svolge nei penetrali dei templi, nelle segrete confraternite,
e i suoi drammi più appassionanti hanno intieramente per iscena
l’anima dei grandi profeti, che non hanno mai nè fissato in pergamena, nè
confidato ‘a nessun discepolo le proprie crisi più acute, o le
proprie estasi più paradisiache. Questa seconda storia vuole essere
indovinata, ma non appena si è scorta, apparisce luminosa,
organica, sempre in armonia con se stessa. Potrebbe essere anche chiamata
la storia della religione eterna e universale. In essa le cose mostrano
il loro rovescio e la co- scienza umana il suo diritto, mentre la
sto- ria non ne offre che il faticoso rovescio. In SD questa
seconda storia cogliamo il punto ge-N netico della religione e della
filosofia , che si ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse 9/8, per
mezzo della Scienza integrale. Cotesto \T} unto è costituito dalle verità
trascendenti. N vi troviamo la causa, l'origine e il fine del tene
prodigioso lavoro dei secoli, l'azione della RES 1; RARO
provvidenza mediante i suoi agenti terre- stri. ,, Questi “
messaggeri terreni , lavorano nell'officina Spiritualistica, nel
laboratorio spi- ritualistico della umanità. Ciò che li abilita a
questo lavoro sono le leggi imperiture della chimica spirituale ed i
processi chimici spi- rituali che esse operano: vale a dire i
grandi prodotti intellettuali e morali della storia del mondo. Ma
ciò che fluisce dalle loro labbra è soltanto simbolo, immagine della
sapienza superiore dimorante nella profondità delle loro anime,
immagini e simboli proporzio- nati all'intendimento di coloro, che ad
essi porgono orecchio. Soltanto a coloro che adempiono alle
condizioni, che garantiscono la comprensione e il “ reffo uso » della
sa- pienza superiore, questa può venire dischiusa. E allora. nella
Iniziazione mistica sentono l'immediato contatto coi primordiali
motivi spirituali, con le potenze genitrici della esi-
stenza. Ascoltisi ciò che dice un uomo tutto com- penetrato
di siffatti sentimenti: Clemente Alessandrino, lo scrittore cristiano del
2° e 3° secolo della nostra èra , il quale prima del suo battesimo
fu un “ Misto ,, ossia A EE
un alunno dei Misteri, esalta questi con le seguenti parole :
“O veramente santi Misteri! O puris- sima luce! Una face viene
portata dinnanzi a me allorquando rimiro il Cielo e Dio; io sono
santificato, allorchè ricevo la consacra- zione. Gli arcani però .me li
rivela lo spi- rito primordiale e suggella in me l’Iniziato con
l'illuminazione; iniziato nella Fede mi presenta al Tutt'Uno, affinchè io
vega ser= bato in grembo all’eternità. Tali sono le ce- rimonie
iniziatiche dei miei Misteri! Se tu vuoi, fatti iniziare tu pure, e con
le forze spirituali dell'esistenza tu chiuderai la santa carola
attorno all’ increato, all'imperituro, al tutt'uno spirito dei mondi, e
la favella che a te dal Cosmo viene inspirata intonerà gl'inni di
lode a questo Tutt'Uno ,.. . Si comprende la descrizione che fa
Annie Besant dei Misteri, se si riflette che gli Ini- ziati devono
parlare di sè come lo fa Cle- mente Alessandrino con le parole
suriferite: “I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano il vanto
di quella vetusta contrada e i più nobili figli della Grecia, come ad
esempio | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi | iniziare
nei Misteri dai maestri della sapienza | iniziatica egizia. I Misteri
Mithriaci dei Per. IDO. JIA siani, i Misteri Orfici e quelli
Bacchici, e i posteriori pseudomisteri di Eleusi in Gre- cia, i
Misteri di Samotracia, della Scizia, della Caldea, sono universalmente
noti, al- meno di nome, come le parole d'uso fami- liare. Persino
nella forma estremamente at- tenuata dei Misteri eleusini il loro
valore viene altamente magnificato dai più eminenti uomini della
Grecia, come Pindaro, Sofocle, Isocrate, Platone e Plutarco ,,. (1). E
nei Misteri non si mira soltanto all’ ampliamento del sapere, alla
sola spiegazione di cose ignorate, ma alla elevazione di tutta la
na- tura umana, di modo ch’ essa si compene- tri di quella “sacra
disposizione iniziatica, che pone in grado di comprendere le fonti
e principi del Cosmo. Il mistico non solo conosce le cose superiori, ina
oltre a ciò la sua propria natura si fonde con esse. Egli deve
quindi essere preparato al fine di po- tere accogliere come si deve le
fonti di ogni vita che in lui affluiscono. Appunto nel no- stro
tempo, in cui si vuol riconoscere come attendibile soltanto ciò che è
scientifico in senso materiale, diviene difficile il credere che,
circa le cose supreme, quello, che im- V. Esot. Chr. pag. 21, a
porta veramente è una disposizione d° a- nimo. Per tal modo si fa
della cognizione un fatto intimo dell'anima umana: e tale essa è
per il Mistico. Si dica a qualcuno la soluzione di tutti gli enigmi del
mondo: Il Mistico troverà sempre che una siffatta esposizione è
vuota risonanza, che sfiora l'o- recchio e svanisce, se |’ anima non. è
stata prima preparata ed innalzata ad un livello superiore ; egli
troverà che il sentimento non ne resta affatto toccato, se non è staîc
di- sposto a sentire l'accoglimenio della sapienza come un “
Sacramento ,. Solo chi intende ciò conosce |’ atmosfera spirituale dal’
alto della quale discendono certe espressioni del Mistico, come
quelle di Filone: « Sovente, allorchè mi_riscuoto dal sopore della corpo-4%
reità_e rientro in me, distogliendomi dal mondo esteriore, e penetro
dentro me stesso, . scorgo una mirabile bellezza ; allora io sono
certo di essermi internato nella parte mi- gliore di me; metto in
attività la vita vera, sono unito col divino e in lui fondato, e
conseguo la forza di trasferirmi nel mondo trascendentale. Quando, poi,
da codesta contemplazione dell’ Altissimo, e dopo questo riposo nell’
elemento spirituale del mondo, discendo nuovamente alla consueta
formazione di pensieri, allora mi domando come potè avvenire che l’ anima
mia si impigliasse nel vivere quotidiano, posto che la sua pa- tria
è pur quella dove testè mi sono sof- fermato ! “ — Chi sa quale grado di
puri- ficazione del sentimento e della funzione intellettiva sia
necessario per arrivare a sen- tire così conosce anche le ragioni per
cui la sapienza mistica, la sapienza consacrata non può essere
oggetto della vita consueta quotidiana, nè dell’ insegnamento
ordinario, nè dei documenti della storia esteriore; e perchè essa
stia chiusa nell'anima dei di- vini messaggeri e debba costituire,
come dice E. Schurè, il riservato oggetto della iniziazione in
fratellanze appartate. Ma, quan- tunque questa immediata comprensione
della verità rimanga un fatto d’ insegnamento del tutto intimo,
pure tutti gli uomini parteci- pano dei benefici della sapienza. Come
i benefici delle ferrovie elettriche ricadono su tutta la
popolazione, pur restando monopolio degli elettrotecnici la
conoscenza delle. leggi Pe così avviene, quanto ai frutti, ella
efficacia e della sapienza dei Misteri, E come il beneficio delle
cognizioni tecni- che si traduce nelle istituzioni esteriori
della civiltà. così quello della sapienza dei Mistici si esprime e
distribuisce nel contenuto spirituale della vita dell'umanità: cioè
nei suoi miti, nei concetti informatori delle sue credenze e delle
sue religioni, nel suo mondo di leggende e di fiabe, non solo, ma
altresì nelle sue idee di morale e di diritto, e da ultimo anche
nella sua attività artistica, nelle sue scienze e nelle sue filosofie. Il
Mistico mostra «che la sapienza più profonda della umanità è la
radice di tutti questi vari con- tenuti della vita, rendendosi ben conto
che essi tutti possono trovare la loro vera spie- gazione soltanto
in quella sapienza. Clemente Alessandrino parla del fatto che
“ un uomo può avere la fede seriza posse- dere eru Izione ,, ma al tempo
stesso pro- clama essere impossibile che un uomo senza sapienza
comprenda gli oggetti che vengono spiegati nella fede , (v. Besant, Esot.
christ. pag. 84). Ogni Mistico conosce questo vero rapporto
fra Fede re e sa che tra i due non può esistere contraddizione j ma
anche alla Mistica egli può fare riconoscere valore unicamente sulla base
della vera scien- za. Anche di ciò parla Clemente: ... Alcuni
che si ritengono favoriti da na- tura, non desiderano di occuparsi nè di
filosofia, nè di logica; anzi essi non deside- rano di studiare e
imparare la scienza na- turale; essi_ richiedono nuda fede
soltanto... Io, pertanto, chiamo dotto veramente colui che tutto
mette a contributo per la verità, così che traendo dalla geometria e
dalla mu- sica, dalla grammatica o dalla filosofia stessa, ciò che
è utile, difende la fede da ogni as- salto..... Quanto è
necessario per chi desidera par- tecipare dei poteri di Dio il trattare
filoso- ficamente soggetti intellettuali !.... ... Lo
gnostico (Mistico) si vale del rami dello scibile vene di esercizi
ausiliari vreparativi. (A. B. Es. Chr. Pag. 84). Chi ha colto questo
profondo accordo della Fede col Sapere si trova costretto a rile-
vare sempre di nuovo una caratteristica pe- culiarità della nostra
civiltà moderna, la quale ha invece scavato un abisso tra Fede e
Scienza. E. Schurè accenna a questo abisso fin dai periodi
introduttivi del suo libro : “Il peggior male del nostro tempo è
il mostrarsi la Scienza e la Religione come due forze nemiche e
irreducibili. Infermità intellettuale questa tanto più perniciosa
in quanto che deriva dall'alto e furtivamente s' infiltra, ma
sicuramente, in tutte le mem- bra, come un veleno sottile che si
respiri nell’ aria. Orbene ogni infermità dell’ iritel- ligenza
diviene a lungo andare infermità dell'anima e in conseguenza un male
so- ciale. “« Fintanto che il Cristianesimo non fece
che affermare ingenuamente la fede cristiana in seno a una Europa ancor
semibarbara, come era nel medio evo, esso fu la più grande delle
forze morali, e ha plasmato l’anima dell'uomo moderno. Fin tanto che la
scienza sperimentale , apertamente ricostituitasi nel secolo 16°,
non fece che rivendicare i legit- timi diritti della ragione e l’
illimitata sua libertà, essa fu la più grande tra le forze
intellettuali; essa ha cambiato faccia al mondo, liberato l’uomo da secolari
catene, e fornito la mente umana di fondamenta in- crollabili
,,. Non meno energicamente Annie Besant accenna a questa
peculiarità della civiltà spirituale moderna. Per ognuno che studi
l’ultimo imme- diato quarantennio del secolo passato è chiaro che
persone meditative e morali sono in gran numero esulate dalle chiesé
perchè gl’ inse- gnamenti che vi ricevevano urtavano, offendevano la loro
intelligenza e il loro senso morale. E' vano pretendere che
l’agnosticismo così ue. largamente diffuso in questi tempi abbia
ra- : dice solo nella mancanza di moralità o in È; una deliberata
involuzione della mente. Chiun- A que attentamente studi gli esposti
fenomeni, ammetterà che uomini di forte intelletto sono stati
allontanati dal seno del Cristianesimo per via della rude goffaggine
delle idee re- ligiose loro presentate, delle contradizioni negli
insegnamenti delle varie autorità, nelle vedute circa Dio, l'uomo e
l’universo, idee n che nessun intelletto colto e metodicamente ;
disciplinato potrebbe di leggeri accettare ». a (A. B. Cris, esot. pag.
32-38). Alla domanda: “ Che cosa è da farsi in questa
direzione ? , Annie Besant risponde inspirandosi alla veduta che anche la
radice del Cristianesimo giace in una sapienza oc- culta e che la
Fede deve, quindi, per sus- I sistere risospingersi a questa
radice: “ Se il Cristianesimo vuol continuare a vi- i
co vere, deve ricuperare il sapere che ha e ria- d | vere la propria Mise
€ l propri insegna- sd cculti; deve di nuovo erigersi come. ‘un
istruttore autorevole di verità spirituali, ma rivestito della sola
autorità meritevole .. x * ' Me, ù
Mes di essere alquanto apprezzata, l' autorità, cicè,
della conoscenza. Se questi insegna- menti ‘verranno recuperati, la loro
influenza sarà subito constatabile nelle più ampie e più profonde
vedute che si avranno circa la verità, dogmi che ora sembrano meri gusci
ed impacci, saranno riconosciuti subito quali parziali presentimenti di
realtà fonda- mentali. In primo luogo il Cristianesimo esoterico
riapparirà nel /uogo santo, nel Tem- pio, così che tutti i capaci di
riceverlo pos- sano seguirne le linee di pensiero palese, e
secondariamente il Cristianesimo occulto ri- discenderà nell'adito celato
dietro la Cortina che custodisce il « Sancta Sanctorum , in cui può
entrare l’ iniziato soltanto. (A. B. Es. Chris. Pag. 40-41).
Mediante il senso della vista l'uomo per- cepisce la natura con
cento e cento sfumature di luce è di colore. Sono i raggi della luce
solare che, riverberati dagli oggetti, ne determinano gli aspetti
cromatici variamente sfumati. Sebbene per tal fatto la percezione
della luce solare sia una funzione abituale dell'occhio, tuttavia questo
non può impunemente fissare la fonte stessa de a luce: Sole; esso viene
accecato dal contatto im- mediato , diretto, dei raggi solari. Ciò
che ‘ 0° néi suoi effetti è adeguato al compito
quo- tidiano dell'occhio, dà occasione a una sof- ferenza, quando,
come causa in sè, colpisce l'organo sensorio. Chi sa applicare nel
giu- sto modo questa immagine alla vita spiri- tuale dell'uomo,
comprende perchè “ coloro che sanno » parlano di “ pericoli » della
Iniziazione ai Misteri. Cotesti pericoli esi- stono innegabilmente; se
non che, chi ne parla non va preso alla lettera, interpretando la
parola « pericoli ,, nel senso usuale. La intelligenza e la ragione umana
sono tanto poco assuefatte a riconoscere le fonti del vero nel
complesso totale del mondo, quanto poco è capace l'occhio di fissare
direttamente il Sole. Come l'occhio sente a sè rispon- denti gli
effetti delia luce, così intelletto. e ragione sentono a sè rispondenti
gli effetti della sapienza eterna nei fenomeni della na- tura e nel
decorso della storia degli uomini. Ma come l'occhio viene meno.
di.fronte.alla sorgente stessa della luce, così l'intelligenza
umana” vigne meno dinanzi alle fonti pri- mordiali della sapienza. Questo
umano inten- dimento nel subito arretra, rinuncia. Or bi- sogna
assimilare nel debito modo ciò che allora succede nell’ uomo , al fatto
dell’ ab- bacinamento chel’ occhio.subisce dal sole. veg 3
fer: Poichè l'uomo è assuefatto a scorgere nella Natura e
nell'attività dello spirito soltanto il riflesso della Verità, e non
questa imme- diatamente , egli viene meno di fronte alla verità
stessa, quando questa gli si presenta. Avvezzo a cogliere soltanto la
realtà grossolana, che quotidianamente I prnia, l'uomo sente le
manifestazioni della sapienza supe- riore come illusioni, come
costruzioni di una fantasiosità irreale: esse non gli possono dire
nulla, sono per lui come forme aeree che svaniscono quando egli le vuole
afferrare, così come è solito afferrare gli oggetti della realtà
consueta. Questa lo avvince a sè con mille lacci; ciò che essa gli può
promettere egli lo conosce, lo ha imparato ad apprez- zare in mille
modi. Chi qui vede giusta- mente, comprende che cosa intendano dire
le leggende religiose quando parlano del Tentatore, che promette tutte le
magnifi- cenze di guesto mondo a coloro, i quali vo- gliono
intraprendere il sentiero della illumi- nazione superiore. Se noh è
risvegliata in. loro la forza di resistere a cotesto Tenta- tore,
essi cadono inesorabilmente in sua ba- lia. Con ciò si accenna a quel che
s'intende per “ pericoli della soglia ,, che occorre varcare, se si
vuole calcare il “ sentiero, della sapienza. Niuno può giungere a
que- sto sentiero se non intende valersi dell’ oc- chio spirituale,
dell'intelletto e della ragione, diversamente da come vengono
adoperati) nella vita quotidiana. L'uomo deve porre il piede sulla
soglia come un trasmutato, come "°° uno, il cni°occhio spirituale è
stato raffor- zato; ed è singolarmente difficile nell’ età nostra
attuale rinvigorire così.quest'occhio, x giacchè appunto
dalla nostra scienza esso viene rivolto o a.ciò che è concreto li
tangibile. Per compiere le sue conquiste nel campo delle forze naturali
esteriori que- , sta scienza dovè rendere quest'occhio cieco alle
potenze spirituali dell’esistenza. Non si fraintenda tutto ciò,
prendendolo per un rimprovero! Chi vuol comprendere il mec-\l
canismo di un orologio non ha certo biso» i} gno di risalire con
l'indagine fino ai pen-/! ). sieri dell’ inventore dell’ orologio ;
egli può mM bene attenersi a quanto ha imparato dalla
[RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo stesso
meccanismo. a nessuno può com- preridere come le forze e le cose
che coo- perano nell’ orologio siano state originaria-
mente combinate, se non va in traccia dello | spirito che le
ha combinate e non indaga le ragioni per cui esse sono state così
com- f frze Tmnon © SEXI ma ) fe | fa
meda; meo N el Mm NK ke -- bt re e € o’ uc gi Riti fet rextore9 Lo
fel #0 A 0 è MT, ui gno PEA Vs. b- parte “li (a È Logan Foe.
SP RTTO el ppartnzs ti dae binate. Il naturalista può
comprendere giu- stamente la Natura solo se in lei stessa ri- le
cerca anzitutto le forze con cui essa opera. "° Se afferma che
queste si sono combinate | ® cudl da sè, assomiglia a colui che non si
perita Y0Me flat di pensare che un orologio si sia conge- gnato da
sè. S izione-è non il A | lo spirito Ge Le cose, bensì il
trasferirlo alla cieca me/le cose stesse. Superstizioso è, non
colui che cerca l'inventore dell’ orolo- gio, ma colui che
nell’orologio stesso im- magina ‘uno spirito , il quale manda avanti
Î le lancette. Soltanto quando in questo modo || sî fraintendono
coloro che vanno in traccia dello spirito dell'esistenza cosmica, si
può metterli in un fascio con quelli che a buon diritto sono
accusati di superstizione e che cen altrettanto buon diritto vengono
oggi riguardati come turbapace, perchè compro- mettono i “ benefizi
, che la nostra coltura scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio
_ velato da. preconcetti saprà a chi si vuol alludere nelle due
categorie citate). Chi-pone il piede sulla “ Sogliz » che d accesso
alla visione superiore, se vuole riu i " scire ad avanzare, deve
essere provvisto della 2 sN forza che mena ad avvertire il Reale là
dov@mnn l'intelletto ordinario e la ragione solita scor- x
i T] x > l'intolegione I Lie ii pai de Pe Pe Pietà sa desti
Ann ie —_ | siii nc e a | na ta A in — 54 — x gono
soltanto fantasticaggine ed illusione. . Giacchè il perenne e
l'eterno sono appunto, là, dgye all'occhio rivolto soltanto al
transi* torio e temporaneo altro non appare che fantasticaggine ed
illusione. Nessun utile, dunque, risentirà un uomo che venga con-
dotto dinnanzi alla sorgente della eterna sa- pienza colgalo corredo.della.sua
intelligenza rdinaria. Perciò nei Misteri, il primo grado d
Iniziazione non consiste nell'impartire un nuovo sapere intellettuale, ma
nella com- pleta trasmutazione delle forze conoscitive dell’uomo.
Con fine intuito pertanto, Edoardo Scuré descrive nei suoi “ Grandi
Iniziati , il cammino di chi tende al “ Sapere , me- diante i
Misteri: ALE « L’ iniziazione era a leaneno r, le di futfo
l'essere umano _ad ascen- lere le vette vertiginose dello spirito ,
dal- l'alto delle quali si può dominare la vita..... , E più
innanzi egli dice: “«“ Per giungere a questa padronanza
l’uomo ha bisogno di una totale rifusione del pro- prio essere
fisico, morale e intellettuale. Or- bene, questa rifusione non è possibile
se non mediante |’ esercizio simultaneo della volontà, dell’intuito
e del raziocinio. Mercè il loro completo accordo l’ uomo può svi-
} ;) I Fapiecinia TX. iNalonta
Ponso ; I he sli luppare le proprie
facoltà fino a limiti in- definibili. L’ anima ha sensi assopiti ; l'
ini- ziazione li risveglia. Mercè uno studio pro- fondo e
un'applicazione costante l’uomo può _ mettersi in rapporto cosciente con
le forze occulte dell'universo. Con uno sforzo por- entoso egli puo
raggiungere la percezione spirituale diretta, schiudersi i sentieri
che portano. all’olt a, al superfisico, e di- venire capace di
regolarvisi. oltanto allora può dire di aver vinto il destino e di
es- Sersi conquistato fin da quaggiù la propria tiliberi divina.
Soltanto allora l’iniziato può vi divenire inizi.tore, profeta e teurgo,
vale a dire veggente e formatore di anime. Infatti soltanto colui,
che comanda a se stesso può comandare agli altri, e soltanto chi è
libero può liberare ». (Opera cit.). La missione dei
Misteri va intesa in tal senso, per quel che si riferisce al loro
primo grado. ‘Non si trattava solo fi una DUOSA scienza, ma della
produzione di nuove forze | pudore ‘L’individuo=doveva. trasmutarsi,
ivenire un altro, prima di venir condotto al Sole
spirituale, alla sorgente della sa- pienza. Colui, le cui forze non
sono temprate allorchè pone il piede sulla “ Soglia ,,, non sente la
realtà dell’eterne. potenze spirituali, (}. che quivi gli si fanno
incontro. In luogo di — entrare in rapporto con_un mondo supe-
riore egli ricade nel mondo inferiore. À que- sto pericolo trovasi
esposto chi va in cerca delle sorgenti della sapienza. Se egli soc-
combe, allora ha temporaneamente ucciso in sè l'eterno germe. Questo era
per l'in- nanzi dormente in lui, ma, pur così dor- mente, era
tuttavia ciò che nobilitava la passeggera, inferiore natura e la
trasfigura. Ingenuo ed inconsapevole, l' individuo viveva con questo
rudimento di spiritualità superiore. Dal mal riuscito tentativo, di.ini-
ziazione quel latente rudimento JÉne. di- strutto. All'individuo non
resta che l'istinto di vivere nel transitorio, di yivere
«Soltanto pel regno di guesto mondo. Per il fatto di. avere sentito
come_illusorio il “ divino spi- rituale , , egli divinizza il «
sensibile_mate- riale ,. In tal modo, sulla “ Soglia ,, può andare
perduto per l'individuo il suo più prezioso tesoro, la sua parte
immortale. Que- sto è il pericolo analogo all’ accecamento
dell'occhio nella similitudine su riferita. E' ovvio che coloro,
cui nei misteri in- combeva l'ufficio d’iniziatori, erano per pro-
.Wei | Rito fonda consapevolezza della propria
respon- sabilità, estremamente esigenti verso i disce- poli, giacchè
tali esigenze dovevano servire a temprare nel senso indicato le loro
forze spirituali. E. Schuré descrive la scala gra- duale
della Iniziazion ‘a_praticata I riella scuola di Pitagora (a. 582-507 a.
C.) e-la sua descrizione è tutta improntata di geniale senso
d’arte e di mistica profondità. Mi appoggerò appunto ad essa per
parlare di quei gradi iniziatici. Erano ammessi
all’Iniziazione soltanto co- loro che offrivano sicurezza di riuscita
per la costituzione appropriata della loro natura intellettuale,
morale e spirituale. Per costoro cominciava allora il periodo della «
Prepa- razione ,. Per molti anni essi diventavano itori. Nel
tempo nostro, in cui ciascuno sf crede autorizzato a giudicare e
criticare mon appena abbia appreso qualche cosa, 0, torse anche più
sovente, quando non ha an- cora imparato nulla, non è punto facile
ren- dere simpatica l’idea" quel lungo udito- rato.
All'uditore era imposto il più assoluto silenzio, inteso non nel senso
esteriore di ‘ astinenza da ogni parola, bensì nel senso di |
astinenza da qualsiasi critica, STdoveva Accogliere del tutto
spregiudicatamente l’istru- due crilica
PESTO, gp zione, senza turbare questa spregiudicatezza
con una prematura analisi critica. Il saggio sapeva, e gli uditori
avevano fiducia; per un certo tempo non_.era loro
Jlecito..criticare, giacchè il sapere che ricevevano era appunto
ciò che occorreva per renderli maturi all critica. Come è possibile che
impari vera- [mente chi vuole immediatamente criticare \{ quel che
apprende? Con questo metodo di ascoltare in silenzio i Pitagorici hanno
reso maggio a una massima, che sola può fare ascendere i gradini
della conoscenza. Chi ha percorso la via della conoscenza lo sa.
Egli non può che sentire pietà per coloro, che si creano intoppi su tale
strada coi loro giudizi prematuri e con le loro critiche. Il nostro
tempo è tutto pieno di questo_im- maturo spirito di critica: basta
osservare in- torno a noi ciò che i nostri oratori dicono e ciò che
i nostri scrittori scrivono.,Se vi fosse ai tempi nostri solo un pò di spirito
pitagorico, resterebbero. inespressi più dei nove decimi di quanto vien
detto e altret- tanto rimarrebbe non stampato di quanto vien
pubblicato. Oggidì , chi ha messo insieme un paio di osservazioni, o si è
ap- piccicato in testa un paio d'idee, si crede autorizzato a
sputar sentenze e giudizi sui sel RARI TESE, soggetti
più essenziali. Invece un tale di- ritto spetta soltanto a chi abbia
imparato a contenere per anni il suo giudizio e a por- gere ascolto
spregiudicat ea quanto i savi dell'umanità hanno detto. “ Esaminate
tutto e tenetevi il meglio ,, è una fallace norma dell'anima di chi non è
maturo per esaminare. Il nostro giudizio non vale pro- prio nulla,
nulla affatto di fronte alla Ve- rità, fin tanto che non lo abbiamo fatto
esa- minare dalla verità stessa. Invece di dire: “ Io esamino tutto
e voglio tenermi il meglio » , molti dovrebbero dire : “ Io voglio fare
esaminare me stesso dalla Verità, e quando io sia sufficientemente buono
per essa, allora ch' essa mi prenda! , Chi non si è esercitato per
anni ad adattare, a inal- veare la propria vita in questo illimitato
ab- bandono al giudizio delle sagge guide della umanità, non
arriverà mai a formulare giu- dizi che siano più che fumo e vacua
riso- nanza. Pa Una norma siffatta è certamente invisa
in questo nostro tempo “ illuminato ,, in cui dominano la pubblica
criticaglia, e lo spi- rito gazzettaio ; invece gli uditori
pitagorici si attenevano appunto a cotesta norma. Rag- giunta la
voluta maturità, l' uditore vedeva | 4 iena:
acli Neg giunto per lui il “ giorno d'oro ,,, col
quale cominciavano le rivelazioni sull'essenza della natura e dello
spirito umano. A poco a poco i gli si faceva comprendere la “ zomìa »,
le 4 B:, ” leggi della esistenza corporea e psichica. Be" 1
Voglia afferrare questa romia col non raffinato intelletto ordinario non
ne com- prende nulla. Il Goethe una volta accennò a questo. Allorchè
nel suo viaggio per l'I- talia e per la Sicilia si era dato con
tutta lena allo studio delle piante, e si era for- mato quelle sue
vedute tanto citate ma tanto poco comprese sulla_“ pianta archetipa
, scriveva in. Germania che avrebbe voluto fare un viaggio in
India, non per scoprire qualche cosa di nuovo, bensi per guardare
a_Suo..modo_.il già scoperto» Quel che im- porta, appunto, non è il
conoscere le leggi messe in luce dalla botanica “ intellettuale vi
bensi il penetrare coll’aiuto di queste leggi nell’ intima essenza della
vita vegetale. Si fica essere un erudito professore di botanica e non
capir nulla di questa vita vege- tale. | nostri scienziati hauno
veramente delle strane idee a questo proposito. Essi o cre- dono
che, in genere, non si possa penetrare nell'intimo della natura, o
affermano che la nosira indagine non è ancora fanto avan- Db
zata. Essi non sospettano che con questa indagine mediante i sensi
e l'intelletto pos- sono, sì, moltiplicarsi con effetto benefico le
nostre cognizioni, ma che per investigare (| « interno ,, è, invece,
necessaria una ma- niera di pensare tutta diversa da quella che
essi mettono in pratica. Non vogliono sa- perne dell’ “ inventore
dell'orologio ,,, men- | tre studiano l'orologio alla stregua dei
prin- cipi della fisica. Poichè non possono tro- vare nell'orologio
nessuno “ spiritello ,, che spinge avanti le lancette, o negano lo
spi- rito, che ha congegnato le ruote, o asseri- scono che esso è
inaccessibile all’umana co- noscenza, 0 del tutto o “ fino ad oggi
,. Chi parla dello spirito della Natura viene accusato di
sbizzarrirsi in vane parole. Ma non è colpa sua se gli accusatori non
sen- tono in ciò altro che parole! I discepoli pi- tagorici, al
secondo grado della loro istru- zione, venivano introdotti nelloSpirito
della Natura. Soltanto: dopo RARO al questo grado,
potevano venir condotti alla “« grande Ini- ziazione ». A questo punto
erano maturi per accogliere in sè i “ Segreti della esistenza »; il
loro occhio spirituale era ormai sufficien- | temente vigoroso;
oramai non apprendevano più a conoscere soltanto lo spirito delia
na- i tura, ma anche le intenzioni di questo spi- i rito. Da questo
punto in poi non sì può più i parlare dei Misteri col solito linguaggio,
ma soltanto per via d'immagini, giacchè il no- (a stro linguaggio è
tutto adeguato all'intelletto | e non ha parola adatta alla conoscenza
su- È periore, di cui qui ci occupiamo. In questo È senso va inteso
pure quanto segue. Prima di ogni altra cosa l'individuo ap-
prendeva a spingere lo sguardo oltre la pro- pria esistenza personale. Da
ciò traeva l' e- sperienza che quella sua vita era la ripeti- iS .
zione di vite anteriori a un nuovo gradino dell'esistenza. Si poteva
convincere che quel i che è lecito chiamare “ anima , nel giusto
senso della parola, si rincarna ripetutamente, e che le capacità, le
vicende e le azioni della Me sua vita presente erano da interpretarsi
come effetti di cause reperibili in quelle sue vite antecedenti.
Egli si rendeva anche conto che i fatti e gli eventi di quella sua vita
presente dovevano produrre i loro effetti in esistenze 1 avvenire.
i ; Su ciò bastino qui questi pochi cenni, da perchè ho intenzione
di parlare in altro luogo esaurientemente delle grandi leggi della “
Rincorporazione , e della “ Legge cosmica », ovvero, in altre parole, della “
Rin- carnazione , e del “ Karma ,, (1). Queste verità
potevano divenir convin- zioni per il discepolo dei Misteri, come è
verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; per- chè al terzo grado il
discepolo era a ciò maturo. Ma anche a questo grado si può avere un
giudizio completamente sicuro su queste conoscenze, unicamente perchè si
è ormai acquistata la capacità di compren- derne giustamente il
significato. Anche oggi, come in ogni tempo, molto si
criticano tali concetti ;, ma ciò che viene criticato in realtà sono
soltanto le arbitrarie , concezioni dei critici stessi, che non
hanno alcuna importanza. Del resto, però, si deve anche pienamente
convenire che pure molti seguaci della idea della rincarnazione non
hanno di essa concetti migliori di quelli dei suoi oppositori. Non tutti
coloro che oggi difendono queste dottrine, le comprendono
veramente. Anche tra questi difensori ce ne sono molti che sono troppo
scansafatiche 0 troppo.... « consci di sè » per apprendere in
silenzio prima di far da insegnanti. 0° (1) Cfr. dello stesso
autore gli scritti maggiori Teo- sofia — Scienza occulta — e i
minori Azione del Kar- ma. Rincarnazione e Karma come leggi naturali. LL
NEI Ora, se non forse presso i Pitagorici, c'era, però, in
altri Misteri, dopo la grande « Iniziazione rivelatoria ,, il grado della
vera “ Iniziazione mistica ,,. In essa non soltanto l'osservare e
il pensare, ma tutto il vivere conscio veniva esteso oltre l'immediata
per- sonalità dello individuo. Per essa il discepolo non diveniva
soltanto un sapiente, soltanto un veggente. Egli ormai non percepiva
l'essenza delle cose, ma la viveva con esse. Molto arduo è dare una
idea di ciò, di cui qui si tratta. Il veggente non ha soltanto la
sen- sazione degli oggetti, bensì sente regoli og- getti stessi,
trasferendosi nel loro interno; egli non pensa circa la natura, bensì
esce di se medesimo e s'interna, pensando, re//a natura. (E' questo
un procedimento noto al Teosofo, il quale lo chiama.“ lo schiudersi
dei sensi astrali ») (1). L'uomo intellettuale non bada ai veggenti: essi
debbono esser per lui dei visionari, se non peggio. Chi, invece, ha
senso per le loro doti, li ascolta con pio rispetto, giacchè sente
parlare in loro non più una persona umana, bensì la stessa Saggezza
vivente. Essi hanno fatto olocausto delle (1) Cfr. dello stesso
autore: « Come si acquista co- noscenza dei mondi trascendentali
v. EA proprie inclinazioni, simpatie, opinioni per-
sonali per poter prestare la propria bocca all’eterno Verbo, “« mediante
il quale fu- rono fatte tutte le cose ,. Giacchè dove parla ancora
l'opinione umana, dove cam- _ peggiano ancora inclinazioni’e interessi, ivi
tace la sapienza eterna. E quando questa giunge all'orecchio di coloro
che non ‘hanno ancora sentimento per essa, appare loro soltanto
come personale parola umana, per quanto in essa possa chiudersi una
forza divina. Ma dai veggenti stessi, gli uomini ‘potrebbero
imparare ad “ ascoltare », giac- chè il veggente fa tacere la sua umana
per- sonalità quando a lui parla la voce della Ve- rità. Il suo
giudizio tace, i suoi interessi, le sue inclinazioni gli stanno dinanzi
altret- tanto insignificanti quanto il tavolino che ha davanti a
sè: egli è tutto assorto nel- | l'ascoltazione interiore. . Solo il
veggente ascenderà al grado suc- cessivo, che gli antichi chiamavano
del " Teurgo » e che nella nostra lingua può venire designato
come quel grado, in cui si opera una “ completa riversione , delle
facoltà umane. Forze che, di solito, afflui- scono nell'individuo da/ di
fuori, ora si ef- fondono da /uîi. In certi campi, nei quali
5 RS a l’uomo è soltanto un servitore, diviene un dominatore
colui, le cui facoltà sono “ tra- smutate ,. E poichè solo il veggente è
in grado di giudicare la portata e la maniera “a d’'agire di
coteste forze, l'uomo che ne verrà Ti in possesso senza aver raggiunta la
purità _ del veggente, ne farà mal uso. E questa do «
sapienza senza purità ,, è possibile a causa w di un cencatenamento di
circostanze, di cui <a qui non è il caso di tener discorso. Sulla
Ini- ziazione superiore, a proposito dei Pitago- rici, E. Schuré ha
il seguente magnifico passo : 1 i BRANO Abbiamo, seguendo
Pitagora, toc- +. cato la cima della iniziazione antica. Da dr
questa vetta la terra apparisce come im- cf ersa nell'ombra, come
un astro morente. \\*® Di lì si schiudono le prospettive sideree e
eri dispiega nel suo meraviglioso complesso | Le * Scegatao ii a n
1 la vista dall'alto, l'epifaria dell'universo. Ma \\®s4*
scopo dell'insegnamento non era l’assorbire VITA l'individuo nella
contemplazione o nell'estasi. È le regioni incommensurabili del
Cosmo, li UH aveva tuffati negli abissi dell'invisibile. I veri
pauroso pellegrinaggio fatti migliori, più forti e meglio temprati
pei cimenti della vita. I, Il Maestro aveva condotto i
discepoli per iniziati dovevano ritornare sulla terra da
quei î =Sf ia Alla iniziazione della intelligenza
doveva seguire quella della volontà, ed era di tutte la più
ardua, giacchè ora per il discepolo si trattava di far discendere la
verità nelle pro- fonde latebre dell’ esser suo , e di porla in
azione nella pratica della vita. Per raggiungere questo scopo
ideale oc- correva secondo Pitagora riunire tre perfe- zioni: avere
realmente la verità nell’intelletto, la virtù nell'animo, la purezza nel
corpo. Un'igiene sapiente, una regolata continenza dovevano serbare
al corpo là purezza che si richiedeva non come scopo, ma come
mezzo, | Ogni eccesso corporeo lascia una traccia e quasi un
imbratto nel corpo astrale, vivente | organismo dell’ anima, e per
conseguenza anche nello spirito... A questa altezza l'individuo diviene
un adepto, e, se possiede bastante energia, entra in possesso di
facoltà e di poteri novelli. Si schiudono i sensi in- terni
animici, e la volontà si riversa radiosa negli altri sensi.... (vedi E.
Schuré op. cit. Cap. 8). Di tutto ciò che l'uomo compie prima
di raggiungere questo grado, le cause sono da ricercare in regioni
a lui completamente sco- nosciute. Lo sguardo del teurgo , invece,
| spazia in coteste regioni, e “ in perfetta consapevolezza , egli irradia
da sè quanto nell'uomo dorme di solito “ inconsciamente , nelle più
profonde latebre dell'anima, Egli trovasi a faccia a faccia con la
sua Guida, che per l’innanzi lo aveva diretto in- visibilmente da “
tergo ». Col sussidio di siffatti pensieri si dovreb- bero leggere
periodi come il seguente, tratto dall'antico testo di sapienza chiamato il
Mundakopanishad: “ Quando il veggente vede l'aureo Creatore, il Signore,
lo Spirito, il cui grembo è Brahman, allora il savi o, dopo che ha
gettato via merito e demerito, raggiunge immacolato l'unione suprema
». Alle vette, dunque, che vengono così con-. quistate drizza lo
sguardo E. Schuré; e la mistica fede nella fulgida forza di codeste
vette gli conferisce la capacità di trapassare. alcuni dei nebulosi veli
che nascondono la. vera natura delle grandi Guide dell'Umani tà.
Ciò lo rende capace di descriverli, questi “ Grandi Iniziati ,: Rama, Krishna,
Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora, Platone e Gesù. A grado a grado da coteste
Guide sono state irraggiate nell'umanità le forze a_ seconda della
maturità raggiunta dal genere umano nelle diverse epoche. Rama
condusse alla porta della sapienza; Krishna ed Er-.ai mete ne misero
le chiavi nelle mani di al- «cuni; Mosè, Orfeo e Pitagora
additarono l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il “Sancta
Sanctorum ,, l'intimo sacro. penetrale. Sarebbe sciupare tutto il
singolare incanto del libro dello Schuré il volerne rac- contare il
contenuto, nel quale, così com'è ognuno dovrebbe profondarsi da sè.
Ed, Schurè accenna al fatto che pel tra- mite del Fondatore del
Cristianesimo le forze della sapienza dei Misteri sono state
riversate nelle vene spirituali dell’ umanità in forma tale, che le
orecchie dell’ umanità hanno potuto udirla. E anche in questo ter-
reno la verità deve essere cercata pei sen- tieri che E. Schurè ci
presenta. La forza . che s' irradia dalla personalità di Gesù, è
forza vivente nei cuori di tutti coloro, che la lasciano fluire in sè
stessi. Comprendere la vivente Parola che in questa forza agi- |
sce, può solo colui che se ne procaccia la chiave, mercè la comprensione
della sa- pienza dei Misteri. E a ciò fornisce, per — quanto è
possibile, il fondamento A. Besant | col suo “cristianesimo esoterico ,.
E' questo un libro, per mezzo del quale l'occulto | significato delle
parole bibliche si svela al lettore che tutto vi si
abbandona, Sg VI Siffatti libri-chiave sono necessari ai
no. stri giorni. L'umanità era in condizione del F tutto diversa
dall’odierna, quando ricevè l’Evangelo, “l'annunzio gioioso.”Oggidì l’in-
telletto ha ben altro allenamento che non ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’
uomo ‘può trasmutare in vita propria la forza vivente della “
Parola palese » soltanto se riesce ad afferrare cotesta forza mediante la
propria facoltà ragionante. Ma ciò che è vero, resta $ vero
eternamente, anche se il modo come i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel
corso i dei tempi. Che oggi l’ intelletto e il razio- 7555 }cinio
facciano valere i propri diritti è una necessità ; chi conosce
l’evoluzione umana sa che deve essere così. E perciò egli dà oggi all’intelletto,
ciò che secoli addietro è stato dato ad altre forze dell'anima. Da
que sta e da nessun’ altra cognizione dovrebbe scaturire l'attività
del vero teosofo , e così vuole essere interpretato il “«
Cristianesimo esoterico , di Besant. Il teosofo sa che nel
Cristianesimo c'è la Verità, e sa al- tresì che Gesù, nel quale s'incarnò
il Cri- ‘sto, non è un “ Duce di morti , bensi un “ Duce di vivi ,.
Il teosofo intende la grande parola del Maestro: “ Io sono con voi
tutti i giorni, sino alla fine ,,. Alla Guida viven- Bla: £
@ÈS te, non a quella dei ragguagli storici, si ri- volge
anzitutto chi, come A. Besant, vuole spiegare il Cristianesimo. Ciò che
la “ Pa- rola vivente , ancora * oggi ,, annunzia al- l'orecchio
che vuol porgerle ascolto, è ciò che poi proietta la sua luce sul
racconto evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della Parola è
rimasto qui fino ad oggi e può dirci come dobbiamo intendere la lettera
dei ragguagli intorno ai Suoi atti e ai Suoi di- scorsi.
“Le buone novelle » debbono essere intese “ esotericamente cioè,
bisogna, prima, che sia svegliata dentro di noi la forza vivente, che
imprime su di esse il sigillo di . Gò che è “ Santo ,,. E poichè
l'intelletto e il razigcinio sono i grandi strumenti della civiltà
d’oggi, bisogna ch’essi vengano libe- rati dai lacci dell’ intendimento
puramente sensistico , della comprensione meramente “ positiva ,
della realtà. L'intelletto stesso dell'umanità presente deve tuffarsi nel
mare che lo riempie di vera religiosità , giacchè non è esatto che
l’assennato intelletto non valga che a distruggere le “ illusioni ,
di cui il sentimento religioso avvolge le cose. Ciò è opera solo
dell'intelletto abbagliato e inceppato dai successi riportati nella
nozione ALI: 000 e nel dominio delle forze puramente
mate- riali della natura. Gli uomini del presente e con essi i
nostri fisici, i nostri biologi e i nostri storici, si credono Ziberi nel
loro mondo intellettuale unicamente edificato sul fatto positivo.
In Verità essi vivono sotto l’azione di una Suggestione dominante
su tutto. Liberi, fino a un certo punto, potre- ste diventare voi
fisici, biologi e storici di oggi, se voleste riconoscere che i vostri
concetti di rea/tà anzi di materie e di forze del mondo, di sforia umana
e di evoluzione della civiltà, non sono altro che « sugge- \stioni
collettive ,. Un giorno vi cadrà la benda dagli.occhi, e allora soltanto
speri- meénterete fino a qual punto è verità e non . errore quel
che voi pensate dell'elettricità e della luce, della evoluzione animale
ed umana; giacchè, notate bene, anche i teosofi riguar- dano le
vostre asserzioni non come errori, ma come verità. Infatti anche la
vostra in- terpretazione della natura è per loro una “ professione
di fede », e quando essi di- cono “ di volere cercare il nucleò della
ve- rità in tutte le religioni ,, fanno ciò non solo riguardo a
Buddha, Mosè e Cristo, ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed
Hickel, ay ( (A E opere come queile
citate di Schuré e di Besant sono destinate a togliervi la
benda dagli occhi, debbono insegnarvi a veder chiaro nelle “ vostre
suggestioni ». Conseguentemente, in libri siffatti quel che importa
non è tanto il loro contenuto let- terale, quanto le occulte forze che
mossero la penna dei loro autori e che si trasfon- dono nelle vene
dei lettori, così che questi vengono tutti pervasi da un nuovo “
senso della verità ». 1 lettori che subiscono il giu- sto effetto
di tali libri ricevono sotto un certo rispetto una /riziazione di tipo ,
diremo così, intellettuale. Chi a questa frase mon arriccia il naso, come
alla asserzione di un miracolo, chi è in grado di scorgervi,
invece, qualche cosa di più che una va- cua frase, potrà anche
comprendere, come — libri siffatti gli vengano presentati non già
per allettarlo a fare una delle solite letture, ma con l’altra ben
diversa mira ch' essi, per virtù delle forze con le quali sono stati
scritti, debbono suscitare in lui forze dor- menti, anche se a tutta
prima coteste forze possano essere soltanto quelle dell'arimia in-
tellettiva. Al nostro tempo, peraltro, non c’è vera Iniziazione,
che non passi per l' intelletto. Chi vuole in oggi condurre agl’arcani superiori
, evitando di passare per l' intel- letto, mon capisce nulla dei “ segni
dei | tempi , e non può far altro che porre sug- sa gestioni nuove
al posto delle antiche. Grice: “Of course, Austin thought that the
Saturday mornings should be held on Wednesday midnights at Parson’s Pleasure –
we were into initiation!” Giovanni
Colazza. Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione,
iniziazione nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia,
il sacrifizio di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione
di Bacco, la reazione della religione romana al mistero bacchico, iniziazione,
iniziazione del giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colazza” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colecchi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Pescocostanzo).
Filosofo italiano. Grice: “What I love about Colecchi is that
while he was a bad Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona,
dove sube diverse perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua tacita
simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare
della Nunziatella. Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica alla
filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di
conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato
in Italia, fonda a Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi
allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito
principale fu quello di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo
kantiano in Italia. Altre opere: “Se la
sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La
legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della
ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se
nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li
giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del
raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio
misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e
quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una
logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un
rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di
filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza
del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia,
Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi
al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia
della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, Firenze; Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a
cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F.
Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi
filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa,
Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di
letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura,
filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis,
La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema
filosofico di C. (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, C., in «Atti
della Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti,
Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, C.
filosofo e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese
di storia e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al
Galluppi, II, Milano); Pedagogisti ed
educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo a C., in
«Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: C., in «Archivio storico per la
Calabria e la Lucania», A. Cristallini, C., un filosofo da riscoprire, Padova, G.
Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; Garin, Storia
della filosofia italiana, III, Torino; F.
Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche,
Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di C., Centro di studi
vichiani; Io e C.. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore,
L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta
italica, tenendo dietro alle origini dell’antica lingua del Lazio – la lingua
romana -- trasse fuori VICO queste divine idee; ha lello forse BRUNO ancora, perchè
un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella scienza nuova,
dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la
sola opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di VICO rimane
nello stesso stato in cui avealo lasciato ENEA. Devono le divine idee
rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la
sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre
scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per
conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa
filosofia, appoggiata all’induzione, si dispone VICO a crear il diritto
universale della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre
delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma,
si risolge in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella
storia, della mitologia, nelle lingue, nel blasone, e pe’ feudi pur anche del
medio evo deesi Roma ripelere, e la romana giurisprudenza diventar quel la di
tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per
ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia,
tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto,
a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale,
educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione
de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il
senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le
ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia
positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del
poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con
la sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati,
di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi
ridurre in fine ad una tortura, per isforzare tutt’imonumenti della storia e
delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione
che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di VICO,
pieghi sempre al modello DI ROMA, NO DI KOESINGBERGA, e la sua civiltà a poco a
poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle
lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il
dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo
si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.VICO, dobbiamo pur dirlo a
Gloria d'Italia,VICO è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua
Storia dell'umanità parla pur anche dell'origine e del progresso della civiltà
de’ popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del
Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala,
va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. VICO, seguace di Platone e
non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo
nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra
l'immaginazione, la sintesi di VICO sembra lalmente falla l'intelligenza
per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della
strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della
sua filosofia. Niuno più originale di VICO, e pare che l’originalità
dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel VICO spenta. De’ suoi principii
intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre,
che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render
l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che
sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor
militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque,
considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e
trasmuta in quello che esser deve. La massima di VICO pertanto, ben lunga
dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone
l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da VICO stesso tolgo
le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per VICOla
virtù del vero. E chiama virtù del vero l’umana ragione -- la vernunft di Kant
-- la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto
regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe;
ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità
privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è
labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione;
ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è
cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un
corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari,
con questi pochi molli del VICO, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre
detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la
legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose
che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina
provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa
spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere
socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio
per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione*
di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un
padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti
– l’eguale è tra fratelli ROMOLO E REMO o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e
Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice
ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione
geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della
giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone.
L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression
aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta
giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro --
-- ed ba luogo in ogni società eguale.
Nè osta punto (come crede Grozio, il quale dital L'occasione poi, per la
quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide,
trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente
ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non
fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco
Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del
bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli
uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale.
qua. Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice
hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale:
conseguenza importautissima, dedotta dal VICO da vero suo priocipio, e sfuggita
al positivista CARMIGNANI, il quale fa della morale e del diritto due cose
talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del
giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La
prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della
la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la
libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La
tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che
gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio
della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e
oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma
venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la
schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose
del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii
introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla
potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione
siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo,
prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di
lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che
li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso,
se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su
iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo
secondario, e dal PORTICO conseguenti della natura. Rimontiamo col VICO all’origine
di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la
sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva
del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui
vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere
agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi
quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode
col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire
le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle utili,
e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con
seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di
cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita:
diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di
respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione
de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo
conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della
natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli
uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto
domina la prima: di guise che quando POMPEO, impedito dalla tempesta a partire,
disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo
dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar
rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la
ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che
comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile
ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi,
non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora
imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel
principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro
di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non
esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e
giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli
stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che
nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo.
Ma bisogna un VICO per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare
a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale
primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto
naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario
è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto
dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle
viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della
legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla
legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la
mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per
altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della
legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori,
per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir
non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè
data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta
al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio
ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può
l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero
leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità,
la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della
libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza
per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio
sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza
del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura
mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità,
seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto
non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta
o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale
variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge
al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di
vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione
non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt
Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale
na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela,
nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza.
Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle
genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si
stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri
numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei
delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la
città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che
vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi. Pare a VICO che
tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono
patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero,
e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto
delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che
gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed
usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e
con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per
mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni,
usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso,
come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti,
usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine
dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si
manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano
che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale! per tre nolti
continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero
in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della
ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due
cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque
stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come
che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne’ governi divini ed
eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col diritto
delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo,
si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano,
con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta
risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco
fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore,
conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine
in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente
trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad
essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse
certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa
formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata
volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non
per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà
o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di
privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla
via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e
distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte
ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto
naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e
della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in
moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose
insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori
vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del diritto
naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori,
coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la
terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio,
la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il
privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col
quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore
si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende;
all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita
questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani
Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama VICO il romano diritto un
serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni,
delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta
il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le
mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la
liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione
del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la
usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto
significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo
legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani
con una paglia, dellaper. Ciò da GELLIO festucaria. Pernon diral la fine di tanteal
tre, l’azione personale chiamata “condictio” non più e l’andar unito il
creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia.
Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede
il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di
Anfione vero. Ella è questa, secondo VICO, l'origine ed il progresso dell’universale
diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di VICO stesso, in
istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti
questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù
universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano
alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla
temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza,
che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non
appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio
diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più
il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità
della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor
della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer
anche meglio l’accordo della filosofia di VICO con la legge morale, basta
osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo
in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente
nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo VICO, una sola virtù,
e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli,
che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto
alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a
latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come
particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le
virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde VICO,
v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e unico
diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il
principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata
del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo
nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se
quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o
vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa
non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto
civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti
maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che
quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio
dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di
violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica
e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella
dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo
certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente
diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè
stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato
di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle
alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve
l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere
morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno
di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione,
qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe
egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere
in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del
primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra
per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero
il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era
semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor
coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne
seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli
strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo
e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono
con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon
l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che
prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la
monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero
della legge. Sollo queste forme di governo lulla si spiega la moralità
dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta
mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio
figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò
famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita
l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il
fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto
grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar
colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero
quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo
in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi
osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri
della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal
puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e
consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce
la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero
amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo
delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta
all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso
gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.
Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo VICO, nei quattro stati su indicati
noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca
egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua
salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con
la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua
salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio,
ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico, in
ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da altriche
dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la familiare,
l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si facevano
nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano
gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’
goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa
o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la
ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il
senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo,
tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia;
secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di
tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati
non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico
si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano
egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della
provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del
giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla
norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica
degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue
forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il
civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle
genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la
re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle
palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per
regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione
che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che
ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per
paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune
de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso
comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la
nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano:
che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò VICO, seguendo GAIO,
chiama diritto civile comu. de il diritto comune di ogni popolo. Perchè GAIO,
ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e
da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune
diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la
stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la
loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto
spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio,
dalla libertà nacquero, secondo VICO, tre pure forme dello stato. Quella DEGL’OTTIMATI,
la regia, e la libera. FONDAMENTO DELLO STATO DEGL’OTTIMATI È LA TUTELA
DELL’ORDINE, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gl’auspicii,
il campo, la gente, i connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso legenti i sacerdoti.
La regia risplende pel dominio di un solo, ROMOLO, e pel sommo e formisura libero
arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata
dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale
adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda
un solo,o come vuole TACITO: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare
con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico
reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico
non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno
da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta
allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere
risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë
parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni
stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose
corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma
sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il
prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono
i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi
stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge
all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di
civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’
sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato
dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe ROMOLO si
vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione
dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede,
diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad
onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di
guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e
li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero
dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo,
il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della
parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi
imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo
passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel
lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella
casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende
sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome
però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion
naturale per le cause di certo diritto, così l'ordine civile per natura sua fa
parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza,
ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene
conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso,
altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre
una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte
falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La
parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i
suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere
Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza
de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual
cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino
sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il
quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò
che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E
come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa
mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa
da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del
popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con
particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di
chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini.
Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola
sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi
ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con
giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e
per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine
concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e
da GAIO DIRITTO COMUNE a tutti i popoli,
altro non è ch e il diritto naturale, il quale h aperto della parola, o che
torna lo stess, non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge
stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è
necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora
che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza
si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello
stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o
secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si
conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si
cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano.
Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi.
Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla
legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può
darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che VICO
distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione,
questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più
della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani
governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera
elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione.
Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le
diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro
autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i
più prudenti, come vuole VICO, non si propongano per i scopo il diritto vero e
che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione
infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si
conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di
perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar
l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà:
nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli
scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli
considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di
lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso
giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui
occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella
solamente, nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere;
di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli
anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio,
e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè,
prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già
erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso
diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il
legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo
non era ancora. La libertà del diritto,
dice VICO, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il
dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di
operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che,
ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del
tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che
tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli
in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si
dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche
ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il
quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione,
appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di
cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer
il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o
comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti
determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo
con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la
suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi
basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial
la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre
elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può
avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di VICO si accorda perfettamente
con la morale. All natios bostna viSing to derive merit from the
splendonr of their original. And irhere history ii uleot, they fueiuenJiy
anpply the defect with fable, THE ROMANS were particnlaHy dcH^OB of being thought
DESCENDED FROM THE GODS, m if to hide the meaaDess of their real ancestry.
Mueas, the Bon of Veona AocUaei. having escaped ftvm the deitniotioii of Ttey,
after'11MU17 adventures and dangers, atrived octet a in Italy, where
Aeneas was kindly received by Latinus, king of the latins, who gave him his
daughter Lavinia in marriage. Italy was then, as it is now, divided into a
number of small states, independent of each other, and consequntly subject to
frequent contentions among themselves. Turnus, king of the Rutnti, is
the first who opposes Aeneas, he having long made pret^uions to Lavinia
himself. A war ensues, in which the Trojan hero is victorious, and Tornus
sfadn. In consequence of this, Aeneas built a city, which was eded Lavimnm,
in honour of his wife, and some time after, engaging in another war against
Hezentius, one of the petty Ungs of the country, he was vanquished in turn, and
died in battie, after a reign of four years. Ascanius, his son,
succeeds to the kingdom, and to him Silvius, a
second son,
^lom be had by lAvioia. It would be tedious
and unninterealing to recite a dry catalogue of the kings that
followed, and of whom we know little mtae than the names. It
will be sufficient to say, that the
sacoesnoD coatiDiied for near four hundred years
in the family, and that Numitor, the
fifteenth from Aeneas, is the last king
of Alba. Numitor, vho took posseBsitHi
of the kingdom in consequence of his father's
will, had a brpther named Amnlius,
to whom are left the treasures which had been brought from Troy. As
riches but too generally prev^ against right, Amolins made
use of his wealth to supplant his brother,a nd aooo foDod means top
ossess himself of the kingdom, ot content
with the crime of usurpation, he added that of
murder also. Nnmitor's sons first fell
a sacrifice to his suspicions, and to remove all apprehensions of being
one day distorbed in his ill-gotten power, he caused Rhea Silvia, his
brother's only daughter, to become a vestal
virgin, which office obliging her to perpetual celibacy, made him
less uneasy as to the claims of posterity. His precautions, however, are
all frustrated in the event; for Rhea
Silvia, going to fetch wator frqip a Qeighbopring
grove, was met and ravished by a man, whom, pei^tqw to
palliate her offence, she avers to be MARTE, the god of war. Whoever
this lover of hers was, whether some person
had deceived her by assuming so great a name, or
Amnlins himself, as some writers are pleased to a£Srm, it matters not.Certain
it is, that, in due time she was broug:lit to bed of two boys, who were
no sooner bom than devoted by the usurper to destmction. The mother is
condemned to be buried alive -the usual punishment for vestals who had violated
their chasti^, and the twins are
ordered to be flung into tbe riverTiber.It
happens, however, at the time this
rigorous sentence was put into eieculion,
that the river had more than usually
overflowed its banks, so that the place where the children
are thrown, being at a distance from thei main cnirent, the water is
too shallow to drown them. In this ntoation, therefore, they
continued without harm; and that no part of
their preservatioD might want its wonders,
we are told, that they were for some time suckled there by
a wolf, until Fanstulos, the king's herdsman,
finding ihem exposed, brought them home to
Acca Laurentia, his wife, who brought
them up as her own. Some, however,
will have it; tiiat tbe nurse's name
was Lnpa, which gaya rise to the
stoijr vt their being nouriihed by a
wolf; but it is needless to vfad
Do,l,,-cdtyS oirt a iwglH MBpg«b«ba%
fian 'venevntB vbtfe die vkote « omgrowB
with ftUe. Boraoloa and Bemna, Ae
twins thtu strangely prcwcved. Memed eariy
to diacover afai)iti«i uid desiret above
the me«i- noH of thor aapposed
origiiuL The ahepkenl's life be^an to
di^leaae them, aod fnaa tending the
flock, or hantiag wild beasts, they
soon tnmed their strength agsinst the
robben lonnd the eonntry, whom they efien atfipt of their [daader to share it among their
feUew-shepherds. In one of these ezcmnons
it was that Remus is taken priaoner by
Nvmttor's berdsmen, who bring him before the
king, and aoensed him of the very
crime which he bad ao t^tea attempted
to sappresa. Bomnlaa, bowerer, beii^ informed 1^
FaiiBtaliu of his real birth, was not remisa in
assembling ft munber of hia fbllow^epherds,
in order to resooe bis brother from
posoD, and foroe the kingdtmi from tbe bands of
tbe nsnrper. Yet, being too feeble to act openly, he direcs bis
followers to assemUe near the place by different ways, while
Beniiis with eqnal vigilaooe gm&ed npon
tbe dtiuua within. AmalioB, tfans beaet
on all sides, and not knowing iriiat expedient to
thinkof for bit seoiuity, was,daring hia
amasenent and distraotion, taken and daio, while
Numitor who had been deposed forty-two years, recognised bis
grandscns, and is restored to the throne. Nnmitor being
tints in qvet posiewion of the kingdom,
hot grandaou resolred to bnild a eify
npoo
those hills whoe they had formerly lived as aheiriierda.
The king had too many oUigations to
them not to approve their des^; he
appointed tbem lands, and gave pennisnoB
to .snoh of hia subjects a» thoo proper
to settie in their new colony. Many
of the neil^draariiig shejdierda also, and
sncb as were fond of change, lepabed
to the intended dty, and prepared to
raise. For the more speedy oarrybg on this work,
the people were divided
into two parts, each of whioh, it was sapposed, woidd indoatriondy emnlate the otfaer. Bat
what was designed fi» an advantage proved
nearly fatal to this infimt oolony: it gives
birth to two factions, one preferring Romulus, the other Remus,who
themselves arenot agreed upon the spot where the city shonld stand. To
terminate this difference, they are recommended by the kingto take an omen from
the flight of birds; and that be, whose ome should be most favoorable^
afaonld in all reepeots direct
die odier. In ooatflSaaoe wiOl this advice,thej both
take their stations npon diffra«nt hilk.
To Remus appear six vultures, to
Romulus, twice that number, to ttwt
each party thongfat itielf viotoriovi, the
one tiaviog the *first* omen, the
other the most nnmeroiu. Tbifl prodnoed
a contest, whitdi ended ui a batde,
wherein Bemoa is slain, and it is even said, that he was
kiUed by his brother, who, facingprovoked at his leaping contemptnoasly over
the city wbU, itrack him dead upon tbe
qrat, at the
same time proKssio^, that nooe shonld ever inanlt his walla
withim punity. Romoltu, being now sole
coHunuider, and eighteen yean of age, b^an
the fonndation of acity, that was one day to give laws
to the woild. It was called Rorne after the
uaaie of the founder, and bnilt npon the Palatine hill, on which he had taken lus ancceflsfol omen. The city was
at first almost square, oontaining «bont a tlwiisand houss. It was
near a mile in compass, and commanded a small territory
ranod it of about eight miles over.
However, smallas it appears, it was,
ootwithstandiiy, vone inhabited; and the
first method made uae of to increase
its numbers vaa the opemng a
sanctosry for all male&otors, slaves, aod
snch as wm« desirons of novelty. These came
in great multitudes, and cootibated to
increase the number of our legtslatoi'B new
subjects. To have a just idea ther^re
of Rome in its infant stale, we have only
to iwsgine a coUec- tion o( cottages,
sairotinded by a feeble wall, rather built
to serve as a military retreat, than
for the purposes of civil >o- cie^,
rather filled with a tnmoltuoas and vicious
rabble, thaD with subjects bred to
obedience and control.We have only to conceive men bred to
rapine, Iwing in a place that merelj
seemed calculated for the security of plonder;
and yet, to our astonishment, we shall soon
find this tumulbioas coocouise unit>
ingin the strictest bonds of sode^;
this lawless rabble putting OB the most sincere regard for
religion; end, thouf^ composed of the
dr^s of mankind, setting examples, to all
the worid, of valour and riitne.
Doiii,,ih,. WWLOU SoARGB mm tbe city
rnsed abore iti &niid«tioB. vhen Hs
rade mhalulsBtB hegaa to tfauik of
gmag some fonn to their. MoslitBtioii. Their
first object was to unite lifoer^ and
em- pire; to fonn a kiod of
mixed monncby, by irfaicfa all power
vw to be dividad between the prince
and the peopte. Bo- nlna, by an
act of great geoeromtf, left them at
liberty to dwose whom they wonld for dieir king, and
tliey in gnrtitiide eoBcmred to elect their founder; be
was accordingly acknowledged as chief of dieir religion,
sovereign magistrate of Rorne, md geoeral of Ae army. Beside a
guard to attend his person, it was agreed that he should be preceded wherever
be went by tweW e mCT, armed with axes tied op in
a bnadle of rods, who were to serve as
execntioners of the law, and to impress hii
new subjeots with an idea of his authority. Yet
stUl tUa aKiboriQr was ondw very great
restriotii»ig, as his whole power CMisisted
in caQing the THE SENATEsenate togedier, in
assembling the peo< pie, io condoctmg
the army, when it was decreed by the
other part of the constitation that
they ahonld go to war, and in
k^ pointing the qnestors, w neainrers
of the pnblk: money, <^ficers which we
may soppose at that time had but
very Ktfle eni^oyment, as neither the
soldiers nor magistrates recrived any pay.
The senate, wluch was to act as
cosnsellors to the king, was composedof an
imndred of the printnpal cttisens of Bune,
oODStsting of men whose age, wisdom, or valoor, gave
them natoral an^toiitf over titeir feUow-«ab|ect8. The
king named the fint senatw, and appointed him to
the government of &e atj, whenever war reqoired the
geoeial's absence. In dds neqiect^e assembly was
transacted all the important boainesa of the slate, the king
himself presiding, ^thongh every question w'as tO'be
determined by a minority of
voices. Ai^ they were supposed to liave a parental
affection for die people, they were called
latbMS, and their descendants patricians. To the
pafericiaits belonged all ttte dignified
oiBees of tlie state, as well
r,o,i,,-cMh,. as of tiie imesfbood. To these
the; were appofaited by the senate and the
people, vhile the lower ranks of
citizens, wlio were thns excluded from
all views of
promotion for thenseUes, woe to expect advantages
ou^ from their ntloiir in war, or
their assidiiity in agriculture. The
plebwms, who composed the third part of the
legi»- la^oce, assumed to tbemselTcs the
power of aathorising' those laws iHiicb
were passed b; the kia^ or the
setwle. All tUi^ x^ative to peace or war,
to the electi<Hi of magistiatei, and
even to the choosing a king, were
confirmed by their sufiragea. la their
namMmu aaaomblies. all mterptises against
the enemy were proposed, while the
senate had onij a power of rejeotiog
«r approving their Aemfpit. Thus was
the ststa composed of three orders,
each a check np<»i the other: the
people resolved whedier the proposals of
the king were pleasing to them, the
senate deliberated upon the expediency of
the measure, and the king gave vigour
and spirit by directing the execBtion.
Bat thov^ the pei^le by these
regulations seemed in possession of great
pow«, yet th«re was one cdr-onmstaace which
c<nitiibuted greatly to its dimmntion, nara^, the
rights of patronage which wece lodged
in the smate. I^ king, sensible that
in every state there must be a
'dependaoee of the poor upon the powerful,
-gave permission to every |:4e- beian to
choose one among the senators for
a patron. Tke bond between them was of the strongest
kind; the patron was to give
[woteotion to his client, to assist
him with lus advice and fortune, to
plead for him before the judge, and
to rescue him from every oppression.
On the other hand, the climt attached
himself to the interests of his patron,
assisted han, if poor, to portion his
daughters, to pay his debts,, or his
rmuom - in case of being, taken
prisoner. He was to follow him on
every service of danger; whenever he
stood candidate for an office, he was
obliged to give him his sufi&age, and
was proUbited from giving testimony in
a court of justioe whenever his
evidence affected the int^ests of his
patron. These reciprocal dotias were held so
sacred, that any who violated them
were ever after held infamous, and excluded
6x»n all the pro- tection of the taws :
so that from hence we see the
senate in effect possessed of the
snffirages of &ea clients, nnce all
that was left the people was <Hily
the poww of choonng what patron Ibery
should obey. Amoaf a nRtion m>
tMibstont and fierce as the first Romans,
it was wise to enforce obedience ■t
&6 most reqnidte dnty. lie first
care of the new-created king was to
attend to the interests of religion,
and to endeavour to hnmantse his subjects,
by the notion of other rewards and pnnishnients than
diose of hnman law. The precise form
of their worship is nn- known; bat
die greatest part of the religion of
that age con- siMed in a firm
relianoe upon Ae credit of their
soothsi^ers, irito fvetended, from observations
on the flight of birds and the
entrails of beasts, to direct the
present, and to dive into fntmrity. This
pioos fhrad, wbich first uvse from ignorance,
soon became a most usefnl machine
in the hands of government. Romnlns,
by an express law, commanded, that no
election should be made, no enterprise
undertaken, witfa- flat first conaolting
die soothsayers. With equal wisdom he
•rdained, that no new divinities should
be introdoced into pnhlic worship, that
the priesthood should continue for fif,
and that Aone shonM be elected into
it before the age of fifty. '
He fort>ade them to mix fable witb
the masteries of their reUgion; And,
timt they mi^t be quaKfied to teach
others, he ordered Aat tiiey should
be tiie iHstoriographns of tiie times;
so tiia^ while instructed by priests Bk^
these, the people cordd never degenerate
into total barbarity. Of his other
laws we have but few fragments remmnii^. In
these, however, we learn, that wives were
forbid, upon any pretext whatsoever, to
separate from tbeir husbands; wUle, on
the contrary, the husbaod was empowered
to repudiate the wife, and even to put her
to death with the consent of hef
retatioQB, in case she was detected in
adultery, in at- tempting to poison, in
making false keys,. or even of having drank
too much vine. His laws between
children and their parents w«'e yet
sdll more severe; the father had
entire power over his offspring, both of
fortune and fife; he conid ■ell them
or imprison them at any time of
their lives, or in any ttations to which they
were arrived. The father might expose
his clnldren, if bom witii any deformities,
having previoasly eommunicated bis intentions
to his five next of kindred. Our
lawgiver seemed moze kind even to his
enemies, for his subjectswere prt^hited from killing
them after they bad surren- dM«d, m
even from sdling them: his ambition
only aiaied at .,Coo<^lc r
of luB ateaaeB i^ mak After M>
many endeaToiiTs to inoraase bia BnbjeotBi
aad m mmy Inra to r^nlate them,
he next gave ordeis to ascertna tbeir
numbers. Tbb whole amoanled bat to
three tbooMnd foot, and about as many
bnndred horsemen, capable of beari^ arms.
These, therdbre were
divided equally into three
tribes, and to each he asiigaed a
different part of the taty. Each of
these tribes were sabdivided into ten
cmin or compame, consiBting of an hundred
men each, with a oentnrioB to command
it, a priest c^ed curio to perform
the sacrifioes, and two of the principal
inhatntants, called duumviri, to distribute jnstioe.
Aocordijigly to the number of ooriv he
dividedthe lands into thirty parts,
reserving one portion for public uses,
and another for religiaus ceremonies. Tbo
«m- ■phaty and fingality of tha times
will be best iindeistood by observing,
that dach citizen had not id>ove two
ictea of ground for his owB subsistence.
Of the horsemen mentioned above, dtere
were chosen ten from eei^ curia;
tfaey were particularly appointed to fi^t
round the person of the king; of
them hU gaud was composed, and from tbeir
alacrity in battle, or fhuB the
>ame of their first commander, ^ey
were called ceUrat, a word equivalent
to our light horsemen. A goremmcot
thus wisely instituted, it may be
suppoaed, nduced numbers to come and live
under it: each day added to its strength,
maltitudes flocked in from all the
adjacent towns, and it only seemed to
waqt women to ascertain its du- ration.
In this exiaeiatx, Romulus, by the
advice of the se- nate, sent
deputies among the Sabines, his neighbours,
en- treatingtheir alliance, and upon these
terms- ofiering to cement the most
strict confederacy with them. The
Sabines, . who were then considered
as the moat warlike people of Italy,
r^ected the proposition with disdain, and
some even added raillery to the
refusal, demanding, that as he had
opened a sanctuary for fugitive slaves, why
he had not also opened another for
prostitute women. Tbis answer quickly raised
the indignation of the Rpmans; and the king, in
order to gratify their resentaient, while
he at the same time should people
hb ci^, resolved to obtain by force
what was denied to intrea^. For this
purpose he proclaimed a feast, in
honour of N^tane, diron^ut all the
nMghboitring villagea, and made the meet
KAPB OF THK BABINBS. t mmgaiAMat
pnftamtkmi for it Tbets feuta wen
guan^ preceded by sacrifices, and ended
in' shows of wreeden, ^ft- diaton,
and chariot-^onrses. The Salnnes, as he
had expected, were among the foremost who
came to be spectalon^ fannging their
wives and daughters with them to
share t^ pkasore of the sight. The
inhabitants also of maaj of tht
ueig^hoariDg to^os came, who were received
by the RomaM with marks of the most cordial
hospitality. lo the mean time ' the
games began, and while the strangers
were most intent upon the spectacle,
a number of the Roman yonth rushed
la mnoag them wiUi drawn swords
seized the yotingedt and meet beaatilid
women, and earned them off by violence. ,
In vain the parents protested against
this bre&cfa of hospitali^; in vain
the virgins themselves at first opposed
the attempts of th^ raviBfaers;
perseverance and caresses obtained those
&• TOWS which timidi^ at firstdenied: so
that the betrayera, frma being objects
of aversion, soon became partners of
their dearest
affections. But however the afiront might have been botne by them, it
was not BO easily pnt
up by their parents; a bloody war
ei^ sued. The cities of Cenioa,
Antemna, and Cnutuminm, wen the &at
who resolved to revenge the common
cause, which the Salnses seemed too
dilatory in pursuing. These, by making aeparate
inroads, becamea more easy conquest to Romulus,
who first ovothrew the Ceoinenses, slew
dieir king Acron in
sio combat, -and made an offering of the royal spoils to
Jupiter Feretrius, on the spot where the
capitol was afterwards built The Antemnates
and Crustuminians shared the same. fate;
their armies were overthrowu, and their
cities takes. The conqueror, however, made
the most merciful use of las victny;
for instead (rf destroying their towns, or
lessemi^l tbent nnmbeis, he only placed
colonies of Romana in them, to. serve
as a frontier to repress more distant
invasions. Tattos, king of Cures, a
Sabine city, was the last, althou^
the most formidable who undertook to cevuige the
disgrace his country had suffered. He
entered the Roman territoriea at the head
of twenty-five thousand men| and not content
with a superiority of forces, he
added stratagem also. Tarpeia, who was
daughter to the commander of. the
Cajutolme hill, happened to &11 into
his hands, as she went without 4>e
walls of the city to fetch water.
Upon her he prevailed, by meant of
hrga pttuSaet, to bebrajr aae of
the ^^ates to his army. Tlie
i«<irwd she eagdgei for was vfaat
the soldiers wore on their atteB, by
vfaich the meaot their bracelets. They,
however, cotber miataking^ her meaning, or
wiUing to panish her peifidy, ttvew
tlieir bncklera upon her as they
entered, and crushed ber to death
beneath them. The Sabines, being thus
possessed of the Capitoline, had the advantage
of continning the War at tbeir
pleasure; and for some time only
slight enconnters passed between them. At
length, however, the tedionsness of this
contest began to weary out both
parties, so that each wished, but neither
would stoop to sue for peace. The
desire of peace ofteii gives vigour
to measures in war ; wherefore boUt
sides resolving to terminate their doubts
by a detMsive action, a general
engagement ensued, which was renewed for
several days, with almost equal success.
They both fon^t for all that was
vEduable in life, and neither could
think of submitting: it was in the
valley between the Capitoline and Qui-
rinal hills, that the last engagement
was fought between the Romans and the
Sabines. The engem«it became general, and
the slaughter prod^ioua, when the attention
of both sides was suddenly turned from
the scene of horror before them, to
(mother infinitely more striking. The Sabine women, who
h^ been carried off by the Romans, were
seen with their hair loose and iheir
ornaments neglected, fiying in between tbe
combatants, regardless of their own danger, and with
loud outcries only solicitous for that
of their parents, their husbands, and
their cUIdren. " If," cped ihey,
" you are resolved upon daughter, turn
your atma upon us, since we only
are the cause <tf your animosity. If any
must die, let it be us; since
if oar parents orour husbands faU, we
must be equally miserable in being
the surviving cause." A spectacle so
moving could not be resisted by the
combatants; both sides for a wtiile,
as if by mutual impulse, let fall their
weapons, and beheld the distress - in
silent wnazement The tears and entreaties
of thdr wives and daughters at length
prevaUed; an accommodation ensued, by which
it was' agreed, that Romulus and Tatius
should t«ign jointly in
Rome, with equal power and prerogative;
diat an bailed Sabines should be
admitted into the senate; that the
city should still retain its farmer
name, but that As citizens should
bctdled Qnirites, after Cures, the
principal town of the Sabines; and that both
nations being thus united. 11 •aoh
of the Sabtees u i^ose it shoiM
be sdnAted to Bniad eDJoy all
the privilegea of citizens oi Rome.
llaH erery •torm, vhich seemed to
threateo this growing empire, only served
to increase itvigour. That army, wfaich in
die mondug had resolved upon its
destruction, came in the evetlin^ with j(^
to be enrolled uiDoag the number of
its ctttzens. RomfoloB saw his dominions
and his sul^ects increased by more
then half in the space of a few
hours; and, as if
fortune meant every way to assist his greatness,
Tatins, his partner in the govem-
ment, was killed about five years
after by the Lavinians, for having
protected some servants of his, who
had plundered them and slain their ambassadors;
so that by this accident Romulus once more saw himself sole monarch of Rome.
Rome being greatly strengthened by
this new acquisition of power, began
to grow formidable to her neighbours ;
and it -aiay be supposed, that pretexts for
war were not wanting, when prompted
by jealousy on their ride, and by
ambition on that of the Romans.
Fidena and Cameria, two oe^hbonring cities,
were stibdoed and tAken.
Veii also, one of the most power Ail
states of Etruria, shared nearly the same fate;
after two fierce engagements tiiey sued
ftM* a peace and a league, which
was granted upon giving np the seventh part of tbev dominions, their
salt-pits near the river, and
hostages for greater security. Successes like these produced an equal share of pride in the oonqneror. From being contented with
those limits which had been wisely fixed to his
power he began to affect absolute sway, and to govern those
laws, to which he had himself formerly professed implicit obedience.
The senate was particularly displeased at
his conduct, finding themselves only used
as instrom^its to ratify the rigour of his commands. We are not told the precise manner which they made use of to get
rid of the tyrant: some say that be was torn in pieces in the senate botise; otiters that he
disappeared while reviewing his army:
eertain it is, that from the secrecy
of the fact, and the concealment of the body,
tbey took occasion to persuade the multitude, that he was taken np into heaven; thus him whom they oonld
not bear as a king, tbey were contented to
worship as a god: Romnlns reigned tlnrty-seven
yean, and after his death bad a temple
built to turn under the name of
Quirinus, one of the Hwrton wilwMly vffiiniaff,
that be had appeared to hm, and
desired to be isTtAed by that tide.
We see little more in the obaraeter
of this princ, than vhat mi^t be expected
in andk an a^, great temperance and
great valour, wbich generally make np
the catalt^e of sar^^e virtues. Howeva,
the
gnndenr of an empire, admired by the whole irorid, creates
in u an adnuration of tiie founder, viftoat mnch raamimng'
hia. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy
enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico,
as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and
perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!”
-- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore,
Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima, first-hand
knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il kantismo di
Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario kantiano in
Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio necessario –
Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno, Giove,
etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di Roma,
diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto, la
passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione,
l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la
rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di
Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la
virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia
distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrico – progression
arimmetica, progressioe geometrica, la base matematica della filosofia di
Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo,
padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima
universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il
vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione
sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero
arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione,
l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di
equali, il modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia,
Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto
sociale, la parola e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res
pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato dell’uomo
in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di inequali, padre/figlio,
terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di Romolo, il
genero umano, diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colletti: la ragione
conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei curiazi, ovvero, politica romana – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.
Grice: “I like Colletti – he takes political philosophy seriously unlike we of
the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the
Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma.
“Partito Socialista Italiano”. Altre saggi: “Il marxismo e Hegel, in Lenin,
Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, Ideologia e società, Bari, Laterza,
Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o
sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica,
con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il
"crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo
e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a
oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari,
Laterza, Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo, Le
ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e
politica, Milano, Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza,
Marco, Fine della filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche.
Con Kant, alla ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto C. voce
"contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo
Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di C., Roma, Stampa e servizi, Orlando
Tambosi, Perché il marxismo ha fallito C. e la storia di una grande illusione,
Milano, Mondadori, Ministero per i beni e le attività culturali, C.: il cammino
di un filosofo contemporaneo, Roma, Essetre, Pino Bongiorno, Ricci, C. scienza
e libertà, Roma, Ideazione, Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma,
Manifesto libri. C., LaTreccani L'Enciclopedia Italiana. C. su Camera XIII legislatura, Parlamento
italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La
storia di C. di Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza
Italia”. Il saggio di C. Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di
alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review”, e
pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente Colletti
si propone di chiarire la «differenza tra opposizione reale (la Realopposition
o Realrepugnanz di Kant) e contraddizione dialettica. Si tratta di opposizioni
radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione (ohne Widerspruch)», la
seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch). La opposizione
dialettica è espressa dalla formula A non-A, nella quale ciascun opposto è solo
la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli
dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la
negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi
«entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose
(Undinge), ma idee». Ciascun opposto ha la sua essenza fuori di sé, nell’altro
di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa
dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon.
L’opposizione reale è espressa dalla formula A e B, nella quale ciascun opposto
sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più
importante è che Biscuso. Opposizione reale, contraddizione logica e
contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà
(Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga
indicato come il contrario negativo dell’altro. Questo accade ad esempio quando
ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione
contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo
qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di
contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso
che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè
come non-essere». Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc,
proprio perché sono senza contraddizione (dove è già implicito, come sarà
confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo
non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di
opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente
rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica
delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che
è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta
attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero,
segue il modello della contraddizione A non-A. Fuori l’uno dell’altro, cioè al
di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali, e
l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto
finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero
infinito. Dunque, commenta C., «dov’era la cosa è ora subentrata la
contraddizione logica (– si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si
attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver
«ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per
una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era
volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio
a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente
muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di
apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo). Avvertiti di questa
difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali
cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come
contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne
Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di
conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a
dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta
con la scienza. Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di Volpe:
a costo di liquidare gran parte dell’opera filosofica di Engels in quanto fonte
del Diamat, sembrava però legittimarsi l’aspirazione del marxismo a costituirsi
come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società. In
realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare
con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione
dell’astratto, filosofia-italiana.net l’inversione di soggetto e
predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della
logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava […]
nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa. Vi
sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico
dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa
lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il
difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo
è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del
crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria
della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia
di risultare il progetto di una soggettività utopica. Dunque per lo stesso Marx
le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì
contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle
Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti
che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente)
Colletti conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti
reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto
dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate. Teoria
dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e
identica teoria. la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e
quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno
un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di natura e
cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile borghese del
Settecento. «La società moderna è la società della divisione (alienazione,
contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È
rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, dove
l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la
divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della filosofia della
storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx,
accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico. Hegel versuchte, um
die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in
den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern (sog.
dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt. Damit versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten Dogmatismus
in der Metaphysik zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper
kommentiert: „Diese Widerlegung [Kants] betrachtet Hegel als gültig nur für
Systeme, die metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den
dialektischen Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt
und deshalb Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische
Kritik in dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches
Abenteuer, das zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa
folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er
müsse zu Widersprüchen führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses
Argument seine Stärke aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur
solche Systeme, die dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen,
frei von Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein
System wie das meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für
ein dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels
Argument einen Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen
Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe
Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie
muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen,
entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen
Fakten. Logisches Quadrat Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung,
dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den
unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene Beziehungen: Zwei Aussagen
bilden einen kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder
gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten:
Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau
dann der Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist (und
umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische
Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren
Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide
falsch sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in
konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau
dann, wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein
können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem
Gegensatz. Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits
besteht ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser
Folgerungszusammenhang im logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A
folgt I, d. h., wenn alle S P sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P
sind; und aus E folgt O, d. h., wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich
S, die nicht P sind. Diese Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter
dem Namen „Logisches Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung).
Die älteste bekannte Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem
zweiten nachchristlichen Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros
zugeschrieben. Orazi e Curiazi figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui
Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Orazi e Curiazi (disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono
figure leggendarie della Roma antica. Il giuramento degli Orazi, di
David, Museo del Louvre Leggenda Secondo la versione riportata da Tito Livio
(Hist.), durante il regno di Tullo Ostilio. Roma e Alba Longa entrarono in
guerra, affrontandosi con gli eserciti schierati lungo le Fossae
Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al confine fra i loro territori.
Ma Roma e Alba Longa condividevano attraverso il mito di Romolo una sacra
discendenza che rendeva empia questa guerra, perciò i rispettivi sovrani
decisero di affidare a due gruppi di rappresentanti le sorti del conflitto fra
le due città, evitando ulteriori spargimenti di sangue. Furono scelti per
Roma gli Orazi, tre fratelli figli di Publio Orazio, e per Alba Longa i tre
gemelli Curiazi, che si sarebbero affrontati a duello alla spada. Livio afferma
che gli storici non erano concordi nello stabilire quale delle due triadi fosse
quella romana; propende per gli Orazi perché la maggior parte degli studiosi
sceglie quella versione. Iniziato il combattimento, quasi subito due
Orazi furono uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il
terzo Orazio, che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, trovandosi
in difficoltà, pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma.
Come aveva previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si
distanziarono fra loro, perché, feriti in modo differente, inseguivano a
velocità differenti. Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era
stato ferito e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre e fu
raggiunto da ciascuno degli altri due, che a causa delle ferite erano sfiniti,
e gli fu facile ucciderli uno alla volta. La vittoria dell'Orazio fu la
vittoria di Roma, cui Alba Longa si sottomise. Camilla Orazia, sorella
dell'Orazio superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi e
rimproverò violentemente del delitto il fratello, tanto che questi la uccise
per farla tacere. Per purificarsi dovette passare sotto il giogo del Tigillum
Sororium, che da allora i Romani festeggiavano come rito di purificazione dei
soldati ogni 1º ottobre. Inoltre, per il processo al delitto di perduellio
(delitto contro le libertà del cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo
la fase regia di Roma), di cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la
cui vita - essendo ella estranea al duello pattuito - era sacra per legge,
Tullo Ostilio istituì, secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici
appositi: i duumviri perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla
successiva fase repubblicana). Le parentele fra Orazi e Curiazi erano
ulteriormente intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo
Sabina - nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei
Curiazi sia moglie di Marco Orazio. Realtà storica Il cosiddetto Sepolcro
degli Orazi e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano
testimonianze di età augustea attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro
alla quale sarebbero state appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli
Orazi al sesto miglio della via Appia. Ad Albano Laziale, lungo l'attuale
via della Stella, si trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli
"Orazi e Curiazi", ma si ipotizza che sia tomba di altri
personaggi. Nella realtà la guerra fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il
re della città sconfitta, Mezio Fufezio, venne squartato. C'è chi indica
San Giovanni in Campo Orazio, nel territorio di Poli, come luogo dove avvenne
la cruenta battaglia. Orazi e Curiazi nelle artiModifica Gli eroi di
questa disfida sono citati da Dante (Che i tre a' tre pugnar per lui ancora,
Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala degli Orazi e Curiazi del
Campidoglio. TeatroModifica Sulla vicenda degli Orazi e Curiazi si basano
alcune opere liriche: Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, opera
in tre atti su libretto di Antonio Simeone Sografi, la cui prima esecuzione
ebbe luogo al Teatro La Fenice di Venezia Orazi e Curiazi di Saverio
Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, eseguita per
la prima volta al teatro San Carlo di Napoli. The Horatian - Three Songs di
Heiner Goebbels Orazi e Curiazi è anche uno dei drammi didattici scritti da
Bertold Brecht. CinemaModifica Orazi e Curiazi, cortometraggio muto. Orazi e
Curiazi, film di Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi,
film-rivisitazione in chiave farsesca del mito. Curiosità La vicenda
dello scontro tra gli Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie
"L'ombra nera del Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo
Giuffré e Claudio Amendola. Molto evidente il riferimento al mito quando, per
regolare i conti tra due clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna
delle due organizzazioni criminali: i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe
Carità, e i tre fratelli Sposito per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei
fratelli Carità è sposato con la sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei
Carità era promessa come sposa al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche
del combattimento e le relative conseguenze sono identiche. Livio, Ab Urbe
condita libri, Is quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti
Horatiae tradita sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub
iugum misit iuvenem.Osservazioni sulla repressione criminale romana in età
regia, di Bernardo Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana
in età regia, di Bernardo Santalucia, Orazi e Curiazi, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma
Portale Mitologia Tullo Ostilio terzo re di Roma Gens Horatia
famiglie romane che condividevano il nomen Horatius Il giuramento degli
Orazi dipinto di Jacques-Louis David Grice: “Colletti takes negation more
seriously than Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s
distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical
contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the
principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian
language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s
the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in
modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or
strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have
the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek
‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate
with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with
‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended use of
‘utterance’ to include the characterization of something that need not be
linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product which
may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but
that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero,
the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then
pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’
and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and
I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti.
Keywords: curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la
contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian,
“Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das
Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter –
anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario,
l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio,
dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colletti” – The Swimming-Pool Library. Colletti.
Grice e Colizzi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Norcia). Filosofo italiano.Grice:“By focusing on ‘desire,’
focuses Collizi on Thales who famously, for fixing on the stars, de-fixed from
the ground!” Grice: “If I had to chose one philosophical word I adore is
‘desideratum,’ and Collizi tells it right – while Short and Lewis doubt it, to
desire is like to consider – and the ‘sidus’ is involved!” Compone il
saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. C. si è appreso attraverso i
riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua filosofia consiste
nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto, totalmente ri-adattato,
di derivazione platonica, secondo cui il reale è emanazione, a partire da
livelli di purezza e deità più elevati. Facendo dell'amore la caratteristica
principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che il reale coincide con l'amore,
in forme più o meno degradate. Da questo concetto fa derivare una forte istanza
di svelamento. Nonostante l'apparente neutralità emotiva del reale, il vero
fondamento divino, e quindi dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue
quindi applicando questo principio ad una apparenza fenomenica, in modo da
svelarne il vero essere, cioè il principio di amore – Grice: “Not to be
confused with my principle of conversational self-love!” -Il suo passo più
celebre, tuttavia, riguarda l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che
collega all'espressione “de sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e
qualcosa che percepiamo con i sensi, ma senza potere esperire direttamente
l'amore che da loro scaturisce, così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la
quale si cela un bisogno. Il “de-siderio,” questo tendere all'apparenza,
scompare completamente solo una volta compreso fino in fondo il fondamento
dell'essere, nella “mystica copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia.
La sua filosofia quindi, sembra unire una forte istanza metafisica a un'altrettanto
forte istanza etica, cercando nel reale una fondamentale armonia di senso che è
compito di ogni uomo, scopertala, riprodurre e preservare. Cf. Bruno, “De
l'infinito, universo e mondi,” Bruno,“Praxis descensus seu applicatio
entis,”D.Cantimori,“Storia ereticale” (Laterza). Bolgiani, “Ortodossia ed
eresia: il problema storiografico nella storia e la situazione
ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID). A compimento di questo settimo Libro ed in osservanza alla
regola fin qui seguita, rimanci di far menzione di que'nostri Concittadini, che per meriti di santità, o per dottrina, ovvero per singolare valore nelle scienze,se ne resero meritevoli. E primo ci si presenta il Ven. Fr. Agostino da Norcia della famiglia C., emulo delle virtù del suo zio Fr. Giustino da noi ricordato Degl’eroici
furori di Bruno Letteratura italiana Einaudi Edizione di
riferimento: Bruno Nolano, De gli eroici furori.Parigi, appresso Baio, in Dialoghi
filosofici italiani, a cura di Ciliberto, Mondadori, Milano Letteratura
italiana Einaudi Sommario Argomento del Nolano Avertimento a’ lettori
Iscusazion del Nolano de gli Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo
Dialogo Dialogo Dialogo Seconda parte de gli Eroici Furori Letteratura italiana
Einaudi Al molto illustre et eccellente cavalliero Signor Filippo
Sidneo Letteratura italiana Einaudi Bruno De gli eroici furori ARGOMENTO DEL
NOLANO sopra GLI EROICI FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO
È cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da bas- so, bruto e sporco
ingegno, d’essersi fatto constante- mente studioso, et aver affisso un curioso
pensiero circa o sopra la bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio
buono) più vile et ignobile può presentarsi ad un occhio di terso sentimento,
che un uomo cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per
dovenir or freddo, or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or
in mina di perplesso, or in atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo
di tempo, e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir
del cervello con mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi
monumenti, quelle continue torture, que’ gravi tormen- ti, que’ razionali
discorsi, que’ faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la
tirannide d’una inde- gna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che
tragicomedia? che atto, dico, degno più di com- passione e riso può esserne
ripresentato in questo teatro del mondo, in questa scena delle nostre
conscienze, che di tali e tanto numerosi suppositi fatti penserosi, con-
templativi, constanti, fermi, fideli, amanti, coltori, ado- ratori e servi di
cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni
merito, senza ri- conoscenza e gratitudine alcuna, dove non può capir più
senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una statua, o imagine
depinta al muro? e dove è più super- bia, arroganza, protervia, orgoglio, ira,
sdegno, falsitade, libidine, avarizia, ingratitudine et altri crimi exiziali,
che avessero possuto uscir veneni et instrumenti di morte Letteratura italiana
Einaudi Bruno - De gli eroici furori dal vascello di Pandora, per aver pur
troppo largo ricet- to dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in car-
te, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi, et intonato a gli orecchi un
rumore, un strepito, un fracasso d’inse- gne, d’imprese, de motti, d’epistole,
de sonetti, d’epi- grammi, de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estre-
mi, de vite consumate, con strida ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno
ribombar gli antri infernali, do- glie che fanno stupefar l’anime viventi,
suspiri da far exinanire e compatir gli dèi, per quegli occhi, per quelle
guance, per quel busto, per quel bianco, per quel vermi- glio, per quella
lingua, per quel dente, per quel labro, quel crine, quella veste, quel manto,
quel guanto, quella scarpetta, quella pianella, quella parsimonia, quel riset-
to, quel sdegnosetto, quella vedova fenestra, quell’eclis- sato sole, quel
martello; quel schifo, quel puzzo, quel se- polcro, quel cesso, quel mestruo,
quella carogna, quella febre quartana, quella estrema ingiuria e torto di
natura: che con una superficie, un’ombra, un fantasma, un sogno, un circeo
incantesimo ordinato al serviggio della generazione, ne inganna in specie di
bellezza. La quale insieme insieme viene e passa, nasce e muore, fiorisce e
marcisce; et è bella cossì un pochettino a l’esterno, che nel suo intrinseco
vera e stabilmente è contenuto un na- vilio, una bottega, una dogana, un
mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produre la no-
stra madrigna natura; la quale dopo aver riscosso quel seme di cui la si serva,
ne viene sovente a paga d’un lez- zo, d’un pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza,
d’un dolor di capo, d’una lassitudine, d’altri et altri ma- lanni che son
manifesti a tutto il mondo; a fin che ama- ramente dolga, dove suavemente
proriva. Ma che fo io? che penso? son forse nemico della gene- razione? ho
forse in odio il sole? Rincrescemi forse il mio et altrui essere messo al
mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccòrre quel più dolce pomo che può
pro- Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori dur l’orto del
nostro terrestre paradiso? Son forse io per impedir l’instituto santo della
natura? Debbo tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha
messo al collo la divina providenza? Ho forse da persuader a me et ad altri,
che gli nostri predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli
nostri successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto
cadermi nel pensiero. Anzi aggiongo che per quanti re- gni e beatitudini mi
s’abbiano possuti proporre e nomi- nare, mai fui tanto savio o buono che mi
potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergogna- rei se
cossì come mi trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che
mangia degnamente il pa- ne per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla
buo- na volontà soccorrer possano o soccorrano gl’instrumen- ti e gli lavori,
lo lascio considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non
credo d’esser legato: perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e
tutti gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere et annodare quanti
furo e sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la
morte istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a
refrigerar il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o
Rifeo. Or vedete dumque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare.
Che dumque voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel
che voglio conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare
sia donato a Cesare, e quel ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a
le donne, benché talvolta non bastino gli onori et ossequii divini, non perciò
se gli denno ono- ri et ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì ono-
rate et amate, come denno essere amate et onorate le donne; per tal causa dico,
e per tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione,
se non hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di Letteratura
italiana Einaudi 4 Giordano Bruno - De gli eroici furori quel
splendore, di quel serviggio: senza il quale denno esser stimate più vanamente
nate al mondo che un mor- boso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante
oc- cupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che
caccia il capo fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo,
perché possano aver fer- mezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri,
ordi- ni e misure, a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e
raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomo- na, Vertunno, il dio di Lampsaco, et
altri simili che son dèi da tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come
non siedeno in cielo a bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove,
Saturno, Pallade, Febo et altri si- mili: cossì gli lor fani, tempii, sacrificio
e culti denno es- sere differenti da quelli de costoro. Voglio finalmente dire
che questi furori eroici otte- gnono suggetto et oggetto eroico: e però non
ponno più cadere in stima d’amori volgari e naturaleschi, che veder si possano
delfini su gli alberi de le selve, e porci cinghia- li sotto gli marini scogli.
Però per liberare tutti da tal su- spizione, avevo pensato prima di donar a
questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il quale sotto la scorza
d’amori et affetti ordinaria, contiene similmente divini et eroici furori, come
interpretano gli mistici e cabalisti dot- tori: volevo (per dirla) chiamarlo
Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de le quali ne voglio
re- ferir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal ri- goroso
supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebo- no profano per usurpar in
mio naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali; come essi
sceleratissimi e mi- nistri d’ogni ribaldaria si usurpano più altamente che dir
si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de fi- gli de Dio,
de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspet- tando quel giudicio divino che
farà manifesta la lor mali- gna ignoranza et altrui dottrina, la nostra
simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et instituzioni. L’altra
Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori per la grande
dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e quella, quantunque
medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto l’ombra dell’una e l’altra:
stante che là nessuno dubita che il primo instituto del sapiente fusse più
tosto di figurar cose divine che di presentar altro; perché ivi le figure sono
aperta e manife- stamente figure, et il senso metaforico è conosciuto di sorte
che non può esser negato per metaforico: dove odi quelli occhi di colombe, quel
collo di torre, quella lingua di latte, quella fragranzia d’incenso, que’ denti
che paio- no greggi de pecore che descendono dal lavatoio, que’ capelli che
sembrano le capre che vegnono giù da la montagna di Galaad. Ma in questo poema
non si scorge volto che cossì al vivo ti spinga a cercar latente et occolto
sentimento: atteso che per l’ordinario modo di parlare e de similitudini più
accomodate a gli sensi communi, che ordinariamente fanno gli accorti amanti, e
soglion mette- re in versi e rime gli usati poeti, son simili a i sentimenti de
coloro che parlarono a Citereida, a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a
Corinna, a Laura et altre simili: onde facilmente ogn’uno potrebbe esser
persuaso che la fon- damentale e prima intenzion mia sia stata addirizzata da
ordinario amore, che m’abbia dettati concetti tali; il qua- le appresso per
forza de sdegno s’abbia improntate l’ali e dovenuto eroico; come è possibile di
convertir qualsivo- glia fola, romanzo, sogno e profetico enigma, e transfe-
rirle in virtù di metafora e pretesto d’allegoria a significar tutto quello che
piace a chi più comodamente è atto a sti- racchiar gli sentimenti: e far cossì
tutto di tutto, come tutto essere in tutto disse il profondo Anaxagora. Ma
pensi chi vuol quel che gli pare e piace, ch’alfine o voglia o non, per
giustizia la deve ognuno intendere e definire come l’intendo e definisco io,
non io come l’intende e definisce lui: perché come gli furori di quel sapiente
Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo che nessuno ha possuto intendere e
potrebbe meglio dichiarar che lui Bruno - De gli eroici furori se fusse
presente; cossì questi Cantici hanno il proprio ti- tolo ordine e modo che
nessun può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non sono
absente. D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che io mi
essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi
eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli,
sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto
vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai
delettato o delettasse de imi- tar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una
donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a
pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di
quell’istante del fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla
natura e dio; tanto manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti
in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì
pertinace pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte l’altre specie
che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella
vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso credere ch’un uomo
che si trova un gra- nello di senso e spirito, possa spendere più amore in co-
sa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia
fede, se io voglio adattarmi a de- fendere per nobile l’ingegno di quel tosco
poeta che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Val- clusa, e
non voglio dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e
forzarommi di persuader ad al- tri, che lui per non aver ingegno atto a cose
megliori, volse studiosamente nodrir quella melancolia, per cele- brar non meno
il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato
amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato
delle lodi della mosca, del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie
de quali son coloro ch’han poetato a’ nostri tempi delle lodi de gli orinali,
de la piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del
martel- lo, della caristia, de la peste; le quali non meno forse sen denno gir
altere e superbe per la celebre bocca de can- zonieri suoi, che debbano e
possano le prefate et altre dame per gli suoi. Or (perché non si faccia errore)
qua [non] voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono de-
gnamente lodate e lodabili: non quelle che possono es- sere e sono
particolarmente in questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore
ospitale: perché dove si biasimasse tutto l’orbe, non si biasima questo che in
tal proposito non è orbe, né parte d’orbe: ma diviso da quello in tutto, come
sapete; dove si raggionasse de tut- to il sesso femenile, non si deve né può
intendere de al- cune vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso:
perché non son femine, non son donne, ma (in si- militudine di quelle) son
nimfe, son dive, son di sustan- za celeste; tra le quali è lecito di contemplar
quell’unica Diana, che in questo numero e proposito non voglio no- minare.
Comprendasi dumque il geno ordinario. E di quello ancora indegna et
ingiustamente perseguitarci le persone: perciò che a nessuna particolare deve
essere impreparato l’imbecillità e condizion del sesso, come né il difetto e
vizio di complessione: atteso che se in ciò è fallo et errore, deve essere
attribuito per la specie alla natura, e non per particolare a gl’individui.
Certamente quello che circa tai supposti abomino è quel studioso e disordinato
amor venereo che sogliono alcuni spender- vi, de maniera che se gli fanno servi
con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le potenze et atti più nobili de l’ani-
ma intellettiva. Il qual intento essendo considerato, non sarà donna casta et
onesta che voglia per nostro naturale e veridico discorso contrastarsi e
farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi amarmi di vantaggio, vituperando
passivamente quell’amor nelle donne verso gli uomini, che io attivamente
riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal dumque essendo il mio animo, ingegno,
parere e de- terminazione, mi protesto che il mio primo e principale, mezzano
et accessorio, ultimo e finale intento in questa tessitura fu et è d’apportare
contemplazion divina, e metter avanti a gli occhi et orecchie altrui furori non
de volgari, ma eroici amori, impiegati in due parti: de le quali ciascuna è
divisa in cinque dialogi. argomento de’ cinque dialogi de la prima parte Nel
Primo dialogo della prima parte son cinque arti- coli, dove per ordine: nel
primo si mostrano le cause e principiii motivi intrinseci sotto nome e figura
del mon- te, e del fiume, e de muse che si dechiarano presenti, non perché
chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come quelle che più volte
importunamente si sono offerte: on- de vegna significato che la divina luce è
sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a le porte de nostri
sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive: come pure è significato
nella Cantica di Salomone dove si dice: «En ipse stat post parietem nostrum,
respiciens per cancel- los, et prospiciens per fenestras». La qual spesso per
varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa fuori e trattenuta.
Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti, oggetti, affetti,
instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e prende il possesso
nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la con- verta in Dio. Nel
terzo il proponimento, definizione e de- terminazione che fa l’anima ben
informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la guerra civile che
sé- guita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponi- mento; onde disse
la Cantica: «Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia fratres
mei pugnave- runt contro me, quam posuerunt custodem in vineis». Là sono
esplicati solamente come quattro antesignani: l’Af- fetto, l’Appulso fatale, la
Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante coorte militari de
tante, contra- rie, varie e diverse potenze, con gli lor ministri, mezzi et
organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una naturale
contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia: o
per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e contemperamento, o per
qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla con- cordia, ogni
diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi
d’altri dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente de- scritto
l’ordine et atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa
composizione del furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di
contrarietà: la prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove son le
speranze fredde e gli desideri caldi; la seconda de me- desimi affetti et atti
in se stessi, non solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando
ciascuno non si con- tenta di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama
et odia; la terza tra la potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e
si suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi
contrari appul- si in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e
subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta
o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son
nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesi- me,
viene insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad
allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre
circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto
quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola ap-
partiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella
Cantica: «Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber
abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit». Questa
somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente
quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli
piace che vo- glia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che
vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto
approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli
definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si
esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal
efficacia, secondo che (per conse- quenza de l’affetto che le attira e rapisce)
le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de
vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa
in aere, vapore et acqua; e l’ac- qua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma.
In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’im- peto e vigor de
l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del
furioso composto, e delle pas- sioni de l’anima che si trova al governo di
questa Repu- blica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il caccia- tore,
l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca,
la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì
travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in
questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condi- zion de studii e
fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che
si fa scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente con- corso
de gli affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti.
Nel quarto quanto al volon- tario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e
forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condi- zion di
sua fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le
antitesi, similitudini e compa- razioni espresse in ciascuno di essi articoli.
argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della
seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato
dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello
sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile
occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo. Nel terzo
ac- cusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno sieno
illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere
offoscato et annu- volato da quelli. Nel quarto è il compianto del sforzo senza
profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca ri- sorgere con l’imparità de
le potenze a quel stato che pre- tende e mira. Nel quinto vien rammentata la
contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa
intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien espresso
l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala
corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira.
Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente
della contrarietà de cose ester- ne et interne tra loro, e de le cose interne
in se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate
et il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda
contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della
complessione vegetan- te, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come
quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale,
fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari
che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, mediante le
quali vien incitato l’affetto verso alto. Nel duo- decimo s’esprime la
condizion del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume
prima che vi s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi
più verso il profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di
presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli
pensieri, svaniti tutti dis- segni, e riman l’animo confuso, vinto et
exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: «qui scrutator est
maiestatis, opprimetur a gloria». Nell’ultimo è più mani- festamente espresso
quello che nel duodecimo è mostra- to in similitudine e figura. Nel Secondo
dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di quello, specificato
il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il rese sotto l’amo-
roso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vi- gilanza, studio,
elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro ri- sposte
del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è di- chiarato l’essere e modo
delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà
è risve- gliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e
reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e rav- vivata dalla
volontade, procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio
se l’intelletto o general- mente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della
cognizio- ne, sia maggior de la volontà o generalmente della po- tenza
appetitiva, o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto
quello ch’in certo modo si de- sidera, in certo modo ancora si conosce, e per
il roverso; onde è consueto di chiamar l’appetito “cognizione”, perché veggiamo
che gli Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in
gioventù, sin a l’appetito in potenza et atto naturale chiamano “cognizione”;
onde tutti effetti, fini e mezzi, principii, cause et elemen- ti distingueno in
prima, media, et ultimamente noti secondo la natura: nella quale fanno in
conclusione con- correre l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la
potenza della materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza
vana. Laonde cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è
infinito et inter- minabile l’atto della cognizione circa il vero: onde “en-
te”, “vero” e “buono” son presi per medesimo signifi- cante, circa medesima
cosa significata. Nel Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispie- gate le
nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e
potenza apprensiva de co- se divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è
no- tata la raggione ch’è per la natura che ne umilia et ab- bassa. Nel secondo
cieco per il tossico della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e
concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino appari-
mento d’intensa luce si mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto
che ne abbaglia. Nel quarto, allie- vato e nodrito a lungo a l’aspetto del
sole, quella che da troppo alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla
moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è
designata l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne
impedisce. Nel sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organi- co
visivo, è figurato il mancamento de la vera pastura in- tellettuale che ne
indebolisce. Nel settimo cui gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è
notato l’ardente af- fetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza
discretiva. Nell’ottavo, orbo per la ferita d’una punta di strale, quello che
proviene dall’istesso atto dell’unione della specie de l’oggetto; la qual
vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e
cade sotto l’impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta
la sua vista è figurata per l’aspetto di fol- gore penetrativo. Nel nono, che
per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata
Letteratura italiana Einaudi 14 Giordano Bruno - De gli eroici
furori la raggion de le raggioni, la quale è l’occolto giudicio di- vino che a
gli uomini ha donato questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non
possa mai gionger più al- to che alla cognizione della sua cecità et ignoranza,
e sti- mar più degno il silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né
favorita l’ordinaria ignoranza; perché è dop- piamente cieco chi non vede la
sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli
ociosi in- sipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del
giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, sve- gliati e prudenti
giudici della sua cecità; e però son nell’inquisizione, e nelle porte de
l’acquisizione della lu- ce: delle quali son lungamente banditi gli altri.
argomento et allegoria del quinto dialogo Nel Quinto dialogo, perché vi sono
introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio pae- se) non
sta bene di commentare, argumentare, descife- rare, saper molto et esser
dottoresse per usurparsi uffi- cio d’insegnare e donar instituzione, regola e dottrina
a gli uomini; ma ben de divinar e profetar qualche volta che si trovano il
spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici della
figura lasciando a qual- che maschio ingegno il pensiero e negocio di chiarir
la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tòrgli la fatica) fo
intendere qualmente questi nove ciechi, co- me in forma d’ufficio e cause
esterne, cossì con molte al- tre differenze suggettive correno con altra
significazio- ne, che gli nove del dialogo precedente: atteso che secondo la
volgare imaginazione delle nove sfere, mo- strano il numero, ordine e diversità
de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra
le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che secondo certa similitudine
analogale dependono dalla prima et unica. Queste da Cabalisti, da Caldei, da
Ma- ghi, da Platonici e da cristiani teologi son distinte in no- ve ordini per
la perfezzione del numero che domina nell’università de le cose, et in certa
maniera formaliza il tutto: e però con semplice raggione fanno che si signifi-
che la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso, il numero
e la sustanza de tutte le cose depen- denti. Tutti gli contemplatori più
illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e proprio
lume, o parlino per fede e lume superiore, intendano in queste intelligenze il
circolo di ascenso e descenso. Quindi di- cono gli Platonici che per certa
conversione accade che quelle che son sopra il fato si facciano sotto il fato
del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle. Medesima
conversione è significata dal pitagori- co poeta, dove dice: Has omnes ubi
mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno:
rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo (dicono alcuni) è
significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene
per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal signifi- cazione
voglion che mirino molti altri luoghi dove il mil- lenario ora è espresso, ora
è significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito, ora per una
et un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende
secondo le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse
raggioni delle diverse mi- sure et ordini con li quali son dispensate diverse
cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de
particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è divolgato
appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de spiriti
sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et Letteratura
italiana Einaudi 16 Giordano Bruno - De gli eroici furori oscure
regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza
che di queste anime che vivo- no in corpi umani siano assumpte a quella
eminenza. Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti
teologi grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta.
E tra teologi Origene so- lamente come tutti filosofi grandi, dopo gli
Saduchini et altri molti riprovati, have ardito de dire che la revoluzio- ne è
vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel mede- simo che ascende ha da
ricalar a basso: come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella
superficie, grem- bo e ventre de la natura. Et io per mia fede dico e con-
fermo per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi et
instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare et accettar
questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni
e sapienti. L’opinion de quali degna- mente è stata riprovata per esser
divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere re-
frenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne,
che sarrebe se la si persuadesse qual- che più leggiera condizione in premiar
gli eroici et uma- ni gesti, e castigare gli delitti e sceleragini? Ma per
veni- re alla conclusione di questo mio progresso: dico che da qua si prende la
raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi,
or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della divina beltade,
or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamen- te si godeno.
All’or che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la
qual significa la omni- parente materia, et è detta figlia del sole, perché da
quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con l’aspersion
de le acqui, cioè con l’atto della generazione, per forza d’incanto, cioè
d’occolta armoni- ca raggione, cangia il tutto, facendo dovenir ciechi quel- li
che vedeno: perché la generazione e corrozzione è Letteratura italiana Einaudi
17 Giordano Bruno - De gli eroici furori causa d’oblio e cecità,
come esplicano gli antichi con la figura de le anime che si bagnano et
inebriano di Lete. Quindi dove gli ciechi si lamentano dicendo: «Figlia e madre
di tenebre et orrore», è significata la conturba- zion e contristazion de
l’anima che ha perse l’ali, la qua- le se gli mitiga all’or che è messa in
speranza di ricovrar- le. Dove Circe dice: «Prendete un altro mio vase fatale»,
è significato che seco portano il decreto e destino del suo cangiamento, il qual
però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe; perché un contrario è
original- mente nell’altro, quantunque non vi sia effettualmente: onde disse
lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma commetterlo. Significa ancora
che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il firmamento che acciecano, e
superiori, sopra il firmamento che illuminano: quelle che sono significate da
Pitagorici e Platonici nel descen- so da un tropico et ascenso da un altro. Là
dove dice «Per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti gli
numerosi regni», significa che non è progresso immediato da una forma contraria
a l’altra, né regresso immediato da una forma a la medesima: però bisogna
trascorrere, se non tutte le forme che sono nella ruota delle specie naturali,
certamente molte e molte di quelle. Là s’intendeno illuminati da la vista de
l’oggetto, in cui concorre il ternario delle perfezzioni, che sono beltà, sa-
pienza e verità, per l’aspersion de l’acqui che negli sacri libri son dette
acqui de sapienza, fiumi d’acqua di vita etema. Queste non si trovano nel
continente del mondo, ma penitus toto divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano,
dell’Amfitrite, della divinità, dove è quel fiume che ap- parve revelato
procedente dalla sedia divina, che have altro flusso che ordinario naturale.
Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine intelligenze che assistenti et ammini-
strano alla prima intelligenza, la quale è come la Diana tra le nimfe de gli
deserti. Quella sola tra tutte l’altre è per la triplicata virtude, potente ad
aprir ogni sigillo, asciòrre ogni nodo, a discuoprir ogni secreto, e disserrar
qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la sua sola pre- senza e gemino
splendore del bene e vero, di bontà e bellezza appaga le volontadi e
gl’intelletti tutti: asper- gendoli con l’acqui salutifere di ripurgazione. Qua
è conseguente il canto e suono, dove son nove intelligen- ze, nove muse,
secondo l’ordine de nove sfere; dove pri- ma si contempla l’armonia di
ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra; perché il fine et ultimo
della su- periore è principio e capo dell’inferiore, perché non sia mezzo e
vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via de circolazione
concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più chiaro e più
occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso, infinita
potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi in altri
luoghi. Appresso si con- templa l’armonia e consonanza de tutte le sfere,
intelli- genze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’ mondi,
l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion della
mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano l’alta e
magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superio- ri,
cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la divinità
sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita bontà
infinitamente si com- muniche secondo tutta la capacità de le cose. Questi son
que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere
addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non vegna
a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri
fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et il
specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni
con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la
filosofia si mostre ignuda ad un sì terso in- gegno come il vostro; le cose
eroiche siano addirizzate Letteratura italiana Einaudi 19 Giordano
Bruno - De gli eroici furori ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate
dota- to; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli osse- quii ad un
signor talmente degno qualmente vi siete ma- nifestato per sempre. E nel mio
particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne
gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbia- no seguitato. vale.
avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore
d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo
della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che
sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli
suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde
di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival
d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine:
Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi
illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al
fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a
lungo infortunato amante. Letteratura italiana Einaudi 20 Giordano
Bruno - De gli eroici furori alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi,
benigno lettore, prima che leggere di corre- gere. Da A in sino a Q significano
gli quinterni; il nume- ro seguente quella lettera, significa la carta; f
significa la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2:
correte a’ miei dolori; A 2, f 1, li 12: rite- nendolo da cose; f 2, li 30:
homerica poesia; A 4, f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et
inferni; A 7, f 1, li 4: la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li
7: potran ben soli con sua diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se
quei; lin 4: seguite che parlino; li 23: son di- vini; C 7, f 2, l 15:
suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]: Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio
core; E 6, f 1, l 21: intrattiene in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice
quell’altez- za; G 8, f 1, l 2: che fa volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi
si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso sguardo apri le por- te; L 6, f 2, li 21:
XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure mole- ste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5,
f 1, lin penultima: Deucalion; O 3, f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto
infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea
la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2,
li ultima: in quello aspira per certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si
mostra, non proviene con misura di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1,
li antepenultima: quale chiumque have in- gegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove
spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10: Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De
le di- more alterne. Letteratura italiana Einaudi 21 Giordano Bruno
- De gli eroici furori ISCUSAZION DEL NOLANO alle più virituose e leggiadre
dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e Belle, non voi ha nostro spirt’ in
schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo stil s’ingegna, se non convien che
femine v’appelle. Né computar, né eccettuar da quelle, son certo che voi dive
mi convegna: se l’influsso commun in voi non regna, e siete in terra quel ch’in
ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà sovrana nostro rigor né morder può, né
vuole, che non fa mira a specie sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole,
dove si scorge l’unica Diana, qual è tra voi quel che tra gli astri il sole.
L’ingegno, le parole e ’l mio (qualumque sia) vergar di carte
faranv’ossequios’il studio e l’arte.
PRIMA PARTE DE GLI EROICI FURORI Letteratura italiana Einaudi 23
Giordano Bruno - De gli eroici furori DIALOGO PRIMO interlocutori
Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori dumque, atti più ad esser qua pri-
mieramente locati e considerati, son questi che ti pono avanti secondo l’ordine
a me parso più conveniente. cicada Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse
che tante volte ributtai, importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole
ne’ miei guai con tai versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi
mostraste mai, che de mirti si vantan et allori; (2) or sia appo voi mia aura,
àncora e porto, se non mi lice altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o
fonte ov’abito, converso e mi nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo,
avviv’, orno, il cor, il spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in
vita, in lauri, in astri eterni. 1. È da credere che più volte e per più
caggioni le ributtasse, tra le quali possono esser queste. Prima perché, come
deve il sacerdote de le muse, non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può
trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invi- dia,
ignoranza e malignitade. Secondo, per non assi- stergli degni protectori e
difensori che l’assicurassero, iuxta quello: Letteratura italiana Einaudi
24 Giordano Bruno - De gli eroici furori Non mancaranno, o Flacco,
gli Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso, per trovarsi ubligato alla
contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non son più maturi, denno però
come parenti de le Muse esser predecessori a quelle. Oltre perché traendolo da
un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Ta- lia con
più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una suffurandolo a l’altra, lui
rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocio- so.
Finalmente per l’autorità de censori che ritenendo- lo da cose più degne et
alte alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno: perché
da libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una vilissima e stolta
ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è
avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse l’invito di costoro,
che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostraro
ad altri: perché in quest’opra più rilu- ce d’invenzione che d’imitazione.
cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et allori? tansillo
Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori: alli quali (se
nobilmente si por- tano) tocca la corona di tal pianta consecrata a Vene- re,
dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che degnamente
cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia speculativa
e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio exemplare a gli
gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie de poeti e de corone?
tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di vantaggio:
perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser determinate certe
specie e modi d’ingegni umani. Letteratura italiana Einaudi 25
Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Son certi regolisti de
poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovi- dio,
Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in nu- mero de versificatori,
esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo,
fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole
princi- palmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in
particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e
non per instituir al- tri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori,
equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo
geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a
coloro che son più atti ad imitare che ad in- ventare; e son state raccolte da
colui che non era poe- ta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole
di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in servig- gio di qualch’uno che
volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma
scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da
le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le re- gole derivano da le
poesie: e però tanti son geni e spe- cie de vere regole, quanti son geni e
specie de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli vera- mente
poeti? tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantan- do o vegnano a
delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi
dumque serveno le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero,
Exiodo, Orfeo et altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver
propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero. Letteratura italiana
Einaudi 26 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Dumque han
torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti
alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno
principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non
osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria
o favola con l’altra, o perché [non] finisco- no gli canti epilogando di quel
ch’è detto e proponen- do per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere
d’examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano
conchiudere che essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono
gli ve- ri poeti, et arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto
non son altro che vermi che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per
rodere, in- sporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi
render celebri per propria virtude et inge- gno, cercano di mettersi avanti o a
dritto o a torto, per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde
l’affezzione n’ha fat- to alquanto a lungo digredire: dico che sono e posso- no
essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti
et invenzioni umane, al- li quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo
da tutti geni e specie de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie.
Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de
pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sa- crifici e
leggi; di pioppa, olmo e spighe per l’agricol- tura; de cipresso per funerali:
e d’altre innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di
quel- la materia che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da
scazzate, ch’a Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate.
Letteratura italiana Einaudi 27 Giordano Bruno - De gli eroici
furori cicada [2] Or dumque sicuramente costui per di- verse vene che mostra in
diversi propositi e sensi, po- trà infrascarsi de rami de diverse piante, e
potrà de- gnamente parlar con le “Muse”: perché sia appo loro sua “aura” con
cui si conforte, “ancora” in cui si su- stegna, e “porto” al qual si retire nel
tempo de fati- che, exagitazioni e tempeste. [3] Onde dice: O “mon- te” Parnaso
dove “abito”, Muse con le quali “converso”, “fonte” cliconio o altro dove mi
“nodri- sco”, monte che mi doni quieto aroggiamento, Muse che m’inspirate
profonda dottrina, fonte che mi fai ri- polito e terso; monte dove ascendendo
“inalzo” il co- re; Muse con le quali versando “avvivo” il “spirito”; fonte
sotto li cui arbori poggiando adorno la “fron- te”; “cangiate” la mia “morte”
in “vita”, gli miei “ci- pressi” in “lauri”, e gli miei “inferni” in cieli:
cioè de- stinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di
morte, cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal
cie- lo, gli più gran mali si converteno in beni tanto mag- giori: perché le
necessitadi parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la
gloria d’immor- tal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti
gli altri. Séguita. tansillo Dice appresso: [1] In luogo e forma di Parnaso ho
’l core, dove per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a
tutte l’ore mi fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi
fore lacrime molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et
acqui, com’ha piaciut’al ciel poeta nacqui. (2) Or non alcun de reggi,
Letteratura italiana Einaudi 28 Giordano Bruno - De gli eroici
furori non favorevol man d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi
dien tai grazie, onori e privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei
pensieri, e le mie onde. 1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicen-
do esser l’alto affetto del suo “core”; secondo, quai sieno le sue “muse”,
dicendo esser le “bellezze” e prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno
gli fon- ti, e questi dice esser le “lacrime”. In quel monte s’ac- cende
l’affetto; da quelle bellezze si concepe il furore; e da quelle lacrime il
furioso affetto si dimostra. 2. Cossì se stima di non posser essere meno
illustre- mente coronato per via del suo core, pensieri e lacri- me, che altri
per man de “regi”, imperadori e papi. cicada Dechiarami quel ch’intende per ciò
che dice: “il core in forma di Parnaso”. tansillo Perché cossì il cuor umano ha
doi capi che vanno a terminarsi a una radice, e spiritualmente da uno affetto
del core procede l’odio et amore di doi contrarii; come have sotto due teste
una base il monte Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice: (1) Chiama per suon
di tromb’ il capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna; dove s’avvien
che per alcun in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual nemico
l’uccide, o a qual insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì
l’alm’i dissegni non accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2)
Un oggetto riguardo, chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, ad una beltà sola
io resto affiso, chi sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco
m’ardo, e non conosco più ch’un paradiso. 1. Questo “capitano” è la voluntade
umana che sie- de in poppa de l’anima, con un picciol temone de la raggione
governando gli affetti d’alcune potenze inte- riori, contra l’onde de gli
émpiti naturali. Egli con il “suono de la tromba”, cioè della determinata
elezzio- ne, chiama “tutti gli guerrieri”, cioè provoca tutte le potenze (le
quali s’appellano guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto) o
pur gli effetti di quelle, che son gli contrariia pensieri; de quali altri
verso l’una, altri verso l’altra parte inchinano: e cerca constituirgli tutti
“sott’un’insegna” d’un determinato fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna
chiamato in vano a farsi prontamente vedere ossequioso (massime quei che
procedono dalle potenze naturali quali o nullamente o poco ubediscono alla
raggione), al me- no forzandosi d’impedir gli loro atti, e dannar quei che non
possono essere impediti, viene a mostrarsi come uccidesse quelli, e donasse
bando a questi: pro- cedendo contra gli altri con la spada de l’ira, et altri
con la sferza del sdegno. 2. Qua un “oggetto riguarda”, a cui è volto con l’in-
tenzione. Per “un viso”, con cui s’appaga “ingombra la mente”. “In una sola
beltade” si diletta e compiace; e dicesi “restarvi affiso”, perché l’opra
d’intelligenza non è operazion di moto, ma di quiete. E da là sola- mente
concepe quel “dardo” che l’uccide, cioè che gli constituisce l’ultimo fine di
perfezione. “Arde per un sol fuoco”, cioè dolcemente si consuma in uno amore.
cicada Perché l’amore è significato per il fuoco? tansillo Lascio molte altre
caggioni, bastiti per ora questa: perché cossì la cosa amata l’amore converte
Letteratura italiana Einaudi 30 Giordano Bruno - De gli eroici
furori ne l’amante, come il fuoco tra tutti gli elementi attivis- simo è
potente a convertire tutti quell’altri semplici e composti in se stesso. cicada
Or séguita. tansillo “Conosce un paradiso”: cioè un fine princi- pale, perché
paradiso comunmente significa il fine, il qual si distingue in quello ch’è
absoluto, in verità et essenza, e l’altro che è in similitudine, ombra e parti-
cipazione. Del primo modo non può essere più che uno, come non è più che uno
l’ultimo et il primo be- ne. Del secondo modo sono infiniti. Amor, sorte,
l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna, content’e sconsola; il putto irrazional,
la cieca e ria, l’alta bellezza, la mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il
toglie via, ogni ben mi presenta, me l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il
spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di
guerra? Chi mi farà fruir mio ben in pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi
piacefarà lungi disgionti, per gradir le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la
caggion et origine onde si concepe il furore e nasce l’entusiasmo, per solcar
il campo de le muse, spargendo il seme de suoi pensieri, aspirando a l’amo-
rosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli affetti in vece del sole, e l’umor
de gli occhi in luogo de le piogge. Mette quattro cose avanti: l’“amore”, la
“sor- te”, l’“oggetto”, la “gelosia”. Dove l’amore non è un basso, ignobile et
indegno motore, ma un eroico si- gnor e duce de lui; la sorte non è altro che
la disposi- Letteratura italiana Einaudi 31 Giordano Bruno - De gli
eroici furori zion fatale et ordine d’accidenti, alli quali è suggetto per il suo
destino; l’oggetto è la cosa amabile, et il correlativo de l’amante; la gelosia
è chiaro che sia un zelo de l’amante circa la cosa amata, il quale non biso-
gna donarlo a intendere a chi ha gustato amore, et in vano ne forzaremo
dechiararlo ad altri. L’amore “ap- paga”: perché a chi ama, piace l’amare; e
colui che ve- ramente ama non vorrebbe non amare. Onde non vo- glio lasciar de
referire quel che ne mostrai in questo mio sonetto: Cara, soave et onorata
piaga del più bel dardo che mai scelse amore; alto, leggiadro e precioso
ardore, che gir fai l’alma di sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù
d’arte maga ti torrà mai dal centro del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco
vigore quanto più mi tormenta, più m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e
raro, quando del peso tuo girò mai scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal
diretto? Occhi, del mio signor facelle et arco, doppiate fiamme a l’alma e
strali al petto, poich’il languir m’è dolce e l’ardor caro. La sorte “affanna”
per non felici e non bramati suc- cessi, o perché faccia stimar il suggetto men
degno de la fruizion de l’oggetto, e men proporzionato a la di- gnità di
quello; o perché non faccia reciproca correla- zione, o per altre caggioni et
impedimenti che s’attra- versano. L’oggetto “contenta” il suggetto, che non si
pasce d’altro, altro non cerca, non s’occupa in altro, e per quello bandisce
ogni altro pensiero. La gelosia “sconsola”, perché quantunque sia figlia
dell’amore da cui deriva, compagna di quello con cui va sempre Letteratura italiana
Einaudi 32 Giordano Bruno - De gli eroici furori insieme, segno del
medesimo, perché quello s’intende per necessaria conseguenza dove lei si
dimostra (co- me sen può far esperienza nelle generazioni intiere, che per
freddezza di regione, e tardezza d’ingegno, meno apprendono, poco amano, e
niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua figliolanza, compagnia e
significazione vien a perturbar et attossicare tutto quel che si trova di bello
e buono nell’amore. Là onde dissi in un altro mio sonetto: O d’invidia et amor
figlia sì ria, che le gioie del padre volgi in pene, caut’Argo al male, e cieca
talpa al bene, ministra di tormento, Gelosia; Tisifone infernal fetid’Arpia,
che l’altrui dolce rapi et avvelene, austro crudel per cui languir conviene il
più bel fior de la speranza mia; fiera da te medesma disamata, augel di duol
non d’altro mai presago, pena, ch’entri nel cor per mille porte: se si potesse
a te chiuder l’entrata, tant’il regno d’amor saria più vago, quant’il mondo
senz’odio e senza morte. Giongi a quel ch’è detto che la Gelosia non sol tal
volta è la morte e ruina de l’amante, ma per le spesse volte uccide l’istesso
amore, massime quando parturi- sce il sdegno: percioché viene ad essere
talmente dal suo figlio affetta, che spinge l’amore e mette in di- spreggio
l’oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto. cicada Dechiara ora l’altre
particole che siegueno, cioè perché l’amore si dice putto irrazionale? tansillo
Dirò tutto. “Putto irrazionale” si dice l’amore non perché egli per sé sia tale;
ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, et è in sugetti tali: atteso che
in qualumque è più intellettuale e speculativo, inalza più l’ingegno e più
purifica l’intelletto, facendolo sveglia- to, studioso e circonspetto,
promovendolo ad un’ani- mositate eroica et emulazion di virtudi e grandezza,
per il desio di piacere e farsi degno della cosa amata. In altri poi (che son
la massima parte) s’intende pazzo e stolto, perché le fa uscir de proprii
sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché ritrova il spirito,
anima e corpo mal complessionati, et inetti a considerar e distinguere quel che
gli è decente da quel che le rende più sconci: facendoli suggetto di di-
spreggio, riso e vituperio. cicada Dicono volgarmente e per proverbio, che l’amor
fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli giovani savii. tansillo Questo inconveniente
non accade a tutti vecchi, né quel conveniente a tutti giovani; ma è vero de
quelli ben complessionati, e de mal complessionati quest’altri. E con questo è
certo, che chi è avezzo nel- la gioventù d’amar circonspettamente, amarà
vecchio senza straviare. Ma il spasso e riso è di quelli alli quali nella
matura etade l’amor mette l’alfabeto in mano. cicada Ditemi adesso, perché
cieca e ria se dice la sor- te o fato? tansillo “Cieca” e “ria” si dice la
sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso ordine de numeri e misure de
l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et è cieca: perché le rende
ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È detta similmente ria,
perché nullo de mortali è che in qualche maniera lamentandosi e querelandosi di
lei, non la incolpe. Onde disse il pu- gliese poeta: Che vuol dir, Mecenate,
che nessuno al mondo appar contento de la sorte, che gli ha porgiuta la raggion
o cielo? Letteratura italiana Einaudi 34 Giordano Bruno - De gli
eroici furori Cossì chiama l’oggetto “alta bellezza”, perché a lui è unico e
più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e però lo stima più degno, più
nobile, e però sel sente predominante e superiore: come lui gli vien fatto sud-
dito e cattivo. “La mia morte sola” dice de la gelosia, perché come l’amore non
ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha senso di maggior nemi-
ca: come nessuna cosa è più nemica al ferro che la ruggine, che nasce da lui
medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far cossì, séguita a mostrar parte
per parte quel che resta. tansillo Cossì farò. Dice appresso de l’amore: “Mi
mostra il paradiso”; onde fa veder che l’amore non è cieco in sé, e per sé non
rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili disposizioni del suggetto:
qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon ciechi per la presenza del
sole. Quanto a sé dumque l’amore illu- stra, chiarisce, apre l’intelletto e fa
penetrar il tutto e suscita miracolosi effetti. cicada Molto mi par che questo
il Nolano lo dimostre in un altro suo sonetto: Amor per cui tant’alto il ver
discerno, ch’apre le porte di diamante nere, per gli occhi entra il mio nume, e
per vedere nasce, vive, si nutre, ha regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel,
terr’, et inferno; fa presenti d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col
trar dritto, fere; e impiaga sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo
vile, al vero attendi, porgi l’orecchio al mio dir non fallace, apri, apri, se
puoi, gli occhi, insano e bieco: fanciullo il credi perché poco intendi, perché
ratto ti cangi ei par fugace, per esser orbo tu lo chiami cieco. Letteratura
italiana Einaudi 35 Giordano Bruno - De gli eroici furori Mostra
dumque il paradiso amore, per far intendere, capire et effettuar cose
altissime; o perché fa grandi almeno in apparenza le cose amate. “Il toglie
via”, di- ce de la sorte: perché questa sovente, a mal grado de l’amante, non
concede quel tanto che l’amor dimo- stra, e quel che vede e brama, gli è lontano
et adversa- rio. “Ogni ben mi presenta”, dice de l’oggetto: perché questo che
vien dimostrato da l’indice de l’amore, gli par la cosa unica, principale, et
il tutto. “Me l’invola”, dice della Gelosia, non già per non farlo presente to-
gliendolo d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene non sia bene, ma un
angoscioso male; il dolce non sia dol- ce, ma un angoscioso languire. “Tanto
ch’il cor”, cioè la volontà, “ha gioia” nel suo volere per forza d’amo- re,
qualunque sia il successo. “La mente”, cioè la par- te intellettuale, ha
“noia”, per l’apprension de la sor- te, qual non aggradisce l’amante. “Il
spirito”, cioè l’affetto naturale, ha “refrigerio”, per esser rapito da
quell’oggetto che dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente. “L’alma”,
cioè la sustanza passibile e sensi- tiva, “ha salma”, cioè si trova oppressa
dal grave peso de la gelosia che la tormenta. Appresso la considera- zion del
stato suo, soggionge il lacrimoso lamento, e dice: “Chi mi torrà di guerra”, e
metterammi in pace; o chi disunirà quel che m’annoia e danna, da quel che sì mi
piace et apremi le porte de cielo, perché gradite sieno le fervide fiamme del
mio core, e fortunati i fon- ti de gli occhi miei? Appresso continuando il suo
pro- posito, soggionge: Premi (oimè) gli altri, o mia nemica sorte; vatten via,
Gelosia, dal mondo fore: potran ben soli con sua diva corte far tutto nobil
faccia e vago amore. Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me l’impenne, lui
brugge il mio core; Letteratura italiana Einaudi 36 Giordano Bruno
- De gli eroici furori lui me l’ancide, lei ravvive l’alma; lei mio sustegno,
lui mia grieve salma. Ma che dic’io d’amore? se lui e lei son un suggetto o
forma, se con medesm’imperio et una norma fann’un vestigio al centro del mio
core? Non son doi dumque: è una che fa gioconda e triste mia fortuna. Quattro
principii et estremi de due contrarietadi vuol ridurre a doi principii et una
contrarietade. Dice dumque: “Premi (oimè) gli altri”, cioè basti a te, o mia
sorte, d’avermi sin a tanto oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo
essercizio) volta altrove il tuo sdegno. E “vatten via fuori del mondo”, tu,
Gelo- sia: perché uno di que’ doi altri che rimagnono potrà supplire alle
vostre vicende et offici; se pur tu, mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore, e
tu Gelosia, non sei estranea dalla sustanza del medesimo. Reste dum- que lui
per privarmi de vita, per bruggiarmi, per do- narmi la morte, e per salma de le
mie ossa: con questo che lei mi tolga di morte, mi impenne, mi avvive e mi
sustente. Appresso, doi principii et una contrarietade riduce ad un principio
et una efficacia, dicendo: “Ma che dich’io d’Amore”? Se questa faccia, questo
ogget- to è l’imperio suo, e non par altro che l’imperio de l’amore; la norma
de l’amore è la sua medesima nor- ma; l’impression d’amore ch’appare nella
sustanza del cor mio, non è certo altra impression che la sua: per- ché dumque
dopo aver detto “nobil faccia”, replico dicendo “vago amore”? tansillo Or qua
comincia il furioso a mostrar gli af- fetti suoi e discuoprir le piaghe che
sono per segno nel corpo, et in sustanza o in essenza nell’anima, e di- ce
cossì: Io che porto d’amor l’alto vessillo, gelate ho spene, e gli desir
cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il
ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo
e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli
occhi ho Teti, et ho Vulcan al core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io
m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al
basso; sempr’altri fugge, s’io seguir non cesso; s’io chiamo, non risponde: e
quant’io cerco più, più mi s’asconde. A proposito di questo voglio seguitar
quel che poco avanti ti dicevo: che non bisogna affatigarsi per pro- vare quel
che tanto manifestamente si vede, cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde
diceano alcuni, nessuna cosa composta esser vero ente: come l’oro composto non
è vero oro, il vino composto non è pu- ro vero e mero vino); appresso, tutte le
cose constano de contrarii: da onde avviene che gli successi de li no- stri
affetti per la composizione ch’è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna
senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di più, che se non fusse l’amaro nelle
cose, non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo
delettazione nel riposo; la separazio- Letteratura italiana Einaudi 38
Giordano Bruno - De gli eroici furori ne è causa che troviamo piacere
nella congiunzione: e generalmente essaminando, si trovarà sempre che un
contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e piaccia. cicada Non è
dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo non, come senza
contrarietà non è do- lore, qualmente manifesta quel pitagorico poeta quando
dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras respiciunt, clausae
tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la composizion de le
cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo, eccetto
qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado
del fosco inter- vallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla appren- sion
del suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro; gioisce di quel
ch’è e per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di quel ch’è o può
essere, et in fine non ha senso della contrarietade la quale è figurata per
l’arbore della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede che
l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è
l’orto del paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la
Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: «chi
aumenta sa- pienza, aumenta dolore». tansillo Da qua avviene che l’amore eroico
è un tor- mento, perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del
futuro e de l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto
e timore. In- di dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vici- ni:
«Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso» gli rispose Gioan Bruno, padre
del Nolano: «Mai fuste più pazzo che adesso». cicada Volete dumque che colui
che è triste sia savio, e quell’altro ch’è più triste, sia più savio? tansillo
Non, anzi intendo in questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre
peggiore. cicada Chi dumque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo
è colui ch’è triste? tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi?
quel che dome? quel ch’è privo di senti- mento? quel ch’è morto? tansillo No:
ma quel ch’è vivo, vegghia et intende; il quale considerando il male et il
bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto,
mutazione e vicissitudine (di sorte ch’il fine d’un con- trario è principio de
l’altro, e l’estremo de l’uno è co- minciamento de l’altro), non si dismette,
né si gonfia di spirito, vien continente nell’inclinazioni e tempera- to nelle
voluptadi: stante ch’a lui il piacere non è pia- cere, per aver come presente
il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della consi-
derazione ha presente il termine di quella. Cossì il sa- piente ha tutte le
cose mutabili come cose che non so- no, et afferma quelle non esser altro che
vanità et un niente: perché il tempo a l’eternità ha proporzione come il punto
a la linea. cicada Sì che mai possiamo tener proposito d’esser contenti o mal
contenti, senza tener proposito de la nostra pazzia, la qual espressamente
confessiamo; là onde nessun che ne raggiona, e per conseguenza nes- sun che n’è
partecipe, sarà savio: et infine tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non
tendo ad inferir questo, perché dirò mas- sime savio colui che potesse
veramente dire talvolta il contrario di quel che quell’altro: «Giamai fui men
alle- gro che adesso» over: «Giamai fui men triste che ora». cicada Come non
fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti contrarii? perché, dico,
intendi come due virtudi, e non come un vizio et una virtude, l’esser mi-
nimamente allegro, e l’esser minimamente triste? tansillo Perché ambi doi li
contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel più) son vizii,
perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar sul meno, vegnono
ad esser virtude, perché si conte- gnono e rinchiudono intra gli termini.
cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non son una virtù et uno
vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una e medesima virtude:
perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarie- tade è massime là
dove è l’estremo; la contrarietà mag- giore è la più vicina all’estremo; la
minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno et in-
differente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il più
freddo; e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né
caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente con- tento
e minimamente triste, è nel grado della indifferen- za, si trova nella casa
della temperanza, e là dove consi- ste la virtude e condizion d’un animo forte,
che non vien piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dum- que (per venir al
proposito) come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è
differente da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma come un
vizio ch’è in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in un
suggetto più ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo gli
suggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada
Molto ben posso da quel ch’avete detto, con- chiudere la condizion di questo
eroico furore che di- ce “gelate ho spene, e li desir cuocenti”; perché non è
nella temperanza della mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha
l’anima discordevole: se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti
desiri; è per l’avidità «stridolo», «mutolo» per il timore; «Sfavilla dal core
per cura d’altrui», e per compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne
l’altrui risa, vive ne’ proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri
ama, odia se stesso: perché la materia (come dicono gli fisici) con quella
misura ch’ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava
la guer- ra ch’ha l’anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina “ma
s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso” e quel che séguita, mostra le sue
passioni per la guerra ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver
letto in Iamblico, dove tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: «Impius
animam dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum
aliis». tansillo Or odi un altro sonetto di senso consequen- te al detto: Ahi,
qual condizioni natura, o sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto
(ahi lasso) di tal morte, che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene,
d’inferno a le porte, e colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi
contrarii eterno, bandito son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene
triegua, perch’in mezzo di due scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra
mi scuote, qual Ixion convien mi fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan
lezzion contraria il sprone e ’l morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto
e distrazio- ne in se medesimo: mentre l’affetto, lasciando il mez- zo e meta
de la temperanza, tende a l’uno e l’altro estremo; e talmente si trasporta alto
o a destra, che anco si trasporta a basso et a sinistra. Letteratura italiana Einaudi
42 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Come con questo che
non è proprio de l’uno né de l’altro estremo, non viene ad essere in stato o
termine di virtude? tansillo All’ora è in stato di virtude, quando si tiene al
mezzo declinando da l’uno e l’altro contrario: ma quando tende a gli estremi
inchinando a l’uno e l’altr di quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è
dop- pio vizio, il qual consiste in questo che la cosa recede dalla sua natura,
la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove convegnono gli
contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude. Ecco dumque come è
morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: “in viva morte morta vita vivo”.
Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso:
privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non
vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la considera- zion de
l’alto intelligibile e la compresa imbecillità della potenza; è altissimo per
l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini, et
è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger
numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale
che verso l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente pog- giar e descendere,
sente ne l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per
la ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion l’affrena, e per il
contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente sentenza dove la
raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in nome di Pa-
store, che alla cura del gregge o armento de suoi pen- sieri si travaglia; quai
pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è l’affezzione di quell’oggetto
alla cui osservanza è fatto cattivo: fileno Pastor. pastore Che vuoi?
Letteratura italiana Einaudi 43 fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché non m’ha per suo vita, né
morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è? Nel centro del mio cor se
tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con che? Con gli occhi de
l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé. Da chi? Da chi sì mi
martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal follia a l’alma
piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir tant’onestà mi
tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. pastore Temo il suo sdegno, più che miei
tormenti. Qua dice che spasma: lamentasi dell’amore, non già perché ami (atteso
che a nessuno veramente amante dispiace l’amare), ma perché infelicemente ami:
men- tre escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi
secondo che son protervi e ritrosi, ove- ramente benigni e graziosi, vegnono ad
esser porte che guidano al cielo, overamente a l’inferno. Con questo vien
mantenuto in speranza di futura et incer- ta mercé, et in effetto di presente e
certo martìre. E quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per
tanto avvien che in punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne
dispiacere; perché tanto ne manca, che più tosto in essa si compiace, come
mostra dove dice: Mai fia che dell’amor io mi lamente, senza del qual non
vogli’esser felice. Appresso, mostra un’altra specie di furore parturita da
qualche lume di raggione, la qual suscita il timore, e supprime la già detta, a
fin che non proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice
dum- que la speranza esser fondata sul futuro, senza che co- sa alcuna se gli
prometta o nieghe: per che lui tace, e non dimanda, per téma d’offender l’onestade.
Non ardisce esplicarsi e proporsi, onde fia o con ripudio escluso, overamente
con promessa accettato: perché nel suo pensiero più contrapesa quel che
potrebbe es- ser di male in un caso, che bene in un altro. Mostrasi dumque
disposto di suffrir più presto per sempre il proprio tormento, che di poter
aprir la porta a l’occa- sione per la quale la cosa amata si turbe e contriste.
cicada Con questo dimostra l’amor suo esser vera- mente eroico: perché si
propone per più principal fi- ne la grazia del spirito e la inclinazion de
l’affetto, che la bellezza del corpo, in cui si termina quell’amor ch’ha del
divino. tansillo Sai bene che il rapto platonico è di tre spe- cie, de quali
l’uno tende alla vita contemplativa o spe- culativa, l’altro a l’attiva morale,
l’altro a l’ociosa e vo- luptuaria: cossì son tre specie d’amori; de quali
l’uno dall’aspetto della forma corporale s’inalza alla consi- derazione della
spirituale e divina; l’altro solamente persevera nella delettazion del vedere e
conversare; l’altro dal vedere va a precipitarsi nella concupiscenza del
toccare. Di questi tre modi si componenti altri, se- condo che o il primo
s’accompagna col secondo, o che s’accompagna col terzo, o che con correno tutti
tre modi insieme: de li quali ciascuno e tutti oltre si moltiplicano in altri,
secondo gli affetti de furiosi che tendeno o più verso l’obietto spirituale, o
più verso l’obietto corporale, o equalmente verso l’uno e l’altro. Onde avviene
che di quei che si ritrovano in questa milizia e son compresi nelle reti
d’amore, altri tende- no a fin del gusto che si prende dal raccòrre le poma da
l’arbore de la corporal bellezza, senz’il qual otten- to (o speranza al meno)
stimano degno di riso e vano ogn’amoroso studio: et in cotal modo corrono tutti
quei che son di barbaro ingegno, che non possono né cercano magnificarsi amando
cose degne, aspirando a cose illustri, e più alto a cose divine accomodando gli
suoi studi e gesti, a i quali non è chi possa più ricca e commodamente
suppeditar l’ali, che l’eroico amore. Altri si fanno avanti a fin del frutto
della delettazione che prendeno da l’aspetto della bellezza e grazia del
spirito che risplende e riluce nella leggiadria del cor- po; e de tali alcuni
benché amino il corpo e bramino assai d’esser uniti a quello, della cui
lontananza si la- gnano, e disunion s’attristano, tutta volta temeno che
presumendo in questo non vegnan privi di quell’affa- bilità, conversazione,
amicizia et accordo che gli è più Letteratura italiana Einaudi 46
Giordano Bruno - De gli eroici furori principale: essendo e dal tentare
non più può aver si- curezza di successo grato, che gran téma di cader da
quella grazia qual come cosa tanto gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi
del pensiero. cicada È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni
che quindi derivano nell’umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar
un simile amore: ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad
ubligarsi ad un oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe
della bassezza et indignità del medesimo; in proposito de quali intendo il
consiglio del poeta ferrarese: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi
ritrarlo, e non v’inveschi l’ali. tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la
bellezza del corpo non hav’altro splendore, non è degno d’esser amato ad altro
fine che di far (come dicono) la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di
tormentarvici su; et io (per me) mai fui più fascinato da cosa simile, che
potesse al presente esser fascinato da qualche sta- tua o pittura, dalle quali
mi pare indifferente. Sarebbe dumque un vituperio grande ad un animo generoso,
se d’un sporco, vile, bardo et ignobile ingegno (quan- tunque sotto eccellente
figura venesse ricuoperto) dica: “Temo il suo sdegno più ch’il mio tormento”. tansillo Poneno, e sono più specie de furori,
li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mo- strano che
cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato; altri
consistono in certa di- vina abstrazzione per cui dovegnono alcuni megliori in
fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie perché: altri per
esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile
senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario
sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati et ignoranti,
nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purga- ta,
s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in
quei che son colmi de pro- pria raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il
mondo sappia certo che se quei non parlano per pro- prio studio et esperienza
come è manifesto, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e
con questo la moltitudine de gli uomini in tali degnamen- te ha maggior
admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per
aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno interno sti- molo e
fervor naturale suscitato da l’amor della divi- nitate, della giustizia, della
veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono
gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendo- no il lume
razionale con cui veggono più che ordina- riamente: e questi non vegnono al
fine a parlar et ope- rar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici
et efficienti. cicada Di questi doi geni quali stimi megliori? tansillo Gli
primi hanno più dignità, potestà et effi- cacia in sé: perché hanno la
divinità. Gli secondi seri essi più degni, più potenti et efficaci, e son
divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi
come una cosa sacra. Nelli primi si consi- dera e vede in effetto la divinità e
quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza
della propria umanitade. – Or venemo al proposito. Questi furori de quali noi
raggioniamo, e che veggiamo messi in esecuzione in queste sentenze, non son
oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del
bello e buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et asso-
migliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con
gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale che siegue l’apprension
intel- lettuale del buono e bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi
parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad
accendersi, et inve- stirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e
degno. Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e
d’altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile et
impassibile in quelle cose che comunmente massime senteno, e da le quali più
vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli
altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita. Non è furor d’atra bile che
fuor di consiglio, raggione et atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal
caso e rapito dalla disordi- nata tempesta; come quei ch’avendo prevaricato da
certa legge de la divina Adrastia vegnono condannati sotto la carnificina de le
Furie: acciò sieno essagitati da una dissonanza tanto corporale per sedizioni,
rui- ne e morbi, quanto spirituale per la iattura dell’armo- nia delle potenze
cognoscitive et appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne
l’anima et im- peto divino che gl’impronta l’ali: onde più e più avvi-
cinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure,
dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina et interna armonia,
concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte
le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando et urtando or in
questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come
un Proteo vago or in questa or in quell’altra fac- cia cangiandosi, giamai
ritrova loco, modo, né mate- ria di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar
l’ar- monia vince e supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a
dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come
nove muse saltano e cantano circa il splender dell’universale Apolline: e sotto
l’imagini sensibili e cose materiali va compren- dendo divini ordini e
consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e
perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defrauda- to dal suo
sforzo, all’ora come insano e furioso mette in precipizio l’amor di quello che
non può compren- dere: onde confuso da l’abisso della divinità tal volta
dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove
non può arrivare con l’intel- letto. È vero pure che ordinariamente va
spasseggian- do, et or più in una, or più in un’altra forma del gemi- no Cupido
si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è che in ombra contempla
(quan- do non puote in specchio) la divina beltate: e come gli proci di
Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar con la
padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto compren- dere
qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti, quando si dice:
Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al fin discara; se
quand’il cervio per sete vien meno, al rio va, non sa della freccia amara; s’il
lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli prepara: i’al lum’,
al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i strali e le catene. S’è
dolce il mio languire, perché quell’alta face sì m’appaga, perché l’arco divin
sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il mio desire: mi sien eterni
impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma lacci. Dove dimostra l’amor
suo non esser come de la farfal- la, del cervio e del lioncorno, che
fuggirebono s’aves- ser giudizio del fuoco, della saetta e de gli lacci, e che
non han senso d’altro che del piacere: ma vien guida- to da un sensatissimo e
pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che altro
refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra
libertade. Perché questo male non è absoluta- mente male: ma per certo rispetto
al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per condimento
nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne
l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a
quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa
saetta è l’impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci
son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla pri- ma verità: e le
specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso
io m’ac- costai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio beltà
m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù convien ch’io goda, fugga
la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal ch’io m’ard’e non mi sfaccio,
el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi gela timor, né duol mi snoda; ma
tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo tant’alto il lume che m’infiamma,
el laccio ordito di sì ricco stame, che nascend’il pensier, more il desio.
Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e mi stringe il voler sì bel legame,
sia serva l’ombra, et arda il cener mio. Tutti gli amori (se sono eroici e non
son puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla generazione, come instrumenti
de la natura in certo modo) hanno per oggetto la divinità, tendeno alla divina
bellezza, la quale prima si comunica all’anime e risplende in quel- le, e da
quelle poi o (per dir meglio) per quelle poi si comunica alli corpi: onde è che
l’affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza, per quel che è in-
dice della bellezza del spirito. Anzi quello che n’inna- mora del corpo è una
certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza; la qual
non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli deter- minati colori
o forme, ma in certa armonia e conso- nanza de membri e colori . Questa mostra
certa sensi- bile affinità col spirito a gli sensi più acuti e penetrativi:
onde séguita che tali più facilmente et in- tensamente s’innamorano, et anco
più facilmente si disamorano, e più intensamente si sdegnano, con quella
facilità et intensione, che potrebbe essere nel cangiamento del spirito brutto,
che in qualche gesto et espressa intenzione si faccia aperto: di sorte che tal
bruttezza trascorre da l’anima al corpo, a farlo non apparir oltre come gli
apparia bello. La beltà dumque del corpo ha forza d’accendere; ma non già di
legare e far che l’amante non possa fuggire, se la grazia che si richiede nel
spirito non soccorre, come la onestà, la gratitudine, la cortesia,
l’accortezza: però dissi bello quel fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile
il laccio che m’annodava. cicada Non creder sempre cossì, Tansillo; perché
qualche volta quantunque discuopriamo vizioso il spirito non lasciamo però di
rimaner accesi et allac- ciati: di maniera che quantunque la raggion veda il
male et indignità di tale amore, non ha però efficacia di alienar il
disordinato appetito. Nella qual disposi- zion credo che fusse il Nolano quando
disse: Oimè che son constretto dal furore d’appigliarmi al mio male, ch’apparir
fammi un sommo ben Amore. Lasso, a l’alma non cale ch’a contrarii consigli
umqua ritenti; e del fero tiranno, che mi nodrisce in stenti, e poté pormi da
me stess’in bando, più che di libertad’ i’ son contento. Spiego le vele al
vento, che mi suttraga a l’odioso bene: e tempestoso al dolce danno amene.
tansillo Questo accade, quando l’uno e l’altro spirto è vizioso, e son tinti
come di medesimo inchiostro, at- teso che dalla conformità si suscita, accende
e si con- firma l’amore. Cossì gli viziosi facilmente concordano in atti di
medesimo vizio. E non voglio lasciar de dire ancora quel che per esperienza
conosco, che quan- tunque in un animo abbia discuoperti vizii molto abominati
da me, com’è dire una sporca avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio,
irreconoscenza di ri- cevuti favori e cortesie, un amor di persone al tutto
vili (de quali vizii questo ultimo massime dispiace perché toglie la speranza a
l’amante che per esser egli, o farsi più degno, possa da lei esser più
accettato), tutta volta non mancava ch’io ardesse per la beltà cor- porale. Ma
che? io l’amavo senza buona volontà, es- sendo che non per questo m’arrei più
contristato che allegrato delle sue disgrazie et infortunii. cicada Però è
molto propria et a proposito quella di- stinzion che fanno intra l’amare e
voler bene. tansillo È vero, perché a molti vogliamo bene, cioè desideramo che
siano savii e giusti: ma non le amia- mo, perché sono iniqui et ignoranti;
molti amiamo perché son belli, ma non gli vogliamo bene, perché non meritano: e
tra l’altre cose che stima l’amante quello non meritare, la prima è d’essere
amato; e però benché non possa astenersi d’amare, niente di meno gli ne
rincresce e mostra il suo rincrescimento: come costui che diceva, «Oimè ch’io
son costretto dal furo- re d’appigliarmi al mio male». In contraria disposizio-
ne fu, o per altro oggetto corporale in similitudine, o per suggetto divino in
verità, quando disse: Bench’a tanti martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e
assai ti deggio, Amore, che con sì nobil piaga apriste il petto, e tal
impadroniste del mio core, per cui fia ver ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più
bella imago ’n terra adore; pensi chi vuol ch’il mio destin sia rio,
ch’uccid’in speme, e fa viv’in desio. Pascomi in alta impresa; e bench’il fin
bramato non consegua, e ’n tanto studio l’alma si dilegua, basta che sia sì
nobilment’ accesa: basta ch’alto mi tolsi, e da l’ignobil numero mi sciolsi.
L’amor suo qua è a fatto eroico e divino, e per tale voglio intenderlo: benché
per esso si dica suggetto a tanti martìri; perché ogni amante ch’è disunito e
se- parato da la cosa amata (alla quale com’è congionto con l’affetto, vorrebe
essere con l’effetto) si trova in cordoglio e pena, si crucia e si tormenta:
non già per- ché ami, atteso che degnissima e nobilissimamente sente impiegato
l’amore; ma perché è privo di quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse
gionto a quel termine al qual tende: non dole per il desio che ravvi- va, ma
per la difficultà del studio ch’il martora. Sti- minlo dumque altri a sua posta
infelice per questa ap- parenza de rio destino, come che l’abbia condannato a
cotai pene: perché egli non lasciarà per tanto de ri- conoscer l’obligo ch’have
ad Amore, e rendergli gra- zie, perché gli abbia presentato avanti gli occhi de
la mente una specie intelligibile, nella quale in questa terrena vita
(rinchiuso in questa priggione de la car- ne, et avvinto da questi nervi, e
confirmato da queste ossa) li sia lecito di contemplar più altamente la divi-
nitade, che se altra specie e similitudine di quella si fusse offerta. cicada
Il “divo” dumque “e vivo oggetto”, ch’ei dice, è la specie intelligibile più
alta che egli s’abbia possu- to formar della divinità; e non è qualche corporal
bel- lezza che gli adombrasse il pensiero come appare in superficie del senso?
tansillo Vero: perché nessuna cosa sensibile, né spe- cie di quella, può
inalzarsi a tanta dignitade. cicada Come dumque fa menzione di quella specie
per oggetto, se (come mi pare) il vero oggetto è la di- vinità istessa?
tansillo La è oggetto finale, ultimo e perfettissimo; non già in questo stato
dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio, e però non ne può
esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale Lequal possa esser
abstratta et acquistata da bellezza et eccellenza corporea per virtù del senso:
ma qual può esser formata nella mente per virtù de l’intelletto. Nel qual stato
ritrovandosi, viene a perder l’amore et af- fezzion d’ogni altra cosa tanto sensibile
quanto intelli- gibile; perché questa congionta a quel lume dovien lume essa
ancora, e per conseguenza si fa un Dio: per- ché contrae la divinità in sé
essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per
quanto si può), et essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a
conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto.
Or di queste specie e similitudini si pasce l’intelletto umano da questo mondo
inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la
bellezza della di- vinitade: come accade a colui che è gionto a qualch’edificio
eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello,
si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se av- verà poi
che vegga il signor di quelle imagini, di bel- lezza incomparabilmente
maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a
considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove
veggiamo la divina bellezza in specie intel- ligibili tolte da gli effetti,
opre, magisteri, ombre e si- militudini di quella, et in quell’altro stato dove
sia le- cito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: “Pascomi
d’alt’impresa”, perché (come notano gli Pi- tagorici) cossì l’anima si versa e
muove circa Dio, co- me il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è
luogo de l’anima? tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo local- mente, ma
come forma intrinseca e formatore estrin- seco; come quella che fa gli membri,
e figura il com- posto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima,
l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Letteratura italiana Einaudi
56 Giordano Bruno - De gli eroici furori Dio, come disse Plotino:
cossì come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione
in- tellettuale e la voluntà conseguente dopo tale opera- zione, si riferisce
alla sua luce e beatifico oggetto. De- gnamente dumque questo affetto del
eroico furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è
infinito, in atto simplicissimo, e la nostra potenza in- tellettiva non può
apprendere l’infinito se non in di- scorso, o in certa maniera de discorso,
com’è dire in certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che
s’amena a la consecuzion de l’immenso onde ve- gna a constituirse un fine dove
non è fine. cicada Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso
che non sarebe ultimo. È dumque in- finito in intenzione, in perfezzione, in
essenza et in qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero.
Or in questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa
appagar il desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: «Bramando è
lassa l’alma a Dio vivente», et in altro luogo: «Attenuati sunt oculi mei
suspicientes in excel- sum». Però dice: «E bench’il fin bramato non conse- gua,
E ’n tanto studio l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa»: vuol
dire ch’in tanto l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere
in co- tal stato, e che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto
uomo di questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo.
cicada Mi par che gli peripatetici (come esplicò Aver- roe) vogliano intender
questo quando dicono la som- ma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione
per le scienze speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in
questo stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo de- siderar né ottener
maggior perfezzione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto
mediante qual- Letteratura italiana Einaudi 57 Giordano Bruno - De
gli eroici furori che nobil specie intelligibile s’unisce o alle sustanze
seperate, come dicono costoro, o a la divina mente, come è modo de dir de Platonici.
Lascio per ora di raggionar de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere
che possa trovarsi o credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può
trovar l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà
mai perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto
l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro stato gli sia
presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizonte della vista sua.
cicada Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar
uno o doi. tansillo Basta che tutti corrano; assai è ch’ognun fac- cia il suo
possibile; perché l’eroico ingegno si conten- ta più tosto di cascar o mancar
degnamente e nell’alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir
a perfezzione in cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una degna
et eroica morte, che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito feci
questo sonetto: Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il piè
l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e
vers’il ciel m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi,
anzi via più risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita
pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento: «Ove mi porti,
temerario? china, che raro è senza duol tropp’ardimento»; «Non temer
(respond’io) l’alta ruina. Fendi sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì
illustre morte ne destina». cicada Io intendo quel che dice: “basta ch’alto mi
tol- si”; ma non quando dice: “e da l’ignobil numero mi sciolsi”, s’egli non
intende d’esser uscito fuor de l’an- tro platonico, rimosso dalla condizion
della sciocca et ignobilissima moltitudine; essendo che quei che pro- fittano
in questa contemplazione non possono esser molti e numerosi. tansillo Intendi
molto bene; oltre, per “l’ignobil nu- mero” può intendere il corpo e sensual
cognizione dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi chi vuol unirsi alla natura
di contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due sorte de nodi con gli quali
l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto vivi- fico che da l’anima come un
raggio scende nel corpo; l’altro è certa qualità vitale che da quell’atto
resulta nel corpo. Or questo numero nobilissimo movente ch’è l’anima, come
intendete che sia disciolto da l’ignobil numero ch’è il corpo? tansillo Certo
non s’intendeva secondo alcun modo di questi: ma secondo quel modo con cui le
potenze che non son comprese e cattivate nel grembo de la materia, e qualche
volta come sopite et inebriate si trovano quasi ancora esse occupate nella
formazion della materia e vivificazion del corpo; tal’or come ri- svegliate e
ricordate di se stesse riconoscendo il suo principio e geno, si voltano alle
cose superiori, si for- zano al mondo intelligibile come al natio soggiorno;
quali tal volta da là per la conversione alle cose infe- riori, si son
trabalsate sotto il fato e termini della ge- nerazione. Questi doi appolsi son
figurati nelle due specie de metamorfosi espresse nel presente articolo che
dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro, Asterie vedde furtivo aquilone,
Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo, Antiopa caprone; fu di Cadmo a le
suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida dragane: io per l’altezza de
l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio. Fu cavallo Saturno, Nettun
delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio dovenne, un’uva Bacco, Apollo
un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio in dio da cosa inferiore. Nella
natura è una revoluzione et un circolo per cui, per l’altrui perfezzione e
soccorso, le cose superiori s’inchinano all’inferiori, e per la propria
eccellenza e felicitade le cose inferiori s’inalzano alle superiori. Però
vogliono i Pitagorici e Platonici esser donato a l’anima ch’a certi tempi non
solo per spontanea vo- luntà, la qual le rivolta alla comprension de le nature,
ma et anco della necessità d’una legge interna scritta e registrata dal decreto
fatale vanno a trovar la propria sorte giustamente determinata. E dicono che
l’anime non tanto per certa determinazione e proprio volere come ribelle
declinano dalla divinità, quanto per cer- to ordine per cui vegnono affette
verso la materia: on- de non come per libera intenzione, ma come per certa
occolta conseguenza vegnono a cadere; e questa è l’inclinazion ch’hanno alla
generazione, come a certo minor bene. (Minor bene dico per quanto appartiene a
quella natura particolare, non già per quanto appar- tiene alla natura
universale dove niente accade senza ottimo fine che dispone il tutto secondo la
giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi (per la conversio- ne che
vicissitudinalmente succede) de nuovo ritorna- no a gli abiti superiori. cicada
Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spin- te dalla necessità del fato, e
non hanno proprio consi- glio che le guide a fatto? tansillo Necessità, fato,
natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e senza errore ordinate,
tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce Ploti- no) vogliono alcuni
che certe anime possono fuggir quel proprio male, le quali prima che se gli
confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio rifuggono alla mente. Perché
la mente l’inalza alle cose sublimi, come l’imaginazion l’abbassa alle cose
inferiori: la mente le mantiene nel stato et identità come l’imagi- nazione nel
moto e diversità; la mente sempre inten- de uno, come l’imaginazione sempre
vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà razionale la quale è
composta de tutto, come quella in cui concorre l’uno con la moltitudine, il
medesimo col diverso, il moto col stato, l’inferiore col superiore. – Or questa
conversione e vicissitudine è figurata nella ruota del- le metamorfosi, dove
siede l’uomo nella parte emi- nente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e
mezzo bestia descende dalla sinistra, et un mezzo be- stia e mezzo uomo ascende
da la destra. Questa con- versione si mostra dove Giove, secondo la diversità
de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s’investisce de diverse
figure dovenendo in forma de bestie; e cossi gli altri dèi transmigrano in
forme bas- se et aliene. E per il contrario, per sentimento della propria
nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico
inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l’ali de
l’in- telletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la
forma de suggetto più basso. E però dis- se: “Da suggetto più vil dovegno un
Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore”.
tansillo Cossì si descrive il discorso de l’amor eroico per quanto tende
al proprio oggetto ch’è il sommo bene; e l’eroico intelletto che gionger si
studia al pro- prio oggetto che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel
primo discorso apporta tutta la somma di que- sto, e l’intenzione: l’ordine
della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i
mastini e i veltri slaccia il giovan Atteon, quand’il destino gli drizz’il
dubio et incauto camino, di boscareccie fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui
il più bel busto e faccia che veder poss’il mortal e divino, in ostro et
alabastro et oro fino vedde: e ’l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio
ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più leggieri, ratto voraro i suoi gran
cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad alta preda, et essi a me rivolti morte
mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone significa l’intelletto intento alla
caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Costui slaccia
“i mastini et i veltri”: de quai questi son più veloci, quelli più forti.
Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma
questa è più vigorosa et efficace che quella: atteso che a l’intelletto umano è
più amabile che compren- sibile la bontade e bellezza divina, oltre che l’amore
è quello che muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda come lanterna.
“Alle selve”, luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi,
e però dove non son impresse l’orme de molti uomini, “il giovane” poco esperto
e prattico, come quello di cui la vita è breve et instabile il furore, “nel
dubio cami- no” de l’incerta et ancipite raggione et affetto desi- gnato nel
carattere di Pitagora, dove si vede più spi- noso, inculto e deserto il destro
et arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la trac- cia
di boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti ideali, che
sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s’offreno
a tutti quelli che le cercano: “Ecco tra l’acqui”, cioè nel specchio de le
similitudini, nell’opre dove riluce l’ef- ficacia della bontade e splender
divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui superiori
et inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; “ve- de il più bel busto e
faccia”, cioè potenza et opera- zion esterna che vedersi possa per abito et
atto di contemplazione et applicazion di mente mortal o di- vina, d’uomo o dio
alcuno. cicada Credo che non faccia comparazione, e pena come in medesimo geno
la divina et umana appren- sione quanto al modo di comprendere, il quale è di-
versissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. tansillo Cossì è. Dice “in
ostro, alabastro et oro”, perché quello che in figura nella corporal bellezza è
vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l’ostro della divina
vigorosa potenza, l’oro della divi- na sapienza, l’alabastro della beltade
divina, nella contemplazion della quale gli Pitagorici, Caldei, Pla- tonici et
altri al meglior modo che possono, s’inge- gnano d’inalzarsi. “Vedde il gran
cacciator”: com- prese quanto è possibile, e “dovenne caccia”: andava per
predare e rimase preda, questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con
cui converte le cose ap- prese in sé.
(cicada Intendo, perché forma le specie intelligibili a suo modo e le
proporziona alla sua capacità, perché son ricevute a modo de chi le riceve.
tansillo) E questa caccia per l’operazion della volunta- de, per atto della
quale lui si converte nell’oggetto. cicada Intendo: perché lo amore transforma
e conver- te nella cosa amata. tansillo Sai bene che l’intelletto apprende le
cose in- telligibilmente, idest secondo il suo modo; e la vo- luntà perseguita
le cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì
Atteone con que’ pensieri, que’ cani che cercavano estra di sé il be- ne, la
sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, et in quel modo che giunse alla
presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi
convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi
pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola
contrat- ta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la di- vinità.
cicada Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in
noi per forza del riformato in- telletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco
dumque come l’Atteone, mes- so in preda de suoi cani, perseguitato da proprii
pen- sieri, corre e drizza i novi passi: è rinovato a procede- re divinamente e
più leggermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena a’ luoghi
più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era
un uom volgare e commune, dovien raro et eroico, ha costumi e concetti rari, e
fa estraordina- ria vita. “Qua gli dan morte i suoi gran cani e molti”: qua
finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sen- suale, cieco e fantastico; e
comincia a vivere intellet- tualmente: vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia et
ine- briasi di nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra similitudine descrive
la maniera con cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio pàssar
solitario, a quella parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero, tosto
t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e l’arte.
Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il fiero
destin hav’espedit’il cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte. Và,
più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla vede,
è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto, e non
tornar a me se non sei mio. Il progresso sopra significato per il cacciator che
agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor alato, che è
inviato da la gabbia in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi alto, ad
allievar gli pulcini suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui cessano gli
impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural imbecillità
subministravano. Licenzialo dumque per fargli più magnifica condizione, appli-
candolo a più alto proposito et intento, or che son più fermamente impiumate
quelle potenze de l’anima si- gnificate anco da Platonici per le due ali. E gli
com- mette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco,
cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è potente di trasformarlo
come in quell’altra natura alla quale aspira o quel stato dal quale va pere-
grinando bandito. Onde disse: “E non tornar a me che non sei mio”, di sorte che
non con indignità possa io dire con quell’altro: Lasciato m’hai, cuor mio, e
lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la morte de l’anima, che
da Cabali- sti è chiamata “morte di bacio” figurata nella Cantica di Salomone
dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca, perché col suo ferire
un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata “sonno”, dove dice il
Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e le palpebre mie
dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì l’alma, come
languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o furiosi al core:
ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e dispietata mano,
lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel richiamo a tutte l’ore:
et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce quell’amica mano, onde per
non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene tante contenti, il cor,
spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue catene, de sguardi, accenti
e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene, chi fia che saldi, refrigere
e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera discontentezza, ma con affetto di
certo amoroso martìre parla come drizzando il suo sermone a gli similmente
appassiona- ti: come se non a felice suo grado abbia donato con- gedo al core,
che corre dove non può arrivare, si sten- de dove non può giongere, e vuol
abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in vano s’allontana
da lei, mai sempre più e più va accenden- dosi verso l’infinito. cicada Onde
procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso s’appaga del suo tormento?
onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre quel che pos- siede?
tansillo Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’in- telletto divenuto
all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e la volontà
all’affezzione com- mensurata a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là:
perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni
geno de intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con
l’intellet- to l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade.
Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa:
da questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore
e maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera.
Perché sempre vede che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può
essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è
l’universo, non è l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad
esser questa specie, questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a
l’animo. Sempre dumque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conse-
guentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente
bello, che non ha margi- ne e circonscrizzione alcuna. cicada Questa
prosecuzione mi par vana. tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né tansillo
cicada tansillo conveniente che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi
finito: percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e naturale che
l’infinito per essere infini- to sia infinitamente perseguitato (in quel modo
di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto
metafisica; et il quale non è da im- perfetto al perfetto: ma va circuendo per
gli gradi del- la perfezzione, per giongere a quel centro infinito il quale non
è formato né forma). cicada Vorrei sapere come circuendo si puo arrivare al
centro. Non posso saperlo. Perché lo dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel
considerare. Se non volete dire che quel che perséguita l’in- finito, è come
colui che discorrendo per la circonfe- renza cerca il centro, io non so quel
che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se non vuoi dechiararti, io non
voglio inten- derti. Ma dimmi, se ti piace: che intende per quel che di- ce il
core esser condotto “in cruda e dispietata mano”? tansillo Intende una
similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si dice crudele chi non
si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in desio che in
possessione; onde per quel che possiede alcu- no, non al tutto lieto soggiorna,
perché brama, si spa- sma e muore. cicada Quali son quei pensieri che il
richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli affetti
sensitivi et altri naturali che guar- dano al regimento del corpo. cicada Che
hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né
favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo
troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne
l’altra. Letteratura italiana Einaudi 68 cicada tansillo cicada
sanno. Perché lo chiama “qual insano”? Perché soprasape. Sogliono esser
chiamati insani quei che men tansillo Anzi insani son chiamati quelli che non
san- no secondo l’ordinario, o che tendano più basso per aver men senso, o che
tendano più alto per aver più intelletto. cicada M’accorgo che dici il vero. Or
dimmi appres- so: quai sono le “punte”, gli “vampi” e le “catene”? tansillo
Punte son quelle nuove che stimulano e ri- svegliano l’affetto perché attenda;
vampi son gli raggi della bellezza presente che accende quel che gli atten- de;
catene son le parti e circonstanze che tegnono fis- si gli occhi de
l’attenzione et uniti insieme gli oggetti e le potenze. cicada Che son gli
“sguardi, accenti e modi”? tansillo Sguardi son le raggioni con le quali
l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa presente; accenti son le rag- gioni con le
quali ci inspira et informa; modi son le circonstanze con le quali ci piace
sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor che dolcemente languisce, suave- mente
arde e constantemente nell’opra persevera; te- me che la sua ferita si salde,
ch’il suo incendio si smorze e che si sciolga il suo laccio. cicada Or recita
quel che seguita. tansillo ch’uscir volete da materne fasce de l’afflitt’alma,
e siete acconci arcieri per tirar al versagli’ onde vi nasce l’alto concetto:
in questi erti sentieri scontrarvi a cruda fier’il ciel non lasce. Sovvengav’il
tornar, e richiamate il cor ch’in man di dea selvaggia late. Armatevi d’amore di
domestiche fiamme, et il vedere reprimete sì forte, che straniere non vi rendan
compagni del mio core. Al men portate nuova di quel ch’a lui tanto diletta e
giova. Qua descrive la natural sollecitudine de l’anima atten- ta circa la
generazione per l’amicizia ch’ha contratta con la materia. Ispedisce gli armati
pensieri che solle- citati e spinti dalla querela della natura inferiore, son
inviati a richiamar il core. L’anima l’instruisce come si debbano portare
perché invaghiti et attratti dal ogget- to non facilmente vegnano anch’essi
sedotti a rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque che s’armi- no
d’amore: di quello amore che accende con dome- stiche fiamme, cioè quello che è
amico della genera- zione alla quale son ubligati, e nella cui legazione,
ministerio e milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che reprimano il
vedere chiudendo gli occhi, perché non mirino altra beltade o bontade che
quella qual gli è presente, amica e madre. E conchiude al fine che se per altro
ufficio non vogliono farsi rivedere, rivegna- no al manco per donargli saggio
delle raggioni e stato del suo core. cicada Prima che procediate ad altro,
vorrei intender da voi che è quello che intende l’anima quando dice a gli
pensieri: “il vedere reprimete sì forte”. tansillo Ti dirò. Ogni amore procede
dal vedere: l’amore intelligibile dal vedere intelligibilmente; il sensibile
dal vedere sensibilmente. Or questo vedere ha due significazioni: perché o
significa la potenza vi- siva, cioè la vista, che è l’intelletto, overamente
senso; o significa l’atto di quella potenza, cioè quell’applica- zione che fa
l’occhio o l’intelletto a l’oggetto materia- le o intellettuale. Quando dumque
si consegliano gli pensieri di reprimere il vedere, non s’intende del pri-
Letteratura italiana Einaudi 70 Giordano Bruno - De gli eroici
furori mo modo, ma del secondo; perché questo è il padre della seguente
affezzione del appetito sensitivo o in- tellettivo. cicada Questo è quello
ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della potenza visiva è causa del male o
bene che procede dal vedere, onde avviene che amiamo e desi- deramo di vedere?
Et onde avviene che nelle cose di- vine abbiamo più amore che notizia? tansillo
Desideriamo il vedere, perché in qualche modo veggiamo la bontà del vedere;
perché siamo informati che per l’atto del vedere le cose belle s’of- freno:
però desiderano quell’atto, perché desideriamo le cose belle. cicada
Desideriamo il bello e buono; ma il vedere non è bello, né buono, anzi più
tosto quello è parangone o luce per cui veggiamo non solamente il bello e
buono, ma anco il rio e brutto. Però mi pare ch’il vedere tan- to può esser
bello o buono, quanto la vista può esser bianco o nero: se dumque la vista (la
quale è atto) non è bello né buono, come può cadere in desiderio? tansillo Se
non per sé, certamente per altro è deside- rata, essendo che l’apprension di
quell’altro senza lei non si faccia. cicada Che dirai se quell’altro non è in
notizia di sen- so né d’intelletto? come, dico, può esser desiderato almanco
d’esser visto, se di esso non è notizia alcuna, se verso quello né l’intelletto
né il senso ha esercitato atto alcuno, anzi è in dubio se sia intelligibile o
sensi- bile, se sia cosa corporea o incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o
d’un’altra maniera? tansillo Rispondo che nel senso e l’intelletto è un ap- petito
et appulso al sensibile in generale; perché l’in- telletto vuol intender tutto
il vero, perché s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono intelligibile:
la potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per che s’apprenda
poi quanto è buono o bello sensi- Letteratura italiana Einaudi 71
Giordano Bruno - De gli eroici furori bile. Indi aviene che non meno
desiderano vedere le cose ignote e mai viste, che le cose conosciute e viste. E
da questo non séguita ch’il desiderio non proceda da la cognizione, e che
qualche cosa desideriamo che non è conosciuta; ma dico che sta pur raro e fermo
che non desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre quanto all’esser
particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come in tutta la
potenza vi- siva si trova tutto il visibile in attitudine, nella intellet- tiva
tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è l’inclinazione a l’atto,
aviene che l’una e l’altra poten- za è inchinata a l’atto in universale, come a
cosa natu- ralmente appresa per buona. Non parlava dumque a sordi o ciechi
l’anima, quando consultava con suoi pensieri de reprimere il vedere, il quale
quantunque non sia causa prossima del volere, è però causa prima e principale.
cicada Che intendete per questo ultimamente detto? tansillo Intendo che non è
la figura o la specie sensi- bilmente o intelligibilmente representata, la
quale per sé muove: perché mentre alcuno sta mirando la figura manifesta a gli
occhi, non viene ancora ad amare; ma da quello instante che l’animo concipe in
se stesso quella figurata non più visibile ma cogitabile, non più dividua ma
individua, non più sotto specie di cosa, ma sotto specie di buono o bello,
all’ora subito nasce l’amore. Or questo è quel vedere dal quale l’anima
vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri. Qua la vi- sta suole promuovere
l’affetto ad amar più che non è quel che vede; perché, come poco fa ho detto,
sempre considera (per la notizia universale che tiene del bello e buono) che
oltre li gradi della compresa specie de buono e bello, sono altri et altri in
infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo informati de la specie del
bello la quale è conceputa nell’animo, pure desideriamo di pascere la vista
esteriore? tansillo Da quel, che l’animo vorrebbe sempre ama- re quel che ama,
vuol sempre vedere quel che vede. Però vuole che quella specie che gli è stata
parturita dal vedere non vegna ad attenuarsi, snervarsi e per- dersi. Vuol
dumque sempre oltre et oltre vedere, per- ché quello che potrebe oscurarsi
nell’affetto interiore, vegna spesso illustrato dall’aspetto esteriore: il
quale come è principio de l’essere, bisogna che sia principio del conservare.
Proporzionalmente accade ne l’atto del intendere e considerare: perché come la
vista si ri- ferisce alle cose visibili, cossì l’intelletto alle cose in-
telligibili. Credo dumque ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima
intenda quando dice: «repri- met’il vedere». cicada Intendo molto bene. Or
seguitate a riportar quel ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la querela
de la madre contra gli det- ti figli li quali, per aver contra l’ordinazion sua
aperti gli occhi et affissigli al splendor de l’oggetto, erano ri- masi in
compagnia del core. Dice dumque: E voi ancor a me figli crudeli, per più
inasprir mia doglia, mi lasciaste; e perché senza fin più mi quereli, ogni mia
spene con voi n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che queste
potenze tronche e guaste, se non per farmi materia et essempio de sì grave
martir, sì lungo scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio fuoco
alato in preda, e fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’ tenaci
artigli. Lassa, nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Eccomi misera
priva del core, abandonata da gli pen- sieri, lasciata da la speranza, la qual
tutta avevo fissa in essi; altro non mi rimane che il senso della mia po-
vertà, infelicità e miseria. E perché non son oltre la- sciata da questo?
perché non mi soccorre la morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo
le potenze na- turali prive de gli atti suoi? Come potrò io sol pascer- mi di
specie intelligibili, come di pane intellettuale, se la sustanza di questo
supposito è composta? Come potrò io trattenirmi nella domestichezza di queste
amiche e care membra, che m’ho intessute in circa, contemprandole con la
simmetria de le qualitadi ele- mentari, se mi abandonano gli miei pensieri
tutti et af- fetti, intenti verso la cura del pane immateriale e divi- no? Su
su, o miei fugaci pensieri, o mio rubelle cuore: viva il senso di cose sensibili
e l’intelletto de cose intel- ligibili. Soccorrasi al corpo con la materia e
suggetto corporeo, e l’intelletto con gli suoi oggetti s’appaghe: a fin che
conste questa composizione, non si dissolva questa machina, dove per mezzo del
spirito l’anima è unita al corpo. Come, misera, per opra domestica più tosto
che per esterna violenza ho da veder quest’orri- bil divorzio ne le mie parti e
membra? Perché l’intel- letto s’impaccia di donar legge al senso e privarlo de
suoi cibi? e questo per il contrario resiste a quello, vo- lendo vivere secondo
gli proprii e non secondo l’altrui statuti? perché questi e non quelli possono
mantener- lo e bearlo, percioché deve essere attento alla sua co- moditade e
vita, non a l’altrui. Non è armonia e con- cordia dove è unità, dove un essere
vuol assorbir tutto l’essere; ma dove è ordine et analogia di cose diverse;
dove ogni cosa serva la sua natura. Pascasi dumque il senso secondo la sua
legge de cose sensibili, la carne serva alla legge de la carne, il spirito alla
legge del spi- rito, la raggione a la legge de la raggione: non si confondano,
non si conturbino. Basta che uno non guaste o pregiudiche alla legge de
l’altro, se non è giu- sto che il senso oltragge alla legge della raggione. È
pur cosa vituperosa che quella tirannegge su la legge di questo, massime dove
l’intelletto è più peregrino e straniero, et il senso è più domestico e come in
propria patria. – Ecco dumque, o miei pensieri, come di voi, altri son ubligati
di rimanere alla cura di casa, et altri possono andar a procacciare altrove.
Questa è legge di natura, questa per conseguenza è legge dell’autore e
principio della natura. Peccate dumque or che tutti se- dotti dalla vaghezza de
l’intelletto lasciate al periglio de la morte l’altra parte di me. Onde vi è nato
questo malencolico e perverso umore di rompere le certe e naturali leggi de la
vita vera che sta nelle vostre mani, per una incerta e che non è se non in
ombra oltre gli li- miti del fantastico pensiero? Vi par cosa naturale che non
vivano animale et umanamente, ma divina, se elli non sono dèi ma uomini et
animali? È legge del fato e della natura che ogni cosa s’adopre secondo la
condi- zion de l’esser suo: per che dumque mentre persegui- tate il nettare
avaro de gli dèi, perdete il vostro presen- te e proprio, affligendovi forse
sotto la vana speranza de l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la natu-
ra di donarvi l’altro bene, se quello che presentanear- nente v’offre tanto
stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l primiero
don caro non tiene. Con queste e simili raggioni l’anima prendendo la causa de
la parte più inferma, cerca de richiamar gli pensieri alla cura del corpo. Ma
quelli (benché al tar- di) vegnono a mostrarsegli non già di quella forma con
cui si partiro, ma sol per dichiarargli la sua ribel- lione, e forzarla tutta a
seguitarli. Là onde in questa forma si lagna la dolente: Ahi cani d’Atteon, o
fiere ingrate, che drizzai al ricetto de mia diva, e vòti di speranza mi
tornate; anzi venendo a la materna riva, tropp’infelice fio mi riportate: mi
sbranate, e volete ch’i’ non viva. Lasciami, vita, ch’al mio sol rimonte, fatta
gemino rio senz’il mio fonte. Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi
disciolga? Quand’avverrà ch’anch’io da qua mi tolga, e ratt’a l’alt’oggetto mi
sulleve; e insieme col mio core e i communi pulcini ivi dimore? Vogliono gli
Platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre consista ne
l’intelletto, dove ha rag- gione d’intelligenza più che de anima: atteso che
ani- ma è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì qua la
medesima essenza che nodrisce e mantie- ne li pensieri in alto insieme col
magnificato cuore, se induce dalla parte inferiore contrastarsi e richiamar
quelli come ribelli. cicada Sì che non sono due essenze contrarie, ma una
suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo Cossì è a punto; come il
raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è gionto a cose inferiori et
oscure che illustra, vivifica et accende, indi è gionto a l’elemento del fuoco,
cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso, et in cui ha propria
et origina- le sussistenza: cossì l’anima ch’è nell’orizonte della natura
corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori, et inchine a
cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per raggion et ordine di moto
lo- cale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra po- tenza o facultade.
Come quando il senso monta all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la
rag- gione a l’intelletto, l’intelletto a la mente, all’ora l’ani- ma tutta si
converte in Dio, et abita il mondo intelligi- bile. Onde per il contrario
descende per conversion al mondo sensibile per via de l’intelletto, raggione,
ima- ginazione, senso, vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi
l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente de- scende nel corpo
mortale, e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi
d’intelligenze: per- ché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’anima-
le, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale
supera l’intellettuale, quali son l’intel- ligenze umane; altre sono nelle
quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi.
tansillo Nell’apprender dumque che fa la mente, non può desiderare se non
quanto gli è vicino, prossi- mo, noto e familiare. Cossì il porco non può
deside- rar esser uomo, né quelle cose che son convenienti all’appetito umano.
Ama più d’isvoltarsi per la luta che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad
una scro- fa, non a la più bella donna che produca la natura: perché l’affetto
séguita la raggion della specie (e tra gli uomini si può vedere il simile,
secondo che altri son più simili a una specie de bruti animali, altri ad
un’altra: questi hanno del quadrupede, quelli [del] volatile; e forse hanno
qualche vicinanza, la qual non voglio dire, per cui si son trovati quei che
sono affetti a certe sorte di bestie). Or a la mente (che trovasi op- pressa
dalla material congionzione de l’anima) se fia lecito di alzarsi alla
contemplazione d’un altro stato in cui l’anima può arrivare, potrà certo far
differenza da questo a quello, e per il futuro spreggiar il presen- te. Come se
una bestia avesse senso della differenza che è tra le sue condizioni e quelle de
l’uomo, e l’ignobiltà del stato suo dalla nobiltà del stato umano, al quale non
stimasse impossibile di poter pervenire; amarebbe più la morte che li donasse
quel camino et ispedizione, che la vita quale l’intrattiene in quel es- sere
presente. Qua dumque quando l’anima si lagna dicendo “O cani d’Atteon”, viene
introdotta come cosa che consta di potenze inferiori solamente, e da cui la
mente è ribellata con aver menato seco il core, cioè gl’intieri affetti, con
tutto l’exercito de pensieri: là onde per apprension del stato presente et
ignoran- za d’ogni altro stato, il quale non più lo stima essere, che da lei
possa esser conosciuto, si lamenta de pen- sieri li quali al tardi
convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto che a farsi ricettar da
lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune amore della materia e di
cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di sorte che bisogna al fine
di cedere a l’ap- pulso più vigoroso e forte. Qua se per virtù di con-
templazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli affetti naturali, onde
con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e l’altra vita, all’ora
vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto; e benché viva
nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto de animazione et
absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre il cor- po è vivo,
ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e come dispenserate.
cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al terzo cielo, invaghito
da la vista di quello, disse che desiderava la dissoluzione dal suo corpo.
tansillo In questo modo, dove prima si lamentava del core e querelavasi de
pensieri, ora desidera d’al- zarsi con quelli in alto, e mostra il
rincrescimento suo per la communicazione e familiarità contratta con la materia
corporale, e dice: “Lasciami vita” corporale, e non m’impacciar “ch’io rimonti”
al mio più natio al- bergo, “al mio sole”: lasciami ormai che più non verse
Letteratura italiana Einaudi 78 Giordano Bruno - De gli eroici
furori pianto da gli occhi miei, o perché mal posso soccor- rerli, o perché
rimagno divisa dal mio bene; lasciami, che non è decente né possibile che
questi doi rivi scorrano “senza il suo fonte”, cioè senza il core: non bisogna
(dico), che io faccia dei fiumi de lacrime qua basso, se il mio core il quale è
fonte de tai fiumi, se n’è volato ad alto con le sue ninfe, che son gli miei
pen- sieri. Cossì a poco a poco, da quel disamore e rincre- scimento procede a
l’odio de cose inferiori; come quasi dimostra dicendo: “Quand’il mio pondo
greve converrà che natura mi disciolga?” e quel che seguita appresso. cicada
Intendo molto bene questo, e quello che per questo volete inferire a proposito
della principale in- tenzione: cioè che son gli gradi de gli amori, affezzio-
ni e furori, secondo gli gradi di maggior o minore lu- me di cognizione et
intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi apprendere quel- la dottrina
che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici vuole che l’anima fa gli doi
progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha di sé e de la materia; per
quel ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per quel ch’è spinta da la
providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi brevemente quel che in- tendi de
l’anima del mondo: se ella ancora non può ascendere né descendere? tansillo Se
tu dimandi del mondo secondo la volgar significazione, cioè in quanto significa
l’universo, dico che quello per essere infinito e senza dimensione o misura,
viene a essere inmobile et inanimato et infor- me, quantunque sia luogo de
mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio infinito, dove son tanti animali
grandi che son chiamati astri. Se dimandi secondo la significazione che tiene
appresso gli veri filosofi, cioè in quanto significa ogni globo, ogni astro,
come è questa terra, il corpo del sole, luna et altri, dico che tal anima non
ascende né descende, ma si volta in cir- colo. Cossì essendo composta de
potenze superiori et inferiori, con le superiori versa circa la divinitade, con
l’inferiori circa la mole la qual viene da essa vivificata e mantenuta intra
gli tropici della generazione e cor- rozzione de le cose viventi in essi mondi,
servando la propria vita eternamente: perché l’atto della divina providenza
sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore e lume le conserva
nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito questo a tal
proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime par- ticolari
diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono affette quanto
a gli abiti et incli- nazioni, cossì vegnono a mostrar diverse maniere et
ordini de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la natura,
secondo gli ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi, come
vogliono espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et im- plicitamente
Platone et alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella scala de gli
affetti umani, la qua- le è cossì numerosa de gradi come la scala della natu-
ra, atteso che l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le specie de lo
ente. cicada Però da le affezzioni si possono conoscer gli animi, se vanno alto
o basso, o se vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser bestie o pur ad
essere divini, secondo lo essere specifico come intesero gli Pitagorici, o
secondo la similitudine de gli affetti sola- mente come comunmente si crede:
non dovendo la anima umana posser essere anima di bruto, come ben disse
Plotino, et altri Platonici secondo la sentenza del suo principe. tansillo
Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa anima descritta è
promossa a furor eroico, se la dice: “Quando averrà ch’al alto oggetto mi
sulleve, et ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi pulcini?” Questo
medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà ch’io monte
monte, qual per bearm’a l’alte porte porte, che fan quelle bellezze conte,
conte, e ’l tenace dolor conforte forte chi fe’ le membra me disgionte, gionte,
né lascia mie potenze smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale vale, s’ove
l’error non più l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve l’alto
oggett’ascende, ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per cui
convien che tante emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto predice
dice. “O destino”, o fato, o divina immutabile providenza, “quando sarà ch’io
monte a quel monte”, cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi faccia
toccar transportandomi quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno evidenti e
come comprese e numerate quelle “conte”, cioè rare “bellezze”? Quando sarà, che
“for- te” et efficacemente “conforte il mio dolore” (scio- gliendomi da gli
strettissimi lacci de le cure, nelle quali mi trovo) “colui che fe’ gionte” et
unite “le mie membra”, ch’erano disunite e “sgionte”: cioè l’amore che ha unito
insieme queste corporee parti, ch’erano divise quanto un contrario è diviso da
l’altro, e che ancora queste “potenze” intellettuali, quali ne gli atti suoi
son “smorte”, non le “lascia” a fatto “morte”, fa- cendole alquanto respirando
aspirar in alto? Quan- do, dico, mi confortarà a pieno, donando a queste li-
bero et ispedito il volo, per cui possa la mia sustanza tutta annidarsi là dove
forzandomi convien ch’io emende tutte le mende mie; dove pervenendo il “mio
spirito”, “vale più ch’il rivale”, perché non v’è oltrag- gio che li resista,
non è contrarietà ch’il vinca, non v’è error che l’assaglia? Oh se “tende” et
arriva là dove forzandosi “attende”; et ascende e perviene a quell’altezza,
dove “ascende”, vuol star montato, alto et elevato il suo oggetto: se fia che
prenda quel bene che non può esser compreso da altro che da uno, cioè da se
stesso (atteso che ogn’altro l’have in misura del- la propria capacità; e quel
“solo” in tutta pienezza): all’ora avverrammi l’esser felice in quel modo che
“dice chi tutto predice”, cioè dice quella altezza nella quale il dire tutto e
far tutto è la medesima cosa; in quel modo che “dice” o fa chi tutto “predice”,
cioè chi è de tutte cose efficiente e principio: di cui il dire [e] preordinare
è il vero fare e principiare. Ecco co- me per la scala de cose superiori et
inferiori procede l’affetto de l’amore, come l’intelletto o sentimento procede
da questi oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a questi.
cicada Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in
questa vicissitudinale circola- zione che si vede ne la vertigine de la sua
ruota. cicada Fate pure ch’io veda,
perché da me stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel
ch’appare esplicato nell’ordine (in questa mili- zia) qua descritto. tansillo
Vedi come portano l’insegne de gli suoi af- fetti o fortune. Lasciamo di
considerar su gli lor nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de
l’im- prese et intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma
del corpo de la imagine, quanto l’al- tra ch’è messa per il più de le volte a
dechiarazion de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta
un scudo distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto
la testa di bronzo, da gli fora- mi della quale esce a gran forza un fumoso
vento, e vi è scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per
dichiarazion di questo direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si
vede scalda il globo, dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido ele-
mento essendo rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per conseguenza
risoluto in vapore, richieda molto maggior spacio per esser contenuto: là onde
se non trova facile exito, va con grandissima forza, strepi- to e ruina a
crepare il vase. Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa evaporare, indi
esce con violenza minore a poco a poco; e secondo la misura con cui l’acqua se
risolve in vapore, soffiando svapora in aria. Qua vien significato il cor del
furioso, dove come in esca ben di- sposta essendo attaccato l’amoroso foco,
accade che della sustanza vitale altro sfaville in fuoco, altro si veda in
forma de lacrimoso pianto boglier nel petto, altro per l’exito di ventosi
suspiri accender l’aria. – E però dice «At regna senserunt tria». Dove quello
“At” ha Letteratura italiana Einaudi 83 II. tansillo Appresso è
designato un che ha nel suo scudo parimente destinto in quattro colori, il
cimiero, dove è un sole che distende gli raggi nel dorso de la terra; e vi è
una nota che dice Idem semper ubique to- tum. Giordano Bruno - De gli eroici
furori virtù di supponere differenza, o diversità, o contra- rietà: quasi
dicesse che altro è che potrebbe aver senso del medesimo, e non l’have. Il che
è molto bene espli- cato ne le rime seguenti sotto la figura: Dal mio gemino
lume, io poca terra soglio non parco umor porgere al mare; da quel che dentr’il
petto mi si serra spirto non scarso accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal
cor mi si disserra si può senza scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et
ardor mio a l’acqua, a l’aria, al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco
qualche parte di me: ma la mia dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio
pianto appo lei trova loco, né la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua
si volta. Qua la suggetta materia significata per la “terra” è la sustanza del
furioso; versa dal “gemino lume”, cioè da gli occhi, copiose lacrime che
fluiscono al mare; manda dal petto la grandezza e moltitudine de suspiri a
l’aria capacissimo; et il vampo del suo core non come piccio- la favilla o
debil fiamma nel camino de l’aria s’intepidi- sce, infuma e trasmigra in altro
essere: ma come poten- te e vigoroso (più tosto acquistando de l’altrui che
perdendo del proprio) gionge alla congenea sfera. cicada Ho ben compreso il
tutto. A l’altro. cicada Vedo che non può esser facile l’interpretazione.
tansillo Tanto il senso è più eccellente, quanto è men volgare: il qual vedrete
essere solo, unico e non stiracchiato. Dovete considerare che il sole benché al
rispetto de diverse regioni de la terra, per ciascuna, sia diverso, a tempi a
tempi, a loco a loco, a parte a parte; al riguardo però del globo tutto, come
medesi- mo, sempre et in cadaun loco fa tutto: atteso che, in qualunque punto
de l’eclittica ch’egli si trove, viene a far l’inverno, l’estade, l’autunno e
la primavera; e l’universal globo de la terra a ricevere in sé le dette quattro
tempeste. Perché mai è caldo a una parte che non sia freddo a l’altra; come
quando fia a noi nel tro- pico del Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico
del Capricorno; di sorte che è a medesima raggione l’inverno a quella parte,
con cui a questa è l’estade, et a quelli che son nel mezzo è temperato, secondo
la di- sposizion vernale o autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li
venti, gli calori, gli freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse
in un’altra par- te, e non la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse
lasciato d’iscaldarla da quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere,
io intendo quel che volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona
tutte le impressioni a la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte:
cossì l’oggetto del fu- rioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto
passivo de lacrime, che son l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de
suspiri quai son certi vapori, che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a
l’acqui, o par- tono da l’acqui e vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica
appresso: Quando declin’il sol al Capricorno, fan più ricco le piogge ogni
torrente; se va per l’equinozzio o fa ritorno, Letteratura italiana Einaudi
85 Giordano Bruno - De gli eroici furori ogni postiglion d’Eolo più
si sente; e scalda più col più prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro
ardente: non van miei pianti, sospiri et ardori con tai freddi, temperie e
calori. Sempre equalmente in pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E
benché troppo m’inacqui et infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto:
infinito mi scaldo, equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non
tanto dechiara il senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto
più tosto dice la conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite
megliore, che la figura è latente ne la prima parte, et il motto è molto
esplicato ne la secon- da; come l’uno e l’altro è molto propriamente signifi-
cato nel tipo del sole e de la terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il
terzo nel scudo porta un fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che appoggia
la testa sollevata sul braccio con gli occhi rivoltati verso il cie- lo a certi
edificii de stanze, torri, giardini et orti che son sopra le nuvole, e vi è un
castello di cui la materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice Mutuo
fulcimur. cicada Che vuol dir questo? tansillo Intendi quel furioso significato
per il fan- ciullo ignudo come semplice, puro et esposto a tutti gli accidenti
di natura e di fortuna, qualmente con la forza del pensiero edifica castegli in
aria, e tra l’altre cose una torre di cui l’architettore è l’amore, la mate-
ria l’amoroso foco, et il fabricatore egli medesimo, che dice «Mutuo fulcimu»:
cioè io vi edifico e vi suste- gno là con il pensiero, e voi mi sustenete qua
con la Letteratura italiana Einaudi 86 Giordano Bruno - De gli
eroici furori speranza: voi non sareste in essere se non fusse l’ima- ginazione
et il pensiero con cui vi formo e sustegno, et io non sarrei in vita se non
fusse il refrigerio e conforto che per vostro mezzo ricevo. cicada È vero che
non è cosa tanto vana e tanto chi- merica fantasia, che non sia più reale e
vera medicina d’un furioso cuore, che qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra
specie che produca la natura. tansillo Più possono far gli maghi per mezzo
della fede, che gli medici per via de la verità: e ne gli più gravi morbi più
vegnono giovati gl’infermi con crede- re quel tanto che quelli dicono, che con
intendere quel tanto che questi facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a
l’eminente loco, quando tal volta vaneggiando avvampo, per di mio spirto
refrigerio e scampo, tal formo a l’aria castel de mio foco: s’il mio destin
fatale china un poco, a fin ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi muoio,
e non si sdegn’ o adire, o felice mia pena e mio morire. Quella de fiamme e
lacci tuoi, o garzon, che gli uomini e gli divi fan suspirar, e soglion far
cattivi, l’ardor non sente, né prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore,
man di pietà, se mostri il mio dolore. cicada Mostra che quel che lo pasce in
fantasia, e gli fomenta il spirito, è che (essendo lui tanto privo d’ar- dire
d’esplicarsi a far conoscere la sua pena, quanto profondamente suggetto a tal
martìre), se avvenisse ch’il fato rigido e rubelle chinasse un poco (perché
voglia il destino al fin rasserenargli il volto), con far che senza sdegno o
ira de l’alto oggetto gli venesse Letteratura italiana Einaudi 87
Giordano Bruno - De gli eroici furori manifesto, non stima egli gioia
tanto felice, né vita tanto beata, quanto per tal successo lui stime felice la
sua pena, e beato il suo morire. tansillo E con questo viene a dichiarar a
l’Amore che la raggion per cui possa aver adito in quel petto, non è
quell’ordinaria de le armi con le quali suol cattivar uomini e dèi; ma
solamente con fargli aperto il cuor focoso et il travagliato spirito de lui; a
la vista del qua- le fia necessario che la compassion possa aprirgli il passo
et introdurlo a quella difficil stanza. IV. cicada Che significa qua quella
mosca che vola circa la fiamma e sta quasi quasi per bruggiarsi, e che vuol dir
quel motto: Hostis non hostis? tansillo Non è molto difficile la significazione
de la farfalla, che sedotta dalla vaghezza del splendore, in- nocente et amica
va ad incorrere nelle mortifere fiam- me: onde “hostis” sta scritto per
l’effetto del fuoco, “non hostis” per l’affetto de la mosca. “Hostis” la mo-
sca passivamente, “non hostis” attivamente. “Hostis” la fiamma per l’ardore,
“non hostis” per il splendore. cicada Or che è quel che sta scritto nella
tabella? tansillo Mai fia che de l’amor io mi lamente, senza del qual non
vogli’ esser felice; sia pur ver che per lui penoso stente, non vo’ non voler
quel che si me lice; sia chiar o fosch’il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò
ver l’unica fenice. Mal può disfar altro destin o sorte quel nodo che non può
sciòrre la morte. Al cor, al spirt’, a l’alma non è piacer, o libertad’, o
vita, qual tanto arrida, giove e sia gradita, qual più sia dolce, graziosa et
alma, Letteratura italiana Einaudi 88 Giordano Bruno - De gli
eroici furori ch’il stento, giogo e morte, ch’ho per natura, voluntade e sorte.
Qua nella figura mostra la similitudine che ha il furio- so con la farfalla
affetta verso la sua luce; ne gli carmi poi mostra più differenza e
dissimilitudine che altro: essendo che comunmente si crede che se quella mo-
sca prevedesse la sua ruina non tanto ora séguita la lu- ce quanto all’ora la
fuggirebbe, stimando male di per- der l’esser proprio risolvendosi in quel
fuoco nemico. Ma a costui non men piace svanir nelle fiamme de l’amoroso
ardore, che essere abstratto a contemplar la beltà di quel raro splendore,
sotto il qual per inclina- zion di natura, per elezzion di voluntade e
disposizion del fato, stenta, serve e muore: più gaio, più risoluto e più
gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al core, libertà che
si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma. cicada Dimmi, perché
dice: “sempr’un sarò”? tansillo Perché gli par degno d’apportar raggione della
sua constanza, atteso che il sapiente si muta con la luna, il stolto si muta
come la luna. Cossì questo è unico con la fenice unica. V. cicada Bene; ma che
significa quella frasca di palma, circa la quale è il motto: Caesar adest?
tansillo Senza molto discorrere, tutto potrassi inten- dere per quel che è
scritto nella tavola: Trionfator invitto di Farsaglia, essendo quasi estinti i
tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n battaglia sorser, e vinser suoi
nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del ciel s’agguaglia, fatto a la
vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma disdegnosa spenti, Letteratura
italiana Einaudi 89 Giordano Bruno - De gli eroici furori le fa
tornar più che l’amor possenti. La sua sola presenza, o memoria di lei, sì le
ravviva, che con imperio e potestade diva dóman ogni contraria violenza. La mi
governa in pace; né fa cessar quel laccio e quella tace. Tal volta le potenze
de l’anima inferiori, come un ga- gliardo e nemico essercito che si trova nel
proprio paese, prattico, esperto et accomodato, insorge con- tra il peregrino
adversario che dal monte de la intelli- genza scende a frenar gli popoli de le
valli e palustri pianure. Dove dal rigor della presenza de nemici e difficultà
de precipitosi fossi vansi perdendo, e perde- riansi a fatto, se non fusse
certa conversione al splen- dor de la specie intelligibile mediante l’atto
della con- templazione: mentre da gli gradi inferiori si converte a gli gradi
superiori. cicada Che gradi son questi? tansillo Li gradi della contemplazione
son come li gradi della luce, la quale nullamente è nelle tenebre; alcunamente
è ne l’ombra; megliormente è ne gli co- lori secondo gli suoi ordini da l’un
contrario ch’è il nero a l’altro che è il bianco; più efficacemente è nel
splendor diffuso su gli corpi tersi e trasparenti, come nel specchio o nella
luna; più vivamente ne gli raggi sparsi dal sole; altissima e
principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì ordinate le potenze ap-
prensive et affettive de le quali sempre la prossima conseguente have affinità
con la prossima anteceden- te, e per la conversione a quella che la sulleva,
viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime (come la raggione per la
conversione a l’intelletto non è sedot- ta o vinta dalla notizia o apprensione
et affetto sensiti- vo, ma più tosto secondo la legge di quello viene a do-
Letteratura italiana Einaudi 90 Giordano Bruno - De gli eroici
furori mar e correger questo), accade che quando l’appetito razionale contrasta
con la concupiscenza sensuale, se a quello per atto di conversione si presente
a gli occhi la luce intelligenziale, viene a repigliar la smarrita vir- tude,
rinforzar i nervi, spaventa e mette in rotta gli nemici. cicada In che maniera
intendete che si faccia cotal conversione? tansillo Con tre preparazioni che
nota il contempla- tivo Plotino nel libro Della bellezza intelligibile: de le
quali «la prima è proporsi de conformarsi d’una simi- litudine divina»,
divertendo la vista da cose che sono infra la propria perfezzione, e commune
alle specie uguali et inferiori; «secondo è l’applicarsi con tutta l’intenzione
et attenzione alle specie superiori; terzo il cattivar tutta la voluntade et
affetto a Dio». Perché da qua avverrà che senza dubio gl’influisca la divinità
la qual da per tutto è presente e pronta ad ingerirsi a chi se gli volta con
l’atto de l’intelletto, et aperto se gli espone con l’affetto de la voluntade.
cicada Non è dumque corporal bellezza quella che in- vaghisce costui? tansillo
Non certo, perché la non è vera né constante bellezza, e però non può caggionar
vero né constante amore: la bellezza che si vede ne gli corpi è una cosa
accidentale et umbratile e come l’altre che sono assor- bite, alterate e guaste
per la mutazione del suggetto, il quale sovente da bello si fa brutto senza che
altera- zion veruna si faccia ne l’anima. La raggion dumque apprende il più
vero bello per conversione a quello che fa la beltade nel corpo, e viene a
formarlo bello: e questa è l’anima che l’ha talmente fabricato e infigu- rato.
Appresso l’intelletto s’inalza più, et apprende bene che l’anima è
incomparabilmente bella sopra la bellezza che possa esser ne gli corpi; ma non
si per- suade che sia bella da per sé e primitivamente: atteso Letteratura
italiana Einaudi 91 Giordano Bruno - De gli eroici furori che non
accaderebbe quella differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre son
savie, amabili e belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque alzarsi a
quello intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è buono.
Questo è quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza de gli
occhi de militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende
vittoriosi sul dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro
bene. Questa dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni
violenza. cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire “La mi gover- na in pace, Né
fa cessar quel laccio e quella face”? tansillo Intende e prova, che
qualsivoglia sorte d’amore quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto
fa sentir più stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al
contrario de gli or- dinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettez- za
e forza, dove veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo
Appresso veggio descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto
un fanciullo che bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma
perché s’intenda meglior, leggasi la tavo- letta: Unico augel del sol, vaga
Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu
sei chi fuste, io son quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma
te ravviv’il sol co’ raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da
Cupido, hai tu da Febo il foco. Hai termini prefissi Letteratura italiana
Einaudi 92 Giordano Bruno - De gli eroici furori di lunga vita, et
io ho breve fine, che pronto s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né
quel che vissi. Me cieco fato adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal
senso de gli versi si vede che nella figura si dise- gna l’antitesi de la sorte
de la fenice e del furioso; e che il motto “Fata obstant”, non è per significar
che gli fati siano contrarii o al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e
l’altro; ma che non son medesimi, ma diversi et oppositi gli decreti fatali de
l’uno e gli fatali decreti de l’altro: perché la fenice è quel che fu,
essendoché la medesima materia per il fuoco si rinova ad esser corpo di fenice,
e medesimo spirito et anima viene ad informarla; il furioso è quel che non fu,
perché il sug- getto che è d’uomo, prima fu di qualch’altra specie secondo innumerabili
differenze. Di sorte che si sa quel che fu la fenice, e si sa quel che sarà: ma
questo suggetto non può tornar se non per molti et incerti mezzi ad investirsi
de medesima o simil forma natura- le. Appresso, la fenice al cospetto del sole
cangia la morte con la vita; e questo nel cospetto d’amore muta la vita con la
morte. Oltre, quella su l’aromatico altare accende il foco; e questo il trova e
mena seco, ovum- que va. Quella ancora ha certi termini di lunga vita; ma
costui per infinite differenze di tempo et innume- rabili caggioni de
circonstanze, ha di breve vita termi- ni incerti. Quella s’accende con
certezza, questo con dubio de riveder il sole. cicada Che cosa credete voi che
possa figurar questo? tansillo La differenza ch’è tra l’intelletto inferiore,
che chiamano intelletto di potenza o possibile o passi- bile, il quale è
incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto superiore, forse quale è quel
che da Peri- patetici è detto infima de l’intelligenze, e che immediatamente
influisce sopra tutti gl’individui dell’umana specie, e dicesi intelletto
agente et attuan- te. Questo intelletto unico specifico umano che ha in-
fluenza in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra specie
che quella unica, la qual sem- pre se rinova per la conversion che fa al sole
che è la prima et universale intelligenza: ma l’intelletto umano individuale e
numeroso viene come gli occhi a voltar- si ad innumerabili e diversissimi
oggetti, onde secon- do infiniti gradi che son secondo tutte le forme natu-
rali viene informato. Là onde accade che sia furioso, vago et incerto questo
intelletto particolare; come quello universale è quieto, stabile e certo, cossì
secon- do l’appetito come secondo l’apprensione. O pur quindi (come da per te
stesso puoi facilmente descife- rare) vien significata la natura
dell’apprensione et ap- petito vario, vago, inconstante et incerto del senso, e
del concetto et appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza; la
differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né discrezion de oggetti, da
l’amor intel- lettivo il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si volta, da
cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne l’af- fetto, s’infiamma,
s’illustra et è mantenuto nell’unità, identità e stato. VII. cicada Ma che vuol
significare quell’imagine del sole con un circolo dentro, et un altro da fuori,
con il motto Circuit? tansillo La significazion di questo son certo che mai
arrei compresa, se non fusse che l’ho intesa dal mede- simo figuratone: or è da
sapere che quel “circuit” si referisce al moto del sole che fa per quel
circolo, il quale gli vien descritto dentro e fuori; a significare che quel
moto insieme insieme si fa et è fatto: onde per consequenza il sole viene
sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di quello. Perché s’egli si muove in
uno Letteratura italiana Einaudi 94 Giordano Bruno - De gli eroici
furori instante, séguita che insieme si muove et è mosso, e che è per tutta la
circonferenza del circolo equalmen- te, e che in esso convegna in uno il moto e
la quiete. cicada Questo ho compreso nelli dialogi De l’infinito, universo e
mondi innumerabili, e dove si dechiara co- me la divina sapienza è mobilissima
(come disse Salo- mone) e che la medesima sia stabilissima, come è det- to et
inteso da tutti quelli che intendono. Or séguita a farmi comprendere il
proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole non è come questo, che (come
comunmente si crede) circuisce la terra col moto diurno in ventiquattro ore, e
col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa distinti gli quattro tempi de
l’anno, secondo che a termini di quello si trova in quattro punti cardinali del
Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità istessa e conseguentemente una
possessione insieme tutta e compita) insieme insieme comprende l’inverno, la primavera,
l’estade, l’autun- no, insieme insieme il giorno e la notte: perché è tutto per
tutti et in tutti gli punti e luoghi. cicada Or applicate quel che dite alla
figura. tansillo Qua, perché non è possibile designar il sol tutto in tutti gli
punti del circolo, vi son delineati doi circoli: l’un che ’l comprenda per
significar che si muove per quello; l’altro che sia da lui compreso per mostrar
che è mosso per quello. cicada Ma questa dimostrazione non è troppo aperta e
propria. tansillo Basta che sia la più aperta e propria che lui abbia possuta
fare: se voi la possete far megliore vi si dà autorità di toglier quella e
mettervi quell’altra; per- ché questa è stata messa solo a fin che l’anima non
fusse senza corpo. cicada Che dite di quel “Circuit”? tansillo Quel motto,
secondo tutta la sua significa- zione, significa la cosa quanto può essere
significato; Letteratura italiana Einaudi 95 Giordano Bruno - De
gli eroici furori atteso che significa che volta e che è voltato: cioè il moto
presente e perfetto. cicada Eccellentemente: e però que’ circoli li quali
malamente significano la circonstanza del moto e quiete tale, possiamo dire che
son messi a significar la sola circolazione. E cossì vegno contento del
suggetto e de la forma de l’impresa eroica. Or legansi le rime. tansillo Sol
che dal Tauro fai temprati lumi, e dal Leon tutto maturi e scaldi, e quando dal
pungente Scorpio allumi, de l’ardente vigor non poco faldi; poscia dal fier
Deucalion consumi tutto col fredd’, e i corp’umidi saldi: de primavera, estade,
autunno, inverno mi scald’ accend’ ard’ avvamp’in eterno. Ho sì caldo il desio,
che facilment’ a remirar m’accendo quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo
sfavillar a gli astri il vampo mio: non han momento gli anni, che vegga variar
miei sordi affanni. Qua nota che gli quattro tempi de l’anno son signifi- cati
non per quattro segni mobili che son Ariete, Can- cro, Libra e Capricorno, ma
per gli quattro che chia- mano fissi, cioè Tauro, Leone, Scorpione et Aquario:
per significare la perfezzione, stato e fervor di quelle tempeste. Nota
appresso che in virtù di quelle apo- strofi che son nel verso ottavo, possete
leggere “mi scaldo, accendo, ardo, avampo”; over, “scaldi, accen- di, ardi,
avampi”; over “scalda, accende, arde, avvam- pa”. Hai oltre da considerare che
questi non son quattro sinonimi, ma quattro termini diversi che si- gnificano
tanti gradi de gli effetti del fuoco. Il qual Letteratura italiana Einaudi
96 Giordano Bruno - De gli eroici furori prima scalda, secondo accende,
terzo bruggia, quarto infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e
bruggiato. E cossì son denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio,
l’affezzione, le quali in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette
sotto titolo d’affanni? tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in que-
sta vita è più in laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra
mente verso quella è come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada
Passa, perché ora da quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel
cimiero seguente vi sta depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et
astro. Vuol dir che a l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è ta- le, come si
mostra qua piena e lucida nella circonferen- za intiera del circolo: il che acciò
che meglio forse in- tendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella
tavoletta. Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene
svalli, or l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli
fai lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le
spalli. La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre
piena. È tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre
tanto bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia
nobil face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la
sua intelligenza particu- lare alla intelligenza universale è sempre “tale”:
cioè Letteratura italiana Einaudi 97 Giordano Bruno - De gli eroici
furori da quella viene eternamente illuminata in tutto l’emi- sfero; benché
alle potenze inferiori e secondo gl’in- flussi de gli atti suoi or viene
oscura, or più e meno lu- cida. O forse vuol significare che l’intelletto suo
speculativo (il quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et
affetto verso l’intelligenza umana si- gnificata per la “luna”, perché come
questa è detta in- fima de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì
l’intel- ligenza illuminatrice de tutti noi (in questo stato) è l’ultima in
ordine de l’altre intelligenze, come nota Averroe et altri più sottili
Peripatetici. Quella a l’in- telletto in potenza or tramonta, per quanto non è
in atto alcuno, or come “svallasse”, cioè sorgesse dal basso de l’occolto
emispero, si mostra or vacua or piena secondo che dona più o meno lume
d’intelli- genza; or ha “l’orbe oscuro or bianco”, perché talvol- ta mostra per
ombra, similitudine e vestigio, tal volta più e più apertamente; or declina a
l’“Austro”, or monta a “Borea”, cioè or ne si va più e più allonta- nando, or
più e più s’avvicina. Ma l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché
questo non è per natura e condizione umana in cui si trova cossì trava- glioso,
combattuto, invitato, sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze
inferiori) sempre vede il suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno
e nel medesimo splendor di bellezza. Cossì sempre se gli “toglie” per quanto
non se gli concede, sempre se gli “rende” per quanto se gli concede. “Sempre
tanto lo bruggia” ne l’affetto, come sempre “tanto gli splen- de” nel pensiero;
“sempre è tanto crudele” in suttrar- si per quel che si suttrae, come sempre è
“tanto bello” in comunicarsi per quel che gli se presenta. “Sempre lo martòra”,
perciò che è diviso per differenza locale da lui, come sempre gli “piace”,
percioché gli è con- gionto con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza
al motto. Letteratura italiana Einaudi 98 Giordano Bruno - De gli
eroici furori tansillo Dice dumque“Talis mihi semper”, cioè per la mia continua
applicazione secondo l’intelletto, me- moria e volontarie (perché non voglio
altro rallentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per quanto
posso capirla, al tutto presente, e non m’è di- visa per distrazzion de
pensiero, né me si fa più oscu- ra per difetto d’attenzione, perché non è
pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natu- ra qual
m’oblighi perché meno attenda. “Talis mihi semper” dal canto suo, perché la è
invariabile in su- stanza, in virtù, in bellezza et in effetto verso quelle
cose che sono constanti et invariabili verso lei. Dice appresso “ut astro”,
perché al rispetto del sole illumi- nator de quella sempre è ugualmente
luminosa, essen- do che sempre ugualmente gli è volta, e quello sem- pre parimente
diffonde gli suoi raggi: come fisicamente questa luna che veggiamo con gli
occhi, quantunque verso la terra or appaia tenebrosa or lu- cente, or più or
meno illustrata et illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente
illuminata; perché sempre piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo
emispero intiero. Come anco questa terra sempre è illuminata nell’emisfero
equalmente; quantunque da l’acquosa superficie cossì inequalmente a volte a
volte mande il suo splendore alla luna (qual come molti altri astri
innumerabili stimiamo un’altra terra) come aviene che quella mande a lei:
atteso la vicissitu- dine ch’hanno insieme de ritrovarsi or l’una or l’altra
più vicina al sole. cicada Come questa intelligenza è significata per la lu- na
che luce per l’emisfero? tansillo Tutte l’intelligenze son significate per la
luna, in quanto che son partecipi d’atto e di potenza, per quanto dico che
hanno la luce materialmente, e secon- do participazione, ricevendola da altro;
dico non es- sendo luci per sé e per sua natura: ma per risguardo Letteratura
italiana Einaudi 99 Giordano Bruno - De gli eroici furori del sole
ch’è la prima intelligenza, la quale è pura et absoluta luce come anco è puro
et absoluto atto. cicada Tutte dumque le cose che hanno dependenza, e che non
sono il primo atto e causa, sono composte come di luce e tenebra, come di
materia e forma, di potenza et atto? tansillo Cossì è. Oltre, l’anima nostra
secondo tutta la sustanza è significata per la luna la quale splende per
l’emispero delle potenze superiori, onde è volta alla luce del mondo
intelligibile, et è oscura per le po- tenze inferiori, onde è occupata al
governo della ma- teria. IX. cicada E mi par che a quel ch’ora è detto abbia
certa conseguenza e simbolo l’impresa ch’io veggio nel seguente scudo, dove è
una ruvida e ramosa quer- cia piantata, contra la quale è un vento che soffia,
et ha circonscritto il motto Ut robori robur. Et appresso è affissa la tavola
che dice: Annosa quercia, che gli rami spandi a l’aria, e fermi le radici ’n
terra: né terra smossa, né gli spirti grandi che da l’aspro Aquilon il ciel
disserra, né quanto fia ch’il vern’orrido mandi, dal luog’ove stai salda mai ti
sferra; mostri della mia fé ritratto vero qual smossa mai stran’accidenti féro.
Tu medesmo terreno mai sempr’abbracci, fai colto e comprendi, e di lui per le
viscere distendi radici grate al generoso seno: i’ ad un sol oggetto ho fiss’il
spirt’, il sens’e l’intelletto. [tansillo] Il motto è aperto, per cui si vanta
il furio- so d’aver forza e robustezza, come la rovere; e come Letteratura
italiana Einaudi 100 Giordano Bruno - De gli eroici furori
quell’altro, essere sempre uno al riguardo da l’unica fenice; e come il
prossimo precedente conformarsi a quella luna che sempre tanto splende, e tanto
è bella; o pur non assomigliarsi a questa antictona tra la no- stra terra et il
sole in quanto ch’è varia a’ nostri oc- chi: ma in quanto sempre riceve ugual
porzion del splendor solare in se stessa. E per ciò cossì rimaner constante e
fermo contra gli Aquiloni e tempestosi inverni per la fermezza ch’ha nel suo
astro in cui è piantato con l’affetto et intenzione, come la detta ra- dicosa
pianta tiene intessute le sue radici con le vene de la terra. cicada Più stimo
io l’essere in tranquillità e fuor di molestia che trovarsi in una sì forte
toleranza. tansillo È sentenza d’Epicurei la qual se sarà bene intesa, non sarà
giudicata tanto profana quanto la sti- mano gli ignoranti; atteso che non
toglie che quel ch’io ho detto sia virtù, né pregiudica alla perfezzione della
constanza, ma più tosto aggionge a quella per- fezzione che intendeno gli
volgari: perché lui non sti- ma vera e compita virtù di fortezza e constanza
quella che sente e comporta gl’incommodi: ma quella che non sentendoli le
porta; non stima compìto amor di- vino et eroico quello che sente il sprone,
freno o ri- morso o pena per altro amore, ma quello ch’a fatto non ha senso de
gli altri affetti: onde talmente è gion- to ad un piacere, che non è potente
dispiacere alcuno a distorlo o far cespitare in punto. E questo è toccar la
somma beatitudine in questo stato, l’aver la voluptà e non aver senso di
dolore. cicada La volgare opinione non crede questo senso d’Epicuro. tansillo
Perché non leggono gli suoi libri, né quelli che senza invidia apportano le sue
sentenze, al con- trario di color che leggono il corso de sua vita et il ter-
mine de la sua morte. Dove con queste paroli dettò il X. tansillo Guarda
in quest’altro ch’ha la fantasia di quella incudine e martello, circa la quale
è il motto Ab Aetna. Ma prima che la consideriamo, leggemo la stanza. Qua
s’introduce di Vulcano la prosopopea: Or non al monte mio siciliano torn’, ove
tempri i folgori di Giove; Giordano Bruno - De gli eroici furori principio del
suo testamento: «Essendo ne l’ultimo e medesimo felicissimo giorno de nostra
vita, abbiamo ordinato questo con mente quieta, sana e tranquilla; perché
quantunque grandissimo dolor de pietra ne tormentasse da un canto, quel
tormento tutto venea assorbito dal piacere de le nostre invenzioni e la con-
siderazion del fine». Et è cosa manifesta che non po- nea felicità più che
dolore nel mangiare, bere, posare e generare, ma in non sentir fame, né sete,
né fatica, né libidine. Da qua considera qual sia secondo noi la perfezzion de
la constanza: non già in questo che l’ar- bore non si fracasse, rompa o pieghe;
ma in questo che né manco si muova: alla cui similitudine costui tien fisso il
spirto, senso et intelletto, là dove non ha sentimento di tempestosi insulti.
cicada Volete dumque che sia cosa desiderabile il comportar de tormenti, perché
è cosa da forte? tansillo Questo che dite “comportare” è parte di constanza, e
non è la virtude intiera; ma questo che dico “fortemente comportare” et Epicuro
disse “non sentire”. La qual privazion di senso è caggionata da quel che tutto
è stato absorto dalla cura della virtude, vero bene e felicitade. Qualmente
Regolo non ebbe senso de l’arca, Lucrezia del pugnale, Socrate del ve- leno,
Anaxarco de la pila, Scevola del fuoco, Cocle de la voragine, et altri virtuosi
d’altre cose che massime tormentano e danno orrore a persone ordinarie e vili.
cicada Or passate oltre. Letteratura italiana Einaudi 102 Giordano
Bruno - De gli eroici furori qua mi rimagno scabroso Vulcano: qua più superbo
gigante si smuove, che contr’il ciel s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi
studii e varie prove; qua trovo meglior fabri e Mongibello, meglior fucina,
incudine e martello. Dov’un pett’ha suspiri che quai mantici avvivan la
fornace, u’ l’alm’a tante scosse sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran
martìri; e manda quel concento che fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si
mostrano le pene et incomodi che son ne l’amore, massime nell’amor volgare, il
quale non è al- tro che l’officina di Vulcano: quel fabro che forma i folgori
de Giove che tormentano l’anime delinquenti. Perché il disordinato amore ha in
sé il principio della sua pena; attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di
noi. Si trova in noi certa sacrata mente et intelligenza, cui subministra un
proprio affetto che ha il suo vendi- catore, che col rimorso di certa sinderesi
al meno, co- me con certo rigido martello flagella il spirito prevari- cante.
Quella osserva le nostre azzioni et affetti, e come è trattata da noi fa che
noi vengamo trattati da lei. In tutti gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano:
come non è uomo che non abbia Dio in sé, non è amante che non abbia questo dio.
In tutti è Dio cer- tissimamente, ma qual dio sia in ciascuno non si sa cossì
facilmente; e se pur se può esaminare e distin- guere, altro non potrei credere
che possa chiarirlo che l’amore: come quello che spinge gli remi, gonfia la
vela e modera questo composto, onde vegna bene o malamente affetto. – Dico bene
o malamente affetto quanto a quel che mette in esecuzione per l’azzioni morali
e contemplazione; perché del resto tutti gli Letteratura italiana Einaudi
103 Giordano Bruno - De gli eroici furori amanti comunmente senteno
qualch’incomodo: es- sendoché come le cose son miste, non essendo bene alcuno
sotto concetto et affetto a cui non sia gionto o opposto il male, come né alcun
vero a cui non sia ap- posto e gionto il falso; cossì non è amore senza timo-
re, zelo, gelosia, rancore et altre passioni che proce- dono dal contrario che
ne perturba, se l’altro contrario ne appaga. Talmente venendo l’anima in
pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia pur- garsi, sanarsi,
riformarsi: e però adopra il fuoco, per- ché essendo come oro trameschiato a la
terra et infor- me, con certo rigor vuol liberarsi da impurità; il che
s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani
essercitandovi gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che
si riferisca quel che si tro- va nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore
da la madre Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, palli- do, discalzo,
summisso, senza letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato
il tormento ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì
è, perché il spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri distratto,
martellato da cu- re urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato da spesse
occasioni: onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad essere men
diligente et ope- rosa al governo del corpo per gli atti della potenza ve-
getativa. Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha difetto de
sangue, copia di malancolici umori, li quali se non saranno instrumenti de
l’anima disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, mena- no ad insania,
stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e dispreggio del
esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi discalzi. Va
summisso l’amore e vola come rependo per la ter- ra, quando è attaccato a cose
basse; vola alto quando Letteratura italiana Einaudi 104 Giordano
Bruno - De gli eroici furori vien intento a più generose imprese. In
conclusione et a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è trava- gliato e
tormentato di sorte che non possa mancar d’esser materia nelle focine di
Vulcano; perché l’ani- ma essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma
signora della materia corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che
volontariamente serve al corpo, do- ve non trova cosa che la contente. E
quantumque fis- sa nella cosa amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad
essagitarsi e fluttuar in mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli,
conscienze, rimorsi, osti- nazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli
mantici, gli carboni, l’incudini, gli martelli, le tena- glie, et altri
stormenti che si ritrovano nella bottega di questo sordido e sporco consorte di
Venere. cicada Or assai è stato detto a questo proposito: piac- ciavi di veder
che cosa séguita appresso. XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamen- te,
con diverse preciosissime specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice
Pulchriori detur. cicada La allusione al fatto delle tre dee che si sotto-
posero al giudicio de Paride, è molto volgare: ma leg- gansi le rime che più
specificatamente ne facciano ca- paci de l’intenzione del furioso presente.
tansillo Venere, dea del terzo ciel, e madre del cieco arciero, domator
d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per padre, e di Giove la mogli’
altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che squadre de chi de lor più bell’è
l’aureo muno: se la mia diva al paragon s’appone, non di Venere, Pallad’, o
Giunone. Per belle membra è vaga Letteratura italiana Einaudi 105
Giordano Bruno - De gli eroici furori la cipria dea, Minerva per
l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor d’altezza, ch’il Tonante
appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel, d’intelligenza, e maestade. Ecco
qualmente fa comparazione dal suo oggetto il quale contiene tutte le
circonstanze, condizioni e spe- cie di bellezza come in un suggetto, ad altri
che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi per di- versi
suppositi: come avvenne nel geno solo della cor- poral bellezza di cui le
condizioni tutte non le poté ap- provare Apelle in una, ma in più vergini. Or
qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si tro- veno in
ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in
Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la
maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le altre,
onde quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come accidenti
com- muni, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e viene ad
mostrarla et intitularla sovrana de l’al- tre. E la caggion di cotal differenza
è lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per
participazione e derivativamente. Come in tutte le co- se dependenti sono le
perfezzioni secondo gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella
simplicità della divina essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e
però non è più sapienza che bellezza, e mae- stade, non è più bontà che
fortezza: ma tutti gli attri- buti sono non solamente uguali, ma ancora
medesimi et una istessa cosa. Come nella sfera tutte le dimensio- ni sono non
solamente uguali (essendo tanta la lun- ghezza quanta è la profondità e
larghezza) ma anco medesime: atteso che quel che chiami profondo, me- desimo
puoi chiamar lungo e largo della sfera. Cossì è Letteratura italiana Einaudi
106 Giordano Bruno - De gli eroici furori nell’altezza de la
sapienza divina, la quale è medesimo che la profondità de la potenza, e
latitudine de la bon- tade. Tutte queste perfezzioni sono uguali perché so- no
infinite. Percioché necessariamente l’una è secondo la grandezza de l’altra,
atteso che dove queste cose son finite, avviene che sia più savio che bello e
buono, più buono e bello che savio, più savio e buono che poten- te, e più
potente che buono e savio. Ma dove è infinita sapienza, non può essere se non
infinita potenza: per- ché altrimenti non potrebbe saper infinitamente. Do- ve
è infinita bontà, bisogna infinita sapienza: perché altrimenti non saprebbe
essere infinitamente buono. Dove è infinita potenza, bisogna che sia infinita
bontà e sapienza, perché tanto ben si possa sapere e si sappia possere. Or
dumque vedi come l’oggetto di questo fu- rioso, quasi inebriato di bevanda de
dèi, sia più alto incomparabilmente che gli altri diversi da quello. Co- me,
voglio dire, la specie intelligibile della divina es- senza comprende la
perfezzione de tutte l’altre specie altissimamente, di sorte che, secondo il
grado che può esser partecipe di quella forma, potrà intender tutto e far
tutto, et esser cossì amico d’una, che vegna ad aver a dispreggio e tedio
ogn’altra bellezza. Però a quella si deve esser consecrato il sferico pomo,
come chi è tutto in tutto. Non a Venere bella che da Minerva è supera- ta in
sapienza, e da Giunone in maestà. Non a Pallade di cui Venere è più bella, e
l’altra più magnifica. Non a Giunone, che non è la dea dell’intelligenza et
amore ancora. cicada Certo come son gli gradi delle nature et essenze, cossì
proporzionalmente son gli gradi delle specie in- telligibili, e magnificenze de
gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il seguente porta una testa, ch’ha
quat- tro faccia che soffiano verso gli quattro angoli del cie- lo; e son
quattro venti in un suggetto, alli quali sopra- Letteratura italiana Einaudi
107 Giordano Bruno - De gli eroici furori stanno due stelle, et in
mezzo il motto che dice Novae ortae Aeoliae; vorrei sapere che cosa vegna
significata. tansillo Mi pare ch’il senso di questa divisa è conse- guente di
quello de la prossima superiore. Perché co- me là è predicata una infinita
bellezza per oggetto, qua vien protestata una tanta aspirazione, studio, af-
fetto e desio; percioch’io credo che questi venti son messi a significar gli
suspiri; il che conosceremo, se verremo a leggere la stanza: Figli d’Astreo
Titan e de l’Aurora, che conturbate il ciel, il mar e terra, quai spinti fuste
dal Litigio fuora, perché facessi a’ dèi superba guerra: non più a l’Eolie
spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi fren’e serra: ma rinchiusi vi
siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto sospirar costretto. Voi socii
turbulenti de le tempeste d’un et altro mare, altro non è che vagli’
asserenare, che que’omicidi lumi et innocenti: quelli apert’et ascosi vi
renderan tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è introdotto Eolo parlar a
i venti, quali non più dice esser da lui moderati nell’Eolie ca- verne: ma da
due stelle nel petto di questo furioso. Qua le due stelle non significano gli
doi occhi che son ne la bella fronte: ma le due specie apprensibili della
divina bellezza e bontade di quell’infinito splendore, che talmente influiscono
nel desio intellettuale e ra- zionale, che lo fanno venire ad aspirar
infinitamente, secondo il modo con cui infinitamente grande, bello e buono
apprende quell’eccellente lume. Perché l’amo- re mentre sarà finito, appagato,
e fisso a certa misura, Letteratura italiana Einaudi 108 tansillo
cicada tansillo Giordano Bruno - De gli eroici furori non sarà circa le specie
della divina bellezza: ma altra formata; ma mentre verrà sempre oltre et oltre
aspi- rando, potrassi dire che versa circa l’infinito. cicada Come comodamente
l’aspirare è significato per il spirare? che simbolo hanno i venti col deside-
rio? tansillo Chi de noi in questo stato aspira, quello su- spira, quello
medesimo spira. E però la vehemenza dell’aspirare è notata per
quell’ieroglifico del forte spirare. cicada Ma è differenza tra il sospirare e
spirare. tansillo Però non vien significato l’uno per l’altro co- me medesimo
per il medesimo: ma come simile per il Simile. cicada Seguitate dumque il
vostro proposito. tansillo L’infinita aspirazion dumque mostrata per gli
suspiri, e significata per gli venti, è sotto il governo non d’Eolo nell’Eolie,
ma di detti doi lumi; li quali non solo innocente, ma e benignissimamente
uccido- no il furioso, facendolo per il studioso affetto morire al riguardo
d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che chiusi et ascosi lo rendono
tempestoso, aperti lo ren- deran tranquillo; atteso che nella staggione che di
nu- voloso velo adombra gli occhi de l’umana mente in questo corpo, aviene che
l’alma con tal studio vegna più tosto turbata e travagliata: come essendo quello
stracciato e spinto, doverrà tant’altamente quieta, quanto baste ad appagar la
condizion di sua natura. cicada Come l’intelletto nostro finito può seguitar
l’oggetto infinito? Con l’infinita potenza ch’egli ha. Questa è vana, se mai
sarrà in effetto. Sarrebe vana, se fusse circa atto finito, dove l’infinita
potenza sarrebe privativa; ma non già circa l’atto infinito, dove l’infinita
potenza è positiva per- fezzione. Letteratura italiana Einaudi 109
Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Se l’intelletto umano è una
natura et atto fini- to, come e perché ha potenza infinita? tansillo Perché è
eterno, et acciò sempre si dilette, e non abbia fine né misura la sua felicità;
e perché come è finito in sé, cossì sia infinito nell’oggetto. cicada Che differenza
è tra la infinità de l’oggetto et infinità della potenza? tansillo Questa è
finitamente infinita, quello infinita- mente infinito. Ma torniamo a noi. Dice
dumque là il motto “Novae partae Aeoliae”, perché par si possa credere che
tutti gli venti (che son negli antri voragi- nosi d’Eolo) sieno convertiti in
suspiri, se vogliamo numerar quelli che procedono da l’affetto che senza fine
aspira al sommo bene et infinita beltade. XIII. cicada Veggiamo appresso la
significazione di quella face ardente, circa la quale è scritto Ad vitam, non
ad horam. tansillo La perseveranza in tal amore et ardente desio del vero bene,
in cui arde in questo stato temporale il furioso. Questo credo che mostra la
seguente tavola: Partesi da la stanz’il contadino, quando il sen d’Oriente il
giorno sgombra; e quand’il sol ne fere più vicino, stanc’e cotto da caldo
sied’a l’ombra; lavora poi, e s’affatica insino ch’atra caligo l’emisfer
ingombra; indi si posa: io sto a continue botte mattina, mezo giorno, sera e
notte. Questi focosi rai ch’escon da que’ dei archi del mio sole, de l’alma mia
(com’il mio destin vuole) dal orizonte non si parton mai: bruggiand’a tutte
l’ore dal suo meridian l’afflitto core.cicada Questa tavola più vera che
propriamente espli- ca il senso de la figura. tansillo Non ho d’affaticarmi a
farvi veder queste proprietadi, dove il vedere non merita altro che più attenta
considerazione. Gli “rai del sole” son le rag- gioni con le quali la divina
beltade e bontade si mani- festa a noi. E son “focosi”, perché non possono
essere appresi da l’intelletto, senza che conseguentemente scaldeno l’affetto.
“Doi archi del sole” son le due spe- cie di revelazione che gli scolastici
teologi chiamano «matutina» e «vespertina»; onde l’intelligenza illumi- natrice
di noi, come aere mediante, ne adduce quella specie o in virtù che la admira in
se stessa, o in effica- cia che la contempla ne gli effetti. L’orizonte de
l’al- ma in questo luogo è la parte delle potenze superiori, dove a
l’apprensione gagliarda de l’intelletto soccorre il vigoroso appulso de
l’affetto, significato per il core, che “bruggiando a tutte l’ore” s’afflige;
perché tutti gli frutti d’amore che possiamo raccòrre in questo sta- to non son
sì dolci che non siano più gionti a certa af- flizzione, quella almeno che
procede da l’apprension di non piena fruizione. Come specialmente accade ne gli
frutti de l’amor naturale, la condizion de gli quali non saprei meglio
esprimere, che come fe’ il poeta epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque
colore nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenuia, quae vento spes
captat saepe misella. Ut bibere in somnis sitiens cum quaerit, et humor non
datur, ardorem in membris qui stinguere possit; sed laticum simulacra petit
frustraque laborat, in medioque sitit torrenti flumine potans: sic in amore
Venus simulacris ludit amantis, nec satiare queunt spectando corpora coram, nec
manibus quicquam teneris abradere membris Letteratura italiana Einaudi
111 Giordano Bruno - De gli eroici furori possunt, errantes incerti
corpore toto. Denique cum membris conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam
praesagit gaudia corpus, atque in eo est Venus, ut muliebria conserat arva,
adfigunt avide corpus iunguntque salivas oris, et inspirant pressantes dentibus
ora, nequicquam, quoniam nibil inde abradere possunt, nec penetrare et abire in
corpus corpore toto. Similmente giudica nel geno del gusto che qua possia- mo
aver de cose divine: mentre a quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo
aver più afflizzione nel desio che piacer nel concetto. E per questo può aver
detto quel savio Ebreo, che chi aggionge scienza ag- gionge dolore, perché
dalla maggior apprensione na- sce maggior e più alto desio, e da questo séguita
mag- gior dispetto e doglia per la privazione della cosa desiderata; là onde l’epicureo
che séguita la più tran- quilla vita, disse in proposito de l’amor volgare: Sed
fugitare decet simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque alio
convertere mentem, nec servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim
virescit el inveterascit alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna
gravescit. Nec Veneris fructu sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt
sine paena commoda sumit. cicada Che intende per il “meridiano del core”?
tansillo La parte o region più alta e più eminente de la volontà, dove più
illustre, forte, efficace e retta- mente è riscaldata. Intende che tale affetto
non è co- me in principio che si muova, né come in fine che si quiete, ma come
al mezzo dove s’infervora. XIV. cicada Ma che significa quel strale infocato che
ha le fiamme in luogo di ferrigna punta, circa il quale è avolto un laccio, et
ha il motto Amor instat ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par che
voglia dire che l’amor mai lo la- scia, e che eterno parimente l’affliga.
cicada Vedo bene laccio, strale e fuoco; intendo quel che sta scritto: “Amor
instat”; ma quel che séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor come istante o
in- sistente, inste: che ha medesima penuria di proposito, che se uno dicesse:
«questa impresa costui la ha finta come finta, la porta come la porta, la
intendo come la intendo, la vale come la vale, la stimo come un che la stima».
tansillo Più facilmente determina e condanna chi manco considera. Quello
“instans” non significa adiettivamente dal verbo instare, ma è nome sustanti-
vo preso per l’instante del tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor insta come
l’instante? tansillo Che vuol dire Aristotele nel suo libro Del tempo, quando
dice che l’eternità è uno instante, e che in tutto il tempo non è che uno
instante? cicada Come questo può essere se non è tanto mini- mo tempo che non
abbia più instanti? Vuol egli forse che in uno instante sia il diluvio, la
guerra di Troia, e noi che siamo adesso? Vorrei sapere come questo in- stante
se divide in tanti secoli et anni; e se per medesi- ma proporzione non possiamo
dire che la linea sia un punto. tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in
diversi sug- getti temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le
parti del tempo. Come io son medesimo che fui, so- no e sarò; io medesimo son
qua in casa, nel tempio, nel campo e per tutto dove sono. cicada Perché volete
che l’instante sia tutto il tempo? tansillo Perché se non fusse l’instante, non
sarrebe il tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante.
E questo baste se l’intendi (perché non Letteratura italiana Einaudi 113
Giordano Bruno - De gli eroici furori ho da pedanteggiar sul quarto de la
Fisica); onde comprendi che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il
tempo tutto: perché questo “instans” non significa punto del tempo. cicada
Bisogna che questa significazione sia specifica- ta in qualche maniera, se non
vogliamo far che sia il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo libe-
ramente intendere ch’egli voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest
d’un atomo di tempo e d’un niente: o che voglia dire che sia (come voi
interpreta- te) sempre. tansillo Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi
contrarii, il motto sarrebe una baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso
che in uno instante che è atomo o punto, che l’amore inste o insista non può
essere: ma bisogna necessariamente intendere l’instante in al- tra
significazione. E per uscir di scuola, leggasi la stanza: Un tempo sparge, et
un tempo raccoglie; un edifica, un strugge; un piange, un ride: un tempo ha
triste, un tempo ha liete voglie; un s’affatica, un posa; un stassi, un side:
un tempo porge, un tempo si ritoglie; un muove, un ferm’; un fa viv’, un
occide: in tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende, fere, accend’e lega
amore. Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien in pianto, è mio
triste languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et erge; tropp’in
rubbarmi è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada Assai bene ho
compreso il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto bene. Però mi
par tempo di procedere a l’altro. Letteratura italiana Einaudi 114
Giordano Bruno - De gli eroici furori XV. tansillo Qua vedi un serpe ch’a
la neve langui- sce dove l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo
acceso in mezzo al fuoco, con certe altre minute e circonstanze, con il motto
che dice Idem, itidem, non idem. Questo mi par più presto enigma che altro,
però non mi confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che vo- glia significar
medesimo fato molesto, che medesima- mente tormenta l’uno e l’altro (cioè
inentissimamente, senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o
contrarii principio, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che
richieda più lunga e distin- ta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete
la rima. [tansillo] Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai,
sullevi, inondi; e per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or
quella parte ascondi; s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che
propona o che rispondi, credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo
piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo,
avvampo; e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova
loco: lasso, per che non sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue
cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie
forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé
chiedi al villan, odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta.
Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte Letteratura italiana Einaudi 115
Giordano Bruno - De gli eroici furori non è per darti scampo da la morte.
Tu addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami
questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti
a bastanza del fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per
il camino vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene. interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino
Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto
l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stima- no allor che
tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essen- do che quello de l’ottava sfera
ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro
zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che ab- biano loco quando domina
la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno
le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal con- trario a l’altro. La
revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da
abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al
medesimo: come veggiamo ne gli anni parti- colari, qual è quello del sole, dove
il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di
questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle
scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della
feccia de gli co- stumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a
meglior stati. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel
mio, che questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma
al no- stro riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più
ne afflige che il passato, et ambi doi in- sieme manco possono appagarne che il
futuro, il qua- le è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder
designato in questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che
fêrno cotal statua che Letteratura italiana Einaudi 118 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori sopra un busto simile a tutti tre puosero tre
teste, l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia
volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le
cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che
in effetto ne tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là
è il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che ap- plaude.
cesarino Che contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra
il lupo è Iam, sopra il leo- ne Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni
che significano le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella
tavola. maricondo Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di
chiar, al vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si
die’, si dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al
presente et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel
soffrir, nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i
frutti, la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che
vivo, ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e
lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso
m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un
furioso aman- te; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualun-
Letteratura italiana Einaudi 119 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori que maniera e modo siano malamente affetti; perché non doviamo né
possiamo dire che questo quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che
furono e sono travagliosi: atteso che ad un ch’ha cercato un regno et ora il
possiede, conviene il timor di perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli
frutti de il amore, co- me è la particular grazia de la cosa amata, conviene il
morso della gelosia e suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne
ritroviamo nelle tenebre e ma- le, possiamo sicuramente profetizar la luce e
prospe- ritade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo
aspettar il successo de l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio
Trimigisto che per veder l’Egitto in tanto splender de scienze e divina- zioni,
per le quali egli stimava gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per
conseguenza religiosissimi, fe- ce quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo
che doveano succedere le tenebre de nove religioni e cul- ti, e de cose
presenti non dover rimaner altro che fa- vole e materia di condannazione. Cossì
gli Ebrei quando erano schiavi nell’Egitto e banditi nelli deser- ti, erano confortati
da lor profeti con l’aspettazione de libertà et acquisto di patria. Quando
furono in sta- to di domìno e tranquillità, erano minacciati de di- spersione e
cattività. Oggi che non è male né vitupe- rio a cui non siano suggetti, non è
bene né onore che non si promettano. Similmente accade a tutte l’altre
generazioni e stati: li quali se durano e non sono an- nihilati a fatto, per
forza della vicissitudine delle cose, è necessario da ’l male vegnano al bene,
dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da l’altezza alla bas- sezza, da
le oscuritadi al splendore, dal splendor alle oscuritadi. Perché questo
comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se si ritrova altro che lo
guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne, perché non raggiono con
altro spirito che naturale. Letteratura italiana Einaudi 120
Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappiamo che non fate il
teologo ma filo- sofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì è.
Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante turribolo
che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Il- lius aram; et appresso
l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un ossequio divin
credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei nel tempio de
la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai che men
convegna ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora tanto et
ama? Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi pace. Perché
volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace? Dite di me
piatosi: «Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di quella
face sei vago sì?» «Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo
tormento». maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un
rimagna fisso su una corporal bellez- za e culto esterno, può onorevolmente e
degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e
splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad
inalzarsi alla consi- derazion e culto della divina bellezza, luce e maesta-
de: di maniera che da queste cose visibili vegna a ma- gnificar il core verso
quelle che son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto son
più rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde, fosca,
corrente, depinta nella su- perficie de la materia corporale, tanto mi piace e
tan- to mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che riverenza di
maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira, ch’io non
trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’ap- paghe: che
sarà di quello che sustanzialmente, origi- nalmente, primitivamente è bello;
che sarà de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la natura?
Conviene dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi amene
mediante la ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e
participazio- ne di quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi
unisca: perché son certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti
gli occhi, e mi ha do- tato di senso interiore, per cui posso argomentar bel-
lezza più profonda et incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso
vegna promosso a l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che
il mio vero nume come me si mostra in vestigio et ima- gine, voglia sdegnarsi
che in imagine e vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il
mio core et affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: at- teso che chi
può esser quello che possa onorarlo in es- senza e propria sustanza, se in tal
maniera non può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di
eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della
cattività in frutto di maggior liber- tade, e l’esser vinto una volta
convertiscono in occa- sione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellez-
za corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta
ritardamento da imprese mag- giori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali
per veni- re a quelle: allor che la necessità de l’amore è converti-
Letteratura italiana Einaudi 122 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori ta in virtuoso studio per cui l’amante si forza di venire a termine nel
quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più
bella ancora; onde sia o che vegna contento d’aver guadagnato quel che bra- ma,
o sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui de- gnamente possa spregiar
l’altrui che viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o
si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre
verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al
desiderio della divina bel- lezza in se stessa, senza similitudine, figura,
imagine e specie, se sia possibile: e più se sa arrivare a tanto. maricondo
Vedi dumque, Cesarino, come ha raggio- ne questo furioso di risentirsi contra
coloro che lo ri- prendono come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti et
appenda tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle dalle voci che lo
richiamano a più alte imprese: essendo che come queste basse cose deriva- no da
quelle et hanno dipendenza, cossì da queste si può aver accesso a quelle come
per proprii gradi. Queste se non son Dio son cose divine, sono imagini sue
vive: nelle quali non si sente offeso se si vede ado- rare: perché abbiamo
ordine dal superno spirito che dice «Adorate scabellum pedum eius». Et altrove
disse un divino imbasciatore: «Adorabimus ubi steterunt pedes eius». cesarino
Dio, la divina bellezza e splendore riluce et è in tutte le cose; però non mi
pare errore d’admirarlo in tutte le cose secondo il modo che si comunica a
quelle: errore sarà certo se noi donaremo ad altri l’onor che tocca a lui solo.
Ma che vuol dir quando dice “Lasciatemi, lasciate, altri desiri”? maricondo
Bandisce da sé gli pensieri, che gli appresen- tano altri oggetti che non hanno
forza di commoverlo tanto; e che gli vogliono involar l’aspetto del sole, il
qual può presentarsegli da questa fenestra più che da l’altre. Letteratura
italiana Einaudi 123 Giordano Bruno - De gl’eroici furori cesarino
Come importunato da pensieri si sta con- stante a remirar quel splendor che lo
disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non vegna forte- mente a
tormentarlo? maricondo Perché tutti gli nostri conforti in questo stato di
controversia non sono senza gli suoi di- sconforti cossì grandi come magnifici
son gli conforti. Come più grande è il timore d’un re che consiste su la
perdita d’un regno, che di un mendico che consiste sul periglio di perdere
dieci danaii; è più urgente la cura d’un prencipe sopra una republica, che d’un
ru- stico sopra un grege de porci: come gli piaceri e deli- cie di quelli forse
son più grandi che le delicie e piace- ri di questi. Però l’amare et aspirar
più alto, mena seco maggior gloria e maestà con maggior cura, pen- siero e
doglia: intendo in questo stato dove l’un con- trario sempre è congionto a
l’altro, trovandosi la mas- sima contrarietade sempre nel medesimo geno, e per
conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque gli contraria non possano
essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor di Cupido superiore, come
dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e animale, quando disse:
Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat quid primum oculis
manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque dolorem corporis,
et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia non est pura
voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum, quodcumque est,
rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas frangit Venus inter
amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque in eo spes est,
unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam.
Letteratura italiana Einaudi 124 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della natura fa
che un si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo
del tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla
si fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii
per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è piacere di
generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove
queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come in medesimo
suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di
sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che
la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III.
cesarino Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che
arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal cui
calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par.
maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a
dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi,
contrario fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende
tepido fumo et atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e
quello avvele, per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore
accende e illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero,
manda da l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando, mentre mi
struggo e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco infosca
col suo stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino Dice dumque
costui che come questa le nice venendo dal splendor del sole accesa, et
abituata d lu- ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel fu- mo che
oscura quello che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato
furioso per quel che fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso
il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che
ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si
risolve la sustanza di lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e compara-
zione gli studi di costui, torno a dire quel che ti dice- vo l’altr’ieri, che
la lode è uno de gli più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad un
oggetto. E per lasciar da parte il proposito del divino, ditemi: chi co-
noscerebbe Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe
notizia de tanti grandi soldati, sa- pienti et eroi de la terra, se non fussero
stati messi alle stelle e deificati per il sacrificio de laude, che nell’alta-
re del cor de illustri poeti et altri recitatori have acce- so il fuoco, con
questo che comunmente montasse al cielo il sacrificatore, la vittima et il
canonizato divo, per mano e voto di legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben
dici di degno e legitimo sacerdote; per- ché de gli appostici n’è pieno oggi il
mondo, li quali come sono per ordinario indegni essi loro, cossì ve- gnono
sempre a celebrar altri indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma la
previdenza vuole che in luo- go d’andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno
gionta- mente alle tenebre de l’Orco: onde fia vana e la gloria di quel che
celebra, e di quel ch’è celebrato; perché l’uno ha intessuta una statua di
paglia, o insculpito un tronco di legno, o messo in getto un pezzo di calcina;
e l’altro idolo d’infamia e vituperio non sa che non gli bisogna aspettar gli
denti de l’evo e la falce di Saturno per esser messo giù: stante che dal suo
encomico me- desimo vien sepolto vivo all’ora all’ora propria che vien lodato,
salutato, nominato, presentato. Come per il contrario è accaduto alla prudenza
di quel tanto ce- lebrato Mecenate, il quale se non avesse avuto altro
splendore che de l’animo inchinato alla protezzione e favor delle Muse, sol per
questo meritò che gl’ingegni de tanti illustri poeti gli dovenessero ossequiosi
a met- terlo nel numero de più famosi eroi che abbiano cal- pestrato il dorso
de la terra. Gli proprii studii et il proprio splendore l’han reso chiaro e
nobilissimo, e non l’esser nato d’atavi regi, non l’esser gran segreta- rio e
consegliero d’Augusto. Quello dico che l’ha fat- to illustrissimo, è l’aversi
fatto degno dell’execuzion della promessa di quel poeta che disse: Fortunati
ambo, si quid mea carmina possuni, nulla dies unquam memori vos eximet aevo,
dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet, imperiumque pater Romanus
habebit. maricondo Mi sovviene di quel che dice Seneca in certa epistola dove
riferisce le paroli d’Epicuro ad un suo amico, che son queste: «Se amor di
gloria ti tocca il petto, più noto e chiaro ti renderanno le mie lettere che
tutte quest’altre cose che tu onori, e dalle quali sei onorato, e per le quali
ti puoi vantare». Similmen- te arria possuto dire Omero se si gli fusse
presentato avanti Achille o Ulisse, Vergilio a Enea et alla sua progenia;
perciò che, come ben suggionse quel filo- sofo morale, «è più conosciuto
Domenea per le lette- re d’Epicuro che tutti gli megistani satrapi e regi, dal-
li quali pendeva il titolo [di] Domenea, e la memoria Letteratura italiana
Einaudi 127 Giordano Bruno - De gl’eroici furori de gli quali venea
suppressa dall’alte tenebre de l’oblio. Non vive Attico per essere genero
d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma per l’epistole de Tullio. Druso pronepote
di Cesare non si troverebbe nel nu- mero de nomi tanto grandi, se non vi l’avesse
inserito Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una profon- da altezza di
tempo, sopra la quale non molti ingegni rizzaranno il capo». Or per venire al
proposito di questo furioso il quale vedendo una fenice accesa al sole, si
rammenta del proprio studio, e duolsi che co- me quella per luce et incendio
che riceve, gli rimanda oscuro e tepido fumo di lode dall’olocausto della sua
liquefatta sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol raggionare, ma e né men
pensare di cose divine, che non vengamo a detraergli più tosto che aggion-
gergli di gloria: di sorte che la maggior cosa che far si possa al riguardo di
quelle, è che l’uomo in presenza de gli altri uomini vegna più tosto a
magnificar se stesso per il studio et ardire, che donar splendore ad altro per
qualche compita e perfetta azzione. Atteso che cotale non può aspettarsi dove
si fa progresso all’infinito, dove l’unità et infinità son la medesima cosa; e
non possono essere perseguitate dal altro nu- mero, perché non è unità, né da
altra unità perché non è numero, né da altro numero et unità: perché non sono
medesimo absoluto et infinito. Là onde ben disse un teologo che essendo che il
fonte della luce non solamente gli nostri intelletti, ma ancora gli divini di
gran lunga sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e paroli, ma
con silenzio vegna ad esser celebrata. cesarino Non già col silenzio de gli
animali bruti et altri che sono ad imagine e similitudine d’uomini: ma di
quelli, il silenzio de quali è più illustre che tutti gli eridi, rumori e
strepiti di costoro che possano esser uditi. Letteratura italiana Einaudi
128 Giordano Bruno - De gl’eroici furori IV. maricondo Ma
procediamo oltre a vedere quel che significa il resto. cesarino Dite se avete
prima considerato e visto quel che voglia dir questo fuoco in forma di core con
quat- tro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove tutto il composto è cinto
de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la questione: Nitimur in cassum?
maricondo Mi ricordo ben che significa il stato de la mente, core, spirito et
occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa mente ch’aspira al splendor
santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor, che recrear que’ pensier
vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il spirto che devria posarsi alquanto,
d’un moment’al piacer non si fa donno; gli occhi ch’esser derrian chiusi dal
sonno tutta la notte son aperti al pianto. Oimè miei lumi con qual studio et
arti tranquillar posso i travagliati sensi? Spirto mio, in qual tempo et in
quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E tu, mio cor, come potrò
appagarti di quel ch’al grave tuo suffrir compensi? Quand’i debiti censi
daratti l’alma, o travagliata mente, col cor, col spirto e con gli occhi
dolente? Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il consorzio de la
turba, si ritira dalla commune opinio- ne: non solo dico e tanto s’allontana
dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla communità de studii, opinio- ni e
sentenze; atteso che per contraer vizii et ignoran- ze tanto è maggior
periglio, quanto è maggior il popo- lo a cui s’aggionge: «Nelli publici
spettacoli» disse il Letteratura italiana Einaudi 129 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori filosofo morale, «mediante il piacere più
facilmente gli vizii s’ingeriscono». Se aspira al splendor alto, riti- resi
quanto può all’unità, contrahasi quanto è possibi- le in se stesso, di sorte
che non sia simile a molti, per- ché son molti; e non sia nemico de molti,
perché son dissimili, se possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: al- trimenti
s’appiglie a quel che gli par megliore. – Con- versa con quelli gli quali o lui
possa far megliori, o da gli quali lui possa essere fatto megliore: per
splendor che possa donar a quelli, o da quelli possa ricever lui. Contentesi
più d’uno idoneo che de l’inetta moltitu- dine; né stimarà d’aver acquistato
poco quando è do- venuto a tale che sia savio per sé, sovvenendogli quel che
dice Democrito: «Unus mihi pro populo est, et po- pulus pro uno»; e che disse
Epicuro ad un consorte de suoi studii scrivendo: «Haec tibi, non multis; satis
enim magnum alter alteri theatrum sumus». – La men- te dumque ch’aspira alto,
per la prima lascia la cura della moltitudine, considerando che quella luce
spreggia la fatica, e non si trova se non dove è l’intelli- genza; e non dove è
ogni intelligenza: ma quella che è, tra le poche, principali e prime, la prima,
principale et una. cesarino Come intendi che la mente aspira alto? ver-
bigrazia con guardar alle stelle? al cielo empireo? so- pra il cristallino?
maricondo Non certo, ma procedendo al profondo della mente per cui non fia
mistiero massime aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al
tem- pio, intonar l’orecchie de simulacri, onde più si ve- gna exaudito: ma
venir al più intimo di sé, conside- rando che Dio è vicino, con sé e dentro di
sé, più ch’egli medesimo esser non si possa; come quello ch’è anima de le
anime, vita de le vite, essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi
alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de gli astri, son corpi,
Letteratura italiana Einaudi 130 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori son fatture simili a questo globo in cui siamo noi, e nelli quali non
più né meno è la divinità presente che in questo nostro, o in noi medesimi.
Ecco dumque come bisogna fare primeramente de ritrarsi dalla moltitudine in se
stesso. Appresso deve dovenir a ta- le che non stime ma spreggie ogni fatica,
di sorte che quanto più gli affetti e vizii combattono da dentro, e gli viziosi
nemici contrastano di fuori, tanto più deve respirar e risorgere, e con uno
spirito (se possibil fia) superar questo clivoso monte. Qua non bisognano altre
armi e scudi che la grandezza d’un animo invit- to, e toleranza de spirito che
mantiene l’equalità e te- nor della vita, che procede dalla scienza, et è
regolato da l’arte di specolar le cose alte e basse, divine et umane, dove
consiste quel sommo bene. Per cui dis- se un filosofo morale che scrisse a
Lucilio: «non biso- gna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli deserti de
Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti: perché il camino è tanto
sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto ordinare. Non è» di-
ce egli «l’oro et argento che faccia simile a Dio, per- ché non fa tesori
simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama,
perché si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e
più che molti hanno mala opinion de lui»; non tante e tante altre condizioni de
cose che noi ordinariamente admiriamo: perché non queste cose delle quali si
desidera la copia ne rendeno tal- mente ricchi, ma il dispreggio di quelle.
cesarino Bene: ma dimmi appresso in qual maniera costui “Tranquillarà gli
sensi”, “mitigarà gli dolori del spirito”, “appagarà il core” e “darà gli
proprii censi a la mente”, di sorte che con questo suo aspirare e stu- dii non
debba dire «Nitimur in cassum»? maricondo Talmente trovandosi presente al corpo
che con la meglior parte di sé sia da quello absente, Letteratura italiana
Einaudi 131 Giordano Bruno - De gl’eroici furori farsi come con
indissolubil sacramento congionto et alligato alle cose divine, di sorte che
non senta amor né odio di cose mortali, considerando d’esser maggio- re che
esser debba servo e schiavo del suo corpo: al quale non deve altrimente
riguardare che come carce- re che tien rinchiusa la sua libertade, vischio che
tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le sue mani, ceppi che
han fissi gli suo piedi, velo che gli tien abbagliata la vista. Ma con ciò no
sia servo, catti- vo, invecchiato, incatenato, discioperato, saldo e cie- co:
perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso
che cossì il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e
materia è suggetta alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra
la fortuna, magnani- mo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e
persecuzioni. cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso
veggasi quel che seguita. Ec- co la ruota del tempo affissa, che si muove circa
il centro proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella?
maricondo Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con
la quiete, atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il pro-
prio mezzo si comprende la quiete e fermezza secon- do il moto retto; over
quiete del tutto, e moto secon- do le parti; e da le parti che si muoveno in
circolo si apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che successivamente
altre parti montano alla sommità, al- tre dalla sommità descendeno al basso;
altre ottegno- no le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e
del fondo. E questo tutto mi par che como- damente viene a significare quel
tanto che s’esplica nel seguente articolo: Letteratura italiana Einaudi 132
Giordano Bruno - De gl’eroici furori Quel ch’il mio cor aperto e ascoso
tiene, beltà m’imprime et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa
per là d’ond’ogni studio a l’alma viene: quando penso suttrarmi da le pene,
speme sustienmi, altrui rigor mi lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor
ch’aspiro a l’alt’e sommo bene. Alto pensier, pia voglia, studio intenso de
l’ingegno, del cor, de le fatiche, a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate
ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né più la mente, la raggion, il senso in
altro attenda, discorra, s’intriche. Onde di me si diche: costui or
ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. Cossì come
il continuo moto d’una parte suppone e mena seco il moto del tutto, di maniera
che dal ribut- tar le parti anteriori sia conseguente il tirar de le parti
posteriori: cossì il motivo de le parti superiori resulta necessariamente
nell’inferiori, e dal poggiar d’una po- tenza opposita seguita l’abbassar de
l’altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti l’affetti in gene-
rale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal zelo, sol- levato da magnifico
pensiero; rinforzato da la speran- za, indebolito dal timore. Et in questo
stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fa- to della
generazione. VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che sé- guita. Veggio
una nave inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido et ha il motto:
Fluctuat in portu. Argumentate quel che può significare: e se ne siete ri-
soluto, esplicate. Letteratura italiana Einaudi 133 Giordano Bruno
- De gl’eroici furori maricondo E la figura et il motto ha certa parentela col
precedente motto e figura, come si può facilmente comprendere se alquanto si
considera. Ma leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da le genti
assicurato son che non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de la morte,
del corpo, de piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e perché
chiari vegga i miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti speranza,
gioia e gli diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier,
miei desii e mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi
concetti, atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de l’orto,
vita e morte a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e
accend’, et emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel che ne gli
precedenti discorsi abbiamo consi- derato e detto si può comprendere il
sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è
attenuato et annullato dove le potenze supe- riori sono gagliardamente intente
ad oggetto più ma- gnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazio- ne
(come nota lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli
atti inferiori, ma et oltre la- scie il corpo a fatto. Il che non voglio
intendere altri- menti che in tante maniere quali sono esplicate nel li- bro
De’ trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali
alcune vituperosa, altre eroica- mente fanno che non s’apprenda téma di morte,
non Letteratura italiana Einaudi 134 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimen- ti di piaceri:
onde la speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal
sorte intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da
dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui
richiede che mi- re a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi
desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse?
maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa
presente; atteso che veder la di- vinità è l’esser visto da quella, come vedere
il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla
divinità è a punto ascoltar quella, et es- ser favorito da quella è il medesimo
esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e
certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che
degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et
azzio- ni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o
salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella trovasi
absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimen- to ruina e salva
la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o suttrae se
non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa dumque mi par
ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguen- te, dove son due
stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice: Mors et vita.
cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man d’amor
scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; Letteratura
italiana Einaudi 135 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ma tu
perché il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le
palpebre belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato
ciel non s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua,
per l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà
(diva) per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar
indegno fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del
grazioso sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il
“volto in cui riluce l’istoria de sue pene”, è l’anima, in quanto che è esposta
alla recepzion de do- ni superiori, al riguardo de quali è in potenza et atti-
tudine, senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada
divina. Onde ben fu detto: «Anima mea sicut terra sine aqua tibi». Et altrove:
«Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua de- siderabam». Appresso,
l’“orgoglio che non s’affrena” è detto per metafora e similitudine (come de Dio
tal volta si dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la
quale egli fa copia di far veder al me- no le sue spalli, che è il farsi
conoscere mediante le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le
palpebre, non asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via
l’ombra de gli enigmi e simili- tudini. – Oltre (perché non crede che tutto
quel che non è non possa essere) priega la divina luce che “per la sua
bellezza” la quale non deve essere a tutti occol- ta, almeno secondo la
capacità de chi la mira, e “per il suo amore che forse a tanta bellezza è
uguale” (uguale Letteratura italiana Einaudi 136 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori intende de la beltade in quanto che la se gli può far
comprensibile), che “si renda alla pietà”, cioè che fac- cia come quelli che
son piatosi, quali da ritrosi e schi- vi si fanno graziosi et affabili: e che
“non prolonghe il male” che avviene da quella privazione; e non per- metta che
il suo “splendor” per cui è desiderata, ap- paia maggiore che il suo amore con
cui si communi- che: stante che tutte le perfezzioni in lei non solamente sono
uguali, ma ancor medesime. – Al fine la ripriega che non oltre l’attriste con
la privazione; perché potrà ucciderlo con la luce de suoi sguardi, e con
que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce a la morte con ciò che le amene
luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol dire quella morte de amanti che
proce- de da somma gioia, chiamata da Cabalisti mors oscu- ri? la qual medesima
è vita eterna, che l’uomo può aver in disposizione in questo tempo, et in
effetto nell’eternità? maricondo Cossì è. VIII. cesarino Ma è tempo di
procedere a conside- rar il seguente dissegno simile a questi prossimi avan- ti
rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è un’aquila che con due ali
s’appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien ritardata dal pondo d’una
pie- tra che tien legata a un piede. Et èvvi il motto: Scindi- tur incertum. E
certo significa la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima; alla
significazion della quale è preso quel verso: Scinditur incertum studia in
contraria vulgus. Il qual volgo tutto generalmente è diviso in due faz- zioni (quantumque
subordinate a queste non manca- no de l’altre), de le quali altre invitano a
l’alto dell’in- Letteratura italiana Einaudi 137 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori telligenza e splendore di giustizia; altre allettano, inci-
tano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi, e
compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far voglio, e non
mi vien permesso; meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che per esser con
lui, non son più meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso. Per goder una
volta, piango spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché veggio
tropp’alto, son sì cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per amaro
diletto, e dolce pena, impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio; necessità
mi tien, bontà mi mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio mi
sprona, et il timor m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual
dritto o divertiglio mi darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi
scacce, e l’altro invite? L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso
ch’è nell’ali, che son l’intelletto et intellettiva volonta- de, per le quali
essa naturalmente si riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e
primo vero, co- me all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni co- sa
naturalmente ha impeto verso il suo principio re- gressivamente, e
progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben disse Empedocle; da
la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse il Nolano in questa
ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo principio i
discorrenti lumi; Letteratura italiana Einaudi 138 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori e ’l ch’è di terra, a terra si retiri, e al mar corran dal
mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi
numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero.
La potenza intellettiva mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non
sempre oltre et oltre procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che
ségui- ta l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per
conseguenza non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte
della sua su- stanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è convertita
al favore e governo della materia, viene a referirse et aver appulso, a giovare
et a comu- nicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per la si- militudine
che ha con la divinità, che per la sua bon- tade si comunica o infinitamente
producendo, idest communicando l’essere a l’universo infinito, e mondi
innumerabili in quello; o finitamente, producendo so- lo questo universo
suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella essenza
unica de l’anima se ritrovano questi doi geni de potenze, se- condo che è
ordinata et al proprio e l’altrui bene, ac- cade che si depinga con un paio
d’ali, mediante le quali è potente verso l’oggetto delle prime et immate- riali
potenze; e con un greve sasso, per cui è atta et ef- ficace verso gli oggetti
delle seconde e materiali po- tenze. Là onde procede che l’affetto intiero del
furioso sia ancipite, diviso, travaglioso, e messo in fa- cilità de inchinare
più al basso, che di forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese
basso e nemico, et ottiene la regione lontana dal suo albergo più natu- rale,
dove le sue forze son più sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si
possa riparare? Letteratura italiana Einaudi 139 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori maricondo Molto bene; ma il principio è durissimo, e
secondo che si fa più e più fruttifero progresso di contemplazione, si doviene
a maggiore e maggior fa- cilità. Come avviene a chi vola in alto, che quanto
più s’estoglie da la terra, vien ad aver più aria sotto che lo sustenta, e conseguentemente
meno vien fastidito dal- la gravità; anzi tanto può volar alto, che senza
fatica de divider l’aria non può tornar al basso, quantunque giudicasi che più
facil sia divider l’aria profondo ver- so la terra, che alto verso l’altre
stelle. cesarino Tanto che col progresso in questo geno, s’acquista sempre
maggiore e maggiore facilità di montare in alto? maricondo Cossì è; onde ben
disse il Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi scorgo, più le veloci penne
al vento porgo: e spreggio il mondo, e verso il ciel m’invio. Come ogni parte
de corpi e detti elementi quanto più s’avvicina al suo luogo naturale, tanto
con maggior impeto e forza va, sin tanto che al fine (o voglia o non) bisogna
che vi pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle parti de corpi a gli proprii
corpi, cossì doviam giudicare de le cose intellettive verso gli pro- prii
oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente possete
comprendere il senso intiero signi- ficato per la figura, per il motto e per
gli carmi. cesarino Di sorte che quanto vi s’aggiongesse, tanto mi parrebe
soverchio. IX. cesarino Vedasi ora quel che vien presentato per quelle due
saette radianti sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit instans.
maricondo La guerra continua tra l’anima del furioso la qual gran tempo per la
maggior familiarità che avea Letteratura italiana Einaudi 140
Giordano Bruno - De gl’eroici furori con la materia, era più dura et
inetta ad esser penetra- ta da gli raggi del splendor della divina intelligenza
e spezie della divina bontade; per il qual spacio dice ch’il cor smaltato de
diamante, cioè l’affetto duro et inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha
fatto riparo a gli colpi d’amore che aportavano gli assalti da parti
innumerabili. Vuol dire non ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita
eterna de le quali parla la Canti- ca quando dice: «Vulnerasti cor meum, o
dilecta, vul- nerasti cor meum». Le quali piaghe non son di ferro, o d’altra
materia, per vigor e forza de nervi; ma son freccie de Diana o di Febo: cioè o
della dea de gli de- serti della contemplazione de la Veritade, cioè della
Diana che è l’ordine di seconde intelligenze che ri- portano il splender
ricevuto dalla prima, per comuni- carlo a gli altri che son privi de più aperta
visione; o pur del nume più principale Apollo, che con il pro- prio e non
improntato splendore manda le sue saette, cioè gli suoi raggi, da parti
innumerabili tali e tante che son tutte le specie delle cose, le quali son
indica- trici della divina bontà, intelligenza, beltade e sapien- za, secondo
diversi ordini dall’apprension dovenir fu- riosi amanti, percioché l’adamantino
suggetto non ripercuota dalla sua superficie il lume impresso: ma rammollato e
domato dal calore e lume, vegna a farsi tutto in sustanza luminoso, tutto luce,
con ciò che ve- gna penetrato entro l’affetto e concetto. Questo non è subito
nel principio della generazione quando l’anima di fresco esce ad esser
inebriata di Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e confusione: onde il
spirito vien più cattivato al corpo e messo in essercizio della vegeta- zione,
et a poco a poco si va digerendo per esser atto a gli atti della sensitiva
facultade, sin tanto che per la razionale e discorsiva vegna a più pura
intellettiva, onde può introdursi a la mente e non più sentirsi an- nubilata
per le fumositadi di quell’umore che per Letteratura italiana Einaudi 141
Giordano Bruno - De gl’eroici furori l’exercizio di contemplazione non
s’è putrefatto nel stomaco, ma è maturamente digesto. – Nella qual di-
sposizione il presente furioso mostra aver durato “sei lustri”, nel discorso de
quali non era venuto a quella purità di concetto che potesse farsi capace
abitazione delle specie peregrine, che offrendosi a tutte ugual- mente batteno
sempre alla porta de l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse parti et in
diverse volte l’avea assaltato come in vano (qualmente il sole in va- no se
dice lucere e scaldare a quelli che son nelle vi- scere de la terra et opaco
profondo), per essersi “ac- campato in quelle luci sante”, cioè per aver
mostrato per due specie intelligibili la divina bellezza, la quale con la
raggione di verità gli legò l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli
l’affetto, vennero superari gli “studi” materiali e sensitivi che altre volte
soleano come trionfare, rimanendo (a mal grado de l’eccellen- za de l’anima)
intatti; perché quelle luci che facea pre- sente l’intelletto agente
illuminatore e sole d’intelli- genza, ebbero “facile entrata” per le sue luci
(quella della verità per la porta de la potenza intellettiva, quella della
bontà per la porta della potenza appetiti- va) “al core”, cioè alla sustanza
del generale affetto. Questo fu “quel doppio strale che venne” come “da man de
guerriero irato”, cioè più pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo
innanzi s’era dimo- strato come più debole o negligente. Allora quando
primieramente fu sì scaldato et illuminato nel concet- to, fu quello vittorioso
punto e momento, per cui è detto: “Vicit instans”. Indi possete intendere il
senso della proposta figura, motto, et articolo che dice: Forte a i colpi
d’amor feci riparo quand’assalti da parti varie e tante soffers’il cor smaltato
di diamante; ond’i miei studi de suoi trionfare. Letteratura italiana Einaudi
142 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Al fin (come gli cieli
destinaro) un dì accampossi in quelle luci sante, che per le mie sole tra tutte
quante facil entrata al cor mio ritrovare. Indi mi s’avventò quel doppio
strale, che da man di guerrier irato venne, qual sei lustri assalir mi seppe
male: notò quel luogo, e forte vi si tenne, piantò ’l trofeo di me là d’onde
vale tener ristrette mie fugaci penne. Indi con più sollenne apparecchio, mai
cessano ferire mio cor, del mio dolce nemico l’ire. Singular instante fu il
termine del cominciamento e perfezzione della vittoria. Singulari gemine specie
fu- ron quelle, che sole tra tutte quante trovaro facile en- trata; atteso che
quelle contegnono in sé l’efficacia e virtù de tutte l’altre: atteso che qual
forma megliore e più eccellente può presentarsi che di quella bellezza, bontà e
verità, la quale è il fonte d’ogn’altra verità, bontà, beltade? “Notò quel
luogo”, prese possessione de l’affetto, rimarcollo, impressevi il carattere di
sé; “e forte vi si tenne”, e se l’ha confirmato, stabilito, sancito di sorte che
non possa più perderlo: percio- ché è impossibile che uno possa voltarsi ad
amar altra cosa quando una volta ha compreso nel concetto la bellezza divina.
Et è impossibile che possa far di non amarla, come è impossibile che
nell’appetito cada al- tro che bene o specie di bene. E però massimamente deve
convenire l’appetenzia del sommo bene. Cossì “ristrette” son le “penne” che
soleano esser “fugaci” concorrendo giù col pondo della materia. Cossì da là
“mai cessano ferire”, sollecitando l’affetto e risve- gliando il pensiero, le
“dolci ire”, che son gli efficaci assalti del grazioso nemico, già tanto tempo
ritenuto Letteratura italiana Einaudi 143 X. escluso, straniero e
peregrino. È ora unico et intiero possessore e disponitor de l’anima; perché
ella non vuole, né vuol volere altro; né gli piace, né vuol che gli piaccia
altro, onde sovente dica: Dolci ire, guerra dolce, dolci dardi, dolci mie
piaghe, miei dolci dolori. cesarino Non mi par che rimagna cosa da consi- derar
oltre in proposito di questo. Veggiamo ora que- sta faretra et arco d’amore,
come mostrano le faville che sono in circa, et il nodo del laccio che pende:
con il motto che è, Subito, clam. Giordano Bruno - De gl’eroici furori
maricondo Assai mi ricordo d’averlo veduto espresso ne l’articolo; però
leggiamolo prima: Avida di trovar bramato pasto, l’aquila vers’il ciel ispiega
l’ali, facend’accorti tutti gli animali, ch’al terzo volo s’apparecchia al
guasto. E del fiero leon ruggito vasto fa da l’alta spelunca orror mortali,
onde le belve presentando i mali fuggon a gli antri il famelico impasto. E ’l
ceto quando assalir vuol l’armento muto di Proteo da gli antri di Teti, pria fa
sentir quel spruzzo violento. Aquile ’n ciel, leoni in terr’e i ceti signor’ in
mar, non vanno a tradimento: ma gli assalti d’amor vegnon secreti. Lasso, que’
giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che femmi a lungo infortunato
amante. Tre sono le regioni de gli animanti composti de più elementi: la terra,
l’acqua, l’aria. Tre son gli geni de Letteratura italiana Einaudi 144
Giordano Bruno - De gl’eroici furori quelli: fiere, pesci et ucelli. In
tre specie sono gli prìn- cipi conceduti e definiti dalla natura: ne l’aria
l’aquila, ne la terra il leone, ne l’acqua il ceto: de quali ciascu- no come
dimostra più forza et imperio che gli altri, viene anco a far aperto atto di
magnanimità, o simile alla magnanimità. Percioché è osservato che il leone,
prima che esca a la caccia, manda un ruggito forte che fa rintonar tutta la
selva, come de l’erinnico cacciato- re nota il poetico detto: At saeva e
speculis tempus dea nacta nocendi, ardua testa petit, stabuli et de culmine
summo pastorale canit signum, cornuque recurvo tartaream intendit vocem, qua
protinus omne contremuit nemus, et silvae intonuere profundae. De l’aquila
ancora si sa che volendo procedere alla sua venazione, prima s’alza per dritto
dal nido per li- nea perpendicolare in alto, e quasi per l’ordinario la terza
volta si balza da alto con maggior impeto e pre- stezza che se volasse per
linea piana; onde dal tempo in cui cerca il vantaggio della velocità del volo,
pren- de anco comodità di specular da lungi la preda, della quale o despera o
si risolve dopo fatte tre remirate. cesarino Potremmo conietturare per qual
caggione, se alla prima si presentasse a gli occhi la preda, non viene subito a
lanciarsegli sopra? maricondo Non certo. Ma forse che ella sin tanto di-
stingue se si gli possa presentar megliore o più como- da preda. Oltre non
credo che ciò sia sempre, ma per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o
balena è cosa aperta che per essere un machinoso animale non può divider
l’acqui se non con far che la sua presenza sia presentita dal ributto de
l’onde: senza questo, che si trovano assai specie di questo pesce che con il
moto e respirar che fanno, egurgitano una ventosa tempesta Letteratura italiana
Einaudi 145 Giordano Bruno - De gl’eroici furori di spruzzo
acquoso. Da tutte dumque le tre specie de principi animali hanno facultà di
prender tempo di scampo gli animali inferiori: di sorte che non proce- dono
come subdoli e traditori. Ma l’Amor che è più forte e più grande, e che ha
domìno supremo in cielo, in terra et in mare, e che per similitudine di questi
forse derrebe mostrar tanto più eccellente magnani- mità quanto ha più forza,
niente di manco assalta e fe- re a l’improvisto e subito. Labitur totas furor
in medullas, igne furtivo populante venas, nec habet latam data plaga frontem;
sed vorat tectas penitus medullas, virginum ignoto ferit igne pectus. Come
vedete, questo tragico poeta lo chiama “furtivo fuoco”, “ignote fiamme”;
Salomone lo chiama “acqui furtive”, Samuele lo nomò “sibilo d’aura sottile”. Li
quali tre significano con qual dolcezza, lenità et astu- zia, in mare, in
terra, in cielo, viene costui a (come) ti- ranneggiar l’universo. cesarino Non
è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è meglior domino, non è
potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non si trova cibo che sia
più austero et amaro, non si vede nume più violento, non è dio più piacevole,
non agente più traditore e finto, non autor più regale e fidele, e (per
finirla) mi par che l’amor sia tutto, e faccia tutto; e de lui si possa dir
tutto, e tutto possa attribuirsi a lui. maricondo Voi dite molto bene. L’amor
dumque (come quello che opra massime per la vista, la quale è spiritua- lissimo
de tutti gli sensi, per che subito monta sin alli appresi margini del mondo, e
senza dilazion di tempo si porge a tutto l’orizonte della visibilità) viene ad
esser presto, furtivo, improvisto e subito. Oltre è da conside- Letteratura
italiana Einaudi 146 Giordano Bruno - De gl’eroici furori rare quel
che dicono gli antichi, che l’amor precede tut- ti gli altri dèi; però non fia
mestiero de fingere che Sa- turno gli mostre il camino, se non con seguitarlo.
Ap- presso, che bisogna cercar se l’amore appaia e facciasi prevedere di fuori,
se il suo alloggiamento è l’anima me- desima, il suo letto è l’istesso core, e
consiste nella me- desima composizione de nostra sustanza, nel medesimo appulso
de nostre potenze? Finalmente ogni cosa natu- ralmente appete il bello e buono,
e però non vi bisogna argumentare e discorrere perché l’affetto si informe e
conferme; ma subito et in uno instante l’appetito s’ag- gionge a l’appetibile,
come la vista al visibile. XI. cesarino Veggiamo appresso che voglia dir quella
ardente saetta circa la quale è avolto il motto: Cui nova plaga loco?.
Dechiarate che luogo cerca que- sta per ferire. maricondo Non bisogna far altro
che leggere l’artico- lo, che dice cossì: Che la bogliente Puglia o Libia mieta
tante spiche, et areste tante a i venti commetta, e mande tanti rai lucenti da
sua circonferenza il gran pianeta, quanti a gravi doler quest’alma lieta (che
sì triste si gode in dolci stenti) accoglie da due stelle strali ardenti, ogni
senso e raggion creder mi vieta. Che tenti più, dolce nemico, Amore? qual
studio a me ferir oltre ti muove, or ch’una piaga è fatto tutto il core? Poiché
né tu, né altro ha un punto, dove per stampar cosa nuova, o punga, o fóre,
volta volta sicur or l’arco altrove. Non perder qua tue prove, per che, o bel
dio, se non in vano, a torto oltre tenti amazzar colui ch’è morto. Letteratura
italiana Einaudi 147 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Tutto
questo senso è metaforico come gli altri, e può es- ser inteso per il
sentimento di quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e feriscono
il core significa gl’innumerabili individui e specie de cose, nelle quali ri-
luce il splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, et onde ne
scalda l’affetto del proposto et ap- preso bene. De quali l’un e l’altro per le
raggioni de po- tenzia et atto, de possibilità et effetto, e cruciano e con-
solano, e donano senso di dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto
intiero è tutto convertito a Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose
intelligibili la mente viene exaltata alla unità super essenziale, è tutta
amore, tutta una, non viene ad sentirsi sollecitata da diversi og- getti che la
distrahano: ma è una sola piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che
viene ad essere la sua me- desima affezzione. Allora non è amore o appetito di
co- sa particolare che possa sollecitare, né almeno farsi in- nanzi a la
voluntade, perché non è cosa più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che
la bellezza, non è più buono che la bontà, non si trova più grande che la gran-
dezza, né cosa più lucida che quella luce, la quale con la sua presenza oscura
e cassa gli lumi tutti. cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si
possa aggiongere: però la volontà non è capace d’al- tro appetito, quando
fiagli presente quello ch’è del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque
pos- so la conclusione, dove dice a l’amore: “Non perder qua tue prove; perché,
se non in vano, a torto” (si di- ce per certa similitudine e metafora) “tenti
ammazzar colui ch’è morto”. Cioè quello che non ha più vita né senso circa
altri oggetti, onde da quelli possa esser “punto” o “forato”; a che oltre viene
ad essere espo- sto ad altre specie? e questo lamento accade a colui che, avendo
gusto de l’optima unità, vorrebe essere al tutto exempto et abstratto dalla
moltitudine. maricondo Intendete molto bene. Letteratura italiana Einaudi
148 Giordano Bruno - De gl’eroici furori XII. cesarino Or ecco
appresso un fanciullo dentro un battello che sta ad ora ad ora per essere
assorbito, da l’onde tempestose, che languido e lasso ha aban- donati gli remi.
Et èvvi circa lo motto Fronti nulla fi- des. Non è dubio che questo significhe
che lui dal se- reno aspetto de l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il
quale a l’improviso avendo inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento,
e per impotenza di romper l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e
la speranza. Ma veggiamo il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la
pargoletta barca, e al remo frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei
repente accorto del tuo male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua,
ch’o troppo scend’o sale; né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e
gonfii flutti vale. Cedi gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la
morte aspetti, che per non la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun
soccorso amico, sentirai certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e
curiosi studi. Son gli miei fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore
sento il rigor del più gran traditore. In qual maniera e perché l’amore sia
traditore e frodu- lento l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il
seguente senza imagine e motto, credo che abbia con- seguenza con il presente;
però continuano leggendolo: Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da
studi più maturi, Letteratura italiana Einaudi 149 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori ero messo a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i
fati duri. Quei sì m’han fatto violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più
sicuri, in van per scampo man piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi
furi. Impotent’a suttrarmi, roco e lasso io cedo al mio destino, e non più
tento di far vani ripari a la mia morte: facciami pur d’ogni altra vita casso,
e non più tarde l’ultimo tormento, che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo
di mio mal forte è quel che si commese per trastullo al sen nemico, improvido
fanciullo. Qua non mi confido de intendere o determinar tutto quel che significa
il furioso: pure è molto espressa una strana condizione d’un animo dismesso
dall’appren- sion della difficultà de l’opra, grandezza della fatica, vastità
del lavoro da un canto; e da un altro, l’igno- ranza, privazion de l’arte,
debolezza de nervi, e peri- glio di morte. Non ha consiglio atto al negocio;
non si sa d’onde e dove debba voltarsi, non si mostra luogo di fuga o di
rifugio; essendo che da ogni parte minac- ciano l’onde de l’impeto spaventoso e
mortale. «Igno- ranti portum, nullus suus ventus est». Vede colui che molto e
pur troppo s’è commesso a cose fortuite, s’aver edificato la perturbazione, il
carcere, la ruina, la summersione. Vede come la fortuna si gioca di noi; la
qual ciò che ne mette con gentilezza in mano, o lo fa rompere facendolo versar
da le mani istesse, o fa che da l’altrui violenza ne sia tolto, o fa che ne
suffo- che et avvelene, o ne sollecita con la suspizione, timo- re e gelosia, a
gran danno e ruina del possessore. “Fortunae an ulla putatis dona carere
dolis?” Or, per- Letteratura italiana Einaudi 150 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori ché la fortezza che non può far esperienza di sé, è cas-
sa; la magnanimità che non può prevalere, è nulla, et è vano il studio senza
frutto; vede gli effetti del timore del male, il quale è peggio ch’il male
istesso: “Peior est morte timor ipse mortis”. Già col timore patisce tutto quel
che teme de patire, orror ne le membra, imbecil- lità ne gli nervi, tremor del
corpo, anxia del spirito; e si fa presente quel che non gli è sopragionto
ancora, et è certo peggiore che sopragiongere gli possa: che cosa più stolta
che dolere per cosa futura, absente, e la qual presente non si sente? Queste
son considera- zioni su la superficie e l’istoriale de la figura. Ma il
proposito del furioso eroico penso che verse circa l’imbecillità de l’ingegno
umano il quale attento a la divina impresa in un subito talvolta si trova
ingolfato nell’abisso della eccellenza incomprensibile, onde il senso et
imaginazione vien confusa et assorbita, che non sapendo passar avanti, né
tornar a dietro, né do- ve voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non
altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o un pic- ciol spirito
che s’attenua perdendo la propria sustan- za nell’aere spacioso et inmenso.
maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza, perché è notte. fine
del primo dialogo Letteratura italiana Einaudi mariconda Qua vedete un giogo
fiammeggiante et avolto de lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che
vuol significar come l’amor divino non aggreva, non trasporta il suo servo,
cattivo e schiavo al basso, al fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica
sopra qual- sivoglia libertade. cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo,
perché con più ordine, proprietà e brevità possiamo conside- rar il senso, se
pur in quello non si trova altro. mariconda Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor
la mente desta, chi fammi ogn’altra diva e vile e vana, in cui beltad’ e la
bontà sovrana unicamente più si manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la
foresta, cacciatrice di me la mia Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per
cui dissi ad Amor: «Mi rendo a questa»; et egli a me: «O fortunato amante, o
dal tuo fato gradito consorte: che colei sola che tra tante e tante, quai ha
nel grembo la vit’e la morte, più adorna il mondo con le grazie sante,
ottenesti per studio e per sorte, ne l’amorosa corte sì altamente felice
cattivo, che non invidii a sciolt’ altr’uomo o divo». Vedi quanto sia contento
sotto tal giogo, tal coniugio, tal soma che l’ha cattivato a quella che vedde
uscir da la foresta, dal deserto, da la selva; cioè da parti rimos- se dalla
moltitudine, dalla conversazione, dal volgo, le Letteratura italiana Einaudi
152 Giordano Bruno - De gl’eroici furori quali son lustrate da
pochi. Diana splendor di specie intelligibili, è cacciatrice di sé, perché con
la sua bel- lezza e grazia l’ha ferito prima, e se l’ha legato poi; e tienio
sotto il suo imperio più contento che mai altri- menti avesse potuto essere.
Questa dice “tra belle nimfe”, cioè tra la moltitudine d’altre specie, forme et
idee; e “su l’aura Campana”, cioè quello ingegno e spirito che si mostrò a
Nola, che giace al piano del orizonte campano. A quella si rese, quella più
ch’altra gli venne lodata da l’amore, che per lei vuol che si te- gna tanto fortunato,
come quella che, tra tutte quante si fanno presenti et absenti da gli occhi de
mortali, più altamente adorna il mondo, fa l’uomo glorioso e bello. Quindi dice
aver sì “desta la mente” ad eccel- lente amore, che apprende “ogni altra diva”,
cioè cu- ra et osservanza d’ogni altra specie, “vile e vana”. – Or in questo
che dice aver desta la mente ad amor al- to, ne porge essempio de magnificar
tanto alto il core per gli pensieri, studii et opre, quanto più possibil fia, e
non intrattenerci a cose basse e messe sotto la nostra facultade: come accade a
coloro che o per avarizia, o per negligenza, o pur altra dapocagine rimagnono
in questo breve spacio de vita attaccati a cose indegne. cesarino Bisogna che
siano arteggiani, meccanici, agricoltori, servitori, pedoni, ignobili, vili,
poveri, pe- danti et altri simili: perché altrimenti non potrebono essere
filosofi, contemplativi, coltori degli animi, pa- droni, capitani, nobili,
illustri, ricchi, sapienti, et altri che siano eroici simili a gli dèi. Però a che
doviamo forzarci di corrompere il stato della natura il quale ha distinto
l’universo in cose maggiori e minori, superio- ri et inferiori, illustri et
oscure, degne et indegne, non solo fuor di noi, ma et ancora dentro di noi,
nella no- stra sustanza medesima, sin a quella parte di sustanza che s’afferma
inmateriale? Come delle intelligenze al- tre son suggette, altre preminenti,
altre serveno et Letteratura italiana Einaudi 153 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori ubediscono, altre comandano e governano. Però io crederei
che questo non deve esser messo per essem- pio a fin che li sudditi volendo
essere superiori, e gl’ignobili uguali a gli nobili, non vegna a pervertirsi e
confondersi l’ordine delle cose, che al fine succeda certa neutralità e bestiale
equalità, quale si ritrova in certe deserte et inculte republiche. Non vedete
oltre in quanta iattura siano venute le scienze per questa caggione che gli
pedanti hanno voluto essere filosofi, trattar cose naturali, intromettersi a
determinar di co- se divine? Chi non vede quanto male è accaduto et accade per
averno simili fatte “ad alti amori le menti deste”? Chi ha buon senso, e non
vede del profitto che fe’ Aristotele, che era maestro de lettere umane ad
Alessandro, quando applicò alto il suo spirito a contrastare e muover guerra a
la dottrina pitagorica e quella de filosofi naturali, volendo con il suo
racioci- nio logicale ponere diffinizioni, nozioni, certe quinte entitadi et
altri parti et aborsi de fantastica cogitazio- ne per principio e sustanza di
cose, studioso più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più
in- caminata e guidata con sofismi et apparenze che si trovano nella superficie
delle cose, che della verità che è occolta nella sustanza di quelle, et è la
sustanza medesima loro? Fece egli la mente desta non a farsi contemplatore, ma
giudice e sentenziatore di cose che non avea studiate mai, né bene intese.
Cossì a’ tempi nostri quel tanto di buono ch’egli apporta e singolare di
raggione inventiva, iudicativa e di metafisica, per ministerio d’altri pedanti
che lavorano col medesimo “sursum corda”, vegnono instituite nove dialettiche e
modi di formar la raggione: tanto più vili di quello d’Aristotele quanto forse
la filosofia d’Aristotele è in- comparabilmente più vile di quella de gli
antichi. Il che è pure avvenuto da quel che certi grammatisti do- po che sono
invecchiati nelle culine de fanciulli e no- Letteratura italiana Einaudi
154 Giordano Bruno - De gl’eroici furori tomie de frasi e de
vocaboli, ban voluto destar la mente a far nuove logiche e metafisiche,
giudicando e sentenziando quelle che mai studiorno et ora non in- tendono: là
onde cossì questi col favore della ignoran- te moltitudine (al cui ingegno son
più conformi), po- tranno cossì bene donar il crollo alle umanitadi e
raziocinio d’Aristotele, come questo fu carnefice delle altrui divine
filosofie. Vedi dumque a che suol pro- movere questo consiglio, se tutti
aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese vili e vane. mariconda
Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat poeta; sed non dixerat
omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non dixit tibi. Tu puella non
es. Cossì il “sursum corda” non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali.
Veggiamo bene che mai la pe- dantaria è stata più in esaltazione per governare
il mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti camini de vere specie
intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile, quanti possano essere
individui pedanti. Però a questo tempo massime denno esser isvegliati gli ben
nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla divina intelligenza, di
prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su l’alta rocca et eminente
torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver ogni altra impresa per
vile e vana. Questi non denno in co- se leggieri e vane spendere il tempo, la
cui velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente precipitoso scorra il
presente, e con la medesima prestezza s’acco- ste il futuro. Quel che abbiamo
vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo a vivere non è
ancora un punto, ma può essere un punto, il Letteratura italiana Einaudi
155 Giordano Bruno - De gl’eroici furori quale insieme sarà e sarà
stato. E tra tanto questo s’in- tesse la memoria di genealogie, quello attende
a desci- ferar scritture, quell’altro sta occupato a moltiplicar sofismi da
fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno di: “Cor” est fons vite, “nix”
est alba: ergo “cornix” est fons vitae alba. Quell’altro garrisce se il nome fu
prima o il verbo, l’altro se il mare o gli fonti, l’altro vuol rinovare gli vo-
caboli absoleti che per esserno venuti una volta in uso e proposito d’un
scrittore antico, ora de nuovo le vuol far montar a gli astri; l’altro sta su
la falsa e vera orto- grafia, altri et altri sono sopra altre et altre simili
fra- scarie, le quali molto più degnamente son spreggiate che intese. Qua
diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono, qua arrugano la pelle, qua
allungano la barba, qua marciscono, qua poneno l’àncora del som- mo bene. Con questo
spreggiano la fortuna, con que- sto fan riparo e poneno il scudo contra le
lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi pensieri credeno mon- tar a gli
astri, esser pari a gli dei, e comprendere il bel- lo e buono che promette la
filosofia. cesarino È gran cosa certo che il tempo che non può bastarci manco
alle cose necessarie, quantunque dili- gentissimamente guardato, viene per la
maggior parte ad esser speso in cose superflue, anzi cose vili e vergo- gnose.
– Non è da ridere di quello che fa lodabile Ar- chimede o altro appresso
alcuni, che a tempo che la cittade andava sottosopra, tutto era in ruina, era
acce- so il fuoco ne la sua stanza, gli nemici gli erano dentro la camera a le
spalli, nella discrezzion et arbitrio de quali consisteva de fargli perdere
l’arte, il cervello e la vita; e lui tra tanto avea perso il senso e proposito
di Letteratura italiana Einaudi 156 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori salvar la vita, per averlo lasciato a dietro a perseguitar forse la
proporzione de la curva a la retta, del diame- tro al circolo o altre simili
matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne d’uno che (se posseva) de-
vrebbe essere invecchiato et attento a cose più degne d’esser messe per fine de
l’umano studio. mariconda In proposito di questo mi piace quello che voi
medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il mondo sia pieno de tutte sorte
de persone, e che il numero de gl’imperfetti, brutti, poveri, indegni e sce-
lerati sia maggiore: et in conclusione non debba esse- re altrimenti che come
è. La età lunga e vechiaia d’Ar- chimede, Euclide, di Prisciano, di Donato et
altri che da la morte son stati trovati occupati sopra li numeri, le linee, le
dizzioni, le concordanze, scritture, dialecti, sillogismi formali, metodi, modi
de scienze, organi et altre isagogie, è stata ordinata al servizio della gio-
ventù e de’ fanciulli, gli quali apprender possano e ri- cevere gli frutti
della matura età di quelli, come con- viene che siano mangiati da questi nella
lor verde etade: a fin che più adulti vegnano senza impedimen- to atti e pronti
a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del proposito che poco avanti ho
mosso: essendo in proposito di quei che fanno studio d’involar la fama e luogo
de gli antichi con far nove opre o peggiori, o non megliori de le già fatte, e
spendeno la vita su le considerazioni da mette- re avanti la lana di capra o
l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo de la vita studiano di farsi
esqui- siti in que’ studii che convegnono alla fanciullezza, e per la massima parte
il fanno senza proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è detto circa
quelli che non pos- sono né debbono ardire d’aver “ad alt’amor la mente desta”.
Venemo ora a considerare della volontaria cattività, e dell’ameno giogo sotto
l’imperio de la det- Letteratura italiana Einaudi 157 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori ta Diana: quel giogo, dico, senza il quale l’anima
è im- potente de rimontar a quella altezza da la qual cadìo, percioché la rende
più leggiera et agile; e gli lacci la fanno più ispedita e sciolta. cesarino
Discorrete dumque. mariconda Per cominciar, continuar e conchiudere con ordine,
considero che tutto quel che vive, in quel modo che vive, conviene che in
qualche maniera si nodrisca, si pasca. Però a la natura intellettuale non
quadra altra pastura che intellettuale, come al corpo non altra che corporale:
atteso che il nodrimento non si prende per altro fine eccetto perché vada in
sustan- za de chi si nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in spirito,
né il spirito si trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa quando la
materia che era sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma de
l’altro), cossì il spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte che
quello che era sogget- to a uno possa dovenire ad essere soggetto de l’altro.
cesarino Certo se l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio dove è la
fecondità della materia (come argumenta Iamblico), di sorte che quando ne si fa
presente un corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia vase d’un animo
gagliardo, fermo, pronto, eroico, e dire: «O anima grassa, o fecondo spirito, o
bello ingegno, o divina intelligenza, o men- te illustre, o benedetta ipostasi
da far un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs». Cossì un vecchio,
come appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser stimato de poco
sale, discorso e raggio- ne. Ma seguitate. mariconda Or l’esca de la mente
bisogna dire che sia quella sola che sempre da lei è bramata, cercata, ab-
bracciata, e volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui s’empie, s’appaga,
ha prò e dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo, in ogni
etade et in Letteratura italiana Einaudi 158 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori qualsivoglia stato che si trove l’uomo, sempre aspira, e per
cui suol spreggiar qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del
corpo, et aver in odio questa vita. Perché la verità è cosa incorporea; per-
ché nessuna, o sia fisica, o sia metafisica, o sia mate- matica, si trova nel
corpo; perché vedete che l’eterna essenza umana non è ne gl’individui li quali
nascono e muoiono. È la unità specifica (disse Platone) non la moltitudine
numerale che comporta la sustanza de le cose; però chiamò l’idea uno e molti,
stabile e mobi- le: perché come specie incorrottibile, è cosa intelligi- bile
et una, e come si communica alla materia et è sotto il moto e generazione, è
cosa sensibile e molti. In questo secondo modo ha più de non ente che di ente:
atteso che sempre è altro et altro, e corre eterno per la privazione; nel primo
modo è ente e vero. Ve- dete appresso che gli matematici hanno per concedu- to
che le vere figure non si trovano ne gli corpi natu- rali, né vi possono essere
per forza di natura né di arte. Sapete ancora che la verità de sustanze
soprana- turali è sopra la materia. – Conchiudesi dumque che a chi cerca il
vero, bisogna montar sopra la raggione de cose corporee. Oltre di ciò è da
considerare che tutto quel che si pasce, ha certa mente e memoria na- turale
del suo cibo, e sempre (massime quando fia più necessario) ha presente la
similitudine e specie di quello, tanto più altamente, quanto è più alto e glo-
rioso chi ambisce, e quello che si cerca. Da questo, che ogni cosa ha innata la
intelligenza de quelle cose che appartegnono alla conservazione de l’individuo
e specie, et oltre alla perfezion sua finale, depende la industria di cercare
il suo pasto per qualche specie di venazione. – Conviene dumque che l’anima
umana abbia il lume, l’ingegno e gl’instrumenti atti alla sua caccia. Qua
soccorre la contemplazione, qua viene in uso la logica, altissimo organo alla
venazione della Letteratura italiana Einaudi 159 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori verità, per distinguere, trovare e giudicare. Quindi si va
lustrando la selva de le cose naturali dove son tan- ti oggetti sotto l’ombra e
manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la verità suol aver gli
antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine, conchiusi de boscose,
ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne et eccellenti
maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza mag- giore, come
noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza e cura,
accioché dalla moltitu- dine e varietà de cacciatori (de quali altri son più
ex- quisiti et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica discuoperta.
Qua andò Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi nelle cose
naturali, che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso, raggioni, modi
et operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine, numero de misure,
e nu- mero de momento o pende, la verità e l’essere si tro- va in tutte le
cose. Qua andò Anaxagora et Empedo- cle che considerando che la omnipotente et
omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto minima che non
volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le raggioni, benché pro-
cedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa secondo raggion più
magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di suttrazzione non sa-
pendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza cani de dimostrazioni e
sillogismi; ma solamen- te si forzaro di profondare rimovendo, zappando,
isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati comprensibili e
secreti. Qua Platone anda- va como isvoltando, spastinando e piantando ripari:
perché le specie labili e fugaci rimanessero come nel- la rete, e trattenute da
le siepe de le definizioni, con- siderando le cose superiori essere
participativamen- te, e secondo similitudine speculare nelle cose Letteratura
italiana Einaudi 160 Giordano Bruno - De gl’eroici furori
inferiori, e queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la
verità essere ne l’une e l’altre se- condo certa analogia, ordine e scala,
nella quale sem- pre l’infimo de l’ordine superiore conviene con il su- premo
de l’ordine inferiore. E cossì si dava progresso dal infimo della natura al
supremo come dal male al bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al
puro atto, per gli mezzi. Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii
impressi di posser pervenire alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol
amenarsi a le cause. Benché egli per il più (massime che tutti gli altri
ch’hanno occupato il studio a questa venazio- ne) abbia smarrito il camino, per
non saper a pena distinguere de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in
alcune de le sette cercano la verità della natura in tutte le forme naturali
specifiche, nelle quali conside- rano l’essenza eterna e specifico sustantifico
perpe- tuator della sempiterna generazione e vicissitudine de le cose, che son
chiamate dèi conditori e fabrica- tori, sopra gli quali soprasiede la forma de
le forme, il fonte de la luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui
tutto è pieno de divinità, verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come
cosa inaccessibile, come oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile:
però a nessun pare possibile de vedere il sole, l’uni- versale Apolline e luce
absoluta per specie suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua
Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle co- se, la luce che è
nell’opacità della materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De
molti dumque, che per dette vie et altre assai discorreno in questa deserta
selva, pochissimi son quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono
contenti de cac- cia de fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte
non trova da comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani
piene di mosche. Rarissi- Letteratura italiana Einaudi 161 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori mi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal
destino di posser contemplar la Diana ignuda: e dovenir a ta- le che dalla
bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’
doi lumi del gemi- no splendor de divina bontà e bellezza, vegnano tra-
sformati in cervio, per quanto non siano più caccia- tori ma caccia. Perché il
fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella
fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator
doventi caccia; perché in tutte le altre spe- cie di venaggione che si fa de
cose particolari, il cac- ciatore viene a cattivare a sé l’altre cose,
assorbendo quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina
et universale viene talmente ad appren- dere che resta necessariamente ancora
compreso, as- sorbito, unito: onde da volgare, ordinario, civile e populare,
doviene selvatico come cervio, et incola del deserto; vive divamente sotto
quella procerità di selva, vive nelle stanze non artificiose di cavernosi
monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da
ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la divinità, alla quale
aspi- rando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar vita celeste,
dissero con una voce: «Ecce elongavi fu- giens, et mansi in solitudine». Cossì
gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al
volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal
carnal carcere della mate- ria; onde non più vegga come per forami e per fene-
stre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglia a ter- ra, è tutto occhio a
l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più
per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sen- si, come de diverse
rime fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de
tutti nu- meri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Mo- Letteratura
italiana Einaudi 162 Giordano Bruno - De gl’eroici furori nade,
vera essenza de l’essere de tutti; e se non la ve- de in sua essenza, in
absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua
imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa mo- nade che è
la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole
nella luna, me- diante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emi- sfero
delle sustanze intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso
ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensi-
bile, in cui influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo
che la unità è destinta nella gene- rata e generante, o producente e prodotta.
Cossì da voi medesimo potrete conchiudere il modo, la di- gnità, et il successo
più degno del cacciatore e de la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda
della Diana, a cui si rese, per cui si stima gradito consorte, e più felice
cattivo e suggiogato, che invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver
ch’altretanto, o ad altro divo che ne have in tal specie quale è impos- sibile
d’essere ottenuta da natura inferiore, e per conseguenza non è conveniente
d’essere desiata, né meno può cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso
quanto avete detto, e m’avete più che mediocremente satisfatto. Or è tem- po di
ritornar a casa. mariconda Bene. fine del secondo dialogo Letteratura italiana
Einaudi 163 Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO TERZO
interlocutori Liberio, Laodonio. liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il
furio- so, e trovandosi l’alma intermíttente da gli altri pen- sieri (cosa
mirabile), avvenne che (come fussero ani- mali e sustanze de distinte raggioni
e sensi) si parlassero insíeme il core e gli occhi: l’uno de l’altro lamentandosi
come quello che era principio di quel faticoso tormento che consumava l’alma.
laodonio Dite, se vi ricordate, le raggioni e le paroli. liberio Cominciò il
dialogo il core, il qual facendosi udir dal petto proruppe in questi accenti:
Prima proposta del core a gli occhi Come, occhi miei, sì forte mi tormenta quel
che da voi deriva ardente foco, ch’al mio mortal suggetto mai allenta di serbar
tal incendio, ch’ho per poco l’umor de l’Oceàn e di più lenta artica stella il
più gelato loco, perché ivi in punto si reprima il vampo, o al men mi si
prometta ombra di scampo? Voi mi féste cattivo d’una man che mi tiene, e non mi
vuole; per voi son entro al corpo, e fuor col sole, son principio de vita, e
non son vivo: non so quel che mi sia ch’appartegno a quest’alma, e non è mia.
laodonio Veramente l’intendere, il vedere, il conosce- re è quel che accende il
desio, e per conseguenza, per Letteratura italiana Einaudi 164
Giordano Bruno - De gl’eroici furori ministerio de gli occhi, vien
infiammato il core: e quanto a quelli fia presente più alto e degno oggetto,
tanto più forte è il foco e più vivaci son le fiamme. Or qual esser deve quella
specie per cui tanto si sente ac- ceso il core, che non spera che temprar possa
il suo ardore tanto più fredda quanto più lenta stella che sia conchiusa
nell’artico cerchio, né rallentar il vampo l’umor intiero de l’Occano? Quanta
deve essere l’ec- cellenza di quello oggetto che l’ha reso nemico de l’esser
suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal ribellione e nemicicia,
quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole? Ma fatemi
udire se gli occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per il
contrario si lagnavano del core, come quello che era principio e caggione per
cui ver- sassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo
tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o
core, da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e
muore? A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo
fore, che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi
Egitto inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a
questo picciol mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le convertiste
in sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa, el violento
dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime da gli
occhi, onde come quelli accendono le Letteratura italiana Einaudi 165
Giordano Bruno - De gl’eroici furori fiamme in questo, quest’altro viene
a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte exaggerazione per cui
dicono che le Nereidi non alzano tanto bagna- ta fronte a l’oriente sole,
quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi all’Oceano, non
perché versino, ma perché versar possano questi doi fonti, fiumi tali e tanti,
che computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava distinta in sette
canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione e di quella
potenza priva de l’atto; perché tutto inten- derete dopo intesa la conchiusione
de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla propo- sta de
gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima risposta del core
a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro non son io che
fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio per mio incendio
il ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma l’effetto contrario
in voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se non umor, ma è mia
sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente incendio derivi el doppio
varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli elementi suoi, come tal
volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista? Vede come non possea persuadersi
il core di posser da contraria causa e principio procedere forza di con- trario
effetto, sin a questo che non vuol affirmare il Letteratura italiana Einaudi
166 Giordano Bruno - De gl’eroici furori modo possibile, quando per
via d’antiperistasi, che si- gnifica il vigor che acquista il contrario da quel
che fuggendo l’altro viene ad unirsi, inspessarsi, inglobar- si e concentrarsi
verso l’individuo della sua virtude, la qual quanto più s’allontana dalle
dimensioni, tanto si rende efficace di vantaggio. laodonio Dite ora come gli
occhi risposero al core. liberio Prima risposta de gli occhi al core Ahi, cor,
tua passion sì ti confonde, ch’hai smarito il sentier di tutt’il vero. Quanto
si vede in noi, quanto s’asconde, è semenza de mari, onde l’intero Nettun potrà
ricovrar non altronde, se per sorte perdesse il grand’impero; come da noi
deriva fiamma ardente, che siam del mare il gemino parente? Sei sì privo di
senso, che per noi credi la fiamma trapasse, e tant’umide porte a dietro lasse,
per far sentir a te l’arder immenso? Come splender per vetri, crederai forse
che per noi penétri? Qua non voglio filosofare circa la coincidenza de
contrarii, de la quale ho studiato nel libro De princi- pio et uno; e voglio
supponere quello che comun- mente si suppone, che gli contraria nel medesimo
ge- no son distantissimi, onde vegna più facilmente appreso il sentimento di
questa risposta, dove gli oc- chi si dicono semi o fonti, nella virtual potenza
de quali è il mare: di sorte che se Nettuno perdesse tutte l’acqui, le potrebbe
richiamar in atto dalla potenza loro, dove sono come in principio agente e
materiale. Letteratura italiana Einaudi 167 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori Però non metteno urgente necessità quando dicono non posser
essere che la fiamma per la lor stanza e cortile trapasse al core con lasciarsi
tant’acqui a die- tro, per due caggioni: prima perché tal impedimento in atto
non può essere se non posti in atto tali oltrag- giosi ripari; secondo perché
per quanto l’acqui sono attualmente ne gli occhi, possono donar via al calore
come alla luce: essendo che l’esperienza dimostra che senza scaldar il specchio
viene il luminoso raggio ad accendere per via di reflessione qualche materia
che gli vegna opposta; e per un vetro, cristallo, o altro va- se pieno d’acqua,
passa il raggio ad accendere una cosa sottoposta senza che scalde il spesso
corpo tra- mezzante: come è verisimile et anco vero che caggio- ne secche et
aduste impressioni nelle concavitadi del profondo mare. Talmente per certa
similitudine, se non per raggioni di medesimo geno, si può conside- rare come
fia possibile che per il senso lubrico et oscuro de gli occhi possa esser
scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la quale secondo medesima rag-
gione non può essere nel mezzo. Come la luce del so- le secondo altra raggione
è nell’aria tramezzante, al- tra nel senso vicino, et altra nel senso commune,
et altra ne l’intelletto: quantunque da un modo proceda l’altro modo di essere.
laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì, perché l’uno e l’altro tentano di
saper con qual modo quello contegna tante fiamme, e quelli tante acqui. Fa
dumque il core la seconda proposta: Seconda proposta del core S’al mar spumoso
fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il cieco varco vien impregnato, ond’è
che da voi lumi non è doppio torrente al mondo scarco Letteratura italiana
Einaudi 168 Giordano Bruno - De gl’eroici furori che cresca il
regno a gli marini numi, scemando ad altri il glorioso incarco? Perché non fia
che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa Deucalion ritorno? Dove gli rivi
sparsi? Dove il torrente che mia fiamma smorze, o per ciò non posser più la
rinforze? Goccia non scende a terra ad inglobarsi, per cui fia ch’io non pensi
che sia cossì, come mostrano i sensi? Dimanda qual potenza è questa che non si
pone in at- to; se tante son l’acqui, perché Nettuno non viene a tiranneggiar
su l’imperio de gli altri elementi? Ove son gli inondanti rivi? Ove chi dia
refrigerio al fuoco ardente? Dove è una stilla onde io possa affirmar de gli
occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma gli occhi di pari fanno un’altra
dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core Se la materia convertita in foco
acquista il moto di lieve elemento, e se ne sale a l’eminente loco, onde avvien
che veloce più che vento, tu ch’incendio d’amor senti non poco, non ti fai
gionto al sole in un momento? per che soggiorni peregrino al basso, non
t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla non si scorge uscir a l’aria
aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o adusto, né lacrimoso fumo ad
alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di fiamma è raggion, sens’, o
pensiero. Letteratura italiana Einaudi 169 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori laodonio Non ha più né meno efficacia questa che quell’altra
proposta: ma vengasi presto alle risposte, se vi sono. liberio Vi son
certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta del core a gli occhi
Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et oltre a la raggion non
crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito incendio non si vede,
perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito l’altro non eccede:
la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a tanta sfera.
Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far possa aperto
o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e l’altro ascoso
mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è molto ben
trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se stante che
dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna che cesse
l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può resistere quanto
quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar questa. Se dumque
è infinito il mare et in- mensa la forza de le lacrime che sono ne gli occhi,
non faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando l’impeto del fuoco
ascoso nel petto; né quelli mandar potranno il gemino torrente al mare, se con
altretanto di vigore gli fa riparo il core: però acca- de che il bel nume per
apparenza di lacrima che stile Letteratura italiana Einaudi 170
Giordano Bruno - De gl’eroici furori da gli occhi, o favilla che si
spicche dal petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a l’alma afflitta.
[liberio] Or notate la conseguente risposta de gli oc- chi: Seconda risposta de
gli occhi al core Ahi per versar a l’elemento ondoso, l’émpito de noi fonti al
tutt’è casso; che contraria potenza il tien ascoso, acciò non mande a rotilon
per basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur tropp’alti fiumi niega il
passo; quindi gemino varco al mar non corre, ch’il coperto terren natura
aborre. Or dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi con altretanto vigor:
chi fia giamai che porte il vanto d’esser precon di sì ’nfelice amore, s’il tuo
e nostro male quant’è più grande, men mostrarsi vale? Per essere infinito l’un
e l’altro male, come doi ugual- mente vigorosi contraria si ritegnono, si
supprimeno; e non potrebbe esser cossì, se l’uno e l’altro fosse fini- to,
atteso che non si dà equalità puntuale nelle cose naturali, né ancora sarebbe
cossì se l’uno fusse finito e l’altro infinito: ma certo questo assorbirebbe
quello, et avverrebe che si mostrarebbono ambi doi, o al men l’uno per l’altro.
Sotto queste sentenze la filosofia na- turale et etica che vi sta occolta,
lascio cercarla, consi- derarla e comprenderla a chi vuole e puote. Sol que-
sto non voglio lasciare, che non senza raggione l’affezzion del core è detta
infinito mare dall’appren- sion de gli occhi: perché essendo infinito l’oggetto
de la mente, et a l’intelletto non essendo definito oggetto Letteratura
italiana Einaudi 171 Giordano Bruno - De gl’eroici furori proposto,
non può essere la volontarie appagata de fi- nito bene; ma se oltre a quello si
ritrova altro, il bra- ma, il cerca, perché (come è detto commune) il sum- mo
della specie inferiore è infimo e principio della specie superiore, o si
prendano gli gradi secondo le forme le quali non possiamo stimar che siano
infinite, o secondo gli modi e raggioni di quelle, nella qual ma- niera per
essere infinito il sommo bene, infinitamente credemo che si comunica secondo la
condizione delle cose alle quali si diffonde: però non è specie definita a
l’universo (parlo secondo la figura e mole), non è spe- cie definita a
l’intelletto, non è definita la specie de l’affetto. laodonio Dumque queste due
potenze de l’anima mai sono, né essere possono perfette per l’oggetto, se infi-
nitamente si riferiscono a quello. liberio Cossì sarrebe se questo infinito
fusse per pri- vazion negativa o negazion privativa de fine, come è per più
positiva affirmazione de fine infinito et inter- minato. laodonio Volete dir
dumque due specie d’infinità: l’una privativa la qual può essere verso qualche
cosa che è potenza, come infinite son le tenebre, il fine del- le quali è
posizione di luce; l’altra perfettiva la quale è circa l’atto e perfezzione,
come infinita è la luce, il fi- ne della quale sarebbe privazione e tenebre. In
questo dumque che l’intelletto concepe la luce, il bene, il bel- lo, per quanto
s’estende l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del nettare divino
e de la fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase proprio; si vede che
la luce è oltre la circonferenza del suo ori- zonte dove può andar sempre più e
più penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è infinitamente fe- condo,
onde possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio] Da qua non séguita
imperfezzione nell’oggetto né poca satisfazzione nella potenza; ma che la
potenza Letteratura italiana Einaudi 172 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori sia compresa da l’oggetto e beatificamente assorbita da
quello. Qua gli occhi imprimeno nel core, cioè nell’intelligenza, suscitano
nella volontà un infinito tormento di suave amore, dove non è pena, perché non
s’abbia quel che si desidera: ma è felicità, perché sempre vi si trova quel che
si cerca; et in tanto non vi è sazietà, per quanto sempre s’abbia appetito, e
per conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi del corpo il quale con la
sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che guste, né dopo ch’ha
gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo termine e fi- ne, viene
ad aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa similitudine qualmente il
sommo bene deve es- sere infinito, e l’appulso de l’affetto verso e circa
quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna tal- volta a non esser bene:
come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno. Ecco
come l’umor de l’Oceano non estingue quel vampo, et il rigor de l’Artico
cerchio non tempra quell’ardo- re. Cossì è cattivo d’una mano che il tiene e
non lo vuole: il tiene perché l’ha per suo, non lo vuole per- ché (come lo
fuggesse) tanto più se gli fa alto quanto più ascende a quella, quanto più la
séguita tanto più se gli mostra lontana per raggion de eminentissima
eccellenza, secondo quel detto: «Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur
Deus». – Cotal felicità d’affetto comincia da questa vita, et in questo stato
ha il suo modo d’essere: onde può dire il core d’essere entro con il corpo, e fuori
col sole, in quanto che l’anima con la gemina facultade mette in esecuzione doi
uffi- ci: l’uno de vivificare et attuare il corpo animabile, l’altro de
contemplare le cose superiori; perché cossì lei è in potenza receptiva da
sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva. Il corpo è come morto e
cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e perfezzio- ne; e l’anima è come
morta e cosa privativa alla supe- Letteratura italiana Einaudi 173
Giordano Bruno - De gl’eroici furori riore illuminatrice intelligenza da
cui l’intelletto è re- so in abito e formato in atto. Quindi si dice il core
es- sere prencipe de vita, e non esser vivo; si dice appar- tenere a l’alma
animante, e quella non appartenergli: perché è infocato da l’amor divino, è
convertito final- mente in fuoco, che può accendere quello che si gli avicina:
atteso che avendo contratta in sé la divinita- de, è fatto divo, e
conseguentemente con la sua specie può innamorar altri: come nella luna può
essere ad- mirato e magnificato il splendor del sole. Per quel poi
ch’appartiene al considerar de gli occhi, sapete che nel presente discorso
hanno doi ufficii: l’uno de im- primere nel core, l’altro de ricevere
l’impressione dal core; come anco questo ha doi ufficii: l’uno de riceve- re
l’impressioni da gli occhi, l’altro di imprimere in quelli. Gli occhi
apprendono le specie e le proponeno al core, il core le brama et il suo bramare
presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce, la diffondano, et accendono il
fuoco in questo; questo scaldato et acce- so invia il suo umore a quelli,
perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione muove l’affetto, et
appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando moveno sono asciutti,
perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore; quando poi son mossi, son
turbati et alterati; perché fanno ufficio de studio- so executore: atteso che
con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e buono, poi la voluntà
l’appeti- sce, et appresso l’intelletto industrioso lo procura, sé- guita e
cerca. Gli occhi lacrimosi significano la diffi- cultà de la separazione della
cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge
come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre cerca: atteso che la
felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per
il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo
et alla bevanda, e non con es- Letteratura italiana Einaudi 174
Giordano Bruno - De gl’eroici furori ser satolli e senza desio de quelli.
Indi, hanno la sa- zietà come in moto et apprensione, non come in quie- te e
comprensione, non son satolli senza appetito, né sono appetenti senza essere in
certa maniera satolli. laodonio liberio laodonio Esuries satiata satietas
esuriens. Cossì a punto. Da qua posso intendere come senza biasimo ma con gran
verità et intelletto è stato detto che il di- vino amore piange con gemiti
inenarrabili, perché con questo che ha tutto ama tutto, e con questo che ama
tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte glose se volessimo in- tendere de
l’amor divino che è la istessa deità; e facil- mente s’intende de l’amor divino
per quanto si trova ne gli effetti e nella subalternata natura; non (dico)
quello che dalla divinità si diffonde alle cose: ma quello delle cose che
aspira alla divinità. laodonio Or di questo et altro raggionaremo a più ag- gio
appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo Letteratura italiana Einaudi
175 Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUARTO
interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete dumque la raggione de nove
ciechi, li quali apportano nove principii e cause particolari de sua cecità,
benché tutti convegnano in una causa generale d’un comun furore. minutolo
Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché per natura sia cie-
co, nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può
persuadersi la natura esser stata più discortese a essi che a lui; stante che
quantunque non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti della
dignità del senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti orbi: ma
egli è venuto come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar quello
che mai vedde. minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama. severino
Essi (dice egli) aver pur questa felicità de ri- tener quella imagine divina
nel conspetto de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure in
fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua
guida, pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre
orrido spet- tacolo del sdegno di natura. Dice dumque: Parla [il] primo cieco
Felici che talvolta visto avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che
dei lumi conoscete. Questi accesi non furo, né son spenti; Letteratura italiana
Einaudi 176 Giordano Bruno - De gl’eroici furori però più grieve
mal che non credete è il mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse
torva la natura più a voi ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce,
conducime, se vòi darmi contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad
esser visto, e non veder la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di
terra inutil pondo. Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la
gelosia, è venuto infetto nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la
gelosia per scorta: priega al- cun de circonstanti che se non è rimedio del suo
ma- le, faccia per pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo
cossì lui occolto a se medesimo, co- me se gli è fatta occolta la sua luce: con
sepelir lui col proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la
tremenda chioma ha svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì
crudament’il spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de
sua guida l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar
mi fa per ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né
sacra pianta, né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi
sia (per dio) piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio
mal tosto sepolto. Letteratura italiana Einaudi 177 Giordano Bruno
- De gl’eroici furori Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per
essere repentinamente promosso dalle tenebre a ve- der una gran luce; atteso
che essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli
avan- ti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli
è stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a
l’alma (perché gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’ac- cader
suole a un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga
gli occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a
l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso.
Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a
un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde
lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a
l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar
ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti?
perché ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare
sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il
quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si
mostra il primo: perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì
questo con spesso e frequente remi- rare, o pur per avervi troppo fissati gli
occhi, ha per- Letteratura italiana Einaudi 178 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori so il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per
conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha oc- cecato; e dice il simile
del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che
coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli
strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde
il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura.
minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più
difficili e grandi, non sogliono sen- tir fastidio dalle difficultadi minori. E
costui non deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si
dice volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come
l’attedia col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in
questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per
qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un og- getto
principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco
Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento
de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento
alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento:
or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose.
Priegovi, da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e
se si scende o sale: Letteratura italiana Einaudi 179 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori perché non caggian queste misere osse in luogo cavo
e basso, mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il
molto lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può
stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente
per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta
vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma
abituale, et al tutto privativa; per- ché il fuoco luminoso che accende l’alma
nella pupil- la, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et
oppresso dal contrario umore: de manie- ra che quantunque cessasse il
lacrimare, non si per- suade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et
udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare:
Parla il quinto cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che
del raggio visuale la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e
vegna tale, che possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce
male? Lasso: credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa
e vinta. Fate passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon
gli altri tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo
lo rende ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Letteratura italiana Einaudi
180 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Il sesto orbo è cieco,
perché per il soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto
umore, fin al ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale
era transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che
talmente fu com- punto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de
tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta
l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato
per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto conse- quentemente senza
vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli
circonstan- ti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi;
fonti, non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il
spirto e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a
l’alma conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso
speco vo menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi
pronto andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio
pianto m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio
datemi il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal in- tenso
vampo che procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso
a leccar tutto il ri- manente umore de la sustanza de l’amante, de manie- ra
che tutto incinerito e messo in fiamma non è più Letteratura italiana Einaudi
181 Giordano Bruno - De gl’eroici furori lui: perché dal fuoco la
cui virtù è de dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in
polve non compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi
se inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è
privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol
farsi dar largo da passare: ché se qual- ch’uno venesse tócco da le fiamme sue,
dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa
calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà
che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì
prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando
ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non
compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male
avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se
contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de
l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta
che Amore gli ha fatto penetrare da gli oc- chi al core. Onde si lagna non
solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quan-
to non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facil- mente espresso in
questa sentenza: Letteratura italiana Einaudi 182 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma,
punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma,
stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor,
legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia
piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e
dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come
e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra
oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor
muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe
senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa.
Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per
esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida
del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal
spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e
grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il
vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo
tormento. Aprite, aprite il passo, Letteratura italiana Einaudi 183
Giordano Bruno - De gl’eroici furori siate benigni a questo vacuo volto
de tristi impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va
picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate
nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino
oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima,
allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per
quanto comporta il gra- do in cui si trova, in quello aspira per certo più alto
che apprender possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo
certificarci de stato più eccellente che con- viene a l’anima fuor di questo
corpo in cui gli fia pos- sibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo
og- getto. severino Dici molto bene che nessuna potenza et ap- pulso naturale è
senza gran raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose:
per tanto è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo
umano (qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa
apparire in questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa re-
gione, perché aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello
che viene a proposito e pro- fitto della sua specie. La seconda, figurata per
il secondo cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito
de l’amore è la gelosia, la quale è come tarlo che ha me- desimo suggetto,
nemico e padre, cioè che rode il panno o legno di cui è generato. Letteratura
italiana Einaudi 184 Giordano Bruno - De gl’eroici furori minutolo
Questa non mi par ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo
medesima raggione che vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra
raggio- ne proporzionale a quella la quale accade in color che amano la verità
e bontà; e si mostra quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono
adulterare, guastare, corrompere, o che in altro modo indegnamente voglio- no
trattarla: come son trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle
pene et esser ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette
volgari. minutolo Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia
iracondo contra la moltitudine: co- me nessuno volgarmente ama, che non sia
geloso e ti- mido per la cosa amata. severino E con questo vien ad esser cieco
in molte co- se veramente, et affatto affatto secondo l’opinion commune è
stolto e pazzo. minutolo Ho notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti
quelli che hanno senso fuor et estravagante dal senso universale de gli altri
uomini; ma cotal estravaganza è di due maniere, secondo che si va estra o con
ascender più alto che tutti e la maggior parte sa- gliano o salir possano: e
questi son gli inspirati de di- vino furore; o con descendere più basso dove si
trova- no coloro che hanno difetto di senso e di raggione più che aver possano
gli molti, gli più, e gli ordinaria: et in cotal specie di pazzia, insensazione
e cecità non si trovarà eroico geloso. severino Quantumque gli vegna detto che
le molte lettere lo fanno pazzo, non gli si può dire ingiuria da dovero. La
terza, figurata nel terzo cieco, procede da che la divina verità, secondo
raggione sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a que’ pochi alli quali
si mo- Letteratura italiana Einaudi 185 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori stra, non proviene con misura di moto e tempo, come accade
nelle scienze fisiche (cioè quelle che s’acqui- stano per lume naturale, le
quali discorrendo da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedono
alla notizia d’altra cosa ignota: il qual discorso è chia- mato argumentazione),
ma subito e repentinamente secondo il modo che conviene a tale efficiente. Onde
disse un divino: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum». Onde non
è richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et atto d’inquisizione per
averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come propor- zionalmente il lume
solare senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se gli apre. minutolo
Volete dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti a questa luce che
gli quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in certo modo sì. Non
è differenza quando la divina mente per sua provi- denza viene a comunicarsi
senza disposizione del sug- getto: voglio dire quando si communica, perché ella
cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quan- do aspetta e vuol esser
cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare. In questo modo
non appare a tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano. Onde è
detto: «Qui quaerunt me invenient me»; et in altro loco: «Qui sitit, veniat, et
bibat». minutolo Non si può negare che l’apprensione del secondo modo si faccia
in tempo. severino Voi non distinguete tra la disposizione alla divina luce, e
la apprensione di quella. Certo non nie- go che al disporsi bisogna tempo,
discorso, studio e fatica: ma come diciamo che la alterazione si fa in tempo, e
la generazione in instante; e come veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre,
et il sole entra in un momento: cossì accade proporzionalmente al pro- posito.
Letteratura italiana Einaudi 186 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori La quarta, significata nel seguente, non è veramente indegna, come
quella che proviene dalla consuetudi- ne di credere a false opinioni del volgo
il quale è mol- to rimosso dalle opinioni de filosofi: opur deriva dal studio
de filosofie volgari le quali son dalla moltitudi- ne tanto più stimate vere,
quanto più accostano al senso commune. E questa consuetudine è uno de
grandissimi e fortissimi inconvenienti che trovar si possano: perché (come
exemplificò Alcazele et Aver- roe) similmente accade a essi, che come a color
che da puerizia e gioventù sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a
tale, che se gli è convertito in sua- ve e proprio nutrimento; e per il
contrario abominano le cose veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma
è dignissima, perché è fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la
qual consuetu- dine non può venir in uso alla moltitudine come è detto). Questa
cecità è eroica, et è tale, per quale de- gnamente contentare si possa il
presente furioso cie- co, il qual tanto manca che si cure di quella, che viene
veramente a spreggiare ogni altro vedere, e da la co- munità non vorrebe
impetrar altro che libero passa- gio e progresso di contemplazione: come per
ordina- rio suole patir insidie, e se gli sogliono opporre intoppi mortali. La
quinta, significata nel quinto, procede dalla im- proporzionalità delli mezzi
de nostra cognizione al cognoscibile; essendo che per contemplar le cose di-
vine, bisogna aprir gli occhi per mezzo de figure, si- militudini et altre
raggioni che gli Peripatetici com- prendono sotto il nome de fantasmi; o per
mezzo de l’essere procedere alla speculazion de l’essenza: per via de gli
effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi tanto manca che vagliano per
l’assecuzion di cotal fi- ne, che più tosto è da credere che siano impedimenti,
Letteratura italiana Einaudi 187 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori se credere vogliamo che la più alta e profonda cogni- zion de cose
divine sia per negazione e non per affir- mazione, conoscendo che la divina
beltà e bontà non sia quello che può cader e cade sotto il nostro concet- to:
ma quello che è oltre et oltre incomprensibile; massime in questo stato detto
“speculator de fanta- smi” dal filosofo, e dal teologo “vision per similitudi-
ne speculare et enigma”; perché veggiamo non gli ef- fetti veramente, e le vere
specie de le cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri
de quelle, come color che son dentro l’antro et hanno da natività le spalli volte
da l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedeno quel che
è veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l’antro su- stanzialmente si trova.
– Però per la aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa, un
spirito simile o meglior di quel di Platone piange desiderando l’exi- to da
l’antro, onde non per riflessione, ma per “imme- diata conversione” possa
riveder sua luce. minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà
che procede dalla vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra
la potenza visi- va e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano
distinti nella cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però
concorrenti in uno nella cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi
aver inteso e letto che in ogni visione si richiede il mezzo over intermedio
tra la potenza et oggetto. Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e
la similitudine della cosa che in certa maniera procede da quel che è visto a
quel che vede, si mette in effetto l’atto del vedere: cossì nella regione
intellet- tuale dove splende il sole dell’intelletto agente me- diante la
specie intelligibile formata e come proce- dente da l’oggetto, viene a
comprendere de la divinità Letteratura italiana Einaudi 188
Giordano Bruno - De gl’eroici furori l’intelletto nostro o altro
inferiore a quella. Perché co- me l’occhio nostro (quando veggiamo) non riceve
la luce del foco et oro in sustanza, ma in similitudine: cossì l’intelletto in
qualunque stato che si trove, non riceve sustanzialmente la divinità, onde
sieno sostan- zialmente tanti dèi quante sono intelligenze, ma in si-
militudine; per cui non formalmente son dèi, ma de- nominativamente divini,
rimanendo la divinità e divina bellezza una et exaltata sopra le cose tutte.
severino Voi dite bene; ma per vostro dire bene non è mistiero ch’io mi
ritratte, perché non ho detto il contrario: ma bisogna che io dechiare et
expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta da noi et intesa,
non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelligibile, né quella che è
la luce; ma quel- la che è proporzionale alla spessezza e densità del dia-
fano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come aviene a colui che vede per
mezzo de le acqui più e meno turbide, o aria nimboso e nebbioso; il quale
s’intenderebbe veder come senza mezzo quando gli venesse concesso de mirar per
l’aria puro, lucido e terso. Il che tutto avete come esplicato dove si dice:
“Spicche fuor di tanti e sì densi ripari”. Ma ritornia- mo al nostro
principale. La sesta, significata nel sequente, non è altrimenti caggionata che
dalla imbecillità et insubsistenza del corpo, il quale è in continuo moto,
mutazione et alte- razione; e le operazioni del quale bisogna che seguiti- no
la condizione della sua facultà, la quale è conse- quente dalla condizione
della natura et essere. Come volete voi che la immobilità, la sussistenza, la
entità, la verità sia compresa da quello che è sempre altro et al- tro, e
sempre fa et è fatto altri et altrimenti? Che ve- rità, che ritratto può star
depinto et impresso dove le pupille de gli occhi si dispergono in acqui,
l’acqui in Letteratura italiana Einaudi 189 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori vapore, il vapore in fiamma, la fiamma in aura, e que- sta in
altro et altro, senza fine discorrendo il suggetto del senso e cognizione per
la ruota delle mutazioni in infinito? minutolo Il moto è alterità, quel che si
muove sempre è altro et altro, quel che è tale, sempre altri et altri- mente si
porta et opra, per che il concetto et affetto séguita la raggione e condizione
del suggetto. E quel- lo che altro et altro, altri et altrimenti mira, bisogna
necessariamente che sia a fatto cieco al riguardo di quella bellezza che è
sempre una et unicamente, et è l’istessa unità et entità, identità. severino
Cossì è. La settima, contenuta allegoricamente nel sentimento del settimo
cieco, deriva dal fuoco dell’affezzione, on- de alcuni si fanno impotenti et
inabili ad apprendere il vero, con far che l’affetto precorra a l’intelletto.
Questi son coloro che prima hanno l’amare che l’in- tendere: onde gli avviene
che tutte le cose gli appaia- no secondo il colore della sua affezzione; stante
che chi vuole apprendere il vero per via di contemplazio- ne deve essere
ripurgatissimo nel pensiero. minutolo In verità si vede che sì come è diversità
de contemplatori et inquisitori per quel che altri (secon- do gli abiti de loro
prime e fondamentali discipline) procedeno per via de numeri, altri per via de
figure, altri per via de ordini o disordini, altri per via di com- posizione e
divisione, altri per via di separazione e congregazione, altri per via de
inquisizion e dubita- zione, altri per via de discorso e definizione, altri per
via de interpretazioni e desciferazion de voci, vocabo- li e dialecti: onde
altri son filosofi matematici, altri metafisici, altri logici, altri
grammatici; cossì è diver- sità de contemplatori che con diverse affezzioni si
metteno ad studiare et applicar l’intenzione alle sen- Letteratura italiana
Einaudi 190 Giordano Bruno - De gl’eroici furori tenze scritte:
onde si doviene sin a questo che medesi- ma luce di verità espressa in un
medesimo libro per medesime paroli, viene a servire al proposito di sette tanto
numerose, diverse e contrarie. severino Per questo è da dire che gli affetti
molto so- no potenti per impedir l’apprension del vero, quan- tumque gli
pazienti non se ne possano accorrere: qualmente aviene ad un stupido ammalato
che non dice il suo gusto amaricato, ma il cibo amaro. – Or tal specie de
cecità è notata per costui, gli occhi del qua- le son alterati e privi dal suo
naturale, per quel che dal core è stato inviato et impresso, potente non solo
ad alterar il senso, ma et oltre l’altre tutte facultadi de l’alma, come la
presente figura dimostra. Al significato per l’ottavo, cossì l’eccellente
intelligi- bile oggetto have occecato l’intelletto, come l’eccel- lente
sopraposto sensibile a costui ha corrotto il sen- so. Cossì avviene a chi vede
Giove in maestà, che perde la vita, e per conseguenza perde il senso. Cossì
avviene che chi alto guarda tal volta vegna oppresso da la maestà. Oltre quando
viene a penetrar la specie divina, la passa come strale: onde dicono gli
teologi il verbo divino essere più penetrativo che qualsivoglia punta di spada
o di coltello. Indi deriva la formazione et impressione del proprio vestigio,
sopra il quale al- tro non è che possa essere impresso o sigillato; là on- de
essendo tal forma ivi confirmata, e non possendo succedere la peregrina e nova,
senza che questa cieda, conseguentemente può dire che non ha più facultà di
prendere altro, se ha chi la riempie, o la disgrega per la necessaria
improporzionalitade. La nona caggione è notata per il nono che è cieco per
inconfidenza, per deiezzion de spirito, la quale è ad- ministrata e caggionata
pure da grande amore, perché Letteratura italiana Einaudi 191
Giordano Bruno - De gl’eroici furori con lo ardire teme de offendere;
onde disse la Canti- ca: «Averte oculos tuos a me, quia ipsi me avolare fece-
re». E cossì supprime gli occhi da non vedere quel che massime desidera e gode
di vedere; come raffrena la lingua da non parlare con chi massime brama di
parlare, per téma che difetto di sguardo o difettosa parola non lo avvilisca, o
per qualche modo non lo metta in disgrazia: e questo suol procedere da l’ap-
prensione de l’excellenza de l’oggetto sopra de la sua facultà potenziale, onde
gli più profondi e divini teo- logi dicono che più si onora et ama Dio per
silenzio, che per parola; come si vede più per chiuder gli occhi alle specie
representate, che per aprirli: onde è tanto celebre la teologia negativa de
Pitagora e Dionisio, sopra quella demostrativa de Aristotele e scolastici
dottori. minutolo Andiamone raggionando per il camino. severino Come ti piace.
fine del quarto dialogo Letteratura italiana Einaudi 192 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUINTO interlocutori Laodomia, Giulia.
laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai quel che apporta tutto il
successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove bellissimi et amorosi
giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del vostro viso, e non avendo
speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e temendo che tal
disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal terreno della
Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la tua beltade
giuròrno di non la- sciarsi mai sin che avessero tentato tutto il possibile per
ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che scuoprir si
potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si trovava nel
vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico rimedio che
divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno dopo la lor
sollenne parti- ta, passando vicini al monte Circeo, gli piacque d’an- dar a
veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove essendo
gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose rupi,
del mormorìo de l’onde maritime che vanno a fran- gersi in quelle cavitadi, e
di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione, vennero tutti
co- me inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito espresse queste
paroli: «Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse presente, come
fu in altri se- coli più felici, qualche saga Circe che con le piante,
minerali, veneficii et incanti era potente di mettere come il freno alla
natura: certo crederei che ella, Letteratura italiana Einaudi 193
Giordano Bruno - De gl’eroici furori quantunque fiera, piatosa pur
sarebbe al nostro ma- le. Ella molto sollecitata da nostri supplichevoli la-
menti, condiscenderebbe o a darne rimedio, o ver a concederne grata vendetta
contra la crudeltà di no- stra nemica». A pena avea finito di proferir queste
paroli, che a tutti si presentò visibile un palaggio, il quale chiumque have
ingegno di cose umane, possea facdmente comprendere che non era manifattura
d’uomo, né di natura: de la figura e descrizzion de la quale ti dirò un’altra
volta. Onde percossi da gran maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che
qualche propizio nume (il qual ciò gli mise avanti) volesse de- finire il stato
de la lor fortuna, dissero ad una voce che peggio non posseano incorrere che il
morire, il quale stimavano minor male che vivere in tale e tanta passione. Però
vi entraro dentro non trovando porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli
domandasse raggione; sin che si ritrovano in una richissima et or- natissima
sala, dove in quella regia maestade (che puoi dire che Apolline fusse stato
ritrovato da Feton- te) apparve quella ch’è chiamata sua figlia; con l’ap-
parir de la quale veddero sparire le imagini de molti altri numi che gli
administravano. Là con grazioso volto accettati e confortati, si fero avanti: e
vinti dal splendor di quella maestade, piegaro le ginocchia in terra, e tutti
insieme con quella diversità de note che gli dettava il diverso ingegno,
esposero gli lor voti al- la dea. Dalla quale in conclusione furono talmente
trattati, che ciechi, raminghi et infortunatamente la- boriosi hanno varcati
tutti mari, passati tutti fiumi, superati tutti monti, discorse tutte pianure,
per spa- cio de diece anni; al termine de quali entrati sotto quel temperato
cielo de l’isola britannica, gionti al conspetto de le belle e graziose ninfe
del padre Ta- mesi, dopoi aver essi fatti gli atti di conveniente umil- tade,
et accettati da quelle con gesti d’onestissima Letteratura italiana Einaudi
194 Giordano Bruno - De gl’eroici furori cortesia, uno tra loro, il
principale, che altre volte ti sarà nomato, con tragico e lamentevole accento
espo- se la causa commune in questo modo: Di que’, madonne, che col chiuso vase
si fan presenti, et han trafitt’il core, non per commesso da natur’ errore, ma
d’una cruda sorte ch’in sì vivace morte le tien astretti, ogn’un cieco rimase.
Siam nove spirti che molt’anni, erranti, per brama di saper, molti paesi abbiam
discorsi, e fummo un dì surpresi d’un rigid’accidente, per cui (se siete
attente) direte: «O degni, et o infelici amanti». Un’empia Circe, che si don’il
vanto d’aver questo bel sol progenitore, ne accolse dopo vario e lungo errore;
e un certo vase aperse, de le cui acqui insperse noi tutti, et a quel far
giunse l’incanto. Noi aspettand’il fine di tal opra, eravam con silenzio muto
attenti, sin al punto che disse: «O voi dolenti, itene ciechi in tutto;
raccogliete quel frutto, che trovan troppo attenti al che gli è sopra». «Figlia
e madre di tenebre et orrore – diss’ogn’un fatto cieco di repente, – dumque ti
piacque cossì fieramente trattar miseri amanti, che ti si fero avanti, facili
forse a consecrart’il core?» Ma poi ch’a i lassi fu sedato alquanto quel subito
furor, ch’il novo caso Letteratura italiana Einaudi 195 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori porse, ciascun più accolto in sé rimaso, mentr’ira
al dolor cede, voltossi alla mercede, con tali accenti accompagnand’il pianto:
«Or dumque s’a voi piace, o nobil maga, che zel di gloria forse il cor ti
punga, o liquor di pietà il lenisca et unga, farti piatosa a noi co’ medicami
tuoi, saldand’al nostro cuor l’impressa piaga; se la man bella è di soccorrer
vaga, deh non sia tanto la dimora lunga, che di noi triste alcun a morte giunga
pria che per gesti tuoi possiam unqua dir noi: tanto ne tormentò, ma più ne
appaga». E lei soggiunse: «O curiosi ingegni, prendete un altro mio vase fatale,
che mia mano medesma aprir non vale; per largo e per profondo peregrinate il
mondo, cercate tutti i numerosi regni: perché vuol il destin che discuoperto
mai vegna, se non quando alta saggezza e nobil castità giunte a bellezza
v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani per far questo liquor al ciel
aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle chiumque a lor per remedio
s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a mirabil contento cangiand’il
rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo stelle. Tra tanto alcun di voi non
si contriste, quantumque a lungo in tenebre profonde Letteratura italiana
Einaudi 196 Giordano Bruno - De gl’eroici furori quant’è sul
firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per quantunque gran pene mai
degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui cecità vi conduce, dovete
aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un gran piacere; che
sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete spreggiar ogni altra
luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il terren globo nostre
membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera sagace di speranza
fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai siam (bench’al
tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a bada eternamente
cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il manto del ciel con
tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo al destin nostr’e
siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai fermando i passi (benché
trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza. Leggiadre Nimfe, ch’a
l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh, per dio, non abiate (o
belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra bianca mano di scuoprir quel
ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in queste spiaggie, dove con le
Nereidi sue questo torrente Letteratura italiana Einaudi 197
Giordano Bruno - De gl’eroici furori si vede che cossì rapidamente da
basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel ch’ella si
trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare, offrillo
ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma tutte de
commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il ri- ferivano e
proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto
per far perico- lo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il
soccorso di questi infelici, mentre dubbia lo contratta- va, come
spontaneamente s’aperse da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto
fusse e quale l’applau- so de le Nimfe? Come possete credere ch’io possa
esprimere l’estrema allegrezza de nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si
sentiro aspergere dell’acqui bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli;
e tro- varono aver doppia felicitade: l’una della ricovrata già persa luce,
l’altra della nuovamente discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del
sommo bene in terra? Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza
e tripudio de voci, di spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non
posseano esplicare? Fu per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso
di color che credono sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che
apertamente veggono: sin tan- to che tranquillato essendo alquanto l’impeto del
furo- re, se misero in ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la
citara in questo tenore: O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti,
o piani, o valli, o fiumi, o mari, quanto vi discuoprite grati e cari, ché mercé
vostra e merto n’ha fatt’il ciel aperto: o fortunatamente spesi passi. Il
secondo con la mandòra sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva
Circe, o gloriosi affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni, tante grazie
divine, se tal è nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi. Il terzo con
la lira sonò e cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal porto han
prescritto le tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che ringraziar
il cielo ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal luce fassi.
Il quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce fassi, cecità
degna più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a la più degna
luce vi siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma cassi. Il quinto
con un timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a l’alma cassi, con
condir di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico sentiero, per cui
a noi si scuopra Letteratura italiana Einaudi 199 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori de Dio la più bell’opra: cessi fato benigno a mostrar
vassi. Il sesto con un laùto cantò: Cossì fato benigno a mostrar vassi; perché
non vuol ch’il ben succeda al bene, o presagio di pene sien le pene; ma
svoltando la ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì e la notte
dassi. Il settimo con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la notte dassi,
mentr’il gran manto de faci notturne scolora il carro de fiamme diurne:
talmente chi governa con legge sempiterna supprime gli eminenti, e inalz’ i
bassi. L’ottavo con la viola ad arco: Supprime gli eminenti, e inalza i bassi,
chi l’infinite machini sustenta: e con veloce, mediocre e lenta vertigine
dispensa in questa mole immensa quant’occolto si rende e aperto stassi. Il nono
con una rebecchina: Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o non nieghi, o
confermi che prevagli l’incomparabil fine a gli travagli campestri e montanari
Letteratura italiana Einaudi 200 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori de stagni, fiumi, mari, de rupi, fossi, spine, sterpi, sassi. Dopo che
ciascuno in questa forma singularmente sonando il suo instrumento ebbe cantata
la sua sesti- na, tutti insieme ballando in ruota e sonando in lode de l’unica
Nimfa con un soavissimo concento canta- rono una canzona, la quale non so se
bene mi verrà a la memoria. giulia Non mancar (ti priego, sorella) di farmi
udire quel tanto che ti potrà sovvenire. laodomia Canzone de gl’illuminati «Non
oltre invidio, o Giove, al firmamento,» dice il padre Oceàn col ciglio altero,
«se tanto son contento per quel che godo nel proprio impero»; «Che superbia è
la tua?» Giove risponde, alle ricchezze tue che cosa è gionta? o dio de le
insan’onde, perché il tuo folle ardir tanto surmonta?» «Hai,» disse il dio de
l’acqui, «in tuo potere il fiammeggiante ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui
l’eminente coro de tuoi pianeti puoi vedere. Tra quelli tutt’il mondo admira il
sole, qual ti so dir che tanto non risplende quanto lei che mi rende più
glorioso dio de la gran mole. Et io comprendo nel mio vasto seno tra gli altri
quel paese, ove il felice Tamesi veder lice, ch’ha de più vaghe ninfe il coro
ameno. Tra quelle ottegno tal fra tutte belle, i per far del mar più che del
ciel amante te Giove altitonante, cui tanto il sol non splende tra le stelle»;
Giove responde: «O dio d’ondosi mari, ch’altro si trove più di me beato non lo
permetta il fato; ma miei tesori e tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue
ninfe per costei; e per vigor de leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei
vaglia per sol tra gli astri miei». Credo averla riportata interamente tutta.
giulia Il puoi conoscere, perché non vi manca senten- za che possa appartener
alla perfezzion del proposito; né rima che si richieda per compimento de le
stanze. Or io, se per grazia del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e
favor credo che mi sia gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata
in qualche maniera principio per far discuoprir quell’unica e di- vina.
Ringrazio gli dèi, perché in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose
fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia
quanto semplice et innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere
incomparabilmente grazie mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero
possute ottenere per quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli
animi di quelli amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla
sua ma- ga Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per
mezzo de quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben
riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. Grice: “Agostino da Norcia used
to quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the lord AND WORK
– it rymes in Italian: ORA e LABORA --.
Not to be confused with “Benedetto da Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino
da Norcia. Norcia. Agostino Colizzi. Giovanni Colizzi. Colizzi. Keywords:
implicatura, “De amore fundamenta mundis ac ethicae”, eretici italiani,
ortodossi italiani, dell’infinito,
universo e mondi, praxis descensus application entis, amore – l’amore come
fondamento del mondo, l’amore come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Colizzi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colli: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’espressione – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo
italiano. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia dell’espressione’ is much more
serious than my ramblings, well meant, though, on Peirce! I was only trying to
be fashionable! At Oxford, they loved my lecture on ‘meaning,’ which got me
into ‘implying,’ and eventually, ‘expressing.’ – My unity developed – Colli was
born with it!” Insegna
a Pisa. Di una facoltosa famiglia, il padre amministra “La Stampa”, incarico
dal quale fu poi estromesso all'indomani della marcia su Roma, su ordine di
Mussolini. Studia a Torino, laureandosi sotto Solari con “Politicità ellenica e
Platone”. Scorse nella tradizione filosofica classica greco-romana l'autentico
"logos" a cui ritornare. Lo stile di scrittura, profondo e
costellato di aforismi taglienti, si caratterizza da un'attenzione maniacale
alla musicalità del discorso. Questa dote musicale emerge con chiarezza dalle
letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene. Il suo saggio principale è
“Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante una complessa teoria delle
categorie e della deduzione, un'interpretazione della totalità della
manifestazione come “espressione” di qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla
presa della conoscenza. Comunque, ritiene che sia possibile riguadagnare il
fondamento metafisico del mondo portando il discorso filosofico ai suoi estremi
limiti e "(di)mostrando" la natura derivata del logos. Importante il
suo contributo su i filosofi italici Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di
Bacco ed Apollo, dismisura e misura. Al tentativo di interpretare gli enigmi di
questi culti a-logici, fra i quali quelli oracolari, viene fatta risalire
l'origine remota della dialettica. Altre opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi,
Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La nascita della filosofia.
Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo,
Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Epimenide, Ferecide,
Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza
greca”; “Eraclito” (Adelphi, Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione
errabonda” (Adelphi, Milano); “Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi,
Milano); “La Natura ama nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi,
Milano); “Gorgia e Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni
su Diofanto di Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone
politico” (Adelphi, Milano); “Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e
dionisiaco” (Adelphi, Milano); “Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta
dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi,
Torino); Organon, Einaudi, Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di
Giorgio Colli, Einaudi, Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e
paralipomena” (Adelphi, Milano); Nietzsche (Classici Adelphi) Scritti giovanili; La nascita della tragedia;
Considerazioni inattuali; La filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti
postumi; Wagner a Bayreuth; Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano,
Aurora; Idilli di Messina; Così parlò Zarathustra; Al di là del bene e del
male; Genealogia della morale; Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce
homo; Nietzsche contra Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume;
Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità e il danno della storia per la vita
(Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle nostre scuole” (Adelphi, Milano); La mia vita (Adelphi, Milano); La nascita
della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di fede e lo scrittore, Adelphi,
Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di Mazzino Montinari, Adelphi,
Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il servizio divino dei greci”
(Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo, Bari); Dizionario
biografico degli italiani, Implicazioni estetiche
in C.; Misura e dismisura. Per una rappresentazione di C., ERGA, Genova);
L’enigma greco; Apollineo e dionisiaco in C., in Clemente Tafuri e David
Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol II,
AkropolisLibri, Genova); I Greci: annotazioni su alcune traduzioni, in
"Episteme", Mimesis Edizioni, Milano); Il Girgentu di Colli, Luca
Sossella Editore, Roma. Wikipedia Ricerca Prosimno pastore della
mitologia greca Lingua Segui Modifica Prosimno o Polimno (Πρόσυμνος/Πόλυμνος)
nella mitologia greca era un pastore che viveva nei pressi del sacro lago di
Lerna (in Argolide, sulla costa del golfo di Argo), reputato essere senza fondo
e pertanto assai pericoloso per tutti quelli che vi si volevano avventurare in
acqua. Quando il dio del vino Dioniso andò nell'Ade per salvare sua madre
Semele, Prosimno lo guidò verso l'ingresso - conducendolo nella sua barca a
remi - posto al centro del lago. Il premio richiesto da Prosimno per questo
servizio sarebbe stato il diritto a giacere con il giovane Dio. Tuttavia,
quando Dioniso tornò sulla terra per una strada diversa, trovò che Prosimno era
nel frattempo morto. Dioniso volle comunque mantenere la sua promessa;
intagliò un pezzo di legno di ficus a forma di falloutilizzandolo per adempiere
ritualmente all'accordo che aveva in precedenza stipulato con Prosimno: si
posizionò sulla sua tomba e ci si sedette sopra, auto-sodomizzandosi. Questo,
si dice, è stato dato come spiegazione della presenza di falli di legno di fico
tra gli oggetti segreti che venivano "rivelati" nel corso dei Misteri
dionisiaci. Questa storia non è raccontata in pieno da una delle consuete
fonti di racconti mitologici greci, anche se molti di loro accennano ad essa.
Il fatto si è ricostruito sulla base di dichiarazioni di autori cristiani;
questi devono essere trattati quindi con riserva in quanto il loro obiettivo
era essenzialmente quello di screditare la mitologia pagana[1]. Riti
notturni annuali hanno avuto luogo presso il lago sacro, sulle rive della
palude alcionia, ancora in età classica; Pausania il Periegeta si rifiuta però
di descriverceli. Il mito di Prosimno è stato studiato da Bernard
Sergentin "L'omosessualità nella mitologia greca", ristampato nella
sua "Omosessualità e iniziazione tra i popoli indo-europei". Questo
mito è comunque considerato essere il risultato dell'importanza del simbolismo
fallico all'interno del culto dionisiaco. Igino, Astronomy; Clemente di
Alessandria, Protreptikos; Arnobio, Against the Gentiles; Dalby, Pausania,
Guide to Greece; Plutarco, Iside e Osiride 35; Dalby, Dionisio-Baco, su
geocities.com Mitos del cielo: Dioniso, su mitosdelcielo.iespana. Susana
Quintanilla, Dioniso en México o cómo leyeron nuestros clásicos a los clásicos
griegos. De op. cit.: Calasso "Las bodas de Cadmo y Harmonía",
Barcelona, Anagrama( PDF ) [collegamento interrotto], su redalyc.uaemex. Dalby,
The Story of Bacchus, London, British Museum Press, Pederastia Pederastia greca
Temi LGBT nella mitologia FontiModifica Arnobio, Contro i pagani, Clemente di
Alessandria , Esortazione ai Greci (Protrettico). Igino , Astronomia. Pausania,
Descrizione della Grecia, Plutarco , Iside e Osiride. Portale LGBT
Portale Mitologia greca Dioniso dio greco del vino, della vendemmia, dei
teatri, della fertilità e dell'ubriachezza Canopo (mitologia) Pederastia
tebana. Che l'esclusione di queste potenze ben presenti e Bi distinte
dalla comunità delle figure dominanti, ed .il sus É sistere della loro
venerabilità, pur tacendo .la vastità É e profondità loro e più ch’ogni
altra cosa, l’orrendo fi mistero del loro essere, provengano da una
particola rissima valutazione e da una volontà risoluta, si app*
lesa evidentissimo nella figura dominante di tutto que sto ciclo:
Dioniso. La sua virilità, come osserva .J. J. Bachhofen in modo
eccellente, trascina irresistibilmente seco. l’eterno femminino di questa
sfera e ne rimane assolutamente presa. Il suo spirito s’arroventa
nell’inebriante beveraggio, che venne chiamato il sangue della terra.
Istinti elementari, frenesie, dissolvimenti della co- scienza nello
sconfinato, assalgono tempestosamente i suoi adoratori e agli estasiati
si schiudon i tesori del regno. terrestre. Anche intorno a Dioniso
accorrono i morti, che lo seguono a ‘primavera quand’egli porta i fiori.
Amore e selvaggia ebbrezza, gelidi brividi e beatitudini si ten-
gon per mano e gli fan corteo; ciascuno degli antichis- simi tratti
essenziali della divinità della Terra son in lui accresciuti a
dismisura," ma pure infinitamente ap- profonditi, Questa figura
divina che tutto trascina con sè è ben nota ad Omero, che chiama il dio «
forsennato >, e ha vivo davanti agli occhi l’andar selvaggio delle
sue accompagnatrici che agitano il tirso. Ma tutto. ciò non è che
similitudine, come quando paragona ad una Menade Andromaca, la quale
presa da oscuro presentimento si precipita fuor dalle sue stanze (Iliade;
cfr. Inno Omer. a Dem.), come pure quando occasional- mente narra
memorabili storie (Iliade.; Odissea). Nel vivo mondo di Omero le Menadi
non trovan posto e pure invano si cerca Dioniso, che non vi ha
parte veruna. Dioniso « dispensator di gioia » (Esio- do, Erga 614) gli è
altrettanto estraneo quanto l’uomo doloroso annunziatore dell’al di là.
L’eccesso, che gli è proprio, non s’accorda con la chiarezza che
contraddi- stingue qui tutto ciò ch’è realmente divino. Da
questa chiarezza sono assai lontane anche le al- tre figure del ciclo
della Terra. Sian pure intessute. di dolcissimo incanto, e portin sulla
fronte la più sublime gravità. Il sapere e la sacra legge stanno loro al
fianco. Ma sono.legate alla materia terrestre e partecipano della
sua oscura pesantezza e necessità. La loro benevolenza è quella
dell’elemento materno, ed il loro diritto ha la rigidità di tutti i
legami del sangue. Tutte arrivano nella notte della morte, o meglio: la
morte ed il passato risalgono grazie a loro nel presente e nell’esistenza
dei viventi. Non v'è un ritrarsi dal teatro del mondo, nè il
trapassare dall’esistenza oggettiva in una sfera inferiore nè una
liberazione del campo di vita e d’azione da ciò che una volta fu. Tutto
ciò che fu rimane per sempre, ed. eleva la sua esigenza, sempre con la
medesima ron. cretezza, dalla quale non c’è via di scampo. Ed è
solo una conferma di codesto carattere, il predominio ch’'ha nel
mondo delle divinità di questa sfera, il sesso femmi. nile. Nella cerchia
celeste della religione omerica invece sì trae in disparte in modo tale,
che non può essere ca. suale. | I . Gli dèi che dominano
colà, non solo: son di sesso maschile, sibbene rappresentano decisamente
lo spirito virile. Ed anche quando Atena si unisce ad Apollo e-a
Zeus in suprema trinità, è lei a rinnegare esplicitamente il femmineo e a
farsi genio del mascolino. I -m Dirisioti ^LT^b !-' 0' 25outonV
%tt^^\t Hitiratp. THE ELEUSINIAN AND BACCHIC
MYSTERIES. A DISSERTATION. TAYLOR, TXANSL4TOH OF PLATO."
" PLOTINTJS," " POEPITIllY," " lAMBLICHCS."
"PEOCI-nS,' * ABISTOTLE," ETC., ETC. EDITED,
WITH INTRODUCTION, NOTES, EMENDATIONS, AND GLOSSARY. WILDER. Ev Tats
TEAETAI2 KaOapcrei'; rjyoyi'Tai (cai ncpip- pai'TTjpia (Cat ayviiTfjiOL,
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Love's World, Poem by Schiller. Eleusinian Mysteries. Bacchic Mysteries. Hymn
to Minerva; Orphic Hymns. Hymn of Cleanthes Klensiiiiiiii
Mj'steriea. '"Tis not merely The human breing's pride that
peoples space With life and mystical predominance, Since likewise
for the stricken heart of Love This visible nature, and this common
world Is all too narrow ; yea, a deeper import Lurks in the legend told
my infant years That lies upon that truth, we live to learn, For
fable is Love's world, his home, his birthplace ; Delightedly he dwells
'mong fays and talismans, And spirits, and delightedly believes
Divinities, being himself divine. The intelligible forms of ancient poets.
The fair humanities of Old Religion, The Power, the Beauty, and the
Majesty, That had their haunts in dale or piny motmtain, Or forests
by slow stream, or pebbly spring. Or chasms or wat'ry depths; — all these
have vanished. They live no longer in the faith of Eeason, But
still the heart doth need a language ; still Doth the old instinct bring
back the old names." Schiller : The Piccolomini, Act. ii.
Scene 4. 9 Apollo autl Muaes. ITolM.'tll.MlS. In offering-
to the public Taylor's admirable treatise upon the Elensiidan and Bacchic
Mysteries, it is proper to insert a few words of explanation. These
observances once represented the spiritual life of (Ireeee, and were
considered for two thousand years and more the appointed means for
regeneration through an interior union with the Divine Essence. However
absurd, or even offensive they may seem to us, we should therefore
hesitate long before we venture to lay desecrating hands on what others
have esteemed holy. We can learn a valuable lesson in this regard from
the Roman philosophers, who had learned to treat the popular
religious rites with mirth, but always considered the Eleusinian
Mysteries with the deepest reverence. It is ignorance which leads to
profanation. Men ridicule what they do not properly understand.
Alci- biades was drunk when he ventured to touch what his countrymen
deemed sacred. The undercurrent of this worhl is set toward one goal; and
inside of human credulity — call it human weakness, if you please —
is a power almost infinite, a holy faith capa))le of apprehending the
siipremest truths of all Existence. The veriest dreams
of life, pertaining as they do to " the minor mystery of
death," have in them more than external fact can reach or explain;
and Myth, how- ever much she is proved to be a child of Earth, is
also received among men as the child of Heaven. The Cinder- Wench
of the ashes will become the Cinderella of the Palace, and be wedded to
the King's Son. The instant that we attempt to analyze, the
sensible, palpable facts upon which so many try to build disappear
beneath the surface, like a foundation laid upon quicksand. " In the
deepest reflections," says a dis- tinguished writer, '' all that we
call external is only the material basis upon which our dreams are built
; and the sleep that surrounds life swallows up life, — all but a
dim wreck of matter, floating this way and that, and forever evanishing
from sight. Complete the anal- ysis, and we lose even the shadow of the
external Present, and only the Past and the Future are left us as
our sure inheritance. This is the first initia- tion, — the vailing
[mnesis] of the eyes to the external. But as epo])fm, by the synthesis of
this Past and Future in a living nature, we obtain a higher, an
ideal Present, comprehending within itself all that can be real for
us within us or without. This is the second initiation in which is uuvailed to
us the Present as a new birth from our own life. Thus the great
problem of Idealism is symbolically solved in the Eleusinia. These were
the most celebrated of all the sacred orgies, and were called, by way of
eminence. The Mysteries. Although exhibiting apparently the fea-
tures of an Eastern origin, they were evidently copied from the rites of
Isis in Egypt, an idea of which, more or less correct, may be found in
The Mefamotyhoses of APULEIO and The Epicurean by Moore. Every act,
rite, and person engaged in them was symbolical; and the individual
revealing them was put to death without mercy. So also was any
uninitiated person who happened to be present. Persons of all ages and
both sexes were initiated ; and neglect in this respect, as in the
case of Socrates, was regarded as impious and atheistical. It was
required of all candidates that they should be first admitted at the
MiJo'a or Lesser Mysteries of Agree, by a process of fasting called
^j«f/'/- ficafion, after which they were styled mysfce, or initi-
ates. A year later, they might enter the higher degree. In this they
learned the aporrheta, or secret meaning of the rites, and were thenceforth
denominated ephori, or epoptm. To some of the interior mysteries,
however, only a very select number obtained admission. From these
were taken all the ministers of holy rites. The Hierophant who presided
was bound to celibacy, and requii'ed to devote his entire life to his
sacred office. Atlantic Monthly, He had three assistants, — the
torch-bearer, the lierux or crier, and the minister at the altar. There
were also a hasileus or king, who was an archon of Athens, four
curators, elected by suffrage, and ten to offer sacrifices. The sacred
Orgies were celebrated on every fifth year ; and began on the 15th of the
month Boedromiau or September. The first day was styled the agurmos
or assembly, because the worshipers then convened. The second was
the day of purification, called also alacU mystaij from the proclamation
: ''To the sea, initiated ones ! " The third day was the day of
sacrifices ; for which purpose were offered a mullet and barley
from a field in Eleusis. The officiating persons were for- bidden
to taste of either ; the offering was for Achtheia (the sorrowing one,
Demeter) alone. On the fourth day was a solemn procession. The JcalafJios
or sacred basket was borne, followed by women, ciske or chests in
which were sesamum, carded wool, salt, pomegran- ates, poppies, — also
thyrsi, a serpent, boughs of ivy, cakes, etc. The fifth day was
denominated the day of torches. In the evening were torchlight
processions and much tumult. The sixth was a great occasion.
The statue of lacchus, the son of Zeus and Demeter, was brought
from Athens, by the laccJiogoroi, all crowned with myrtle. In the way was
heard only an uproar of sing- ing and the beating of brazen kettles, as
the votaries danced and ran along. The image was borne " through
the sacred Gate, along the sacred way, halting by the sacred fig-tree (all
sacred, mark you, from Eleiisinian associations), where the procession
rests, and then moves on to the bridge over the Cephissns, where
again it rests, and where the expression of the wildest grief gives
place to the trifling farce, — even as Demeter, in the midst of her
grief, smiled at the levity of lambe in the palace of Celeus. Through the
'mystical en- trance ' we enter Eleusis. On the seventh day games
are celebrated; and to the victor is given a measure of barley, — as it
were a gift direct from the hand of the goddess. The eighth is sacred to
^sculapius, the Divine Physician, who heals all diseases; and in
the evening is performed the initiatory ritual. " Let us
enter the m3\stic temple and be initiated, — though it must be supposed
that, a year ago, we were initiated into the Lesser Mysteries at Agrae.
We must have been mystm (vailed), before we can become epoptce
(seers) ; in plain English, we must have shut our eyes to all else before
we can behold the mysteries. Crowned with myrtle, we enter with the other
initiates into the vestibule of the temple, — blind as yet, but the
Hierophaut within will soon open our eyes. But first, — for here we must do
nothing rashly,— first we must wash in this holy water; for it is
with pure hands and a pure heart that we are bidden to enter the
most sacred enclosure [(xu(rTuoff (f-nxog, tnusfijios seJcos]. Then, led
into the presence of the Hierophaut, In the Oriental countries the designation
nns Peter (an in- terpreter), appears to have been the title of this
personage ; and he reads to us, from a book of stone [jreTpajfjia,
petroma]^ tliiuii's which we must not divulge on pain of death. Let
it suffice that they fit the place and the occasion ; and though you
might laugh at them, if they were spokiMi outside, still you seem very
far from that mood now, as you hear the words of the old man (for old
he he always was), and look upon the revealed symbols. And very far,
indeed, are you from ridicule, when Demeter seals, by her own peculiar
utterance and sig- nals, by vivid coruscations of light, and cloud
piled upon cloud, all that we have seen and heard from her sacred
priest; and then, finally, the light of a serene wonder fills the temple,
and we see the pure fields of Elysium, and hear the chorus of the
Blessed; — then, not merely by external seeming or philosophic
inter- pretation, but in real fact, does the Hierophant become the
Creator [(hi-^'ovpyo;, demiourgos] and revealer of all things; the Sun is
but his torch-bearer, the Moon his attendant at the altar, and Hermes his
mystic herald * [>c7]pu|, kerux]. But the final word has been
uttered ' Conx Om pax.' The rite is consummated, and we are vpoptit
forever ! " Those who are curious to know the myth on which
the petroma consisted, notably enougli, of two tablets of stone.
There is in these facts some reminder of the peculiar circum- stances of
the Mosaic Law which was so preserved ; and also of the claim of the Pope
to be the successor of Peter, the hierophant or interpreter of the
Christian religion. * Porphyry. Introduction. 19
the " mystical drama " of the Eleusinia is founded will find
it in any Classical Dictionary, as well as in these pages. It is only
pertinent here to give some idea of the meaning. That it was regarded as
profound is evident from the peculiar rites, and the obligations
im- posed on every initiated person. It was a reproach not to
observe them. Socrates was accused of atheism, or disrespect to the gods,
for having never been initiated.* Any person accidentally guilty of
homicide, or of any crime, or convicted of witcihcraft, was excluded.
The secret doctrines, it is supposed, were the same as are
expressed in the celebrated Hymn of Cleanthes. The philosopher Isocrates
thus bears testimony : " She [Demeter] gave us two gifts that are
the most excellent ; fruits, that we may not live like beasts ; and that
initiation — those who have part in which have sweeter hope, both as
regards the close of life and for all eternity." In like manner,
Pindar also declares : " Happy is he who has beheld them, and
descends into the Under- world: he knows the end, he knows the origin of
life." The Bacchic Orgies were said to have been instituted, Ancient
Sijmhol-Worsliip. "Socrates was not initiated, yet after drinking
the hemlock, he addressed Crito : ' We owe a cock to ^sculapius.' This
was the peculiar offering made by initiates (now called kerJcnophori) on
the eve of the last day, and he thus symbolically asserted that he was
about to re- ceive the great apocalypse." See, also,
" Progress of Religious Ideas," by Child; and " Discourses on
the Worship of Priapus," by EiCHARD Payne Knight. or
iiy)re probably reformed T)y Orpheus, a mythical personage, supposed to
have flourished in Thrace.* The Orphic associations dedicated themselves
to the worship of Bacchus, in which they hoped to find the
gratification of an ardent longing after the worthy and elevating
influences of a religious life. The worshipers did not indulge in
unrestrained pleasure and frantic enthnsiasni, but rather aimed at an
ascetic purity of * Euripides : Ehaesns. "Orpheus showed forth
the rites of the hidden Mysteries." Plato : ProUifforas.
" The art of a sophist or sage is ancient, but tlie men who proposed
it in ancient times, fearing the odium attached to it, sought to conceal
it, and vailed it over, some under the garb of poetry, as Homer, Hesiod,
and Simonides : and others under that of the Mysteries and prophetic
manias, such as Orpheus, Musseus, and their followers."
Herodotus takes a different view — ii. 49. "Melampus, the son
of Amytheon," he says, "introduced into Greece the name of
Dionysus (Bacchus), the ceremonial of his worship, and the pro- cession
of the phallus. He did not, however, so completely ap- prehend the whole
doctrine as to be able to communicate it entirely : but various sages,
since his time, have carried out his teaching to greater perfection.
Still it is certain that Melampus introduced the phallus, and that the
Greeks learnt from him the ceremonies which they now practice. I
therefore maintain that Melampus, who was a sage, and had acquired the
art of divina- tion, having become acquainted with the worship of Dionysus
tln-ough knowledge derived from Eg>ijt, introduced it into Greece,
with a few slight changes, at the same time rhat he brought in various
other practices. For I can by no means allow that it is by mere
coincidence that the Bacchic ceremonies in Greece are so nearly the same
as the Egyptian." y r^isi
Etruscan Kleusiniau Ci-renionies. life and manners.
The worship of Dionysus \yas the center of their ideas, and the
starting-point of all their speculations upon the world and human nature.
They believed that human souls were confined in the body as in a
prison, a condition which was denominated genesis or generation; from
which Dionysus would liberate them. Their sufferings, the stages by which
they passed to a higher form of existence, their lafharsis or
purification, and their enlightenment constituted the themes of the
Orphic writers. All this was represented in the legend which constituted
the groundwork of the mystical rites. Dionysus-Zagreus was
the son of Zeus, whom he had begotten in the form of a dragon or serpent,
upon the person of Kore or Persephoneia, considered by some to have
been identical with Ceres or Demeter, and by others to have been her
daughter. The former idea is more probably the more correct. Ceres or
Demeter was called Kore at Cnidos. She is called Phersephatta in a
fragment by Psellus, and is also styled a Fury. The divine child, an
avatar or incarnation of Zeus, was denominated Zagreus, or Chakra
(Sanscrit) as being destined to universal dominion. But at the
instigation of Hera* the Titans conspired to murder him. Ac-
* Hera, generally regarded as the Greek title of Juno, is not the
definite name of any goddess, but was used by ancient writers as a
designation only. It signifies doniina or lady, and appears to be of
Sanscrit origin. It is applied to Ceres or Demeter, and other
divinities. cordingly, one day while he was contemplating a mir-
ror,* they set upon him, disguised under a coating of plaster, and tore
him into seven parts. Athena, how- ever, rescued from them his heart,
which was swallowed by Zeus, and so returned into the paternal
substance, to be generated anew. He was thus destined to be again
born, to succeed to universal rule, establish the reign of happiness, and
release all souls from the dominion of death. The hypothesis
of Mi-. Taylor is the same as was maintained by the philosopher Porphyry,
that the Mysteries constitute an illustration of the Platonic
* The mirror was a part of the symbolism of the Thesmophoria, and
was iised in the search for Atmu, the Hidden One, evidently the same as
Tammuz, Adonis, and Atys. See Exodus xxxviii. 8 ; 1 Samuel ii. 22 ; and
Esekiel viii. 14. But despite the assertion of Herodotus and others that
the Bacchic Mysteries were in reality Egyptian, there exists strong
probability that they came originally from India, and were Sivaic or
Buddhistical. Core-Persephoneia was but the goddess Parasu-pani or
Bhavani, the patroness of the Thugs, called also Goree ; and Zagi'eus is
from Chakra, a country extending from ocean to ocean. If this is a
Turanian or Tartar Story, we can easily recognize the "Horns"
as the crescent worn by lama-priests : and translating god-names as
merely sacerdotal designations, assume the whole legend to be based on a
tale of Lama Succession and transmigration. The Titans would then
be the Daityas of India, who were opposed to the faith of the
north- ern tribes ; and the title Dionysus but signify the god or
chief- priest of Nysa, or Mount Meru. The whole story of Orpheus,
the institutor or rather the reformer of the Bacchic rites, has a
Hindu ring all through. FILOSOFIA. At first sight, this may l)e
hard to believe ; but we must know that no pageant could hold place
so long, without an under-meaning. Indeed, Herodotus asserts that
" the rites called Orphic and Bacchic are in reality Egyptian and
Pythagorean. The influence of the doctrines of Pythagoras upon the
Platonic system is generally acknowledged. It is only important in
that case to understand the great philosopher correctly ; and we have a
key to the doctrines and symbolism of the Mysteries. The
first initiations of the Eleusinia were called Telefce or terminations,
as denoting that the imperfect and rudimentary period of generated life
was ended and purged off ; and the candidate was denominated a
mijsfa, a vailed or liberated person. The Greater- Mysteries completed
the work ; the candidate was more fully instructed and disciplined,
becoming an epopta or seer. He was now regarded as having received
the arcane principles of life. This was also the end sought by
philosophy. The soul was believed to be of com- posite nature, linked on
the one side to the eternal world, emanating from God, and so partaking
of The Divine (IL DIVINO). On the other hand, it was also allied to the
phenomenal or external world, and so liable to be subjected to passion,
lust, and the bondage of evils. This condition is denominated genemtion ;
and is sup- posed to be a kind of death to the higher form of life.
Evil is inherent in this condition ; and the soul dwells * Herodotus: ii.
81 in the body as in a prison or a grave. In this state, and
previous to the discipline of education and the mysti- cal initiation,
the rational or intellectual element, which Paul denominates the
spiritual, is asleep. The earth- life is a dream rather than a reality.
Yet it has longings for a higher and nobler form of life, and its
affinities are on high. "All men yearn after God," says Homer.
The object of Plato is to present to us the fact that there are in the
soul certain ideas or princi- ples, innate and connatural, which are not
derived from without, but are anterior to all experience, and are
developed and brought to view, but not produced by experience. These
ideas are the most vital of all truths, and the purpose of instruction
and discipline is to make the individual conscious of them and
willing to be led and inspired b}^ them. The soul is purified or
separated from evils by knowledge, truth, expiations, sufferings, and
prayers. Our life is a discipline and preparation for another state
of being; and resemblance to God is the highest motive of
action.* * Many of the early Christian writers were deeply imbued
with the Eclectic or Platonic doctrines. The very forms of speech
were almost identical. One of the four Gospels, bearing the title "
ac- cording to John,'''' was the evident product of a Platonist,
and hardly seems in a considerable degree Jewish or historical. The
epistles ascribed to Paul evince a great familiarity with the Eclec- tic
philosophy and the peculiar symbolism of the Mysteries, as well as with
the Mithraic notions that had penetrated and permeated the religious
ideas of the western countries. Proclus does not hesitate to
identify the theological doctrines with the mystical dogmas of the
Orphic system. He says : '' What Orpheus delivered in hidden
allegories, Pythagoras learned when he was initiated into the Orphic
Mysteries.; and Plato next received a perfect knowledge of them from the
Orphean and Pythagorean writings." Mr. Taylor's peculiar
style has been the subject of repeated criticism ; and his translations
are not accepted by classical scholars. Yet they have met with favor
at the hands of men capable of profound and recondite thinking ;
and it must be conceded that he was endowed with a superior
qualification, — that of an intuitive per- ception of the interior
meaning of the subjects which he considered. Others may have known more
Greek, but he knew more Plato. He devoted his time and means for
the elucidation and dissemination of the doctrines of the divine philosopher ;
and has rendered into English not only his writings, but also the works
of other authors, who affected the teachings of the great master,
that have escaped destruction at the hand of Moslem and Christian bigots.
For this labor we can- not be too grateful. The present
treatise has all the peculiarities of style which characterize the
translations. The principal diffi- culties of these we have endeavored to
obviate — a labor whicli will, we trust, be not unacceptable to
readers. The book has been for some time out of print ; and no
later writer has endeavored to replace it. There are many who still
cherish a regard, almost amounting to veneration, for the author; and we
hope that this repro- duction of his admirable explanation of the nature
and object of the Mysteries will prove to them a welcome
undertaking. There is an increasing interest in philo- sophical,
mystical, and other antique literature, which will, we believe, render
our labor of some value to a class of readers whose sympathy, good-will,
and fellow- ship we would gladly possess and cherish. If we have
added to their enjoyment, we shall be doubly gratified. A. W.
V'euus ami Proserpina iu Hailes. Rape of Proserplua. As
there is nothing more celebrated than the Mys- ^l\^ teries of the
ancients, so there is perhaps nothing- which has hitlierto been less
solidly known. Of the trnth of this observation, the liberal reader will,
I per- snade myself, be fully convinced, from au attentive perusal
of the following sheets; in which the secret meaning of the Eleusinian
and Bacchic Mysteries is un- folded, from authority the most respectable,
and from a philosophy of all others the most venerable and august.
The authority, indeed, is principally derived from manuscript writings,
which are, of course, in the possession of but a few; but its
respectability is no more lessened by its concealment, than the value of
a diamond when secluded from the light. And as to the philosophy,
by whose assistance these Mysteries are de- veloped, it is coeval with
the universe itself ; and, how- ever its continuity maybe broken by
opposing systems, it will make its appearance at different periods of
time, as long as the sun himself shall continue to illuminate the world.
It has, indeed, and may hereafter, be violently as- saulted l)y delusiv^e
opinions; but the opposition will be just as imbecile as that of the
waves of the sea against a temple built on a rock, which majestically
pours them back, Broken and A^anquish'd, foaming to the
main. Pallas, Venus, aud Diaua. THE ELEUSINIAN AND
BACCHIC. Dionysus as God of the Sun. a. SECTION I. SJ
WARBURTON, in Ms Divine Legation of Moses, has ingeniously
proved, that the sixth book of Virgil's ^neid represents some of the
dramatic exhibitions of the Eleusinian Mysteries ; but, at the same
time, has utterly failed in attempting to unfold their latent mean-
ing, and obscure though important end. By the assistance, howevei",
of the Pla- tonic philosophy, I have been enabled to correct his
errors, and to vindicate the wisdomof antiquity from his aspersions The
profounder esoteric doctrines of the ancients were denominated wisdom,
and attevwnrd philosophy, and also the [piosis or knowledge. They related
to the human soul, its divine parent- Eleiisinian and by a
genuine account of this sublime institution; of which the foUowing
obser- vations are designed as a comprehensive view. In
the fii'st place, then, I shall present the reader with two superior
authorities, who perfectly demonstrate that a part of the shows (or
dramas) consisted in a representation of the infernal regions; au-
thorities which, though of the last conse- quence, were unknown to Dr.
Warbiu'ton himself. The first of these is no less a person than the
immortal Pindar, in a fragment preserved by Clemens Alexan- drinus
: ^' 'A/J.a %at IJtvoapo^ Trspi xcov sv EXsa- acvt {Jiua'CTjpuov Xsycov
STrcrpspsL OXpcoc, oart? But Pindar, speaking of the Eleusinian
Mysteries, says : Blessed is he who, having age, its supposed
degradation from its high estate by becoming connected with "
generation " or the physical world, its onward progi-ess and
restoration to God by regenerations, popularly sup- posed to be
transmigrations, etc. — A. W. " Stroma la, book iii. Bacchic
Mysteries. seen those common concerns in the underworld, knows both the end of
hfe and its divine origin from Jupiter." The other of these is
from Prochis in his Commentary on Plato's Politicus, who, speaking
concern- ing the sacerdotal and symbolical mythol- ogy, observes,
that from this mythology Plato himseK establishes many of his own
peculiar doctrines, " since in the Phcedo he venerates, mtli a
becoming silence, the assertion delivered in the arcane discourses,
that men are placed in the body as in a prison, secured by a guard, and
testifies^ accordlny to the mystic cerem^onies, the dif- ferent
allotments of purified and unpuri- fied souls in Hades, their severed
conditions, and the three-forJicd path from the pecidiar places
where they tcere ; and this was shown accordiny to traditionary
institutions ; every part of which is full of a symbolical repre-
sentation, as in a dream, and of a descrip- tion which treated of the
ascending and descending ways, of the tragedies of Dio- nysus
(Bacchus or Zagreus), the crimes of the Titans, , the three ways in
Hades, and Eleusinian and the wandering of everything of a
similar hind.^^ — "Ar/Aot 5s sv <l>7.too)vt xov ts sv
6'. avi^pcoTTOi, aiyirj xtj Trps'iro'jar^ cs^3(ov, xai ■:7.c
-csXsrac (lege y.7.o %7.-'y. -ac tsXs-c/.) (JLCtp- -:'jpo{Ji£voc xcov
^La'^optov Xr^^scov -r^; ^^T^'^ %£%ai)-ap|i.£VTj; TS %7.c a^a^aptoy zic,
o/joo rj.lZirjOQ1]Z, r.rjX ZIQ ZS GySGSlC, WJ, V:7.C Xa?
xpio^oDc 7.7:0 x(ov ooGKov 7,7/. x(ov (lege %ai %7.x7. t(ov),
Traipi^cov {)-£a{i(ov ':£7,{i7.ipo[icVOc. a 5'^ z-qc, ao{JL[3o)d%7jc
dTuavta ^stopta; sari {xsara, 7,7.L t(OV 7C7.p7. TOIC TZOl'flZrjlC,
{)-p'jXXo?J{J.£V(OV rj.yo^my zs 7.7.t 7,ai)-ooo)v, tcov ts
$iovyai7.7C(ov 3'jvi)"^{Ji7.tcov, y.rj.1 xcov TiTy-vizfov
onxapiYjixa- -(OV XSYOJXSVCOV, 'X.7.1 X(OV sv 4^^'->
TpCOOCOV, 7,7.!. XT^C TZKrjyr^C, Y,rjx X(OV T&tOUTCOV
d'7L7.VXa)V." * Ha^dllg iDremised thus much, I now pro-
ceed to prove that the th'amatic spectacles .of the Lesser Mysteries f
were designed by the ancient theologists, their founders, to
signify occultly the condition of the unpurified soul *
Commentary on the Statesman of Plato, page 374. t The Lesser
Mysteries were celebrated at Agrse ; and the persons there initiated were
denominated Mi/sta: Only such could be received at the sacred rites at
Eleusis. Bacchic Mysteries. invested with an earthly body, and
envel- oped in a material and physical nature ; or, in other words,
to signify that such a soul in the present life might be said to die, as
far as it is possible for a soul to die, and that on the
dissolution of the present body, while in this state of impuiity, it
would experience a death still more permanent and profound. That
the soul, indeed, till purified by phi- losophy,* suffers death through
its union with the body was obvious to the philologist Macrobius,
who, not penetrating the secret meaning of the ancients, concluded
from hence that they signified nothing more than the present body,
by their descriptions of the infernal abodes. But this is
manifestly absurd ; since it is universally agreed, that all the
ancient theological poets and philos- ophers inculcated the doctrine of a
future state of rewards and punishments in the most full and
decisive terms ; at the same time occultly intimating that the death
of the soul was nothing more than a profound union with the ruinous
bonds of the body. FILOSOFIA here relates to discipline of the
life. Eleusinian and Indeed, if these wise men believed in
a future state of retribution, and at the same time considered a
connection with the body- as death of the soul, it necessarily
follows, that the soul's punishment and existence hereafter are
nothing more than a continu- ation of its state at present, and a
transmi- gration, as it were, from sleep to sleep, and from dream
to dream. But let us attend to the assertions of these divine men
concerning the soul's union with a material nature. And to begin with the
obscure and profound Heracleitus, speaking of souls imembodied:
"We live their death, and we die their life." Z(o{j.£v tov
sxslvcov i)-7.v7.':ov, TsO-vT/Aajisv OS xov £%£lv(ov jiLov. And Em-
pedocles, deprecating the condition termed " generation,"
beautifully says of her : The aspect changing with destruction
dread, She makes the Uv'okj pass into the dead. Ex \i.z\i yx^
Cojtuv zv.%-1'. VcXpa siOi a|JLj'.j3ojv. And again, lamenting his
connection with this corporeal world, he pathetically exclaims:
Bacchic Mysteries. 37 For this I weep, for this
indulge my woe, That e'er my soul such novel realms should
know. KXauaa te v.ai xiuxuaot, lowv «afjv*r]i)'sry. ytupov. *
Plato, too, it is well known, considered the body as the sepulchre
of the soul, and in the Crcifijlus concurs with the doctrine of
Orpheus, that the soul is x>^niished through its union with body. This
was likewise the opinion of the celebrated Pythagorean, Phi-
lolaus, as is evident from the following re- markable passage in the
Doric dialect, pre- served by Clemens Alexandrinus in Strom at.
book iii. " Map-cupsovra 5s %c/.t oi TcrjXaifx. tJ-soXoyoc IS y.r/.i
\w,vzzic., 6)C, ^la ziyac, xqj-copiac, £V a(o{i7.ic XGIJ-Ki)
zzd-aizza.i.^'' i. e. " The ancient theologists and priests * also
testify that the soul is united with the body as if for the sake of
punishment ; f and so is buried in body as in a sepulchre." And,
lastly, Py- * Greek it-ayxsiq mantels — more properly proi)hets,
those filled by the prophetic mania or eutheasm. t More
correctly — '* The soul is yoked to the body as if by way of
punishment," as culprits were fastened to others or even to corpses.
See PauVs Epistle to the liomans, vii, 25. 38 Eleusinian
and thagoras himself confii'ms the above senti- ments, when
he beautifully observes, accord- ing to Clemens in the same book, "
that wild fever tee see when airali'e is death ; and when asleep,-
a dreamt brj^rxio;^ sa-rcv, oxoaa But that the mysteries occultly
signi- fied this sublime truth, that the soul by being merged in
matter resides among the dead both here and hereafter, though it
fol- lows by a necessary sequence from the preced- ing
observations, yet it is indisputably con- firmed, by the testimony of the
great and truly divine Plotinus, in Ennead I., book viii. ''When
the soul," says he, '*has descended into generation (from its first
divine condition) she partakes of evil, and is carried a great way
into a state the opposite of her first purity and integrity, to he
entirely merged in ivhich, is nothing more than to fall into dark
mire.^^ And again, soon after. The soul therefore dies as much as it is
pos- sible for the soul to die : and the death to her is^ while
Mptized or immersed in the present Bacchic Mysteries.
39 hocly^ to descend into matter * and he wholly subjected hy
it ; and after departing thence to lie there till it shall arise and
turn its face away from the abhorrent filth. This is what is meant
hy the falling asleep in Ifades, of those who have come there.''''
j * Greek ^^>^'<], matter supposed to contain all the
principles the negative of life, order, and goodness. tThis
passage doubtless alludes to the ancient and beautiful story of Cupid and
Psyche, in which Psyche is said to fall asleep in Hades ; and this
through rashly attempting to behold corporeal beauty : and the
observation of Plotinus will enable the profoimd and contemplative reader
to unfold the greater part of the mys- teries contained in this elegant
fable. But, prior to Plotinus, Plato, in the seventh book of his
Republic, asserts that such as are unable in the present life to
apprehend the idea of the good, will descend to Hades after death, and
fall asleep in its dark abodes. 'Oq av |n-r] syrj o'.op:::aj9'a', xto
Xo-|'to, c/.tzo twv aXXtov Ttavxojv a-^jXiuv ttjv too a-irj.x}oj) torav,
v.r/'. inzr.zp £v It-'^'/'fJ 5oa Tcavtcov sXsY/tuv o'.tt,nuy, jj.s v.ata
oo^av aXka v.ax' ouatav npofl'U^oofjLsvo? eXeY/s'.v, £V Traat. xooto'-c
anxcoT: x«) Xo'^w oioi-opsufjxa'., ooxs awzo xo cnY'/O'CiV rj'jozv
cpYjas'.^ e'.osva: xov o'ixiui^ s^ovxa. oozz aWo o.-^rj.^-rr^ ooojv;
a),),' s: TC'f] ^iocuXo'j x'.vo; fiiaz.xz'Z'j:., ooJ-/j o'jy.
£i:'.-rf|iJ.-(^ c'^aTiXja&ai ; xoci xov vjv fy.vj ovsipciTCoXouvxa,
v.ao ijiivtoxovxa, Tip'.v jvO'ao' E^spY''^^'*' 5 ^-^ aocio TipoxEpov
acp:y.o|Ji.svov xsXscoi; ETTixaxaSapO-aviiv ; ». e. "He who is not
able, by the exercise of his reason, to define the idea of the good,
separating it from all other objects, and piercing, as in a battle,
through every kind of argument ; endeavoring to confute, not according to
opinion, but according to essence, and proceeding through all these
dia- lectical energies with an unshaken reason; — he who can not
40 Bacchic Mysteries. TLVojisvcp 5s Yj [i£taAT;'|L;;
rjjjxrjj^ Fcrpvciac yap '^lavta^raacv sv ^(p rr^c avc/{xoco-Y^T;oc
zotzco, evd-rj. ooQ BIZ r/jizr^y siz 'p^ij^o^joy axorstvov SGzrji
'jisacov. — A'JToD-VTjay.cc o'jv, (o;; 'j'''>Z''i '^•'^ iJ-avof xctL 6
^avoLTO? ao'Tj, xai szl sv ^(o GOiixazi p£J37.7uua{JL£VY^, sv 6Xy^ sarc
y-c/.-aoovac, 7C/.C 7tXYjai)"^vac aozr^Q. Kai si^s/a^oaaYj;
sxst %£iai)'7.L, £(oc av7.opa{ji'(j y,c/.t rj/^2kr^ tzcoc, xy^v
G?J;tv £% ZOO fiopjSopo'j. Kac to'jto sb-'. to sv 4*^00 sXiJ-ovra
sTzi'/.rj.za SapiJ-stv. Here the aeeomplisli this, would j^ou not
say, that he neither knows the good itself, nor anything which is
pi'operly denominated good? And would you not assert that such a one,
when he apprehends any certain image of reality, apprehends it rather
through the medium of opinion than of science ; that in the present life
he is sunk in sleep, and conversant with the delusion of dreams ;
and that before he is roused to a vigilant state he will descend to
Hades, and be overwhelmed with a sleep perfectly profound." Henry
Davis ti-anslates this passage more critically: "Is not the ease the
same with i"eference to the good ? Whoever can not logically define
it, abstracting the idea of the good from all others, and taking, as in a
fight, one opposing argument after another, and can not proceed with
unfailing proofs, eager to rest his ease, not on the ground of opinion,
but of true being, — such a one knows nothing of the r/ood itself, nor of
any good whatever ; and should he have attained to any knowledge of the
(jood, we must say that he has attained it by opinion, not by
science {sKizzfiiirj) ; that he is sleeping and dreaming away his
present life ; and before he is roused will descend to Hades, and
there be profoundly and perfectly laid asleep." vii. 14.
Bacchic Mysteries. 43 reader may observe that the
obsciu'e doc- trine of the Mysteries mentioned by Plato in the
Phcedo^ that the nnpurified soul in a future state lies immerged in mire,
is beauti- fully explained; at the same time that our assertion
concerning their secret meaning is not less substantially confirmed.* In
a similar manner the same divine philosopher, in his book on the
Beautiful, Ennead^ I., book vi., explains the fable of Narcissus as an
em- blem of one who rushes to the contempla- tion of sensible
(phenomenal) forms as if they were perfect realities, when at the
same time they are nothing more than Uke beautiful images appearing in
water, falla- cious and vain. " Hence," says he, " as
Nar- cissus, by catching at the shadow, plunged himself in the
stream and disappeared, so he who is captivated by beautiful
bodies, and does not depart fi'om their embrace, is precipitated,
not with his body, but with * Phcedo, 38. " Those who
instituted the Mysteries for us ap- pear to have intimated that whoever
shall arrive in Hades un- ptirified and not initiated shall lie in mud ;
but he who arrives there purified and initiated' shall dwell with the
gods. For there are many hearers* of the wand or thyrsus, but few who are
inspired." 44 Eleusiniari and his soul,
into a darkness profound and repug- nant to intellect (the higher soul),*
through which, remaining bhnd both here and in Hades, he associates
with shadows." Tov T(ov, Tcai [j--^ ojjfiEiQ^ 00 t(o
(j{\)\w-i.^ zr^ os '\'y/ri -iX.rjXOL^O'jezrM^ BIC, axOTTStVa 7.rj.l
azsrj'K'fj TO) vco [5ai)-Tj, SvO-a T'JCpXo? SV O^d^JJ {JL£V(0V, /.oll
sv- taoi^a %q:x£t a%iat? oovsaTL And what still farther
confirms our exposition is that mat- ter was considered by the Egyptians
as a certain mire or mud. " The Egyptians," says
Simplicius, " called matter, which they symbolically denominated
water, the dregs or sediment of the first life ; matter being, as
it were, a certain mire or mud.f Aco xat AiyuTTtioi TTjV Z'qc, xpcoxr^c
C(t)'^/C, y^v 'jdcop Gtj\i- |5oAt%(oc sxaXofjv, 67roaxai)-{jLT;v rr^v
'jXtjv sXs- yov, oiov ihjv ziya ooaav. So that fi*om all *
Intellect, Greek vouc, nous, is the higher faculty of the mind. It is
substantially the same as the pncH))ia, or spirit, treated of in the New
Testament; and hence the term '^ iiifcUectual," as used in Mr.
Taylor's translation of the Platonic writers, may be pretty safely read
as spiritual, by those familiar with the Chris- tian cultus. * A.
W. t Physics of Aristotle. Bacchic Mysteries.
45 tliat has been said we may safely conclude with Ficinus,
whose words are as express to our purpose as possible. " Lastly,"
says he, "that I may comprehend the opinion of the ancient
theologists, on the state of the soul after death, in a few words :
tlieij considered^ as we have elsewhere asserted, things divine as
the only realities^ and that all others were only the images and shadows
of truth. Hence they asserted that prudent men, who earnestly
employed themselves in divine concerns, were above all others in a
vigilant state. But that imprudent [/. e. without foresight] men, who
pursued objects of a different nature, being laid asleep, as it
were, were only engaged in the delusions of dreams ; and that if they
happened to die in this sleep, before they were roused, they would
be afflicted with similar and still more dazzling visions in a future
state. And that as he who in this life pursued realities, would, after
death, enjoy the high- est truth, so he who pursued deceptions
would hereafter be tormented with fallacies and delusions in the extreme
: as the one 46 Eleusinian and would be
delighted with true objects of enjoyment, so the other would be
tor- mented with delusive semblances of reali- ty." — Denique
ut priscormn theologorum sententiam de statu animae post mortem
paucis comprehendam : sola di\ina (ut alias diximus) arbitrantur res
veras existere, re- hqua esse rerum verarum imagines atque umbras.
Ideo prudentes homines, qui divi- nis incumbunt, prae ceteris vigilare.
Impm- dentes autem, qui sectantur alia, insomniis omnino quasi
dormientes illudi, ac si in hoc somno priusquam expergefacti fuerint
moriantur similibus post (hscessum et acri- oribus visionibus angi. Et
sicut emn qui in vita veris incubuit, post mortem summa veritate
potiri, sic eum qui falsa sectatus est, fallacia extrema torqueri, ut
ille rebus veris oblectetur, hie falsis vexetur simu-
lachris." * But notwithstanding this important truth was
obscurely hinted by the Lesser Myster- ies, we must not suppose that it
was gen- *FiciNUs: De ImmortaL Aniin. book xviii.
Bacchic Mysteries. 47 erally known even to the initiated
persons themselves : for as individuals of almost all descriptions
were admitted to these rites, it would have been a ridiculous
prostitution to disclose to the multitude a theory so ab- stracted
and sublime.* It was sufficient to instruct these in the doctrine of a
future state of rewards and punishments, and in themeans of
returning to the principles from which they originally fell : for
this * We observe in the Netv Testament a like disposition on the
part of Jesns and Paul to classify their doctrines as esoteric and
ex- oteric, ''the Mysteries of the kingdom of God" for the
apostles, and "pai'ables" for the multitude. "We speak
wisdom," says Paul, "among them that are perfect" (or
initiated), etc. 1 Cor- intliians, ii. Also Jesus declares : "It is
given to you to know the Mysteries of the kingdom of heaven, but to them
it is not given; therefore I speak to them in parables : because they
seeing, see not, and hearing, they hear not, neither do they
understand." — Matthew xiii., 11-13. He also justified the
withholding of the higher and interior knowledge from the untaught and
ill-disposed, in the memorable Sermon on the Mount. — Matthew vii.
: Give ye not that which is sacred to the dogs, Neither cast ye your
pearls to the swine ; For the swine will tread them under their
feet And the dogs will turn and rend you." This same
division of the Christians into neophytes and perfect, appears to have
been kept up for centuries ; and Godfrey Higgins asserts that it is
maintained in the Roman Cliurch. — A. W. Eleusinian and last
piece of information was, according to Plato in the PJuedo, the ultimate
design of the Mysteries ; and the former is necessarily infeiTed
from the present discourse. Hence the reason why it was obvious to none
hut the Pythagorean and Platonic philosophers, who derived their
theology from Orpheus himseK,* the original founder of these sacred
institutions; and why we meet with no in- formation in this particular in
any writer prior to Plotinus ; as he was the first who, having
penetrated the profound interior wis- dom of antiquity, delivered it to
posterity without the concealments of mystic symbols and fabulous
narratives. VIBGIL NOT A PLATONIST. Hence too, I think, we may infer,
with the greatest probabihty, that this recondite meaning of the
Mysteries was not known * Herodotus, ii. 51, 81.
"What Orpheus delivered in hidden allegories Pythagoras
learned when he was initiated into the Orphic Mysteries ; and Plato next
received a knowledge of them from the Orphic and Pythagorean
writings." Bacchic Mysteries. 49 even to VIRGILIO
himself, who has so elegantly described their external form; for
notwithstanding the traces of Platonism which are to be found in the ENEIDE,
nothing of any great depth occurs throughout the whole, except what
a superficial reading of Plato and the dramas of the Mysteries might
easily afford. But this is not perceived by modern readers, who,
entirely luiskilled themselves in Platonism, and fascinated by the charms
of his poetry, imagine him to be deeply knowing in a subject with
which he was most hkely but slightly acquainted. This opinion is
still farther strengthened by considering that the doctrine
delivered in his Eclogues is perfectly that of THE GARDEN (L’ORTO), which
was the fashionable philosophy of the age of OTTAVIANO; and that there is
no trace of Platonism in any other part of his works but the present
book, which, containing a representation of the Mysteries, was
necessarily obliged to display some of the principal tenets of this FILOSOFIA,
so far as they illustrated and made a part of these mystic
exhibitions. However, on the supposition that this book presents us
with , Eleusinian and a faithful view of some part of
these sacred rites, and this accompanied with the utmost elegance,
harmony, and purity of versifica- tion, it ought to be considered as an
invalu- able rehc of antiquity, and a precious mon- ument of
venerable mysticism, recondite wisdom, and theological information.
This will be sufficiently e\ddent from what has been already
delivered, by considering some of the beautiful descriptions of this book
in their natural order; at the same time that the descriptions
themselves will corroborate the present elucidations. In the
first place, then, when he says, faeilis descensus Averno.
Noetes atque dies patet atra janua ditis : Sed
revoeare gradum, superasqiie evadere ad aiiras, Hoe opus, hie labor
est. Pauei quos sequus amavit Jupiter, aut ardens evexit ad sethera
virtus, Dis geniti potuere. Tenent media omnia silvae,
Cocytusque siuu labens, circumvenit atro 1 * Ancient
Symhol-Worship, page 11, noie. t Davidson^s Translation. — "
Easy is the path that leads down to hell ; grim Pluto's gate stands open
night and day : but to retrace one's steps, and escape to the upper
regions, this is a work, this is a task. Some few, whom favoring Jove
loved, or illustrious virtue Bacchic Mysteries. 51
is it not obvious, from tlie preceding expla- nation, that by
Avernus, in this place, and the dark gates of Pluto, we mnst
understand a corporeal or external nature, the descent into which
is, indeed, at all times obvious and easy, but to recall our steps, and
ascend' into the upper regions, or, in other words, to separate the
soul from the body by the purifying discipline, is indeed a mighty
work, and a laborious task ? For a few only, the fa- vorites of
heaven, that is, born with the true philosophic genius,^ and whom ardent
virtue has elevated to a disposition and capacity for divine
contemplation, have been enabled to accomplish the arduous design. But
when he says that all the middle regions are covered with woods,
this hkewise plainly in- timates a material nature ; the word silva^
as is well known, being used by ancient writers to signify matter,
and implies nothing more than that the passage leading to the
barafh- advaneecl to heaven, the sons of the gods, have effected
it. Woods cover all the intervening space, and Cocytus, gliding with
his black, winding flood, surrounds it." * /. e., a
disposition to investigate for the purpose of eliciting truth, and
reducing it to practice. Meusinian and rum [abyss] of body, /.
e. into profound darkness and oblivion, is throngh the me- dium of
a material nature ; and this medium is surrounded by the black bosom of
Cocytus,* that is, by bitter weeping and lamenta- tions, the necessary
consequence of the soul's union with a nature entirely foreign to
her own. So that the poet in this particular per- fectly
corresponds with EMPEDOCLE DI GIRGENTI in the line we have cited above,
where he exclaims, alluding to this union. For this I weej),
for this indulge my icoe, That e'er my soul such novel realms
should know. In the next place, he thus describes the cave,
through which ^neas descended to the infernal regions :
Spelunea alta fuit, vastoque immanis hiatu, Scrupea, tuta lacu
nigro, raemorumque tenebris : Quam super hand ulla? poterant impune
volantes Tendere iter pennis : talis sese halitus atris Faueicus
effundens supera ad eonvexa fevebat : Unde locum Graii dixerimt nomiue
Aornum 1 * Coeytus, lamentation, a river in the Underworld. \
Davidson’s Trnnslation. — "There was a cave profound and hideous,
with wide yawning mouth, stony, fenced by a black lake,
Bacchic Mysteries. 53 Does it not afford a beautiful
representation of a corporeal nature, of which a cave, de- fended
with a black lake, and dark woods, is an obvious emblem *? For it
occultly re- minds us of the ever-flowing and obscin*e condition of
such a nature, which may be said To roll incessant with
impetuous speed, Like some dai'k river, into Matter's sea.
Nor is it with less propriety denominated Aornus, i. e. destitute
of birds, or a winged nature ; for on account of its native
sluggish- ness and inactivity, and its merged condi- and the
gloom of woods ; over which none of the flying kind were able to wing
their way unliurt ; such exhalations issuing from its grim jaws ascended
to the vaulted skies ; for w^iich reason the Greeks called the place by
the name of Aornos" (without birds). Jacob Bryant says: "
All fountains were esteemed sacred, but especially those which had any
preternatural quality and abounded with exhalations. It was an universal
notion that a divine energy proceeded from these effluvia ; and that the
persons who resided in their vicinity were gifted with a prophetic
quality. . . . The Ammonians styled such fountains Ain Omphe, or
fountains of the oracle ; o|j,<pY], oniphe, signifying ' the voice of
God.' These terms the Greeks contracted to Nofj-'fY], numphe, a
nymph." — Ancient Mythology, vol. i. p. 276. The Delphic
oracle was above a fissure, (jnnnous or hocca infe- riore, of the earth,
and the pythoness inhaled the vapors. — A. W. Eleiisinian and
tion, being situated in the outmost extremity of tilings, it is
perfectly debile and languid, incapable of ascending into the regions
of reality, and exchanging its obscure and de- graded station for
one every way splendid and divine. The propriety too of sacrificing,
previous to his entrance, to Night and Earth, is obvious, as both these
are emblems of a corporeal nature. In the verses which
immediately follow, — Ecee autem, priini sub limina solis et
ortus, Sub peclibus mugire solum, et juga eaepta movere Silvarum,
visaque canes ululare per umbram, Adventante dea * we may
perceive an evident allusion to the earthquakes, etc., attending the
descent of the soul into body, mentioned by Plato in the tenth book
of his Republic ;\ since the * " So, now, at the fii-st beams
and rising of tlie sun, the earth under the feet begins to rumble, the
wooded hills to quake, and dogs were seen howling through the shade, as
the goddess came hither " i Republic, x, 16. "After
they were laid asleep, and midnight was approaching, there was thunder
and earthquake ; and they were thence on a sudden carried upward, some
one way, and some another, approaching to the region of generation like
stars." Bacchic Mysteries. 55 lapse of the
soul, as we shall see more fully hereafter, was one of the important
truths which these Mysteries were intended to re- veal. And the
howling dogs are symbols of material * demons, who are thus denomi-
nated by the Magian Oracles of Zoroaster, on account of then"
ferocious and malevolent dispositions, ever baneful to the felicity
of the human soul. And hence Matter herseK is represented by
Synesius in his first Hymn, with great propriety and beauty, as barking
at the soul with devoimng rage : for thus he sings, addressing himself to
the Deity : Maxap 6c x:c popov oImc, npacpUY^JV o\r/.'(ixa,
v-w. yxc, AvaouCj a/.p.«tt xoo'^po) lyyoc, £? t^sov
v.xo.vjzi. Which may be thus paraphrased : Blessed!
thrice blessed! who, with winged speed, From Hyle's t dread voracious
bai'kiug flies, * Material demons are a lower grade of spiritual
essences that are capable of assuming forms which make them perceptible
by the physical senses. — A. W. t Hijle or Matter. All evil
incident to human life, as is here shown, was supposed to originate from
the connection of the soul to material substance, the latter being
regarded as the receptacle 56 EleMsinian and
And, leaving Earth's obscnrity behind, By a light leap, directs his
steps to thee. And that material demons actually ap- peared
to the initiated previous to the lucid visions of the gods themselves, is
evident from the following passage of Proclus in his manuscript
Commentary on tlie first Alcibiades : sv zaic rj.-(iozazaic tcov
tsaskov Tzrjo zr^z GoO'j Tcapo'jaia? daqiovov /iS'Gvuov £%- poAat
xpocpacvov~ry.t, -Ani rxr.o aov aypavtcov ayai^cov zic zr^v ohriy
7ipoy,i7.Xou{JLSvaL /. e. " In the most interior sanctities of the
Mys- teries, before the presence of the god, the rushing forms of
earthly demons appear, and call the attention from the immaculate
good to matter." And Pletho (on the Oracles), expressly
asserts, that these spectres ap- peared in the shape of dogs.
After this, ^neas is described as proceed- ing to the infernal
regions, through profound night and darkness : Ibant obscixri
sola sub nocte per iimbram, Perque domos Ditis vaciias, et inania
regna. of everything evil. But why the soul is thus immerged and
pun- ished is nowhere explained. — A. W. Bacchic
Mysteries. 57 Quale per ineertam lunam sub luce maligna Est
iter in silvis : ubi cfehim condidit umbra Jupiter, et rebus nox abstulit
atra colorem.* And this with the greatest propriety; for the
Mysteries, as is well known, were cele- brated by night ; and in the Republic
of Plato, as cited above, souls are described as falling into the
estate of generation at mid- night ; this period being peculiarly
accom- modated to the darkness and oblivion of a corporeal nature ;
and to tliis circumstance the nocturnal celebration of the
Mysteries doubtless alluded. In the next place, the following
vivid description presents itself to our view : Vestibulum
ante ipsum, primisqiie in faiicibus Orei Luctus, et ultrices posuere
eubilia Curte : Pallentesque habitant morbi, tristisque senectus,
Et Metus, et mala suada Fames, ac turpis egestas; *" They went
along, amid the gloom under the solitary night, through the shade, and
through the desolate halls, and empty realms of Dis [Pluto or Hades].
Such is a journey in the woods beneath the unsteady moon with her niggard
light, when Jupiter has enveloped the sky in shade, and the black Night
has taken from all objects their color." Eleiisinian and
Terribiles visu forraje ; Lethumque Laborque ; Turn consanguineus
Lethi Sopor et mala mentis Gaudia, mortiferumqiie adverso in limine
bellum Ferreique Eumenidum thalami et Discordia demons, Vipereum
crinem vittis inuexa cruentis. In medio ramos annosaque braehia
pandit Ulmus opaca ingens : quam sedem somnia vulgo Vana tenere
feruut, foliisqlie sub omnibus ba?i'ent. Multaque prseterea variarum
monstra f erarum : Centauri in foribus stabiilant, Scyllseque
biforines, Et centumgeminus Briareus, ac bellua Lernse, Horrendum
stridens, flammisque armata Chimgera, Gorgones Hai'pyigeque, et foi'mo
tricorpoi-is umbrae.* ^ And surely it is impossible to draw a
more lively picture of the maladies with wliich a *
"Before the entrance itself, and in the first jaws of Hell, Grief
and vengeful Cares have placed their couches; pale Diseases in- habit
there, and sad Old Age, and Fear, and Want, evil goddess of persuasion,
and unsightly Poverty — forms terrible to contem- plate ! and there, too,
are Death and Toil ; then Sleep, akin to Death, and evil Delights of mind
; and upon the opposite threshold are seen death-bringing War, and the
iron marriage-couches of the Furies, and raving Discord, with her
viper-hair bound with gory wreaths. In the midst, an Elm dark and huge
expands its boughs and aged limbs ; making an abode which vain Dreams
are said to haunt, and under whose every leaf they dwell. Besides
all these, are many monstrous api^aritions of various wild beasts.
The Centaurs harbor at the gates, and double-formed Scyllas, the hun-
dred-fold Briareus, the Snake of Lerna, hissing dreadfully, and Chimasra
armed with flames, the Gorgons and the Harpies, and the shades of
three-bodied form." Bacchic Mysteries. material natui'e is connected
; of the sonl's dormant condition tlirougli its union with body ;
and of the various mental diseases to which, through such a conjunction,
it be- comes unavoidably subject ; for this descrip- tion contains
a threefold division ; represent- ing, in the first place, the external
evil with which this material region is replete ; in the second
place, intimating that the life of the soul when merged in the body is
nothing but a dream; and, in the third place, under the dis- guise
of multiform and terrific monsters, ex- hibiting the various vices of our
iiTational and sensuous part. Hence Empedocles, in perfect
conformity w^th the first part of this descrip- tion, calls this material
abode, or the realms of generation, — a-c£p:r£.oc /(opov,* a
'^joyless region^ "Where slaiighter, rage, ami countless
ills reside; EvO'a <povo5 Ts %0'zoc, tj v.rv. rj^Xtuv sftvsa
llYjpWV and into which those who fall, * This and the
other citations from Empedocles are to be found in the book of Hieroeles
on The Golden Verses of Pythagoras. Bacchic Mysteries.
"Through Ate's meads and dreadful darkness stray."
And hence lie justly says to sncli a soul, that "
She flies from deity and heav'nly light, To serve mad Discord in the
realms of night." iSf.v.ti ij.a'.vo,asv(t) -tGOvo;. Where too we
may observe that the Discordla demens of Virgil is an exact translation
of the Nsixst {iaivo{j.£vco of Empeclocles. In the
hues, too, which immediately suc- ceed, the sorrows and mournful
miseries attending the soul's union with a material nature, are beautifully
described. Hinc via, Tartarei quae fert Aeherontis ad nndas;
Turbidus hie caeno vastaque voragine gurges ^stuat, atque omuem Coeyto
eructat arenam.* And when Charon calls out to ^neas to
* "Here is the way whieli leads to the surging billows of Hell
[Acheron] ; here an abyss turbid boils up with loathsome mud and vast
whirlpools; and vomits all its quicksand into Cocytus."
IJiaua auct Calisto. Bacchic Mysteries. 63
desist from entering any farther, and tells him, "
Here to reside delusive shades delight; ''F.or nought dwells here
but sleep and drowsy night. Umbrarum hie locus est, Somni Noctisque
soporse nothing can more aptly express the condi- tion of the
dark regions of body, into which the soul, when descending, meets with
no- thing but shadows and drowsy night : and by persisting in her
course, is at length lulled into profound sleep, and becomes a true
inhabitant of the phantom-abodes of the dead. ^neas having now
passed over the Sty- gian lake, meets with the three-headed monster
Cerberus,* the guardian of these infernal abodes : Tandem
trans fluvium incolumis vatemque virumque Informi limo glaueaque exponit
in ulva. The presence of Cerberus in the ROMAN description of the underworld
shows that the ideas of the poets and mythologists were derived, not only from
Egypt, but from the Brahmans of the far East. Yama, the lord of the
Underworld, is attended by his dog Karharu, the spotted, styled also
Trikasa, the three-headed. Meusinian and Cerberus haec ingens
latratu regna trifauci Personat, adverse recubaus immanis in antro. By
Cerberus we must understand the discriminative part of the soul, of which a
dog, on account of its sagacity, is an emblem ; and the three heads
signify the triple distinction of this part, into the intellective [or
intui- tional], cogitative [or rational], and opinion- ative
powers. With respect f to the three kinds of persons described as
situated on the borders of the infernal realms, the poet doubtless
intended by this enumeration to represent to us the three most
remarkable At length across the river safe, the prophetess and the
man, he lands upon the slimy strand, upon the blue sedge. Huge Cerberus
makes these realms [of death] resound with barking from his threefold
throat, as he lies stretched at prodigious length in the opposite
cave." tin the second edition these terms are changed to
dianoietic and doxastic, words which we cannot adopt, as they are
not accepted English terms. The nous, intellect or spirit, pertains
to the higher or intuitional part of the mind; the dianoia or
understanding to the reasoning faculty, and the doxa, or opinion- forming
power, to the faculty of investigation. — Plotinus, accept- ing this
theory of mind, says: "Knowledge has three degrees — opinion,
science, and illumination. The means or instrument of the first is
reception ; of the second, dialectic ; of the third, in- tuition."—
A. W. Bacchic Mysteries. characters, wlio, though not apparently
de- serving of punishment, are yet each of them similarly im merged
in matter, and conse- quently require a similar degree of purifica-
tion. The persons described are, as is well known, first, the souls of
infants snatched away by untimely ends ; secondly, such as are
condemned to death unjustly ; and, third- ly, those who, weary of their
lives, become guilty of suicide. And with respect to the first of
these, or infants, their connection with a material nature is obvious.
The sec- ond sort, too, who are condemned to death unjustly, must
be supposed to represent the souls of men who, though innocent of
one crime for which they were wrongfully pun- ished, have,
notwithstanding, been guilty of many crimes, for which they are
receiving proper chastisement in Hades, i. e, through a profoiuid
union with a material nature.* And the third sort, or suicides, though
ap- * Hades, the Underworld, supposed by classical students to
be the region or estate of departed souls, it will have been noticed,
is regarded by Taylor and other Platonists, as the human body,
which they consider to be the grave and place of punishment of the soul.
— A. W. Eleusinian and parently separated from the body, have
only exchanged one place for another of similar nature ; since
conduct of this kind, according to the arcana of divine philosophy,
instead of separating the soul from its body, only restores it to a
condition perfectly correspon- dent to its former inchnations and
habits, lamentations and woes. But if we examine this affair more profoundly,
we shall find that these three characters are justly placed in the
same situation, because the reason of punishment is in each equally
obscure. For is it not a just matter of doubt why the souls of
infants should be punished? And is it not equally dubious and wonderful
why those who have been unjustly condemned to death in one period
of existence should be punished in another? And as to suicides,
Plato in Ms PJicvdo says that the prohibition of this crime in the
aTzorjfjrfa {aporrheta) * is a profound doctrine, and not easy to
be Aporrheta, tbe areaue or confidential disclosures made to the
candidate undergoing initiation. In the Eleusinia, these were made by the
Hierophant, and enforced by him from the Book of
InterpretatInterpretation, said to have consisted of two tablets of
stone. This was the petroma, a name usuallj' derived from j^e^ra, a
rock, Bacchic Mysteries. understood.* Indeed, the true
cause why the two first of these characters are in Hades, can only be
ascertained from the fact of a prior state of existence, in surveying
which, the latent justice of punishment will be mani- festly
revealed ; the apparent inconsistencies in the administration of
Providence fully reconciled; and the doubts concerning the wisdom
of its proceedings entirely dissolved. And as to the last of these, or
suicides, since the reason of their punishment, and why an action
of this kind is in general highly atrocious, is extremely mystical and
obscure, the following solution of this difficulty will, no doubt,
be gratefully received by the Platonic reader, as the whole of it is no
where else to be found but in manuscript. Olym- or possibly
from iflD, J)eier, an interpreter. See //. Corinthians, xii. 6-8.— A.
W. * PJuedo, The instruction in the doctrine given in the
Mysteries, that we human beings are in a kind of prison, and that we
ought not to free ourselves from it or seek to- escape, appears to me
difficult to be understood, and not easy to ap- prehend. The gods take
care of us, and we are theirs." Plotinus, it will be
remembered, perceived by the interior faculty that Porphyry contemplated
suicide, and admonished him accordingly. — A. W. Eleusinian
and piodorus, then, a most learned and excellent commentator
on Plato, in his commentary on that part of the PJuedo where Plato
speaks of the prohibition of suicide in the aporrhefa, observes as
follows: "The argu- ment which Plato employs in this place
against suicide is derived fi^om the Orphic mythology, in which
foui" kingdoms are celebrated; the first of Uranus [Ouranos]
(Heaven), whom Ki'onos or Satm^n as- saulted, cutting off the genitals of
his father. But after Saturn, Zeus or Jupiter succeeded to the
government of the world, having hurled his father into Tartarus.
And after Jupiter, Dionysus or Bacchus rose to light, who,
according to report, was, through the insidious treachery of Hera or
Juno, torn in pieces by the Titans, by whom he was sur- rounded,
and who afterwards tasted his flesh : but Jupiter,enraged at the deed,
hurled his thunder at the guilty offenders and consumed them to
ashes. Hence a certain matter be- In the Hindu mythology, from which this
symbolism is evidently derived, a deity deprived thus of the lingam or
phallus, parted with his diviue authority. Bacchic
Mysteries. ing formed from the ashes or sooty vapor of the smoke
ascending from their burning bodies, out of this mankind were
produced. It is unlawful, therefore, to destroy ourselves, not as
the words of Plato seem to unport, because we are in the body, as in
prison, secured by a guard (for this is evident, and Plato would
not have called such an assertion arcane), but because our body is
Dionysiacal,* or of the nature of Bacchus : for we are a part of him,
since we are composed from the ashes, or sooty vapor of the Titans
who tasted his flesh. Socrates, therefore, as if fearful of
disclosing the arcane part of this narra- tion, relates nothing more of
the fable than that we are placed as in a prison secured by a guard
: but the interpreters re- late the fable openly." Koci z^zi zo
{j.'ji>c7,ov s-jrc/sijOT^pioL TGCOUtov. Ilapa tcp Oprpst
xsaaaps^ paaiXsiat 'juapa^c^ovxaL Ilptor^ [jisv, rj xo'j Oopctvoy,
Tjv 6 Kpovoc Sis^s^axo, sxtsij-cov xct atSota zoo 'irairpoc. Msxa qt^ tov
Kpovov, 6 * From Dionysus, the Greek name of Bacchus, and usually
so translated. 70 Elensinian and Ze'jc
£p7.3'J.£'j3£v '/.c/.-aTapxapwaac 'uov 7:7.- zz[j^j.. Vjizrj. -ov Ac7.
^Ls^scato 6 Atov'jaoc, 6v (paac '/.at' £i:c[io'jAY^v rr^? 11^7.^ todc
:r£pi a'jto'j TtTavac STrapaTrstv, %7.c tcov aapxtov a'jtcj
£7,cp7.'JV(03£, X7.t £7, "T^? 7.Cl)-7.AY^C '^03V 7.i:{J-C0V
'(OV 7.V7.50i)-£Vr(OV £s 7.'J':C0V, 6aT^s Y£V0{J-£VY^^ YEVEGil-a^ lO'JC
7.V\)-p(OTrO!JC. Ou 0£l GOV ECa^frj. Y£CV Y/^i.7.;: £7'J-0'J^, O'J/ OZl
0)^ 5o%£l }v£Y£'.V Y^ Xe^iQ, 5io-'. £v Tiv: 5£C[X(o £a{j-£v xc;3
a(0|X7.rr TO'JTO Y'^-I^ 5y^).0V £C"^ y.7.l 0'J% 7.V 'ZO'JZO
7.7:0p- P(J.-0V £X£Y£, 7./X OZl O'J OSl £^7.Y7Y£LV Y^{J.7^ ka.OZ'j'JZ
MC, ZO'J (jO)\XazrjC, Y^{X(0V 5i0V'J3C7.%0U OVrO:;' 'jX£pO^ Y'^-P
'^-'J''^'J £3[1£V, £rj'£ £% tYjC al^•'yXr^z xwv Ti':7.vcov
a'JY/.£qJL£i)-7. y^'->^''^-1^*~ V(OV ZiOy a7.p7,(0V XOrjtOy. '0
{JL£V O'JV ]^(07,p7- XY;C £pY^!^ '^'^ 7.7U0pp'^I0V 5£l'X,V'JC, XO'J
{J-'Ji)-0'J 0'jo£v 7rA£ov TupoaxiiJ-jxat xoo (o? £v xivi
rppo'jpa £a(JL£v. 'Oi 5£ £^YjYYjT;7.i xov jx'jO-ov xpoaxiO-£- 7a:v
£|(oi)-£v. After this he beautifully ob- serves, " That these four
governments signify the different gradations of virtues, accord-
ing to which oui^ soul contains the symbols of all the qualities, both
contemplative and purifying, social and ethical; for it either
Bacchic Mysteries. 71 operates acoording to the
theoretic or con- templative virtues, the model of which is the
government of Uranus or Heaven^ that we may begin from on high ; and on
this ac- count Uranus (Heaven) is so called irctpa TOO la avco
6pc/.v, from beholding the things above : Or it lives purely, the
exemplar of which is the Kronian or Satiu^nian kingdom ; and on
this account Kronos is named as Koro-nous, one who perceives through
him- self. Hence he is said to devour his own offspring, signifying
the conversion of him- self into his own substance : or it operates
according to the social virtues, the sym- bol of which is the government
of Jupiter. Hence, Jupiter is styled the Demiurgus, as operating
about secondary things : — or it operates according to both the
ethical and physical virtues, the symbol of which is the kingdom of
Bacchus ; and on this account is fabled to be torn in pieces by the
Titans, because the virtues are not cut off by each other."
Aiyozzoyzai (lege aLVL-c- tovtat) 5s zo'jc, ocarpspofjc '^jrj.^\i.o'jc,
x(ov aps- xtov v.rj.d-' ac, -ri fj{X£xspa ^^yji ayjApoXa e'/oo:ja
Bacchic Mysteries. iraawv tcov apsKov, icov tis O-scopYj'iL'jctov,
otat yap ')C7.-a xa^ {^SfoprjitTca? svspyst cbv Tza^jo.-
^sr^xc/. Tj xo'j oopavotj pctaLAsta, lv7. avoiii-sv ap^a{j.£i)-a, 5io
y,at orjp7.voc sipr^'a: irapa xo'j T7. av(o opcjLV. 'H '/c^i^apTi^o)?
C'^j? '^jC 'irapa- Sstyjxa Y; Kpovsia jiaacXstc/., oio %at Kpovoc
st- p'Ajtai OLOv xopovofjc tic 03V 5ia zo s7.ytov 6pav. Aio y,7/w
xaxamveiv ta ocxsia ysw/)- {laxa Xsysta^ (o? a'jro^ 'jrpoc saozov
sTutatps- cpcov. 'H 7,7.1:7. X7.C TcoXtttxac tov arj{j.|3oAov, T)
XOU AlOZ ^7.aLX£t7., OLO %7.t $Tj{J.tGfJpYOC 6 ZstJt;, (0?
TuspL t;7 $£'jr£p7. svspYcov. 'H %at7 tac r^^'l- %aC %7C CpDa:7,7.?
7.p£'C7.C, tOV aUV^oXoV, Tj tou A'.ovfjaou paatXsca, 5co y-ai a^apa-Tsrai,
5wti O'JT, aviate- AooO-o'jaiv aXXr^Xatc 7.t 7.p£X7.i. And thus far
Olympiodorus ; in which pas- sages it is necessary to observe, that as
the Titans are the artificers of things, and stand next in order to
their creations, men are said to be composed from their fragments,
because the human soul has a partial life capable of proceeding to the
most extreme division united with its proper natiu'e. And while the
soul is in a state of servitude to Kleusinian
Mysteries. Bacchic Mysteries. the body, she hves confined, as it were,
in bonds, througli the dominion of this Titan- ical life. We may
observe farther concerning these dramatic shows of the Lesser Mys-
teries, that as they were intended to rep- resent the condition of the
soul while subservient to the body, we shall find that a liberation
from this servitude, through the purifying disciplines, potencies that
separate from evil, was what the wisdom of the an- cients intended
to signify by the descent of Hercules, Ulysses, etc., into Hades, and
their speedy return from its dark abodes. ' ' Hence," says
Proclus, " Hercules being purified by sacred initiations^ obtained
at length a per- fect estabhshment among the gods:"* that is,
well knowing the dreadful condition of his soul while in captivity to a
corporeal nature, and purifying himself by practice of the
cleansing virtues, of which certain puri- fications in the mystic
ceremonies were symbolical, he at length was freed from the bondage of
matter, and ascended beyond her Commentary on the Statesman of
Plato. Meusinian and reach. On this account, it is said of
him, that He dragg'd the three-mouth'd dog to upper day;
intimating that by temperance, continence, and the other virtues,
he drew upwards the intuitional, rational, and opinionative part of
the soul. And as to Theseus, who is repre- sented as . suffering eternal
punishment in Hades, we must consider him too as an allegorical
character, of which Proclus, in the above-cited admirable work, gives the
fol- lowing beautiful explanation : " Theseus and
Pirithous," says he, " are fabled to have ab- ducted Helen, and
descended to the infernal regions, i. e. they were lovers both of
mental and visible beauty. Afterward one of these (Theseus), on
account of his magnanimity, was Hberated by Hercules from Hades ;
but the other (Pirithous) remained there, be- cause he could not
attain the difficult height of divine contemplation." This account,
in- deed, of Theseus can by no means be recon- ciled with VIRGILIO’s: sedet,
seternumque sedebit, Infelix Theseus. There sits, and forever shall
sit, the unhappy Theseus. Bacchic Mysteries. Nor do I see how VIRGILIO can be
reconciled with himself, who, a httle before this, rep- resents him
as hberated from Hades. The conjecture, therefore, of Hyginus is
most probable, that VIRGILIO in this particular committed an oversight,
which, had he lived, he would doubtless have detected, and amended.
This is at least much more probable than the opinion of Dr. Warbm^ton,
that Theseus was a living character, who once entered into the
Eleusinian Mysteries by force, for which he was imprisoned upon earth,
and afterward punished in the infernal realms. For if this was the
case, why is not Hercules also represented as in punishment? and this
with much greater reason, since he actually dragged Cerberus from Hades ;
whereas the fabulous descent of Theseus was attended with no real,
but only intentional, mischief. Not to mention that Virgil appears to
be the only writer of antiquity who condemns this hero to an
eternity of pain. Nor is the secret meaning of the fables
concernmg the punishment of impure souls 78 Eleusinian
and less impressive and profound, as the follow- ing extract
fi'om the manuscript commentary of Olympiodorus on the GORGIA DI LEONZIO of
Plato will abundantly affirm: — "Ulysses," says he,
" descending into Hades, saw, among others, Sisyphus, and Tityus,
and Tantalus. Tityus he saw lying on the earth, and a vulture de-
vouring his liver; the liver signifying that he lived solely according to
the principle of cupidity in his natiu'e, and tln^ough this was
indeed internally prudent ; but the earth signifies that his disposition
was sordid. But Sisyphus, living under the dominion of ambi- tion
and anger, was employed in continually rolling a stone up an eminence,
because it perpetually descended again ; its descent im- plying the
vicious government of himself ; and his rolling the stone, the hard,
refractory, and, as it were, rebounding condition of his hf e. And,
lastly, he saw Tantalus extended by the side of a lake, and that there
was a tree before him, with abundance of fruit on its branches,
which he desired to gather, but it vanished from his view ; and this
indeed indicates, that he lived under the dominion Bacchic
Mysteries.of phantasy ; but his hanging over the lake, and in vain
attempting to drink, imphes the elusive, humid, and rapidly-ghding
condition of such a hfe." '0 O^uaasa? xaxsX^wv sec
cf'^o'j, oiQZ zoy Slgo^'ov, y.rji z^jV Tcc'jov, '/otc xov TavraXov.
Kc/.t tov {xsv TtTuov, st:'. xt^c yrj? £t§s %£L[X£Vov, vcat oxc xo
r^Trajj aoxoo r^aO-tsv Y'j'|. To {JL£V GOV T^Tuap GTjiJ-aLvst oxt ya-cct
xo STTtiJ'DJJL'/^XL/.OV fJ-SpOC sCTjaS, XOLl §17. XOfJXO
£C3(0 cppovxiCs'co. 'H 5s Y'^j OYjiJiaLvst xo yO-ovtov a'jxoy
'-ppovrjiia. 5s -Itaocpoc, 7,axa xo cp^Xo- xqjLov, y.7.t O-ujJLOscSsi;
C'^aa? sy-uXis xov Xcr)-ov, %at TuaXtv %ax£cp£p£v, £7U£i5£ T:£pi afjxc/.
xaxap- p£C, 7,7.7,(0^ 'jroXtX£00{JL£VOC. AtO^OV 0£ £7,oXt£,
hirj, XO axXrjpov, %ac avxixuTcov xyjc auxoa C<'>''JC- Tov o£
T7.vx7.A0v £t.5£v £v Xt{JLV (lege Xqj.virj) %7.l OXt £V 5£v5pOtC
'^a7.V 07:(0p7.'., ■X,7.L T^{)'£X£ xpuyav, X7.t wj^rjyziQ ^^^v/o^zo
ai o^copat. TOUXO 5£ arj{X7.CV£t XTjV 7,7x7. (p7.VX7.ai7.V
Cto'^v. Aox'/j 5£ aTj[j,7.v£t xo oXiaO-'/jpov 7,7.t ^lopyov,
%7t i9'7.xxov7. 'jLO'!77.yo|jL£vov. So that accord- ing to the wisdom of
the ancients, and the most sublime philosophy, the misery which a
soul endures in the present life, when giv- ing itself up to the dominion
of the irrational 80 Elensinian and part, is
nothing more than the commence- ment, as it were, of that torment which
it win experience hereafter : a torment the same in kind though
different in degree, as it will be much more di'eadful, vehement,
and extended. And by the above specimen, the reader may perceive how
infinitely supe- rior the explanation which the Platonic philosophy
affords of these fables is to the frigid and trifling interpretations of
Bacon and other modern mythologists ; who are able mdeed to point
out their correspondence to something in the natui'al or moral world,
be- cause such is the wonderful connection of things, that all
things sympathize with all, but are at the same time ignorant that
these fables were composed by men divinely wise, who framed them
after the model of the highest originals, from the contemplation of
real and permanent heing, and not from regarding the delusive and fluctuating
objects of sense. This, indeed, mil be evident to every ingenuous
mind, from reflecting that these wise men universally considered
Hell or death as commencing in the present life Baccldc Mysteries.
81 (as we have already abundantly proved), and that,
consequently, sense is nothing more than the energy of the dormant soul,
and a perception, as it were, of the delusions of di'eams. In
consequence of tliis, it is ab- surd in the highest degree to imagine
that such men would compose fables from the contemplation of
shadows only, without re- garding the splendid originals from which
these dark phantoms were produced : — not to mention that their
harmonizing so much more perfectly with intellectual explications
is an indisputable proof that they were de- rived from an intellectual
[noetic] source. And thus much for the dramatic shows of the
Lesser Mysteries, or the first part of these sacred institutions, which
was properly denominated xsXst-r] [telete^ the closing up] and
[vrrpiz Muesis [the initiation], as con- taining certain perfective
rites, symbolical ex- hibitions and the imparting and reception of
sacred doctrines, previous to the beholding of the most splendid visions,
or ETuoTutsta \epop- teia, seership]. For thus the gradation of
Bacchic Mysteries. the Mysteries is disposed by Proclus in
Theology of Plato, book iv. " The perfective rite [rsXsrrj,
telete],^^ says he, " precedes in or- der the initiation [\xorpiQ,
muesis], and initia- tion, the final apocalypse, epopteiay
npoY^yst- STzoiizziaQ.* At the same time it is proper to
observe that the whole business of initiation was distributed into five
parts, as we are informed by Theon of Smyrna, in Matliema- tica,
who thus elegantly compares philosophy to these mystic rites : "
Again," says he, " philosophy may be called the initiation
into true sacred ceremonies, and the instruction in genuine
Mysteries ; for there are five parts of initiation : the first of which
is the previous purification ; for neither are the Mysteries
communicated to all who are wilhng to receive them ; but there are
cer- tain persons who are prevented by the voice of the crier
[%Tjpu^, herux^, such as those who possess impure hands and an
inartic- ulate voice ; since it is necessary that such as are not
expelled from the Mysteries * Theology of Plato. Bacchic Mysteries.
85 should first be refined by certain purifica- tions : but
after purification, the reception of the sacred rites succeeds. The third
part is denominated epopfeia, or reception.* And the fourth, which
is the end and design of the revelation, is [the investiture] the binding
of the head and fixing of the crowns. The ini- tiated person is, by
this means, authorized to communicate to others the sacred rites in
which he has been instructed ; whether after this he becomes a
torch-bearer, or an hierophant of the Mysteries, or sustains some
other part of the sacerdotal office. But the fifth, which is produced
from all these, is friendship and interior commtmion with God, and
the enjoyment of that felicity which arises from intimate converse
with divine beings. Similar to this is the com- munication of
political instruction ; for, in the first place, a certain purification
precedes, * Theon appears to regard the final apocalypse or
epopteia, like E. Poeocke to whose views allusion is made elsewhere.
This writer says : " The initiated were styled ebaptoi," and
adds in a foot-note — " Avaptoi, literaWj obtaining or
getting." According to this the epopteia would imply the final
reception of the interior doctrines. — A. W. Eleusinian and
or else an exercise in proper matliematical discipline from early
youth. For thus Em- pedocles asserts, that it is necessary to be
purified from sordid concerns, by drawing from five fountains, with a
vessel of indis- soluble brass : but Plato, that purification is to
be derived fi'om the five mathematical disciplines, namely from
arithmetic, geome- try, stereometry, music, and astronomy ; but the
philosophical instruction in theorems, logical, pohtical, and physical,
is similar to initiation. But he (that is, Plato) denom- inates
zTzoizzzirj, [or the reveahng], a contem- plation of things which are
apprehended in- tuitively, absolute truths, and ideas. But he
considers the binding of the head, and corona- tion, as analogous to the
authority w^hich any one receives from his instructors, of leading
others to the same contemplation. And the fifth gradation is, the most
perfect fehcity arising from hence, and, according to Plato, an
assimilation to divinity^ as far as is pos- sible to mankind." But
though s'jroTrTS'.a, or the rendition of the arcane ideas, princi-
pally characterized the Greater Mysteries, yet Bacchic
Mysteries. 87 this was likewise accompanied with the [j.uyj-
GLc, or initiation, as will be evident in the conrse of this
inquuy. But let US now proceed to the doctrine of the Greater
Mysteries : and here I shall en- deavor to prove that as the dramatic
shows of the Lesser Mysteries occultly signified the miseries of
the soul while in subjection to body, so those of the Grreater obscurely
inti- mated, by mystic and splendid visions, the felicity of the
soul both here and hereafter, when purified from the defilements of
a material nature, and constantly elevated to the realities of
intellectual [spiritual] vision. Hence, as the ultimate design of the
Mys- teries, according to Plato, was to lead us back to the
principles from which we descended, that is, to a perfect enjoyment of
intellectual [spiritual] good, the imparting of these prin- ciples
was doubtless one part of the doctrine contained in the airoppTjia,
aporrheta, or se- cret discourses ; * and the different purifica-
* The apostle Paul apparently alludes to the disclosing of the
Mystical doctrines to the epopts or seers, in his Second Epistle to the
Corinthians, xii. 3, 4: "I knew a certain man, — whether in
88 Eleusinian and tions exhibited in these rites, in
conjunction with initiation and the epopteia were symbols of the
gradation of virtues requisite to this reascent of the soul. And hence,
too, if this be the case, a representation of the descent of the
soul [from its former heavenly estate] must certainly form no inconsiderable
part of these mystic shows ; all which the f ollomng observations
will, I do not doubt, abundantly evince. In the first place,
then, that the shows of the Greater Mysteries occultly signified
the felicity of the soul both here and hereafter, when separated
from the contact and influ- ence of the body, is evident from what
has been demonstrated in the former part of this discourse : for if
he who in the present life is in subjection to Ms irrational part is
truly in ITades, he who is superior to its dominion is liheivise an
inhahitayit of a place totally different from Hades* If Hades
therefore body or outside of body, I know not: God knoweth, — who
was rapt into paradise, and heard appv]xr/. pYjfxata, tilings
ineffable, which it is not lawful for a man to repeat." *Paul,
Epistle to the PhlUpjnans, iii, 20: "Our citizenship is in the
heavens." Bacchic Mysteries. 89 is the
region or condition of punishment and misery, the purified soul must
reside in the regions of bhss ; in a hf e and condition of purity
and contemplation in the present life, and entheastically,* animated by
the divine * Medical and Surgical Bejiorter, vol. xxxii. p. 195.
"Those who have professed to teach their fellow-mortals new truths
eon- cerning immortality, have based their authority on direct
divine inspiration. Numa, Zoroaster, Mohammed, Swedenborg, all
claimed communication with higher spirits ; they were what the Greeks
called eniheast — 'immersed in God' — a sti'iking word which Byron
introduced into our tongue." Carpenter describes the condition as an
automatic action of the brain. The inspired ideas arise in the mind
suddenly, spontaneously, but very vividly, at some time when tliinhing of
some other topic. Francis Galton defines genius as " the automatic
activity of the mind, as distin- guished from the effort of the will, —
the ideas coming by inspira- tion." This action, says the editor of
the Reporter, is largely favored by a condition approaching mental
disorder — at least by one remote from the ordinary working day habits of
thought. Fasting, prolonged intense mental action, gi-eat and unusual
com- motion of mind, will produce it ; and, indeed, these
extraordinary displays seem to have been so preceded. Jesus, Buddha,
Moham- med, all began their careers by fasting, and visions of devils
fol- lowed by angels. The candidates in the Eleusinian Mysteries
also saw visions and apparitions, while engaged in the mystic orgies.
"We do not, however, accept the materialistic view of this subject.
The cases are enftieasHe ; and although hysteria and other disorders of
the sympathetic system sometimes imitate the phenomena, we believe with
Plato and Plotimis, that the higher faculty, intellect or intuition as we
prefer to call it, the noetic part of our nature, is the faculty actually
at work. "By reflection, 90 Eleusinian and
energy, in the next. This being admitted, let us proceed to
consider the description which Virgil gives us of these fortunate
abodes, and the latent signification which it contains, ^neas and his
guide, then, hav- ing passed tlu^ough Hades, and seen at a dis-
tance Tartarus, or the utmost profundity of a material nature, they next
advance to the Elysian fields : Devenere locus Isetos, et
amaena vireta Fortunatoi'uin nemorum, sedesque beatas. Largiov Me
campos gether et lumine vestit Purpureo ; solemque suum, sua sidera
norunt. * Now the secret meaning of these joyful places is
thus beautifully unfolded by Olym- piodorus in his manuscript Commentary
on the Gorgias of Plato. "It is necessary to know," says
he, " that the fortunate islands are said to be raised above the sea
; and self-knowledge, and intellectual discipline, the soul can be
raised to the vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is,
to the vision of God." This is the epopteia. — A. W. *
"They came to the blissful regions, and delightful gi'eeu re-
treats, and happy abodes in the fortunate gi'oves. A freer and purer sky
here clothes the fields with a purjile light ; they recog- uize their own
suu, their own stars." Bacchic Mysteries. 91
hence a condition of being, which transcends this corporeal hfe and
generated existence, is denominated the islands of the blessed ;
but these are the same with the Elysian fields. And on this account
Hercules is said to have accomphshed his last labor in the Hes-
perian regions ; signifying bythis, that having vanquished a dark and
earthly life he after- ward hved in day, that is, in truth and
light." Asc 5s st^svai ozi w. Yfpoi uTTspxu'jrxGoaiv zt^q
i)-aXaaa'rj? avco-cspw otjoai. Tt;v oov Tzokizsiay XTjV 67:£|v7,u^0Laav
too fjioo if.rji z'qc, ysvY^ascoc, {jLa7,7.p(ov VTjaouc '/.''jXo'JOI.
TaoTC/v $£ saxi ■vcc/.t xo ^qkocjiw TtS^iov. Airy, zoi zoozo xat 6
'Hpay,- Xtj^ zeXeozaioy alJ-Xov sv xo:;; saTTspcocc {xspsatv
s'jTorr^aaxo, 7.vxi xax'^jYcovcaato xov axoxstvov ■jcai yO-oviov pwv, xai
Xotirov sv '^^t^spcf., oaxiv sv rjXrid-sio^ %rxi rp(oxi sC'^- So that he
who in the present state vanquishes as much as possible a corporeal
life, through the practice of the piu'ifying virtues, passes in
reahty into the Fortunate Islands of the soul, and lives surrounded with
the bright splen- dors of truth and wisdom proceeding from the sun
of good. 92 Bacchic Mysteries. The poet, in
describing the employments of the blessed, says : Pars
in gramineis exereent membra paleestris : Coutendunt ludo, et f ulva
luctantur arena : Pars pedibus plaudunt choreas, et carmina dicunt.
Nee non Threicius longa cum veste saeerdos Obloquitur uumeris septem
discrimina vocum: lamque eadem digitis, jam pectiue pulsat eburno.
Hie genus antiquum Teucri, puleherrima proles, Magnanimi heroes, nati
melioribus annis, Illusque, Assaracusque, et TroJEe Dardanus
auctor. Arma procul, currusque virum miratur inanis. Stant terra
defixse hastse, passimque soluti Per campum pascuntur equi. Quae gratia
curruum Armorumque fuit vivis, quae cura nitentis Pascere equos,
eadem sequitur tellure repostos. Conspicit, ecee alios, dextra laevaque
per herbam Vescentis, Isetumque choro Pgeana eanentis. Inter
odoratum lauri nemus : unde superne Pliu'imus Eridaui per silvam volvitur
amnis.* * "Some exercise their limbs upon the grassy field,
contend in play and wrestle on the yellow sand ; some dance on the
ground and utter songs. The priestly Thracian, likewise, in his
long robe [Orj^heus] responds in melodious numbers to the seven
distinguished notes ; and now strikes them with his fingers, now with the
ivory quill. Here are also' the ancient race of Teucer, a most
illustrious progeny, noble heroes, born in happier j-ears, — II, Assarac,
and Dardan, the founder of Troy, ^neas looking from afar, admires the
arms and empty war-cars of the heroes. There stood spears fixed in the
ground, and scattered over the plain horses are feeding. The same taste
which when alive •'i%^^^^_^ ^^^!^mm^
Eleusiuiau Mj'steries. Bacchic Mysteries. 95
This must not be understood as if the soul in the regions of
fehcity retained any affec- tion for material concerns, or was engaged
in the trifling pursuits of the everyday cor- poreal life ; but
that when separated from generation, and the world's life, she is
con- stantly engaged in employments proper to the higher spiritual
nature ; either in divine con- tests of the most exalted wisdom ; in
forming the responsive dance of refined imagina- tions; in tuning
the sacred lyi'e of mystic piety to strains of divine fury and
ineffable dehght ; in giving free scope to the splendid and winged
powers of the soul; or in nourishing the higher intellect with the
sub- stantial banquets of intelligible [spiritual] food. Nor is it
without reason that the river Eridanus is represented as flowing
through these delightful abodes; and is at these men had for
chariots and arms, the same passion for rear- ing glossy steeds, follow
them reposing beneath the earth. Lo! also he views others, on the right
and left, feasting on the grass, and singing in chorus the joyful pteon,
amid a fragrant grove of laui'el; whence from above the greatest river
Eridanus rolls through the woods." A peeon was chanted to
Apollo at Delphi every seventh day. 96 Eleusinian and
the same time denominated plurimus (great- est), because a great
part of it was absorbed in the earth without emerging from thence :
for a river is the symbol of hfe, and conse- quently signifies in this
place the intellectual or spii'ituaJ life, j)roceeding from on liigh,
that is, from divinity itself, and gliding with pro- lific energy
through the hidden and profound recesses of the soul. In the
following lines he says : Nulli eerta domus. Lucis habitamus
opacis, Riparumque toros, et prata recentia rivis Incolimus.*
By the blessed not being confined to a par- ticular habitation, is
implied that they are perfectly free in all things ; being entirely
free from all material restraint, and purified from all inclination
incident to the dark and cold tenement of the body. The shady
groves are symbols of the retiring of the » li
' No one of us has a fixed abode. We inhabit the dark groves, and
occupy couches on the river-banks, and meadows fresh with little
rivulets." Bacchic Mysteries. 97 soul to
the depth of her essence, and there, by energy solely divine,
establishing herself in the ineffable principle of things.* And the
meadows are syin])ols of that prolific power of the gods through which
all the variety of reasons, animals, and forms was produced, and
which is here the refresh- ing pastui'e and retreat of the hberated
soul. But that the communication of the knowl- edge of the
principles from which the soul descended formed a part of the sacred
Mys- teries is evident from Yirgil ; and that this was accompanied
with a vision of these prin- ciples or gods, is no less certain, from
the testimony of Plato, Apuleius, and Proclus. The first part of
this assertion is evinced by the following beautiful lines :
* Plato: BepiihUc, vi. 5. "He who possesses the love of true
knowledge is naturally carried in his aspirations to the real prin- ciple
of being ; and his love knows no repose till it shall have been united
with the essence of each object through that jiart of the soul, which is
akin to the Permanent and Essential ; and so, the divine conjunction
having evolved interior knowledge and truth, the knowledge of being is
won." 98 EleiiHinian and Prineipio cfelum
ac tei-ras, eamposque liquentes Lucentemque globum luuas,
Titauiaque astra Spiritus intus alit, totumque infusa per
artus Mens agitat molem, et magno se corpore miscet.
Inde hominum peeudiimque genus, vitseque volantum, Et qu£e
marmoreo fert monstra sub sequore pontus. Igneus est oUis vigor, et
cselestis origo Seminibus, quantum non uoxia corpora tardant,
Terrenique hebetant artus, moribundaque membra. Hinc metiiunt
cupiuntque : dolent, gaudentque : neque auras Despieiunt clausa
tenebris et carcere csecc* For the sources of the soul's existence
are also the principles from which it fell; and these, as we may
learn from the Thnams of Plato, are the Demiurgus, the mundane
soul, and the junior or mundane gods.f Now, of * "First
of all the interior spirit sustains the heaven and earth and watery
plains, the illuminated orb of the moon, and the Titan- ian stars ; and
the Mind, diffused through all the members, gives energy to the whole
frame, and mingles with the vast body [of the universe]. Thence proceed
the race of men and beasts, the vital souls of birds and the brutes which
the Ocean breeds beneath its smooth surface. In them all is a potency
like fire, and a celestial origin as to the rudimentary principles, so
far as they are not clogged by noxious bodies. They are deadened by
earthly forms and members subject to death ; hence they fear and
desire, grieve and rejoice ; nor do they, thus enclosed in darkness
and the gloomy prison, behold the heavenly air." \
Timceus. xliv. "The Deity (Demiurgus) himself formed the divine; and
then delivered over to his celestial offspring [the Bacchic
Mysteries. 99 these, the mundane intellect, which, accord-
ing to the ancient theology, is represented by Bacchus, is principally
celebrated by the poet, and this because the soul is particu- larly
distributed into generation, after the manner of Dionysus or Bacchus, as
is evident from the preceding extracts from Olympio- dorus : and is
still more abundantly confirmed by the following curious passage from
the same author, in his comment on the Plicedo of Plato. " The
soul," says he, " descends Cori- cally [or after the manner of
Proserpine] into generation,* but is distributed into gen- eration
Dionysiacally,t and she is bound in body PrometheiacallyJ and
Titanically: she fi'ees herself therefore from its bonds by ex-
ercising the strength of Hercules ; but she subordinate or
generated gods], the task of creating the mortal. These subordinate
deities, copying the example of their parent, and receiving from his
hands the immortal principles of the human soul, fashioned after this the
mortal body, which they consigned to the soul as a vehicle, and in which
they placed also another kind of a soul, which is mortal, and is the seat
of violent and fatal passions." * That is to say, as if
dying. Kore was a name of Proserpina. t /. e. as if divided into
pieces. X I. e. Chained fast. 100 We US in km
and is collected into one through the assistance of Apollo
and the savior Minerva, by phi- losophical discipline of mind and heart
purify- ing the nature." i)zi /.opr^toc {j.sv sic ysvE^tv
'jTzo zT^z Ysvsascoc' npojXY^O-suo? "^s, v.rj.1 Tiza- AttoXXcovoc
%ol^ rr^c acorrjpac A\)*T;va?, ':r7.{)-a(vT:L- '^(oc -(0 oyzi
r5'.Xoaorpo'ja7.. The poet, however, intimates the other causes of the
soul's exis- tence, when he says, Igneiis est ollis vigor, et
coelestis origo Semiuibus * which evidently alludes to the
sowing of souls into generation, t mentioned in the Timmus. And
fi'om hence the reader will * "There is then a certain fiery
potency, and a celestial oi'igiu as to the rudimentary principles."
/. e. Restored to wholeness and divine life. tl Corinthians,
xv. 42-44. "So also is the onafitaHis of the dead. It is sown in
corruption [the material body] ; it is raised in incorruption : it is
sown in dishonor ; it is raised in gloi-y : it is sown in weakness ; it
is raised in power : it is sown a psychical body ; it is raised a
spiritual body." Bacchic Mysteries. 101
easily perceive the extreme ridiculousness of Dr. Warburton's
system, that the grand secret of the Mysteries consisted in exposing
the errors of Polytheism, and in teaching the doctrine of the
unity, or the existence of one deity alone. For he might as well have
said, that the great secret consisted in teaching a man how, by
writing notes on the works of a poet, he might become a bishop ! But
it is by no means wonderful that men who have not the smallest
conception of the true nature of the gods ; who have persuaded
themselves that they were only dead men deified ; and who measure the
understand- ings of the ancients by their own, should be led to
fabricate a system so improbable and absurd. But that this
instruction was accompanied with a vision of the source from which
the soul proceeded, is evident from the express testimony, in the
first place, of Apuleius, who thus describes his initiation into
the Mysteries. " Accessi confinium mortis ; et calcato
Proserpinse limine, per omnia vectus elementa remeavi. Nocte media vidi
solem. 102 Meusinicm and candido coniscantem
kimine, deos inferos, et deos superos. Access! coram, et adoravi de
proximo." * That is, "I approached the confines of death : and
having trodden on the threshold of Proserpina returned, having been
carried through all the elements. In the depths of midnight I saw the sun
glitter- ing with a splendid light, together with the infernal and
supernal gods : and to these divinities approaching near, I paid the
tribute of devout adoration." And this is no less evidently
implied by Plato, who thus de- scribes the fehcity of the holy soul prior
to its descent, in a beautiful allusion to the arcane visions of
the Mysteries. Ka/.Ao? 3s TOIS Y^V tOStV X7.[JLirpOV, OTS GOV
£UOaL|J,OVt )^op(p {j-ay,7.pcctv o^iv zz xac O-sav £:ro{jL£vot
jjis'La [jLsv Aio^ T;tJ-£tc, aXXot o£ \xez aXXoo ^scov, £l§ov t£
7.71 BzzKO'jyzo T£X£t(ov YjV 0-£|j.ic Xb^biv {i-7.%a- pKOXW.TYjV
YjV 0pYl7.C0[J-£V oXoX^Y^pOL {JL£V 7.010^ OVr£C, y,7.l 7.'Jr7.^£tC
%7.'5t(OV 037. Y^|X7.C £V 63r£p(p /p<5V(j) 67C£{X£V£V. '0X07cXy^P7. $£
7,7.1 TLTiXa %7.C aTp£(J.Y^ %7.t £u5aqJL0V7. rp7.a{J.7.-7. JJLyG'J{JL£VOt
T£ 7,71 £TC0TCT:£U0V'C£C £V auyTJ %7.9-7.pq: %7.l)-7.pOl * The
Golden Ass. xi. p. 239 (Bohn). Bacchic Mysteries. 103
TTSpLrpspovrs? ovofxaCopisv oarpsoa xpo':rov 5s
d£3{jL£ujj-£V0L That is, " But it was tlien law- ful to survey the
most splendid beauty, when we obtained, together with that blessed
choir, this happy vision and contemplation. And we indeed enjoyed
this blessed spectacle to- gether with Jupiter ; but others in
conjunc- tion with some other god ; at the same time being initiated
in those Mysteries^ which it is lawful to call the most blessed of
all Mysteries. And these divine Orgies* were celebrated by us,
while we possessed the proper integrity of our nature, we were
freed from the molestations of evil which otherwise await us in a future
period of time. Likewise, in consequence of this divine initiation,
we became spectators of entire, simple, immovable, and blessed visions,
res- ident in a pure hght ; and were ourselves pure and immaculate,
being hberated from this surrounding vestment, which we denom-
inate body, and to which we are now bound * The peculiar rites of
the Mysteries were indifferently termed Orgies or Labors, teletai or
finishings, and initiations. 10-i Bacchic Mysteries.
like an oyster to its shell."* Upon this beautiful passage
Proclus observes, "That the initiation and epopfeia [the vailing and
the reveahng] are symbols of ineffable silence, and of union with
mystical natures, through intelligible \dsions.t Kocl yap -q {xor^zic, v.ai
r^ * Phcedriis, 64. t Proclus : Theology of Plato, book
iv. The following reading is suggested : "The initiation and final
disclosing are a symbol of the Ineffable Silence, and of the enosis, or
being at one and en rapport with the mystical verities through
manifestations in- tuitively comprehended." The
ixv>'f\z<.z, muesis, or initiation is defined by E. Pocoeke as
relating to the "well-known Buddhist Moksha, final and eternal
happiness, the liberation of the soul from the body and its exemp- tion
from fvirther transmigration." For all mystcB therefore there was a
certain welcome to the abodes of the blessed. The term cTTOTrcjioi,
epopteia, applied to the last scene of initiation, he de- rives from the
Sanscrit, evaptoi, an obtaining; the epopt being regarded as having
secured for himself or herself divine bliss. It is more usual,
however, to treat these terms as pure Greek; and to render the mnesis as
initiation and to derive epopteia from STCOrtTopiat. According to this
etymology an epopt is a seer or clairvoyant, one who knows the interior
wisdom. The terms in- spector and superintendent do not, tome, at all
express the idea, and I am inclined, in fact, to suppose with Mr.
Pocoeke, that the Mysteries came from the East, and from that to deduce
that the technical words and expressions are other than Greek.
Plotinus, speaking of this enosis or oneness, lays down a spiritual
discipline analogous to that of the Mystic Orgies : " Purify your
soul from all undue hope and fear about earthly things ; mortify
tl'^ £leii8iiiiau Mysteries. Etruscan.
Bacchic Mysteries. 107 TYjC iTpoc xa {jLoatixa
"^ta t(ov vo'/^xcov cpaajjia- xtov svcoascoc;. Now, from all tliis,
it may be inferred, that the most sublime part of the zTzrj'Kisirx
\epoptei(i\ or final revealing, con- sisted in beholding the gods
themselves in- vested with a resplendent hght ; * and that this was
symbohcal of those transporting visions, which the virtuous soul will
con- stantly enjoy in a future state ; and of which it is able to
gain some ravishing glimpses, even while connected with the
cumbrous vestment of the body.f the body, deny self, —
affections as well as appetites, — and the inner eye will begin to exercise
its clear and solemn vision." " In the reduction of yonr soul
to its simplest principles, the divine germ, you attain this oneness. We
stand then in the immediate pres- ence of God, who shines out from the
profound depths of the soul."- A. W. * Apuleius: The
Golden Ass. xi. The candidate was instructed by the hierophant, and
permitted to look within the cistn or chest, which contained the mystic
serpent, the phallus, egg, and gi-ains sacred to Demeter. As the epopt
was reverent, or otherwise, he now "knew himself" by the
sentiments aroused. Plato and Al- cibiades gazed with emotions wide
apart. — A. W. t Plotinus : Letter to Flaccus. " It is only now and
then that . we can enjoy the elevation made possible for us, above the
limits of the body and the world. I myself have realized it but
three times as yet, and Porphyry hitherto not once."
108 Bacchic Mysteries. But that this was actually the case,
is evident fi'om the following unequivocal tes- timony of Proclus :
Ev airaac zaic, zsXszaic TzpozEiyoo(ji [xoryfj.Q^ TToXXa $s
G'/r^iiaza s^- aXazzoyzzc, rpctcvovroir %ru zoze {j.£v azoizM- zov
a'jrcov xpojBsjBXrjtac «:p(oc, xors 5s sec c(v- {J-pcoTTStov {j-opY'/jv
£a/'/j{j.axta[JL£vov, ':o':£ os stc dXXotov trjTTov ';:po£XY|XfjG(o?. /.
^. " In all the initiations and Mysteries, the gods ex- hibit
many forms of themselves, and appear in a variety of shapes : and
sometimes, in- deed, a formless light ^ of themselves is held forth
to the view ; sometimes this hght is according to a human form, and
sometimes it proceeds into a different shape." f This
assertion of divine visions in the Mysteries, Porpbyiy
afterward declared that he witnessed four times, when near him, the soul
or " intellect " of Plotiiius thns raised up to the First and
Sovereign Good ; also that he himself was only once so elevated to the
enosis or union with God, so as to have glimpses of the eternal world.
This did not occur till he was sixty-eight years of age. — A. W.
* I. e. Si luminous appearance without any defined form or shape of
an object. \ Commentary upon the Republic of Plato, page 380.
Cupids, Satyr, aud statue of Priapua. Bacchic
Mysteries. Ill is clearly confirmed by Plotinus.* And, in
short, that magical evocation formed a part of the sacerdotal office in
the Mysteries, and that this was universally believed by all
antiquity, long before the era of the latter Platonists,t is plain from
the testimony of Hippocrates, or at least Democritus, in his
Treatise de Morbo Sacro.X For speaking of those who attempt to cure this
disease by magic, he observes : st yap csayjvtjv ts %aGac-
Xaaaav arpovov 7.7.1 yqy, zat z'rjXka ta zoiotjzo zpOTzrj, TTOLVca
zizi^z/ovzrji sxiataaO-ai, slis 7cac STc TEAET12N, scxs xoll Ss aXhric,
zivoq yvtofj-Tj? {xsXsrr^^ cpaatv ocot xs scvai 01 zrjjjza
btzizt^^so- oyzec, ^uaspsstv sjj-oi ys 5oy.£oaaL y,. X. /. e.
" For if they profess themselves able to draw down the moon, to
obscure the sun, to pro- duce stormy and pleasant weather, as like-
wise showers of rain, and heats, and to render the sea and earth barren,
and to accomplish *Ennead, i. book 6; and ix. book 9. t
Plotinus, Porphyry, lamblichus, Proclus, Longinus, and their
associates. X Epilepsy. 112 Eleusinian and
every thing else of this kind ; whether they derive this knowledge
from flie Mysteries^ or from some other mental effort or
meditation, they appear to me to be impious, from the study of such
concerns." From all which is easy to see, how egregiously Dr. Warburton
was mistaken, when, in page 231 of his Divine Legation^ he asserts,
" that the light beheld in the Mysteries, was nothing more than
an illuminated image which the priests had thoroughly
purified." But he is likewise no less mistaken, in
transferring the injunction given in one of the Magic Oracles of
Zoroaster, to the busi- ness of the Eleusinian Mysteries, and in
per- verting the meaning of the Oracle's admoni- tion. For thus the
Oracle speaks : Myj 'puocojc y.akto'f\c, aoxonxoy a-^aKiw.,
That is, " Invoke not the self -revealing image of Nature, for
you must not behold these things before your body has received the
initiation." Upon which he observes, " that
Bacchic Mysteries. 113 the self-revealing image ivas only a
diffusive shining light, as the name partly declares^ * But this is
a piece of gross ignorance, from which he might have been freed by an
atten- tive perusal of Proehis on the Timceus of Plato : for in
these truly divine Commenta- ries we learn, " that the moonf is the
cause of nature to mortals, and the self -rev eating image of the
fountain of nature.^^ "^.zXriyq {isv acrca zoic, O-vyjzoi? zr^c,
^fO(jSo:)C, to ayioTitCiV rj^^rjX\i.a. o'j37. xT^c 'izr^'^fr/.iac,
'f'jasco^. If the reader is desirous of knowing what we are to
under- stand by the fountain of nature of which the moon is the
image, let him attend to the fol- lowing information, derived from a long
and deep study of the ancient theology : for from hence I have
learned, that there are many divine fountains contained in the essence
of the demiurgus of the world ; and that among these there are
three of a very distinguished rank, namely, the fountain of souls, or
Juno, — the fountain of virtues, or Minerva — and * Divine
Legation, p. 231. t /. e. The Mother-Goddess, Isis or Demeter,
symbolized as Selene or the Moon, 114 Eleusinian
and the fountain of nature, or Diana. This last fountain too
immediately depends on the vilifying goddess Rhea; and was assumed
by the Demiurgus among the rest, as neces- sary to the prohfic
reproduction of liimself. And this information will enable us
besides to explain the meaning of the following i3as- sages in
Apuleius, which, from not being- understood, have induced the moderns
to believe that Apuleius acknowledged but one deity alone. The
first of these passages is in the beginning of the eleventh book of
his MetamorpJioses, in which the divinity of the moon is
represented as addressing him in this sublime manner : " En adsum
tuis com- mota, Luci, precibus, rerum Natura parens, elementorum
omnium domina, seculorum progenies initialis, summa numinum, regina
Manium, prima cai^litum, Deoruni Dearum- que facies uniformis : quae cseh
luminosa culmina, maris salubria flamina, inferorum de plorata
silentia nutibus meis dispenso : cu jus numen unicum, multiformi specie,
ritu vario, nomine multijugo totus veneratur orbis. Me primigenii
Phryges Pessinunticam nominant Bacchic Mysteries. 115
Deum matrem. Hiiic Autochthones Attici Cecropiam Minervam ; ilhiic
fluctuantes Cy- prii Paphiam Veiierem : Cretes sagittif eri
Dictjninam Dianam ; Sicuh trihngues Sty- giam Proserpinam ; Eleusinii
vetustam Deam Cererem : Junonem ahi, ahi Bellonam, alii Hecaten,
Rhamnusiam ahi. Et qui nascen- tis dei Sohs inchoantibus radiis
iUustrantur, ^thiopes, Ariique, priscaque doctrina pol- lentes
^gyptii cserimoniis me prorsus propriis percolentes appellant vero nomine
reginam Isidem." That is, " Behold, Lucius, moved with
thy supphcations, I am present ; I, who am Nature, the parent of things,
mis- tress of all the elements, initial progeny of the ages, the
highest of the divinities, queen of departed spirits, the first of the
celes- tials, of gods and goddesses the sole hkeness of all : who
rule by my nod the luminous heights of the heavens, the salubrious
breezes of the sea, and the woful silences of the in- fernal
regions, and whose divinity, in itself but one, is venerated by all the
earth, in many characters, various rites, and different
appellations. Hence the primitive Phry- 116 Bacchic
Mysteries. gians call me Pessinuntica, the motlier of the
gods ; the Attic Autochthons, Cecropian Muierva; the wave-siUTOunded
Cyprians, Paphian Venus ; the arrow-bearing Cretans, Dictynnian
Diana; the three-tongued Sicil- ians, Stygian Proserpina ; and the
inhabit- ants of Eleusis, the ancient goddess Ceres. Some, again,
have invoked me as Juno, others as Bellona, others as Hecate, and others
as Rhamnusia ; and those who are enlightened by the emerging rays
of the rising sun, the Ethiopians, and Aryans, and likewise the
Egyptians powerful in ancient learning, who reverence my divinity with
cerenioaies per- fectly proper, call me by my true appellation
Queen Isis." And, again, in another place of the same book, he says
of the moon : " Te Superi colunt, observant Inferi : tu rotas
orbem, luminas Solem, regis mundum, calcas Tartarum. Tibi respondent
sidera, gaudent numina, redeunt tempora, serviunt elementa,
etc." That is, " The supernal gods reverence thee, and those in
the realms beneath at- tentively do homage to thy divinity. Thou
dost make the universe revolve, illuminate Bacchic
Mysteries. 119 the sun, govern the world, and tread on Tar-
tarns. The stars answer thee, the gods re- joice, the houi's and seasons
retui*n by thy appointment, and the elements serve thee." For
all tliis easily follows, if we consider it as addressed to the
fountain-deity of nature, subsisting in the Demiurgus, and which is
the exemplar of that nature which flourishes in the lunar orb, and
throughout the mate- rial world, and from which the deity itself of
the moon originally proceeds. Hence, as this fountain innnediately
depends on the life-giving goddess Rhea, the reason is ob- vious,
why it was formerly worshiped as the mother of the gods : and as all the
mundane are contained in the super-mundane gods, the other
appellations are to be considered as names of the several mundane
divinities pro- duced by this fountain, and in whose essence they
are likewise contained. But to proceed with our inquiry, I
shall, in the next place, prove that the different purifications
exhibited in these rites, in con- junction with initiation and the epopteia
were symbols of the gradation of disciplines 120 Eleusinian
and requisite to the reascent of the soul.* And the fii'st
part, indeed, of this proposition respecting the purifications,
immediately fol- lows from the testimony of Plato in the pas- sage
already adduced, in which he asserts that the ultimate design of the
Mysteries was to lead us back to the principles from which we
originally fell. For if the Mysteries were symbohcal, as is universally
acknowledged, this must likewise be true of the purifica- tions as
a part of the Mysteries ; and as in- ward puiity, of which the external
is sym- bolical, can only be obtained by the exercise of the
virtues, it evidently follows that the purifications were symbols of the
pimfying moral virtues. And the latter part of the proposition may
be easily inferred, from the passage ah'eady cited from the Phmdrus
of Plato, in which he compares initiation and the epopteia to the
blessed vision of the higher intelligible natures ; an employment which
can alone belong to the exercise of contemplation. But the whole of this
is rendered indisputable by the following re- */. e. to its
former divine condition. Bacchic Mysteries. 121
markable testimony of Olympiodorus, in his excellent manuscript
Commentary on the PJuedo of Plato.* "In the sacred rites,"
says he, "popular pui4fications are in the first place brought
forth, and after these such as are more arcane. But, in the third
place, collections of various things into one are re- ceived ;
after which follows inspection. The ethical and political virtues
therefore are analogous to the apparent purifications ; the
cathartic virtues which banish all external impressions, correspond to
the more arcane purifications. The theoretical energies about
intelligibles, are analogous to the collections ; and the contraction of
these energies into an * We have taken the liberty to present the
following version of this passage, as more correctly expressing the sense
of the orig- inal: "At the holy places are first the public
purifications. With these the more arcane exercises follow ; and after
those the obliga- tions [-jozzaizz'.z) are taken, and the initiations
follow, ending with the epopiic disclosures. So, as will be seen, the
moral and social (political) virtues are analogous to the public
purifications ; the purifying virtues in their turn, which take the place
of all external matters, correspond to the moi'e arcane disciplines ;
the contemplative exei'cises concerning things to be known intui- tively
to the taking of the obligations ; the including of them as an undivided
whole, to the initiations ; and the simple ocular view of simple objects
to the epoptic revelations." 122 Eleusinian and
indivisible nature, corresponds to initiation. And the simple
self-inspection of simple forms, is analogous to epoptic vision."
'On QZIQ. Etra ZTZl ZnjJZrjXZ aTZOrjfjr^ZOZZrjrjr ^xszfj, 5s
za'jzac, QOGzaaeic, Tzarjzhr^x'^jrjyrjyzrj, y-ai siri zaozruQ ixorpBiQ-
£v TsXst 5s siroirrscc/i. xVvc/Ao- yooaL TGCV'JV ai [J-sv TjO-^xat 7,7.^ 7:o/dziY.'y,i
aps- xa^ XGtc s[xcpavsai y,7,i)'7.p{j-occ. Ai 5s %7.i)"7pii-
7,7^ 0371 77C0a7.SU7.C0Vt7t TZaVZO. Zrj. kY.ZOC, ZOIQ
aTTopp'^ro-spoic. Ai 5s xspt ':7 voriza r^scopYpt- %7c TS
svspYSi7.i zai^ GOGzaoeaiy. Ac 5s to'jtojv G'jya.irjSJsiQ sec "co
ajispiarov X7cc \vyqGZGiy. Ai 5s CLTZkr/l X(OV 7.7rAC0V SC5(0V
70X0'V.7C t71C s7U07ursc7t?. And here I can not refrain from
noticing, with indignation mingled with pity, the ignorance and arrogance
of modern crit- ics, who pretend that this distribution of the
virtues is entirely the invention of the latter Platonists, and without
any foundation in the writings of Plato.* And among the sup-
porters of such ignorance, I am sovry to find * The writings of
Augustin handed Neo-Platonism down to pos- terity as the original and
esoteric doctrine of the first followers of Plato. He enumerates the
causes which led, in his opinion, to the negative position assumed by the
Academics, and to the con- Bacchic Mysteries. 123
Fabricius, in his prolegomena to the hfe of Proclus. For nothing
can be more obvious to every reader of Plato than that in his Laws
he treats of the social and political virtues ; in his Phcedo, and
seventh book of the RepiibUc^ of the purifying; and in his
Thceafetus, of the contemplative and sub- limer virtues. This observation
is, indeed, so obvious, in the Phcedo, with respect to the
purifying virtues, that no one but a verbal critic could read this
dialogue and be insen- sible to its truth : for Socrates in the very
beginning expressly asserts that it is the business of philosophers to
study to die, and to be themselves dead,* and yet at the same time
reprobates suicide. What then can such eealment of their real
opinions. He describes Plotinus as a re- suscitated Plato. — Against the
Academics, iii. 17-20. * Phcedo, 21. Kivoovjooos: y^P o'^o-
TOY/_otvou-iv op&to? «t:to|j.evo'. (pcXoaocp'.a? XsXfj^cVai la?
aWooc^, bv. odgsv aXXo aoxo'. ziz'.x-ffitiionz'y Y) aTCofl-VYjoxstv zt
xa: TsS-vava:. /. e. For as many as rightly apply themselves to
philosophy seem to have left others ignorant, that they themselves aim at
nothing else than to die and to be dead. Elsewhere (31) Socrates
says : " While we live, we shall ap- proach nearest to intuitive
knowledge, if we hold no communion with the body, except, what absolute
necessity requires, nor suffer ourselves to be pervaded by its nature,
but purify ourselves from it until God himself shall release us."
124 Eleusinian and a death mean but symbolical or
philosophical death ? And what is this but the true ex- ercise of
the virtues which purify '? But these poor men read only superficially,
or for the sake of displaying some critical acumen in verbal
emendations ; and yet with such despicable preparations for
philosoph- ical discussion, they have the impudence to oppose their
puerile conceptions to the de- cisions of men of elevated genius and
pro- found investigation, who, happily freed from the danger and
drudgery of learning any foreign language,* directed all their
attention without restraint to the acquisition of the most exalted
truth. It only now remains that we prove, in the last place,
that a representation of the descent of the soul formed no inconsiderable
part of these mystic shows. This, indeed, is doubt- * It is
to be regretted, nevertheless, that our author had not risked the "
danger and drudgery " of learning Greek, so as to have rendered
fuller justice to his subject, and been of greater service to his
readers. We are conscious that those who are too learned in verbal
criticism are prone to overlook the real purport of the text.— A.
W. Bacchic Mysteries. 125 less occultly
intimated by Yirgil, when speak- ing of the souls of the blessed ui
Elysium, he adds, Has omnes, ubi mille rotam volvere per
annos, Lethaeum ad fluviiim deus evocat agmine magno : Scilicet
immemores supera ut convexa revisant, Eursus et incipiant iu eorpore
velle reverti.* But openly by Apuleius in the following
prayer which Psyche addresses to Ceres : Per ego te frugiferam tuam
dextram istam deprecor, per Isetificas messium cserimonias, per
tacita sacra cistarum, et per famulorum tuorum draconum pinnata
cuiTicula, et glebae. Siculae fulcamina, et currum rapacem, et ter-
ram tenacem, et illuminarum Proserpinse nuptiarum demeacula, et caetera
quae silentio tegit Eleusis, Atticae sacrarium ; miserandse Psyches
animse, supplicis fuse, subsiste.f That is, "I beseech thee, by thy
fruit-bearing right * " All these, after they have passed away
a thousand years, are summoned by the divine one in great array, to the
Lethfean river. In this way they become forgetful of their former
earth-life, and revisit the vatilted realms of the world, willing again
to return into bodies." t Apuleius : The Golden Ass.
(Story of Cupid and Psyche), book vi. 126 Bacchic
Mysteries. hand, by the joyful ceremonies of harvest, by the
occult sacred rites of thy cistae,* and by the winged car of thy
attending dragons, and the furrows of the Sicilian soil, and the
ra- pacious chariot (or car of the ravisher), and the dark
descending ceremonies attending the marriage of Proserpina^ and the
ascending rites which accompanied the lighted return of thy
daughter^ and l)ij other arcana which Eleusis the Attic sanctuary
conceals in profound silence^ reheve the sorrows of thy wretched
suppliant Psyche." For the abduction of Proserpina signifies the
descent of the soul, as is e^ddent from the passage previously
adduced from Olympiodorus, in which he says the soul descends Corically ;
f and this is confirmed by the authority of the philosopher
Sallust, who observes, " That the abduction of Proserpina is fabled
to have taken place about the opposite equinoctial ; and by this
the descent of souls [into earth- * Chests or baskets, made of
osiers, in which were enclosed the mystical images and utensils which the
uninitiated were not per- mitted to behold. t /• €. as to
death ; analogously to the descent of Kore-Per- sephone to the Underworld.
Ceres lends lier ear to Triptolemus.
Proserpina and Pluto. Jupiter augry. Bacchic Mysteries.
129 life] is implied." Tlepi ^(oov x'ajv svaviiav lo^q-
{)-ac, 6 5'^ /.^.O-oSoc soTt tcov '|y/cov.* And as the abduction of
Proserpina was exhibited in the dramatic representations of the
Myste- ries, as is clear from Apuleius, it indisputa- bly follows,
that this represented the descent of the soul, and its union with the
dark tene- ment of the body. Indeed, if the ascent and descent of
the soul, and its condition while connected with a material nature, were
rep- resented in the dramatic shows of the Mys- teries, it is
evident that this was implied by the rape of Proserpina. And the
former part of this assertion is manifest from Apu- leius, when
describing his initiation, he says, in the passage already adduced :
"I ap- proached the confines of death, and having trodden on
the threshold of Proserpina, / returned^ having been carried through
all the elements.^'' And as to the latter part, it has been amply
proved, fi'om the highest authority, in the first division of this
dis- course. * De Diis et Mundo, p. 251.
130 Meusinian and Nor must the reader be distiu^bed on find-
ing that, according to Porphyry, as cited by Eusebius,* the fable of
Proserpina alludes to seed placed in the ground ; for this is like-
wise true of the fable, considered according- to its material
explanation. But it will be proper on this occasion to rise a httle
higher, and consider the various species of fables, according to
their philosophical arrange- ment ; since by this means the present
sub- ject will receive an additional elucidation, and the wisdom of
the ancient authors of fables will be vindicated from the unjust
aspersions of ignorant declaimers. I shall present the reader, therefore,
with the fol- lowing interesting division of fables, fi'om the
elegant book of the Platonic philoso- pher Sallust, on the gods and the
universe. " Of fables," says he, " some are theological,
others physical, others animastic (or relating to soul), others material,
and lastly, others mixed from these. Fables are theological which
relate to nothing corporeal, but contem- plate the very essences of the
gods ; such as * Evang. Prcepui: book iii. chap. 2.
Bacchic Mysteries. 131 the fable which asserts that Saturn
devoured his children : for it insinuates nothing more than the
nature of an intellectual (or intu- itional) god ; since every such
intellect returns into itself. We regard fables physically when we
speak concerning the operations of the gods about the world ; as when
considering Saturn the same as Time, and calhng the parts of time
the children of the universe, we assert that the children are devoiu'ed
by their parent. But we utter fables in a spiritual mode, when we
contemplate the operations of the soul ; because the intellections of
our souls, though by a discursive energy they go forth into other
things, yet abide in their parents. Lastly, fables are material, such
as the Egyptians ignorantly employ, consider- ing and calling
corporeal natures divinities : such as Isis, earth, Osiris, humidity,
Typhon, heat • or, again, denominating Saturn water, Adonis,
fruits, and Bacchus, wine. And, in- deed, to assert that these are
dedicated to the gods, in the same manner as herbs, stones, and
animals, is the part of wise men ; but to call them gods is alone the
province of fools and 132 Eleusinian and madmen
; unless we speak in the same man- ner as when, from estabhshed custom,
we call the orb of the sun and its rays the sun itself. But we may
perceive the mixed kind of fables, as well in many other particulars,
as when they relate that Discord, at a banquet of the gods, tlu'ew
a golden apple, and that a dispute about it arising among the god-
desses, they were sent by Jupiter to take the judgment of Paris, who,
charmed with the beauty of Venus, gave her the apple in pref-
erence to the rest. For in this fable the banquet denotes the super-mundane
powers of the gods ; and on this account they sub- sist in
conjunction with each other : but the golden apple denotes the world,
which, on account of its composition from contrary natures, is not
improperly said to be thrown by Discord, or strife. But again, since
dif- ferent gifts are imparted to the world by dif- ferent gods,
they appear to contest with each other for the apple. And a soul living
ac- cording to sense (for this is Paris), not per- ceiving other
powers in the universe, asserts that the apple is alone the beauty of
Venus. Bacchic Mysteries. 133 But of these
species of fables, such as are theological belong to philosophers ; the
phys- ical and spiritual to poets ; l)ut the mixed to the first of
the initiator i/ rites (ze'kszal(;) ; since the intention of all mystic
ceremonies is to conjoin us with the world and the gods.^''
Thus far the excellent Sallust : from whence it is evident, that
"the fable of Pro- serpina, as belonging to the Mysteries, is
properly of a mixed nature, or composed from all the four species of
fables, the theo- logical [spiritual or psychical], and material.
But in order to understand this divine fable, it is requisite to know,
that according to the arcana of the ancient theology, the Coric *
order (or the order belonging to Proserpina) is twofold, one part of
which is super-mundane, subsisting with Jupiter, or the Demiurgus,
and thus associated with him establishing one artificer of divisible
natures ; but the other is mundane, in which Proser- * Coric
from KopY], Kore, a name of Proserpina. The name is derived by E. Pococke
from the Sanscrit Goure. 134 EJeiisinian and
pina is said to be ravished by Pluto, and to animate the
extremities of the universe. *' Hence," says Prockis,
"according to the statement of theologists, who dehvered to us
the most holy Mysteries, she [Proserpina] abides on high in those
dwellings of her mother which she prepared for her in inac-
cessible places, exempt from the sensible world. But she likewise dwells
beneath with Pluto, administering terrestrial con- cerns, governing
the recesses of the earth, supplying life to the extremities of the
uni- verse, and imparting soul to beings which are rendered by her inanimate
and dead." Kai yap yj twv iJ-soXoytov "^'^{J-yj, xwv tac
aytco- xata? Y/^iiv £V EXsaacvt tsAs-ca? 7rry.pry.o£0(oy,G- xtov,
avco, ji£v OL'jr/jV sv xocc {X'ffrjOQ owoic JJLSV8CV cp'^acv, O'j^ Yj
(J-'^r/jp aur^ y-arsaxsuaCsv sv a[57'0L? £(;Y^pY;{ji£voac too tz^vzoq.
Katco §£ {i£'ca nXoD-covoc xcDV yO-ovuov eizapyeiy^ v.rj.i zooQ
ZTiQ YQC, \Loyofjc £':it'cpo7U£U£tv, vcat Cf«^Y^v £xop£Y£tv ZOIC
eyrj.zoic ^oo xavToc, %at ^^/''i^ {ji£ta5i5ovat rote Trap £rjjjzo)y
aj^oyoic, 7.ai V£- xpot?.* Hence we may easily perceive that
* Proclus: TJieology of Plato, p. 371. Bacchic
Mysteries. 135 this fable is of the mixed kind, one part of
which relates to the super-mundane estabhsh- ment of the secondarj^ cause
of life,* and the other to the procession or outgoing of life and
soul to the farthest extremity of things. Let us therefore more
attentively consider the fable, in that part of it which is sym-
bolical of the descent of souls ; in order to which, it will be requisite
to premise an abridgment of the arcane discourse, respecting the
wanderings of Ceres, as preserved by Minutius Felix. "
Proserpina," says he, " the daughter of Ceres by Jupiter, as
she was gathering tender flowers, in the new spring, was ravished
from her dehghtful abodes by Pluto ; and being carried from thence
through thick woods, and over a length of sea, was brought by Pluto into
a cavern, the residence of departed spirits, over whom she
afterward ruled with absolute sway. But * Plotiuus taught the existence
of three hypostases in the Divine Nature. There was the Demiurge, the God
of Creation and Providence ; the Second, the Intelligible, self-contained
and im- mutable Source of life ; and above all, the One, who like
the Zervane Akerene of the Persians, is above all Being, a pure
will, an Absolute Love — " Intellect." — A. W.
136 Bacchic Mysteries. Ceres, upon discovering the loss of
her daugh- ter, with hghted torches, and begirt with a serpent,
wandered over the whole earth for the purpose of finding her till she
came to Eleusis ; there she found her daughter, and also taught to
the Eleusinians the cultivation of corn." Now in this fable Ceres
represents the evolution of that intuitional part of our nature
which we properly denominate intel- lect'^ (or the unfolding of the
intuitional faculty of the mind from its quiet and col- lected
condition in the world of thought) ; and Proserpina that living, self
-moving, and animating part which we call sonl. But lest this
comparing of unfolded intellect to Ceres should seem ridiculous to the
reader, unac- quainted with the Orphic theology, it is neces- sary
to inform him that this goddess, from her intimate union with Rhea, in
conjunc- tion with whom she produced Jupiter, is * Also
denominated by Kant, Pure reason, and by Prof, Cocker, Intuitive reason.
It was considered by Plato, as " not amenable to the conditions of
time and space, but in a particular sense, as dwelling in eternity : and
therefore capable of beholding eternal realities, and coming into
communion with absolute beauty, and goodness, and truth — that is, with
God, the Absolute Being." Proserpina.—
Greek. Bacclius.— India. Ceres.—
Roman. Demeter.— Ktruscan. Bacchic
Mysteries. 139 evidently of a Saturnian and zoogonic, or in-
tellectual and vivific rank ; and hence, as we are informed by the
philosopher Sallust, among the mundane divinities she is the deity
of the planet Saturn.* So that in con- sequence of this, our intellect
(or intuitive faculty) in a descending state must aptly symbohze
with the divinity of Ceres. But Pluto signifies the whole of a
material natui'e ; since the empire of this god, accord- ing to
Pythagoras, commences downward from the Gralaxy or milky way. And
the cavern signifies the entrance, as it were, into the
profundities of such a nature, which is accomplished by the soul's union
with this terrestrial body. But in order to under- derstand
perfectly the secret meaning of the other parts of this fable, it will be
necessary to give a more exphcit detail of the particu- lars
attending the abduction, from the beau- tiful poem of Claudian on this
subject. From * Hence we may perceive the reason why Ceres as well
as Sat- urn was denominated a legislative deity; and why illuminations
were used in the celebration of the Saturnalia, as well as in the
Eleusinian Mysteries. 140 Bacchic Mysteries.
this elegant production we learn that Ceres, who was a&aid lest
some violence should be offered to Proserpina, on account of her
in- imitable beauty, conveyed her privately to Sicily, and
concealed her in a house built on purpose by the Cyclopes, while she
herself directs her course to the temple of Cybele, the mother of
the gods. Hej:'e, then, we see the first cause of the soul's descent,
namely, the abandoning of a life wholly according to the higher
intellect, which is occultly signi- fied by, the separation of Proserpina
fi*om Ceres. Afterward, we are told that Jupiter instructs Venus to
go to this abode, and be- tray Proserpina from her retirement, that
Pluto may be enabled to carry her away; and to prevent any suspicion in
the virgin's mind, he commands Diana and Pallas to go in company.
The three goddesses arriving, find Proserpina at work on a scarf for
her mother ; in which she had embroidered the primitive chaos, and
the formation of the world. Now by Venus in this part of the
narration we must understand desire^ which even in the celestial regions
(for such is the Venus, Diana, and Pallas visit
Proserpina* Bacchic Mysteries. 143 residence of
Proserpina till slie is ravished by Pluto), begins silently and
stealthily to creep into the recesses of the soul. By Minerva we
must conceive the rational power of the soul, and by Diana, nature^ or
the merely natural and vegetable part of our composi- tion ; both
which are now ensnared through the allurements of desire. And lastly,
the web in which Proserpina had displayed all the fair variety of
the material world, beau- tifully represents the commencement of
the illusive operations through which the soul becomes ensnared
with the beauty of imagi- native forms. But let us for a while
attend to the poet's elegant description of her em- ployment and
abode : Devenere locum, Cereris quo tecta nitebant Cyclopum
firmata manu. Stant ardua f erro Msenia ; ferrati postes : immensaqiie
nectit Claustra elialybs. Nullum tanto sudore Pyracmon, Nee
Steropes, eonstruxit opus : nee talibus unquam Spiravere uotis animge :
nee flumine tanto Incoctum maduit lassa fornaee metallum. Atria
vestit ebur : trabibus solidatur aenis Culmen, et in eelsas surgunt
eleetra eolumnas. Ipsa domum tenero mulcens Proserpina eantu Irrita
texebat rediturje munera matri. Hie elementorum seriem sedesque
pateruas 144 Eleusinian and Insignibat aeu :
veterem qua lege tutmiltum Diserevit natiira parens, et semiua
jiistis Diseessere locis : quidquid leve fertiu" iu altum :
111 medium graviora caduut : incaiiduit tether : Egit flamma polum :
fluxit mare •. terra pependit Nee color uuus inest. Stellas accendit in
auro. Ostro fundit aquos, attollit litora gemmis, Filaque mentitos
jam jam cfelantia liuctus Arte tumeiit. Credas illidi cautibus
algam, Et raucum bibiilis inserpere murmur arenis. Addit quinqiie
plagas : mediam subtemine rubro Obsessam fervore notat : squalebat
adustus Limes, et assiduo sitiebant stamina sole. Vitales utrimque
duas ; quas mitis oberrat Temperies habitanda viris. Tum fine
supremo Torpentes traxit geminas, brumaque perenni Fgedat, et
a3terno coiitristat frigore telas. Nee non et patrui piugit sacraria
Ditis, Fatalesque sibi manes. Nee def nit omen. Prasscia nam
subitis maduerimt fletibus ora. After this, Proserpina,
forgetful of her par- ent's commands, is represented as venturing
from her retreat, through the treacherous persuasions of Venus :
Impulit Joiiios pra?misso lumine fluetus Nondum pura dies :
tremulis vibravit in iindis Ardor, et errantes ludunt per cferula
flammfe. Jamque audax animi, fidseque oblita parentis, Fraude
Dioiifea riguos Proserpina saltus (Sic Parcse voluere) petit.
Bacchic Mysteries. 145 And this with the greatest
propriety: for obhvion necessarily follows a remission of
intellectnal action, and is as necessarily at- tended with the allurements
of desire.* Nor is her dress less symbolical of the acting of
* When the person turns the back upon his higher faculties, and
disregards the communications which he receives through them from the
world of unseen realities, an oblivion ensues of their existence, and the
person is next brought within the province and operation of lower and
worldly ambitions, such as a love of power, passion for riches, sensual
pleasure, etc. This is a descent, fall, or apostasy of the soul, — a
separation from the sources of divine life and ravishment into the region
of moral death. In the Pluedras, in the allegory of the Chariot and
Winged Steeds, Plato represents the lower or inferior part of man's
nature as dragging the soul down to the earth, and subjecting it to
the slavery of corporeal conditions. Out of these conditions there
arise numerous evils, that disorder the mind and becloud the rea- son,
for evil is inherent to the condition of finite and multiform being into
which we have "fallen by our own fault." The pres- ent earthly
life is a fall and a punishment. The soul is now dwelling in ''the gi-ave
which we call the body." In its incorpo- rate state, and previous to
the discipline of education, the rational- element is "
asleep." " Life is more of a dream than a reality." Men
are utterly the slaves of sense, the sport of phantoms and illusions. We
now resemble those " captives chained in a subter- raneous cave,"
so poetically described in the seventh book of The Republic ; their backs
are turned to the light, and consequently they see but the shadows of the
objects which pass behind them, and " they attribute to these
shadows a perfect reality." Their sojourn upon earth is thus a dark
imprisonment in the body, a dreamy exile from their proper home." —
CucJcer's Greek Philosophy, 146 Eleiisinian and
the soul in such a state, principally according to the energies and
promptings of imagina- tion and nature. For thus her garments are
beautifully described by the poet : Qiias inter Cereris
proles, nunc gloria luatris, Mox dolor, sequali tendit per gratnina
passu, Nee membris nee honore minor ; potuitque Pallas, si clipeum,
si ferret spieula, Phoebe. CoUeetsB tereti nodantur jaspide vestes.
Peetinis ingenio nunquam felicior arti Coutigit eventus. Nullse sic
consona telae Fila, nee in tantum veri duxere figuram. Hie
Hyperionis Solem de semine nasei Fecerat, et pariter, sed forma dispare
lunam, Aurora} noetisque duces. Cunabula Tethys Praebet, et
infantes gremio solatur anhelos, Cseruleusque sinus roseis radiatur
alumnis. Invalidum dextro portat Titana laeerto Nondum luce gravem,
nee pubescentibus alte Cristatum radiis : prime clementior sevo
Fiugitur, et tenerum vagitu despiiit ignem. Lseva parte soror vitrei
libaraina potat Uberis, et parvo signatur tempora cornu. In
which description the sun represents the phantasy, and the moon, nature,
as is well known to every tyro in the Platonic philos- ophy. They
are likewise, with great pro- priety, described in their infantine state
: for Bacchic Mysteries. 147 these energies do
not arrive to perfection previous to the sinking of the soul into
the dark receptacle of matter. After this we be- hold her issuing
on the plain with Minerva and Diana, and attended by a beauteous
train of nymphs, who are evident symbols of world of generation,* and
are, therefore, the proper companions of the soul about to fall
into its fluctuating realms. But the design of Proserpina, in
venturing from her retreat, is beautifully significant of her
approaching descent: for she rambles from home for the purpose of
gathering flowers ; and this in a lawn replete with the most
enchanting variety, and exhahng the most dehcious odors. This is a manifest
image of the soul operatmg principally ac- cording to the natural and
external life, and so becoming effeminated and ensnared through the
delusive attractions of sensible form. Minerva (the rational faculty in
this case), likewise gives herself wholly to the * Porphyry :
Cave of the Nymphs. lu the later Greek, v'j|i.'f rj sigaified a
bride. 148 EJeusinian and dangerous employment,
and abandons the proper characteristics of her nature for the
destructive revels of desire. All which is thus described with the
ut- most elegance by the poet : Forma loci siiperat flores :
eurvata tumore Pai'vo planities, et moUibus edita clivis Creverat
in eoUem. Vivo de pumice fontes Roscida mobilibus lambebant gramina
rivis. Silvaque torrentes ramonim fi"igore soles Temperat, et
medio brumam sibi viudicat sestu. Apta fretis abies, bellis aecomoda
eomus, Quercus arnica Jovi, tumulos tectura cupressus, Hex plena
favis, venturi pra?seia lanrus. Fluctuat hie denso crispata cacumine
buxus, Hie ederae serpunt, hie pampinus indnit ulmos. Hand proeul
inde laciis (Pergum dixere Sioani) Panditur, et nemorum frondoso margine
cinetus Vicinis pallescit aquis : admittit in altum Cernentes
oculos, et late perviiis humor Ducit inoflfensus liquido sub gurgite
visus, Imaque perspicui prodit secreta profundi. Hue elapsa
eohors gaudent per florea rura Hortarur Cytherea, legant. Nunc ite,
sorores, Dum matutinis prsesudat solibus aer : Dum meus humectat
flaventes Lucifer agros, Rotanti praevectus equo. Sic fata, doloris
Carpit signa sui. Varios turn cjetera saltus Invasere eohors. Credas
examina fundi Hyblagum raptura thymum, cum cerea reges
Baccliic Mysteries. 149 Castra movent, fagique cava demissus
ab alvo Mellifer electis exereitus obstrepit lierbis. Pratorum
spoliatur honos. Hac lilia fuseis Iiitexit violis : banc mollis amaraeus
ornat : Heec graditur stellata rosis ; haec alba ligiistris. Te
quoqiie flebilibus mserens, Hyacintbe, figuris, Narcissumque metunt, nunc
inclita germina veris, Proestantes dim pueros. Tu natus Amyclis :
Hunc Helicon genuit. Te disci perculit error : Hune fontis decepit amor.
Te fronte retusa Deluis, hiinc fracta Cephissus arundiue luget.
j3^]staat ante alias avido fervore legeudi Frugiferte spes una Dese. Nunc
vimine texto Eidentes ealatbos spoliis agrestibus implet : Nunc
sociat flores, seseque ignara corouat. Augurium fatale tori. Quin ipsa
tubarum Armorumque potens, dextram qua fortia turbat Agmina ; qua
stabiles portas et msenia vellit, Jam levibus laxat studiis, hastamque
reponit, Insolitisque docet galeam mitescere sertis. Ferratus
lascivit apex, horrorque recessit Martins, et cristse pacato fulgure
vernant. Nee quae Parthenium canibus scrutatur odorem, Aspernata clioros,
libertatemque comarum Injecta tantum voluit freuare corona.
But there is a circumstance relative to the narcissus which must
not be passed over in silence : I mean its being, according to
Ovid, the metamorphosis of a youth who fell a victim to the love of
his own corporeal form ; the secret meaning of which most
150 Bacchic Mysteries. admirably accords with the rape of
Proser- pina, which, according to Homer, was the immediate
consequence of gathering this wonderful flower.* For by Narcissus
falling in love with his shadow in the limpid stream we may behold
an exquisitely apt represen- tation of a soul vehemently gazing on
the flowing condition of a material body, and in consequence of
this, becoming enamored with a corporeal life, which is nothing more
than the delusive image of the true man, or the rational and immortal
soul. Hence, by an immoderate attachment to this unsubstau- tial
mockery and gliding semblance of the real soul, such an one becomes, at
length, wholly changed, as far as is possible to his nature, into a
vegetive condition of being, into a beautiful but transient flower, that
is, into a corporeal life, or a life totally consist- *
Homer: Rymn to Ceres. "We were plucking the pleasant flowers, the
beauteous crocus, and the Iris, and hyacinth, and the narcissus, which,
like the crocus, the wide earth produced. I was plucking them with joy,
when the earth yawned beneath, and out leaped the Strong King, the
Many-Receiver, and went bearing me, grieving much, beneath the earth in
his golden chariot, and I cried aloud."
"v.. Pioseipiua gathering
Flowers. Pluto carrj'iiig off Pioserplna.
Bacchic Mysteries, 153 ing in the mere operations of nature.
Pro- serpina, therefore, or the soul, at the very instant of her
descent into matter, is, with the utmost propriety, represented as
eagerly engaged in pkicking this fatal flower ; for her faculties
at this period are entirely oc- cupied with a hf e divided about the
fluctuat- ing condition of body. After this, Pluto, forcing
his passage through the earth, seizes on Proserpina, and carries
her away with him, notwith- standing the resistance of Minerva and
Diana. They, indeed, are forbid by Jupiter, who in this place signifies
Fate, to attempt her deUverance. By this resistance of Mi- nerva
and Diana no more is signified than that the lapse of the soul into a
material nature is contrary to the genuine wish and proper
condition, as well of the corporeal hfe depending on her essence, as of
her true and rational nature. Well, therefore, may the soul, in
such a situation, pathetically exclaim with Proserpina :
154 Bacchic Mysteries. O male dileeti flores, despeetaque
matris Consilia : O Veneris deprensse serius artes ! * But,
according to Minutius Felix, Proserpina was carried by Pluto tlu-ough
thick woods, and over a length of sea, and brought into a cavern,
the residence of the dead : where by 'woods a material nature is plainly
implied, as we have already observed in the first part of this
discourse ; and where the reader may likewise observe the agreement of
the de- scription in this particular with that of Yvn- gil in the
descent of his hero : Tenent media omnia silvce Coeytusque
sinuque labens, cireumvenit atro.t In these words the woods are
expressly mentioned; and the ocean has an evident agreement with
Cocytus, signifying the out- flowing condition of a material nature,
and the sorrows and sufferings attending its con- nection with the
soul. * Oh flowers fatally dear, and the mother's cautions despised
: Oh cruel arts of cunning Venus ! t " Woods cover all
the middle space and Cocytus gliding on, surrounds it with his dusky
bosom." Bacchic Mysteries. 157 Pluto
hurries Proserpina into the infernal regions : in other words, the soul
is sunk into the profound depth and darkness of a material nature.
A description of her mar- riage next succeeds, her union with the
dark tenement of the body : Jam siius iuferno processerat
Hesperus orbi Ducitur in thalamum virgo. Stat pronuba juxta
Stellautes Nox pieta sinus, tangensque cubile Omina perpetuo genitalia
federe sancit. Night is with great beauty and propriety in-
troduced as standing by the nuptial couch, and confirming the oblivious
league. For the soul through her union with a material body becomes
an inhabitant of darkness, and subject to the empire of night ; in
conse- quence of which she dwells wholly with de- lusive phantoms,
and till she breaks her fetters is deprived of the intuitive
percep- tion of that which is real and true. In the next
place, we are presented with the following beautiful and pathetic
descrip- tion of Proserpina appearing in a dream to
158 Eleusinian and Ceres, and bewailing her captive and
miser- able condition : Sed tunc ipsa, sui jam non ambagibus
ullis Nuutia, materna faeies ingesta sopori. Namque videbatur
tenebroso obtecta reeessu Carceris, et ssevis Proserpina vineta
catenis, Non qualem roseis nuper convallibus ^tnae Suspexere Dete.
Squalebat pulchrior auro Csesaries, et nox oculorum infeeerat
ignes. Exhaustusque gelu pallet rubor. Die superbi Flamineus oris
honos, et non cessura pruinis Membra eolorantur pieei caligine
regni. Ergo hanc ut dubio vix tandem agnoseere visu Evaluit : cujus
tot p«n£e criminis ? inquit. Unde hsec infoi'mis macies ? Cui tanta f
acultas In me ssevitisB est? Eigidi cur vincula ferri Vix aptanda f
eris molles meruere lacerti ? Tu, mea tu proles I An vana fallimur umbra
? Such, indeed, is the wretched situation of the soul when
profoundly merged in a cor- poreal nature. She not only becomes
captive and fettered, but loses all her original splen- dor ; she
is defiled with the impurity of mat- ter ; and the sharpness of her
rational sight is blunted and dunmed through the thick darkness of
a material night. The reader may observe how Proserpina, being
repre- sented as confined in the dark recess of a
Bacchic Mysteries. 159 prison, and bound with fetters, confirms
the explanation of the fable here given as sym- bolical of the descent
of the soul ; for such, as we have ah*eady largely proved, is the
condition of the soul from its union with the body, according to the
uniform testimony of the most ancient philosophers and priests.*
After this, the wanderings of Ceres for the discovery of Proserpina
commence. She is described, by Minutius Fehx, as begirt ^dth a
serpent, and bearing two hghted torches in her hands ; but by Claudian,
instead of being gu^t with a serpent, she commences her search by
night in a car drawn by dragons. But the meaning of the allegory is the
same in each ; for both a serpent and a di'agon are emblems of a
divisible hfe subject to transi- tions and changes, with which, in this
case, our intellectual (and diviner) part becomes connected : since
as these animals put off their skins, and become young again, so
* Manteis, /jLavisic, not bpE'.;;. The term is more commonly trans-
lated prophets, and actually signifies persons gifted with divine
insight, through being in an entheastic condition, called also mania or
divine fury. 160 Bacchic Mysteries. tlie
divisible life of the soul, falling into generation, is rejuvenized in
its subsequent career. But what emblem can more beau- tifully represent
the evolutions and out- goings of an intellectual nature into the
regions of sense than the wanderings of Ceres by the hght of torches
through the darkness of night, and continuing the pursuit until she
proceeds into the depths of Hades itself ? For the intellectual part of
the soul,* when it verges towards body, enkindles, in- deed, a
light in its dark receptacle, but be- comes itself situated in obscurity
: and, as Proclus somewhere divinely observes, the mortal nature by
this means participates of the divme intellect, but the intellectual
part is drawn down to death. The tears and lam- entations too, of
Ceres, in her coiu'se, are sym- bolical both of the providential
operations of * " The soul is a composite nature, is on one
side linked to the eternal world, its essence being generated of that
ineffable ele- ment which constitutes the real, the immutable, and the
perma- nent. It is a beam of the eternal Sun, a spark of the Divinity,
an emanation from God. On the other hand, it is linked to the phe-
nomenal or sensible world, its emotive part being formed of that which is
relative and phenomenal." — Cocker. Bacchic Mysteries.
163 intellect about a mortal nature, and the mis- eries with
which such operations are (with respect to imperfect souls like oui's)
attended. Nor is it without reason that lacchus, or Bacchus, is
celebrated by Orpheus as the companion of her search : for Bacchus is
the evident symbol of the imperfect energies of intellect, and its
scattering into the obscure and lamentable dominions of sense.
But our explanation will receive additional strength from
considering that these sacred rites occupied the space of nine days in
their celebration; and this, doubtless, because, according to
Homer,* this goddess did not discover the residence of her daughter
till the expu-ation of that period. For the soul, in falling from
her original and divine abode in the heavens, passed through eight
spheres, * Hymn to Ceres. "For nine days did holy Demeter
perambulate the earth . . and when the ninth shining morn had come,
Hecate met her, bringing news." Apuleius also explains
that at the initiation into the Mysteries of Isis the candidate was
enjoined to abstain from luxurious food for ten days, from the flesh of
animals, and from wine. — Golden Ass, book xi. p. 239 (BoJin).
164 Eleusinian and namely, the fixed or inerratic
sphere, and the seven planets, assuming a different body, and
employing different faculties in each; and becomes connected with the
sublunary world and a terrene body, as the ninth, and most abject
gradation of her descent. Hence the first day of initiation into these
mystic rites was called agurmos^ L e. according to Hesychius,
eM'Jesia et '^rav to ayscpoiJ-svov, an assembly^ and all collecting
fogefher : and this with the greatest propriety; for, according to
Pythagoras, "the people of dreams are souls collected together in
the Gralaxy.* Atj[jlo^ 5s ovstpcov 7.a.za noO-ayopav Jcav.f
And from this part of the heavens souls first begin to descend. After
this, the soul falls from the tropic of Cancer into the planet
Satm'n; and to this the second day of initiation was consecrated, which
they called AXol5s (j-uarai, [" to the sea, ye initi- ated
ones ! "] because, says Meui'sius, on that * Only persons
taking a view solely external will suppose the galaxy to be literally the
milky belt of stars in the sky. t Cave of the Xymphs.
Bacchic Mysteries. 165 day the crier was accustomed to
admonisli the mystte to betake themselves to the sea. Now the
meaning of this will be easily understood, by considering that, according
to the arcana of the ancient theology, as may be learned from
Proclus, * the whole planetary system is under the dominion of
Neptune; and this too is confirmed by Martianus Capella, who
describes the several planets as so many streams. Hence when the
soul falls into the planet Saturn, which Capella compares to a
river voluminous, sluggish, and cold, she then first merges herself
into fluctuating matter, though purer than that of a sublunary
natiu'e, and of which water is an ancient and significant symbol.
Besides, the sea is an emblem of purity, as is evident from the
Orphic hymn to Ocean, in which that deity is called {^swv ayvtajxa
{xsy^^'^^v, tlieon agnisma megiston^ i. e. the greatest purifier of
the gods : and Saturn, as we have already observed, is pure [intuitive]
intellect. And what still more confirms this observation is, that
Pythagoras, as we are informed by Por- * Theology of Plato, book
vi. 166 Bacchic Mysteries. pliyry, in his life
of that philosopher, symbol- ically called the sea a tear of Saturn. But
the eighth day of initiation, which is symbohcal of the falhng of the
soul into the lunar orb,* was celebrated by the candidates by a
repeated initiation and second sacred rites ; because the soul in this
situation is about to bid adieu to every thing of a celestial natui'e
; to sink into a perfect obhvion of her divine origin and pristine
felicity ; and to rush pro- foundly into the region of
dissimilitude,! ignorance, and error. And lastly, on the ninth day,
when the soul falls into the sub- lunary world and becomes united with a
ter- restrial body, a hbation was performed, such as is usual in
sacred rites. Here the initiates, filling two earthen vessels of broad
and spa- cious bottoms, which were called irX'^fj-o/oat,
plemokhoai^ and y-G-cuXoaTcoL, JcotuIusJioi, the former of these words
denoting vessels of a conical shape, and the latter small bowls or
* The Moon typified the mother of gods and men. The soul descending
into the lunar orb thus came near the scenes of earthly existence, where
the life which is transmitted by generation has opportunity to involve it
about. t The condition most unlike the former divine estate.
Goddess Night. Three Graces.
Bacchic Mysteries. 169 cups sacred to Bacchus, they placed
one towards the east, and the other towards the west. And the first
of these was doubtless, according to the interpretation of Proclus,
sacred to the earth, and symbolical of the soul proceeding from an
orbicular figure, or divine form, into a conical defluxion and ter-
rene situation : * but the other was sacred to the soul, and symbolical
of its celestial origin ; since our intellect is the legitimate
progeny of Bacchus. And this too was occultly sig- nified by the
position of the earthen ves- sels ; for, according to a mundane
distribu- tion of the divinities, the eastern center of the
universe, which is analogous to fire, belongs to Jupiter, who likewise
governs the fixed and inerratic sphere ; and the western to Pluto,
who governs the earth, because the west is allied to earth on account
of its dark and nocturnal nature. f Again, according to
Clemens Alexandri- nus, the following confession was made by
* An orbicular figure symbolized the maternal, and a cone the
masculine divine Energy. t Proclus: Theology of Plato, book vi. c.
10. 170 Eleusinian and tlie new initiate in these
sacred rites, in an- swer to the interrogations of the Hierophant :
"I have fasted; I have drank the Cyceon;* I have taken out of the
Cista, and placed what I have taken ont into the Calathns; and
alternately I have taken out of the Ca- lathus and put into the
Cista." Kcj^a-cc xo a'jv^r^{xa EXsoaivLcov {xoax-r^puov.
EvYja-cwaa* xtatY^v. But as this pertains to a circum- stance
attending the wanderings of Ceres, which formed the most mystic and
emblem- atical part of the ceremonies, it is necessary to adduce
the following arcane narration, summarily collected from the writings
of Arnobius : " The goddess Ceres, when search- ing through
the earth for her daughter, in the course of her wanderings arrived at
the boundaries of Eleusis, in the Attic region, a place which was
then inhabited by a people called Autochthones, or descended fi'om
the * Homer: Hymn to Ceres. "To her Metaneira gave a cup
of sweet wine, but slie refused it ; but bade her to mix wheat and
water with pounded pennyroyal. Having made the mixture, she gave it to
the goddess." Bacchic Mysteries. 171 earth,
whose names were as follows : Baubo and Triptolemus ; Dysaules, a
goatherd ; Eu- bulus, a keeper of swme ; and Eumolpus, a shepherd,
from whom the race of the Eumol- pidse descended, and the illustrious
name of Cecropidse was derived ; and who afterward flourished as
bearers of the caduceus, hiero- phants, and criers belonging to the
sacred rites. Baubo, therefore, who was of the female sex, received
Ceres, wearied with complicated evils, as her guest, and endea-
vored to soothe her sorrows by obsequious and flattering attendance. For
this purpose she entreated her to pay attention to the re-
freshment of her body, and placed before her a mixed potion to assuage
the vehemence of her thirst. But the sorrowful goddess was averse
from her solicitations, and rejected the friendly officiousness of the
hospitable dame. The matron, however, who was not easily re-
pulsed, still continued her entreaties, which were as obstinately
resisted by Ceres, who persevered in her refusal with unshaken per-
sistency and invincible firmness. But when Baubo had thus often exerted
her endeavors Bacchic Mysteries. to appease the sorrows of
Ceres, but without any effect, she, at length, changed her arts, and
determined to try if she could not exhil- arate, by prodigies (or
out-of-the-way expe- dients), a mind which she was not able to
allure by earnest endeavors. For this pur- pose she uncovered that part
of her body by which the female sex produces children and derives
the appellation of woman.* This she caused to assume a purer appearance,
and a smoothness such as is found in the private parts of a
stripling child. She then returns to the afflicted goddess, and, in the
midst of those attempts which are usually employed to alleviate
distress, she uncovers herself, and exhibits her secret parts ; upon
which the goddess fixed her eyes, and was diverted with the novel
method of mitigating the an- guish of soiTow; and afterward,
becoming more cheerful through laughter, she assuages her thirst
with the mingled potion which she had before despised." Thus far
Arnobius ; and the same narration is epitomized by Clemens
Alexandrinus, who is very indignant * FuvT), (June, woman, from
y^juvo;, gounos, Latin ciodiks. Cupifl auil Veuus. Satyr
and Goat. Baubo, Ceres, and Nymphs. Bacchic Mysteries.
175 at the indecency as he conceives, in the stoiy, and
because it composed the arcana of the Eleusinian rites. Indeed as the
simple father, with the usual ignorance * of a Christian priest,
considered the fable literally, and as designed to promote indecency and
lust, we can not wonder at his ill-timed abuse. But the fact is,
this narration belonged to the aiuoppYjxa, aporrheta^ or arcane discourses,
on account of its mystical meaning, and to pre- vent it from
becoming the object of ignorant declamation, licentious perversion, and
im- pious contempt. For the purity and excel- lence of these
institutions is perpetually acknowledged even by Dr. Warburton him-
seK, who, in this instance, has dispersed, for a moment, the mists of
delusion and intolerant zeaLf Besides, as lamblichus beautifully
ob- serves, t "exhibitions of this kind in the Mysteries were
designed to free us from hcen- * Uneandidness was more probably the
fault of which Clement was guilty. t Divine Legation of
Moses, book ii. I "The wisest and best men in the Pagan world
are unanimous in this, that the Mysteries were instituted pure, and
proposed the noblest ends by the worthiest means. Bacchic
Mysteries. tioiis passions, by gratifying the sight, and at
the same time vanquisliing desire, through the awful sanctity with which
these rites were accompanied : for," says he, " the
proper way of freeing ourselves from the passions is, first, to
indulge them mth moderation, by which means they become satisfied ;
hsten, as it were, to persuasion, and may thus be en- tirely
removed."* This doctrine is indeed so rational, that it can never be
objected to by any but quacks in philosophy and rehgion. For as he
is nothing more than a quack in medicine who endeavors to remove a
latent bodily disease before he has called it forth externally, and
by this means diminished its fuiy ; so he is nothing more than a pretender
in philosophy who attempts to remove the passions by violent repression,
instead of moderate comphance and gentle persuasion. But to
return from this disgression, the fol- lowing appears to be the secret
meaning of this mystic discourse : The matron Baubo may be
considered as a symbol of that pas- * Mysteries of the Egyptians,
Chaldeans, and Assyrians. Bacchic Mysteries. 177
sive, womanish, and corporeal life tlirongh whicli the soul becomes
united with this earthly body, and through which, being at first
ensnared, it descended, and, as it were, was born into the world of
generation, pass- ing, by this means, from mature perfection,
splendor and reality, into infancy, darkness, and error. Ceres, therefore,
or the intel- lectual soul, in the course of her wanderings, that
is, of her evolutions and goings-f orth into matter, is at length
captivated with the arts of Baubo, or a corporeal hf e, and forgets
her sorrows, that is, imbibes oblivion of her wretched state in the
mingled potion which she prepares : the mingled hquor being an
obvious symbol of such a life, mixed and im- pure, and, on this account,
liable to cor- ruption and death ; since every thing pure and
unmixed is incorruptible and divine. And here it is necessary to caution
the reader from imagining, that because, accord- ing to the fable,
the wanderings of Ceres commence after the rape of Proserpina,
hence the intuitive intellect descends sub- sequently to the soul, and
separate from it. Eleusinimi and Notliing more is meant by
this circumstance than that the diviner intellect, from the su-
perior excellence of its nature, has in cause, though not in time, a
priority to soul, and that on this account a defection and revolt
(and descent earthward from the heavenly condition) commences, from the
soul, and afterward takes place in the intellect, yet so that the
former descends with the latter in inseparable attendance.
From this explanation, then, of the fable, we may easily perceive
the meaning of the mystic confession, / have fasted; I have drank a
mingled potion, etc.; for by the former part of the assertion, no more
is meant than that the higher intellect, previous to imbibing of
oblivion through the decep- tive arts of a corporeal life, abstains
from all material concerns, and does not mingle itself (as far as
its nature is capable of such abasement) with even the necessary
delights of the body. And as to the latter part, it doubtless
alludes to the descent of Proser- pina to Hades, and her re-ascent to
the Bacchic Mysteries. 179 abodes of her mother
Ceres : that is, to the outgoing and return of the soul,
alternately falhng into generation, and ascending thence into the
intelhgible world, and becoming per- fectly restored to her divine and
intellec- tual nature. For the Cista contained the most arcane
symbols of the Mysteries, into which it was unlawful for the profane
to look : and whatever were its contents,* we learn from the hymn
of Callimachus to Ceres, that they were formed from gold, which,
from its incorruptibihty, is an evi- dent symbol of an immaterial nature.
And as to the Calathus, or basket, this, as we are told by
Claudian, was filled with spoliis agres- tibus^ the spoils or fruits of
the field, which are manifest symbols of a life corporeal and
earthly. So that the candidate, by confess- ing that he had taken from
the Cista, and placed what he had taken into the Calathus, *A
golden serpent, an egg, and the phallus. The epopt look- ing upon these,
was rapt with awe as contemplating in the»sym- bols the deeper mysteries
of all life, or being of a grosser temper, took a lascivious impression.
Thus as a seer, he beheld with the eyes of sense or sentiment ; and the
real apocalypse was therefore that made to himself of his own moral life
and character. — A. W. 180 Eleusinian and and
tlie contrary, occultly acknowledged the descent of his soul from a
condition of being super-material and immortal, into one mate- rial
and mortal ; and that, on the contrary, by hving according to the purity
which the Mysteries inculcated, he should re-ascend to that
perfection of his nature, from which he had unhappily fallen.*
* "Exiled from the true home of the spirit, imprisoned in the
body, disordered by passion, and becloixded by sense, the soul has yet
longings after that state of perfect knowledge, and purity, and bliss, in
which it was first created. Its affinities are still on high. It yearns
for a higher and nobler form of life. It essays to rise, but its eye is
darkened by sense, its wings are besmeared by pas- sion and lust ; it is
' borne downward until it falls upon and attaches itself to that which is
material and sensual,' and it floun- ders and grovels still amid the
objects of sense. And now, Plato asks: How may the soul be delivered from
the illusions of sense, the distempering influence of the body, and the
disturbances of passion, which becloud its vision of the real, the good,
and the true?" " Plato believed and hoped that this
could be accomplished by philosophy. This he regarded as a grand
intellectual discipline for the purification of the soul. By this it was
to be disenthralled from the bondage of sense, and raised into the
empyrean of pure thought, 'where truth and reality shine forth.' All
souls have the faculty of knowing, but it is only by reflection and
self-knowledge, and intellectual discipline, that the soul can be raised
to the vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is, to
the vision of God." — Cocker: Christianity and Greek Philosophy,
x. pp. 351-2. Bacchic Mysteries. 181 It
only now remains that we consider the last part of this fabulous
narration, or arcane discourse. It is said, that after the goddess
Ceres, on arriving at Eleusis, had discovered her daughter, she
instructed the Eleusinians in the planting of corn : or, according
to Claudian, the search of Ceres for her daugh- ter, through the goddess,
instructing in the art of tillage as she went, proved the occasion
of a universal benefit to mankind. Now the secret meaning of this will be
obvious, by considering that the descent of the superior intellect
into the realms of generated exis- tence becomes, indeed, the greatest
benefit and ornament which a material nature is capable of
receiving : for without this parti- cipation of intellect in the lowest
department of corporeal life, nothing but the irrational soul* and
a brutal life would subsist in its dark and fluctuating abode, the body.
As the art of tillage, therefore, and particularly the growing of
corn, becomes the greatest possi- * " It is linked to the
phenomenal or sensible world, its emotive part (sTitf)ujj.Y)Tixov) being
formed of what is relative and phe- nomenal." 182
Elensinian and ble benefit to our sensible life, no symbol
can more aptly represent the unparalleled ad- vantages arising from
the evolution and pro- cession of intellect with its divine natui^e
into a corporeal life, than the good resulting from agriculture and
corn : for whatever of horrid and dismal can be conceived in night,
sup- posing it to be perpetually destitute of the friendly
illuminations of the moon and stars, such, and infinitely more dreadful,
would be the condition of an earthly nature, if de- prived of the
beneficent irradiations [irfio- o5o J and supervening benefits of the
diviner hfe. And this much for an explanation of the
Eleusinian Mysteries, or the history of Ceres and Proserpina ; in which
it must be remem- bered that as this fable, according to the
excellent observation of Sallust already ad- duced, is of the mixed kind,
though the descent of the soul was doubtless principally alluded to
by these sacred rites, yet they hkewise occultly signified, agreeable to
the nature of the fable, the descending of divinity
Bacchic Mysteries. 183 into the sublunary world. But when
we view the fable in this part of its meaning, we must 'be careful
not to confound the nature of a partial inteUect like ours with the one
uni- versal and divine. As everything subsisting about the gods is
divine, therefore intellect in the highest degree, and next to this
soul, and hence wanderings and abductions, lam- entations and
tears, can here only signify the participations and providential
opera- tions of these in inferior natures ; and this in such a
manner as not to derogate from the dignity, or impair the perfection, of
the divine principle thus imparted. I only add, that the preceding
exposition will enable us to perceive the meaning and beauty of the
following representation of the rape of Proserpina, from the Heliacan
tables of Hi- eronymus Aleander.* Here, first of all, we behold
Ceres in a car drawn by two drag- ons, and afterwards, Diana and Minerva,
with an inverted calathus at their feet, and pointing out to Ceres her
daughter Proser- pina, who is hurried away by Pluto in his *
KiRCHEB : Obeliscus Famjyhilius, page 227. 184 Meusinian
and car, and is in the attitude of one struggling to be free.
Hercules is likewise represented with his club, in the attitude of
opposing the violence of Pluto : and last of all, Jupiter is
represented extending his hand, as if wilhng to assist Proserpina in
escaping from the embraces of Pluto. I shall therefore con- clude
this section with the following remark- able passage from Plutarch, which
will not only confirm, but be itself corroborated by the preceding
exposition. 'Ozi [xey o'jv y^ Tza- Xata ^uaio/voyca, xai Trap EWrpi xai
Bappa- Tcporpoc, %r/x ix'jaz'qpiMOfic, GooXoyca. Ta ts Xrj-
Xo'j[j,£V7. Tcov arj'cojxsvcov Gr//fe::ze[jrj. zoic, izoX- Xoic syovza.
Kat zr/. arj'cojisva tcov AaXoy|jLSV(ov UTTOTrrorspct. AyjXov sart,
pergit, £v tolc Opcpt- Y.01Q s-i^sac, y,ac tote Ar^'oirrtaxoic %ai (j^prrfirjiQ
XojoiQ. MaXcara 5s of 'Jispt try.c xsXszac opyt- aa{j,oc, y,7.c 1:7.
$po){X£V7 a'j|x[BoXi%(oc sv zaiQ cspoapycaie, xyjv tcov TzrjXrjKov
sjxrpacvat $ia- voirjy.^ i. e. " The ancient physiology,! both
* Plutarch : Euseh. i I. e. Exposition of the laws and oi^erations
of Nature. Bacchic Mysteries. 185 of the Greeks
and the Barbarians^ was noth- ing else than a discoiu'se on natiu^al
subjects, involved or veiled in fables, conceahng many things
through enigmas and under -meanings, and also a theology taught, in
which, after the manner of the Mysteries,* the things spoken were
clearer to the multitude than those dehvered in silence, and the
things delivered in silence were more subject to investigation than
what was spoken. This is manifest from the Orphic verses^ and the
Egyptian and Phrygian discourses. But the orgies of initiations^ and the
sumbolical cere- monies of sacred rites especiallij, exhibit the
understanding had of them by the ancients,'''' * MuaxYjp:tuoTj?,
mystery-like. A.IB^ Psyche Asleep in
Hades. River Gortrtesses. O. SECTION 11.
4:::? THE Dionysiacal sacred rites instituted by Orpheus,*
depended on the follow- ing arcane narration, part of which has
been already related in the preceding section, and the rest may be
found in a variety of authors. "Dionysus, or Bacchus
[Zagreus], while he was yet a boy, w^s engaged by the Titans,
through the stratagems of Juno, in a variety of sports, with which that
period of * Whethei' Orpheus was an actual living person has been
ques- tioned by Aristotle ; but Herodotus, Pindar, and other
writers, mention him. Although the Orphic system is asserted to
have come from Egypt, the internal evidence favors the opinion that
it was derived from India, and that its basis is the Buddhistic
phi- losophy. The Orphic associations of Greece were ascetic, con-
trasting markedly with the frenzies, enthusiasm, and license of the
popular rites. The Thracians had numerous Hindu customs. The name Kox-e
is Sanscrit; and Zeus may be the Dyaus of Hindu story. His visit to the
chamber of Kore-Persephoneia (Parasu-pani) in the form of a dragon or
na(ja, and the horns or crescent on the head of the child, are Tartar or
Buddhistic. The 187 188 Eleusinian and
life is so vehemently allured ; and among the rest, he was
particularly captivated with beholding his image in a mirror ; during
his admiration of which, he was miserably torn in pieces by the
Titans; who, not content with this cruelty, first boiled his members
in water, and afterwards roasted them by the fire. But while they
were tasting his flesh thus dressed, Jupiter, roused by the odor,
and perceiving the cruelty of the deed, hurled his thunder at the Titans
; but com- mitted the members of Bacchus to Apollo, his brother,
that they might be properly in- terred. And this being performed,
Diony- sus (whose heart during his laceration was snatched away by
Pallas and preserved), by a new regeneration again emerged, and
being restored to his pristine life and integ- name Zagreus is
evidently Chahra, or ruler of the earth. The Hera who compassed his death
is Aira, the wife of Buddha ; and the Titans are the Daityas, or apostate
tribes of India. The doc- trine of metempsychosis is expressed by the
swallowing of the heart of the murdered child, so as to reabsorb his
soul, and bring him anew into existence as the son of Semele. Indeed, all
the stories of Bacchus liave Hindu characteristics ; and his cultus is a
part of the serpent worship of the ancients. The evidence appears
to us unequivocal. A. W. Bacchic Mysteries. 189
rity, he afterwards filled up the number of the gods. But m the
mean time, from the exhalations arising from the ashes of the
burning bodies of the Titans, mankind were produced." Now, in order
to understand properly the secret of this naiTation, it is
necessary to repeat the observation already made in the preceding
chapter, "that all fables belonging to mystic ceremonies are
of the mixed kind " : and consequently the present fable, as well as
that of Proserpina, must in one part have reference to the gods,
and in the other to the human soul, as the following exposition will
abundantly evince : In the first place, then, by Dionysus, or
Bacchus, according to the highest concep- tion of this deity, we
understand the spiritual part of the mundane soul ; for there are
Various processions or avatars of this god, or Bacchuses, derived from
his essence. But by the Titans we must understand the mun- dane
gods, of whom Bacchus is the highest ; by Jupiter, the Demiurgus,* or
artificer of * Plotiuus regarded the Demiurgus, or creator, as the
god of providence, thought, essence, and power. Above him was the
190 Eleusinian and the universe ; by Apollo, the deity of
the Sun, who has both a mundane and super- mundane establishment,
and by whom the universe is bound in symmetry and consent, through
splendid reasons and harmonizing power ; and, lastly, by Minerva we must
un- derstand that original, intellectual, ruhng, and providential
deity, who guards and pre- serves all middle lives* in an immutable
condition, through intelhgence and a self- supporting life, and by this
means sustains them from the depredations and inroads of matter.
Again, by the infancy of Bac- chus at the period of his laceration,
the condition of the intellectual natui^e is im- phed; since,
according to the Orphic theol- ogy, souls, under the government of
Saturn, or Kronos, who is pure intellect or spiritual- ity, instead
of proceeding, as now, from youth to age, advance in a retrograde
progression from age to youth.t The arts employed by deity of
" pure intellect," aud still higher The One. These three were
the hypostases. * Lives which are not conjoined with material bodies,
nor yet elevated to the lofty state which is the true divine
condition. t Emanuel Swedenborg says: "They who are in heaven
are Bacchic Mysteries. 191 the Titans, in order
to ensnare Dionysus, are symbolical of those apparent and divisible
operations of the mundane gods, through which the participated intellect
of Bacchus becomes, as it were, torn in pieces ; and by the mirror
we must understand, in the lan- guage of Proclus, the inaptitude of the
uni- verse to receive the plenitude of intellectual or spiritual
perfection ; but the symbolical meaning of his laceration, through the
strat- agems of Juno, and the consequent punish- ment of the
Titans, is thus beautifully unfolded by Olympiodorus, in his manuscript
Commentary on the PJi(edo of Plato : " The form," says he,
" of that which is universal is plucked off, torn in pieces, and
scattered into generation ; and Dionysus is the monad of the
Titans. But his laceration is said to take place through the stratagems
of Juno, continually advancing to the spring of life, and the more
thou- sands of years they live, so much the more delightful and happy
is the spring to which they attain, and this to eternity with
increments according to the progresses and degrees of love, of charity,
and of faith. Women who have died old and worn out with age, yet
have lived in faith on the Lord, in charity toward their neighbor, and
in happy conjugal love with a husband, after a succession of years,
come more and more into the flower of youth and adolescence."
192 Eleusinian and because this goddess is the
supervising guardian of motion and progression ; * and on this
account, in the Iliad, she perpetually rouses and excites Jupiter to providential
action about secondary concerns ; and, in another respect, Dionysus is
the epJiof^us or supervising guardian of generation, because he
presides over life and death ; for he is the guardian or epliorus of life
because of genera- tion, and also of death because wine produces an
enthusiastic condition. We become more enthusiastic at the period of
dying, as Proc- lus indicates in the example of Homer who became
prophetic [[xavxcxoc] at the time of his death.f They likewise assert,
that tragedy and comedy are assigned to Dionysus : com- edy being
the play or ludicrous representation of life ; and tragedy having
relation to the 'By progression [7rpoo5oc] is here signified the
raying-out, or issuing forth of the soul ; having left the divine or pre
-existent life, and come forth toward the human. t See also
Plato : Phcedrus, 43. " When I was about to cross the river, the
divine and wonted signal was given me — it always deters me from what I
am about to do — and I seemed to hear a voice from this very spot, which
would not suffer me to depart before I had purified myself, as if I had
committed some Bacchic Mysteries. 193 passions
and death. The comic writers, therefore, do not rightly call in question
the tragedians as not rightly representing Bac- chus, saying that
such things did not happen to Bacchus. But Jupiter is said to have
hurled his thunder at the Titans ; the thun- der signifying a conversion
or changing : for fire naturally ascends ; and hence Jupiter, by
this means, converts the Titans to his own essence." ^TzapazzEzai §£
to xa^oXoo si^oQ £v zTj ysvsasi, [xovctc 5s Ttxavcov 6 Aiovo-
aoc. Kctr ZTzi^oohqy ^s zriQ 'Hpac ^lozi -/.i- vrpetoc,
et^opoc, y; ^-boq %at 'Epoo'^o'j. Aio v.ru aov£'/(o^ £v TTj Wirj.Gi
si^avcaTTjatv aozrj, %ai OlE^fOpSl TOV 5t7. eiQ TZrjCiyrjirjy XCOV
SsOXSpCOV. Kat ysvsascoc aXX(o? srpopoc sartv 6 AcovDao?,
5wrt %ai Cw^js ^^-t tsXsfjTYjC. Zcc/j? |j-sv yap srpopG?, STTsid'^ .7,at
z^qz ysvsaswc, xsXsutTjC 5s 5^0X1 svO-ouacav 6 otvoc ttocsl Kat ';r£pt
xyjv TsXsuTTjV 5s svO-Guatcta'ccxcotspc/t YtvoiJLSxJ'a, coi;
offense against the Deity. Now I am a prophet, though not a very
good one : for the soul is in some measure prophetic." See also
Shakspere : Henry IV. part 1. " Oh I could prophesy, But
that the earthy and cold hand of death Lies on my tongue."
194 Eleiisinian and StjXol 6 Trap 'OiJi'/jpco
UpOTcXoc, (JLavTC%oc ys- T'/jv {i£v 7,(o[JL(o5tav Tuaiyvcov o'jaav
to'j [3tov TYjv dc Tpayco^^av 5ca xa 7ta{)-rj, %7.t xr^v xsXs'j-
I'^v. O'jy, apct %aX(oc of y,co{it7,o^ xoi? xpayLy-oi? syxaXoaacv, (o:;
\rq AtovoataTcoic oyar.^, Asyov Tsc otc oD^sv zwjzrj, xpo? TGV AiovDaov.
Kspau- VOt §£ TO'JtOl? 6 ZSD^, TOO %£paOV0'J $TjXoaVZ05
X'^v STiiatpo'fSV xupyap stcl xa oivco zivo'J[X£Vol' S'lriatpsrpsL
O'jv aoroa^ zpoc saoTOv. But by the members of Dionysus being first
boiled in water by the Titans, and afterward roasted by the fire,
the outgoing or distribution of intellect into matter, and its subsequent
re- turning from thence, is evidently implied: for water was
considered by the Egyptians, as we have ah*eady observed, as the
symbol of matter ; and fire is the natural symbol of ascending. The
heart of Dionysus too, is, with the greatest propriety, said to be
pre- served by Minerva ; for this goddess is the guardian of hfe,
of which the heart is a sym- bol. So that this part of the fable
plainly signifies, that while intellectual or spiritual
Bacchic Mysteries. 195 life is distributed into the universe,
its prin- ciple is preserved entire by the guardian power and
providence of the Divine intel- ligence. And as Apollo is the source of
all union and harmony, and as he is called by Proclus, " the
key-keeper of the fountain of life," * the reason is obvious why the
mem- bers of Dionysus, which were buried by this deity, again
emerged by a new generation, and were restored to their pristine
integrity and life. But let it here be carefidly ob- served, that
renovation, when apphed to the gods, is to be considered as secretly
implying the rising of their proper hght, and its con- sequent
appearance to subordinate natures. And that punishment, when considered
as taking place about beings of a nature superior to mankind,
signifies nothing more than a secondary providence over such beings which
is of a punishing character, and which sub- sists about souls that
deteriorate. Hence, then, from what has been said, we may easily
collect the ultimate design of the first part of this mystic fable ; for
it appears to be * Hymn to the Sun. 196 Bacchic
Mysteries. no other than to represent the manner in which the
form of the mundane intellect is divided through the universe ; — that
such an intellect (and every one which is total) re- mains entire
during its division into parts, and that the divided parts themselves
are continually turned again to their source, with which they
become finally united. So that illumination from the liigher
reason, while it proceeds into the dark and rebound- ing receptacle
of matter, and invests its ob- scurity with the supervening ornaments
of divine light, returns at the same time with- out interruption to
the source or principle of its descent. Let us now consider
the latter part of the fable, in which it is said that our souls
were formed from the vapors emanating from the ashes of the burning
bodies of the Titans; at the same time connecting it with the
former part of the fable, which is also appli- cable in a certain degree
to the condition of a partial intellect * hke ours. In the first
* Partial, as being parted from the Supreme Mind.
Etruscan Kleusiuiaus. Bacchic Mysteries. 199
place, then, we are made up from frag- ments (says Olympiodorus),
because, through faUing into generation, our hf e has proceeded
into the most distant and extreme division ; and from Titanic fragments^
because the Titans are the ultimate artificers of things,* and
stand immediately next to whatever is constituted from them. But further,
our irrational life is Titanic, by which the rational and higher
life is torn in pieces. Hence, when we disperse the Dionysus, or
intuitive intellect contained in the secret recesses of our nature,
breaking in pieces the kindred and divine form of our essence, and
which communicates, as it were, both with things subordinate and
supreme, then we become Titans (or apostates) ; but when we
establish ourselves in union with this Dionysiacal or kindred form,
then we become Bacchuses, or perfect guardians and keepers of our irra-
tional life : for Dionysus, whom in this re- spect we resemble, is
himself an epJiorus or * The Demiurge or Creator being superior to
matter in which is concupiscence and all evil, the Titans who are not
thus superior are made the actual artificers. 200
Meusinian and guardian deity, dissolving at his pleasure the
bonds by which the soul is united to the body, since he is the cause of a
parted hfe. But it is necessary that the passive or femi- nine
nature of our UTational part, through which we are bound in body, and
which is nothing more than the resounding echo, as it were, of
soul, should suffer the punishment incurred by descent ; for when the
soul casts aside the [divine] peculiarity of her nature, she
requires her own, but at the same time a multiform body, that she may
again become in need of a common form, which she has lost through
Titanic dispersion into matter. But in order to see the perfect
resem- blance between the manner in which our souls descend and the
dividing of the intui- tive intellect by mundane natures, let the
reader attend to the following admirable citation from the manuscript
Commentary of Olympiodorus on the Phcedo of Plato : "It is
necessary, first of all, for the soul to place a hkeness of herself in
the body. This is to ensoul the body. Secondly, it is neces-
Baccliic Mysteries. 201 sary for her to sympathize with the
image, as being of hke idea. For every external form or substance
is wrought into an identity with its interior substance, through an
ingenerated tendency thereto. In the third place, being situated in
a divided nature, it is necessary that she should be torn in pieces, and
fall into a last separation, till, through the action of a life of
puiification, she shall raise herself from the dispersion, loose the bond
of sym- pathy, and act as of herself without the external image,
having become established according to the first-created life. The
like things are fabled in the example. For Dio- nysus or Bacchus
because his image was formed in a mirror, pursued it, and thus
became distributed into everything. But Apollo collected him and brought
him up ; being a deity of puiification, and the true savior of
Dionysus ; and on this account he is styled in the sacred hymns,
Dionusites." sauto'j £v TO) a(ojiatc. Tooxo yap sait
f^yyco- oai TO awjjict. Asorspov 5s afjjJLiraO-stv x(p £l5(o- Xcj),
xctxa z^(]v ojiosL^stav. Ilav yap stSoc sTust- 202
Eleusinian and xcti £Lc Tov ZT/az^jy ST.'JTsastv {j.£{jLa[xov.
'Eco? av oat TT^i; 7,a{>a[>xiT^%'r]v; C^otj? aavaystpat {xsv
eaoTTjv aiTo xou avcop:rta[xo'j, Xoa'/^ gs tov Ssa- jj-ov XYji;
a^j{iYj7:7.i8'£iac, xpopaXXsiai §£ xvjv avso xou £co(oAou, xctx)-'
Erjjjzr^y iaxtoaav iipcoTO'jpYOV C(OYjV. 'Oxi ta 6{JL0ta [xuO-sosxai,
'>c7.i sv xcp Tzarjaciei'^ixrj.zi. '0 yap Aiovaaoc, on zo scoco-
Xov svsO-'^xs T(o saoTuTTpto XGU-cp scpsairsto. Kac ouxd)? eiQ zo Tifjy
sjispiaiJ-Yj. ""0 5s AttoXXwv aov- aystpst t£ aozoy 7,ac
avaysi, xavJ-apiwoc (ov ^£oc, 'x.ai xo'j AcGvoaoD aojxY^p (oc
aXcoO-m?. Kat 5l7. xodto AcovoaoxY^? av'j(j.£tx7.L Hence, as the
same author beautifully observes, the soul revolves according to a mystic
and mundane revolution : for flying from an in- divisible and Dionysiacal
hfe, and operating according to a Titanic and revolting energy, she
becomes bound in the body as in a prison. Hence, too, she abides in
punishment and takes care of her partial and secondary concerns;
and being purified from Titanic defilements, and collected into one, she
be- Bacchic Mysteries. 203 comes a Bacchus ;
that is, she passes into the proper integrity of her nature according
to the divine principle ruhng on high. From all which it evidently
fohows, that he who hves Dionysiacally rests from labors and is
freed from his bonds ; * that he leaves his prison, or rather his
apostatizing life ; and that he who does this is a philosopher purifying
him- seK from the contaminations of his earthly life. But farther
fi'om this account of Dio- nysus, we may perceive the truth of
Plato's observation, " that the design of the Myste- ries is
to lead us back to the perfection from which, as our beginning, we first
made our de- scent." For in this perfection Dionysus him- self
subsists, establishing perfect souls in the throne of his father ; that
is, in the in- tegrity of a life according to Jupiter. So that he
who is perfect necessarily resides with the gods, according to the design
of those deities, who are the sources of con- summate perfection to
the soul. And lastly, *"We strive toward virtue by a strenuous
use of the gifts which God communicates ; but when God communicates
himself, then we can be only passive — we repose, we enjoy, but all
opera- tion ceases." 204 Bacchic Mysteries.
the Thyrsus itself, which was used in the Bacchic procession, as it
was a reed full of knots, is an apt symbol of the diffusion of the
higher nature into the sensible world. And agreeable to this,
Olympiodorus on the Pluedo observes, " that the Thyrsus * is a
symbol of a forming anew of the material and parted substance from
its scattered condition ; and that on this account it is a Titanic
plant. This it was customary to extend before Bac- chus instead of
his paternal scepter; and through this they called him down into
our partial nature. Indeed, the Titans are Thyr- sus-bearers ; and
Prometheus concealed fire in a Thyi'sus or reed ; after which he is
con- sidered as bringing celestial light into genera- tion, or
leading the soul into the body, or calling forth the divine illumination,
the whole being ungenerated, into generated ex- istence. Hence
Socrates calls the multitude Thyrsus-bearers Orphically, as hving
accord- ing to a Titanic life." 'On 6 vapO-rj^ aa[x[5oXov ZQZi
zriz svaXo'j $7j{xtC(0pYtac, %ai {xsptatYjc, 5ta * The word
thyrsus, it will be seen, is here translated from vapd'Yj^, a rod or
ferula. Bacchic Mysteries. 207 TY]v [laXtaxa
StsaTCapiJ-svYjv aovs/scav, o^sv %at Tixavtxov xo cprjxov. Kat yap t(p Aiovoacp
Tupoxscvooatv aoto), avcc too 'irarpty.oo axY^irxpofj. Kai xauTTj
irpoxaXoovxai a'jxov zic, xov {xspcxov. Kat {isvcoi, 'jcc/.i
vapi^TjTcocpopooacv oc Tixavs?, %at g ITpGIJLTjiJ'SaC, £V
VapO-YjT.l' 'AkZlZZl TO 'EUp, SLTS XO oupaviov cp(oc see x'A^v
ysvsatv xaxaaTucov, stxs xr;v 4^yX'/jV £1? xo a(0[jLa xpoaycov, stxs xtjv
o^scav £XXa{i-'];tv oXt^v aysvvTjXOv ouaav, see xtjv ysvs- atv
TTpoxaXouiisvGC. Ata 5s xorjxo, %at 6 -co- y-pax'^C xorj:; ttoXXo'jc
"JcolXsl vapi)"f]%ocpopoy? Op- cpt7,(oc, co^ C^'^vxac
Ttxry.vcy.(oc. And thus much for the secret meaning of the
fable, which formed a principal part of these mystic rites. Let us now
proceed to consider the signification of the symbols, which,
according to Clemens Alexandrinus, belonged to the Bacchic ceremonies ;
and which are comprehended in the following- Orphic verses :
M7]Xa to )(po-ca y,aXv. trap egtcj^wiuv Xi-p^oivcov. That
is, A wheel, a pine-nut, and the wanton plays, Which move and
bend the limbs in various ways : 208 Eleusinian and
With these th' Hesperian golden-fruit combine, Which beauteous
nymphs defend of voice divine. To all which Clemens adds saoTU'pov,
esop- troii, a mirror, i:oy.oCj polios, a fleece of wool, and
aa-payaXoc, asfragaios, the anMe-bone. In the first place, then, wdth
respect to the wheel, since Dionysus, as we have already explained,
is the mimdane intellect, and in- tellect is of an elevating and
convertive na- ture, nothing can be a more apt symbol of
intellectual action than a w^heel or sphere : besides, as the laceration
and dismemberment of Dionysus signifies the going-forth of in-
tellectual illumination into matter, and its returning at the same time
to its source, this too will be aptly symbolized by a wheel. In the
second place, a pine-nut, from its conical shape, is a perspicuous symbol
of the manner in which intellectual or spiritual illmnination
proceeds from its source and beginning into a material nature. " For
the soul," says Ma- crobius,* "proceeding from a round figure,
which is the only divine form, is extended into the form of a cone in
going forth." * In Somnid Scijnonis, xii.
Bacchic Mysteries. 209 And the same is true sjrmbolically of
the higher intellect. And as to the wanton sports which bend the
limbs, this evidently alludes to the Titanic arts, by which
Dionysus was allured, and occultly signifies the facul- ties of the
mundane intellect, considered as subsisting according to an apparent
and divisible condition. But the Hesperian golden-apples signify
the pure and incorrupt- ible nature of that intellect or Dionysus,
which is possessed by the world ; for a golden-apple, according to
Sallust, is a symbol of the world ; and this doubtless, both on account
of its ex- ternal figui'e, and the incorruptible intellect which it
contains, and with the illuminations of which it is externally adorned ;
since gold, on account of never being subject to rust, aptly
denotes an incorruptible and immaterial na- ture. The mirror, which is
the next symbol, we have already explained. And as to the fleece of
wool, this is a symbol of laceration, or distri])ution of intellect, or
Dionysus, into matter; for the verb o'jrapattco, sparaffOy diJanio,
which is used in the relation of the Bacchic discerption, signifies to
tear in pieces 210 Bacchic Mysteries. like wool
: and hence Isidoinis derives the Latin word laua, wool, from Janiando,
as velliis from vellendo. Nor must it pass un- observed, that
Xq^jz^ in Greek, signifies wool, and Xtjvo;, a wine-press.* And, indeed,
the pressing of grapes is as evident a symbol of dispersion as the
tearing of wool; and this circumstance was doubtless one principal
reason why grapes were consecrated to Bac- chus : for a grape, previous
to its pressure, aptly represents that which is collected into one
; and when it is pressed into juice, it no less aptly represents the
diffusion of that which was before collected and entu'e. And
lastly, the aarpotyaXoc, astragalos, or anJiJe- hone, as it is
principally subser\dent to the progressive motion of animals, so it
belongs, with great propriety, to the mystic symbols of Bacchus;
since it doubtless signifies the going forth of that deity into the
department of physical existence : for nature, or that divisible
life which subsists about the body, * The practice of punning, so
common in all the old rites, is here forcibly exhibited. It aided to
conceal the symbolism and mislead uninitiated persons who might seek to
ascertain the genuine meaning. i\v>'-
.../Mm Hercules Reclining. Bacchic
Mysteries. 213 and whicli is productive of seeds, imme-
diately depends on Bacchus. And hence we are informed by Proclus, that
the sexual parts of this god are denominated by theologists, Diana,
who, says he, presides over the whole of the generation into natural
existence, leads forth into light all natural reasons, and extends
a prolific power from on high even to the subterranean reahns.* And hence
we may perceive the reason why, in the Orphic Hjjmn to Nature, that
goddess is described as " turning round silent traces with the
ankle- bones of her feet. ^^ And it is highly worthy our
observation that in this verse of the hymn Nature is cele- brated
as Fortune, according to that descrip- tion of the goddess in which she
is repre- sented as standing with her feet on a wheel which she
continually turns round ; as the following verse from the same hymn
abun- dantly confirms : Asvao) axpo'-paXiYY- S'oov po/xa
o'.vsooooa.. * Commentary upon the Timceus. 214
Meusinian and The sense of which is, "moving with rapid
motion on an eternal wheel." Nor ought it to seem wonderful that
Nature should he celebrated as Fortune; for Fortune in the Orphic
h}Tnn to that deity is invoked as Diana : and the moon, as we have observed
in the preceding section, is the aoro'iriov ayaXjia rpyasto?, fJie
self-revealing emblem of Nature ; and indeed the apparent incon-
stancy of Fortune has an evident agreement with the fluctuating condition
in which the dominions of nature are perpetually involved. It only
now remains that we explain the secret meaning of the sacred dress
with which the initiated in the Dionysiacal Myste- ries were
invested, in order to the GpovLajxo^ (fhromsmoSy enthroning) taking place
; or sitting in a solemn manner on a throne, about which it was
customary for the other initiates to dance. But the particulars of
this habit are thus described in the Orphic verses preserved by Macrobius
: * Scojxa ti-£00 ji"/,aTT£'.v s^'.a'j-fooq r^zX'.o'.Q.
* Satunialia, i. 18. Bacchic Mysteries. 215
flpwxct ;j.Ev ap-p'f :«:? evaXcYxcov «xTtvsaa:v IIsttUv
cpo'.vtxjpov (lege -^otvtxjov) -pottxjXov a^cp-paAEO^oc-. ii'Jxocp
67ispa-j vsi^poio TiavatoXoo sJpu xa*«-|a'. ^^plxrx Kfjhjzxi-Azrrj
^vjpoc xaxa Sa^tov Jjjulojv, Aatpoiv o«-5aXftov ;j.i|uh;jl' bpoo xz
nolo'.o. Eka r 6;.jp,<).s vs^pY)? xpt>asov UoxY^pa
pocXeaS-at n«;A'favoaiVTa irsp-^ oxspvuiv cpopjj-v fxsya
arj|jia Eo9-u5 ox' EX Ttspaxwv Tac-r]? (paja-wv avopouaiov
Xpoasiai? axxcat ,3(x>.-/j poov Oxsavow, Auyv] o'
atjjTjxo? -f], ava S' Spoaoj a;jLcpt;xtYE:aa Mapixrxirj-fj o'y-rpvj
A:zar>iitY(] maxfj. xoxXov, Ilpoci&s ^£00. Z(ovf] o' ap OTTO
axjpvuiv a/ji£xp7]xu>v <I>aovjx' ap' ily.zrj.wo ■Kov.Uq,
iityx Oau^' ecowsa^ac. That is, He who desires in pomp
of sacred dress The sun's resplendent body to express,
Should first a vail assume of purple bright, Like fair white
beams combin'd with fiery light : On his right shoulder, next, a
mule's broad hide Widely diversified with spotted pride
Should hang, an image of the pole divine, And dfBdal stars,
whose orbs eternal shine. A golden splendid zone, then, o'er the
vest He next should throw, and bind it round his breast;
In mighty token, how with golden light. The rising sun, from
earth's last bounds and night Sudden emerges, and, with matchless
force, Darts through old Ocean's billows in his course.
A boundless splendor hence, enshrin'd in dew, Plays on his
whirlpools, glorious to the view ; While his circumfluent waters
spread abroad, Full in the presence of the radiant god :
216 Eleusinian and But Ocean's circle, like a zone of
light, The sun's wide bosom girds, and charms the wond'ring
sight. lu the first place, then, let us consider why this
mystic dress belonging to Bacchus is to represent the sun. Now the reason
of this will be evident from the following ob- servations :
according to the Orphic theol- ogy, the divine intellect of every planet
is denominated a Bacchus, who is characterized in each by a
different appellation; so that the intellect of the solar deity is called
Trie- tericus Bacchus. And in the second place, since the divinity
of the sun, according to the arcana of the ancient theology, has a
super-mundane as well as mundane establish- ment, and is wholly of an
exalting or intel- lectual nature ; hence considered as super-
mundane he must both produce and contain the mundane intellect, or
Dionysus, in his essence ; for all the mimdane are contained in the
super-mundane deities, by whom also they are produced. Hence Proclus, in
his elegant Hijmn to the Sun, says : Bacchic
Mysteries. 217 That is, " they celebrate thee in hymns as
the illustrious parent of Dionysus." And thirdly, it is
through the subsistence of Dionysus in the sun that that luminary derives
its circular motion, as is evident from the following Or- phic
verse, in which, speaking of the sun, it is said of him, that
" He is called Dionysus, because he is carried with a
circular motion through the immense- ly-extended heavens." And this
with the greatest propriety, since intellect, as we have already
observed, is entirely of a transforming and elevating nature : so that
from all this, it is sufficiently evident why the dress of Diony- sus
is represented as belonging to the sun. In the second place, the vail,
resembling a mixture of fiery light, is an obvious image of the
solar fire. And as to the spotted mule- skin,* which is to represent the
starry heav- ens, this is nothing more than an image of *
Nehris is also a fawn-skin. The Jewish high-priest wore one at the great
festivals. It is rendered *• badger's skin " in the Bible. In India
the robe of Indra is spotted. 218 Bacchic Mysteries.
tlie moon ; tMs luminary, according to Proc- lus on Hesiod,
resembling the mixed nature of a mule ; " becoming dark through her
par- ticipation of earth, and deriving her proper light from the
sun." T-qz [isy s/ooaa xo a%o- So that the spotted hide
signifies the moon attended with a multitude of stars : and hence,
in the Oi'phic Hymn to the Moon, that deity is celebrated "as
shining surrounded with beautiful stars " : v.rjXoic, aaz^jOiGi
ppy- ooarj., and is likewise called aaxpap/Tj, as- trarche, or
" queen of the starsy In the next place, the golden zone is
the circle of the Ocean, as the last verses plainly evince. But,
you will ask, what has the rising of the sun through the ocean, from
the boundaries of earth and night, to do with the adventures of
Bacchus ? I answer, that it is inpossible to devise a symbol more
beauti- fully accommodated to the purpose : for, in the first
place, is not the ocean a proper emblem of an earthly nature, whirling
and Bacchic Mysteries. 221 stormy, and
perpetually rolling without ad- mitting any periods of repose ? And is
not the sun emerging from its boisterous deeps a perspicuous symbol
of the higher spiritual nature, apparently rising from the dark and
fluctuating material receptacle, and confer- ring form and beauty on the
sensible uni- verse through its light ? I say apparently rising,
for though the spiritual nature always diffuses its splendor with
invariable energy, yet it is not always perceived by the subjects
of its illuminations : besides, as psychical na- tures can only receive
partially and at inter- vals the benefits of the divine irradiation
; hence fables regarding this temporal partici- pation transfer,
for the purpose of conceal- ment and in conformity to the
phenomena, the imperfection of subordinate natures to such as are
supreme. This description, there- fore, of the rising sun, is a most
beautiful symbol of the new birth of Bacchus, which, as we have
already observed, implies nothing more than the rising of intellectual
light, and its consequent manifestation to subordinate orders of
existence. 222 Eleusinian and And thus much for
the mysteries of Bac- chus, which, as well as those of Ceres,
relate in one part to the descent of a partial in- tellect into
matter, and its condition while united with the dark tenement of the body
: but there appears to be this difference be- tween the two, that
in the fable of Ceres and Proserpine the descent of the whole rational
soul is considered ; and in that of Bacchus the scattering and going
forth of tliat su- preme part alone of our nature which we properly
characterize hy the appellation of. intellect* In the composition of each
we may discern the same traces of exalted wis- dom and recondite
theology; of a theology the most venerable for its antiquity, and
the most admirable for its excellence and reahtyo I shall
conclude this treatise by presenting the reader with a valuable and most
elegant hymn of Proclusf to Minerva, which I have * Greek,
wn;;, nous, the Intuitive Eeasoii, that faculty of the mind that
apprehends the Ineffable Truth. t That the following hymn was
composed by Proclus, can not be doubted by any one who is conversant with
those already ex- tant of this incomparable man, since the spirit and
manner in both is perfectly the same. Bacchic
Mysteries. 223 discovered in the British Museum ; and the
existence of which appears to have been hitherto utterly unknown. This
hymn is to be found among the Harleian Manuscripts, in a volume
containing several of the OrpJiic liymns^ with which, through the
ignorance of transcriber, it is indiscriminately ranked, as well as
the other four hymns of Proclus, already printed in the Bihliotlieca
Grmca of Fabricius. Unfortunately too, it is tran- scribed in a
character so obscure, and with such great inaccuracy, that,
notwithstanding the pains I have taken to restore the text to its
original purity, I have been obUged to omit two hues, and part of a third,
as beyond my abilities to read or amend ; however, the greatest,
and doubtless the most important part, is fortunately intelhgible, which
I now present to the reader's inspection, accompa- nied with some
corrections, and an Enghsh paraphrased translation. The original is
highly elegant and pious, and contains one mythological particular, which
is no where else to be found. It has likewise an evident connection
with the preceding fable of Bac- 224 EJeusinian and
chus, as will be obvious from the perusal; and on tins account
principally it was in- serted in the present discoui'se. Ek
aohnan. KATOI fJLcU a'.'(lO/0{.0 OiO? TJXO?' Tj Y£VETY]pO(;
IlTjYf]? oY.Tzpo9-opoooa, v.a'. wxpoxaxY,? ano asipa?
Apo£vod'0|j.3- cpspa^iLf jj.cY«-3'2V;5* o,3p:|i,07tarrjp,* KiV.Xo&r
ov/yozo 3' u;xvov £0'f pov: Tioxvia i)'U^uj 'H aO'^'.Tj?
ViZXrj.Zrj.ir/. ^iZOZv/^trxC,] TTuXjUlVa;;. Ka: "/^O-ovuuv
orj.^r/.zrj.zrx Oj(ojxaya (p'j)>a •j-'-Y^"^'^'^^* '11 %pa3'.r|V
saawaai; ajj-UGXiXsutov J rjyrj.v.xo^ Ai&jpo? sv YU«Xc'-a'.
p-ipiCo/J-svoo TcatJ Bav-^ou l\xav(uv oTzo X.'p"-, TiopcC oj 2
Tiaxpt '|)4po'Joa Ocppa VEOi; ^ouX'rjatv wtt' appYjxo:at xov.yjo?,
Ev. ScJuisXt]? TCcpt xoa^aov avY]^f]av] Alovuooo?. 'Hi; ttsXsx'.? §
6-rjpiu)V xafjivcuv TCpo^£Xu|Jt.va %apv]va Ilavojpy.ou? sy.oir^;
ir«t)£u>v T|VUOj 'iz'^tifK-qv 'H v.paxQC 'Hpar Oc|xvov eY'P"^-
ppcixoiv apjxa'iov H jjioxov v.QajJLTjaoti; oXov uo/.ojiSi';:
zz/yrj.'.c, Azix:oof'^:xry ojprjv || '{^'j'/at-t ^aXXouaa*
'II Krj./ZQ rxv.pOTZo\'.r/. So|JLpoXov axpoxarq?
ixs'(rj.\-r^q azo ixoxvia 0£tpf]?' * Lege oPptjULOTraxpT), t
Lege f)joaj,3Eia?. t Lege a|j.oax'. Xuxoo. § Lege tceXexu?.
II Lege Op;jL-r]v. BaccJiic Mysteries. 225 'H
x8-ova ,3coT:ccvE.pa tpt^aa? fxvjtjpa? p-^Xoiv. K/.oa-: ixEU Y|
<pao? ay^ov aiiaoTpaTrxooaa Trpoatouou- Ao? OS ;i.oi oXptov op;j.ov
aXiuo/xsva rspo yacav. Ao? -]/ox-/y Y^-oc, GtYvov air' eo^pjiuv oso
|jio{).uiv Ka: ao-^iY]v -/.at jpcoxoc- ,j.svoc S's/J-Tivsoaov
jpwTi, Toaaattov, xac towv, oaov /&ov:ojv ajio xoXttojv
A'^spv-r] ,rpoc OXd|xkov s? Yjf^sa Traxpo^ £o:o, Ei5j Ttc
«/j.T:Xax:-r];x£* xocx-r] f.tototo Sa/uiaCs;. IXa9.-
/x£:X:xo,3ooXj- aao/i,3potj- /Ji7]5s/JL£aoY)? f Trcjoavat?
TOivatacv eXtup xot: xop/xa Ysvsaaot, KstfAsvov Ev 8aTT:s5otatv,
61: TcO? so/o/jiac swxr KsxXofl-: xjxXoO-- xa: ;xol iitCu^yiv 00a?
6tox£C. TO MINEEVA. Daughter of aegis-bearing Jove,
divine, Propitious to thy votaries' prayer incline ;
From thy great father's fount supremely bright, Like fire
resounding, leaping into light. Shield-bearing goddess, hear, to
whom belong A manly mind, and power to tame the strong!
Oh, sprung from matchless might, with joyful mind Accept this
hymn ; benevolent and kind ! The holy gates of wisdom, by thy
hand Are wide unfolded ; and the daring band Of
earth-born giants, that in impious fight Strove with thy fire, were
vanquished by thy might. Once by thy care, as sacred poets
sing. The heart of Bacchus, swiftly-slaughtered king, *
Lege a|xirXaxY]|ULa. t Lege iKiy: t^C tr^zr^^^. 226
Eleusinian and Was sav'd in ^ther, when, with fnry fired,
Tlie Titans fell against his life conspired ; And with
relentless rage and thirst for gore, Their hands his members into
fragments tore : But ever watchful of thy father's will,
Thy power preserv'd him from succeeding ill. Till from the
secret counsels of his fire, And born from Semele through heavenly
sire, Great Dionysus to the world at length Again
appeared with renovated strength. Once, too, thy warlike ax, with
matchless sway, Lopped from their savage necks the heads away
Of furious beasts, and thus the pests destroyed Which long
all-seeing Hecate annoyed. By thee benevolent great Juno's
might Was roused, to furnish mortals with delight. And
thro' life's wide and various range, 't is thine Each part to
beautify with art divine : Invigorated hence by thee, we find
A demiurgic impulse in the mind. Towers proudly raised, and
for protection strong. To thee, dread guardian deity, belong.
As proper symbols of th' exalted height Thy series claims
amidst the courts of light. Lands are beloved by thee, to learning
prone. And Athens, Oh Athena, is thy own ! Great
goddess, hear! and on my dark'ned mind Pour thy pure light in
measure unconfined ; — That sacred light, Oh all-protecting
queen. Which beams eternal from thy face serene. My
soul, while wand'ring on the earth, inspire With thy own blessed
and impulsive fire : And from thy fables, mystic and divine.
Give all her powers with holy light to shine. Bacchic
Mysteries. 227 Give love, give wisdom, and a power to love,
Incessant tending to the realms above ; Such as unconscious of base
earth's control Gently attracts the vice-subduing soul : From
night's dark region aids her to retire, And once moi'e gain the palace of
her sire. O all-propitious to my prayer incline ! Nor let those
horrid punishments be mine Which guilty souls in Tartarus confine,
With fetters fast'ned to its brazen floors. And lock'd by hell's
tremendous iron doors. Hear me, and save (for power is all thine
own) A soul desirous to be thine alone.* It is very
remarkable in this hymn, that the exploits of Minerva relative to
cutting off the heads of wild beasts with an ax, etc., is mentioned
by no writer whatever; nor can I find the least trace of a
circumstance either in the history of Minerva or Hecate to which it
alludes.f And from hence, I * If I should ever be able to publish a
second edition of my translation of the hymns of Orpheus, I shall add to
it a translation of all those hymns of Proclus, which are fortunately
extant ; but which are nothing more than the wreck of a great multitude
which he composed. t If Mr. Taylor had been conversant with
Hindu literature, he would have perceived that these exploits of
Minerva-Athene were taken from the buffalo-sacrifice of Durga or Bhavani.
The whole Dionysiac legend is but a rendering of the Sivaic and
Buddhistic legends into a Grecian dress. — ^A. W.
228 Bacchic Mysteries. think, we
may reasonably conclude that it belonged to the arcane Orphic
narrations concerning these goddesses, which were con- sequently
but rarely mentioned, and this but by a few, whose works, which might
afford us some clearer information, are unfortu- nately lost.
Musical Couference. Venus Kisiiig troni the
Sea. APPENDIX. SINCE writing the above
Dissertation, I have met with a curious Greek manu- script
entitled: "Of Psellus, Concerning DcBmons^* according to the opinion
of the GreeJiS " : zoo WeWoo xivct Tuspt ^aqiovcov So^aCooacv
'EXXtjvs? : In the course of which he describes the machinery of the
Eleusinian Mysteries as follows : — 'A oe ys [lo^jzr^iAa xoo- T(ov,
oiov aaxi^a ta EXsuatvia, xov [xod-i^ov OTUOTcpivsrac 3ia {i^iyvo^ASVov
xifj Stjgi, t] "cyj Atjix'/j- x£pL, xctt XT] OoYatspsL Tc/.ux'A]?
Ospas^axxTj xt] xctt Kop'^. Etcsiotj 5s sjjisXXov %7.t acppoStaiot
sict XT] {JiaYjGst ytvsa^at aujJi'jrXoxac, avaSostat iro)? Y] ArppoScx'rj
airo xtvcov 'jrsTuXaajj.svwv (JL'rjSs- * Daemons, divinities, spirits
; a term formerly applied to all rational beings, good or bad, other than
mortals. 229 230 Appendix, (ov
TusAayw^. Etta 5s yafJiYjXioc S'Jrt 'Ctj Kopifj 6[JL£vaio?. Kat
s'^a^ouatv of t£Xou{i.£VOC, sx to[jl- Tuavou scpayov £% %o{Ji[57.X(ov
sttiov, sxtpvo'fo- p'^aa (lege s^spvocpopr^cc/.) utto tov xoLarov
siasouv. TTroT-pcvstaL $£.%at ta^ Stjooc (o^iva?. Ttat xapocaXytaL
Erp' otc ^oii tpaYoa^sXsc {Jtt- {x-^{ia TTOLO-atvojxsvov xspi roi?
^l^'jjxo^c' otc xsp TSpayou (lege Tpayou) opyscc aTrorsjKov,
to) x-oXiro) xauxT^c xaxsO-e'co, (oairsp 5yj y,7.c saotou. Etc^
xaatv c/i xoy AtovoaoD xqiat, y,at yj xrjauc, y,ai T7. iroXyoix'-paXa
TuoTrava, ^ai of x(o }:^apa- CtCO XSXO'JJXSVOC, %X'^50V£C '^2 ^^-^
{XC{J-aA(OV£C, %at zic, rf/iny XsfJr^Q O£a'jrp(ox£toc y-^M
A(o5(ovctcov yaXv.ziov, -/.rji KopyjBctc aXXo? xai 7,0'jp'rj^ £X£-
poc, 5at{JL0V(ov {xc{JLYj|jL7.xa. Ecp' ot? Yj Bapfoxooc (lege Y^ Baupfo
xo^c) {J-'^pooc avaaopojj.£V7j, xat 6 yovaixo? %x£ic> oozio yap
ovo{xaCoDaL xy^v ai5(o aia/ovo[JL£VOL Kai ouxco? £v ata/pco xy^v
x£X£X7]v %7.xa)jjo'jacv. /. e. " The Mysteries of these demons, such
as the Eleusinia, con- sisted in representing the mythical narra-
tion of Jupiter mingling mth Ceres and her daughter Proserpina
(Phersephatte). But as Appendix. 231 venereal
connections are in the initiation,* a Venus is represented rising from
the sea, from certain moving sexual parts : afterwards the
celebrated marriage of Proserpina (with Pluto) takes place ; and those
who are initiated sing : " 'Out of the drum I have
eaten, Out of the cymbal I have drank, The mystic vase I have
sustained, The bed I have entered.' The pregnant throes
likewise of Ceres [Deo] are represented : hence the supphcations of
Deo are exhibited; the drinking of bile, and the heart-aches. After this,
an effigy with the thighs of a goat makes its appear- ance, which
is represented as suffering vehe- mently about the testicles : because
Jupiter, as if to expiate the violence which he had offered to
Ceres, is represented as cutting off the testicles of a goat, and placing
them on her bosom, as if they were his own. But after all this, the
rites of Bacchus suc- ceed; the Cista, and the cakes with many
bosses, Uke those of a shield. Likewise the * /. e. a
representation of them. 232 Appendix. mysteries
of Sabazius, divinations, and the mimalons or Bacchants ; a certain sound
of the Thesprotian bason ; the Dodonsean brass ; another Corybas,
and another Proserpina, — representations of Demons. After these
suc- ceed the uncovering of the thighs of Baubo, and a woman's comb
(lie is), for thus, through a sense of shame, they denominate the
sexual parts of a woman. And thus, with scanda- lous exhibitions,
they finish the initiation." From this curious passage, it
appears that the Eleusinian Mysteries comprehended those of almost
all the gods ; and this account will not only throw hght on the relation
of the Mysteries given by Clemens Alexandidnus, but likewise be
elucidated by it in several particulars. I would willingly unfold to
the reader the mystic meaning of the whole of this machinery, but
this can not be accom- phshed by any one, without at least the pos-
session of all the Platonic manuscripts which are extant. This
acquisition, which I would infinitely prize above the wealth of the
In- dies, will, I hope, speedily and fortunately
k'^■ Jupiter disguised as Diana, and Calisto.
~-_ ;^ ^ C\r I ■■■■ mt^
Hercules, Deianeira and Nessus.
Appendix. 235 be mine, and then I shall be no less
anxious to communicate this arcane infoiTQation, than the liberal
reader will be to receive it. I shall only therefore observe, that the
mu- tual communication of energies among the gods was called by
ancient theologists c'spo^ yafiGc, hieros gcimos, a sacred marriage
; concerning which Proclus, in the second book of his manuscript
Commentary on the Parmenides, admirably remarks as follows:
TaUTTTJV $£ tTjV 7.0tV(l>VtaV, TTOrS {1£V £V ZOIQ GO- Gzor^oic,
6p(oac d-zoic, (oi {^ooXoyot) %at vcaXooat Ya{j.ov 'Hpoic y-^J-i Aloc,
Ojpavoo %ac TqQ, Kpo- voo v.0.1 Tsac* '7L0ZS §£ ttov T-ara^ssarspcov
TzpOQ xa xpsLtto), %ai v^aXooGi ya^ioy Aco? y-ac Atjjxtj- Tpac*
irors 5s xai £{jL'3r7.Xtv xcov xpsiTiKovcov xpo? xa 6rp£t[j,£V7., %7.i
Xsyouat Atoc %ct: KopTj? Ya{xov. Etcsl^'A] tcov 0£(ov aXXat jj-sv staiv
af irpoc X7. GDGZoiya 7,oiva)vi7,c, 7.XX7.1 5s at 'jrpoi; xa xpo
7.'jx(ov' aXXat 5s 7.c xpo? xa |X£X7. xa^)xa. Kai dsL XYjV £%7.axTj?
i5lgxyjx7. /,7.xavo£iv y,7C {j.£- XaY£tV 7.7r0 X(OV 0£(OV £Xt X7.
£C57J X'^V XCiC7.0X7]V dta'jiXoxYjV. /. ^. " Theologists at
one time considered this communion of the gods in divinities
co-ordinate with each other ; and 236 Appendix.
then tliey called it the mamage of Jupiter and Jiino, of Heaven and
Earth [Uranos and Gre], of Saturn and Rhea : but at another time,
they considered it as svibsisting be- tween subordinate and superior
divinities; and then they called it the marriage of Jupi- ter and
Ceres ; but at another time, on the contrary, they beheld it as
subsisting be- tween superior and subordinate divinities; and then
they called it the marriage of Jupi- ter and Kore. For in the gods there
is one kind of communion between such as are of a co-ordinate
nature ; another between the subordinate and supreme ; and another
again between the supreme and subordinate. And it is necessary to
understand the peculiarity of each, and to transfer a conjunction of
this kind froin the gods to the communion of ideas with each
other." And in Tim (mis ^ book i., he observes : y.rj.i zo rrjv
wjzr^v (supple /. e. '' And that the same goddess is
conjoined with other gods, or the same god with many goddesses, may
be collected fi'om the mystic Appendix.
237 discourses, and those marriages which are
called in the Mysteries Sacred Marriages.''^ Thus far the divine Proclus
; from the first of which passages the reader may perceive how
adultery and rapes, as represented in the machinery of the Mysteries, are
to be under- stood when apphed to the gods; and that they mean
nothing more than a communica- tion of divine energies, either between a
su- perior and subordinate, or subordinate and superior, divinity.
I only add that the ap- parent indecency of these exhibitions was, as
I have already observed, exclusive of its mystic meaning, designed
as a remedy for the passions of the soul : and hence mystic
ceremonies were very properly called a%£7., akea, medicines, by the
obscure and noble Heracleitus.'^ * Iamblichus : De
Mijsteriis. Saciifice of a Pig.
Hercules Drunk. ORPHIC HYMNS. I shall
utter to whom it is lawful ; but let the doors be closed, Nevertheless,
against all the profane. But do thou hear, Oh Musseus, for I will declare
what is true. . . . He is the One, self -proceeding ; and from him
all things proceed, And in them he himself exerts his activity ; no mortal
Beholds Him, but he beholds all. There is one royal body in which
all things are enwombed, Fire and Water, Earth, ^ther, Night and
Day, And Counsel [Metis'], the first producer, and delightful Love,
— For all these are contained in the great body of Zeus.
Zeus, the mighty thunderer, is first ; Zeus is last ; Zeus is the
head, Zeus the middle of all things ; From Zeus were all things produced.
He is male, he is female ; Zeus is the depth of the earth, the height of
the starry heavens ; 238 Appendix. 239 He
is the breath of all things, the force of untamed fire ; The bottom of the
sea ; Sun, Moon, and Stars ; Origin of all ; King of all ; One
Power, one God, one Great Ruler. HYMN OF CLEANTHES.
Greatest of the gods, God with many names, God ever-ruling,
and ruling all things ! Zeus, origin of Nature, governing the universe by
law, All hail ! For it is right for mortals to address thee ; For
we are thy offspring, and we alone of all < That live and creep
on earth have the power of imitative speech. Therefore will I praise
thee, and hymn forever thy power. Thee the wide heaven, which surrounds
the earth, obeys : Following where thou wilt, willingly obeying thy
law. Thou boldest at thy sei'vice, in thy mighty hands, The
two-edged, flaming, immortal thunderbolt. Before whose flash all nature
trembles. Thou rulest in the common reason, which goes through all.
And appears mingled in all things, great or small, Which filling all
nature, is king of all existences. Nor without thee. Oh Deity,* does
anything happen in the world. From the divine ethereal pole to the great
ocean, Except only the evil preferred by the senseless wicked. But
thou also art able to bring to order that which is chaotic. Giving form
to what is formless, and making the discordant friendly ; So
reducing all variety to imity, and even making good out of evil. Thus
throughout nature is one great law Which only the wicked seek to
disobey. Poor fools ! who long for happiness. But will not see nor
hear the divine commands. * Greek, Aaifxov, Demon,
240 Appendix. [In frenzy blind they
stray a\v;iy from good, By thii'st of glory tempted, or sordid
avarice, Or pleasures sensual and joys that fall.] But
do thou, Oh Zeus, all-bestower, cloud-compeller! Ruler of thunder !
guard men from sad error. Father ! dispel the clouds of the soul,
and let us follow The laws of thy great and just reign !
That we may be honored, let us honor thee again, Chanting thy
great deeds, as is proper for mortals, For nothing can be better
for gods or men Than to adore with hymns the Universal King.*
* Rev. J. Freeman Clarke, whose version is here copied, renders
this phrase "the law common to all." The Greek text reads:
" 7] xoivov a;c vojAciv £v v.-A-Q u/ivstv," — the term vojj.oc:,
nomos, or Law, being used for King, as Love is for God. — A. W.
Proserpina Enthroned in Hades. Nymphs and
Centaurs. AporrJieta, Greek aiioppTjTa — The instructions given by
the hierophant or interpreter in the Eleusinian Mysteries, not to
be disclosed on pain of death. There was said to be a syn- opsis of them
in the i^etroma or two stone tablets, which, it is said, were bound
together in the form of a book. Apostatise — To fall or descend, as
the spiritual part of the soul is said to descend from its divine home to
the world of nature. Cathartic — Purifying. The term was used by
the Platonists and others in connection with the ceremonies of
purification be- fore initiation, also to the corresponding performance
of rites and duties which renewed the moral life. The cathartic
virtues were the duties and mode of living, which conduced to that end.
The phrase is used but once or twice in this edition. Cause —
The agent by which things are generated or produced. Circulation —
The peculiar spiral motion or progress by which the spiritual nature or
"intellect" descended from the divine region of the universe
into the world of sense. Cogitative — Relating to the
understanding: dianoetic. Conjecture, or Opinion — A mental
conception that can be changed by argument. Core — A name of
Ceres or Demeter, applied by the Orphic and later writers to her daughter
Persephone or Proserpina. She was supposed to typify the spiritual nature
which was ab- 241 242 Glossary, Core — con
tinned. ducted by Hades or Pluto into the Underworld, the
figure signifying the apostasy or descent of the soul from the
higher life to the material body. CoricaUy — After the manner
of Proserpina, i. e., as if descending into death from the supernal
world. D(emoii — A designation of a certain class of divinities.
Different authors employ the term differently. Hesiod regards them
as the souls of the men who lived in the Golden Age, now act- ing
as guardian or tutelary spirits. Socrates, in the CratyJus, says "
that daemon is a term denoting wisdom, and that every good man is
dsemonian, both while living and when dead, and is rightly called a
daemon." His own attendant spirit that checked him whenever he
endeavored to do what he might not, was styled his Daemon. lamblichus
places Daemons in the second order of spiritual existence. — Cleanthes,
in his celebrated Hymn, styles Zeus oatfiov (daimon).
Demiurgiis — The creator. It was the title of the; chief-magistrate
in several Grecian States, and in this work is applied to Zeus or
Jupiter, or the Euler of the Universe. The latter Pla- tdnists, and more
especially the Gnostics, who regarded matter as constituting or
containing the principle of Evil, sometimes applied this term to the Evil
Potency, who, some of them affirmed, was the Hebrew God.
Distrihuted — 'SiQ(hxc&^ from a whole to parts and scattered.
The spiritual nature or intellect in its higher estate was regarded
as a whole, but in descending to worldly conditions became divided into
parts or perhaps characteristics. Divisible — Made into parts or
attributes, as the mind, intellect, or spiritual, first a whole, became
thus distinguished in its de- scent. This division was regarded as a fall
into a lower plane of life. Energise, Greek z^z^^-^zw — Ho
operate or work, especially to undergo discipline of the heart and
character. Glossary. 243 Energy — Operation,
activity. Eternal — Existing through all past time, and still
continuing. Faith — The correct conception of a thing as it seems,
— fidelity. Freedom — The ruling power of one's life ; a power over
what per- tains to one's self in life. Friendship — Union of
sentiment; a communion in doing well. Fury — The peculiar mania,
ardor, or enthusiasm which inspired and actuated prophets, poets,
intei'preters of oracles, and others ; also a title of the goddesses
Demeter and Persephone as the chastisers of the wicked, — also of the
Eumenides. Generation, Greek Y^^'^t? — Generated existence, the
mode of life peculiar to this world, but which is equivalent to
death, so far as the pure intellect or spiritual nature is concerned
; the process by which the soul is separated from the higher form
of existence, and brought into the conditions of life upon the earth. It
was regarded as a punishment, and ac- cording to Mr. Taylor, was
prefigured by the abduction of Proserpina. The soul is supposed to have
pre-existed with God as a pure intellect like him, but not actually
identical — at one but not absolutely the same. Good — That
which is desired on its own account. Hades — A name of Pluto; the
Underworld, the state or region of departed souls, as understood by
classic writers ; the physical nature, the corporeal existence, the
condition of the soul while in the bodily life. Herald, Greek
y.7]po4 — The crier at the Mysteries. Hierophant — The interpreter
who explained the purport of the mystic doctrines and dramas to the
candidates. Holiness, Greek ooioty]? — Attention to the honor due
to God. Idea — A principle in all minds underlying our cognitions
of the sensible world. Imprudent — Without foresight ;
deprived of sagacity. Infernal regions — Hades, the
Underworld. Instruction — A power to cure the soul. 244
Glossary. Intellect, Greek voo? — Also rendered j)?^re reason, and
by Professor Cocker, intuitive reason, and the rational soul; the
spiritual nature. " The organ of self-evident, necessary, and
universal truth. In an immediate, direct, and intuitive manner, it
takes hold on truth with absolute certainty. The reason, through
the medium of ideas, holds communion with the world of real Being. These
ideas are the light y^\\\(^\i reveals the world of unseen realities, as
the sun reveals the world of sensible forms. ' The Idea of the good is
the Sun of the Intelligible World ; it sheds on objects the light of
truth, and gives to the soul that knows the power of knowing.' Under this
light the eye of reason apprehends the eternal world of being as truly,
yet more truly, than the eye of sense appi'ehends the world of
phenomena. This power the rational soul possesses by virtue of its having
a nature kindred, or even homogeneous with the Divinity. It was '
generated by the Divine Father,' and like him, it is in a certain sense '
eternal.' Not that we are to understand Plato as teaching that the
rational soul had an independent and underived existence ; it was created
or 'generated' in eternity, and even now, in its incorporate state,
is not amenable to the condition of time and space, but, in a peculiar sense,
dwells in eternity : and therefore is capable of beholding eternal
realities, and coming into communion with absolute beauty, and goodness,
and truth — that is, with God, the Absolute Being." — Christianity
and Greek Philosophy, x. pp. 349, 350, Intellective — Intuitive
; perceivable by spiritual insight. Ititelligihle — Eelating to the
higher reason. Interpreter — The hierophant or sacerdotal teacher
who, on the last day of the Eleusinia, explained the petroma or stone
book to the candidates, and unfolded the final meaning of the
repre- sentations and symbols. In the Phoenician language he was
called ins, peter. Hence the petroma, consisting of two tablets of stone,
was a pun on the designation, to imply the Glossary.
245 Interpreter — continued. wisdom to be uiit'olcled.
It has been suggested by the Rev, Mr. Hyslop, that the Pope derived his
claim, as the successor of Peter, from his succession to the rank and
function of the Hierophant of the Mysteries, and not from the celebrated
Apostle, who probably was never in Rome. Just — Productive of
Justice. Justice — The harmony or perfect proportional action of
all the powers of the soul, and comprising equity, veracity,
fidelity, usefulness, benevolence, and purity of mind, or holiness.
Judgment — A. peremptory decision covering a disputed matter; also
o'.avoLa, dianoia, or understanding. Knowledge — A comprehension by
the mind of fact not to be over- thrown or modified by argument. o
Legislative — Regulating. Lesser Mysteries — The TsXeia:,
teletai, or ceremonies of purifica- tion, which were celebrated at Agrae,
prior to full initiation at Eleusis. Those initiated on this occasion
were styled fJLuaxai, mystcB, from (xoto, muo, to vail ; and their
initiation was called (jiuYjat?, muesis, or vailing, as expressive of
being vailed from the former life. Magic — Persian mag,
Sanscrit maha, great. Relating to the order of the Magi of Persia and
Assyria. Material do'mons — Spirits of a nature so gross as to be
able to assume visible bodies like individuals still living on the
Earth. Matter — The elements of the world, and especially of the
human body, in which the idea of evil is contained and the soul
incarcerated. Greek oXt], Hule or Hyle. Muesis, Greek iinrioiq,
from ixotn, to vail — The last act in the Lesser Mysteries, or rsXtza:,
teletai, denoting the separating of the initiate from the former exotic
life. Mysteries — Sacred dramas performed at stated periods.
The most celebrated were those of Isis, Sabazius, Cybelfe, and
Eleusis. 246 Glossary. Mystic — Relating to the
Mysteries: a person initiated in the Lesser Mysteries — Greek
jj.u3Totu Occult — Arcane; hidden; pertaining to the mystical
sense. Orgies, Greek opY-'^' — The peculiar rites of the Bacchic Mysteries.
Opinion — A hypothesis or conjecture. Partial — Divided, in
parts, and not a whole. Philologist — One pursuing
literature. Philosopher — One skilled in philosophy; one
disciplined in a right life. Philosophise — To investigate
final causes; to undergo discipline of the life. Philosophy —
The aspiration of the soul after wisdom and truth, " Plato asserted
philosophy to be the science of unconditioned being, and asserted that
this was known to the soul by its intuitive reason (intellect or
spiritual instinct) which is the organ of all philosophic insight. The
reason perceives sub- stance ; the understanding, only phenomena. Being
(xo ov), which is the reality in all actuality, is in the ideas or
thoughts of God; and nothing exists (or appears outwardly), except
by the force of this indwelling idea. The word is the true expression of
the nature of every object : for each has its divine and natural name,
besides its accidental human appellation. Philosophy is the recollection
of what the soul has seen of things and their names." (J. Freeman
Clarke.) Plotinus — A philosopher who lived in the Third Century,
and re- vived the doctrines of Plato. Prudent — Having
foresight. Purgation, purification — The introduction into the
Teletce or Lesser Mysteries ; a separation of the external principles
from the soul. Punishment — The curing of the soul of its
errors. Prophet, Greek \i.rj.^x'.c, — One possessing the prophetic
mania, or inspiration. Priest — Greek \xrjyz'.c, — A prophet
or inspired person, ispjuc — a sacerdotal person.
Glossary. 247 Revolt — A rolling
away, the career of the soul in its descent from the pristine divine
condition. Science — The knowledge of universal, necessary,
unchangeable, and eternal ideas. Shows — The peculiar
dramatic representations of the Mysteries. Telete, Greek tjXext] —
The finishing or consummation ; the Lesser Mysteries.
Theologist — A teacher of the literatiu-e relating to the gods.
Theoretical — Perceptive. Torch bearer — A priest who bore a
torch at the Mysteries. Titans — The beings who made war against
Kronos or Saturn. E. Poeoeke identifies them with the Daittjas of India,
who resisted the Brahmans. In the Orphic legend, they are described
as slaying the child Bacchus-Zagreus. Titanic — Eelating to
the nature of Titans. Transmigration — The passage of the soul from
one condition of being to another. This has not any necessary reference
to any rehabilitation in a corporeal nature, or body of flesh and
blood. See I Corinthians, XV. Virtue — A good mental condition; a
stable disposition. Virtues — Agencies, rites, inflluences.
Cathartic Virtues — Purify- ing rites or influences. Wisdom —
The knowledge of things as they exist ; " the approach to God as the
substance of goodness in truth." World — The cosmos, the
universe, as distinguished from the earth and human existence upon
it. /■ ('§ Eleusinian Priest and
Assistants. Fortune and the Three Fates.
LIST OF ILLUSTRATIONS. Drawm from the antique. A. L.
RAWSON. A DESCRIPTION of tlie illustrations to this volume
properly includes the two or three theories of human life held by
the ancient Greeks, and the beautiful myth of Demeter and Pro-
serpina, the most charming of all mythological fancies, and the Orgies of
Bacchus, which together supplied the motives to the artists of the
originals from which these drawings were made. From them* we
learn that it was believed»that the soul is a part of, or a spark from,
the Great Soul of the Kosmos, the Cen- tral Sun of the intellectual
universe, and therefore immortal ; has lived before, and will continue to
hve after this '' body prison " is dissolved ; that the river Styx
is between us and the unseen world, and hence we have no recollection of
any former state of existence ; and that the body is Hades, in
which the soul is made to suffer for past misdeeds done in the unseen
world. Poets and philosophers, tragedians and comedians,
embel- lished the myth with a thousand fine fancies which were
248 List of Illustrations. 249 woven into
the ritual of Eleusis, or were presented in the theaters during the
Bacchic festivals. The pictures include, beside the costumes of
priests, jiriest- esses, and their attendants, and of the fauns and
satjrrs, many of the sacred vessels and implements used in celebrating
the Mysteries, in the orgies, and in the theaters, all of which
were drawn by the ancient artists from the objects represented, and
their work has been carefully followed here. Page. 1.
Frontispiece. Sacrifice to Ceres. — Denhndler, sculptur. The
goddess stands near a serpent-guarded altar, on which a sheaf of grain is
aflame. Worshipers attend, and Jupiter approves. (See page 17.)
2. Decoratinq a Statue of Bacchus 4 — Bom. Campana. The
priest wears a lamb-skin skirt, the thyrsus is a natural vine with grape
clusters, and there are fruit and wine bearers. 3. Bacchantes with
Thyrsus and Flute 4 Two fragments. —Bom. Camp. 4.
Symbolical Ceremony. — Bom. Camp 4 Torch and thyrsus bearers and
faun. See cut No. 40, and page 208 for reference to pine nut.
5. Bacchus and Nymphs 5 6. Pluto, Proserpina, and Furies
5 — Galerie des Peintres. The Furies were said to be children
of Pluto and Proserpina ; other accounts say of Nox and Acheron, and
Acheron was a son of Ceres Avithout a father. (See page 65.)
7. Priestess with Amphora and Sacred Cake 6 8. Priestess with
Musical Instruments 6 9. Faun Kissing Bacchante. — Bourbon Mus
6 10. Faun and Bacchus. — Bourbon Mus 6 250 List
of Ilhistrations. Page. 11. Etruscan Y A^Y^.—MilUngen
7 See drawings on page lOG. 12. Mercury Presenting a
Soul to Pluto 8 — Pict. Ant. Sep. Nasonion, pi. I, 8.
13. Mystic Rites. — Arhniranda, tav. 17 8 14. Eleusinian
Ceremony. — Oes^. Benk. Alt. Kimst, II., 8 8 15. Bacchic Festival.—
JSarto?*, Admiranda, 43 9 Probably a stage scene. The cliaracters
are the king, who was an archon of Athens; a thyrsns bearer, musician,
wine and fruit bearers, dancers, and Pluto and Proserpina. A boy
re- moves the king's sandal. (See page 35.) 16. Apollo and
the Muses. — Florentine Museum 10 The muses were the daughters of
Jupiter and Mnemosyne ; that is, of the god of the present instant, and
of memory. Their office was, in part, to give information to any
inquiring soul, and to preside over the various arts and sciences.
They were called by various names derived from the places where
they were worshiped : Aganippides, Aonides, Castalides, HeUconiades,
Lebetheides, Pierides, and others. Apollo was called Musagetes, as their
leader and conductor. The palm tree, laurel, fountains on Helicon,
Parnassus, Pindus, and other sacred mountains, were sacred to the
muses. 17. Prometheus Forms a Woman 11 — Visconti, Mus.
Fio. Clem., IV., 34. Mercury, the messenger of the gods, brings a soul
from Jupiter for the body made by Prometheus, and the three Fates
attend. The Athenians built an altar for the worship of Pro- metheus in
the grove of the Academy. 18. Procession of Iacchus and Phallus
16 — Montfaucon. From Athens to Eleusis, on the sixth day of
the Eleusinia. The statue is made to play its part in a mystic ceremony,
typi- fying the union of the sexes in generation. Attendant priest-
esses bear a basket of dried flgs and a phallus, baskets of fruit, vases
of wine, with clematis, and musical and sacrificial instni- ments. None
but women and children were permitted to take part in this ceremony. The
wooden emblem of fecundity was an object of supreme veneration, and the
ceremony of placing and hooding it. was assigned to the most highly
respected woman in Athens, as a mark of honor. Lucian and Plutarch
List of Illustrations. 251 Pagk. say the
phallus bearers at Rome carried images (phalloi) at the top of long
poles, and their bodies were stained with wine lees, and partly covered
with a lamb-skin, their heads crowned with a wreath of ivy. (See page
14.) 19, 20, 21. From Etruscan Vases — Florentine Museum. 22
Human sacrifice may be indicated in the lower group. 22.
Venus and Proserpina in Hades 28 — Galerie des Peintres. The
myth relates that Venus gave Proserpina a pomegranate to eat in Hades,
and so made her subject to the law which re- quired her to remain four
months of each year with Pluto in the Underworld, for Venus is the
goddess who presides over birth and growth in all cases. Cerberus (see
page 65) keeps guard, and one of the heads holds her garment, signifying
that his master is entitled to one-third of her time. 23.
Rape of Proserpina. Carried Down to Hades (Invisibility) — Flor.
Mus 29 See note, p. 152. 24. Pallas, Venus, and Diana
Consulting 30 — Gal. des Peint. Jupiter ordered these
divinities to excite desire in the heart of Proserpina as a means of
leading her into the power of the richest of all monarchs, the one who
most abounds in treasures. (See page 140.) 25. Dionysus as
God op the Sun 31 — Pit. Ant. Ercolmio. Dionysus — Bacchus —
symbolizes the sun as god of the sea- sons ; rides on a panther, pours
wine into a drinking-horn held by a satyr, who also carries a wine skin
bottle. The winged genii of the seasons attend. Winter carries two geese
and a cornu- copia ; Spring holds in one hand the mystical cist, and in
the other the mystic zone ; Summer bears a sickle and a sheaf of
grain ; and Autumn has a hare and a horn-of-plenty full of fruits. Fauns,
satyrs, boy-fauns, the usual attendants of Bacchus, play with goats and
panthers between the legs of the larger figures. 26. Herse
and Mercury 42 — Pit. Ant. Ercolano. A fabled love match
between the god and a daughter of Cecrops, the Egyptian who founded
Athens, supplied the ritual for the festivals Hersephoria, in which young
girls of seven to eleven years, from the most noted families, dressed
in 252 List of Illustrations. Page.
white, carried the sacred vessels and implements used in the
Mysteries in procession. Cakes of a peculiar form were made for the
occasion. 27. Narcissus Sees His Image in Water 42 — P.
Ovid. Naso. The son of Cephissus and Liriope, an Oceanid, was said to
be very beautiful. He sought to win the favor of the nymph of the
fountain where he saw his face reflected, and failing, he drowned himself
in chagrin. The gods, unwilling to lose so much beauty, changed him into
the flower now known by his name. (See page 150.) 28. Jupiter
as Diana, and Calisto. — P. Ovid. Naso . . 62 The supreme deity of
the ancients, beside numerous marriages, was credited with many amours
with both divinities and mor- tals. In some of those adventures he
succeeded by using a disguise, as here in the form of the Queen of the
Starry Heavens, when he surprised Calisto (Helice), a daughter of
Lycaon, king of Arcadia, an attendant on Diana. The com- panions of that
goddess were pledged to celibacy. Jupiter, in the form of a swan,
surprised Leda, who became mother of the Dioscuri (twins).
29. Diana and Calisto. — Ovid. Naso, Neder 62 The fable says
that when Diana and her nymphs were bathing the swelling form of
Calisto attracted attention. It was re- ported to the goddess, when she
punished the maid by chang- ing her into the form of a bear. She would
have been torn in pieces by the hunter's dogs, biit Jupiter interposed
and trans- lated her to the heavens, where she forms the
constellation The Great Bear. Juno was jealous of Jupiter, and
requested Thetis to refuse the Great Bear permission to descend at
night beneath the waves of ocean, and she, being also jealous of
Poseidon, complied, and therefore the dipper does not dip, but revolves
close around the pole star. 30. Bacchantes and Fauns Dancing
74 A stage ballet. — Bom. Campana, 37. 31. Hercules,
Bull, and Priestess. — Bom. Camp 74 Bacchic orgies. 32.
Fruit and Thyrsus Bearers. — Boiir. Mm 84 33. Torch-Bearer as
Apollo. — Bourbon Mits 84 34. Eleusinian Mysteries. — Florence 3Ius
94 List of Illustrations. 253 r>- T-,
Page, 60. Etruscan Mystic Ceremony.— i?oH«. Camp 94 36.
Etruscan Altar Group.— JPtor. Mus 106 The mystic cist with serpent
coiled around, the sacred oaks, baskets, drinking-horns, zones, f estoou
of branches and flowers, make very pretty and impressive accessories to
two handsome priestesses. 37. Etruscan Bacchantes.— JfiZZm^en
106 These two groups were drawn from a vase (page 7) which is
a very fine work of art. The drapery, .decoration, symbols, accessories,
and all the details of implements used in the cele- bration of the
Mysteries are very carefully drawn on the vase, which is well preserved.
This vase is a strong proof of the antiquity of the orgies, for the
Etruscans, Tyrrheni, and Tusci were ancient before the Romans began to
build on the Tiber. 38. Etruscan Ceremony.- m7fo><r/m
106 39. Satyr, Cupid and Venus.— ilfo>i?/a«cow; SculpUre .
110 Some Roman writers affirmed that the Satyr was a real
animal, but science has dissipated that belief, and the monster has
been classed among the artificial attractions of the theater where it belongs,
and where it did a large share of duty in the Mysteries. They were
invented by the poets as an impersona- tion of the life that animates the
branches of trees when the wind sweeps through them, meaning, whistling,
or shrieking in the gale. They were said to be the chief attendants
on Bacchus, and to delight in revel and wine. 40. Cupids,
Satyr, and Statue of ^niwvs^.—Montfaucon 110 The many suggestive
emblems in this picture form an instruc- tive group, symbolic of Nature's
life-renewing power. The ancients adored this power under the emblems of
the organs of generation. Many passages in the Bible denounce that
wor- ship, which is called " the grove," and usually was an
iipright stone, or wooden pillar, plain or ornamented, as in Rome,
where it became a statue to the waist, as seen in the engrav- ing. The
Palladium at Athens was a Greek form. The Druzes of Mount Lebanon in
Syria now dispense with em- blems of wood and stone, and use the natural
objects in their mystic rites and ceremonies. 41. Apollo and
Daphne,— Galerie des Peint 118 The rising sun shines on the
dew-drops, and warming them as they hang on the leaves of the laurel
tree, they disappear, 254 List of lUiisfrations. Page.
leaving the tree ; and it is said by the poet that Apollo loves and
seeks Daphne, striving to embrace her, when she flies and is transformed
into a laurel tree at the instant she is embraced by the sun-god.
42. Diana and Endymion. — Bourbon 3Ius 118 Diana as the queen
of the night loves Endymion, the setting sun. The lovers ever strive to
meet, but inexorable fate as ever prevents them from enjoying each
other's society. The fair huntress sometimes is permitted, as when she is
the new moon, or in the first quarter, to approach near the place where
her beloved one lingers near the Hesperian gardens, and to follow
him even to the Pillars of Hercules, but never to embrace him. The new
moon, as soon as visible, sets near but not with the sun. Endymion
reluctantly sinks behind the western horizon, and would linger until the
loved one can be folded in his arms, but his duty calls and he must turn
his steps toward the Elysian Fields to cheer the noble and good souls who
await his presence, ever cheerful and benign. Diana follows closely
after and is welcomed by the brave and beautiful inhabitants of the
Peaceful Islands, but while receiving their homage her lover hastens on
toward the eastern gates, where the golden fleece makes the morning sky
resplendent. 43. Ceres and the Car op Treptolemus 127
P. Ovid. Naso, Neder. Triptolemus (the word means three plowings)
was the founder of the Eleusinian Mysteries, and was presented by Ceres
with her car drawn by winged dragons, in which he distributed seed
grain all over the world. 44. Pluto Marries Proserpina 127
— P. Ovid. Naso, Neder. Jupiter is said to have consented to
request of Pluto that Proser- pina might revisit her mother's dwelling,
and the picture repre- sents him as very earnest in his appeal to his
brother. Since then the seed of grain has remained in the ground no
longer than four months ; the other eight it is above, in the regions
of light. In the engraving a curtain is held up by bronze figures.
This seems conclusive that it was a representation of a dra- matic scene.
(See pp. 159, 186.) 45. Proserpina, according to the Greeks. —
Heck... 138 46. Bacchus after the Visit to India. — Heck 138
A Roman Figure of Geres.— Heck 138 Demeter, from
Etruscan Vase.— IfecZ; 138 49. Venus, Pallas, and Dlana Inspecting
the Needlework of Proserpina.— Galerie des Peini . 142
50. Proserpina Exposed to Pluto 152 — Ovid. Naso,
Neder. There may have been a mild sarcasm in this artist's mind when
he drew the maid as dallying with Cupid, and the richest mon- arch in all
the earth in the distance, hastening toward her. He succeeded, as is
shown in the next engraving. 51. Pluto Carrying Off Proserpina
152 — P. Ovid. Naso, Neder. Eternal change is the universal
law. Proserpina must go down into the Underworld that she may rise again
into light and life. The seed must be planted under or into the soil that
it may have a new birth and growth. 52. Proserpina in Pluto's
Court. — Montfaucon 156 As a personation she was the "Apparent
Brilliance" of all fruits and flowers. 53. Ceres in
Hades. — Montfaucon 162 54. Bacchus, Fauns, and Wine Jars. —
Montfaucon .... 168 55. Tragic KQTOn.^Bourhon Museum 168
56. A Group of Deities. — Heck 168 Pan and Dionysus, Hygeia,
Hermes, Dionysus and Faunus, and Silenus. 57. Night with Her
Starry Canopy. — Heck 168 58. The Three Graces. — Heck 168
59. Cupid Asleep in the Arms of Venus 174 — Galerie des
Peint. 60. Prize Dance between a Satyr and a Goat 174 —
Anticld. 61. Baubo and Ceres at Eleusis. — Galerie des Peint.
174 See page 232. 256 List of Illustrations.
Page. 62. Psyche Asleep in Hades 186 — From the
ruins of the Bath of Titus, Rome. See page 45. 63. Nymphs of
the Four Rivers in Hades 187 — Tomb of the Nasons. "It
was easy for poets and mythographers, when they had once started the idea
of a gloomy land watered with the rivers of woe, to place Styx, the
stream which mates men shudder, as the boundary which separates it from
the world of Uving men, and to lead through it the channels of Lethe, in
which all things are forgotten, of Kokytos, which echoes only with
shrieks of pain, and of Pyiyphlegethon, with its waves of fire."
Acheron, in the early myths, was the only river of Hades. 64.
Etruscan Vase Group. — MilUngen 198 65. Dancers,
ETRUscANS.~i¥i//M?, 1 pJ. 27 198 66. Greek Convivial Scene. —
Millin, 1 ^9^ 38 198 67. Faun and Bacchante. — Bour. Mus 206
68. Thyrsus-Bearer. — Bourbon Museum 206 69. Bacchante and
Faun.— 5o«r. Mus 206 These three verj' graceful pictures were drawn
from paintings on walls in Herculaneum. 70. KiN<T, Torch,
Fruit, and Thyrsus Bearer 212 71. Hercules RECLiNiNG.^.^oe5f«,
Bassirilievi, 70 212 Here is an actual ceremony in which many
actors took parts ; with an altar, flames, a torch, tripod, the kerux
(crier), bac- chantes, fauns, and other attendants on the celebration of
the Mystei'ies, including tlie role of an angel with wings.
72. Marriage (or Adultery) or Mars and Venus 220 —
Montfaucon. See pages 231-2.37. If this is from a scene as played at the
Bacchic theaters, those dramas must have been very popular, and justly
so. To those theaters, which were supported by the government in Athens
and in many other cities througliout Greece, we owe the immortal works of
^schylus and Soph- ocles. Page. 73, Musical
Conference (Epithalamium) 228 S. Bartoli, Admiranda, pi. 62,
Written music was evidently used, for one of the company is writing as if
correcting the score, and writing with the left hand. 74.
Venus Rising from the QEA.—Ovid. Naso, Verburg. 229 This goddess
was called Venus Anadyomene, for the poets said she rose from the sea —
the morning sunlight on the foam of the sea on the shore of the island
Cythera, or Cyprus, or wherever the poet may choose as the favored place
for the manifestation of the generative power of nature, and
wherever flowers show her footprints. The loves bear aloft her
magic girdle, which Juno borrowed as a means of winning back
Jupiter's affection. The rose and the myrtle were sacred to her. Her
worship was the motive for building temples in Cy- thera and in Cyprus at
Amathus, Idalium. Golgoi, and in many other places. (See engravings 22,
39, and 49, and page 230.) 75, Jupiter Disguised as Diana, and
Calisto 234 — Ovid. Naso, Neder. The gods were said to have
the power, and to practice as- suming the form of any other of their
train, or of any animal. In these disguises they are supposed to play
tricks on each other as here. Diana is the queen of the night sky,
Calisto is one of her attendants, and many white clouds float over
the blue ether (Jupiter), and are chased by the winds (as dogs).
76. Hercules, Deianeira, and Nessus 234 — Ovid. Naso,
Neder. The sun nears the end of the day's journey; he is aged and
weary ; dark clouds obscure his face and obstruct his way, but stUl
Hercules loves beautiful things, and Deianeira, the fair daughter of the
king of ^tolia, retires with him into exile. At a ford the hero entrusts
his bride to Nessiis the Centaur, to carry across the river. The ferryman
made love to the lady, and Hercules resented the indiscretion, and
wounded him by an arrow. Dying Nessus tells Deianeira to keep his blood
as a love charm in case her husband should love another woman.
Hercules did love another, named lole, and Deianeira dipped his shirt in
the blood of Nessus — the crimson' and scarlet clouds of a splendid
sunset are made glorious by the blood of Nessus, and Hercules is burnt on
the funeral pyre of scarlet and crimson sunset clouds.
258 List of Illustrations. Page. 77. The
Sacrifice. — Herculaneum, IV., 13 237 78. Hercules Drunk. — Zoegciy
BassirilievU tav. 67 238 79. Proserpina Enthroned in Hades- —
Archdol. Zeit. 240 The principle of growth rules the
Underworld. 80. Bacchante and Centaur. — Bourbon Mus .Bacchante and
Cbntauress.^ — Bourbon Mus 241 82. Eleusinian Priest and Assistants
247 83. The Fates. — Zoeya, Bassirilievi, tav. 46 248
84. Supper Scene 258 85. Bacchic Bull. — Antichi Ou
cover. Suppei- Scene. The Eleusinian and Bacchic mysteries.
Princeton Theological Semmary-Speer Library PHALLIC
WORSHIP PHALLIC WORSHIP A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES
OF THE SEX WORSHIP OF THE ANCIENTS WITH THE
HISTORY OF THE MASCULINE CROSS AN ACCOUNT OF
PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW PHALLICISM, BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL
RITES, AND THE MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS LONDON
PRIVATELY PRINTED. The present somewhat slight sketch of a most
interesting subject, whilst not claiming entire originality, yet
embraces the cream, so to speak, of various learned works of great cost, some
of which being issued for private circulation only, are almost
unobtainable. During the past few years several philophical have been written upon ancient Roman Phallicism
in conjunction with other kindred matters f but not devoting themselves
entirely to one ancient mystery y the writers have only partially
ventilated the subject. The present work seeks to obviate this failing by
confining its attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of the
ancient world. Many of the topics have received only slight
treatmenty being little more than indicated ; but the work will enable
the reader to understand and possess the truth concerning the
Phallic Worship of the Ancients . Those who desire to know more, or
to authenticate the statements and facts given in this book , should
consult the large and important works of Payne Knight , Higgins ,
Dulaure, Rolky Inman , and other writers . It was intended to
give with this volume a list of works and miscellaneous pieces written on
the subject , but the length of the list prevented its being added. Sex
Worship has prevailed among all peoples of ancient times, sometimes
contemporaneous and often mixed with Star, Serpent, and Tree Worship. The
powers of nature were sexualised and endowed with the same
feelings, passions, and performing the same functions as human
beings. Among the ancients, whether the Sun, the Serpent, or the
Phallic Emblem was worshipped, the idea was the same — the veneration of
the generative principle. Thus we find a close relationship between the
various mythologies of the ancient nations, and by a comparison of
the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring from the same
source, namely, the worship of the forces and operations of nature, the
original of which was doubt- less Sun worship. It is not necessary to
prove that in primitive times the Sun must have been worshipped
under various names, and venerated as the Creator, Light, Source of Life,
and the Giver of Food. In the earliest times the worship of the
generative power was of the most simple and pure character, rude in
manner, primitive in form, pure in idea, the homage of man to the supreme
power, the Author of life. Afterwards the worship became more
depraved, a religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a
priesthood who were not slow to take advantage of this state of affairs,
and inculcated with it profligate and mysterious ceremonies, union of
gods with women, religious prosti- tution and other degrading rites. Thus
it was not long before the emblems lost their pure and simple
meaning and became licentious statues and debased objects. Hence we
have in Rome the depraved ceremonies at the worship of BACCO, who became,
not only the representative of the creative power, but the god of
pleasure and licentiousness. The corrupted religion always found
eager votaries, willing to be captives to a pleasant bondage by the
impulse of physical bliss, as was the case in among the Romans. Sex worship
personifies became the supreme and governing deity, enthroned as the
ruling God over all ; dissent therefrom was impious and punished. The
priests of the worship compelled obedience. Monarchs complied to
the prevailing faith and became willing devotees to the shrines of VENERE
on the one hand, and of BACCO and PRIAPO on the other, by appealing to
the most animating passion of nature. This is the worship of the
reproductive powers, the sexual appointments revered as the emblems of
the divine creator. The one male, the active creative power ; the
other the female or passive power ; ideas which were represented by
various emblems in different countries.These emblems were of a pure and sacred
character, and used at a time when the prophets and priests spoke
plain speech, understood by a rude and primitive people ; although
doubtless by the common people the emblems were worshipped themselves,
even as at the present day in Roman Catholic countries the more ignorant,
in many cases, actually worship the images and pictures themselves,
while to the higher and more intelligent minds they are only symbols of a
hidden object of worship. In the same manner, the concealed meaning or
hidden truth was to the ignorant and rude people of early times
entirely unknown, while the priests and the more learned kept
studiously concealed the meaning of the ceremonies and symbols. Thus, the
primitive idea became mixed with profligate, debased ceremonies, and lascivious
rites, which in time caused the more pure part of the worship to be
forgotten. But Phallicism is not to be judged from these sacred orgies,
any more than Christianity from the religious excitement and wild
excesses of a few Christian sects during the Middle Ages. In
a work on the “ Worship of the Generative Powers during the Middle Ages,”
the writer traces the superstition westward, and gives an account of its
prevalence through- out Southern and Western Europe during that period.
The worship was very prevalent in Italy, and was invariably carried
by the Romans into the countries they conquered, where they introduced
their own institutions and forms of worship. Accordingly, in Britain
have been found numerous relics and remains ; and many of our ancient
customs are traced to a Phallic origin. “ When we cross over to Britain,”
says the writer, “ we find this worship established no less firmly and
extensively in that island; statuettes of Priapus, Phallic bronzes.
io Phallic Worship pottery covered with obscene pictures,
are found wherever there are any extensive remains of Roman
occupation, as our antiquaries know well. The numerous Phallic
figures in bronze found in England are perfectly identical in character
with those that occur in France and Italy.” All antiquaries of any
experience know the great number of obscene subjects which are met with
among the fine red pottery which is termed Samian ware, found so
abundantly in all Roman sites in our island. “ They represent erotic
scenes, in every sense of the word, with figures of Priapus and Phallic
emblems.” PHALLUS The Phallus, or Lingam, which stood
for the image of the male organ, or emblem of creation, has been
worshipped from time immemorial. Payne Knight describes it as of the
greatest antiquity, and as having prevailed in Egypt and all over
Asia. The women of the former country carried in their re-
ligious processions, a movable Phallus of disproportionate magnitude,
which Deodorus Siculus informs us signified the generative attribute. It
has also been observed among the idols of the native Americans and
ancient Scandinavians, while the Greeks represented the Phallus
alone, and changed the personified attribute into a distinct deity,
called Priapus. Phallus, or privy member ( membrum virile ),
signifies, “ he breaks through, or passes into.” This word survives
in German pfabl, and pole in English. Phallus is supposed
Phallic Worship ii to be of Phoenician origin,
the Greek word pallo> or phallo , “ to brandish preparatory to
throwing a missile,” is so near in assonance and meaning to Phallus, that
one is quite likely to be parent of the other. In Sanskrit it can
be traced to phal> “ to burst,” “ to produce,” “ to be fruitful ” ;
then, again, phal is “ a ploughshare,” and is also the name of Siva and
Mahadeva, who are Hindu deities. Phallus, then, was the ancient emblem
of creation : a divinity who was companion to Bacchus. The
Indian designation of this idol was Lingam, and those who dedicated
themselves to its service were to observe inviolable chastity. “ If it
were discovered,” says Crawford, “ that they had in any way departed
from them, the punishment is death. They go naked, and being
considered as sanctified persons, the women approach without scruple, nor
is it thought that their modesty should be offended by it.”
SYMBOLS OR EMBLEMS The Phallus and its emblems were representative
of the gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and
Asher, who were all Phallic deities. The symbols were used as signs of
the great creative energy or operating power of God from no sense of mere
animal appetite, but in the highest reverence. Payne Knight,
describing the emblems, says : — “ Forms and ceremonials of a
religion are not always to be understood in their direct and obvious
sense, but are to be considered as symbolical representations of
some hidden meaning extremely wise and just, though the symbols
themselves, to those who know not their true signification, may appear in
the highest degree absurd and extravagant. It has often happened that
avarice and superstition have continued these symbolical repre-
sentations for ages after their original meaning has been lost and
forgotten; they must, of course, appear nonsensical and ridiculous, if
not impious and extravagant. Such is the case with the rite now under
consideration, than which nothing can be more monstrous and
indecent, if considered in its plain and obvious meaning, or as part
of the Christian worship ; but which will be found to be a very natural
symbol of a very natural and philosophical system of religion, if
considered according to its original use and intention.” The
natural emblems were those which from their character were most suitable
representatives ; such as poles, pillars, stones, which were sacred to
Hindu, Egyptian, and Jewish divinities. Blavalsky gives an
account of the Bimlang Stone, to be found at Narmada and other places,
which is sacred to the Hindu deity Siva ; these emblem stones were
anointed, like the stone consecrated by the Patriarch Jacob.
Blavalsky further says that these stones are “ identical in shape,
meaning, and purpose with the ‘ pillars ’ set up by the several
patriarchs to mark their adoration of the Lord God. In fact, one of these
patriarchal lithoi might even now be carried in the Sivaitic processions
of Calcutta without its Hebrew derivation being suspected.”
Phallic Worship *5 THE POLE The
Pole was an emblem of the Phallus, and with the serpent upon it, was a
representative of its divine wisdom and symbol of life. The serpent upon
the tree is the same in character, both are representative of the tree of
life. The story of Moses will well illustrate this, when he erected
in the wilderness this effigy, which stood as a sign of hope and life, as
the cross is used by the Catholics of the present day ; the cross then,
as now, being simply an emblem of the Creator, used as a token of
resurrection or regeneration. iEsculapius, as the restorer of
health, has a rod or Phallus with a serpent entwined. The
Rev. M. Morris has shown that the raising of the May-pole is of Phallic
origin, the remains of a custom of India or Egypt, and is typical of the
fructifying powers of spring. The May festival was carried on
with great licentious- ness by the Romans, and was celebrated by nearly
all peoples as the month consecrated to Love. The May-day in
England was the scene of riotous enjoyment, very nearly approaching to
the Roman Floralia. No wonder the Puritans looked upon the May-pole as a
relic of Paganism, and in their writings may be gleaned much of the
licentious character of the festival. Philip Stubbes, a Puritan
writer in the reign of Elizabeth, thus describes a May-day in England : “
Every parishe, towne, and village assemble themselves together,
bothe men, women, and children, olde and younge even indiffer-
ently ; and either goyng all together, or devidyng themselves into
companies, they go some to the woods and groves, some to one place, some
to another, where thei spend all the night in pleasant pastymes ; and in
the 14 Phallic Worship mornyng they returne,
bryngyng with them birch bowes and branches of trees, to deck their
assemblies withall. . . . But their cheerest jewell thei bryng from
thence is their Maie pole, whiche thei bryng home with great
veneration, as thus : thei have twentie or fortie yoke of oxen, every oxe
havyng a sweet nosegaie of flowers placed on the tippe of his homes, and
these oxen drawe home this Maie pole (this stinckyng idoll rather),
which is covered all over with flowers and hearbes, bound rounde
aboute with strynges from the top to the bottome, and sometyme painted
with variable colours, with two or three hundred men, women, and
children, folio wyng it with great devotion. And thus beyng reared up,
with handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei strawe
the grounde aboute, binde greene boughes aboute it, sett up sommer
haules, bowers, and arbours hard by it. And then fall thei to banquet and
feast, to leape and daunce aboute it, as the heathen people did at the
dedication of their idols, whereof this is a perfect patterne, or
rather the thyng itself.” The ceremony was almost identical
with the Roman festival, where the Phallus was introduced with
garlands. Both were attended with the same licentiousness, for
Stubbes gives a further account of the depravity attending the
festivities. PILLARS Another type of emblem was the
stone pillar, remains of which still exist in the British Isles. These
pillars or so called crosses generally consist of a shaft of granite
with Phallic Worship iJ a carved
head. In the West of England crosses are very common, standing in the market
and receiving the name of “ The Cross.” These stone pillars
were first erected in honour of the Phallic deity, and on the
introduction of Christianity were not destroyed, but consecrated to the
new faith, doubtless to honour the prejudices of the people. These
monolisks abound in the Highlands, they are stones set up on end, some
twenty-four or thirty feet high, others higher or lower and this
sometimes where no such stones are to be quarried. We learn
that the Bacchus of the Thebans was a pillar. The Assyrian Nebo was
represented by a plain pillar, consecrated by anointing with oil.
Arnobius gives an account of this practice, as also does Theophrastus,
who speaks of it as a custom for a superstitious man, when he
passed by these anointed stones in the streets to take out a phial of oil
and pour it upon them and having fallen on his knees to make his
adorations, and so depart. In various parts of the Bible the Pillar
is referred to as of a sacred character, as in Isaiah xix. 19, 20, “ In
that day shall there be an altar to Jehovah in the midst oi the
land of Egypt, and a pillar at the border thereof to Jehovah, and it
should be for a sign and a witness to the Lord.” The Orphic Temples
were doubtless emblems of the same principle of the mystic faiths of the
ancients, the same as the Round Towers of Ireland, a history of
which was collected by O’Brien, who describes the Towers as “
Temples constructed by the early Indian colonists of the country in
honour of the Fructifying principle of nature, emanating as was supposed
from the Sun, or the deity of desire instrumental in that principle of
universal generativeness diffused throughout all nature.”
16 Phallic Worship According to the same author these towers
were very ancient, and of Phoenician origin, as similar towers have
been found in Phoenicia. “ The Irish themselves,” says O’Brien, “
designated them ‘ Bail-toir,’ that is the tower of Baal. Baal was the
name of the Phallic deity, and the priest who attended them ‘ Aoi
Bail-toir ’ or superin- tendent of Baal tower.” This Baal was
worshipped wherever the Phoenicians went, and was represented by a
pillar or stone or similar objects. The stone that Jacob set up, and
anointed as a rallying place for worship, became afterwards an object of
worship to the Phoenicians. The earliest navigators of the world
were the Phoenicians, they founded colonies and extended their
commerce first to the isles of the Mediterranean, from thence to
Spain, and then to the British Isles. Historians have accorded to them
the settlements of the most remote localities. They formed settlements in
Cyprus, and Atticum, according to Josephus, was the principal
settle- ment of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony is,
that the Phoenicians, even before Homer, had possessed themselves of the
best part of Spain. Where the Phoenicians settled, there they
introduced their religion, and it is in these countries we find the
remains of ancient stone and pillar worship. LOGGIN STONES,
ETC. Loggin stones are by Payne Knight considered as Phallic
emblems. “ Their remains,” he says, “ are still extant, and appear to
have been composed of a crone set into the ground, and another placed
upon the point of it and so nicely balanced that the wind could move
it, though so ponderous that no human force, unaided by machinery,
can displace it; whence they are called * logging rocks * and * pendre
stones/ as they were anciently * living stones * and 4 stones of God/
titles which differ very little in meaning from that on the Tyrian
coins. Damascius saw several of them in the neighbourhood of Heliopolis
or Baalbeck, in Syria, particularly one which was then moved by the wind
; and they are equally found in the Western extremities of Europe
and the Eastern extremities of Asia, in Britain, and in China.”
Bryant mentions it as very usual among the Egyptians to place with
much labour one vast stone upon another for a religious memorial.
Such immense masses, being moved by causes seeming so inadequate,
must naturally have conveyed the idea of spontaneous motion to ignorant
observers, and persuaded them that they were animated by an emanation of
the vital spirit, whence they were consulted as oracles, the
responses of which could always be easily obtained by interpreting the
different oscillatory movements into nods of approbation or
dissent. Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and
many other places, even in modern times. A physician, writing to Dr.
Inman, says : “ I was in Egypt last winter (1865-66), and there certainly
are numerous figures of gods and kings, on the walls of the temple at
Thebes, depicted with the male genital erect. The great temple at
Karnak is, in particular, full of such figures, and the temple of
Danclesa likewise, though that is of much later date, and built merely in
imitation of old Egyptian art. The same inspiring bas-reliefs arc pointed
out by Ezek. B 1 8 Phallic Worship
xxiii. 14. I remember one scene of a king (Rameses II) returning in
triumph with captives, many of whom were undergoing the process of
castration.” Obelisks were also representative of the same
emblem. Payne Knight mentions several terminating in a cross, which
had exactly the appearance of one of those crosses erected in churchyards
and at cross roads for the adoration of devout persons, when devotions
were more prevalent than at present. Stones, pillars, obelisks, stumps
of trees, upright stones have all the same signification, and are
means by which the male element was symbolised. TRIADS
The Triune idea is to be found in the system of almost every
nation. All have their Trinity in Unity, three in one, which can be
distinctly recognised in the cross. The Triad is the male or triple, the
constitution of the three persons of most sacred Trinity forming the
Triune system. In the analysis of the subject by Rawlinson, we find
the Trinity consisted of Asshur or Asher, associated with Anu and Hea or
Hoa. Asshur, the supreme god of the Assyrians, represents the Phallus or
central organ or the Linga, the membrum virile . The cognomen Anu
was given to the right testis, while that of Hea designated the
left. It was only natural that Asshur being deified, his
appendages should be deified also. “ Beltus,” says Inman, “ was the
goddess associated with them, the four together made up Arba or Arba-il,
the four great gods,” the Trinity in Unity. The idea thus broached
receives Phallic Worship *9 great
confirmation when we examine the particular stress laid in ancient times
respecting the right and left side of the body in connection with the
Triad names given to offspring mentioned in the scriptures with the
titles given to Anu and Hea. The male or active principle was
typified by the idea of “solidity ” and “ firmness,” and the
females or passive by the principles of “ water,” “ soft- ness,” and
other feminine principles. Thus the goddess Hea was associated with
water, and according to Forlong, the Serpent, the ruler ot the Abyss, was
sometimes repre- sented to be the great Hea, without whom there was
no creation or life, and whose godhead embraced also the female
element water. Rawlinson also gives a similar conclusion, and
states as far as he could determine the third divinity or left side
was named Hea, and he considered this deity to correspond to Neptune.
Neptune was the presiding deity of the deep, ruler of the abyss, and king
of the rivers. As Darwin and his coadjutors teach, mankind, in common
with all animal life, originally sprung from the sea ; so
physiology teaches that each individual had origin in a pond of
water. The fruit of man is both solid and fluid. It was natural to
imagine that the two male appendages had a distinct duty, that one formed
the infant, the other water in which it lived, that one generated the
male, the other the female offspring ; and the inference was then drawn
that water must be feminine, the emblem of all possible powers of
creation. It will be seen that the names and signification of
the gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in Genesis
xxx. 13, we find Asher given as a personality, which signifies “ to be
straight,” “ upright,” “ fortunate,” “ happy.” Asher was the
supreme god of the Assyrians, 20 Phallic
Worship the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male
structure and creative energy. The same idea of the creator is still to
be seen in India, Egypt, Phoenicia, the Mediterranean, Europe, and
Denmark, depicted on stone relics. To a rude and ignorant
people, enslaved with such a religion, it was an easy step from the crude
to the more refined sign, from the offensive to a more pictured and
less obnoxious symbol, from the plain and self-evident to the mixed,
disguised, and mystified, from the unclothed privy member to the
cross. THE CROSS The Triad, or Trinity, has been
traced to Phoenicia, Egypt, Japan, and India ; the triple deities Asshur,
Anu, and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,
Greeks, and Hebrews became the sign or type of the deities representing
the Phallic trinity, and in time became the figure of the cross. It is
remarked by Payne Knight that “ The male organs of generation are
sometimes found represented by signs of the same sort, which
properly should be called the symbol of symbols. One of the most
remarkable of these is a cross, in the form of the letter (T), which thus
served as the emblem of creation and generation before the Church adopted
it as a sign of salvation.” Another writer says, “ Reverse
the position of the triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the
figure of the ancient ‘ tau * of the Christians, Greeks, and
ancient Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of the
cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian, Etruscan, original
Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and Pelasgian forms. The Ethiopic form of
the * tau ’ is the exact prototype and image of the cross, or rather, to
state the fact in order of merit and time, the cross is made in the
exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf, having three lobes to
it, became a symbol of the triad. As the male genital organs were held in
early times to exemplify the actual male creative power, various
natural objects were seized upon to express the theistic idea, and at the
same time point to those parts of the human form. Hence, a similitude was
recognised in a pillar, a heap of stones, a tree between two rocks, a
club between two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with
two ribbons with the two ends pendant, a thumb and two fingers, the
caduceus. Again, the conspicuous part of the sacred triad Asshur is
symbolised by a single stone placed upright — the stump of a tree, a
block, a tower, spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree,
while eggs, apples, or citrons, plums, grapes, and the like
represented the remaining two portions, altogether called Phallic
emblems. Baal-Shalisha is a name which seems designed to perpetuate the
triad, since it signifies c my Lord the Trinity,’ or ‘ my God is three.’
” We must not omit to mention other Phallic emblems, such as
the bull, the ram, the goat, the serpent, the torch, fire, a knobbed
stick, the crozier ; and still further per- sonified, as Bacchus, Priapus,
Dionysius, Hercules, Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch,
Baal, Asher, and others. If Ezekiel is to be credited, the
triad, T, as Asshur, Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was
in his day not symbolically used, but actually employed;
22 Phallic Worship for he bluntly says “
whoredom was committed with the images of men/’ or, as the marginal note
has it, images of “ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was with this
god-mark — a cross in the form of the letter T — that Ezekiel was
directed to stamp the foreheads of the men of Judaea who feared the Lord
(Ezek. ix. 4). That the cross, or crucifix, has a sexual origin
we determine by a similar rule of research to that by which
comparative anatomists determine the place and habits of an animal by a
single tooth. The cross is a metaphoric tooth which belongs to an antique
religious body physical, and that essentially human. A study of some of
the earliest forms of faith will lift the veil and explain the
mystery. India, China, and Egypt have furnished the world with
a genus of religion. Time and culture have divided and modified it into
many species and countless varieties. However much the imagination was
allowed to play upon it, the animus of that religion was sexuality —
worship of the generative principle of man and nature, male and
female. The cross became the emblem of the male feature, under the term
of the triad — three in one. The female was the unit ; and, joined to the
male triad, con- stituted a sacred four. Rites and adoration were
sometimes paid to the male, sometimes to the female, or to the two
in one. So great was the veneration of the cross among the
ancients that it was carried as a Phallic symbol in the religious
processions of the Egyptians and Persians. Higgins also describes the
cross as used from the earliest times of Paganism by the Egyptians as a
banner, above which was carried the device of the Egyptian cities.
The cross was also used by the ancient Druids, who held
Phallic Worship 2 3 it as a sacred emblem. In Egypt
it stood for the significa- tion of eternal life. Schedeus describes it
as customary for the Druids “ to seek studiously for an oak tree,
large and handsome, growing up with two principal arms in the form
of a cross , besides the main stem upright. If the two horizontal arms
are not sufficiently adapted to the figure, they fasten a cross-beam to
it. This tree they consecrate in this manner : Upon the right branch
they cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’ ; upon
the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius 9 ; upon the left branch
* Belenus * ; over this, above the going off of the arms, they cut the
name of the god Thau ; under all, the same repeated, Thau ”
YONI There is in Hindostan an emblem of great sanctity, which
is known as the “ Linga-Yoni.” It consists of a simple pillar in the
centre of a figure resembling the outline of a conical ear-ring. It is
expressive of the female genital organ both in shape and idea. The Greek
letter “ Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a
house. Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means (i)
the vulva, (2) the womb, (3) the place of birth, (4) origin, (5) water,
(6) a mine, a hole, or pit. As Asshur and Jupiter were the
representatives of the male potency, so Juno and Venus were
representatives of the female attribute. Moore, in his “ Oriental
Fragments,” says : “ Oriental writers have generally spelled the
word, * Yoni/ which I prefer to write ‘ IOni/ As Lingam
24 Phallic Worship was the vocalised cognomen of the male
organ, or deity, so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight : “
The female organs of generation were revered as symbols of the
generative powers of nature or of matter, as those of the male were of
the generative powers of God. They are usually represented emblematically
by the shell Concha Veneris , which was therefore worn by devout
persons of antiquity, as it still continues to be by the pilgrims of many
of the common people of Italy ” (“ On the worship of Priapus,” p.
28). If Asshur, the conspicuous feature of the male Creator,
is supplied with types and representative figures of himself, so the
female feature is furnished with substitutes and typical imagery of
herself. One of these is technically known as the sistrum of
Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the fenestrum> or
opening, are bent so that they cannot be taken out, and indicate that the
door is closed. It signifies that the mother is still virgo intacta — a
truly immaculate female — if the truth can be strained to so
denominate a mother . The pure virginity of the Celestial Mother
was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted Virgin Mary now
adored was born. We might infer that Solomon was acquainted with the
figure of the sistrum , when he said, “ A garden enclosed is my
spouse, a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv.
12). The sistrum , we are told, was only used in the worship of
Isis, to drive away Typhon (evil). The Argha is a contrite form, or
boat-shaped dish or plate used as a sacrificial cup in the worship of
Astarte, Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.
The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian monuments, and yet
more frequently on bas-reliefs. Phallic Worship
*3 Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the Father,
the Trinity ; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam, Esau, Edom, Ach, Sol,
Helios (Greek for Sun), Dionysius, Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma,
Vishnu, Siva, Jupiter, Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden ;
the cross, tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others
; while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno, Venus,
Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele, Ceres, Eve, Frea, Frigga ;
the queen of Heaven, the oval, the trough, the delta, the door, the ark,
the ship, the chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial
Virgin, and a number of other names. Lucian, who was an Assyrian,
and visited the temple of Dea Syria, near the Euphrates, says there are
two Phalli standing in the porch with this inscription on them, “ These
Phalli I, Bacchus, dedicate to my step-mother Juno.” The
Papal religion is essentially the feminine, and built on the ancient
Chaldean basis. It clings to the female element in the person of the
Virgin Mary. Naphtali (Gen. xxx. 8) was a descendant of such
worshippers, if there be any meaning in a concrete name. Bear in
mind, names and pictures perpetuate the faith of many peoples.
Neptoah is Hebrew for “ the vulva,” and, A1 or El being God, one of the
unavoidable renderings of Naphtali is “the Yoni is my God,” or “I worship
the Celestial Virgin.” The Philistine towns generally had names
strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb or esby means “ fire,
heat,” and dod means “ love, to love,” “ boiled up,” “ be agitated,” the
whole signifying “ the heat of love,” or “ the fire which impels to
union.” Could not those people exclaim, Our " God is love ” ?
(i John iv. 8). The amatory drift of Solomon’s song is
undisguised. 26 Phallic Worship though the
language is dressed in the habiliments of seem- ing decency. The burden
of thought of most of it bears direct reference to the Linga-Yoni. He
makes a woman say, “ He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of
S. i. 1 3). Again, of the Phallus, or Linga, she says, “ I will go
up the palm-tree, I will take hold of the boughs thereof ” (vii. 8).
Palm-tree and boughs are euphemisms of the male genitals. The
nations surrounding the Jews practising the Phallic rites and worshipping
the Phallic deities, it is not to be supposed that the Jews escaped their
influence. It is indeed certain that the worship of the Phallics was
a great and important part of the Hebrew worship. This will
be the more plainly seen when we bear in mind the importance given to
circumcision as a covenant between God and man. Another equally
suggestive custom among the Patriarchs was the act of taking the
oath, or making a sacred promise, which is commented upon by Dr.
Ginsingburg in Kitto’s Cyclopadia. He says : “ Another primitive custom
which obtained in the patriarchal age was, that the one who took the oath
put his hand under the thigh of the adjurer (Gen. xxiv. 2, and
xlvii. 29). This practice evidendy arose from the fact that the genital
member, which is meant by the euphe- mistic expression thigh , was
regarded as the most sacred part of the body, being the symbol of union
in the tenderest relation of matrimonial life, and the seat whence all
issue proceeds and the perpetuity so much coveted by the ancients.
Compare Gen. xlvi. 26 ; Exod. i. 5 ; Judges vii. 30. Hence the creative
organ became the symbol of the Creator , and the object of worship among
all nations of antiquity. It is for this reason that God claimed it
as a sign of the covenant between himself and his chosen people in the
rite of circumcision. Nothing therefore could render the oath more solemn
in those days than touching the symbol of creation, the sign of the
covenant, and the source of that issue who may at any future period
avenge the breaking a compact made with their progenitor.” From this we
learn that Abraham, himself a Chaldee, had reverence for the Phallus as
an emblem of the Creator. We also learn that the rite of
circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From Herodotus we are
informed that the Syrians learned circumcision from the Egyptians, as did
the Hebrews. Says Dr. Inman : “I do not know anything which
illustrates the difference between ancient and modern times more than the
frequency with which circumcision is spoken of in the sacred books, and
the carefulness with which the subject is avoided now.” The
mutilation of male captives, as practised by Saul and David, was another
custom among the worshippers of Baal, Asshur, and other Phallic deities.
The practice was to debase the victims and render them unfit to
take part in the worship ?nd mysteries. * Some idea can be formed
of the esteem in which people in former times cherished the male or
Phallic emblems of creative power when we note the sway that power
exercised over them. If these organs were lost or disabled, the
unfortunate one was unfitted to meet in the congregation of the
Lord, and disqualified to minister in the holy temples. Excessive
28 Phallic Worship punishment was
inflicted upon the person who had the temerity to injure the sacred
structure. If a woman were guilty of inflicting injury, her hand was cut
off without pity (Deut. xxv. 12). The great object of veneration in
the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic emblem, a symbol of the
preservation of the germ of life. In the historical and
prophetic books of the Old Testament we have repeated evidence that the
Hebrew worship was a mixture of Paganism and Judaism, and that
Jehovah was worshipped in connection with other deities. Hezekiah is
recorded in 2 Kings xviii. 3, to have “ removed the high places, and
broken the images, and cut down the groves (Ashera), and broken in pieces
the brazen serpent that Moses had made, for unto those days the children
of Israel did burn incense to it.” The Ashera, or sacred groves here
alluded to are named from the goddess Ashtaroth, which Dr. Smith
describes as the proper name of the goddess ; while Ashera is the
name of the image of the goddess. Rawlinson, in his Five Great Monarchies
of the Ancient World, describes Ashera to imply something that stood
straight up, and probably its essential element was the stem of a
tree, an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the Tree of
Life of the Scriptures. This stem, which stood for the emblem of life,
was probably a pillar, or Phallus, like the Lingi of the Hindus,
sometimes erected in a grove or sacred hollow, signifying the Yoni and
Lingi. We read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh “ set up a graven
image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older reading is in
2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image or pillar. During the reigns
of the Jewish kings, the worship of Baal, the Priapus of the Romans,
was extensively practised by the Jews. Pillars and groves were reared in
his name. In front of the Temple of Baal, in Samaria, was
erected an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which e ven survived
the temple itself, for although Jehu destroyed the Temple of Baal, he
allowed the Ashera to remain (2 Kings x. 18, 19; xiii. 6). Bernstein, in
an important work on the origin of the legends of Abraham, Isaac, and
Jacob, undoubtedly proves that during the monarchial period of
Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between the two
kingdoms of Judah and Israel were between the Elohistic and Jehovahic
faiths, kept alive by the priesthood at the chief places of worship,
concerning the true patriarch, and each party manufacturing and
inserting legends to give a more ancient and important part to its
own faith. It is not at all improbable that the conflict was
between the two portions of the Phallic faith, the Lingam and Yoni
parties. The cause of this conflict was the erection of the consecrated
stones or pillars which were put up by the Hebrews as objects of Divine
worship. The altar erected by Jacob at Bethel was a pillar, for
according to Bernstein the word altar can only be used for the
erection of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar
of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the tomb of
Rachel. A great portion of the facts have been suppressed by
the translators, who have given to the world histories which have glossed
over the ancient rites and practices of the Jews. An instance
is given by Forlong on the important word “ Rock or Stone,” a Phallic
emblem to which the Jews addressed their devotions. He says, “It
should 30 Phallic Worship not be,
but I fear it is, necessary to explain to mere English readers of the Old
Testament that the Stone or Rock Tsur was the real old god of all Arabs ,
Jews, and Phoenicians, that this would be clear to Christians were the
Jewish writings translated according to the first ideas of the
people and Rock used as it ought to be, instead of ‘ God/ * Theos/ ‘
Lord,’ etc., being written where Tsur occurs . Numerous instances of this
are given in Dr. Ort’s worship of Baal in Israel, where praises, addresses,
and adorations are addressed to the Rock , instance, Deut. xxxii. 4,
18. Stone pillars were also used by the Hebrews as a memorial of a
sacred covenant, for we find Jacob setting up a pillar as a witness, that
he would not pass over it. Connected with this pillar worship is the
ceremony of anointing by pouring oil upon the pillar, as practised by
Jacob at Bethel. According to Sir W. Forbes, in his Oriental
Memoirs, the “ pouring of oil upon a stone is practised at this day upon
many a shapeless stone throughout Hindostan.” Toland gives a
similar account of the Druids as practising the same rite, and describes
many of the stones found in England as having a cavity at the top made to
receive the offering. The worship of Baal like the worship of
Priapus was attended with prostitution, and we find the Jews having a
similar custom to the Babylonians. Payne Knight gives the following
account of it in his work : “ The women of every rank and condition
held it to be an indispensable duty of religion to prostitute
themselves once in their lives in her temple to any stranger who came and
offered money, which, whether little or much, was accepted, and applied
to a sacred purpose. Women sat in the temple of Venus awaiting the
selection of the stranger, who had the liberty of choosing whom
Phallic Worship 51 he liked. A woman once seated must
remain until she has been selected by a piece of silver being cast into
her lap, and the rite performed outside the temple.” Similar
customs existed in Armenia, Phrygia, and even in Palestine, and were a
feature of the worship of Baal Peor. The Hebrew prophets described and
denounced these excesses which had the same characteristics as the rites
of the Babylonian priesthood. The identical custom is referred to in 1
Sam. ii. 22, where “ the sons of Eli lay with the women that assembled at
the door of the tabernacle of the congregation.” Words and
history corroborate each other, or are apt to do so if contemporaneous.
Thus kadesh , or kaesb , designate in Hebrew “ a consecrated one,” and
history tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will
be shown in the sequel. That the religion was dominating and
imperative is determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous
refusal to listen to the priest was death to the offender. To us it is
inconceivable that the indulgence of passion could be associated with
religion, but so it was. Much as it is covered over by altered words and
substituted expressions in the Bible — an example of which see men
for male organ, Ezek. xvi. 17 — it yet stands out offensively bold. The
words expressive of “ sanctuary,” “ conse- crated,” and “ Sodomite,” are
in the Hebrew essentially the same. They indicate the passion of amatory
devotion. It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and
Italy of classic times ; and we find that “ holy women ” is a title given
to those who devote their bodies to be used for hire, the price of which
hire goes to the service of the temple. As a general rule, we
may assume that priests who make Phallic Worship
3 * or expound the laws, which they declare to be from
God, are men, and, consequently, through all time, have thought, and
do think, of the gratification of the masculine half of humanity. The
ancient and modern Orientals are not exceptions. They lay it down as a
momentous fact that virginity is the most precious of all the
possessions of a woman, and, being so, it ought, in some way or
other, to be devoted to God. Throughout India, and also through the
densely inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a class
of females who dedicate themselves to the service of the deity whom they
adore ; and the rewards accruing from their prostitution are devoted to
the service of the temple and the priests officiating therein.
The temples of the Hindus in the Dekkan possessed their
establishments. They had bands of consecrated dancing-girls called the
Women of the Ido/, selected in their infancy by the priests for the
beauty of their persons, and trained up with every elegant accomplishment
that could render them attractive. We also find David and the
daughters of Shiloh per- forming a wild and enticing dance ; likewise we
have the leaping of the prophets of Baal. It is again significant
that a great proportion of Bible names relate to “ divine,” sexual,
generative, or creative power ; such as Alah, “ the strong one ” ; Ariel,
“ the strong Jas is El”; Amasai, “Jah is firm”; Asher, <c the
male ” or “ the upright organ ” ; Elijah, “ El is Jah ” ; Eliab, “ the
strong father ” ; Elisha, iC El is upright ” ; Ara, “ the strong one,” “
the hero ” ; Aram, " high,” or, “ to be uncovered ” ; Baal Shalisha,
“ my Lord the trinity,” or “ my God is three ” ; Ben-zohett, M son
of firmness ” ; Camon, “ the erect One ” ; Cainan, Phallic
Worship 33 “ he stands upright ” ; these are only a
few of the many names of a similar signification. It will be
seen, from what has been given, that the Jews, like the Phoenicians (if
they were not the same), had the same ceremonies, rites, and gods as the
surrounding nations, but enough has been said to show that Phallic
worship was much practised by the Jews. It was very doubtful whether the
Jehovah-worship was not of a monotheistic character, but those who desire
to have a further insight into the mysteries of the wars between
the tribes should consult Bernstein’s valuable work. EARTH
MOTHER The following interesting chapter is taken from a
valuable book issued a few years ago anonymously : “ Mother Earth ”
is a legitimate expression, only of the most general type. Religious
genius gave the female quality to the earth with a special meaning. When
once the idea obtained that our world was feminine , it was easy to
induce the faithful to believe that natural chasms were typical of that
part which characterises woman. As at birth the new being emerges from
the mother, so it was supposed that emergence from a terrestrial
cleft was equivalent to a new birth. In direct proportion to the
resemblance between the sign and the thing signified was the sacredness
of the chink, and the amount of virtue which was imparted by passing
through it. From natural caverns being considered holy, the veneration
for apertures in stones, as being equally symbolical, was a
natural transition. Holes, such as we refer to, are still to be seen
in those structures which are called Druidical, both in the British Isles
and in India. It is impossible to say when these first arose ; it is
certain that they survive in India to this day. We recognise the
existence of the emblem among the Jews in Isaiah li. i, in the charge
to look “ to the hole of the pit whence ye are digged.” We have
also an indication that chasms were symbolical among the same people in
Isaiah lvii. 5 , where the wicked among the Jews were described as “
inflaming themselves with idols under every green tree, and slaying the
children in the valleys under the clefts of the rocks.” It is
possible that the “ hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a
similar signification. In modern Rome, in the vestibule of the
church close to the Temple of Vesta, I have seen a large perforated stone
, in the hole of which the ancient Romans are said to have placed their
hands when they swore a solemn oath, in imitation, or, rather, a
counterpart, of Abraham swearing his servant upon his thigh — that
is the male organ. Higgins dwells upon these holes, and says : “
These stones are so placed as to have a hole under them, through which
devotees passed for religious purposes. There is one of the same kind in
Ireland, called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham
Crags there is a place made for the devotees to pass through. We read in
the accounts of Hindostan that there is a very celebrated place in Upper
India, to which immense numbers of pilgrims go, to pass through a
place in the mountains called “ The Cow’s Belly.” In the Island of
Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon the surface of which there
is a natural crevice, which communicates with a cavity opening below.
This place is used by the Gentoos as a purification of their sins.
Phallic Worship 35 which they say is effected by their
going in at the opening below, and emerging at the cavity above — “ born
again.” The ceremony is in such high repute in the neighbouring
countries that the famous Conajee Angria ventured by stealth, one night,
upon the Island, on purpose to perform the ceremony, and got off
undiscovered. The early Christians gave them a bad name, as if from envy
; they called these holes “ Cunni Diaboli ” (. Atiacalypsis, p.
346) BACCHANALIA AND LIBERALIA FESTIVALS The Romans
called the feasts of Bacchus, Bacchanalia and Liberalia, because Bacchus
and Liber were the names for the same god, although the festivals were
celebrated at different times and in a somewhat different manner.
The latter, according to Payne Knight, was celebrated on the 17th of
March, with the most licentious gaiety, when an image of the Phallus was
carried openly in triumph. These festivities were more particularly
cele- brated among the rural or agricultural population, who, when
the preparatory labour of the agriculturist was over, celebrated with
joyful activity Nature’s reproductive powers, which in due time was to
bring forth the fruits. During the festival a car containing a huge
Phallus was drawn along accompanied by its worshippers, who in-
dulged in obscene songs and dances of wild and extrava- gant character.
The gravest and proudest matrons suddenly laid aside their decency and
ran screaming among the woods and hills half-naked, with
dishevelled hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine.
}6 Phallic Worship The Bacchanalian
feasts were celebrated in the latter part of October when the harvest was
completed. Wine and figs were carried in the procession of the Bacchants,
and lastly came the Phalli, followed by honourable virgins, called
canephora , who carried baskets of fruit. These were followed by a
company of men who carried poles, at the end of which were figures
representing the organ of generation. The men sung the Phallica and were
crowned with violets and ivy, and had their faces covered with
other kinds of herbs. These were followed by some dressed in women’s
apparel, striped with white, reaching to their ancles, with garlands on
their heads, and wreaths of flowers in their hands, imitating by their
gestures the state of inebriety. The priestesses ran in every
direction shouting and screaming, each with a thyrsus in their
hands. Men and women all intermingled, dancing and frolicking with
suggestive gesticulations. Deodorus says the festivals were carried into
the night, and it was then frenzy reached its height. He says, “ In
performing the solemnity virgins carry the thyrsus, and run about
frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god ; then the women in a
body offer the sacrifices, and roar out the praises of Bacchus in song as
if he were present, in imitation of the ancient Maenades, who accompanied
him.” These festivities were carried into the night, and as the
celebrators became heated with wine, they degenerated into extreme
licentiousness. Similar enthusiastic frenzy was exhibited at the
Luper- calian Feasts instituted in honour of the god Pan (under the
shape of a Goat) whose priests, according to Owen in his Worship of
Serpents , on the morning of the Feast ran naked through the streets,
striking the married women they met on the hands and belly, which was
held as an omen promising fruitfulness. The nymphs performing the same
ostentatious display as the Bacchants at the festival of
Bacchanalia. The festival of Venus was celebrated towards the
begin- ning of April, and the Phallus was again drawn in a car,
followed by a procession of Roman women to the temple of Venus. Says a
writer, “ The loose women of the town and its neighbourhood, called
together by the sounding of horns, mixed with the multitude in perfect
nakedness, and excited their passions with obscene motions and
language until the festival ended in a scene of mad revelry, in which all
restraint was laid aside.” It is said that these festivals took
their rise from Egypt, from whence they were brought into Greece by
Metampus, where the triumph of Osiris was celebrated with secret
rites, and from thence the Bacchanals drew their original ; and from the
feasts instituted by Isis came the orgies of Bacchus. DRUID
AND HEBREW FAITHS It seems not at all improbable that the deities
wor- shipped by the ancient Britons and the Irish, were no other
then the Phallic deities of the ancient Syrians and Greeks, and also the
Baal of the Hebrews. Dionysius Periegites, who lived in the time of Augustus
Csesar, states that the rites of Bacchus were celebrated in the
British Isles ; while Strabo, who lived in the time of Augustus and
Tiberius, asserts that a much earlier writer described the worship of the
Cabiri to have come originally from Phoenicia. Higgins, in his History of
the Druids, says, the supreme god above the rest was called Seodhoc
and Baal. The name of Baal is found both in Wales, Gaul, and Germany, and
is the same as the Hebrew Baal. The same god, according to O’Brien,
was the chief deity of the Irish, in whose honour the round towers
were erected, which structures the ancient Irish themselves
designated Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers, xxii, will be
found a mention of a similar pillar consecrated to Baal. Many of the same
customs and superstitions that existed among the Druids and ancient
Irish, will likewise be found among the Israelites. On the first
day of May, the Irish made great fires in honour of Baal, likewise
offering him sacrifices. A similar account is given of a custom of the
Druids by Toland, in an account of the festival of the fires ; he says :
— “ on May-day eve the Druids made prodigious fires on these earns,
which being everyone in sight of some other, could not but afford a
glorious show over a whole nation.” These fires are said to be lit even
to the present day by the Aboriginal Irish, on the first of May, called
by them Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as
given them in the Highlands of Scotland. A similar practice to this
will be noticed as mentioned in the II Book of Kings, where the
Canaanites in their worship of Baal, are said to have passed their
children through the fire of Baal, which seems to have been a common
practice, as Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the
same thing. Higgins in his Anacalypsis y says this super- stitious custom
still continues, and that on “ particular days great fires are lighted,
and the fathers taking the children in their arms, jump or run through
them, and thus pass their children through them ; they also light two
fires at a little distance from each other, and drive their cattle
between them.” It will be found on reference to Deuteronomy, that this
very practice is specially for- bidden. In the rites of Numa, we have
also the sacred fire of the Irish ; of St. Bridget, of Moses, of
Mithra, and of India, accompanied with an establishment of nuns or
vestal virgins. A sacred fire is said to have been kept burning by the
nuns of Kildare, which was established by St. Bridget. This fire was
never blown with the mouth, that it might not be polluted, but only
with bellows ; this fire was similar to that of the Jews, kept
burning only with peeled wood, and never blown with the mouth. Hyde
describes a similar fire which was kept burning in the same way by the
ancient Persians, who kept their sacred fire fed with a certain tree
called Hawm Mogorum ; and Colonel Vallancey says the sacred fire of
the Irish was fed with the wood of the tree called Hawm. Ware, the Romish
priest, relates that at Kildare, the glorious Bridget was rendered
illustrious by many miracles, amongst which was the sacred fire, which
had been kept burning by nuns ever since the time of the
Virgin. The earliest sacred places of the Jews were evidently
sacred stones, or stone circles, succeeded in time by temples. These
early rude stones, emblems of the Creator, were erected by the
Israelites, which in no way differed from the erections of the Gentiles.
It will be found that the Jews to commemorate a great victory, or
to bear witness of the Lord, were all signified by stones : thus, Joshua
erected a stone to bear witness ; Jacob put up a stone to make a place
sacred ; Abel set up the same for a place of worship ; Samuel erected a
stone as a boundary, which was to be the token of an agreement made
in the name of God. Even Maundrel in his travels names several that he
saw in Palestine. It is curious that where a pillar was erected there,
sometime after, a temple was put up in the same manner that the Round
Towers of Ireland were, — always near a church, but never formed
part of it. We find many instances in the Scriptures of the erection of a
number of stones among the early Israelites, which would lead us to
conclude that it was not at all unlikely that the early places of worship
among them, were similar to the temples found in various parts of
Great Britain and Ireland. It is written in Exodus xxiv. 4, that
Moses rose up early in the morning, and builded an altar under the hill,
and twelve pillars, according to the twelve tribes of Israel, were
erected. It is also given out that when the children of Israel should
pass over the Jordan, unto the land which the Lord giveth them,
they should set up great stones, and plaster them with plaster, and also
the words of the law were to be written thereon. In many other places
stones were ordered to be set up in the name of the Lord, and
repeated instances are given that the stones should be twelve in
number and unhewn. Stone temples seem to have been erected in all
countries of the world, and even in America, where, among the early
American races are to be found customs, superstitions, and religious
objects of veneration, similar to the Phoenicians. An American writer
says : — “ There is sufficient evidence that the religious customs of
the Mexicans, Peruvians and other American races, are nearly
identical with those of the ancient Phoenicians. . . . We moreover
discover that many of their religious terms have, etymologically, the
same origin.” Payne Knight, in his Worship of Priapus, devotes much of
his work to Phallic Worship 4i
show that the temples erected at Stonehenge and other places, were of a
Phoenician origin, which was simply a temple of the god Bacchus.
STONEHENGE A TEMPLE OF BACCHUS Of all the nations of
antiquity the Persians were the most simple and direct in the worship of
the Creator. They were the puritans of the heathen world, and not
only rejected all images of God and his agents, but also temples and
altars, according to Herodotus, whose authority we prefer to any other,
because he had an opportunity of conversing with them before they
had adopted any foreign superstitions. As they worshipped the
ethereal fire without any medium of personification or allegory, they
thought it unworthy of the dignity of the god to be represented by any
definite form, or cir- cumscribed to any particular place. The universe
was his temple, and the all-pervading element of fire his only
symbol. The Greeks appear originally to have held similar opinions, for
they were long without statues and Pausanias speaks of a temple at
Siciyon, built by Adrastus — who lived in an age before the Trojan war
— which consisted of columns only, without wall or roof, like the
Celtic temples of our northern ancestors, or the Phyrcetheia of the
Persians, which were circles of stones in the centre of which was kindled
the sacred fire, the symbol of the god. Homer frequently speaks of
places of worship consisting of an area and altar only, which were
probably enclosures like those of the Persians, with an altar in the
centre. The temples dedicated to the creator Bacchus, which the Greek
architects called hypathral , seem to have been anciently of this kind,
whence probably came the title (“ surround with columns ”)
attributed to that god in the Orphic litanies. The remains of one
of these are still extant at Puzznoli, near Naples, which the
inhabitants call the temple of Serapis ; but the ornaments of grapes,
vases, etc., found among the ruins, prove it to have been of Bacchus.
Serapis was indeed the same deity worshipped under another form, being
usually a personification of the sun. The architecture is of the
Roman times ; but the ground plan is probably that of a very ancient one,
which this was made to replace — for it exactly resembles that of a
Celtic temple in Zeeland, published in Stukeley’s Itinerary. The ranges
of square buildings which enclose it are not properly parts of the
temple, but apartments of the priests, places for victims and sacred
utensils, and chapels dedicated to the sub- ordinate deities, introduced
by a more complicated and corrupt worship and probably unknown to the
founder of the original edifice. The portico, which runs parallel
with these buildings, encloses the temenss , or area of sacred ground,
which in the pyratheia of the Persians was circular, but is here
quadrangular, as in the Celtic temple in Zeeland, and the Indian pagoda
before described. In the centre was the holy of holies, the seat of the
god, consisting of a circle of columns raised upon a basement,
without roof or walls, in the middle of which was probably the sacred
fire or some other symbol of the deity. The square area in which it stood
was sunk below the natural level of the ground, and, like that of the
Indian pagoda, appears to have been occasionally floated with
water; the drains and conduits being still to be seen, as also several
fragments of sculpture representing waves, serpents, and various aquatic
animals, which once adorned the basement. The Bacchus here worshipped,
was, as we learn from the Orphic hymn above cited, the sun in his
character of extinguisher of the fires which once pervaded the
earth. He is supposed to have done this by exhaling the waters of
the ocean and scattering them over the land, which was thus supposed to
have acquired its proper temperature and fertility. For this reason the
sacred fire, the essential image of the god, was surrounded by the element
which was principally employed in giving effect to the beneficial
exertion* of the great attribute. From a passage of Hecatasus,
preserved by Diodorus Siculus, it seems evident that Stonehenge and all
the monu- ments of the same kind found in the north, belong to the
same religion which appears at some remote period to have prevailed over
the whole northern hemisphere. According to that ancient historian, the
Hyperboreans inhabited an island beyond Gaul , as large as Sicily , in
which Apollo was worshipped in a circular temple considerable for
its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of the Greeks of
that age, can mean no other than the sun, which according to Caesar was
worshipped by the Germans, when they knew of no other deities except fire
and the moon. The island can evidently be no other than Britain,
which at that time was only known to the Greeks by the vague reports of
the Phoenician mariners ; and so uncertain and obscure that Herodotus,
the most inquisitive and credulous of historians, doubts of its existence.
The circular temple of the sun being noticed in such slight and
imperfect accounts, proves that it must have been some- thing singular
and important ; for if it had been an inconsiderable structure, it would
not have been mentioned 44 Phallic
Worship at all ; and if there had been many such in the
country, the historian would not have employed the singular
number. Stonehenge has certainly been a circular temple,
nearly the same as that already described of the Bacchus at Puzznoli,
except that in the latter the nice execution and beautiful symmetry of
the parts are in every respect the reverse of the rude but majestic
simplicity of the former. In the original design they differ but in the
form of the area. It may therefore be reasonably supposed that we
have still the ruins of the identical temple described by Hecataeus, who,
being an Asiatic Greek, might have received his information from
Phoenician merchants, who had visited the interior parts of Britain when
trading there for tin. Anacrobius mentions a temple of the same
kind and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated to the
sun under the title of Bacchus Sebrazius. The large obelisks of stone
found in many parts of the north, such as those at Rudstone, and near
Boroughbridge, in Yorkshire, belong to the same religion ; obelisks
being, as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they
represented both by their form and name . — Payne Knight* s Worship of
Priapus. BUNS AND RELIGIOUS CAKES Says Hyslop : — “
The hot cross-buns of Good Friday, and the dyed eggs of Pasch or Easter
Sunday, figured in the Chaldean rites just as they do now. The buns
known, too, by that identical name, were used in the worship of the
Phallic Worship 45 Queen of Heaven, the
goddess Easter (Ishtar or Astarte), as early as the days of Cecrops, the
founder of Athens, 1,500 years before the Christian era.” “ One species
of bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the gods,
was of great antiquity, and called Bonn. 9 Diogenes mentioned * they were
made of flour and honey.’ ” It appears that Jeremiah the Prophet was
familiar with this lecherous worship. He says : — “ The children
gather wood, the fathers kindle the fire, and the women knead the
dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer. vii., 18). Hyslop does
not add that the “ buns ” offered to the Queen of Heaven, and in
sacrifices to other deities, were framed in the shape of the sexual organs,
but that they were so in ancient times we have abundance of
evidence. Martial distinctly speaks of such things in two
epigrams, first, wherein the male organ is spoken of, second,
wherein the female part is commemorated ; the cakes being made of
the finest flour, and kept especially for the palate of the fair
one. Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p. 365)
says : — “ When the people of Syracuse were sacrificing to goddesses,
they offered cakes called mullot , shaped like the female organ, and in
some temples where the priestesses were probably ventriloquists, they so
far imposed on the credulous multitude who came to adore the Vulva as
to make them believe that it spoke and gave oracles.” We can
understand how such things were allowed in licentious Rome, but we can
scarcely comprehend how they were tolerated in Christian Europe, as, to
all innocent surprise we find they were, from the second part of
the “ Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge, in
the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in
46 Phallic Worship the form of the Phallus are
made as offerings at Easter, carried and presented from house to house.
Dulare states that in his time the festival of Palm Sunday, in the
town of Saintes, was called le fete des pinnes — feast of the privy
members — and that during its continuance the women and children carried
in the procession a Phallus made of bread, which they called a pinne, at
the end of their palm branches ; these pinnes were subsequently
blessed by priests, and carefully preserved by the women during the
year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered, is a euphemism of the
male organ, and it is curious to see it united with the Phallus in
Christendom. Dulare also says that, in some of the earlier inedited
French books on cookery, receipts are given for making cakes of the
salacious form in question, which are broadly named. He further tells us
those cakes symbolized the male, in Lower Limousin, and especially at B
rives ; while the female emblem was adopted at Clermont, in Auvergne, and
other places. THE ARK AND GOOD FRIDAY The ark of
the covenant was a most sacred symbol in the worship of the Jews, and
like the sacred boat, or ark of Osiris, contained the symbol of the
principle of life, or creative power. The symbol was preserved with
great veneration in a miniature tabernacle, which was considered the
special and sanctified abode of the god. In size and manner of
construction the ark of the Jews and the sacred chest of Osiris of the
Egyptians were Phallic Worship 47
exactly alike, and were carried in processions in a similar
manner The ark or chest of Osiris was attended by the
priests, and was borne on the shoulders of men by means of staves.
The ark when taken from the temple was placed upon a table, or stand,
made expressly for the purpose, and was attended by a procession similar
to that which followed the Jewish ark. According to Faber, the ark
was a symbol of the earth or female principle, containing the germ of all
animated nature, and regarded as the great mother whence all things
sprung. Thus the ark, earth, and goddess, were represented by common
symbols, and spoken of in the old Testament as the “ ashera.”
The sacred emblems carried in the ark of the Egyptians were the
Phallus, the Egg, and the Serpent ; the first representing the sun, fire,
and male or generative principle — the Creator ; the second, the passive
or female, the germ of all animated things — the Preserver ; and
the last the Destroyer : the Three of the sacred Trinity. The Hindu
women, according to Payne Knight, still carry the lingam, or consecrated
symbol of the generative attribute of the deity, in solemn procession
between two serpents ; and in a sacred casket, which held the Egg
and the Phallus in the mystic processions of the Greeks, was also a
Serpent. “ The ark,” says Faber, “ was reverenced in all the
ancient religions.” It was often represented in the form of a boat, or ship,
as well as an oblong chest. The rites of the Druids, with those of
Phoenicia and Hindostan, show that an ark, chest, cell, boat, or cavern,
held an important place in their mysteries. In the story of Osiris, like
that of the Siva, will be found the reason for the emblem being carried
in the sacred chest, and the explanation of one of 4 «
Phallic Worship the mysteries of the Egyptian priests. It
is said that Osiris was tom to pieces by the wicked Typhon, who
after cutting up the body, distributed the parts over the earth. Isis
recovered the scattered limbs, and brought them back to Egypt ; but,
being unable to find the part which distinguished his sex, she had an
image made of wood, which was enshrined in an ark, and ordered to
be solemnly carried about in the festivals she had instituted in his
honour, and celebrated with certain secret rites. The Egg, which
accompanied the Phallus in the ark was a very common symbol of the
ancient faiths, which was considered as containing the generation of
life. The image of that which generated all things in itself. Jacob
Bryant says : — “ The Egg, as it contained the principles of life was
thought no improper emblem of the ark, in which were preserved the future
world. Hence in the Dionysian and in other mysteries, one part of the
nocturnal ceremony consisted in the consecration of an egg.” This
egg was called the Mundane Egg. The ark was likewise the symbol of
salvation, the place of safety, the secret receptacle of the divine
wisdom. Hence we find the ark of the Jews containing the tables of
the law ; we find too that the Jews were ordered to place in the ark
Aaron’s rod, which budded, conveying the idea of symbolised fertility :
showing that the ark was considered as the receptacle of the life
principle — as an emblem of the Creator. With the Egyptians
Osiris was supposed to be buried in the ark, which represented the
disappearance of the deity. His loss, or death, constituted the first
part of the mysteries, which consisted of lamentations for his decease.
After the third day from his death, a procession went down to the
seaside in the night, carrying the ark with them. During
Phallic Worship 49 the passage they poured
drink offerings from the river, and when the ceremony had been duly
performed, they raised a shout that Osiris had again risen — that the
dead had been restored to life. After this followed the second or
joyful part of the mysteries. The similarity of this custom with
the Good Friday celebrations of the death of Jesus, and the rejoicings on
account of his resurrection on Easter Sunday, will be at once observed.
It is further said that the missing part of Osiris was eaten by a fish,
which made the fish a sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and
Good Friday brought together, also the Egg, for the origin of the
Easter eggs is very ancient. A bull is represented as breaking an egg
with his horn, which signified the liberating of imprisoned life at the
opening or spring of the year, 'which had been destroyed by Typhon.
The opening of the year at that time commenced in the spring, pot
according to our present reckoning ; thus, the Egg was a symbol of the
resurrection of life at the spring, or our Easter time. The author of the
“ Worship of the Generative Powers,” describes the origin of the hot
cross- bun at Easter, which is a further parallelism of the
Christian and Pagan festivals. The author also draws a further
conclusion — that the cakes or buns have in reality a Phallic origin, for
in France and other parts, the Easter cakes were called after the membrun
virile. The writer says : — “ In the primitive Teutonic mythology,
there was a female deity named in old German, Ostara, and in
Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we know of her is the simple
statement of our father of history, Bede, that her festival was
celebrated by the ancient Saxons in the month of April, from which
circumstance that month was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or
Eoster- mona, and that the name of the goddess had been frequently
50 Phallic Worship given to the Paschal
time, with which it was identical. The name of this goddess was given to
the same month by the old Germans and by the Franks, so that she must
have been one of the most highly honoured of the Teutonic deities,
and her festival must have been a very important one and deeply implanted
in the popular feelings, or the Church would not have sought to identify
it with one of the greatest Christian festivals of the year. It is
under- stood that the Romans considered this month as dedicated to
Venus, no doubt because it was that in which the productive powers of
nature began to be visibly developed. When the Pagan festival was adopted
by the Church, it became a moveable feast, instead of being fixed to
the month of April. Among other objects offered to the goddess at
this time were cakes, made no doubt of fine flour, but of their form we
are ignorant. The Christians when they seized upon the Easter festival,
gave them the form of a bun, which indeed was at that time the
ordinary form of bread ; and to protect themselves and those who
ate them from any enchantment — or other evil influences which might
arise from their former heathen character — they marked them with the
Christian symbol — the cross. Hence we derived the cakes we still eat at
Easter under the name of hot cross-buns, and the superstitious
feelings attached to them ; for multitudes of people still believe
that if they failed to eat a hot cross-bun on Good Friday, they would be
unlucky all the rest of the year.” ARCHITECTURAL PILLARS
DEVISED FROM THE LOTUS The earliest capital seems to have
been the bell or seed vessel, simply copied without alteration, except
a little expansion at the bottom to give it stability. The leaves
of some other plant were then added to it, and varied in different
capitals according to the different meanings intended to be signified by
the accessory symbols. The Greeks decorated it in the same manner, with
the foliage of various plants, sometimes of the acanthus and
sometimes of the aquatic kind, which are, however, generally so
transformed by excessive attention to elegance, that it is difficult to
distinguish them. The most usual seems to be the Egyptian acacia, which
was probably adopted as a mystic symbol for the same reasons as the
olive, it being equally remarkable for its powers of reproduction.
Theophrastus mentions a large wood of it in the “ Thebaid,” where the
olive will not grow, so that we reasonably suppose it to have been
employed by the Egyptians in the same symbolical sense. From them
the Greeks seem to have borrowed it about the time of the Macedonian
conquest, it not occurring in any of their buildings of a much earlier
date ; and as for the story of the Corinthian architect, who is said to
have invented this kind of capital from observing a thorn growing
round a basket, it deserved no credit, being fully contradicted by the
buildings still remaining in Upper Egypt. The Doric column,
which appears to have been the only one known to the very ancient Greeks,
was equally derived from the Nelumbo ; its capital being the same
•eed-vessel pressed flat, as it appears when withered and
Phallic Worship 5 Z dry — the only state
probably in which it had been seen in Europe. The flutes in the shaft
were made to hold spears and staves, whence a spear-holder is spoken of
in the “ Odyssey ” as part of a column. The triglyphs and blocks of
the cornice were also derived from utility, they having been intended to
represent the projecting ends of the beams and rafters which formed the
roof. The Ionic capital has no bell, but volutes formed in
imitation of sea-shells, which have the same symbolical meaning. To them
is frequently added the ornament which architects call a honeysuckle, but
which seems to be meant for the young petals of the same flower
viewed horizontally, before they are opened or expanded. Another
ornament is also introduced in this capital, which they call eggs and
anchors, but which is, in fact, composed of eggs and spear-heads, the
symbols of female generation and male destructive power, or in the
language of mythology, of Venus and Mars . — Payne Knight .
BELLS IN RELIGIOUS WORSHIP Stripped, however, of all this splendour
and magnifi- cence it was probably nothing more than a symbolical
instrument, signifying originally the motion of the elements, like the
sistrum of Isis, the cymbals of Cybele, the bells of Bacchus, etc.,
whence Jupiter is said to have overcome the Titans with his aegis, as
Isis drove away Typhon with her sistrum, and the ringing of the
bells and clatter of metals were almost universally employed as a
means of consecration, and a charm against the Phallic
Worship 53 destroying and inert powers. Even the Jews
welcomed the new moon with such noises, which the simplicity of the
early ages employed almost everywhere to relieve her during eclipses,
supposed then to be morbid affections brought on by the influence of an
adverse power. The title Priapus y by which the generative attribute is
dis- tinguished, seems to be merely a corruption of Briapuos
(clamorous) ; the beta and pi being commutable letters, and epithets of
similar meaning, being continually applied both to Jupiter and Bacchus by
the poets. Many Priapic figures, too, still extant, have bells attached
to them, as the symbolical statues and temples of the Hindus are ;
and to wear them was a part of the worship of Bacchus among the Greeks :
whence we sometimes find them of extremely small size, evidently meant to
be worn as amulets with the phalli, lunulas, etc. The chief priests
of the Egyptians and also the high priests of the Jews, hung them as
sacred emblems to their sacerdotal garments ; and the Brahmins still
continue to ring a small bell at the interval of their prayers,
ablutions, and other acts of devotion ; which custom is still preserved
in the Roman Catholic Church at the elevation of the host. The
Lacedaemonians beat upon a brass vessel or pan, on the death of their
kings, and we still retain the custom of tolling a bell on such
occasions, though the reason of it is not generally known, any more than
that of other remnants of ancient ceremonies still existing . 1 It
will be observed that the bells used by the Christians very
probably came direct from the Buddhists. And from the same source are
derived the beads and rosaries of the Roman Catholics, which have been
used by the Buddhist 1 The above description is from Payne Knight's
"Symbolical Language of ancient Art and Mythology."
Phallic Worship 54 monks for over 2,000
years. Tinkling bells were suspended before the shrine of Jupiter Ammon,
and during the service the gods were invited to descend upon the
altars by the ringing of bells ; they were likewise sacred to Siva. Bells
were used at the worship of Bacchus, and were worn on the garments of the
Bacchantes, much in the same manner as they are used at our carnivals
and masquerades. HINDU PHALLICISM The following
curious fable is given by Sir William Jones, as one of the stories of the
Hindus for the origin of Phallic devotion : — “ Certain devotees in a
remote time had acquired great renown and respect, but the purity of
the art was wanting, nor did their motives and secret thoughts
correspond with their professions and exterior conduct. They affected
poverty, but were attached to the things of this world, and the princes
and nobles were constantly sending their offerings. They seemed to
sequester them- selves from this world ; they lived retired from the
towns ; but their dwellings were commodious, and their women
numerous and handsome. But nothing can be hid from their gods, and
Sheevah resolved to put them to shame. He desired Prakeety (nature) to
accompany him ; and assumed the appearance of a Pandaram of a
graceful form. Prakeety was herself a damsel of matchless worth.
She went before the devotees who were assembled with their disciples,
awaiting the rising of the sun, to perform their ablutions and religious
ceremonies. As she advanced Phallic Worship
55 the refreshing breeze moved her flowing robe, showed the
exquisite shape which it seemed intended to conceal. With eyes cast down,
though sometimes opening with a timid but tender look, she approached
them, and with a low enchanting voice desired to be admitted to the
sacrifice. The devotees gazed on her with astonishment. The sun
appeared, but the purifications were forgotten ; the things of the Poo j
ah (worship) lay neglected ; nor was any worship thought of but that of
her. Quitting the gravity of their manners, they gathered round her
as flies round the lamp at night — attracted by its splendour, but
consumed by its flame. They asked from whence she came ; whither she was
going. ‘ Be not offended with us for approaching thee, forgive us our
importunities. But thou art incapable of anger, thou who art made
to convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference,
indignation and resentment are unknown. But whoever thou mayest be,
whatever motive or accident might have brought thee amongst us, admit us
into the number of thy slaves ; let us at least have the comfort to
behold thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul
seemed ready to take its flight ; the vow was forgotten, and the policy
of years destroyed. “ Whilst the devotees were lost in their
passions, and absent from their homes, Sheevah entered their
village with a musical instrument in his hand, playing and singing
like some of those who solicit charity. At the sound of his voice, the
women immediately quitted their occupation ; they ran to see from whom it
came. He was as beautiful as Krishen on the plains of Matra. Some dropped
their jewels without turning to look for them ; others let fall their
garments without perceiving that they discovered those abodes of pleasure
which jealousy as well as decency had ordered to be
concealed. All pressed forward with their offerings, all wished to speak,
all wished to be taken notice of, and bringing flowers and scattering
them before him, said — ‘ Askest thou alms ! thou who are made to
govern hearts. Thou whose countenance is as fresh as the morning, whose
voice is the voice of pleasure, and they breath like that of Vassant
(Spring) in the opening of the rose I Stay with us and we will serve thee
; nor will we trouble thy repose, but only be zealous how to please
thee/ The Pandaram continued to play, and sung the loves of Kama (God of
Love), of Krishen and the Gopia, and smiling the gentle smiles of fond
desire. . . . “ But the desire of repose succeeds the waste of
pleasure. Sleep closed the eyes and lulled the senses. In the
morning the Pandaram was gone. When they awoke they looked round with
astonishment, and again cast their eyes on the ground. Some directed to
those who had formerly been remarked for their scrupulous manners,
but their faces were covered with their veils. After sitting awhile in
silence they arose and went back to their houses, with slow and troubled
steps. The devotees returned about the same time from their wanderings
after Prakeety. The days that followed were days of embarrass- ment
and shame. If the women had failed in their modesty, the devotees had
broken their vows. They were vexed at their weakness, they were sorry for
what they had done ; yet the tender sigh sometimes broke forth, and
the eyes often turned to where the men first saw the maid — the women,
the Pandaram. “But the women began to perceive that what the
devotees foretold came not to pass. Their disciples, in consequence,
neglected to attend them, and the offerings from the princes and nobles
became less frequent than Phallic Worship
57 before. They then performed various penances ; they
sought for secret places among the woods unfrequented by man ; and having
at last shut their eyes from the things of this world, retired within
themselves in deep meditation, that Sheevah was the author of their
misfortunes. Their understanding being imperfect, instead of bowing the
head with humility, they were inflamed with anger ; instead of contrition
for their hypocrisy, they sought for vengeance. They performed new
sacrifices and incantations, which were only allowed to have effect in
the end, to show the extreme folly of man in not submitting to the will
of heaven. “ Their incantations produced a tiger, whose mouth
was like a cavern and his voice like thunder among the mountains. They
sent him against Sheevah, who with Prakeety was amusing himself in the
vale. He smiled at their weakness, and killing the tiger at one blow
with his club, he covered himself with his skin. Seeing them-
selves frustrated in this attempt, the devotees had recourse to another,
and sent serpents against him of the most deadly kind ; but on
approaching him they became harmless, and he twisted them round his neck.
They then sent their curses and imprecations against him, but they
all recoiled upon themselves. Not yet disheartened by all these
disappointments, they collected all their prayers, their penances, their
charities, and other good works, the most acceptable sacrifices ; and
demanding in return only vengeance against Sheevah, they sent a
fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at this attempt,
turned the fire with indignation against the human race ; and mankind
would soon have been destroyed, had not Vishnu, alarmed at the
danger, implored him to suspend his wrath. At his entreaties
JS Phallic Worship Sheevah relented ; but it
was ordained that in his temples those parts should be worshipped \ which
the false doctrines had impiously attempted to destroy.” THE
CROSS AND ROSARY The key which is still worn with the Priapic hand,
as an amulet, by the women of Italy appears to have been an emblem
of the equivocal use of the name, as the language of that country
implies. Of the same kind, too, appears to have been the cross in the
form of the letter tau> attached to a circle, which many of the
figures of Egyptian deities, both male and female, carry in their left
hand ; and by the Syrians, Phoenicians and other inhabitants of
Asia, representing the planet Venus, worshipped by them as the
emblem or image of that goddess. The cross in this form is sometimes
observable on coins, and several of them were found in a temple of
Serapis, demolished at the general destruction of those edifices by the
Emperor Theodosius, and were said by the Christian antiquaries of
that time to signify the future life. In solemn sacrifices, all the
Lapland idols were marked with it from the blood of the victims ; and it
occurs on many Runic ornaments found in Sweden and Denmark, which are of
an age long anterior to the approach of Christianity to those
countries, and probably to its appearance in the world. On some of the
early coins of the Phoenicians, we find it attached to a chaplet of beads
placed in a circle, so as to form a complete rosary, such as the Lamas of
Thibet and China, the Hindus, and the Roman Catholics now tell over
while they pray. BEADS Beads were anciently
used to reckon time, and a circle, being a line without termination, was
the natural emblem of its perpetual continuity ; whence we often find
circles of beads upon the heads of deities, and enclosing the
sacred symbols upon coins and other monuments. Perforated beads are also
frequently found in tombs, both in the northern and southern parts of
Europe and Asia, whence are fragments of the chaplets of
consecration buried with the deceased. The simple diadem, or
fillet, worn round the head as a mark of sovereignty, had a similar
meaning, and was originally confined to the statues of deities and
deified personages, as we find it upon the most ancient coins. Chryses,
the priest of Apollo, in the “ Iliad,” brings the diadem, or sacred
fillet, of the god upon his sceptre, as the most imposing and
invocable emblem of sanctity ; but no mention is made of its being
worn by kings in either of the Homeric poems, nor of any other ensign of
temporal power and command, except the royal staff or sceptre.
THE LOTUS The double sex typified by the Argha and its
contents is by the Hindus represented by the “ Mymphcea ” or Lotus,
floating like a boat on the boundless ocean, where the whole plant
signifies both the earth and the two principles of its fecundation. The
germ is both Meru and the Linga ; the petals and filaments are the
mountains 6o Phallic Worship which
encircle Meru, and are also a type of the Yoni; the leaves of the calyx
are the four vast regions to the cardinal points of Meru ; and the leaves
of the plant are the Dwipas or isles round the land of Jambu. As
this plant or lily was probably the most celebrated of all the
vegetable creation among the mystics of the ancient world, and is to be found
in thousands of the most beautiful and sacred paintings of the Christians
of this day — I detain my reader with a few observations respecting it.
This is the more necessary as it appears that the priests have now
lost the meaning of it ; at least this is the case with everyone of whom
I have made enquiry ; but it is like many other very odd things, probably
understood in the Vatican, or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that
among the different plants which ornament our globe, there is not
one which has received so much honour from man as the Lotus or Lily, in
whose consecrated bosom Brahma was born, and Osiris delighted to float.
This is the sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in
oriental mythology, and in truth not without reason, for it is itself a
lovely prodigy. Throughout all the northern hemispheres it was everywhere
held in profound veneration, and from Savary we learn that the
veneration is yet continued among the modern Egyptians. And we find
that it still continues to receive the respect if not the adoration of a
great part of the Christian world, unconscious, perhaps, of the original
reason of this conduct. Higgins’s Anacalypsis. The following
is an account given of it by Payne Knight, in his curious dissertation on
Phallic Worship : — “ The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This
plant grows in the water, among its broad leaves puts forth a
flower, in the centre of which is formed the seed vessel.
Phallic Worship 6x shaped like a bell or inverted
cone, and perforated on the top with little cavities or cells, in which
the seeds grow. The orifices of these cells being too small to let the
seeds drop out when ripe, they shoot forth into new plants in the
places where they are formed : the bulb of the vessel serving as a matrix
to nourish them, until they acquire such a degree of magnitude as to
burst it open and release themselves, after which, like other aquatic
weeds, they take root wherever the current deposits them. This
plant, therefore, being thus productive of itself, and vegetating from
its own matrix, without being fostered in the earth, was naturally
adopted as the symbol of the productive power of the waters, upon which
the active spirit of the Creator operated in giving life and
vegetation, to matter. We accordingly find it employed in every
part of the northern hemisphere, where the symbolical religion,
improperly called idolatry , does or ever did prevail. The sacred images
of ihe Tartars, Japanese, and Indians are almost placed upon it, of which
numerous instances occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat,
etc. The Brahma of India is represented as sitting upon his Lotus
throne, and the figure upon the Isaaic table holds the stem of this plant
surmounted by the seed vessel in one hand, and the Cross representing the
male organs of generation in the other ; thus signifying the
universal power, both active and passive, attributed to that
goddess.” Nimrod says : — “ The Lotus is a well-known
allegory, of which the expansive calyx represents the ship of the
gods floating on the surface of the water ; and the erect flower arising
out of it, the mast thereof. The one was the galley or cockboat, and the
other the mast of cockayne ; but as the ship was Isis or Magna Mater, the
female principle, and the mast in it the male deity, these parts of
62 Phallic Worship the flower came to
have certain other significations, which seem to have been as well known
at Samosata as at Benares. This plant was also used in the sacred offices
of the Jewish religion. In the ornaments of the temple of Solomon,
the Lotus or lily is often seen.” The figure of Isis is frequently
represented holding the stem of the plant in one hand, and the cross and
circle in the other. Columns and capitals resembling the plant are
still existing among the ruins of Thebes, in Egypt, and the island of
Philce. The Chinese goddess, Pussa, is represented sitting upon the
Lotus, called in that country Lin, with many arms, having symbols
signifying the various operations of nature, while similar attributes are
expressed in the Scandinavian goddess Isa or Disa. The Lotus
is also a prominent symbol in Hindu and Egyptian cosmogony. This plant
appears to have the same tendency with the Sphinx, of marking the
connection between that which produces and that which is produced.
The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the blue Lotus, which plant
is acknowledged to be the emblem of celestial love so frequently seen
mounted on the back of Leo in the ancient remains. The following is a
translation of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,
and will be found interesting as showing the importance attached to the
Lotus in the worship of the ancients : — “ We find Brahma emerging from
the Lotus. The whole universe was dark and covered with water. On
this primeval water did Bhagavat (God), in a masculine form, repose
for the space of one Calpho (a thousand years) ; after which period the
intention of creating other beings for his own wise purposes became
pre- dominant in the mind of the Great Creator . In the first
Phallic Worship 65 place, by his
sovereign will was produced the flower of the Lotus, afterwards, by the
same will, was brought to light the form of Brahma from the said flower ;
Brahma, emerging from the cup of the Lotus, looked round on all the
four sides, and beheld from the eyes of his four heads an immeasurable
expanse of water. Observing the whole world thus involved in darkness and
submerged in water, he was stricken with prodigious amazement, and
began to consider with himself, ‘ Who is it that produced me ? * *
whence came I ? 9 ' and where ami?’ “ Brahma, thus kept two hundred
years in contem- plation, prayers, and devotions, and having pondered
in his mind that without connection of male and female an abundant
generation could not be effected — again entered into profound meditation
on the power of the Supreme, when, on a sudden by the omnipotence of God,
was produced from his right side Swayambhuvah Menu , a man of
perfect beauty ; and from the Brahma’s left side a woman named Satarupa.
The prayer of Brahma runs thus : — ■* O Bhagavat 1 since thou broughtest
me from nonentity into existence for a particular purpose,
accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a short time a small
white boar appeared, which soon grew to the size of an elephant. He now
felt God in all, and that all is from Him, and all in Him. At length
the power of the Omnipotent had assumed the body of Vara. He began
to use the instinct of that animal. Having divided the water, he saw the
earth a mighty barren stratum. He then took up the mighty ponderous
globe (freed from the water) and spread the earth like a carpet on
the face of the water ; Brahma, contemplating the whole earth, performed
due reverence, and rejoicing exceedingly, began to consider the means of
peopling 6 4 Phallic Worship the
renovated world.” Pyag, now Allahabad, was the first land said to have
appeared, but with the Brahmins it is a disputed point, for many affirm
that Cast or Benares was the sacred ground. MERU
The learned Higgins, an English judge, who for some years spent ten
hours a day in antiquarian studies, says that Moriah, of Isaiah and
Abraham, is the Meru of the Hindus, and the Olympus of the Greeks.
Solomon built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which
because mounts of Venus, mons veneris — Meru and Mount Calvary — each a
slightly skull-shaped mount, that might be represented by a bare head.
The Bible translators perpetuate the same idea in the word “ calvaria.”
Prof. Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its name from its
being the place of the crucifixion of Jesus. Looking elsewhere and in
earlier times for the bare calvaria, we find among Oriental women, the
Mount of Venus, mons veneris > through motives of neatness or
religious sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see
Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of a priest. The priests
of China, says Mr. J. M. Peebles, continue to shave the head. To make a
place holy, among the Hindus, Tartars, and people of Thibet, it was
necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni, or Arba.
Phallic Worship 65 LINGAM IN THE TEMPLE OF ELORA
This marvellous work of excavation by the slow process of the
chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards published a volume
describing the temple and its vast statues. The beauty of its
architectural ornaments, the innumerable statues or emblems, all hewn out
of solid rock, dispute with the Pyramids for the first place among
the works undertaken to display power and embody feeling. The stupendous
temple is detached from the neighbouring mountain by a spacious area all
round, and is nearly 250 feet deep and 150 feet broad, reaching to
the height of 100 feet and in length about 145 feet. It has
well-formed doorways, windows, staircases, upper floors, containing fine
large rooms of a smooth and polished surface, regularly divided by rows
of pillars ; the whole bulk of this immense block of isolated excavation
being upwards of 500 feet in circumference, and having beyond its
areas three handsome figure galleries or verandas supported by regular
pillars. Outside the temple are two large obelisks or phalli standing, “
of quadrangular form, eleven feet square, prettily and variously carved,
and are estimated at forty-one feet high ; the shaft above the
pedestal is seven feet two inches, being larger at the base than Cleopatra’s
Needle.” In one of the smaller temples was an image of
Lingam, “ covered with oil and red ochre, and flowers were daily
strewed on its circular top. This Lingam is larger than usual, occupying
with the altar, a great part of the room. In most Ling rooms a sufficient
space is left for the votaries to walk round whilst making the usual
invocations to the deity (Maha Deo). This deity is much frequented
by female votaries, who take especial care to keep it clean
E 66 Phallic Worship washed,
and often perfume it with oderiferous oils and flowers, whilst the
attendant Brahmins sweep the apartment and attend the five oil lights and
bell ringing.” This oil vessel resembled the Yoni (circular frame), into
which the light itself was placed. No symbol was more venerated or
more frequently met with than the altar and Ling, Siva, or Maha Deo. “
Barren women constantly resort to it to supplicate for children,” says
Seeley. The mysteries attended upon them is not described, but doubtless
they were of a very similar character to those described by the
author of the “ Worship of the Generative Powers of the Western Nations,”
showing again the similarity of the custom with those practised by the
Catholics in France. The writer says : — “ Women sought a remedy for
barren- ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they
appear to have placed a part of their body, naked, against the image of
the saint, or to have sat upon it. This latter trait was perhaps too bold
an adoption of the indecencies of Pagan worship to last long, or to be
practised openly ; but it appears to have been innocently represented
by lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,
understood to represent him without the presence of the energetic member.
In a corner in the church of the village of St. Fiacre, near Monceaux, in
France, there is a stone called the chair of St. Fiacre, which confers
fecundity upon women who sit upon it ; but it is necessary nothing
should intervene between their bare skin and the stone. In the church of
Orcival in Auvergne, there was a pillar which barren women kissed for the
same purpose and which had perhaps replaced some less equivocal
object.” The principal object of worship at Elora is the stone,
so frequently spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he
apologises for using the word so often, but asks to be
Phallic Worship 67 excused, “ is an emblem not
generally known, but as frequently met with as the Cross in Catholic
worship.” It is the god Siva, a symbol of his generative character,
the base of which is usually inserted in the Yoni. The stone is of a
conical shape, often black stone, covered with flowers (the Bella and
Asuca shrubs). The flowers hang pendant from the crown of the Ling stone
to the spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same as
the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly used in the worship at
the symbol, or one lamp with five wicks. The Lotus is often seen on the
top of the Ling. VENUS-URANIA. — THE MOTHER GODDESS The
characteristic attribute of the passive generative power was expressed in
symbolical writing, by different enigmatical representations of the most
distinguished characteristic of the female sex : such as the shell
or Concha Veneris , the fig-leaf, barley corn, and the letter
Delta, all of which occur very frequently upon coins and other ancient
monuments in this sense. The same attribute personified as the goddess of
Love, or desire, is usually represented under the voluptuous form of
a beautiful woman, frequently distinguished by one of these
symbols, and called Venus, Kypris, or Aphrodite, names of rather
uncertain mythology. She is said to be the daughter of Jupiter and Dione,
that is of the male and female personifications of the all-pervading
Spirit of the Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and
there- fore associated with him in the most ancient oracular
68 Phallic Worship temple of Greece at Dodona.
No other genealogy appears to have been known in the Homeric times ;
though a different one is employed to account for the name of
Aphrodite in the “ Theogony ” attributed to Hesiod. The
Genelullides or Genoidai were the original and appropriate ministers or companions
of Venus, who was however, afterwards attended by the Graces, the
proper and original attendants of Juno ; but as both these
goddesses were occasionally united and represented in one image, the
personifications of their respective sub- ordinate attributes were on
other occasions added : whence the symbolical statue of Venus at Paphos
had a beard, and other appearances of virility, which seems to have
been the most ancient mode of representing the celestial as distinguished
from the popular goddess of that name — the one being a personification
of a general procreative power, and the other only of animal desire
or concupiscence. The refinement of Grecian art, however, when
advanced to maturity, contrived more elegant modes of distinguishing them
; and, in a celebrated work of Phidias, we find the former represented
with her foot upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of
Scopas, the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an
androgynous animal, was aptly chosen as a symbol of the double power ;
and the goat was equally appropriate to what was meant to be expressed in
the other. The same attribute was on other occasions signified by
a dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the polypus, which
often appears upon coins with the head of the goddess, and which was
accounted an aphrodisiac, though it is likewise of the androgynous class.
The fig was a still more common symbol, the statue of Priapus being
made of the tree, and the fruit being carried with the
Phallic Worship 69 Phallus in the ancient
processions in honour of Bacchus, and still continuing among the common
people of Italy to be an emblem of what it anciently meant : whence
we often see portraits of persons of that country painted with it in one
hand, to signify their orthodox elevation to the fair sex. Hence, also
arose the Italian expression far la fica , which was done by putting the
thumb between the middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic
orna- ments extant ; or by putting the finger or thumb into the
corner of the mouth and drawing it down, of which there is a
representation in a small Priapic figure of exquisite sculpture, engraved
among the Antiquities of Herculaneum. LIBERALITY AND SAMENESS OF
THE WORLD-RELIGIONS The same liberal and humane spirit still
prevails among those nations whose religion is founded on the same
principles. “ The Siamese,” says a traveller of the seventeenth century,
“ shun disputes and believe that almost all religions are good ” (“
Journal du Voyage de Siam ”). When the ambassador of Louis XIV asked
their king, in his master’s name, to embrace Christianity, he
replied, “ that it was strange that the king of France should interest
himself so much in an affair which concerns only God, whilst He, whom it
did concern, seemed to leave it wholly to our discretion. Had it been
agreeable to the Creator that all nations should have had the same
form of worship, would it not have been as easy to His omnipotence to
have created all men with the same send- 7 °
Phallic Worship merits and dispositions, and to have inspired them
with the same notions of the True Religion, as to endow them with
such different tempers and inclinations ? Ought they not rather to
believe that the true God has as much pleasure in being honoured by a
variety of forms and ceremonies, as in being praised and glorified by a
number of different creatures ? Or why should that beauty and
variety, so admirable in the natural order of things, be less
admirable or less worthy of the wisdom of God in the supernatural ?
” The Hindus profess exactly the same opinion. “ They would
readily admit the truth of the Gospel,” says a very learned writer long
resident among them, “ but they contend that it is perfectly consistent
with their Shastras. The Deity, they say, has appeared innumerable times
in many parts of this world and in all worlds, for the salvation of
his creatures ; and we adore, they say, the same God, to whom our several
worships, though different in form, are equally acceptable if they be
sincere in substance.” The Chinese sacrifice to the spirits of the
air the mountains and the rivers ; while the Emperor himself
sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all these spirits are
subordinate, and from whom they are derived. The sectaries of Fohi have,
indeed, surcharged this primitive elementary worship with some of
the allegorical fables of their neighbours ; but still as their
creed — like that of the Greeks and Romans — remains undefined, it admits
of no dogmatical theology, and of course no persecution for opinion.
Obscure and sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed
on many occasions ; but still as actions and not as opinions.
Atheism is said to have been punished with death at Athens ; but
nevertheless it may be reasonably doubted Phallic
Worship 7i whether the atheism, against which the
citizens of that republic expressed such fury, consisted in a denial of
the existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged to fly
for this crime, was accused of revealing and calum- niating the doctrines
taught in the Mysteries ; and from the opinions ascribed to Socrates,
there is reason to believe that his offence was of the same kind, though
he had not been initiated. These were the only two martyrs to
religion among the ancient Greeks, such as were punished for actively
violating or insulting the Mysteries, the only part of their
worship which seems to have possessed any vitality ; for as to the
popular deities, they were publicly ridiculed and censured with impunity
by those who dared not utter a word against the populace that worshipped
them ; and as to the forms and ceremonies of devotion, they were
held to be no otherwise important, then as they were constituted a part
of civil government of the state ; the Phythian priestess having
pronounced from the tripod, that whoever performed the rites of his
religion according to the laws of his country , performed them in a manner
pleasing to the Deity . Hence THE ROMANS made no alterations in the
religious institutions of any of the conquered countries ; but allowed
the inhabitants to be as absurd and extravagant as they pleased, and to
enforce their absurdities and extravagances wherever they had any
pre-existing laws in their favour. An Egyptian magistrate would put
one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora monkey ; and
though the religious fanaticism of the Jews was too sanguinary and too
violent to be left entirely free from restraint, a chief of the synagogue
could order anyone of his congregation to be whipped for neglecting
or violating any part of the Mosaic Ritual. 7* Phallic
Worship The principle underlying the system of emanations
was, that all things were of one substance, from which they were
fashioned and into which they were again dissolved, by the operation of
one plastic spirit universally diffused and expanded. The polytheist ot
ancient Greece and Rome candidly thought, like the modern Hindu, that
all rites of worship and forms of devotion were directed to the
same end, though in different modes and through different channels. <c
Even they who worship other gods , says Krishna, the incarnate Deity, in
an ancient Indian poem ( 'Bhagavat-Gita ), c< worship me although they
know it not. Knight. Giorgio Colli. Colli. Keywords: espressione, L’Apollo romano, L’appollo d’etruria, La
mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco; l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche,
Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone di Velia, l’implicatura di Prosimno,
l’implicatura di Bacco e Prosimno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli:
l’implicatura di Bacco e Prosimno”, misterio bacchico, bacchic mystery, the fig
tree branch, phallus, self-sacrifice, self-sodomisation, not without pain, even
with pleasure – Higinus., symbolism, the old shepherd erastes eromenos, Bacchus
eromenon , the symbolism of the promise, to rescue her mother from hell the
role of the widow, female widow, Bacco’s duty to keep his promise. The echo of
the sentence, ‘you probably passed it’ – ‘the lake’ the grave. Colli.
Grice e Collini: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del naturismo -- naturalismo e
naturismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “If you love birds, you love Collini – he
loved ‘pterodattili,’ though and made nice drawings of them, as they fought
with ‘uomini’!” Discendente
di una nobile famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a Coira. Collini venne
descritto come scontroso, spesso in litigio. A lui si deve la descrizione dello
pterodactylus, un rettile volante, o pterosauro o pterodattilo. Denuncia il
fanatismo durante le guerre rivoluzionarie francesi in Europa. Grice: “I often wondered why the conte would flee his family seat in
lovely Tuscany for the darker landscapes of the North – till I found out the
reason: he had helped one of his noble friends (Ottavio) to do some evil-act on
a nobile gentildonna (Malspina): so he had no choice!”. Altro Italiano non
ricordato dal Lucchesini, forse perchè assai più tardi aggregato all'Accademia,
è C. Narra il Denina che, mentre ea Pisa, aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da
famglia civile di Livorno, nel ratto della marchesa Gabbriella Malaspina,
sicchè dovette fuggirsene. Dopo essersi fermato a Coira, va a Berlino
raccomandato da una signora M. (egli stesso non ne dà che l’iniziale) abitante
in Firenze, amica di famiglia e sorella della Barberina. Accolto da questa,
ormai signora Coccei, con molta benevolenza, attesea studiare, e con baldanza,
quando Voltaire venne a Berlino, si presenta a lui, che lo riceve amorevolmente
dicendogli, la Toscana è stata una nuova Atene e i toscani sono stati i nostri
maestri. Gli si raccomandò per trovare un'occupazione e n’ebbe lusinghiere
promesse. Ma il tempo scorreva e il conte ha fretta, sicchè pensa di valersi,
oltre che della ballerina, anche di una celebre cantante, l’Astrua, che gli
ottenne il posto di segretario dello stesso Voltaire. Stette con lui copiando i
suoi lavori e leggendogli la sera il Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente
con tento dell'altro. “Mon secrétaire», scrive il Voltaire al Thiriot, “est un
florentin, très-aimable, tres-bien né, et qui merite, mieux que moi, d'être de
l'Académie della Crusca. È compagno al FILOSOFO poeta anche nella sua fuga
dalla Prussia e nelle sue pe regrinazioni e vicissitudini per la Germania, la
Francia e la Svizzera. Ma nper una lettera nella quale scherzava su mad. Denis,
si separa da Voltaire, che tuttavia continua a volergli bene e a corrisponder
con lui; e sulle raccomandazioni del Voltaire passa al servizio dell'elettor
palatino, che lo fece suo bibliotecario e segretario dell'Accademia di
Mannheim. Scrive saggi sulla storia della Germania e su quella del Palatinato,
ma più ch'altro di mineralogia. È lodato anche un suo volume di Lettres sur les
Allemands, pubblicato anonimo a Mannheim, cui un altro dove seguirne sulla
letteratura tedesca. E là dove aveva trovato una seconda patria e una onorevole
residenza, mori nel 1806. All'Accademia,alla quale forse furono ascritti anche
altri Ita liani oltre quelli ricordati qui e più addietro,e cui è da aggiun
gere G. B. Morgagni (3), si riferisce questo brano di lettera del [C. stesso
nel suo Mon séjour auprès de Voltaire et Lettres inédites que m'écrivit cet
homme célèbre,ecc.,Paris,Collin, confessa la fuga dalla patria e dalla
famiglia, m a ne dà per m o tivo una giovanile vaghezza di conoscere il mondo e
gli uomini. L'esemplare tipo dell'animale ora conosciuto come Pterodactylus
antiquus è stato uno dei primi fossili di pterosauro scoperti e il primo ad
essere identificato. Il primo esemplare di Pterodactylus fu descritto dallo
scienziato italiano C., sulla base di un scheletro fossile, portato alla luce
dai calcari di Solnhofen, di Baviera. C. è il curatore della Naturalien Kabinett,
o camera delle meraviglie -- l'antenato del moderno concetto di Museo di Storia
Naturale -- nel palazzo di Carlo
Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim. Il campione è stato affidato alla
raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim, dopo essere stato
recuperato da un calcare litografico nella cava di Eichstätt, La data effettiva
della scoperta e l'ingresso del campione nella collezione è sconosciuto. Non è
stato menzionato in nessun catalogo della collezione, quindi deve essere stato
acquistato nell’anno della descrizione di C.. Ciò potrebbe rendere il fossile
il primissimo pterosauro descritto. È descritto una seconda specie chiamata
Pterodactylus micronyx -- oggi conosciuto come Aurorazhdarcho micronyx --- che
però è stata inizialmente scambiata per un fossile di crostaceo. Ricostruzione
di Wagler su uno stile di vita acquatico per Pterodactylus C., nella sua prima
descrizione del campione di Mannheim, conclude che si tratta di un animale
volante. In realtà, C. non riusciva a capire di che tipo di animale si tratta,
ma lo accosta ad uccelli e pipistrelli, per via di alcun affinità anatomiche.
Più avanti lo stesso C. ipotizzò addirittura che potesse trattarsi di un
animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su rigori scientifici ma su
una supposizione di C. che pensa che le profondità dell'oceano potevano
ospitare animali stravaganti. L'idea che gli pterosauri sono animali marini
persiste ancora in una minoranza di scienziati tra cui Wagler, che pubblica nel
suo "Anfibi", un articolo che vede gli pterosauri come animali marini
con ali disegnate come pinne, ispirandosi ai moderni pinguini. Wagler si spinse
fino a classificare lo Pterodactylus, insieme ad altri vertebrati acquatici
(come plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella classe “Gryphi”, tra uccelli
e mammiferi. Prima ricostruzione di uno pterosauro al mondo ad opera di Hermann.
È Hermann che per primo dichiara che il lungo quarto dito della mano dello
Pterodactylus vienne usato per sostenere una membrana alare. Hermann è allertato
da Cuvier dell'esistenza del fossile di C., che è stato catturato dagl’eserciti
di occupazione di Napoleone e inviato alle collezioni francesi a Parigi, come
bottino di guerra. In seguito alcuni commissari politici francesi sequestrarono
i tesori d'arte e gli oggetti di valore scientifico. Hermann in seguito invia
una lettera a Cuvier, dove vi è scritta la sua interpretazione del fossile
(anche se lui non aveva esaminato personalmente), dichiarando che l'animale
dove trattarsi di un mammifero, e invia anche una bozza di come doveva apparire
in vita l'animale. È la prima ricostruzione per uno pterosauro. Hermann disegna
l'animale con una membrana alare che si estendeva dalla fine del quarto dita
fino alle caviglie e ricoperto da pelliccia -- all'epoca il fossile non
presenta ne segni di membrana alare ne di pelliccia. Hermann nel suo schizzo
aggiunge anche una membrana tra il collo ed il polso, come quella presente oggi
nei pipistrelli. Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e su suggerimento
di Hermann, pubblica questa nuova descrizione. In uno scritto Cuvier dichiara
che non è possibile mettere in dubbio che il lungo dito serve a sostenere un
membrana che, allungandosi all'estremità anteriore di questo animale, forma una
buona ala. Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier è convinto che l'animale
fosse un rettile. In realtà l'esemplare non è stato sequestrato dai
francesi. Infatti, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile è portato a
Monaco di Baviera, dove Moll ottene un'esenzione generale della confisca per le
collezioni bavaresi. Cuvier chiede a Moll il permesso di studiare il fossile,
ma è informato che il pezzo non è trovato. Cuvier pubblicò una descrizione un
po' più a lunga, in cui l'animale vienne chiamato "Ptero-dactyle" e
confuta l'ipotesi di Blumenbach, che sostene che l'animale è un uccello
marino. Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von
Soemmerring. Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è mancata;
fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che tenne una
conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di gennaio del
1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il fatto che era
da poco stato informato della richiesta di Cuvier per informazioni. La sua
conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von Sömmerring diede alla creatura
il nome di Ornithocephalus antiquus.[23] Qui l'animale fu descritto come un
mammifero simile ad un pipistrello ma con caratteristiche da uccello. Cuvier in
disaccordo con tale descrizione, lo stesso anno fornì una lunga descrizione
nella quale ricordò che l'animale era in realtà un rettile.[24] Nel 1817 fu
rinvenuto un secondo esemplare di Pterodactylus, ancora una volta a Solnhofen.
Questo esemplare rappresentato da un giovane fu descritto nuovamente da von
Soemmerring, come Ornithocephalus brevirostris, per via del muso corto, avendo
tuttavia capito che si trattava di un esemplare più giovane (oggi si sa che
questo fossile appartiene ad un altro genere di pterosauro, probabilmente un
Ctenochasma[3]). Von Sommerring fornì anche uno schizzo dello scheletro[9] che
in seguito si rivelò essere sbagliato e impreciso, in quanto von Soemmerring
aveva scambiando il metacarpo per le ossa del braccio inferiore, il braccio
inferiore per l'omero, il braccio superiore per lo sterno e lo sterno per una
scapola.[25] Tuttavia Soemmerring rimase per sempre fedele alla sua idea dello
Pterodactylus. Lo avrebbe sempre immaginato come un animale simile ad un
pipistrello, anche se a seguito di alcune ricerche nel 1860 ammise che
l'animale era un rettile. Tuttavia l'immaginario collettivo dell'animale
rimaneva quello di una creatura quadrupede, goffa a terra, ricoperta di pelo, a
sangue caldo e con una membrana alare che si attaccava alle caviglie.[26] In
epoca moderno (2015) alcuni di questi elementi sono stati confermati, alcuni
smentiti, mentre altri rimangono ancora oggi in discussione.
Paleobiologia Classi d'età Esemplare giovane di P. antiquus Come molti
altri pterosauri (in particolare il Rhamphorhynchus), l'aspetto degli esemplari
di Pterodactylus varia a seconda dell'età e in base al livello di maturità. Le
proporzioni di entrambe le ossa degli arti, le dimensioni e la forma del cranio
e le dimensioni e il numero dei denti possono stabilire a quale classe di età
appartiene l'animale. In passato queste differenze morfologiche hanno portato a
credere che si trattassero di specie distinte con caratteristiche anatomiche
differenti. Recenti studi più dettagliati e che utilizzano nuovi metodi per
misurare le curve di crescita degli esemplari noti, hanno stabilito che in
realtà vi è un'unica specie di Pterodactylus ritenuta valida ossia, P.
antiquus.[6] Il più giovane e immaturo campione di P. antiquus (da alcuni
interpretato come facente parte di una seconda specie chiamata Pterodactylus
kochi) possiede pochi denti e i pochi che possiede hanno una base relativamente
ampia.[4] I denti di altri esemplari di P. antiquus hanno denti più stretti e
numerosi (fino a 90).[6] Tutti i campioni di Pterodactylus possono essere
suddivisi in due diverse classi di età. Nella prima classe, rientrano gli
esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 15 ai 45
millimetri di lunghezza. Nella seconda classe, invece, rientrano gli esemplari
i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 55 ai 95 millimetri di
lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due primi gruppi di dimensione erano
a loro volta classificati come giovani e adulti della specie P. kochi, fino a
che un nuovo studio ha dimostrato che anche quelli che si credevano
"adulti" erano comunque esemplari immaturi, e probabilmente
appartengono ad un genere distinto. Una terza classe è rappresentata da esemplari
specie tipo P. antiquus, così come un paio di grandi esemLplari isolati, una
volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono P. antiquus per dimensioni.
Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe mostrano anche segni di
immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente maturi di Pterodactylus
esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero essere stati
erroneamente classificati come un genere diverso.[4] Crescita e
riproduzione Bacino fossile di un grande esemplare, riferito alla dubbia
specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P. antiquus
mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus muensteri,
probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi crescevano
costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il conseguente
allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e probabilmente in
ogni stagione.[4][27] Molto probabilmente poco dopo la nascita i cuccioli erano
già in grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per la nutrizione.
Questo modello di crescita è molto simile a quello dei moderni coccodrilli,
piuttosto che alla rapida crescita dei moderni uccelli.[4] Stile di vita
Dal confronto tra gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli di moderni uccelli
e rettili si è scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile di vita diurno.
Questo coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo vedrebbe come un
predatore simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la competizione con
altri pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli sclerali sono stati
giudicati notturni, come il Ctenochasma e il Rhamphorhynchus.[28]
Paleoecologia Durante la fine del Giurassico, l'Europa era un arcipelago
asciutto e tropicale ai margini del mare Tetide. Il calcare fine, in cui gli
scheletri di Pterodactylus sono stati ritrovati, è stato formato dalla calcite
delle conchiglie e degli organismi marini. Le varie aeree tedesche dove sono
stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano lagune situate tra le
spiagge e le barriere coralline delle isole europee Giurassiche nel Mare
Tetide. I contemporanei di Pterodactylus, includono l'avialae Archaeopteryx
lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati pterosauri come
Rhamphorhynchus muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus, Aurorazhdarcho,
Ctenochasma e Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp., l'ittiosauro
Aegirosaurus, e i metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli stessi sedimenti
in cui sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus hanno riportato alla
luce anche diversi fossili di animali marini quali pesci, crostacei,
echinodermi e molluschi marini, confermando l'habitat costiero di questo
pterosauro. L'enorme biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di
Solnhofen, indica che quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando
ogni possibili nicchia ecologica disponibile.[29] Note ^ Fischer von
Waldheim, J. G. 1813. Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum
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edition, volume 1. 466 pages. ^ Schweigert, G., Ammonite biostratigraphy as a
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first results and open questions, in Neues Jahrbuch für Geologie und
Paläontologie – Abhandlungen, Bennett, S. Christopher, New information on body
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of the genus, in Paläontologische Zeitschrift. Bennett, S.C., Year-classes of
pterosaurs from the Solnhofen Limestone of Germany: Taxonomic and Systematic
Implications, in Journal of Vertebrate Paleontology, Bennett, S.C., [Soft
tissue preservation of the cranial crest of the pterosaur Germanodactylus from
Solnhofen], in Journal of Vertebrate Paleontology, Jouve, S., Description of
the skull of a Ctenochasma (Pterosauria) from the latest Jurassic of eastern
France, with a taxonomic revision of European Tithonian Pterodactyloidea], in
Journal of Vertebrate Paleontology,Frey, E., and Martill, D.M., Soft tissue
preservation in a specimen of Pterodactylus kochi (Wagner) from the Upper
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und welches Gerippe sich gegenwärtig in der Naturalien-Sammlung der königlichen
Akademie der Wissenschaften zu München befindet", Denkschriften der
königlichen bayerischen Akademie der Wissenschaften, München:
mathematisch-physikalische Classe 3: 89–158 ^ Cuvier, G. (1812). Recherches sur
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Press. Biografia Steve Parcker John Malam, Dinosauri e altre creature
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Pterosauri. Syncretism and Style Hypnerotomachia Poliphili and the
Italian Renaissance Garden. Most of the history of Western philosophy and
theology from Parmenides through H^el has attempted to resolve the inherent
contradictions between sensation and cognition, \Tsibih- ty and ideahrt'.
However, the paradoxes, antinomies, and incon- gruities that arise in this
quest f)erennially inform numerous paradigms that underUe the history of art
and ideas. This study— promenade through the landscapes and gardens, paintings
and poems that have inspired me—proposes a sketch of the implications of such
poh'semic and equivocal conventions as the\- relate to the histor)' of
landscape architectiu-e. The origin of modem European landscape architecture
vs-as contemp>oraneous with the rediscover)' of the beaut)' of nature in the
early Renaissance. In The Civilization of the Renaissance in Italy, Burckhardt
describes this paradigm shift in the perception of the external world, the
moment in which the distant Wew, the "land- scape" proper, was first
valorized: But the unmistakable proob of a deepening effect of nature on tbe
human spirit began with Dante. Not only does he awaken in us by a few \-igorous
lines the sense of the morning airs and the trembling light on the distant
ocean, or of the giandeur of the stoim-beaten torest, but he makes tbe ascent
of k)fty peaks, with the only possible obfect of en^vying the view—the first
man, peihaps, since the days of antiquity who did so.' This appreciation of
natural beauty, couched in the poetry of the sublime, was further instantiated
in the work of PETRARCA, often cited as the first humanist, indeed the first
"mod- ern" man. His relation to the landscape was intense and
manifold, poetic and practical, as he was a gardener whose favorite site of
med- itation was his own gardens at Fontaine-de-Vaucluse. He describes them in
one of his letters: I made two gardens for myself: one in the shade,
appropriate for my studies, which I called my transalpine Parnassus; it slopes
down to the river Sorgue, ending on inaccessible rocks which can only be
reached by birds. The other is closer to the house, less wild, and situated in
the middle of a rapid river. I enter it by a litde bridge leading from a
vaulted grotto, where the sun never penetrates; I believe that it resembles
that small room where CICERONE some- times went to recite; it is an invitation
to study, to which I go at noon.^ Two gardens, one for each side of his
temperament, inspired either reverie or melancholy; two gardens, one for each
extreme of nature, extensive and picturesque or protective and chthonic; two
gardens, one leading towards the empirical, the other towards the spiritual.
For PETRARCA, as for CICERONE, his predecessor in literature and garden- ing,
the landscape was a major source of inspiration, both literary and empirical;
for while these gardens evoked the great sites of clas- sic culture, they also
constituted a rudimentary botanical laboratory and collection, where Petrarch
experimented with different varieties of plants according to meteorological and
astrological conditions, geographic placement, seasonal growTih, and so forth.
He also used these gardens to amass collections of rare plants. As Gaetane
Lamarche-Vadel demonstrates in Jardins secrets de la Renaissance, such secret
gardens, "appertain to the double register of the fictive and the real,
the physical and the mystic; they echo with the adam- ic garden, the
paradigmatic place and origin from which gardens draw their spiritual
energy."^ It is precisely for this reason that the study of gardens
necessitates formal, cultural, and psychological analyses: the symbolic
significance of any garden is derived from, yet surpasses, its formal
characteristics, and can only be grasped in relation to the artistic works that
both inspired and were inspired by the site. Petrarch's most celebrated
consideration of the landscape is the description of his ascent of Mont
Ventoux, recounted in a letter to Dionisio da Borgo San Sepolcro, written in
1336. In this text, he explains the reason for this difficult ascent: "My
only motive was the wish to see what so great an elevation had to offer."4
Though inspired by literary motives—specifically, the tale in Livy's History of
Rome^zx recounts Philip of Macedon's ascent of Mount Haemus in Thessaly, with
its attendant views—the experience shifted from the literary to the sensory,
where revelation becomes visual. Indeed, the subsequent history of landscape
architecture often reveals mythical tales, literary inspirations, and pictorial
models behind the creation of gardens; here, Petrarch's visionis already
predisposed to concep- tual density by being couched in myth and history.
"At first, owing to the unaccustomed quality of the air and the effect of
the great sweep ofviewspread out before me, I stood like one dazed. I beheld
the clouds under our feet, and what I had read of Athos and Olympus seemed less
incredible as I myself witnessed the same things from a mountain of less
fame."^ The force of the poet's vision surpasses all previous literary
descriptions. Is it the poet's unique, hyperbolic sensibility, or the inherent
magnificence of nature, that is at work here? Or is there a third term that
mediates the poetic imagination and the natural world? The letter continues
with a detailed appreciation of the mul- tiplicity and uniqueness of the
natural world Petrarch witnessed, until the moment he realizes, in a flash of
intuition, that the ascent of the body must be accompanied by a concomitant
ascent of the soul. Thus, opening a copy of Augustine's Confessions he had with
him, he felicitously chanced upon the following passage: "And men go about
to wonder at the heights of the mountains, and the mighty waves of the sea, and
the wide sweep of the rivers, and the circuit of the ocean, and the revolution
of the stars, but themselves they consider not."^ This is the ironic
moment of revelation, where experience becomes allegory and visibility becomes
a metaphor for spirituality: I dosed the book, angry with myself that I should
still be admiring earthly things who might long ago have learned from even the
pagan philosophers that nothing is wonderftil but the soul, which, when great
itself, finds noth- ing great outside itself. Then, in truth, I was satisfied
that I had seen enough of the mountain; I turned my inward eye upon myself, and
from that time not a syllable fell from my lips until we reached the bottom
again. The three major realms that informed early humanist sensibility were
thus interwoven in an allegory of spiritual revelation: inspira- tion from antiquity,
sensitivity to nature, and salvation within Christianity. Certain technical,
mathematical, and financial consider- ations would be added to these
preconditions to localize and system- atize such apperceptions in the creation
of the Italian Renaissance garden. The consequent transmigration and
intercommunication of symbols and allegories would henceforth enrich all the
arts, radical- ly impelling some of them towards their modern forms.^ Within
these rubrics, the major influences on the Renaissance transformation of man's
relation to nature could be schematized as follows. The theological revolution
of Francis of Assisi redeemed nature's state of grace. His "Canticle of
Creatures"—indeed, every act of his life—expressed a mystical rela- tion
to a cosmos in which all nature was a reflection of God; thus nature itself was
the foundation of spiritual values. As Cassirer explains in The Individual and
the Cosmos in Renaissance Phibsophy, a book that will serve as a metaphysical
guide to the current study: With his new. Christian ideal of love, Francis of
Assisi broke through and rose above that dogmatic and rigid barrier between
"nature" and "spirit." Mystical sentiment tries to permeate
the entirety of existence; before it, barriers of par- ticularity and
individualization dissolve. Love no longer turns only to God, the source and
the transcendent origin of being; nor does it remain confined to the
relationship between man and man, as an immanent ethical relation- ship. It
overflows to all creatures, to the animals and plants, to the sun and the moon,
to the elements and the natural forces. In this unscholastic "nature
mysticism" we find one of the origins of Western ecological and
environmental thought. (Indeed, in 1979 Pope John Paul 11 proclaimed Francis
the patron saint of ecologists.) Yet, more immediately, he not only redeemed
the state of nature in a postlapsarian world, but praised nature—specifically
the picturesque and fertile central Italian landscape of Umbria—with a glorious
and beatific lyricism that has inspired those who would transform nature
according to human desire and volition into a new form that would become the
"humanist" garden. Yet the major paradigm at work in establishing new
ways of experiencing and re-creating the landscape did not stem from theo-
logical transformations; rather, they arose from the rediscovery of antiquity
and the consequent valorization and appropriation of pagan mythology. This
is especially the case insofar as such myths express a profound connection to
the natural world, as evidenced most notably in Ovid's Metamorphosis,
Apuleius's The Golden Ass, Virgil's Eclogues and Georgics, and the writings of
Pliny, Cicero, and Horace, with the latter's crucial notion of ut pictura
poesis. The rise of a new literary scenarization accounted for the expression
of a spe- cific sense of place within nature such that the genius A?a would
once again have a voice, as in Dante's Inferno, Boccaccio's Decameron
(describing the Villa Palmieri near Florence), Erasmus's Convivium religiosum,
and especially in Petrarch, for whom, as Cassirer notes: "The lyrical mood
does not see in nature the opposite of physical reality; rather it feels
everywhere in nature the traces and the echo of the soul. For Petrarch,
landscape becomes the living mirror of the Ego."^° If one were to
formulate this sensibility in relation to the his- tory of landscape
architecture, it might be said that the new form of garden is no longer
delimited by either cloister walls or restricted cosmological symbolism (the
latter allegorically corresponding to the medieval hortus conclusus, or closed
garden), but rather by the limits of the imagination responding to the very act
of human per- ception. Rather than serving as a static allegorical form, the
garden reveals the dynamic, creative relation between humanity and nature. The
view shifts from the interior (the cloister, the soul) to the exte- rior,
encompassing not only the ambient scene, but also distant views; space is no
longer treated as metaphoric, but is revealed in its localized and
particularized reality. Nature incarnate, in its vast mul- tiplicity, offers
sites of pleasure and wonder, terror and awe—prefig- uring the fiiture
aesthetic distinctions of the picturesque, the beau- tifiil, and the sublime.
Coincident with this new sensibility was the development of a system of
pictorial representation—the quattrocento rediscovery and refinement of linear
perspective—that both drew upon and informed the multifarious Renaissance modes
of appreciating the landscape." The intersection of mathematics,
technology, and aes- thetics in perspectival representations constitutes a
major structure that articulates the reciprocal influences between landscape,
garden, literature, and painting, one that marlcs the subsequent history of
landscape architecture. Here, the varied and often incompatible beauties
(ancient and modern) of nature and painting interacted and enriched each
other's iconographies. Specifically, three works of Leon Battista Alberti
(1404-72) codified the intricate interrelations between perspective and vision,
pictorial representation and landscape architecture: Delgoverno delta famiglia
(c. 1430), a treatise on family life that celebrated the advan- tages of
country living, thus instilling a taste for gardens and the landscape; Delia
pittura (1436), which codified the system of linear perspective; and De re
aedificatoria (1452), which, in establishing "rational" architectural
rules based on ancient models (notably Vitruvius), necessarily dealt with the
question of gardens and sites, with a particular attention to and fondness for
the Italian land- scape.^^ For Alberti, the most important aspect of choosing a
build- ing site was a sloping terrain with open perspectives from which the
countryside could be seen. Though the view into the garden was protected by
enclosures, the slope of the terrain established views of the distant
landscape. Furthermore, the garden was conceived in direct relationship with
the villa as a sort of prolongation of the architecture, thus bringing the
outdoors in, all the while linking the cultivated garden with the wild spaces
beyond to establish an archi- tectonic continuity between the natural and the
human realms. Such strategies, both structural and narrative, offer a dynamic,
com- plex synthesis linking the constructed, geometrized spaces of habita-
tions with the non-geometric, organic realms of the natural world. Alberti's
text proffers many of the characteristics of the humanist gardens of the
Italian Renaissance:'^ the use of perspective in the deployment of objects and
space, grottos and the "secret garden," symmetrical plantings,
groves, clipped and sculpted plants (topiary and espalier), architectural
details, and statues of mytho- logical figures as invocations of ancient
culture, surprise effects caused by both perspectival and technical means, and
especially the myriad uses of water—fountains, pools, canals, panerres,
troughs, water staircases and theaters, hydraulic organs and automata, even
artificial rain and water jokes {giochi d'acqua). It was through the use of
water that both illusion and motion were introduced into land- scaf)e
architecture, creating the sort of instability, surprise, and evanescence that
would become central to the baroque sensibility, with its taste for motion,
dematerialization, dissimulation, and contradiction.'** This irmiijdng of
artifice, theatricality, and nature was well expressed in that epoch by the
sixteenth-century philosopher JacofK) Bonfadio, influenced by Petrarch: "I
have done much that nature, combined with an, has turned into artifice. From
the two has emerged a 'third nature,' to which I can give no name."'' Such
a "third nature" might well be a synonym of the garden itself, for
how- ever "natural" a garden may be (as in the ideal of the
eighteenth-cen- tury EngUsh garden, where the desire to dissimulate all
artifice estab- hshed a simulacrum of wild nature), its forms always evince
aesthetic, even painterly, paradigms (even true for the notion of "vir-
gin" nanire in the North American landscape, as will be explored in a
subsequent chapter). Yet this "third nature" is never a purely for-
mal artifact: it is always enmeshed in both philosophical and narra- tive
systems, as exemplified by Petrarch's appreciation of the land- scape.
Henceforth, the history of landscape architecture will entail the intertwining
and hybrid histories of poetry, literature, philoso- phy, painting, sculpnire,
architecture, surveying, hydrauhcs, and botany. In order to grasp the
conceptual and cultural systems that influenced the sensibilities, as well as
the forms, that underlie the Italian Renaissance humanist garden, a synopsis of
the philosophical trajectory of the Platonic ACCADEMIA of Florence, found- ed
by FICINO under the auspices of the Medici, is in order. The principal
foundational tenets of Renaissance ontology and epis- temology were expressed
by Nicholas Cusanus in De docta ignorantia, the initial systematic
philosophical study that began to modify the relatively rigid and often
dogmatic closure and hairsplitting of medieval scholasticism. According to
medieval thought, the closed, ordered, hierarchical universe, that "great
chain of being" of ecclesiastic Aristotelianism, was one with a moral and
religious systemof judgment and salvation in which the role of epis- temology
was a ftmction of man's limited place in that system.'^ Though Cusanus's
writings never called the theological foundation of this system into question,
they did entail a radical epistemologi- cal shift, insofar as the relation
between absolute divinity and finite humanity was no longer taken as
dogmatically posited, but was rather analyzed according to human limitations.
This revision of the ontological ratio between the absolute and the empirical
implies an indeterminable conceptual relation to infinity. Cusanus's key
princi- ple—expanding on certain nominalist analyses—is that there exists no
possible proportion between the finite and the infinite, thus loos- ening the
bond that had held together scholastic theology and logic within a homogeneous
system. As a result of this separation of realms (human from divine, relative
from absolute infinity), the syl- logistics of speculative theology and
metaphysics would henceforth become disciplines distinct from logic and
mathematics, prefiguring the materialistic quest for a universal
systematization of knowledge that culminated in the ideal of the Cartesian
mathesis universalis. The amor Dei intellecttmlis (the intellectual component
of the love of God, prefiguring the notion of "Platonic love" that
inspired the neoplatonism of the Florentine Academy) established a new mystical
theology. Yet, by strictly delimiting such mysticism to its proper the-
ological domain—the ultimately unknowable realm of the dens absconditus, the
hidden god—the ftiture development of the worldly sciences would not be
impeded. Theology and mathematics would henceforth proffer incompatible yet
complementary worldviews. Central to this speculation is the principle of the docta
ignorantia, a "learned ignorance" based not on passive mystical con-
templation but on active mathematical thought, revealing the unknowable nature
of divinity, which can only be expressed in con- tradiction and antithesis.
This results from the unfathomable nature of God, such that the maximal
ontological conditions of existence are constituted by a qualitative, not a
quantitative, determination whence the cognitive paradoxes that result from all
intellectual attempts to resolve the divine mysteries. All human thought oper-
ates according to finite determinations, generating predicable and measurable
differences; yet beyond any given determination, an absolute term can always be
postulated, even if it is not deter- minable. However, between the finite and
the infinite there is no common term, thus no possible predication. This is a
metaphysics of maximal contradiction, of complicatio, not explicatio. The
infini- ty of the godhead is unpredicable and inexpressible. Whence the
necessity of differentiating between the infinite and the indefinite, wherein
the mutually exclusive relation between the ideal, uncondi- tioned,
indeterminable realm of the divine and the empirical, con- ditioned,
determinable realm of the human. Where the axiomatic knowledge of mathematics
fails, the limits of comprehensibility end, and the realm of negative theology
begins. Knowledge, for Cusanus, was the progression of thought towards its
incomprehensible limits, in the attempt to understand the fundamental
ontological contradictions of existence. Whence the notion of the coincidentia
oppositorum, the coincidence of oppo- sites—the very form of such
ignorance—which is the outcome of this new metaphysical speculation, revealing
the limits of the ancient philosophical dichotomy of immanence and
transcendence, thought and being. The infinity of the godhead is indeterminable
yet appar- ent to human knowledge precisely in terms of our "learned igno-
rance," which evolves an intuition of what surpasses the limits of human
cognition. As Karl Jaspers explains: "Speculative thinking must remain the
thinking of the unthinkable, it must preserve an unresolvable tension. The
fundamental concept remains paradoxi- cal."'7 Thus the docta ignorantia
establishes a worldly, human domain of knowledge, apart from theological
speculation, differen- tiating the calculable and operable mathematical
infinity from the impenetrable infinity of God. Here, knowledge becomes an
active function of the dynamics of attempting to connect the impercepti- ble
universal to the sensible particular, with its attendant concrete
symbolizations. Not only did this system offer a foundation for modern science
and mathematical speculation, but it also estab- lished the grounds for a new,
"rationalized" aesthetics, as explained by Cassirer: The De docta
ignorantia had begun with the proposition that all knowledge is definable as
measurement. Accordingly, it had established as the medium of knowledge the
concept of proportion, which contains within it, as a condi- tion, the possibility
of measurement. Comparativa est omnis inquisitio, medio proportionis uteris.
But proportion is not just a logical-mathematical concept: it is also a basic
concept of aesthetics Thus, the speculative-philosophical, the
technical-mathematical, and the artistic tendencies of the period converge in
the concept of proportion. And this convergence makes the problem of form one
of the central problems of Renaissance culture.'^ In the arts, this is most
apparent in the relation between theory and practice in Leonardo da Vinci and
Leon Battista Alberti, the latter of whom had direct links with Cusanus,
utilizing Cusanus's specula- tions in his own work. Yet while Cusanus was
mainly preoccupied with mathematical and cosmological issues, the philosophers
of the Platonic Academy of Florence were especially concerned with the role of
beauty as a spiritual value and so extended his studies into other realms.
Following Cusanus, beauty was deemed an objective value determined by measure,
proportion, and harmony. Beauty might exist as an intelligible sign of God, but
it is gauged according to human proportions, values, and limits. A year before
his death, Cosimo de Medici wrote, in a letter to Ficino. "Yesterday I
arrived at my Villa Carreggi, not to cultivate the fields, but my soul.
"'9 This sentiment—where inner and outer nature exist in reciprocal
symbolic resonance—was fully in accord with Ficinos philosophical temperament,
as it was in the Medici's Villa Carreggi in Florence where Ficino founded his
famed Academy. Here, the gardens provided a site of retreat. inspiration,
meditation, and discourse, while the villa ofifered a ver- itable compendium of
the arts, with its library, music room, and gal- leries of artworks. This would
suggest not only that nature and its aesthetic simulacrum, the garden, played a
major role in Ficino's philosophy, but also that a consideration of his
philosophical system might bear upon our understanding of the landscape and
develop- ments in landscape architecture of the period. On the basis of an
expanded model of the principle of the coincidence of opposites, Ficino
demonstrated the central place of man in the universe. In his cosmology, the
soul is the privileged midpoint between the intellectual and the sensible
world, mediating the higher and lower realms, dynamically embracing the
universe through the process of knowing and self-determination. The soul is the
means by which the universe reflects upon itself through a dynamic unity, as
opposed to the static hierarchy posited by scholas- ticism. Whence the new
status of the dignity of man, who is seen (following Plato's tripartite
schematization of the soul) to share attributes with both the lower and the
higher beings, midway between the cosmic mind and the cosmic soul above, and
the realms of nature and of pure, formless matter below. As the terms of this
hierarchy are emanations of God (following Plotinus's mystical read- ing of
Plato, and hardly distant, either intellectually or geographi- cally, from
Saint Francis's nature mysticism), all cosmic zones par- ticipate in, and
somehow symbolize, divine creation. All realms of existence are therefore
interconnected, and the cohesion of the cos- mos is reflected in the microcosm
of human intelligence. As Cassirer writes of a Ficino dialogue between God and
the soul: God says: "I fill and penetrate and contain heaven and earth; I
fill and am not filled because I am fullness itself. I penetrate and am not
penetrated, because I am the power of penetration. I contain and am not
contained, because I myself am the faculty of containing." But all these
predicates claimed by the divinity are now equally attributable to the human
soul}° As such, fact becomes truth, and the world becomes meaningful, through
the ^rf of cognition; symbols can be effectively derived from all facts,
objects, and events; thought is liberated to become a cre- ative, and not
merely reflective, activity. Inspired by the theory of love developed in
Plato's Symposium and Phaedrus, Ficino places mystical love (in a manner very
differ- ent from that of Saint Francis's more immediately sensual and intu-
itive mysticism) at the center of his system, as a cosmological, and not a
psychological, principle. Erwin Panofsky elaborates: Love is the motive power
which causes God—or rather by which God caus- es Himself—to effuse His essence
into the world, and which, inversely, caus- es His creatures to seek reunion
with Him. According to Ficino, amor is only another name for that
self-reverting current {circuitus spiritualise from God to the world and from
the world to God. The loving individual inserts himself into this mystical
circuit.^' Whence the much misunderstood notion of ;he highest form of love,
"Platonic love," that "divine madness" which is the source
of poetic inspiration and genius as introduced by Plato, enriched by Plotinus,
Augustine, and the twelfth-century Neoplatonists, and transformed by Ficino.
Such love entails a desire guided by cogni- tion, which seeks as its ultimate
goal the beauty diffused throughout the universe. The contradictory and
oppositional totality of love is symbolized by the two Venuses, celestial and
natural, representing sacred and profane love: beauty as supercelestial,
intelligible, and immaterial, and beauty as particularized and perceptible in
the cor- poreal world.^^ Within this context, three sorts of love are possible:
amor divinus (divine love, ruled by the intellect), amor humanus (human love,
ruled by all the other faculties of the soul), and amor ferinus (bestial love,
which is tantamount to insanity). Love is the factor that mediates the higher
and lower worlds, transcendence and immanence, cognition and perception.
Cassirer stresses the import of this theory for an incipient humanism: This
contradictory nature of Eros constitutes the truly active moment of the
Platonic cosmos. A dynamic motif penetrates the static complex of the uni-
verse. The world of appearance and the world of love no longer stand simply
opposed to each other; rather, the appearance itself "strives" for
the idea.^' Love is both psychological and theological, human and divine, con-
templative and active, intellectual and passional; it achieves a central
epistemological status due to its vast, synthesizing function; it is
ontologically all-encompassing precisely because of its profoundly paradoxical
nature—a complex scenario that will be dramatized, in a manner crucial to the
subsequent history of landscape architecture, in Francesco Colonnas
Hypnerotomachia Poliphili, discussed later in this chapter. In this context,
the entirety of creation is an emanation of God, therefore the realm of nature
is no longer deemed evil, for only nonbeing is evil. Panofsky: Thus the Realm
of Nature, so full of vigour and beauty as a manifestation of the "divine
influence," when contrasted with the shapelessness and lifelessness of
sheer matter, is, at the same time, a place of unending struggle, ugliness and
distress, when contrasted with the celestial, let alone the super-celestial
world.^ The human soul is the site of the reflection and expression, if not
quite the resolution or synthesis, of these universal antinomies and
oppositions. The spiritual is present in the natural world, such that, a
fortiori, nature offers itself for human expression in terms of what Panofsky
terms zpaysage moralise {moraliTjed landscape). As such, the- ological and
cosmological symbolism is not at all obviated by the real- ism and
perspectivalism of quattrocento art. Quite to the contrary, it offers a
supplemental semiotic layer to imagery and allegory, adding the realm of
"perspective as symbolic form," as Panofsky stated it, to previous
symbolic systems. In fact, within this theological cosmology, all symbols and
objects are simultaneously moralized and humanized. This transformation of
vision and knowledge holds great promise for the arts, and especially for
landscape architecture, insofar as the benevolence of the natural world is now
theorized as a modality of divine love, and thus connected to what will later
be subsumed under the rubric of the sublime through the human act of
contemplation. In this theory of Platonic love, the artists of the Renaissance
found a system that expressed their most profound aesthetic con- cerns, notably
that the eternal values of beauty and harmony they sought need be expressed
through material forms. Thus the artist is necessarily a mediator of the
spiritual and the sensible realms. The very nature of artistic creativity, in
all its complexity, paradox, and multiplicity, was expressed therein. Cassirer
delineates what is aes- thetically at stake: The enigmatic double nature of the
artist, his dedication to the world of sen- sible appearance and his constant
reaching and striving beyond it, now seemed to be comprehended, and through
this comprehension really justified for the first time. The theodicy of the
world given by Ficino in his doctrine of Eros had, at the same time, become the
true theodicy of art. For the task of the artist, precisely like that of Eros,
is always to join things that are sepa- rate and opposed. He seeks the "invisible"
in the "visible," the "intelligible" in the
"sensible." Although his intuition and his art are determined by his
vision of the pure form, he only truly possesses this pure form if he succeeds
in realizing it in matter. The artist feels this tension, this polar opposition
of the ^5 elements of being more deeply than anyone else. This new metaphysics
of art was in great part based upon the notion of the representable order of
nature. The subsequent imaging of the world became a function of the profound
affinities between mathe- matical research and aesthetic production, insofar as
they both share a sense of form, based on the newly representable order of the
cos- mos. Cassirer: "For now, the mathematical idea, the a priori' of pro-
portion and of harmony, constitutes the common principle of empirical reality
and of artistic beauty. "^^ And as Cassirer insists, regarding the primacy
of form in the Renaissance poetry of writers such as Dante and Petrarch, such
lyricism does not express a preex- istent reality with a standard form, but
creates a new inner reality by giving it a new form: "stylistics becomes
the model and guide for the theory of categories."^'' This claim may be
generalized for the textu- al arts (philosophy, rhetoric, and dialectics) and
extrapolated for the visual arts. It was, indeed, a model for the new nature of
thought, where style is not a formal effect bounded by the limitations of sheer
representation, but rather where representation itself is a creative act.
Within this context, the garden would no longer be conceived as merely a
microcosmic or Edenic symbol, nor as a theological alle- gory of the body of
the Virgin. In a sense, every theory of the micro- cosm is a theory of mimesis,
of levels of representation. Henceforth, there would be a reciprocal
relationship between the mimetic activ- ity of art and the perception of
nature, such that, concurrently, art would attempt to represent nature, and
nature would be seen according to the work of art. Consequently, mimesis would
play a decreasing metaphysical role in the light of the new theories of human
creativity and productivity. Mediating this reciprocity, the garden would be a
"third nature," simultaneously patterned upon the idealizations of
art and reinventing the way that the landscape was experienced. This aes-
thetic was summed up by Giordano Bruno in Eroicifuroi: "Rules are not the
source of poetry, but poetry is the source of rules, and there are as many
rules as there are real poets. "^^ "Nature" had always been, and
would always be, invented. But now, the verity of this perpetual reinvention,
its cultural inexorability, was recognized and thematized as a function of
artistic creativity. The ultimate extrapolation of this mode of philosophical
specula- tion was achieved by Giovanni Pico della Mirandola (1463-94), a
disciple of Ficino who joined the Florentine Academy a quarter of a century
after its inception. ^9 Xhe radical aspect of Pico's thought was the reversal
of the relation between being and becoming or acting in the cosmic hierarchy,
aproblem predicated on the role of freedom. In the scholastic universe, every
being, including the human being, had a fixed place in the cosmic hierarchy;
the sphere of human voli- tion and cognition was strictly delimited and
conditioned. For Ficino, to the contrary, though man's role in the universe was
to rec- ognize and celebrate the entirety of creation, human difference and
dignity consisted in man's role as a metaphysical mediator between the higher
and lower realms. Pico radicalized and potentialized this mediative role by
positing the entirety of the cosmic hierarchy as man's proper place. Thus man,
endowed with no essential particu- larities, no longer had a fixed place in the
cosmic hierarchy: the placement of each person within the cosmos was a function
of indi- vidual activity, so that man could degenerate towards the beasts or
ascend towards God, according to the value of his acts. Human nature consisted
precisely in not having a predefined nature or form. In this
proto-existentialist philosophy, man's being is defined as becoming; man's
essence is constituted by the unique trajectory of each individual existence.
In this system, where existence precedes essence, coincide the roots of both
Pascalian anguish and existential optimism; the origins of both a theological
anxiety at the eclipse of God and the joys of a radical liberation of the human
soul. Though the system still operated within a Christian ethos, it established
the preconditions for a secular realm of thought. This openness towards the
world implied that human volition and knowledge must traverse the entire cosmos
in order to achieve individual spiritual fiilfillment. As Pico wrote,
concerning the creation of man, in his Oration on the Dignity ofMan, At last
the best of artisans ordained that that creature to whom He had been able to
give nothing proper to himself should have joint possession of what- ever had
been peculiar to each of the different kinds of being. He therefore took man as
a creature of indeterminate nature and, assigning him a place in the middle of
the world, addressed him thus: "Neither a fixed abode nor a form that is
thine alone nor any function peculiar to thyself have we given thee, Adam, to
the end that according to thy longing and according to thy judgment thou mayest
have and possess what abode, what form, and what functions thou thyself shalt
desire. The nature of all other beings is limited and constrained within the
bounds of the laws prescribed by Us. Thou, con- strained by no limits, in
accordance with thine own free will, in whose hand We have placed thee, shall
ordain for thyself the limits of thy nature. We have set thee at the worlds
center that thou mayest from thence more easily observe whatever is in the
world. We have made thee neither of heaven nor of earth, neither mortal nor
immortal, so that with freedom of choice and with honor, as though the maker
and molder of thyself, thou mayest fashion thyself in whatever shape thou shalt
prefer. Thou shalt have the power to degenerate into the lower forms of life,
which are brutish. Thou shalt have the power, out of thy soul's judgment, to be
reborn into the higher forms, which "'° This self-transforming,
metamorphosing nature is ever-changing, establishing no fixed form. In the
aesthetic realm, Pico's theory of total potentiality and mutability justified a
renaissance of artistic cre- ativity, with a newfound juxtaposition and
inmixing of forms, styles, and symbols. This metaphysics of action and
creativity is at the ori- gin of an aesthetic lineage leading to the baroque
and culminating in romanticism. It is interesting to note that Pico's
philosophy was dramatized by the Spanish humanist Juan Luis Vives (1492-540) in
Fabula de homine (c. 1518), where the full mimetic powers of protean man are
acted out on the stage of the Roman gods. After imitating the gamut of natural
forms, man achieves a quasi-apotheosis: "The gods were not expecting to
see him in more shapes when, behold, he was made into one of their own race,
surpassing the nature of man and relying entirely upon a very wise mind Man,
just as he had watched the plays with the highest gods, now reclined with them
at the banquet."^' But this theatricality did not end with the allegori-
cal staging of theology in a mythical setting; Vives also considered the
implications of this apotheosis, entailing newfound powers of human creativity
in relation to the observation of the natural world, claiming, all that is
wanted is a certain power of observation. So he will observe the nature of
things in the heavens in cloudy and clear weather, in the plains, in the
mountains, in the woods. Hence he will seek out and get to know many things
about those who inhabit such spots. Let him have recourse to garden- ers,
husbandmen, shepherds and hunters ... for no man can possibly make all
observations without help in such a multitude and variety of directions.'^ This
protean ontology was not lost on the natural sciences. The specificity of
landscape would be determined with increasing preci- sion following the development
of the new sciences of geography, astronomy, meteorology, botany, zoology,
etcetera; furthermore, the physical sciences would increasingly serve the arts,
with all their the- ological and metaphysical symbolism, however archaic or
obscure. Already in this epoch, the hortus conclusus, the enclosed clois- ter
gardens of the medieval monasteries, gave way to the secret gar- dens of the
Renaissance, and later to the more systematically orga- nized botanic gardens,
initiated in Venice in the fifteenth and sixteenth centuries, with their
increasingly open collections of in- digenous and exotic plants. When the first
public botanic garden was created in Padua in 1545, the secret garden gave way
to the pub- lic garden. As explained by Gaetane Lamarche-Vadel, The secret
garden henceforth became a laboratory of minutious observations of all the
states of plants' growth, of their reactions to the seasons, climates, and
adoptive soils. Petrarch already gave himself over to such scrupulous
experimentations and annotations in his gardens at Vaucluse, The attempts at
transplanting pursued a century later accelerated and changed in scale: the ''
exchanges were no longer local but intercontinental. Unknown roots from the New
World arrived to be planted in the ancient earth of the Old World; new names of
plants abounded; exotic herbs, spices, and produce transformed cuisine; old
maladies found cures; the eye received novel pleasures. What arrived to incite
mystery and wonder slowly gave way to knowledge and order: the notion of the
world as a closed microcosm was replaced by the con- cept of an infinite
universe, open to sensory observation and increas- ingly rational
classification. Each new botanical discovery demand- ed a place on the cosmic
great chain of being; as the examples became more and more numerous, and less
and less coherent with the previously contrived system of botanic knowledge,
the old cate- gories became insufficient to the task, forcing both a new system
of classification and ultimately an entirely new conception of the cos- mos
(coherent with analogous discoveries in the other sciences, notably those of
the great Copernican and Galilean astronomical revolutions). Under the stress
of an increasingly heterogeneous empirical field of objects collected, beginning
in the fifteenth centu- ry, from the corners of the earth—including all the
orders: animal, vegetable, mineral—the old system of classes was subverted and
transformed. These objects decorated both cabinets of curiosity and gardens
(living, outdoor cabinets of curiosity), radically transform- ing the order of
nature—including the aestheticized reordering of nature that is the garden—in a
scenario of hybridization beyond any adequately totalizing knowledge. Hybrid
species gave rise to hybrid thoughts. However, as this process of
demythification was a slow one (evolving over the centuries), each epoch bore a
particular ratio of the inmixing of myth and science—a ratio that would remain
crucial to all aesthetic representations and transformations of the landscape.
Ficino's notion that all of creation is divine and beautiful opened the way for
the historicizing of knowledge, which is one of the key tenets of humanist
thought, no longer restricted to the Christian limitations of scholastic
scholarship. For if all cosmologi- cal levels of the universe participate in
divine goodness and beauty, then by extension all historical moments of thought
participate, albeit partially, in universal truth. The result was a new
syncretism, most immediately effected by Ficino in a reconciliation of Platonic
and Aristotelian systems, but also extending to the positive recon- sideration
of such thinkers as Plato, Moses, Zoroaster, Hermes Trismegistos, Orpheus,
Pythagoras, Virgil, and Plotinus. Further- more, the implications of this
intellectual openness and mobility were vast for both philosophical historicism
and a theory of natural religion: the fact that consciousness must survey the
entirety of the universe implied the necessity of discerning the truth value of
every system of thought. Christian or otherwise, insofar as they all partake of
a vaster universal truth. Pico's syncretism was even greater than that of
Ficino, including not only Ficino's sources but also the Greek, Latin, and
Arabic commentators of Aristotle, as well as the Jewish Cabalists. Furthermore,
and crucial for modern hermeneu- tics, Pico went beyond the medieval scheme of
interpreting scripture at four different levels—literal, allegorical, moral,
and anagogical according to a hermeneutic centered on the master narrative of
the Bible. Rather, he argued for a multiplicity of meanings to scripture, as
heterogeneous and polyvalent as the complexity of the universe to which they
pertained. In Pagan Mysteries of the Renaissance, Edgar Wind discusses the
implications of Pico's conceptual revolution for art and aesthetics. The notion
of the deus absconditus, the hidden God, implies that no single symbolization
of God can be adequate, for God is fundamen- tally nonrepresentable. Witness
Cusanus's discussion, in De docta ignorantia, of the many names of the pagan
gods: All these names are but the unfolding of the one ineffable name, and in
so far as the name truly belonging to God is infinite, it embraces innumerable
such names derived from particular perfections. Hence the unfolding of the
divine name is multiple, and always capable of increase, and each single name
is related to the true and ineffable name as the finite is related to the
infinite.^'* As Wind suggests, "Poetic pluralism is the necessary
corollary to the radical mysticism of the One."^^ This polytheistic, or at
least poly- morphic, vision of the deity achieved the reconciliation of
theologi- cal opposites in the hidden God, necessitating an application of the
intellectual syncretisms of Ficino and Pico. Yet those irreconcilable
opposites, w^hich previously could only have been united within God, could now
be provisionally reconciled in human conscious- ness. But insofar as this
central theological doctrine could only be stated in the form of a paradox, its
manifold expressions, whether conceptual, symbolic, pictorial, or ornamental,
needed to share the conceptual and ontologicaJ equivocation of its foundation.
This would be the source of a new iconographic richness in the arts. Pico was
intimately familiar with the ancient pagan mystery religions being rediscovered
during his time, as well as with the role of initiation in the acquisition of
knowledge; indeed, he had planned to write a book on the subject entitled
Poetica theobgia. He discerned the various formal levels of these
mysteries—ritualistic, figurative, and magical—all of which were continuously
intermin- gled during the Renaissance. Within these systems, truth was always
hidden, to be revealed only to the initiated through hieroglyphs, fables, and myths.
The dissimulation of truth was a protection against profanation; revelation was
thus a function of disguise, dis- simulation, concealment, equivocation, and
ambiguity. Wind's analysis of the much-admired Renaissance maxim, ^^- tina
lente (make haste slowly), which originated in Aulus Gellius's Nodes Atticae
(Attic Nights), is a concrete case in point. This oxy- moron simultaneously
sums up, at a poetic level of understanding, the metaphysical principle of
divine totalization, the epistemological principle of the limits of human
comprehension, and a certain eth- ical principle for regulating one's earthly
existence. Here, the meta- physical is reduced to representable (and thus
apparently compre- hensible) oxymoronic hieroglyphs or emblems—such as a dolphin
around an anchor, a butterfly on a crab, an eagle and a lamb, and countless
others—all intended, "to signify the rule of life that ripeness is
achieved by a grovi^ih of strength in which quickness and "^*^ steadiness
are equally developed. Metaphysics is thus expressed in the realm of popular
imagery by reducing philosophy to the emblematic. The result of this reduction
of the cognitive to imagery is that while aesthetics always implies a
metaphysics, metaphysics is no longer the prime guarantor of aesthetics. This
is apparent, for example, in a seminal^'' book in the his- tory of Western
gardens, Francesco Colonna's Hypnerotomachia Poliphili (The Strife of Love in a
Dream). Here numerous versions oifestina lente are illustrated; each one
provides a unique nuance to the idea, specifically attuned to the demands of
the narrative. As Wind explains, these emblems in fact serve as part of the
initiatory mechanism of the allegory. The plan of the novel, so often quoted
and so little read, is to "initiate" the soul into its own secret
destiny—the final union of Love and Death, for which Hypneros (the sleeping
i,rosfuneraire) served as a poetic image. The way leads through a series of
bitter-sweet progressions where the very first steps already foreshadow the ultimate
mystery oi Adonia, which is the sacred mar- riage of Pleasure and Pain.^^ The
coincidence of opposites is revealed through sundry conjunc- tions, such that
not only the marvels and miracles of the world, but also its most commonplace
objects, reveal human destiny. Needless to say, if basic imagery is thus
manipulated, the most complex forms of expression—the arts, including landscape
architecture—^will bear witness to similar metaphysical formations and
deformations. These techniques lead to the realm ofwhat, as Cassirer reminds
us, Goethe referred to as an "exact sensible fantasy,"^^ where
science, nature, and art coalesce in an empirical realm that utilizes its own
standards, paradigms, and forms; where abstraction and vision merge; and where
fantasy and theory, literature and metaphysics, share a com- mon ground of
expression. If poetry and images were but a veil upon the truth, they nev-
ertheless offered an alternate entry into the theological system, a means of
circumventing the obvious social restrictions of a more the- ological approach.
This syncretism was reciprocal: "An element of doctrine was thus imparted
to classical myths, and an element of poetry to canonical doctrines. "'^°
Thus there obtained a hybridization of elements within imagery; theological
connotations were granted to secular figures, and, conversely, sacred scenes
evinced secular and contemporary truths. What Wind termed a "transference
of types''"^' was in fact more than a stylistic feature of Renaissance
art; it estab- lished an epistemological overture that indicated the
metaphysical foundations of a major lineage of subsequent art and aesthetics.
This syncretism was not lost on the arts. Though earlier hybrid works were
evident in both pastoral dramas and mystery plays, the first Gesamtkunstwerk
proper, in the contemporary sense of the term, was the opera, developed at the
end of the sixteenth century, with the appearance of Peri's Euridice created in
Florence in 1600, and Monteverdi's Orfeo created in Mantua in 1607. Monteverdi
utilized all the resources of the art, ancient or new. This distinc- tion
between old and new, most honored around 1600, held little value for him. Thus
on every page one finds archaic connections of tunes, traditional procedures of
writing and orchestration, as well as modulations, dissonances, enharmonics,
and chromaticisms engendered by tonality, by Greek metrics, and by the
rhythmics of declamation. But what pertained uniquely to Monteverdi was his
knowledge of gauging, choosing, blending, and ordering all these elements to
create a moving and animated work with great lyrical inspiration."*^
Beginning with Orfeo, Monteverdi established a musical synthesis of court airs,
madrigals, recitative, canzone, and arioso; this entailed a corresponding
scenographic synthesis of the varied arts. As the Cartesian mathesis
universalis sought the synthesis of the sciences in a unified theory, so would
the opera syncretize the arts on the spatially homogeneous, but stylistically
heterogeneous, stage of baroque drama. And yet, structurally speaking, it might
be argued that the humanist garden of the Italian Renaissance is the major
precursor of the totalizing artwork, insofar as it already served as the
ground, synthesis, and scenarization of all the other arts. “Hypnerotomachia
Poliphili” of Colonna was published in Venice in 1499."^^ The tale
consists of the phantas- mic quest of Poliphilus, presented as an initiatory
erotic drama couched in the form of a dream, recounting the protagonist's expe-
riences and tribulations as he searches for his beloved Polia. Beginning in the
anguishing soHtude of a wild, dark, labyrinthine forest, he finally emerges, by
invoking divine guidance, into a beau- tiful, sunny landscape of absolute
perfection. Here he discovers a world filled with gardens and palaces,
containing enigmatic and emblematic monumental sculptures and ruins
representing the arts of the ancient cultures of Egypt, Greece, and Rome, such
as pyra- mids, obelisks, and temples, all evincing a perfection lost in the con-
temporary epoch. The archaic is brought into the service of the arcane. The
allegory then thickens as Poliphilus continues his Neoplatonic quest towards
love and truth, encountering five girls representing the five senses, a queen
symbolizing free will, and final- ly two young women symbolizing reason and
volition. After visiting the palace, guided by the latter two women, he is
taken to the three palace gardens, which are ultimate expressions of human
artifice: gardens of glass, silk, and gold. This passage is worth quoting at
length, as the descriptions of gardens in the Hypnerotomachia Poliphili are of
inestimable importance in the subsequent history, imaginary and practical, of
landscape architecture. When we arrived at the enclosure of orange trees,
Logistic said to me: "Poliphilus, you have already seen many singular
things, but there are four more no less singular that you must see." Then
she led me to the left of the palace, to a beautiful orchard as large in
circumference as the entire dwelling where the queen made her residence. Around
it, all along the walls, there were parterres planted in cases, intermixing
box-trees and cypresses, that is to say a cypress between two box-trees, with
trunks and branches of pure gold, and leaves of glass so perfectly imitated
that they could have been taken for nat- ural. The box-trees were topped with
spheres one foot high, and the cypress- es with points twice as high. There
were also plants and flowers imitated in glass, in many colors, forms and
types, all resembling natural ones. The planks of the cases were, as an
enclosure, surrounded with slides of glass, gild- ed and painted with
beautifiil scenes. The borders were two inches wide, trimmed with gold molding
on top and bottom, and the corners were cov- ered with small bevels of golden
leaves. The garden was enclosed with pro- truding columns made of glass
imitating jasper, encircled by plants called bindweed or morning glory with
white flowers similar to small bells, all in relief and of the same colored glass
modeled after nature. These columns rested against squared and ribbed pillars
of gold, sup- porting the arcs of the vaulting made of the same material.
Underneath, it was trimmed with glass rhombuses or lozenges, placed between two
moldings. Upon the capitals of the protruding columns were placed the
architrave, the frieze, and the cornice in glass, figures in jasper, as well as
the moldings around it, golden rhombuses with polished and hammered foliage,
such that the rhombuses were a third as wide as the thickness of the vaulting.
The ground plan and the parterre of the garden were made of compartments
composed of knotwork and other graceftil figures, mottled with plants and
flowers of glass with the luster of precious stones. For there was nothing nat-
ural, yet there existed, nevertheless, an odor that was pleasant, fresh and
fit- ting the nature of the plants that were represented, thanks to some
compound with which they were rubbed. I long gazed upon this new sort of
gardening, and found it to be very strange.^^ The brilliance and genius of this
pure artifice invokes Poliphilus's admiration and wonder; the inherent
artificiality of mimesis is revealed. While this garden was never imitated in
its totality, it established a certain sensibility, and many of its elements
have served as models for both details and major elements throughout the his-
tory of landscape architecture—as well as in the subsidiary art of pastry
making, with its parallel history. Poliphilus's discovery of these artificial
wonders continued: "Let us go to the other garden, which is no less
delectable than the one which we just showed him." This garden was on the
other side of the palace, of the same style and size as the one made of glass,
and similar in the disposition of its beds, except that the flowers, trees, and
plants were made of silk, the col- ors imitating those of nature. The box-trees
and the cypresses were arranged as in the preceding garden, with trunks and
branches of gold, and underneath were several simple plants of all types, so
truly crafted that nature would have taken them for her own. For the worker had
artificially given them their odors, with I know not what suitable compounds,
just as in the glass garden. The walls of this garden were made with singular
skill, and at incredible cost. They were assembled with pearls of equal size
and value, upon which was spread a stalk of ivy with leaves of silk, branches
and small creeping runners of pure gold, and the corymbs or raisins of its
fruit of precious stones. And, equidistant around the wall were squared
pillars, with capitols, architraves, friezes and cornices of the same metal,
resting upon it as ornaments. The planks that served as slides were made of
silk embroidered with gold thread, depicting hunting and love scenes so
surprisingly portrayed that the brush could not have done better. The parterre
was covered with green velour resembling a beautiful field at the beginning of
the month of April. 45 They then enter a third garden, in which is located a
golden trian- gular obelisk, decorated on its three sides: Logistic turned
towards me and said: "Celestial harmony consists of these three figures,
square, round, and triangular. Know, Poliphilus, that these are ancient
Egyptian hieroglyphs, which have a perpetual affinity and conjunc- tion,
signifying: 'the divine and infinite trinity, with a single essence.' The
square figure is dedicated to the divinity, because it is produced from unity,
and is unique and similar in all its parts. The round figure is without end or
beginning, as is God. Around its circumference are contained these three
hieroglyphs, whose property is attributed to the divine nature. The sun which,
by its beautifiil light, creates, conserves, and illuminates all things. The
helm or rudder which signifies the wise government of the universal through
infi- nite sapience. The third, which is a vase full of fire, gives us to
understand a "4° participation of love and charity communicated to us by
divine goodness. The Neoplatonic resonances are worth noting. Continuing his
quest, Poliphilus is confronted with three doors, representing the major paths
of life, leading towards either the glory of God, the plea- sures and wonders
of the world, or love. As Poliphilus chooses the last—justifying the text's
extreme voluptuousness—he is led to the most perfect garden of all, Cythera,
residence of the goddess of Love (and historic site of the Greek cult of
Aphrodite): "That region was dedicated to merciful nature, intended for
the habitation and dwelling of beatified gods and spirits."47 The
description of the gar- dens of Cythera is so complex as to escape precise
visualization and defy synopsis, yet it has inspired much of the Western
imagination of landscape architecture. Here, the new Renaissance sense of nature
combines with the contemporary exigencies of the arts: cosmic symbolism is
reflected in architectural detail, the fecund sensuality of nature is
circumscribed by the most rigorously geometricized geography, and the beauty of
the landscape is accentuated, or even simulated, by the most refined artifice
of the artisan's craft. Each aspect of this site inaugurates a type of
perfection later to become stereotypical. The island is circular, with
crystalline earth, beaches surrounded with ambergris, and its circumference is
defined by ordered plantings of cypresses and bilberry bushes trimmed to
perfection every day. The island's river has a shore adorned with sand mixed
with gold and precious stones, and banks planted with flowers and citrus trees.
The island's major divisions are mathemat- ically organized and separated by
porphyry enclosures of artificial foliage and knotwork decorations interspersed
with marble pilasters; each of these divisions delimits a different sort of
planting: oak, fir, shrubs formed into figures representing the powers of
Hercules, pine, laurel and small shrubs, apple and pear, cherry, heart-cherry
and wild-cherry, plum, peach and apricot, mulberry, fig, pomegran- ate,
chestnut, palm, cypress, walnut, hazelnut, almond and pista- chio, jujube,
sorb, loquat, dogwood, service, cassia, carob, cedar, ebony, and aloes. In what
appears as a prototypical version of Michel Foucault's "Chinese
encyclopedia"—where the introduction of fantastic ele- ments shatters
empirical taxonomy—the animals to be found there are no less diverse, so as to
maintain the Utopian aspect of the site: satyrs, fauns, lions, panthers, snow
leopards, giraffes, elephants, griffins, unicorns, stags, wolves, does,
gazelles, bulls, horses, and an infinity of other species (excepting only those
that are poisonous or ugly). Furthermore, the decorations within the sundry
orchards, prairies, and parterres offer nearly the entire gamut of what shall
become the standard features of Western landscape architecture: trellises,
bowers, altars, decorative bridges, topiary, sculptural and architectural
features, and fountains. There are herb gardens con- taining a variety of
medicinal plants as vast as that of medieval clois- ter gardens, including
absinthe, birthwort, mandragora, fiimitory, devil's milk, sumac, betony,
calamint, lovage, St.-John's-wort, night- shade, peony; and also aromatic and
edible plants such as lettuce, spinach, sorrel, rocket, caraway, artichokes,
chervil, peas, broad beans, purpura, pimpernel, anise, melons, gourds, cucumbers.
chicory, watercress, etcetera. The flowers in the prairies, whose description
evokes the millefleurs backgrounds of medieval tapestries such as the unicorn
cycles, are no less varied, and the parterres, plant- ed with extremely
complex, interlaced, and varied patterns of flowers and other plants, have
become classic models for subsequent gardens. Finally, there is the veritable
"source" and destination of the quest, the mystical fountain ofVenus
(which, most tellingly, remains unillustrated, but for a schematic ground
plan), with columns made of precious stones, detailed carvings, and zodiacal
and mythological symbols. The source of the water could itself be seen as an
allegory for the "third nature" that characterizes the art of
gardens: The cover of this marvelous fountain was made of a rounded vault like
an overturned coupe without a foot, all of a single piece of crystal, whole and
massive, without veins, flaws, hairs, kerfs, or any macula whatsoever, purer
than the water spouting from the solid, artless, raw, unpolished rock, just as
nature made it."** The Italian Renaissance produced copies, however
flawed, of certain aspects of these gardens. Henceforth, mathematics and
mythology would join within the art of landscape architecture. Yet, however
imperfect the imitation, an entire worldview was evident in these gardens. As
Gaetane Lamarche-Vadel remarks, The visions freed by the reveries are not
always images of paradise lost; they also sometimes prefigure models of a
perfection yet to come. The island where Poliphilus ends his journey is one of
those: Venus, in concert with mathe- matical reason, conceived the plans for
this garden. Fecundity is allied with order, measure, and proportion."*?
The metaphysical allegory is always upheld by the most extreme sen- suality and
preciosity. Indeed, one of the inscriptions on the foun- tain may serve as an
epigraph for the entirety of the Hypneroto- machia Poliphili: "Delectation
is like a sparkling dart."^° No synopsis of the Hypnerotomachia Poliphili
can satisfy, for it is precisely due to the eccentricity of its
quasi-encyclopedic char- acter—through the heterogeneous allusions and
evocations of each object, and the symbolic interrelations between these
objects—that the nature of this synthesizing, moralizing, and aestheticizing
sym- bolic system appears. The heterogeneous enumeration shatters the effects
of mimesis, giving rise to art as an activity of the autonomous imagination.
Such a pluraUstic mode of Usting and narrative para- taxis operates as a conceptual
expansion of horizons, utihzing pre- vious symbols, forms, and taxonomic
schemes retrospectively to recreate their classic origins; proleptically, they
create a modern aes- thetic.^' Here, a vast syncretism rules the combination of
botanic (Egyptian, Cypriot, Greek, Syrian, etc.), architectural (ancient Greek,
Roman, Italian, Gothic, monastic, etc.), and textual (Pliny, Virgil,
Dioscorides, Theophrastus, etc.) elements, establishing a totality imbued w^ith
the most extreme, and fruitful, anachronisms. And yet, it is perfectly coherent
with the Neoplatonic metaphysical speculation of the epoch; for all classicism
is inherently revisionis- tic, transfiguring ancient forms according to
contemporary motives. It is precisely here that we can appreciate the
allegorical weight of ruins in landscape architecture: signs of an ideal and
ide- alized past now disappeared, symbols of a creative consciousness that
recuperates and transforms, indices of an aestheticization that combines and
refines. Hypnerotomachia Poliphili thus offers not only specific details and
general models—based on a synthesis of the contemporary arts—for the subsequent
history of landscape architecture; it also proffers an aesthetic of complexity,
contradiction, and paradox that will inspire, both consciously and
unconsciously, the most profound garden creations. Its style, plot, and
characterizations are complex and heterogeneous; ancient, medieval, and
Renaissance objects are contemporaneously juxtaposed and overlaid with both
sacred and profane symbols; multiple discourses interweave myth and rational-
ism, erotic drama and mundane description, fantasy and utility, nature and
geometry; varied, often contradictory, ideals of beauty are interwoven.
Furthermore, the metaphoric dimension of artifacts is always apparent,
revealing the landscape itself as an emblematic, symbolic, or allegorical space
parallel to the mental state of Poliphilus, in 2i psychomachia that organizes
the dynamic principle of the narrative, as Gilles Polizzi explains: "Such
is the book of Colonna that—in the problematic conjunction of its books and its
subjects, science and desire, the Apuleian weave of its mysteries and the
experiment with natural hieroglyphs—it opens to a polysemy "^^ that makes
it a world-book or a monster-book. Crucial for the present study is the fact
that Hypnerotomachia Poliphili stresses the central importance of narrative in
establishing the structure and significance of gardens in general. For not only
is the garden a reflection of mental states, but its allegorical structure is
based upon the active, and not merely mimetic, aspect of vision as a creative,
dynamic, mutable process. This pertains to the garden's visible and
mathematical forms as well as to its visionary and mytho- logical dimensions.
Thus the "objective" geometry and sciences behind these inventions,
the "third nature" realized from combining artifice and nature, are
instantiated or activated, as it were, by the narrative phantasms of those who
created the gardens, and subse- quently by the phantasms of those who enter
them. In Hypneroto- machia Poliphili, the garden is literally a dream; the real
gardens of the world, conversely, are sites that evoke reverie. The liberated
plas- ticity of the imagination—a major consequence of the new meta- physical
system elaborated by Cusanus, Ficino, and Pico—corre- sponds to the historic
relativity and alterability of truth in its manifold and often contradictory
manifestations. For the conditions of the possibility of any work of art
include not only the material and spiritual traditions of the period, but also
all the conceivable phantasms, misreadings, variants, and heresies—all the
paradoxes and paralogisms—of the arcane and often unstated traditions that are
foundational of an epoch. Contradiction, complexity, and paradox are
fundamental principles in both the genesis and the structure ofWestern
landscape architecture. The coherence, formalism, and stylistic closure all too
often sought by historians of gardens in fact dissimulates the inco- herence,
heterogeneity, and conceptual intricacies that underlie most great gardens. The
organic, dynamic, chaotic space of nature is always at odds with the geometric,
static, mathematical space of conceptual form. "Worked through by the
Demon of Time whether in its human and historical manifestations as narrative,
fan- tasy, and destiny, or in its natural manifestations as seasonal change,
growth, decay and death—the garden is a fortiori a dynamic, syn- thetic,
syncretic entity, escaping all formalist definition. Syncretism and Style 1
Jakob Burckhardt, The Civilization ofthe Renaissance in Italy, vol. 2, trans.
S. G. C. Middlemore; New York: Harper & Row), PETRARCA, Lettres familihes
et secrkes (Paris: Bechet, 1816), 99; cited in Gaetane Lamarche-Vadel, Jardins
secrets de la Renaissance : Des astres, des simples, et desprodiges (Paris:
L'Harmattan, 1997), 48. This book is an excellent study of the secret garden,
from the medieval hortiis conclusus through the Italian Renaissance giardino
segreto to the jardin hermetique. 3 Lamarche-Vadel,Jardinssecrets,11. 4
Francesco Petrarch, "The Ascent of Mount Ventoux," n.t., in
Introduction to Con- temporary Civilization in the U^if (New York: Columbia
University Press, 1965), 557. 5 Ibid., 560. 6 Cited in ibid., 562. 7 Petrarch,
"Ascent," 562. 8
Twoclassictextsonthetrading,inmixing,andsyncretismofsymbolsare:Jurgis
Baltru^aitis, Le moyen dge fantastique: Antiquites et exotismes dans I'art
gothique (1955; Paris: Flammarion, 1981); and Rudolf Wittkower, Allegory and
the Migration of Symbols (London: Thames and Hudson). 9 Ernst Cassirer, The
Individual and the Cosmos in Renaissance Philosophy, trans. Mario Domandi
(1927; Philadelphia: University of Pennsylvania)
Asthisisprobablythemostanalyzedtopicinarthistory,alonglistofreferences would
here be both inadequate and superfluous. As an introductory note, consider
several classic texts: John White, The Birth and Rebirth ofPictorial Space
(London: Faber & Faber, 1957); Pierre Francastel, La figure et le lieu:
L'ordre visuel du Quattrocento {?2ins: Gallimard, 1967); Samuel Y. Edgerton,
The Renaissance Rediscovery ofLinear Perspective (New York: Harper & Row,
1975); and Hubert Damisch, L'origine de la perspective {Vaus: Flammarion,
1987). 12 The most recent translation is Leon Battista AJberti, On the Art
ofBuilding in Ten Books, trans. Joseph Rykwert, Neil Leach, Robert Tavernow
(Cambridge, MA: MIT). 13 Forexample,theVillaLante (Bagnaia),theVillad'Este(Tivoli),theBoboli
Gardens of the Palazzo Pitti (Florence), and the various Medici Villas (Rome,
Castello, Poggio, Pratolino, and Fiesole), only to name some of the most
typical and famous. 14 The literature on the Italian Renaissance garden is
vast. For a fine introduction, see Catherine Laroze, Une histoire sensuelle des
jardins (Paris: Olivier Orban, 1990), 323—32; Terry Comito, "The Humanist
Garden," in Monique Mosser and Georges Teyssot, eds. The Architecture
ofWestern Gardens (Cambridge, MA: MIT Press, 1991), 37-45; and John Dixon Hunt,
Garden and Grove (Princeton: Princeton University Press, 1986), especially
42-58 ("Ovid in the Garden") and 59-72 ("Garden and
Theatre"). Among the many fine illustrated books and guides, very usefiil
is Judith Chatfield, A Tour ofItalian Gardens (New York: Rizzoli, 1988). 15
Cited in Lionello Puppi,"Nature and Artifice in the Sixteenth-Century Italian
Garden," in Mosser and Teyssot, Architecture ofWestern Gardens, 53. 16
This section on Cusanus is based on Cassirer, Individual and Cosmos. On the
great chain of being, see Arthur O. Lovejoy, The Great Chain ofBeing {\9i6; New
York: Harper & Row, i960). 17 KarlJaspers, Anselm and Nicholas of Cusa, trans.
RalphMannheim(NewYork: Harcourt, Brace, Jovanovich, 1966), 35. Needless to say,
the present essay presents only the broadest schematization of these complex
philosophical issues—^just enough, it is hoped, to situate their interest in
relation to the development of the Italian Renaissance garden, and thus to
inspire the reader to further investigations. 18 Cassirer, Individual and
Cosmos, 51. On the extension of these issues as they relate to aesthetics in
the seventeenth-century debates between the Cartesians and the Pascalians, see
Allen S. Weiss, Mirrors ofInfinity: The French Formal Garden and 17th-century
Metaphysics (New York: Princeton Architectural Press, 1995), 53-77- 19 Cited in
Raymond Marcel, Marsile Ficin (Paris: Les Belles Lettres, 1958), 273. 20
Cassirer, Individual and Cosmos, 190-1; see also 69-141. On Ficino, see also
Paul Oskar Kristeller, Renaissance Thought and the Arts (Princeton: Princeton
University Press, 1980), 89-110, 163-227. 21
ErwinPanofsky,"TheNeoplatonicMovementinFlorenceandNorthItaly,"Studies
in Iconology (1939; New York: Harper & Row, 1972), 141. 22 See Panofsky,
Studies in Iconology, 129-69. 23 Cassirer,IndividualandCosmos,132. 24 Panofsky,
Studies in Iconology, 134. 25 Cassirer, Individual and Cosmos, 135. Panofsky
rightly notes that the vast influence of the notion of Neoplatonic love was
effected in both direct and indirect manners, much in the manner that
psychoanalysis was influential for the history of mod- ernism in the arts, even
when inadequately understood. This idea is useful in con- sidering the
relations between theoretical systems and artistic production, where partial
readings and misreadings in no way obviate the efficacy of
"influence" or "affinities." Harold Bloom's The Anxiety
ofInfluence {Oxford: Oxford University Press, 1973) remains the most subtle
analysis of the role of misprision in artistic cre- ation. In relation to the
experience of the Italian garden, John Dixon Hunt, in Garden and Grove {242,
n.3), astutely makes a parallel claim, referring to a study by Claudia
Lazzaro-Bruno of an allegory of art and nature in the Villa Lante:
"Iconographical studies usually consider, as does this, only meanings inscribed
in artworks, rarely how such meanings were read by later visitors." The
great value of Hunt's book is that it accomplishes both feats. 26 Cassirer,
Individual and Cosmos, i65n. 27 Ibid., 160. 28 Cited in Arnold Hauser, The
Social History ofArt, vol. 2, trans. Stanley Goodman (1951; New York: Vintage
Books, n.d.), 129. 29 See Cassirer, Individual and Cosmos, 83-7, 115-9 and Paul
Oskar Kristeller, Eight Philosophers ofthe Italian Renaissance (Stanford, CA:
Stanford University Press, 1964), 54-71. 30 Giovanni Pico della Mirandola,
Oration on the Dignity ofMan (1486), trans. Elizabeth Livermore Forbes, in
Ernst Cassirer, Paul Oskar Kristeller, and John Herman Randall, Jr., eds.. The
Renaissance Philosophy ofMan (Chicago: University of Chicago Press, 1948),
224-5. Juan Luis Vives, Tabula de homine (c. 1518), trans. Nancy Lenkeith, in
Cassirer, Kristeller, and Randall, Renaissance Phibsophy, 389. Juan Luis Vives,
cited in John Hale, The Civilization ofEurope in the Renaissance (New York:
Athenaeum, 1994), 510. Lamarche-Vadel, Jardins secrets, 94. On the
transformations of epistemology, natural classes, and botanic knowledge, see
79—121 of this work. The locus classicus of the subject remains Michel
Foucault, The Order of Things, n.t. (1966; New York: Vintage, 1973). Cited in
Edgar Wind, Pagan Mysteries in the Renaissance (1958; New York: Norton, 1968),
2l8. Wind, Pagan Mysteries, 218. Ibid., 99. Perhaps the most familiar
contemporary example of this dictum is Mohammed Alls "float like a
butterfly, sting like a bee." The erotic poetics of the Hypnerotomachia
Poliphili speddcaWy justifies the use of this adjective. Wind, Pagan Mysteries,
104. Cited in Cassirer, Individual and Cosmos, 158. Wind, Pagan Mysteries, 21.
Ibid., 25. Maurice Le Roux, cited in Maurice Roche, Monteverdi (Paris: Le
Seuil/Solftges, i960), 70-1. Although the identity of the author of
Hypnerotomachia Poliphili is not absolutely certain, it is now almost always
attributed to Francesco Colonna, a Dominican Friar of the monastery of SS. Giovanni
e Paolo in Venice. There is one theory that the book was written by Alberti,
which, whatever its veracity, reveals the profound affinities perceived between
the two thinkers. Hypnerotomachia Poliphili was pub- lished, with
illustrations, in a mixture of Italian, Latin, and Greek, in Venice by Aldus
Manutius in 1499. An abbreviated French translation by Jean Martin appeared in
Paris in 1546, published by Kerver under the title Discours du songe de
Poliphilr, the English translation, entitled The Strife ofLove in a Dreame,
appeared in London in 1592; the contemporary Italian edition of Hypnerotomachia
Polophili was edited by Giovanni Pozzi and Lucia A. Ciapponi (Padua, 1964).
Translations in the current study are by the author, from the recent French
edition (based on the 1546 Jean Martin translation), Le Songe de PoliphiU
(Paris: Imprimerie Nationale Editions, 1994), edited, prefaced, and
transliterated into modern French by Gilles Polizzi. On the influence of this
book in France, see Anthony Blunt, "The Hypnerotomachia Pobphili in
lyth-Century France," Journal ofthe Warburg Institute 1 (1937): 117-37;
this is an important early study flawed, however, by a less-than- rudimentary
comprehension of Renaissance philosophies. The importance of the engravings in
the Hypnerotomachia Polophili for considerations of the landscape are briefly
discussed in a book that is, in its breadth and depth, a model of scholarship
on gardens and landscape, Simon Schama, Landscape and Memory (New York: Alfred
A. Knopf 1995), 268-79. For an idiosyncratic and su^estive allegorical read-
ing, see Alberto Perez-Gomez, Poliphilo, or The Dark Forest Revisited
(Cambridge, MA: MIT Press, 1992). 44 Colonna, Songe de Poliphile, 120. 45
Ibid., 125. We find here the origins of Astroturf 46 Ibid., 128. 47 Ibid., 276.
48 Ibid., 325. 49 Lamarche-Vadel, Jardiru secrets, 31. 50 Colonna, Songe de
Poliphile, 325. 51
Ontheepistemologicalproblemoflists,seeAllenS.Weiss,"TheErrantText,"in
The Aesthetics ofExcess (Albany: State University of New York Press, 1989),
77-87. Such usage evokes the sensual and critical aspects of Rabelais (who was
directly influenced by Hypnerotomachia), the phantasmic and nonutilitarian
inventions of Raymond Roussel, and the simulacral metaphysics of Jorge Luis
Borges. 52 Gilles Polizzi, "Presentation," in Colonna, Songe de
Poliphile, xvii. Abram, David. The Spell ofthe Sensuous: Perception and
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Migration ofSymbols. London: Thames and Hudson. Grice: “Measles is natural,
dying from it is not! Dahl’s daughter died from complications of measles –
unnaturally so – poor child – God bless her soul.” -- Il conte Cosimo
Alessandro Collini. Keywords: naturalismo, naturismo, pterodattilo, filosofia,
pisa, Firenze, nobilita, coira. Pterodattilo. Polemica filosofica, Domenico Eusebio
Chelli, marchesa Gabbriella Malaspina, Voltaire e la Toscana, “Firenze come una
nuove Atene”, Collini su Ariosto e Boccaccio, Collini makes fun of Voltaire’s
daughter. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Collini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colombe: la rgione
conversazionale e l’implicatura conversazionale di Galilei – Aristotele e la
stella nuova -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “If you love stars, as any philosopher must – vide
Thales! – you LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea that the thing next to
the serpentary’s foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto per essere
stato uno strenuo avversario di Galilei. Non si sa quasi nulla della sua vita, ma
restano diverse sue saggi, nelle quali difende la dottrina aristotelica con un
particolare disinteresse sia verso le nuove osservazioni sia verso la coerenza
logica. Scrisse un discorso sulla nuova
stella apparsa sostenendo che si tratta di una stella non nuova, ma esistente
da sempre. Scrisse un discorso Contro il moto della Terra. Per conciliare le osservazioni di Galilei
sulle irregolarità della superficie lunare con la concezione aristotelica della
perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che le valli e gli spazi tra i
monti della luna sono colmati da un materiale perfetto e invisibile. Contrario
all’idrostatica archimedea recuperata da Galileo, nel suo Discorso apologetico,
sostenne che il galleggiare o l’affondare dei corpi dipendesse dalla loro
forma. Nella conclusione del discorso usa anche una metafora di questa teoria,
affermando che le ragioni dell'avversario per essere troppo argute e sottili
vanno a fondo senza speranza di ritornare a galla, mentre quelle di Aristotele,
per essere di forma larga e quadrata, non possono affondare in nessun modo. Sono
rimaste anche lettere tra C. e GALILEI che stima pochissimo il suo avversario,
che soprannominato “Pippione”. Vari accenni a questo personaggio sono nella
corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario Biografico degl’Italiani,
Amici e nemici di Galilei, Milano, Bompiani. Aristotelismo.
by Drake DIALOGO DE CECCO DI RONCHITTI Da
Brvzene. IN PERPVO Sir O De La Stella Nvova. Al Loftrio e
Rebelcndo Scgnor Anruogno Squerengodegneriflemo Calonego de Paua, so
Paròn. C&n alcune ottave d' Incerte, per la medejlma Stella,
centra Arjlotel^
. ls3 *9 «3 te te te In Padova,
g£Ì Apprcflb Pietro Paulo Tolzx. M.dc.v.
H ikSk tk^s skfjh «^EsS*«JbJU (?X:§(s P AL LOSTRIC. EREBELENDOPÀUO::.
EL SEGNOR Antuogno fquerergo Dennett fimo Calone o de Vjua,
Vedifleo, RebelédoSegnor Paròn , s'a vee&è on voftro puouero
feruiore,que no fé me altro , che la boaria, e'1 mefticro de
pertegar le cam pagne, ade-fio, que el la to- leflfe co* vn Dottore
de quiggi da Paua, per via de desbuta ? no ve pareraela na botta da
ri re ? mo oncaièj e lì Tè vera, "j a mentre fé conto c'hò fatto con
fèquellù, che le mef fé la vefta, que n'iera foa,per parer elio dottore .
L'è vera , que inchinda da tofatto , ci A 2 me
nuTnfaua el me {naturale a~guardare in cito, e fi a g'haea gran
piafere desfeguranto la boa ra, le falce, i biron, la chiocca, e'1
carro,con tutto ; mo gnan per quefto a no ghe n'harae
iTapiofaellare, s'a no v'haeffe fentù vù mil- le, emilliantabotteadire
mona confa , mò n'altra a ftoperpuofito • E fi de fta Stella nuoua,
que dà tanta fmcrauegia a tutto el roeflb mondo ; per conto de dire on la
fea, a ghe n'hì , per muò de dire , fatto lotomia j faellanto,
edesbutanto co quanti difea, che la n'iera in Cielo que fé ben a no ve
n'ada- ui,mendecao a me ve cazzaua in le cofte mi, efia
vefentia,efi(femiga a n'ho vncelibrio fpelucatiuo,com 5 hà de gì akri)a
tegnia mcn te a zò cha difiui . Tonca mò, per que adef
foagihòfmeffiètutteavno in iti fcartabieg gi , fé conto cha m'ho mettù el
voftro gab- ban , fe'l parerà bon , a ghe n'harì vù Tha- nore. ma
fé, pre mala defgratia, el ghe foef- fé qualche fcagarello(cha no'l
crezo) que o- lefle sbregarmelo,el ve toccherae mo anche a darme
alturio,fipiato che l'è voftro. Caro Paron habbieme per recomadò,cha
prieghe lè pò fempre an rni, Domenedio, que ve da* ghe vita longa,
e fanitè . Da Paua a l'vhimo de Feueraro, del mille > e fie cento,
ecinque^. Seruiore della voftra Segnorra Cecco di
Ronchitti, Quiggi , che Rafona . Matthio. Nale. Ootta de
chi me fé 5 mo que feccura , que brufa- mento e que fio ? a sè>
che no vuolpiouere mi , bon ctt aqua . Mo no difegi , que a
le Vegniefìe l'è a man a manfute le lagune? Penfeue^elfe ven ape
inchin da a slarilafofina . <td pojfon ajpiettar de belo, que i
fromintinafcira. i nafcìra condife zJldafchio . N A. a dio, a dio,
Adatthio. quefaellamento el to ? iejliefl sì fora de ti an\ MA. ben ve
gnu Na- ie 5 mo caro fretto > a no se mi. a m'anda- fé a lambì
canto el celtbrio, per que no pio uè mi , que fin parfefire de Ht
timpt? gtiè pligoloy che gi ardere del Gordon fé rompa
% rompa , per le pine ? NA. Ver canto de quello , l'è ongrétn
dire y que tant ciòtte el s'ha veZjU nunole "pìoììolèX^itagr Ò
ba da,e fi gi è torne indrio fenz^a bagnare el fabbton gnan tanto
co harae fatto on pijfar de rana . <*// evèrtè < que fé l
<và drto così a feron al finimondo mi I p> è e tutti brusè y
le campagne fecebe a muo noffo \ tanto que a longo andare, nu elbe
Hiame a nopofsonfe lome farla m alarne tre. MA. Tirate on può fottofla
voga- ra 3 in t* agno muo el gtie pi dvnhora a fera, da quecrito mo
cheU fprociedafo fccume an ? NA. mo nheto vezju quel la Stella,
chesberlufea la fera \k tn mi- fi, que laparea nogio de z^ostta) e fi
a- dello la fé <vè la mattina con fé <và a bri*. fare, que la
fa on [pianare belettfèmcì no t'acuorì^to, che la xè vegnua da fre-
(co ? e que no la s*ha velati a me pi inan%o d adejfo ? mo tè ella cafon
de Hefmera uegie, e de Hi ficchi ^fegondo.che dtfe ori \ dottore da
Paua. AIA. Cu in feto ti, que la no shablne me pi ve&ua ? NA,<*si
fen- % ^fentìf altro dial^o vrió,che lez^ea on certo
slibraT^uolo.efiel dì fé a , que la fé fornente a desfegurare lomè a gì
otto del me fé d'ottubrwpafsc. E (i quel librai^ zjtolo el l' haea
fatto on lettran da Pa- nai chel contatta , pò afe con fé . MA.
*Doh cancaro a i fcagarieggi da Patta , faosfìy per che cjuefììt no l'ha
ve&ua ello > il vuole, che tutti ghecher&a, que me pi la
noghefuppifta ? -Guari mi a n ho mi *vezM le Toefcarie , e fi leghe xe .
NA. Jidopre conto de quello , el me par pure aria mi , che la fé a
nuoua . AIA. qlA no dighe a ì incontragio mi^ tè, che 3 1 so rnuò
de fae Ilare ne ben \fe miga elfoejfeper gramego , NA. ^4 fé confagòn
tonca, que te nuoua. AIA. Sì, mofeando tan- to lunz^i el no pò
faere &g que lafippia , per dire, che la xe ella, que no laga
pione re . NA. ^liedio, lim^i , la n'è gnan fora a la Luna, per
quanto dfea quelli- _ braz>z*uoia. À4A. Chi eloquellù , e' ha O]
fatto l ItbraZjZ^uolo ? elo pertegaort^ ? NA. Nò, che te Filuonco .
<&1A. Lì Filuo- Fituorico ? e ha da far e
lasoflluorìa col mefurarc ? No feto , que on z>auattin no
pòfaellar de fibbie ? El he fogna crerc a gi fmet amatichi^que gi è
pertegaore de t aire,fegondo y che an mi a per t ego le e a pagne,
e fi a pofjò dire, a rafion 3 quanta le xe longhe 9 e larghete così an
iggi. NA. El dìfea ben aponto quel libraz^T^uolo 9 che ì
Smetamaticht ere, que lafippia elta de bebi ma che i no l'intende . A4 A.
mo per que no l'intendegi? me truognelo, o me falò l'amore ? NA.
Eldtfi, que i Si- *f^ maghina, chel Cielo fea fiorrotttbele ,
e z^enderabele in quato a onpuoco a la hot taf e mtga elno poeffe
gender ar fi, e fior romper fé tutto in t'vn fio. quefegi mi ? MA.
On faellegt de fiere fon tfmet ama fichi an ? S'i Ftà
lomefulmefurare>quc ghefa quello a igg* fi'lfuppi? z^enderabi
le, ò nò . Selfoejfean de Polenta,nopo- m raegi ne pi , ne manco
tuorlo definirà ? mo el tne fa ben da rire, con Hefuò sba-
*~T già fari . NA: Ah te bella , que e Idi- fi confi de Ha fatta in
pur afise luoghi de quel quel libra^ZjUolo.sZMÀ.
Que vnctu mì> ^*jj cha ghe faghe mi, fé l'è \oene ? Uga cheH " p
" u s'in caue la vuogia . NA. Eldifea,que fé lafoejfe sbenderà
da nuouo in lo C/c lo, el boqnerae anche, que rì altrz Stella , o
qualcl) altra corifa fé fo?fje fcorrotta in so fc ambio liueluondena, h vefinaqueL
la 5 e fi no fé ghe ve negotta de manco . Ai A. TV parfeche'l faelle con
gifmeta rnatichi ? tamentre l'è tanto fcapu^ZjUa, cha no poffot
afere, mettamofegura>que onpuoco de Cielo chiue, e n altro puoco
li uè, s'habbi combino a vno^ el s'acuorz^e- ra elio on el manche ?
quando fé fa le nu noie, e le piozje, onfevèelfegnale , que le fé a
He tolte per mettrele wfembrefmo digamo de la [Iella, on s'è (chi ano
L*agie re, perche el "vuole, che lafappi incende ra line
elltk? Epos'imaghinelo (la ferae ben da dire al preue ) que tutte le
felle che xè in Cielo fé pofia vere r el ne pos fi- bule .
Eperz^uontena>> chi me tèn, cha no pvjfa dire* que trè>o
quattro, e ari pi [iel- le de quelle menore , che no fé <vea,fe
xe B amucchìh e sì gi ha fatto Ha bei) a <iran~ de? No
porae an efifere ,que la fé foejfe penderà in Papere, e pò , chefempre
pi lashaejje alz^a ì tamentre a no vubdi^ refie con/e, per que la
ne me firefesfion, no me ri mudatomi-, bafia > que gnan elo
noparlaben . N *d. E fi el 'vuole polche quefiofea el neruo de la rafon
de Stote- ne . ^MA. Toncafipiando così me fero el neruojutto el so
Zjenderamento.e fcor rompimento ander a in broetto. NA. S'i nìeruìe
sì debole, la carne fera benfroL la . Eldife, quefe'lfepoeffe
Xepderare in Cielo de le ftekenuoue, el befognerae y que da tanti
befecoli m qua/ in foejfe fcor rotta qualcuna de quelle >che fempre
me xe Ha vez^ue : que gì è : a no m arecuor- do quante : bafagt
eparegie\£ fmoghin manca gnegima, que el lo difettatene . MA. Pìivh
, mo queHa firen%s benfen l^a penale, chi diambarne ghkndttto* che
Jìa Bella nuoua fea na [iella He Ha ? Ce ben on fpianXare , mo no na
[iella. E fi mt a thè wchtndamo chiama [itila > per
que que la in par e, fé ben la rì e, corri e le
altre. NA. One eia torte a ? zZ^lA. Que fé gì mi ? bafa.che la riè
na [iella purpiamen. e file altre fi elle no fé xè me ftorrotte,per
que vi è [Ielle, e fi el Cnloghe riha debe- fogne dt f Atti fuo : mo no
de quefìa , che fipìanto vegnua, l'è anche ti deuere,quc la vaghe
via . E per conio de dire , que no s'ha me ve&uHelle afeorromperfe^
re [pundime on può. La terra ( che xè me- noredele [ì elle ) s* eia
me flramua tutta in fona botta ? NA. Mo, copeforinfe la
terrafefeambiafea Ho muo^ riandaf fangi tutti a fca&z>afaJfo ì
<£WA. ^A cherXo ben de sì. tamentre apuoco,a può coel
fefa,efiporae effere ,che'lfefaeffe anche de le [ielle, que xè [ielle.
Pure > a domanderae enti era a queliti dal librai z^uolo, a
comuo el sa, que gneguna fella no fé fa mèfeorrotta de fatto, che per
di re> que nogh'è me fio homo, che fé rihab- li ado, e (jue el
Cha ditto Stoterte $ le me par noellemi . NA. el dife>cjuefefia [lei T
„ rf t x làfoefje m Cielo>tutta la fluori** fnatu- cap ' r *
C 2 tale raleferae na bagia $ E que Statene ten \ que
arZjOnz^antofe na Bella in Cielo.no l porae muouerfe . AIzA* Cancaro, l'ha
bìo torto Bd Bella, a deroinare così la fi- luorìa de que fioro .
s'afoefiè in iggi a fa- rae e et aria denanz^o al Poe fio mi , e fi
a ghe darae na quarela depujfefsion tmba t a, e fi a torrae na
cedola reale >e per fona le incontra de ella, per que te casòn,
que f ?&c ni " e ^ Cielo nofemuoue^ tamentre quello
Te manco male^ che el ghe nepancchiie an di buoni) que cricche* Ino
fé muoua.lSlA. ^j; Mo rì altra, con que re fon (difelo) quei
Cielo de fora xelo da manco de gì altri ? que elvegniraea ejfer da manco
fipian- dofcorrottibele,e naffan doghe de le (leU lenuoue , e no in
gi altri , eh* è pi baffi . IAA. Cancabaro, da quello a zi altri,
el gtie defenientia, per conto de macre , pt % che né dal monte
deB.ua a on gran de me gio ; ep?rz*>ontena elio fipianto sì grande^
el pò haere de le altre Belle da nuouo^mo nò fi altri , que gì ha afse
dcvnaperv- no>e phfclghe nafajje anche in iggi quàl
che che flelletta , s'ìmaghinelo , que tutti la verde defatto
f 'o te cottora. NA. Eldi fé, que per fare el mondo Fptefetto , bo-
gna> che ghefuppì qualconfa incenderà- bete , e incorrottibele , e fi
la no pò e [fere altro, chel Cielo. <z7l y fA. El Cielo ? per
que mò cosi el Cielo ? E mi a divenne el Parafo, che xe defora dal Cielo
, xe elio così puro, co 3 ldife 7 Ho dottore. JSfA. La ghepar na
confa imposfibole^que na biel- la così gran de tifj^e ma poffa de fatto
borir fuor a in tvna preuifta . MA. E a mi nò. Quando na Vacca fa
on Veello, alt» hora % che te lomenafìi, te maored'vn ^Agnello que
fé a crefsu inchinda in cao . per que mo? per que la mare
delVeello, don belpeXzjatto, tè maore, que riè na Piegora . Fa mo
tò conto , che Uà Stella despetto a tutto el Cielo, no ven a ejfere
gnentepì, con farae onLion^ò n jn Lefan te defletto ala terra, te parfe
mò , que tè nagranfmerauegia ? N<tA. zslAofe tè così, a comuò
calelajn pè de crefcere, la Bella adejjo? AIA, ^dcherXo.quela
e p. 4. qjavhe maghe dagnora pi in su mix, e que % l
para] che la cale, per que la ne <va lun&i.NA. Pian, che el
libraÌQUolo df>que i primi di, che la fé vele la crejcè on
btlpuocofe l'andejfe in su , la no ghe porae tntrare $ per que
fempre la ferae cala. MA. &4l l'hora quella dal libraz^z^uolo difea
ef fere fen&a occhiale. Perche mi a se, que la prima botta eh a
la <vitila me par [egra denijjema , e que fempre la xè cala ,
per muo de dire de grand eXz^a. tamentrefie refon no me per du fé
ami >e fi afaello,per che quellu dal libral^uolo va majfafuo ra
del fentiero, e fi a ora pure tcgnirloin carezza. Orbentena>fìnti an
que- lla. eldìfe,que no fé pi) z^enderargnente in lo Cielo, per que
{di feto) el befognerae, che'l ghe foeffe di contragi, e che ino
ghe pò e fere, f piando que tè ria quinta /una ^t, òfoHantta\
quefegi mi? A1 A Mo sì ceole . gi è de quelle boi te de S toetere
quefle> edifuo bri^hente ; ch'i ?io sa s'i feaviui,e fi 1 1 noi fat
Ilare de Culo. §A cher%o,que in Cielo ghe fuppi cosi ben cai
do > •de, e fé r do, e mogio, e fn?o % corni an
chi- ne mi. per que? no fé ne, eh ci gh'è del fi e f fo,e del
chiarore dei Inferitele dei feuro? che eggi quìggi ? i né tutti vnfi a
l'inco tragio de l'altro ne no \ mo vuotutà? Ha [iella ghe poca
cffere,e fi no glfiera , e fi adeffo la ghe xe . ri eh rotfso quejìo
? moa, l ar uè la boccale fi laga egmrftora quel , che 7 vuole . E
pò elio el fa conto de desbuta^e confi f net amatichi,e fi \ar lega
de He re fon ? on fita halo catto , que onmefuraore vaghe Jfelucato
sufìenoel le ? chi ghe l'ha ditto a elio ? NA. Mo cane aro , el gti
arz^onz^e , que fé in Cielo ghefoeffe terra, aqua, aire^e fuogo
elno fé porae Hrauete con fé fa, franto, che el doenterae tyejfo, e
f curo. AIA. Si fé qui leminti foejfe della fatta di nuofiri $ mo
gì è pi [prefetti ,fegondo , ch\i fentì na botta adire al mèparon.que el
difea.che Tianton eldifea. N A.Ei dtfe anche 3 que a fio muo,el
Cielo noporae anar a cerca <via>fianto , che i lemìnti r oa tutti
in sii, in z>o, mo no attorno . <±7ldzA. E fé mi a
diejfe Io di C nico eap. 7-
a àiejfe a rincontralo , que ìvaanthe attorno ? El gh' amanca i
sletranique di pinfon ~y£j <^ /* terra [e <vol\c a cerca,con fa
na ^! pe " muoia da molin . penfate mo ti de gi al* tri con la
va a faellare , tutti sa fretta- re > NA Eldife pò, que la fi ella xe
ape la Luna, ma de fot toghe-, e che Ime el no che pò efserfuovo.
^1 A. .L'ha fatto ben adire* que no gh'èfuogo , per pi re fon. NA.
E così el tèn, qùe'l fipìa air e, quel- lo, che lecca ci culo (a
vuos/idire, el Cie- lo) de la Luna. <&MA. moa> moa,elpoea
ben dire an quejìasì. NA. E (diftlo) el u Cielo no pò e fi ere de
fuogo,per que fan to così grande el bruferae tutti gì altri le-
minti . MA. <z5fy'lo me vegna e l morbo , che queTiufeanto dottore
fe'l fé caejfe la yeti a^el parerae ri homo, dime oupuc^na fa! tua
fola no bajìeraela a tmpigiare on paviaro, e pò anche a brufare quanto
le- vitarne fé catta ? NA. <*A cher%o de sì mi. MA. E fi quante
fornafexe atmen do, le no porae brufare on Cecchin , che foefje
d'oro, per que mò ? feto per quei mo per per que
loro no fé pò brufarc . e così an* che fé gì altri lemintipoejfe
brufarfe, ba- Jìerae onpucco de fuogo , f?r e far l'effet- to-,
fenXa tanto co Idi fé elo. NA. Lavhe va la , quanto de quello 5 mo crito
pò ù fremamèn, chel Cielo fea fuogo? AIA. oA no dt eh e così mi .Uè
che'l dottore ci- ga alturio fenica perpiiofuo ; e fi el le dife
fenz^a metreghe su volto, gnefale. NA. aPklo finti ti altra , que la ne
miga da manco no. El difè ì que i fmetamatichi ha de boni ordigni ,
e de le re fon freme y ma i no le sa u onerare^ . ^IA. <*A co-
mito fé ri elo adb elio ? feraelo me fr elo de la t or dal Bo? aldime mi.
fé on fmetama fico egmra chiueluondena^e fi el fedirà : Naie, mi a
<vub faerte dire quanto gh 'è per aire da lì a nogara a l'arare; e fi
el lo mefurera co ifuo ordigni fenz^a muo- uerfe 5 e col l* babbi
me furo , e quelite /'- babbi ditto y an ti te 9 l mefureriefì
co'vnfi lo, b a qualcti altro muò, e [ite cattertefi que tè così 5
no che r de reto , che Vvouere ben ifub ordigni ì NA. Alo sì mi ,
que C cade ? cip. r .
p.l C^>. tap.f.
cade ? MA. Perche toncaquandoel me fura na Bella (per muo de dire )
ogiongi dire y quel no sa fare ? e pò fé 7 falla , chel falle de millanta,
e de milion de me giara ? fe'l dteffe donpuoco,confarae a dire,
quattro dea, b na fpana,a taferae. mo de tanto ? l'è maffagnoca. N A.
Se- topo, querefon de i fmetamatichi^el ven a contare? MA. T>ì
mo. NA. Vnaxè de tagiar via (di fé lo) on peX^o don cer cene, e que
la Stella, così a no la pofsan vere, per pi de mezjhora. E n altra
de anarghe fottoapiombm , caminantoghe al ver fa vinti dìt me gì
ari. e fi ti dife.que le no fa aperpuofìto, fianto> che gì è amo
frare , que la fella fea pi in su de diefe amegia-y e fan elio di fé, che
l'è on belpez* ZjO pi elta . zZPIA. Cane aro , l'è aguti*- Zj>o
dal cao groffo 5 mofelcrè,floChri- Bian, que la Bella vaghe pi in su de
die- fe megiarì, e fian quelle refon eldife^ tè fegnale que le riha
da far con elio 5 per- che tonca mettrele fui so slibr aiuolo, e pò
dir e ^ que le riè a perpuo/ito ì Ste re* fori jfo# Ufo fatte
(per quanto ì dìfea a Vaua 7^k buoni di) con tra on inasprente di
fi- luorichi de S tot e ne , que althora tegnta duro, e fremo, che
la rìiera pi alta de die fé amzgta 5 e perz^uontena queliti dalli-
braZj^uolo die a lagarle Ilare > que le no ghe daea fall ilio . NA.
orbentena, ghe ne pi? diJJ'e que lù, eh e e attratta iporcieg gi.
an, sì> sì. gianduJfa>mo elgh'e on brut to intrigo de Prealajfe , e
de <vere , e de Luna . que fegimt ? p rifate, che quellù, che
le\ea la diffe 9 e fi la defehiarè p\ de tre botle.efi gneguno no
l'intende. Ad A. £1 die haerla intriga a polla elio, perpa vere n
homo da 2^0, e da palo, e fi la fera pò a n altro muo, perche a se ben
mt,que de la Prealajfe el no pò haèr rafon. che l'è on muo de me
furar e per agiere,maffa feguro. NA. Lagame mo vere sa me rì-
arecuordejfe onpuoco. eldifeprimamen 9 che no fé pò guardare de meXpfuora
a na lì e Ha 5 e que fiaganto così da /unzji , el nèposfibole e
aitar ghe elme%p,masfima- mentre ,per que t 'è na confa, (ondale
que. e 2 ma. cap, *7ldA. c Fafi 9 tafìonpub 9 che te ghe
ne ditto pareggie in fon groppo . chi è quel lu, che cherZja de
poerfmirare de me%o via a no, ftella,fianto> que l'è tanto grof
fa? che cane ab aro de filatuoriefe vaio a imaghinare ? gh' in falò de pi
belle ? que Ha fera lacrima. V altra, a comuo e at- tenevo miegio
el mez^o d*vn criuello j mettantoghe gi voce hi ape >
ostarganto^ iTb" d & te on belpitoco? NA. zZkfò, fagan
toghe E b uctc & t' ^ a lttnz>i>per que s'aghe foejje a ve sin,
a no porae gna desfegurarlo que flejfe ben. MA, Guarda mo toncafe
tè el vera 9 que no fé pofa cattar el melo^ de le Ftel* le \ per
che gièlun^i ? %A l'altra . in che dariflo pifremamen in lo mez^o % con
na occhia Jn quel d*ona ballalo d'on gamie* ro? NA. CancabxrOi aona
balla iper que co a l'effe giti fi a infdhverfò , la fé- rae giù
fra in tutti . M A>E pure elio el dt fé a l tn con tr agio . NA. Mo
elgh'ar- ZjOn&e que gi è {al noffro parere) majfa pècchemneyper
cattargheel meZj0.MA. sì> el dtfe an §uefta ? e quattro tonca,
in ) t on t'onboccon.
dime onpuotì. a comuòpo* rtfto fallar pi > a dar in mez^o
Confondo da ttnaz^ZjO , o d*on taglerò ? a dighe de mofìrarlo. NA.
Fotta , a por ae fallar don belpuocopì in f ti fondo da tinaXr z^o
, che in t el tagiero . A4 A . Efielbon dottore dal libraz^z^uolo dife a
l'incontra, gio . Va modriOy de fa Trealaffe. NA. Aio no fé podanto
fmirare de mtXof r uo* ra a le. fi elle , no fé pò [aere on le
fìppia ( dif lo) perche no fé ve elluogade drio* ghe . esPI<*A.
Ste mettisfi elto gabban fu ngraile de la me fiala da manie chel lo
f con d effe tutto ffaertfo e at tarme su quale elfoeffe? NzA*Poo,tè Qn
granfa re . a fiomenZjerae a dire 3 vno, e du, e tr)> inchinda
> chafoeffe Ime , e quando heffè ditto , con far a e a dire 9
nuoue> e e ha veeffe 9 che in su quell'altro ghe foffè el gabban
, a dirae , que l'è fui die fé mi . no vaia così ? AdoA Mo la no pò
efsere altramen ella , e così anche fi vena far e in lo CielOifeben
quel letr anello non s'in sa adare . Uè benpìgrofso, che né elto-
raT^Q cap. tf. «ap Cip. 6 razzo de Cremona vè$ che
ì dtfie> que l'è ****• s\grandentfisemo.N<tA. Quando aguar
don in la Luna, el noflro vere fé ghe fic- ca entro (dtfielo) e
perz^uontena ho fé pò fare la prealafiftLJ . <&dA. Chel me
fio che elio (fqua fio eh a thò ditta) a veefiskn te Belle de fora
, chelfiarae on pia/ere , fé lafioejfe così . NA. Pian, e ha novo*
rae fallare, el me par pure , che'l diga , que no fé pò vere mela la
Luna, negna mele le He Ile , filanto , che le xe grande % e'I
noflro desfegurameto tira mafifaftret to , fie ben elfie va pò slargamo .
<&14A. ^yPlade imaginete pure 9 que chiappela da che cao te
vuofi , l'impegola . che me fa mi quello , fé mtga a no pò fio vere
tut ta la Luna , ne gnan tutta na Bella? no bafla eh a la vegga on
puoco , e cha la me fkrefegondo quello? NA Aloafìomuò> te na
bagia la que fi a . doh mal drean$ el fie fafiea pò bello , d'haer catto
na fpe- lucation fiottile per fiarghe Bare i fimeta mattchi . IMA.
Seto que le na confia > che no gtìì me fio penso ? mo per la ma-
re cap. 6 re ib. T- ' re di can,
que inchinda on Veelo thàfk pia inanXo yfegondo ch'ha gh'hò fentu a
[X. dire ajfe botte al me paron . E fi el no fé %'"££ riha te
gnu tanto in bon . NA. vuotu y ' 1 ;. i ctì andagamo inanXp ? <^/aA.
Sì y di \ 28 ° Fr ' NA. F rello te te fari s fi fcompifso da ri- fo
y Whaisfi fentio vn batibugio , que ghe *•«*• Xèy de <lA> By
Ny Oy ^ figì liti f Ì >afl ^ , 1? »» talea offerire , che la
Prealaffe e bona , mo i fwetamatichi no la sa vouerare ; que flaghe
ben . <&14A. Elnodie inten- dere gnan elio zj> y cheldifi^ .
Tirate on può in qua mo 5 vito Hofalgaretto y che apèfiofofsà ? NA.
Sì mi . MA. *Uito mo quell'albaray che xe lialuon de- tta vefin a
tar&erz_j ? N<tA. Quale? la grande , la pigola ? MA. Lapec
chenina . N$A . Sì mi eh a la "veggo . MqA. Orbentena , guarda mo
bender- to $ qual te pare , che fea a bo da man * de Ho falgaretto
, e de queltalbara ì NA. Staganto così , el me pare mu que talbara
egnirae a ejfere a bb da man . M$A» Tirate mo da ft altro lo . NA.
ave- a njegno . M<tA* F remate chine, e ade/
fi ? N<tA- Mo cane abaro , a jlo muo el fato aretto farae elio a bo da
man , e l' ai- bara a bo da fuor a . zsllzA. ^rue te fa mo a ti 3
fé miga te no <vi de meZjOfuora el falgaro, ne l'albaraf e que danno
te da, -per che te nopuofivere anche elio de drìo , de tutti du ?
N$A. ^Mo gnente , per que afmirofegondogi *vri de le fior- z^e mi,
e no figondo a quello, cha no veg* go . <&dA. Elfi fa così anche
in agiere <ve , e que Ha xè na forte de Prealajfe . Torna mo
chiue on a fon mi . NA <±A ghe fon <vegnu mi . a^kttA.
Cjuardanto de cima via aflo falgaretto.puotuvere queltalbara , cha
te difia , fi ben la ghe xè per mie ? N<tA. Lagame mo guarda*
re.pùuh$ mono mi. AlzA. Stefuùfl mo tanto lunl^, che guardanto de cima
fuor a alfalgaretto, te credlsfi definirà- re derto a mez^alama.e te t o
facuorz^tf fi d'aliar gì vogi 5 qual diritto y che fot fi fi pi
elto de /li du . N<t/1. $A fi ietta cha ghepenfe on puOco : %A dirae
defatto, que que t albata foejfe pi baffa>
t*l falgaret io pi etto mi 5 per que el me parerae co- sì* anche no
/tanto elvera. Ad A. Fa ori può ri altra con fa. va su fi a
nogara,cha fagiere mi . NA. One vuotufare ? zZl'IA. vaghe , e Po te
fenttnefi . NA. <td gtiandere , fda che te vttò così .
Qt&fA. Pian, chete no te f aghi male . NA. Ta de mi ; mo a mefongifquafo
fcapogio riongia> e mondò vn z^enuogio. Ai A. G hefìto ancora ben
fremo? N A. Sì mi. que gtie mo ? ^PIA. Torna a fmtrare quell'albara
, che te guardaci an chi de [otto . NA* E pò ? <&dA. S
mirato a quella dertamen,puotu vere ftofalgaretto > co te fafìui
flpiato de fot to ? NA. Mo nò mu efìsafoejfe da lu Xi. così a
telta> a dirae, queelfalgaret tofoefepì bajfo mi. Ad A. Vie tonca
lo* cha te contere de belo . NA. E l gif è puocafatga a f aitar
z^ofo . Al A. S in- time mò.per que quando te gì eri ab affo,
elfalgaretto tepareapì elto delialbara\ e ftpianto su la nogara , el te
parea a T> l'in- 'tincontragìo j perXuontena
àn queHo xe ri altro muo de Prealaffe^j . que Prealaffe ven a dire,
con far ae a dire , defenientiadeguardamento . Fa moto conto, che
fé t'andiesfìsìt quel moravo, che xe Ime, elfalgar elio tepareraepì
baf fo dei'albara, eabo da man 5 ettetor- niesfipo da IV altro
lo,elfalgaretto te ve gnirae a parere pi elto de l* albata. , e
& bo da fuor a. e an. queHo xe ri altro muo de Prealaffe
^fegondo, che me defchia- rlna botta el meparon. ttntindito mo? NA.
Pootta, mo Te pi chtar-a % que riè on gratto da vacche, a me
fmerave- gìo a comuo quelli dal IibraXZjUolo,ri ha fapio faellay e
lome d'ona forte de Prea laffe > Jipiantoghene tre mi A4 A. Elfa
•rae Ho anmafa , fel , ri keffe fatilo con fé die . Orbentena ?fa mo to
conto, que fé la He Ha nuoua ,e la Luna ne foeffe ve sin co
èflofalgaretto,a por non, le fisi le de fora nefarae don bel
peXzjOpilim ZJ> cheriequell'albara. e fi farae popi- bolo
>que no ghe foeffe da ì Spagnaruolt h ci cap.
y. e i Toifcbì, ei Ptditani^ deferitemi* de
guardamento ? e pure tutti la *ve in lo rftèdìerno luògo, api k quelle
[ielle, che i ghe di fé. quel da la baie [Ira > o che ghe fita
del bolzfon : q ne fé gì mi ? NA. A/lo el tòfaellamento rièbon,perque
nepof Jìbolofaerc quanto la Luna fé a lun\i $ che elio di fé
anquellu dal libralz^uolo a AIA. Nò al so muò de elio , el no fé pò
faere . mo i fmetamatichi chela catta, beri gì. NA. oA no fé qui d'irte
mi ,fe lome, che the refon da vendere . MA. Crito mò,chequellu d al
libr aiuolo di rae cosìan e lo ? NA. Se'l lo diefe elfa raeben 5
tamentre elporae efjere tanto depinion , queeltegniffe duro .
cinque in vin. Ad A. Che'l tegna pur fremo , e chel metta a me
conto . NsA. ^A no se miga,a comuòfea Ho posfibole, che'l di- ga
(l'altra, que te fentirè adeffo. ino no Ic,m dtfelo, che in gnegìm luogo
,fe tome , on el ghe xè fora dertamhì > e apiombw ,na fepòfare lafcoridaruola
del Sole? a thò purvezjua mi, eh' al so. MA. Si'O/tu 2) 2
brio, cap . 6. IfrOTCII, «ap.
7- èrto, che ven (fé i cuorui no ghe magna gi vogi) el
fé por a chiarir e,che, per yuan to a he fentìt a dire, la fé farà. Aio
con que rafonfaellelo a Ho muo ? NA. La Luna fé va volz^anto
(difelo) e filano fé pò vere dert amen dome quando la xe in Z aneto
. <&14A. Tornami) adire . NA. El dife elo , che nofipianto la
Ltt na in Z aneto, no la pò fondere tutto et Sole . ^MA. c Doh giandujfa
, fio può- uerhomocrhque la Lunafea nafritag già elio . Con cane
arOychefìanto ella reo da 5 quiggi , che Ha in Zaneto , gtitnpò
"V ere pi de nu ? ghe ne d altre ? NAl Sì. que vuol dire Grafalta?
&WA. eA comuo , Grajfalia ? NA. El di fé elio, que l'ina nuuola
a muo latte , ve- sin a la Luna , e que la ne altramen in Cielo .
<£WA. Oò , a tendendo adejjò. l'è laflrà de %flwa . NA. <*An sì sì,
la fra de Roma . sOMA. Efìeldife 3 cjue la ni in Cielo ? N$A.
<£Mo, no, difelo. MA. Con cane abaro ghe dijjangi tonca nù P Hra
de Roma, che vuol dire , Hrk del Par affo, fé la no foefse
ti fufof ] NA '. Cjuarda ti . e sì elfapo delle sbraofarì contra
onFUuorico(eben an divieggi) che no crea,quelafoeJfe in Cielo , per
che ellodifea Stotene > che la gh'iera . Ad A. Ofsu andagamo inuerfo e
a, que te fera, in f agno muo a pò fon benfael larecaminanto sì.
NA. Vapurlà.cha ve gnomi, pooh, el ghe ne que Ut puoche ancora . el
di fé , che la ftella nuoua la trema>per que la fé va
suentolato,quan do la va a cerca . ^lA. Ghe'lcritotì? JMA. <*A
ghe'l crerat,fe'l noghinfoef fé paregte delle flette, que va a cerca ,
e fi no trema mi. e fi el trema tome quelle* chexe elle,
elte>perque a nopofsonfre- marle de vifta, che paghe ben. e
anque fi a Ir emanto la de efler li uè . aPkfdd: Àdò va , che te sì
on Rolando . NaA. Tamentre que, nofapianto queHù, on la fé a fi a
Bella > elnopo gnanfaere co- muo la flpia incenderà 5 e sì le venaej
fere tutte filatuorie , quelle, che 3 Idi fé a \flo perpuo/ìto 5 ne vera
? <z?J4A. Ala el ni cap. U
cap. 19. elle fogna ben > que la fea così.
NA. Orbentena, avuo^cbaft togamo onpuo dt Fpajfo con gifuo
fprenuoBtchi mi i loren. ^ ^/^. $, q Ue dlfcio ? NzA* El dìft
, que la Beila durerà afte s afte, /e s'im- batte j, che L
Sole no la desfaghe , elio . At^sL El poca an dire, que la durerà
inchinda , que elio va a romprela 5 in t* avno rnub , con la (e a anda
via, el pa- ra tegnir fremo, que te fio eilo>cbel'hà rotta .
N<t4. <z?tfo gbe vegna el mal drean $ quejìa farae ben de porca !
El *—*\ di fé po> eh e* l fera abondantia d* agno confa, e
que l'è na Bella de quelle bone. J\d<zÀ. Inchindamb la va ben ,
quanto de quello, mofe la tegmffe mo fremo con Bi ficchi 9 a que
ftjfangi ? crila purea tomuo. NtA. T>e gihuomini pò? quel le
puoche con fé . M<t4. Con farae a di ^; re ? NtA. Con far a a
dire^ quei doen* tera inz^egnofi, e facente-^ e quei fé te- stura a
la verite . AisA. Vete> che'l se fchiano el fyrenuoBìco inelo.no
vito a comno te agnino \ el ne amposfibolo % chel cup.
li. chel viua , habbìanto tanto e dibrio da Xoene^j . N^4. T^e me
sbertez^à nero ? dì pìprefto , que el fprenuoUuo è Ho ve ro in nìi,
que a s'haon tegnu a la veri- te, fé ben elio voi e a archiaparneght^j
. zTkfo/l. T'irà , che f he vento. iVW. El dife pò anche * que Ha
Bella ca7z, \ - ra via le giottonarì , le rabbie 5 quf /i- gi mi ?
oJldtA. Sì >Sì , così noJìejfcle in perorare , le nuollre carte >
mo ano me fmerauegio difuofprenuoHichi,que tutto el so libr alinolo
me pare onfpre nuoflico mi 5 e que fempre el fraghe a indiuinare^ .
N^4. El dife ben , che el ghe nha vn altro per le t tra da far C1F
' [lampare^ . zsì4<iA. Che l foghe pre- flo,per que feanto vesjn
Li ^Marefèma-, e l farà bon da qual confa an etto.ftgon do, che que
fio n ha fatto rire adejjò y que l'è da Carleuare_j . N-*A. E quelìlt
, che le&ea diffe , che'l creapurpiamen , que el l'haefje fatto
flambare per ven- derlo, e gu agn ar qualche marchetta eU lo M$A>
Che'l U&re tene* a tfazy Zjargi,
Lorerc* cap. f. 6. sgargi, e fé ghe
nauanZjeffe qualchuno, chellofagbe in fon reuoltclo y e chelfel
caXjZjt, on fé ca%z^è Tofano le Jp tette 3 che l farà ben meffo in conerà
. N<tA. Lagoni a line, àfebn a cà. <vuotu Rare a cena con mi
? a fin dare ontiera ve . Alzs4. <$Al so, mo a nopojfo^ue la Afe
nega rri afptetta 5 tamentre a fin def grati . AV/. $A T>io tonca
. MzA. sA 'Dio . IL FINE IIMII asS
a£$5 * 1^/7 >" r» * 1 "- ; <r* li u TU
■ 1 JL ■ ■a ■ Grice: “If I had to
choose between Colombe-Aristotle to Galiei-Plato, I chose the former!” --
Colombo. Colombe. Ludovico delle Colombe. Ludovico Colombo. Keywords: the
irregular surface of the moon is filled by an invisible substance, the earth
does not move, the ‘nuova’ stella is a misnomer: it has always existed; bodies
float or sink according to their shape. Aristotle’s reasons never sink because
they are square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombe” – The Swimming-Pool
Library. Colombe.
Grice e Colombo: l’implicatura
conversazionale dell’idealismo toscano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Grice: “I love Colombo as I love Wilde – I mean, the sponsor
of the Wilde Lectures on Natural Religion! Colombo wonders, ‘can ‘theologian’
be written under ‘profession’? Surely, like me, Colombo distinguishes between
theologian and philosophical theologian – if there is no such distinction, and
I’m not sure there is – perhaps there shouldn’t be, Colombo would say, the
‘philosophical’ in my ‘philosophical eschatology’ is totally otiose and
anti-Griceian!” Insegna a Milano. Si è occupato di antropologia, metafisica e
la filosofia italiana -- Rosmini, Martinetti, Volpe, ad Aosta. Altre opere:
“Senzo e atto” (Studium, Roma). La morale communitaria (CUSL, Milano); “Pietra
angolare: l’chiesa d’Inghilterra” (CUSL-Centro Toniolo, Milano-Verona);
“Antropologia” (Massimo, Milano), “L’immanente e il trascendente”; “La
correttezza del nome nel Cratilo – il nome corretto -- in L’origine del linguaggio (Celestian Milani),
Demetra, Verona; Il ri-ordino dei cicli scolastici, in "Quaderno di Iter",
“Filosofia come soteriologia: L'avventura di Piero Martinetti (Vita e Pensiero,
Milano); “Il giusto prezzo della felicità, -- reasonable or rational? -- Edizioni
ISU-Università Cattolica, Milano); “Antropologia ed etica (EDUCatt, Milano). Forme
e modelli del pensiero filosofico. Introdurre alla comprensione
e uso dei linguaggi e degli strumenti specifici
della metafisica, dell’antropologia, dell’etica;- all’acquisizione di
abilità critiche e analitiche per comprendere le dinamiche del vissuto, della
società edella storia contemporanea dell’uomo occidentale. Salute
e salvezza dell’uomo. Il senso della cura e dell’educazione.
Una sfida per la ragione e per la fede.Valutazione
critica del rapporto metafisica-antropologia-soteriologia in
tre momenti della storia dell’Occidente. Il mondo antico-classico greco-romano.
Il mondo nuovo Cristiano. Il mondo moderno e post-moderno. C., I Greci e
l’amore incerto: grandezza e aporia dell’eros platonico: il Simposio,
ISU-Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Kierkegaard, La malattia
mortale (qualsiasi edizione, purché completa): ai fini della prova d’esameè
richiesta la conoscenza della sola Prima parte: La malattia mortale è la
disperazione; J. p. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo,
Armando, Roma (o altra edizione, purché completa). DIDATTICA DEL CORSO. Lezioni
in aula, ricerche e percorsi personalizzati. METODO DI VALUTAZIONE. valutazione
di eventuali elaborati scritti o relazioni orali. AVVERTENZEIl docente è a
disposizione degli studenti per ogni chiarimento didattico e contenutistico,
per l’assegnazione delle tesi di laurea e l’assistenza necessaria alla loro
elaborazione.Il docente riceve durante il periodo di lezione presso lo studio, Cap.
I. AIIO A. AoxdZ (loi ikqI iov jtw&avtt 1ft$ ovx d(is- 17i kiztjTos
slvca. xcd y«Q lxvy%av ov tcqcoijv sis u6zv o foco- 4 oh <s3 poi*
Stallb. ad b. 1. Facit, inquit, Plato Apollodorum inter epulas versantem et
convivis narrantem ea, quae hoc libro continentur. Sed neque
epulae commemorantur, nec convivae Apollodori, ut sane mireris,
Stallbaumium in re dubia et incerta certum iudicium exhibuisse. Platonis
voluntatem declarant verba p. 173. C., quae primus Sydenh.
corrupit. Eius couiecturam cum codd. auctoritate probatam reperirent
ceceutiores, ad unum omues “taUta” pro “tautA” ediderunt* Verissima autem lectio
vulgata est: “ovxoa 8rj iovreS apa xovS AoyovS itepl avt&v
lizoiovpE$a y dkxs,oitEp dpxopevoS EtnoVy ovh ape- AextjxodS d ovv 6 «
nai vptv 6i7]yij<5a6$ai , xavxa XPV 7toutv”. Apollodorus nimirum
cum domo relicta Athenas proficisceretur, sermones in Agathonis convivio
habitos ei repetierat, qui ipsum tum temporis comitabatur. Brevi post
redeuntem, ut videtur, ex urbe cum alii rogarent, ut eosdem sermones ipsis
repeteret: accinctum se paratumque ad rem ostendit ita, ut qui
vellet, quando iuberent, quod brevi ante fecerit, idem nunc facere,
h. e. inter eundum narrare. (p. 178. C. “ovtoo 8? IoyxeS apa xovS
AoyovZ TtEpi avroov ItcoiovpeScx”) TtvvScivEd Se. Vulgo
additur “nun” quod nec codices habent exceptis paucissimis, nec FICINO
in conversione agnoscit, neque vero sententiae ratio exigit,
merito omiserunt Belck., Stallb., alii. Praeter codd. optimorum fidem “notheias”
suspicionem movet ipsa sedes “nun” particulae , qua sede effcitur,
ut nescias, ad antecedentia pertineat, an ad sequentia temporalis particula.
Schieierm. relata ad “itwBdvetiBE” particula verba convertit: Ich
glaube anf das, wonach ihr ietzt fragt, nicht unvorbereitet zu
sein. Hoo quoniam dici nequit nisi respecta habito alius temporis,
quod praesenti tempori opponatur, otiosam particulam ietzt censebis
rectissime. Nam priori tempore non exegisse viae comites sermonum [“Sttv
avicbv (frahjQo&sv. twv ovv yvaglfiav tig oM 6&sv xatiduiv fis
xotftfa&sv ly.uX.t6B , xal xaLfcav a (ice ry xXy- 6tt, '0
<PaX.ijQtvg , k<py, ovrog, uXoXXoSwqos, ov xbqi-“] narrationem, cor
disertis verbis indicetur, caussam non video. Nou rectius alii cum
Wolfio: letet bin ich vorbereitet, euerea Wunsch zu erfullea. Quid
euim? Tempore aliquo non praemeditatum Apollodorum fuisse ut per se
intelligitor, ita non erat verbo posito indicandum. Ceterum,
ut clarior fiat totius loci ratio, tenendum est, *in medias res* lectores
abripi, ut, cum Apollodori comites dixisse fingantur: Narra, si
lubet, Apollodore, orationes illas nobis, Apollodorus
contra respondeat: Videor equidem mihi ad rem, quam exigitis,
optime instructus. $ a\e poS ev. Phalernm navale Atheuiensium
fuit haud procul ab urbe distans. Aunotat Schol. ad h. 1. $d\7jpoy
6ijpoS AlavriSoS, IB, ov AnoWo&GopoS, Quia autem, inquit
Hiickertus, ad mare situm Phalerum, ex veterum more dvikvai positum est de
eo, qui in urbem tendebat, uti ex urbe Piraeeum petens xccxapaiyeiv
dicitur, cf. Plat, de rep. I. init. xal itai?,GDV dpa ry
xXjjdei. locum queudam inesse verbis insequentibus, addito
itaigcov participio declaratur. Variae autem doctorum hominum
sententiae sunt dubitantium, ubi iocus lateat. Wolfius in festiva
(paXypevS vocis pronuntiatione iocum deprehendisse sibi
videtur, Schiitzius de formula judiciali cogitandum censet, quae addito pagi
nomine conspicua allocutionem festiva quadam gravitate ornaret. Sed non
efficitur nisi superaddito patris nomine formula judicialis, v. c,
^ypod^EYTfS JijpoCSivovS, TlaiaviEvS, quo exemplo usus est Sebo), ad
Plat. Gorg. p.451. B. Adde Aristoph. Nubb, v.134., M. xls £d$’ 6
xoipaS tt/v Bvpav ; 2rp. # siScovoS 1 v\oS 2rpe- if)id8?fS,
KiJivvv6$£r. Non minus a vero aberrat huius loci interpres in
Scbilleri Nova Thalia T. II., p. 170. # quem Stallb. laudat: Ile
da, gestronger Herr, Biirger und Ziinftcr von Phaleron. Satis lepida haec
sunt, sed ab interprete ficta, non facta a Platone. Ordo verborum mutatus
est, atque hominis nomini nomen, quod a demo derivatur, praepositum;
scin’quam ob caussam? Plato cum scribere debuisset
^TroAAodeapoS" ovzoS o $a\7jpEvS, illum verborum ordinem exhibuit,
ut, qui Apollodorus vocandus esset proprie, idem a7roAAodc*>pot;
epitheto, quod hominis opportunitatem exprimit, ornaretur. Scribendum
igitur est: 6 <Pa\7jpEvS, Eqxrj , ovros, obroA- A od&pof,
commate p6at ovrof posito, ut nominis per iocum dati potestas elficacius
eluceat. OvroS enim in allocutione cum nomine proprio coniungi
solet, ut in Protag. p. 193. D. , quem locum Stallbaumii industriae debeo,
scribitur: onat lyco ttjv tpoavrp' yvovs av-TOV 'imtOHpOLTlfi t Iqxrjv ,
OVTOf, pi) n vEODtEpov ayyzXXziS; Sed I more Homerico nunc
disputamus, r STEpov npoTEpov, Quin statim revertimur ad
explicandum, qui in ficto nomine proprio latet. /isviig; Kayu bntixag
niQii^uva. Kal og, 'AitolXo- dcoQS, S<prj, xal fiTjv xal Evay%os as
Itfpcow, fioviofie- vos 8uatv&i<S&<u xi}v 'Ayu&uvog
Igvvovoiav xal Za- E iocnm lepidissimom? '0 $>ot\r)pevi
rectissime ut cpaXijpiS pronuntiandum censet Astius, non, ut calvitium
carpatur Apollodori, quod nullum fuisse pari iure contendimus nos, atque
luisse Astius suspicatur, sed ut vana Socraticorum morum imitatio
notetur. Consentaneum nimirum est, et verbis probatur ov
XEpipEVEif, Apollodorum ad Socratis modum festinasse, corporis habitu
pedumque positu e longinquo ( [nopfico - Sey') conspicuum. Ut igitur
Socrates ob incessum (IpivSov in-star fipEvSvedSai dicitur Aristoph. iN
ubb. v* 361, et Syrap. p. 221. B., ita Apollodorus $aXrfpis appellatur,
quae vox eiusdem fere significatus atque fipivSoS, avem aquatilem
denotat altissimis pedibus superbam. Sine dubio autem multo iucuudior
erat, quam Astianum illud calvitium, Apollodoro anoXXo^oapov epitheton,
quando quidem ipse Socrates, cui ille aimilliuius videri gestiebat,
datum se donatumque civitati a deo praedicare solebat, cfr. Apol.
Socr, p.30. E., iav yap .ipk ano- XTEivrfZE, or> jup&UoS
aXXov toiovtov Evpr/dETE aTEXVGof, ei xal yshoioTEpov einely,
npoSxeLpevov xy noXei vno tov Zeov x.t.X. ov X E p l fl£V ElS. Ilaec
est Stephanianae lectio editionis, quam Stallb. in textum
recepit, Bekk., Dind., Riickert. nepiplveiS ediderunt ex auctoritate
codicum. Utraque lectio bona eat i utra verior sit, alii videant. Unum hoc
certum esse puto: in interpunctione et in accentu codicum fidem perparvam esse
aut nullam. Futurum tempus in textum recepi sensu quodam veri
ductus, non ratione. Ad idem fortasse recurrit, futurum an
praesens tempus probuveris, neque est, uisi pronuntiatio verborum,
quae alterutro recepto tempore iminntatur. xal prjv xal £v ayx 0 ^ ^post
pr/Y in vett. cditt. omissum Platoni redditum est e codicibus. De
voculae veritate consentiunt viri docti, de eius explicatione non
item. Riickert. xal ErayxoS esse censet neu 1 i c h sch n, xal prjY
autem, inquit, ne quem offendat in orationis principio positum, non esse
moneo in principio, sed respicere praecedens membrum ov itEpiplvetS, hoc
sensu: Tu non exspectas? Et tamen ego nuper iam te quaesivi. Quid? Tu
non recte explicas, Riickerte , hanc particulam? Et tamen ego cius
significatum ium diu quaero. Satis est, exemplum laudasse unum e multis,
quo exemplo Riickerti explicatio reprobetur. Protag. 310. A., 22.
navv plv ovy . xal XapiY ye siti opan, lav axovi/re. Et. xal pijv
xal rj/ieis daX, iav XiyyS. Stallb. xal pijv xal ad notissimum
comparandi genus revocat, quo utrnmque comparationis membrum
addito xal augetur, e. g. xal ivayxof de i&jtovv, c osnep xal
yvv de %7]TG). Dubito, num recte. Ut exemplo utar Protag. supra
laudato, certum est, amici non hanc sententiam esse: Uti tu no-XQazovg xal
'AlxifittxSov xal zwv nV.ov tav toti Iv r a Owditxva auQaysvojiivav jrfpl
zav Iqcouxuv 16- yav , rivis z\Octv. «AAog yag zig (ioi diqyiizo, «xijxo
ag •bolvixos zov 0Mx aov‘ £<pij di xal Os lidivai. cllkcc yaq
ovdlv el%B Oarptg iiyuv. Ov ovv (ioi St^ytjOak' bis, ita nos tibi,
si dicas, gratias habebimus. Sed ipste videtor sententiam suam
mutasse Stallb. ad Protag. 309. B. , 2. ev Vpotye ido&v ( sc.
SiaxeitiSai d 3 AXxi(5id8r}S itpoS i pe) ovx rpaSta 6e xal xfi vvv
7 ) pipa • xal ydp 7toXXd vTikp ipov ehte, ftorjSaov i pol , xal
ovv xal apxi an baivov £p- XO/iai f convertit enim rectis- sime:
und duher komme ich aoch eben erst von ihm. Videtor igi- tor xal
ZvayxoS, xal qpels, xal apri cett. in hoc genere loquendi cum
gravitate quadam dici , quae cum affirmatione coniuncta sit. Prius
xal autem in initio posi- tum particulis pr/v, pev t dr/, ovv , xoi
ita inservit, ut easdem ia initio enuntiatiouis ponendas, quoniam per
se non possunt euapte vi exordium enuntiatorum esse, suffulciat atque
quodammodo in principem locum orationis in - ducat. Exempla permulta
huius xal expletivi reperiuntur , cfr, Symp. C. xal p7fy 9 eo 3
Epv~ £>ipaxe, ehteiv x ov 3 ApiSroq>dv7j t aXXy yh tctj iv
vqj 2xgo Xeyeiv x. r. A. Ibid. p. 199. C. xalpjjv t o o (piX e
UydBoav, xolXgA poi £$o£,a$ xa$T/y7/6ad5ai xov hoyov. Adde 220. D.
xal ydp SipoS xoxe rjv y quo loco cum gravitate caussae indicium in
prima sede enuntiatiouis positum est;< die Ur- sache vnr, es war
damals Soromer. Contra in verbis 220. A. beivol ydp avroSi x ei M c
»vif. vis epitheti quoniam caussae gravitatem superat, ab initio
Setvol positum est. Cratyl.. B. itaXaid itapoipia , oti x d
xaXa Isxiv dity $X £t paSelv • xal 8j} xal xo itepl x tav ovo-
patGDv ov dptxpur xvyxavei ov pa$ypa. Iam nostri loci verba convertenda
sunt; Und er sagtet Apollodorus, in Wahrheit, bucIi neulich schon
suchte ich dich. a\\oS ydp xis poi 8trj- yeixo. H. e. Alius
mihi iam fuit harum rerum narrator, quem Phoenix edocuit, Philippi
filius; te quoque rem compertam habere dixit; verum euimvero nihil
certi narrare potuit; iam tu igitur narra. Proprie ita disposita
singula membra exspectaveris: drAAo? ydp xis poi fterjyeixo — aXXa
ydp ov6lv elxe 6a<pls Xi- yeiy — t<pr\ de xal 6h
eiSivai — tfv ovv poi dvfyrjdat. Invertit, ut videtur, Plato ordinem
enuntiatorum, ut Glauconis audiendi studium et festinationem vividius
exprimeret. dixaioxaXoS yap el . Minus apte in conversione FICINO:
te enim interest sermones amici tui narrare; neque Stallb. satisfacit
convertens; te eniih maxime decet, amici h. e. Socratis, magistri
tui, sermones referre. Verba sic reddam potius: Convenit enim tibi in
primis, qui Socrs- Sixonbtaxog yag tl zovg rov balgov Koyovg
anayyllluv. ngbttgov 6e pot, ij 6’ og, tini, Ov avtbg nagtyhov tjj
evvovela zavzrj fj ov; Kaya tlnov , ori II uve a- C nctoiv Iones eoi
ovdev diiyytie&ai ecupig 6 Sit]yob(iE- vog, d vmazl qyet vtjv Owove lav
ytyovivai tairtjv; tis, amici tui, sermone» referas. Ceteram ut
snpra <pa\rjpis et deodatns Apollodorus vocatur, ita nunc kxaipoS
2 ah xpccxovS audit. In verbis insequentibus r/ d* OS legitur;
non male. Aptius fortasse est f/6o$, de quo Schol. ad Piat.
Phaedon, a.v. 17 6* 'Eav plv, inquit, # dvo piprj A oyov, Hsxai
£<p?j oSy xovxiSxiv £<pi] 81 ovxof. oi Sb Xeyovdxv , ort auro
pavor drjpaivei xo £<p 7 /. iav $ £r pepoS XoyoVf tsxai <pi\ot
f aif f ASrjvatoi t r) u<pe\oS rir Aiyi- vffxaix. T. A. Bekkerus
e contraria ratione p. 205. C. oAA* opd>S 7/6?/ scribendum vidit
pro oAA* opcoS 7} 6* ip oddkv diijyet 6$ai. Ficin.:
Revera, inquam, certi ni- hil retulisse tibi ille vi- detur. Cum
emphasi dicitur diijyeid^ai ac non sine acerba irrisione eius , de
qno supra di- citur » diTfyeixo. 9 Nimirum cura Glauco dixisset:
oAAo? yap xiS pot dujytixo t Apollodorus ovSlr St ijyetxo dacptS
satis malitiose responsurus erat, quod in orat, obliq. conversum
audit: £oix£ 6ot od&v di7fyEi6$ai. Riickert. infi- nitivum
praesentis dtr/yetd^ai censet, malim imperfecti iuter- pretari.
Exempla si requiris in- finitivi imperf. , cf. p. 176. A. l<prf
— da 'avddt xe 6<pds Ttovrf - 6a6$at xal $6 arx as xdv $eov xal
xaXXa xct vopiZopeva z pi- ne 6$ oct npds xov notor, quo loco quae
momentaneae actiones eunt, aoristo, durantes imperfecto tempore
descriptae sunt. Adde p. 174. D. xoiavx* axxa 6<paS £<prj dia
AexSirra? Uva* et q. seqq. Ceterum addito 6a<p&S ad- verbio
indicatur, Phoenicem nar- rasse quidem , sed narrationem non ita
instituisse, ut res narrata penitus ab auditore percipi pos- set.
Ilinc paullo supra dicitur fiovXoperoS dia 7tv$iti$a$ b. e. cupiens
rem omnem, quomodo gesta ait, accurate de- scriptam audire. De
praepo- sitione did cum verbo composito vid. p. 174. A. jpks yap
avxov diifpvyov h. e. heri fugi ipsum ac vitavi feliciter, p. SIS.
C* aAAa diepijxocvifda), onatS ..., sondern du setztest es
durch, dafs Phaed. p. 97. C. oot apa vovS Isxiv 6 diaxodpcov
xe xal navxw alxioS t ubi diaxo - tipdov est: omnia excepta re
nulla exornans. iyroye drj . Bekk. in textum recepit
£y& drj annotans, in quinque codd, iyaye S 1 ) repe- riri*
Videtur igitur vir doctis- simus codd. auctoritate motus esse
plurimorum, ut lyco di) re- ciperet. In servanda lectione vul- gata
nobiscum consentit Riicker- tus, in explicanda non itera. Ph dij
enim, inqoit, quod caute et cum restrictione affirmat, ut Phaedr.
p. 242. D, Theact. p* 145. D. cum maxime h. 1, aptum esso censeo. E
Ruckerti een- ijv IqukJ. 3 , togrs xal Ifii xagaytved&ai. Eyeyys
fli}. Iloftiv, >)v 6 J lya, ta ttavxcjv; ovx olaft , on xoA,- icov
iroav ’AyaQ ov Iv&aSe ovx Ixidedqfirjxev ; dtp ov d’ iya 2 .'oxqutei
GvvdiatQlfia xal inifuA.es XEXoljjpat ixdattjs rjptQas tldzvai 8 n ctv
Xiyy y nQcctry, ovSeneo 173 tQuc izi) larlv. n qo toti 6e utQirQt%uv oxy
Tv%oifu, ‘ 1*1 • tentia scriptam esse debebat rfyov -
fxal ye Stj ovxgjZ. Contra iyooyt 6t) sc. ?}yovpai ovxooS } cum
gra- vitate quadam , quam vocare in- dignationem possis, affirmat:
Nun freilich dachte ich, aucb da seist dabei gewesen.
7Xo5ev — cd rXavxcov ; Stallb. distinguendum esse docet
a Glaucone, fratre Platonis, Glaucouem hunc, de quo Apollodorus p. 173.
A. ita iudicat, ut divitem quidem hominem fuisse, sed a philosophiae
studio alienissimum recte coniicias. ixoScv cum vi negandi ita semper
ad- hibetur, ut ad praecedens verbum finitum referatur. Dixisset
igitur, explicatius si loqui voluisset, Apollodorus: TCoStEV r/yst
6v , rjv 6* iyco f eo rXavHcov , atque sic, li. e. explicatins,
Plato locutus est ia Cratyl. p. 398. fin.: 6v ix^S elneiv; EPM. it
o$ev, do 9 yo&b, Uxoo; Adde Menex. p. 235. C. M. vvv fibreoi
ol/iai iyoo xov alpeSsvxa ov itavv evitoprj- Ceiv — 2. zoZev sc.
olet . . . do ’ya$E ; iitid e Sr/pr/xev. Scbol. s. v.
*Ay<&<ovoS — xal npoS lApx&aov xdv fja6iXea gj*£to,
coS MaptivaS vEooxEpof, Verisimile est, ut Stallb. ad h. 1.
annotat, Agathonis in Macedoniam pere- grinationem hic tangi.
Quoniam apud Archelaum tyrannum tam laute vivebatur, ut qui cum
eo essent, lautitiis quasi sepelirentur, tectius quidem, sed
iocosius , ut solet, Aristoph. in Ranis v. 83. idem poetae apud
Archelaum di- verticulum notat: *H. UyaSaoy dbxov 'fxtv; d*
oaco- Tancdv p anoixexoci. 'H. 7Coi yfjS 6 xXrjpoov; J. is
fiaxapoov evaoxfxcS. Errarem quod attinet Glauconis, qui rEGoSxi
celebratum Agathonis convivium arbitrabatur: facillime potuit, cum
multos iam annos Agatho abesset, vel obiter facta temporis
computatio meliora do- cere. Sed non curasse videtur homo
Xpyp<xn£ TIMOS virorum illustrium sive absentiam sive praesentiam, nequo
studiose secutus osse nisi quae divitias manifesto augerent.
iiei pe\\s it eitoirj pai. Sensus est: Seit ich aber mit
Socrates verkehre, und es roir zum Gesetz gemacht habe, jeden Tag
zu wissen, was er irgeud spricht oder tlint,' sind noch nicht drei
Jahre verlaufen. OTCXf xvxotpt. Scriptam ex- stat in aliquot
codicibus otcoi t. Sermo est de eo, qui, quo veniat errando, nqn
curat. Hinc con- vertenda verba sunt: temere, ubicunque
versarer, ober- rans. Minus recte, ut videtor, Ficinus, ad cuius
conversionem Stallbaumiana comparata est : antea vero, quocunqua continge-
i xa\ olnfitvig rt itoniv, a&luoligos 17 orovovv,
ol>x rjctov y <Sv vvvl, olofuvog Sslv navia. (t/Mov xqut- thv
ij <piXo<Soiptiv. Kai fig, Mi] /Sxibjct, tqitj ' uXX’ ilxe (to i,
nate lybvtx o r) 6vvov6la avrrj. Kayixt thtov , ore JlaiSav ovtcov Tftiav
Iri, ots ry tCqixtt]} igciycoSlq ivi- Ktfitv 'Ayatiav, ty vCxiQulq y y r
a hnvUux. &!vtv bat, oberrans, cfr. Piat. Pbaed. p. 82.
D. toiyapioi rovroiS ptv — \alpnv clxovres avtois, coi ovx eiSodiv,
0X7} gpxortat. aSXicor e pos r\ orovovv. Schol, ad Gorg. ap.
Bekk. p. 847 s, t. a^t]\arovi — aSAiof — o xdSt6iv
dvtjxistoiiivujxopcvoi. Pro 7jv volgato o codd. auctori- tate 7/
Platoni restituerunt re- centiores editores. Eam lectio- nem
scholion Bodl, cod. compro- bat s. t. 7 / : 'Attlxov roveo, axo tov
ta (Swypypirov • dj/paivt i 81 rd (a rd vxf/pxov ' Iu ydp axo tov
TfV Tiara SiceAvtiiv ‘ico- yixjjy * "OpTjpoS • rj rore xovpoS
la, vvv 5’avri fle yrjpas bearet. Do 7/ et ijv discrimino Herm.
egit ia praef. adS. Oed. T. p. VII* jt a id cov ovx cov rj pcov it
i. Inverso ordine vulgo haec edi «olent rtoddeov r)pcov orreov
hi* Recte fortasse. Ceteram ambigue haec verba dicta sunt, , ac
non «ine magna Socraticae disciplinae laudatione. Nimirum itoudctS
vocat h. e., non pueros, sed homines pueriles Apollodorus cos, qui
Socratica disciplina non imbuti huc illuc eircumferantur., Verba igitur
TCaidojv ovxcov j}pcov hi de eo tetnpore intelliguntur, quo expers fuit
Socraticae disciplinae Apollodorus. Et quoniam tertius annus erat, ex quo
Socrati «ese ndiunxerat, tempus convivii definit ita, ut qui his
proximis annis tribus convivium Agathonis celebratum neget.
Definitione hac non sufficiente neque accurata Apollodorus pergit: ore
ry 7tpcdxy zpaycodiit ivlxrj6ev ’Ayd- %cov ry vSrtpaUr, rj y rd
imvt- raot l^vev avtuS ts xal ol x°~ pevraL. ore t y rt pcdxy
r p ay codice. Riickert. ad h. 1.: Non integra trilogia, sed prima e
tribus fabula; nam singulis etiam fieri poterat, ut quis victor
existeret. Recte. De tempore, quo prima tragoedia Agatho victoriam
reportavit, vid. Alhen. Deipn. V. p, 217. ore ydp UyaScov ivixa y
IlXarcov tjv 8exate66dpoov iteov 6 p\v ydp litt d pxovzoS Evtprj
fiov S ecp ccv ovtcii Arj- vaiotS. h.e. Olymp, 90, 4. Hoo temporis
indicium perutile quidem est inprimis iis, qui in vitam Agathonis
inquirant et in historiam rerum, quod solertissime fecit Fr.
Ritscbl in Comm. de Agathonis vita, arte et tragoediarum reliquiis, llalis
Sax.: frustra eo utuutur lectores in opusculo Platonis, qui ipse pro
scripti sui cousilio nullam eius rationem habuit. licivixia USvev.
Solebant poetae victoria reportata festum diem parare iis, qui
susceptis chori partibus, ut populo fabula placeret magis,
effecerant. Quo die quoniam diis sacra fiebant ob victoriam, factam
est, ut ad euni significandam Graeci formula uterentur td iitivixia
Svav. avios tb xa l o t yogivtuL Tlaw , i<pt], aga naXai, wg 1
'oixtv. dkku rlg 601 diyyeito ; fj cevrog Zkaxgdrrjg ; Ov (icc xbv Ala,
i)v 6’ ly <a, akk’ vgxig <Po Ivixl’ ’Agi- &c6di](iog r\v rig,
Kvda&rjvcaBvg , Cfuxgog, dwxoSrjros de l' itagayeyovec 6’ iv ry
Ovvovela 2k<axgdxovg tgu- CTijg wv iv zolg (idhora tav zort, tog i(ioi
doxei. rj avrds 2. Unus cod. Vat, ?/, quam lectionem merito
reie- cerunt editores. Schleiermacberus 7/ part. potestatem non
satis asse- cutus convertit: etwa Socrates selbst? Quamquam eadem
vox manet, sive y sive ? f scripseris, tamen hae formae inter se
discrepant vehementer, y posito omissum cogitatur alterum enun-
tiati membrum a Ttorepov parti- cula instituendum v. c. notEpov
dXXoS xiS 7/ avxoS 2coxpdxyS; et quoniam in huiusmodi enuntiato bimembri,
ubi ab indefiuito ad definitum transitor, loquentia ludicium simul
involvitur, consentaneum est, omisso quidem, sed subintelligendo
membro priori quaestionis alterum vi quadam augeri, quam verisimilitudinem
vocari licebit. Igitur y non tam corrigendi vim habet , ut Stallb.
et Hiickert. iudicare video, quam probabilitatis. Contra quando 7/
exhibetur, prius illud interrogationis membrum prorsus evanescit,
ut, quoniam neque huc neque illuc interrogationis momentum declinare
possit, inter- rogatio admodum temperetur. Igitur 7/ particula qui
utitor, suum iudicium ab interrogatione seclu- dit, et sive negarit
sive affirmarit, qui rogatur, ad utrumvis audiendum paratissimus est.
Exemplum ut afferam, fiunt enim leges linguae luculeutiores exemplis,
legitur vulgo in Platonis Menon. p. 71. B. 3 py oiSa, itais&v,
oitoiov yi xi , el&dyv; y Sonet 6oi olov te eIvcu, oStiS
Mkvcovct py yiyrcStixEi , xonaparcav osxis isti, tovtov eldivai,
eUte xaXoS 7 i. t. A.* Viderunt interpp. scriben- dum esse y Somei,
eorumqne iu- dicium codd, aucto/itate probatur. Nihil enim certius
est, quam Socratem ita instituere interro- gationem, ut simul
indicet, Menonem non posse negare rem in- terrogatam. Ad nostra verba
ut revertar, Glauco, cum Apollodorum htaipov 2<*mpaxovS indi-
cavisset 6upra, y avxoS 2ao xpaxys dixit
admixta probabili- tatis notione: am Endo doch wohl Socrates
selbst. Iam patet, opinor, cur tanta gravitate, quanta potuisset,
Apollodorus responde- rit: ov pd xov Jia. Graviora enim negatione
opus est in re- sponsis, ubi ita instituta prae- cedens
interrogatio est, ut quae vera non sunt, ea vera putare, qui interrogat,
videatur. Kv6 a 5 yvaievS. Vulgo legebatur KvdaSyvsvS , quod
Fischeri industria correctum est. Steph. Byz.: KvdaSyvatov. Sfj- poS
ryS riaydioridoS <pvXyS' o dypoxyS KvSa&yvatevS. Eandem
formam reperies apud Aristophanem, quem ad h. 1. laudat Riicker- tus,
Vesp. v. 895 et 902. tiptxpoS, arvicoSytoS a ei* Haec
epitheta commemorantur eo consilio, ut quibus ov fiEvtoi alka xai
ZkoxQartj y£ ?vta ijdi] avtjQoptiv m> Ixsivov ijxovda, stat' (io i
(ofioloyu xa&axtQ Iscei- vog dttjyeito. Tl ovv; Etprj • ov diqyqaco
(tot; sravrog tj odog V £t’s atfrt» fautqSda n opEwoftsvotg stat
Asystv stat dxoveiv. Orna di] lovteg a(ta rovg Aoyoug Jt£gt
avtav Aristodemus tanqnam homo So- cratis amantisaimus
indicetur* Nempe solent ita iudicare impe- ritiores, ut ab externo
habita corporis ad ingenia concludant* 2 pvxpoS est , quod nos
dicimus : untersetzt. Apud Xenophontem Aristodemus pixpoS audit M*
I. 4. 2. , ibique deos esse negat. Festis diebus blautis
Socrates usus, est, ut videre licet e p. 174. A. , Aristodemus ut
semper ctyvTCodtftoS fuisse censeatur, ad- dito atl edicitur , quod
in ahi ex plurimorum codd. auctoritate Ruckert. mutavit. Utrum
recte fecerit, nec ne, alii videant. iv zois pdXisra rc ov
Ture. h. e. Convivarum illorum, qui Socratem maxime
amaverint, acerrimus amator. Latiore significatu verba tuiv rore
Schleierra. accepit* der war bei der Gesellschaft zugegen gewesen und
einer der eifrigsteu Verehrer des So- crates damaliger Zeit, wie
mich dunkt. ov yievtot aXXa. xai, Adhiberi haec dicendi
formula solet, ubi commemoratum est, quod iam satis videri possit
ad rem, quae paratur. Apprime respondet LATINORUM: nihilo minus
tamen. Interdum xai omittitur, quo omisso edicitor, ut id, quod
ante commemoratum sit, minus probari iodicetur aliudque addatur illo multo
probabilius, cfr* Piat» Meuen. p. 86. B, n dw ptv ovv* ov
pkvxoi, gj 2&>Hpa- teS, aXX’ iyooye ixelvo av r/dLSta,
Zltep TjpOflTJV TOTtp&JTOV , Hai Cxetpaijxijv xcti
dxovdcujn. — Eodem plane modo xai omittitur in formula dicendi ov
fiovov — dXXitj de qua vide sis, quae an- notata sunt ad p* 180*
A. ovdiyyr/cco poi. Ut Graeci, ita nos: erziihltest du mir
das nicbt? quod ita dictum est, ut explicandum sit: scio te
nolle narrare, quaro exorandus es mihi. Alia plane ratione Stallb*
hanc dicendi figuram explicat: Ilaec interrogatio , inquit ,
alacritatem qtiandam animi et aviditatem sciendi indicat, fere ut LATINORUM:
quin tu mihi — narres? Alia ratio est Verborum p. 2 12. D.
rtaiStf, $<py t ov tixeipetiSe, ubi ad lectionem codd. trium
(SxeifsadSe Riickertus annotavit: Aoristum ut non admittendum, ita
non omni ex parte spernendum duxerim. Male. Vid.annot. Ceterum T i
ovv ab inseqncntibus verbis maiore interpunctione disiunxi, nam non
possunt, ut videtur, in una cademqne interrogatione ri ovv ov
couiungi. - - itdvxoot 7 } J 6 o f. parti- culam, veritus Bekkeri
auctoritatem, e textu semovi, quam- quam Riickerti exemplis
edicitur, ut certum iudicium de eadem edere dubites. Laudat enim
ille Piat, de Legg. I* p. 625.^ A. ftposdoxdi ovx av dt}8&>
rjpd? C irtoiov(ie&cc , i vgte, otcbq ccQ%o^evog tfotov, ovx
dfiste- zrjxcog I '//a. el ovv dei xa l vfilv dirjyytiacfftac ,
ravra ^937 iioielv. xal yaQ fyutys xal dXXag , otav [Uv twag % egi
<ptXo 6 ocpiag Xoyovg rj avtog nouafiai y ccXXcov axovcoy flebis tov 0
ie< 3 ftca tocpeXelti&at, vTteQtpv wg cSg %ccIq(j' otav 6 s aXXovg
zivag , aXXag te xal tovg vfie- tBQovg tovg tav itXovtilcov xal
xqtjimxxlGxlxcov, avxog te a r&oiiat, vpag te tovg ixaigovg l?.eco,
on oceG&e n D Ttoielv ovdev % OLOvvteg. xal icspt re
xoXireiaS xd vvv xal vopcjv xrjv 8iaxpi/5?jv XiyovxaS re xal
axovovxas apa nara Trjv nopdav rfonjdetiScti. 7tav- tgX 6 9 rj ye
ix KvooGov odds — oo$ axovopev, ixavtj x.x.X . Adde Apol. S. p. 33.
D. xi ptj avxol ySei-OV, xgjv olxeioov xi- vds tqjv ixsivcov ,
itaxipaS xal adeAcpovS xal aXXovS rovZ itpoS- T/xovraZ , eiitep vn
ipov xi xaxov litEitovSEfSav avxdtv ol olxslot, vvv pEpvijdSaz.
TcdvtooS Se 7tdp£i6iv ocvxqdv tcoXXoI lv- xavSoi, ovS iyco opta x.
x. A* Ce- terum convertenda verba DOstra sunt: Wie nun? sagte er,
woll- tcst du mir nicht erzahlen? je- * dcnfalls ist der Weg in die
Stadt gecignet fiir eine gcgenseitige Unterhaltung wiihrcnd dea
Geliens. Picinus habet: apta quidem via est, quae ducit iu urbem, et ad
audiendum pariter et ad dicendum. xovSXoyovSrtEpl ClvxgSy, Nota vim
articuli , quo absente ecnsus existeret hic: Sic igitur inter
eundum de his collocuti eumus. cfr. p. 207* A. xavxa X8 ovv Ttdvta
iSldadxi p£ , oxoxs nept xc ov iptDXixdjy Xoyovf nounxo x . A.
Addito articulo sententia haec est: Sic inter eun- dum, quae verba
fecimus, de his Icag av v[ie lg i[ie yyeiti&e
fecimus, cfr. p. 216« C* aAAa di pov dxovdzxxe t aoi opoioS
xi iStiv ols iyco eixa6a avxov xal xrjv Svvapzv , Savpadiav
lx?i h, e. et vim , quae ipsi est, quam admirabilem habet.
ei ovv Sei — xcqieiv . De his verbis vide quae annotata sunt
ad p. 172. A. Docet autem hic locus, qui dilferaut Sei et Xpi}, de
qua differentia verborum jam a Ruckerto est ad h. 1. 'an- notatum.
dei necessitatem ex- primit, XP 1 ? voluntatem necessitati inservientem,
cfr, Aesch. Or. c. Tim. p. 29. 6 vopo^ixijS — aTtadsi^Ev, ovZ XPV
6rjp7jyoptiv xal ovf ov Sei Xiyszv iv xaa dijpoo h. e. Manifesto
legislator declaravit, qui velle debeant coram populo verba facere
et quibus orationem habere non li- ceat. v iC8p
cpv&S co S xalpv* Orta est haec dicendi formula ex
vitEp<pvGjf x a ip°° & Xatptof quod cum non intelligerent ,
qni describendis libris occupati essent, factum est, ut coS saepius
omitteretur. Seusus est totius loci : lam si etiam vobis narran-
dum est, volo equidem, quod feci nuper , idem nunc facere
lubentissime. Namque aeque nunc atque alias sive ipse
instituam, xccxodaifiova slvai, xal oto^icu vfiag dhjfrij oi&tJ
' iyco [dvtot vfiug ovx olo/uu, uiX tv olda. Cap. II. ET. 'AH
ofioiog st, tn 'AnoXXodoQB' ail yag 6ctv- tov rs xaxt]yoQUs xal rovg
dXl.ovg, xal Soxng fioi aTE%v wg ndvtug d&Xlovg tjysi6&ttL xlijv
EaxQccrovg, ano (Savrov aglifievog. xal ono&cv aozl rav tijv
tfjv vive narratos audiam philosophi- cos sermones, praeter
quod augeri me scientia puto» impense etiam laetor»
Xprj paxi^x ix gjv. Stallb.ad h. 1, a Vulgo XPWonrti&v-
Illud aptius hoc loco recte indicavit Fischerns. Praecedit enim
n\ov- 61gov.» Recte xpVf £0LTt StixtaY receperunt editores non satis
recta de caussa» Licuisse enim con- tendo Graecia dicere: ol
it\ov- dioi xal XPV paziSxad, ut Latinis licuit fures ^et malefici
dicere , neque dubito , quin lectio vulgata B. xovS q>i\ov$ xal
x ovS itoXtpiovS recipienda sit» Nostro contra loco, quoniam non de
certo quodam hominum genere sermo est, h. e. de foene- ratoribus,
sed homines indicantur quovis modo lucro inhiantes,
XpTJpocTtftiXGov unice verum est. l6ooS av vpeiZ,
Schleierm» convertit: Vielleicht nuo haltet ihr wieder
eurerseits (lafiir, dafs ich iibel daran bin , und ich glaube, ihr
mogt ganz richtig glauben, ich aber glaube es nicht von euch,
sondern weifs es. Oh6Sai> aXtjSf} . o letiSat ( opSd SoZdctsiv)
eldivai, vocabula Socratica sunt, quibus Apollodorus uti videtur
li. 1», ut Socratis discipulum se probet. Ceterum laudaro Plauti
versus lubet petitos c Cas. initio: Clcostr» Face, Chaline,
certiorem me, quid meus me vir velit» Chal. Ille edepol videre
ardentem te extra Portam Metiam, Clcostr. Credo ecastor velle.
Chal, At pol' ego haud credo, sed terto scio. dei o fio io S —
it\r)v 2? X p dtx O v?» Vario modo haec verba ab
interpretibus explicantor. Wolfius Iv pbv yap xoiS XoyotS dictam esse
censuit pro aX \d yap iv xotS \6yoiS . Frustra. Astius convertit:
unde tandem nomen pavixoS acceperis, non perspicio: namque in
dmnibus tuis sermonibus tantum abest, ut pavixoS sis h, e. nimius
et vehemens in laudando, ut et te et alios praeter Socratem
cum acerbitate quadam reprehen- das. Apoll. Et merito pavtxoS a
vobis audio, de me et vobis ita sentiens. Hanc conversionem nemo
probabit. Nam neque usu qno- dam loquendi probatur, pavtxoS
inprimis de laudatorum studiis valere, neque ex kxaipov ver- bis
colligitur satis, pavixov ni- mium in laudando significare. Quid
dicam de responso Apollo- dori , quod ex Astii conversione iit
languidissimum? Pessime do fitavvfiiav UXafltg, ro /icevtxog
xaXiUs&ai, ovx oida sycryt ' Iv /jiv y«Q rolg Aoyotg «fi roiovzog fi'
tiav roi T6 xai zolg aXXoig dyQiatveig xXt)v Zaxgcczovg. ATIO
A. * Si q>lXzccz£, xai dfjXov ys dij , on ovtw diavoov(iBvog xai xeqi
Ifuctrcov xai x£qI vfuav (ictCvo- (icu xdt xaQaxcaOi nostro loco
meritu. est Ruckertus, qui, cum non posset, quid kratpoS sibi voluerit
his verbis, intelligere, scilicet e codd. ya- haxoS pro jxavixo? in
textum re- cepit. gUnde tandem mollis ap- pellatus sis, equidem non
intel- ligo; in sermonibus enim semper talem te exhibes : et tibi
et aliis succenses praeter Socratem.» Haec ut pugnant cum
sequentibus, ita ut ne pugnare videantur, Riickertus , in verbis Gqlvxqj
re xai roiS aWoif dypicdveiS insaniae la- tentem notionem
deprehendit, ad quam respiciens, quamque augens in maius per
indignationem Apol- lodorus dixerit: o5 <piXtave , xai dfjXoy ye
6rj x. r, A. Artificiosa haec suut, non vera, Neque Plauti
auctoritate nunc movemur, qua uti Riickcrtus potuisset in re sua.
Legitur nimirum in Me- nuechra. Both. Insanit hic quidem, qui
ipse maledicit sibi. Nam tu quidem berclo certo nou sanus
satis, Menaechme, qui nunc ipsns maledicas tibi. 8tallb.,
quoniam Apollodori inge- nium ad morositatem proclive fuerit, etiam
pavixoS de ingepii * tristitia et morositate intelligendum indicat.
Deinde supplendum ccnsfet opS&S 6h doxeis Xapeiv avTjjy ante
verba iv plv yap totS XoyoiS ael roiovroS ei. Tot- ovroS autem
interpretator /um- xof> tristis et morosus. Ut libere dicam,
quid mihi videatur, Apollodorus et ad tristitiam et ad hilaritatem
propensissimus erat ita, ut sive tristis sive hilaris suarum rerum
modum ha- beret nullum. Nimium ia tristitia Apollodorum
icperimus Pbaed. p, 117. D. in risu atque in maerore Phaed, p. 59*
A. in vitnperio Symp. p. 178* C.etD.» et quo animo hominem in
ma- gistri laude fuisse censes, qui praeter Socratem omnes
mortales infelices indicabat? Ia quo indicio ut ro fjLcrvixov eluceret
magis, Plato dypiaiveiv verbo usus est, quo verbo animi summa
commotio exprimitur. Idem cadit in uvccfipvxqGduevoS parti- cipium, quod
quo exquisitius, eo aptius est ad turbas animi ex- primendas. Iam
patere arbitror, fxavixoS h. 1. neque de immodica laudo neque de
nimia morositate dici , sed de laudis vituperiique immoderatione.
Rectissime autem Stallb, vidit, ante verba iv y\v yctp roiS A.
aliquid supplendum esse. Solet enim yap particula ita adhiberi , ut
sententia quae- dam , quum facile e cogitationum serie supplere
possis, omissa in- dicetur. Stallb. supplendum censet op^djS 81
doxeis \afieiv avrjjv. Nobis placet ei /i?} lx rcov A o- ycov.
Totius loci conversio haec est: Immer bist du derselbe, o
Apollodorus, Immer klagst do ET. Ovx a£iov xig l r ovtcav, a
'AxoiioSags, vvv IqI&iv' di A’ Sxeg ideofieftu <Sov, (itj
&iiag xoi-q- ffjjg, aiid diyytjdtti rtvsg tj6av ot ioyoi. •
AIIOA. r IJ<Sav tolvvv Ixuvoi roioiSs tivk g. fidi- iov d’ UdQZVS
v/uv, dff ixeivog diijyeito, xcd lyw xu- . gadofiat dirjyrjdaa&au , 'dich
and die andern an, and scheinst mir ohne weiteres, aufser Socrates,
alie fur ungliickselig za halten , indem da mit dir selbst den
Anfang maclist. Und woher da in aller Wclt den Beinamen da hast,
dafs man dich den Toll- kopf netfnt, das weifs ich nicht,
Ermufstedenn aut deinen Aeufse- rungeu herstammcn. In diesen zeigst
da dich wirklich so; da ziirnst dir and den andern, und zollst
allein dem Socrates ein unmafsiges Lob. o3 (piXtate — 7tapa
• naico. His verbis, quae de f ia - vi xoS nomine annotavimus, con-
firmari videntur perpulere. 'Ezcu~ poS nimirum cum non nisi to
jaclyihoS xaXiitiSai commemoras se t, consueta vehementia usus Apollodorus
paivopat xal 7ta- paitaioa dixit. Haec verba optime transtnlit
summus Schleierm. : 0 Liebster, so ist es jaklar, wenn ich so denke
von mir und euch, dafs ich toll bin and von Sumen. Inest tamen
aliqaid his verbis, quod male me habet. Nimirum amicas dixit: E
dictis tuis illud cognomen ortum est, aut eius originem et caussam
ignoro. Ad haec verba nnm quadrare tibi videtor Apollodori responsum?
Quid quaeris ? res acta est scilicet, saevio et mente captus sum.
Si quid vi- deo, ol pavixoi at exaggerant res, ita rixari amant, ad
utrum- que nutura ducente. Ad rixas autem se compos^js se
Apollodorum etiam verba amici docent: ovx a£>iov nepl tovtgdv,
'AtcoXXo- ScopE, vvv ipi&iv. Quid mul- tis? Posito post
napaitaico signo interrogandi verba convertenda sunt: O Liebster,
ist es denn nqn schon so ausgemacht, da fs ich toll bin und
von Sinnen, wenn ich so denke uber mich and euch?
toioiSs rivi?, Additur indefinitum pronomen, ut indi- cetur,
sermones non verbo tenus ab Apollodoro referri. Recte Stallb.
ferehuinsmodi convertit. Sic paullo infra p. 174. D. roiavt arra
<5q>dS i(p7j SioXexSev- ra? Uvau Schleierm.: so ohn- geflihr
... Adde A. Ad- yov roiovtov rivo? xatdpxEtv. p. 180. C.
&ai8pov fikv roiov - rov riva Xoyov £q>rj eItceIv . MaXXov
8i eius est, qui ipse se corrigit. Habet Ficinus ; immo vero a
principio eodem ordine, quo Aristodemus retulit, vobis ipse nunc
recensere conabor, cfr. p. 188. D. ovra. ) jroAA?/V xal fiiEyctXrjv
, fi.aXXov 8h nd6av Svva/nv x. t . A. adde p. 193. E. Vva xal
rd>v X oixcov dxov- dajjiev ti ExaCroS ipely pdXXov 8h rt
kxdtspo ? * UydSGor yap xal 2aoxpdr7]S Xoiitoi. p. 194. A. si 8h
yivoio , ov vvv iyoo tlpiy yaXXov 81 i'8a>? ov Stio/iai x t r.
A.*Eqsr) yuQ of ZkoxQcm) ivrv%m> leXov/ibov ts xal tag (Skavrag
vxoSeSefdvov , a Ixtivog bliydxig biolti, Mul iQt6%cu avrov, onoi fot
ovta xcdbg yByEvrjiiivog. xai rbv datlv , oti 'Em, delavov dg
'Aya&covog. yaQ avrov ddcpvyov roig huvixloig , ipofirj^ilg rbv
Zyhov' 6fiol6yri<5u d’ dg vifoiEQOv mQiGttiftai,. tavta $ij
$q>7) yup ol Scoxpatif, E nostra cogitandi ratione verba si
spectas, scriptam exspectaveris : lepr) yap 2cDxpdt£i Ivtvx&v.
Illud genus dicendi ex objectivitate enatum est, qua pro ingenio suo
Graeci utebantur in narratione. Eo autem efficitur dicendi genere,
ut Socratis loti calceisque ornati imago oculis obversans lectorum,
ut Apollodoro , ita quaestionem moveat lectori l oitoi tot ovtgj
xaXoi yeyevTjplvoS. Sexcenties hoc dicendi genus reperias apud
Graecos scriptores, unum exem- plum ut laudem, cfr. p. 174. E. ol
phy yap evSvf nalSa riva SvdoSev ditavzr\6avta ayetv n. t .A.
taS fiXavt a£. Schol. ha- bet : v4t o 8r} par a.ol fiXav-
tia, 6av8dXuz l6xvd. Satis no- tura est, Socratem perraro cal- ceis
usum esse, id quod nostro loeo colligitur e verbis a ix£i- voS
oXiyaxiS iitoiet. Quod raro fecit Socrates, ut calceis uteretur,
idem Aristodemus nunquam fe- cisse perhibetur p. 173. B. *Api-
StoSrjpoS yv nSj Kv8a$7]Yai£vZ i dpixpof, dvvxo Srjt oS a e i. X^^S
yap avrov 8 iir tpvyov . De 8iacp£vy£iv verbi potestate vide quae
annotata sunt ad p. 7* Ceterum brevius qui- dem Socrates loquitar,
non item obscurius. Sententiarum ordo haec est: Iam
heriAgatho me vocavit, sed non im- petravit a me,
utfaoe- rem, quod juberet. Odiosa enim erat concitatiorum
hominum turba strepens. Promisi autem ei hodie ad coenam,
tavta 8i } ixaXXcon rt- daprjv. Rostius V. Cl. %d verba
ixaXXoDTtiddprjv , Iva — £g a an- notat: ornavi me (et nunc orna
tns sura) ut accedam. Vide Stallb. ad Piat de rep. V. p. 472. C.,
qui laudat Rost. Gramm. §. 122. not 4. b. Herm. ad Viger. p 850.
Buttra. 126. i. Tavta 8ij interpretes positum esse censent pro 8ia
tavta 8 t} } de quo usu loqueudi vid. Matth. Gramm. pl. §. 470. 7.
p. 873* Rectius opinor, tavta de ornatu intelli- gitar, ut verba
convertenda sint: Hoc igitur, quem miraris {ovta» xaXof
y£y£vr/p£vo$), ornata or- navi me et nunc ornatus sum, ut pulcher
ad pulcrum accedam, Si dictam esset supra ortoi for VJ/- pepov
ovteo xctXoS ysyevTjp^- voS, unice probaremus iuncturam hanc:
promisi autem ei hodie ad coenam, atque eius rei gratia ornavi mo
cet. TtpoS t 6 i$&\eiv dv livai a Stephani hanc
emendationem, inquit Riickertns, li- brorum lectionis aviivai a
Bek- kero, Dindorho, Astio, Sommero, Stallbanmio receptam,
admodnm dubitanter retinui. Quod enim in sequentibus simpl, Uvat
po- 9 ixaXAaxiodfitjv, ivu xaXog xaga xakov ia. t?A<la Ov,
tj 6’ og, ntUs H £l S XQog t 6 l&iXuv dv livai axhytog Ixl B
Sslnvov} Kciyco, Itpr}, th tov, ori Ovrag, Sxwg dv Ov xtfav]jg. "Ex
ov rolvw, fqpi?, Ivu jc «1 rtjV xagoifilav Siarp&dgafttv
(itra^dXXovrtg , ag aga xal dya&iov liti Saltas laOiv avtoparoi
aya&ot. "0(irjgog (itv ydg xiv- sitom *st, «t eo non
«equitor, ut etiam h* 1. debeat. Imino si locus, e quo Socrates cum
Arislo- demo profecturus erat, inferior fuit quam is, ubi Agatho
habitabat, nonne tum primo loco poni licuit aviivai , sufficiebat
in seqq, simplex verbum?» , Hia verbis contra eos dispotatum est
rectissime, qui e sequentibus { a6iv et Urat de dv levat iu-
dicarunt. Atqpe sic Stallb. iu- dicasse miror annotantem: Codd. et
vett. editiones omnes £$i\eiv aviivai, quod de Stepbani contectura
mutavimus praeeunte Astio et Bekkcro, JSimirum sequitur deinde
la6iv et livai de ea- dem re dictum . Caecutiisse videntur
interpretes, ubi scriptor verborum positu studiose fecit, nt clare
videre potuissent, *Enl deinvov et ad livai pertinet et ad
axXrjXot) nam ut xaXeiv ini deinvov recte dicitur, ita axXrj- tot
ini deinvov he ne habet; rursum livai arctius cum dxXrjxot coniungendum
est, et est in hac coniunctione enuntiati acumen. Verba convertenda
sunt: Konn- test du dich wohl entschliessen, obgleich
uneingeladen, doch zu kommen zum Gast- tnahl. lam concedamus
necesse est Riickerto , aviivai ini deinvov recte dici, si in
altiore loco Aga- thonis domicilium fuisse constaret, non recte
dici aviivai axXrj- xot Ruckerti aequitas concedet nobis,
cfr. p. 174.C. axXrjxov inoirjdev i X 5 d v x a tov Mevi- Xeoav ini
xrjv Soivrjv, ubi rur- sum indicare licet e posito ver- borum de
scriptoris voluntate. Adde p. 174. D. iyoo plv ovx dpoXoyrj6cn
axXrjxot tj x e i v , aXX' vno 6ov xexXr^- pivot. Ceterum ndot
Mystt npdt x 6 iSiXeiv dv verba respondent nostratium: Wie steht es
bei dir mit der Lust ... pro Hattest du wohl Lust .... cfr. p. 176.
B. diopat vpcov dxovdai , nd)S fet npds td ipfi&dSai
niveiv 'AyaS gjv. Iva xal tijv napoipiav pex aftaXXovx et»
Socra- tes haud raro poetarum versus immutabat, ut mutati
contrariam sententiam funderent. Tangit liuuc morem Appulei. Flor,
p. 6. ed. I. Bosschae: Nec ista re cum Plautino milite congruebat,
qui ita ait: Pluris est oculatus testis unus, quam auriti
decem. Itnmo enimvero hunc versum ille (sc. Socrates) ad
examinan- dum homines converteret: Pluris est auritus testis
unus, quam oculati decem. Editores fere omnes e codd plurimorum
auctoritate pexaftaXov- tet receperunt. Praetulit pexa- paXXovxet
Bastius, quod et codd, nonnulli iique melioris notae ex- hibent.
Couveitit Stallb. mutatione corrumpamus , participio in 2 dvvivst ov
(iovov duttp&eipcu 9 aXXa scccl vpQldat e!$ tavvfjv rijv rcaqoiplav.
noirjdccg rov 'Aytqdpvova C diacptQovTOG ecyadcv ccvdQa
substantivum converso, quo sub- stantivo temporum discrimen ve-
latur. Unice rectum est pxxctfiaX- XovteS. Nam qui mutat, eo
ipso, quod mutat, proverbium corrumpit. Vides igitur, 'eiusdem
actionis esse et 6ia<p$sipe iv et fterapdXXetv, cuius actionis
et obiectum et ef- fectus h.l. commemorantur. Hoc autem videtur
doctis viris' fraudi fuisse, ut putarent, de duplice actione, quae
temporis discrimen in se susciperet, Platonem egisse, eo £ dpa xal
dyaScvv. Schol. ad hnnc locnm : avtopa- rot 8* ayctSoi 8«Ac3v ini
dcn- raS la6iv. xavxtjv 81 X iyovdir tiprjtiSat ini 'HpaxXei, o$
ott kfStidovto ro3 Kj/vxi £,lvoi iniCxrj* KpaxtvoS 81 iv IJvXcda
jiEtaX* Xti%a$ avTtjv ypdtpti ovtoof. otd’ av2r’ ijpnS, w? 6
itaXaioS A J- yot, avxopdxovS aya&ovS Uvai xoptpdjv ini douxa 3
eaxav . xal EvnoXiS iv Xpvtitk 3 yivtu E schol. verbis facile
colligitur, vario modo hoc proverbium im- mutatum fuisse a Graecis,
vid, Athen. Cal, De primaria autem proverbii forma, quam
Schol. indicat, Schleierm. haec disputat in den Anmerk. zur Uebers.
Eiu sonderbarer Gedanke ist es von* dem Scho- liasten, dass er uns
an das zweite Spriichwort des Athenaeos ver- weiset, welches von
Tapfern und Feigherzigen handelt (aya$ol SeiXgov), wahrscheinlich in
dem kriegerischen oder feindseligen Sinn, dass dic Tapfern
ungeladen erscheinen und, die Feigherzigen vertreibend, sich selbst
an die ra scoXffUxa , xov di Mtvt Sehiisseln setzen. Sondern
So- crates meint aya$o\ dyaSajv ini Scuraf, und aagt nor
acherz- vreise, sic wollten es durch eias Umdrehung eiumal
verderben, iu- dem sie niimlich den Agathon und seine Gnate ayc&ovf
nann- ten. .... Der Homerische Fall lrisst sich auf das ayaSot
ini 8 e iXoHv gar nicht anwenden, weil, wenn nur eine Anwendung
uber- haupt da sein soli, Agamemnon rousste ein 8nXoS sein.
Sondern «ras Socrates dem Homer vor- wirft, ist, dass er auf das
Spruch- wort, ais sei es alter, anspielend den Menelaus einen
ayaSoG nenn». Haec subtilius, quam verius disputata sunt. Primaria
proverbii forma ea est, quam Scholiasta laudat, quae quomodo mutata
sit et ab Homero et a Platone, iam videamus. Nam etiam ii
interpretes, qui Schol. formam ut primariam proverbii agnoscunt, de mutationis
et corruptionis ratione male indicarunt. Legitur apud Homer. II.
/5, 408. ctvxoparoS di oi ?/A3« floTjv ayaSoZ MtviXaoS, de
quibus verbis Plato ita videtur iudicasse, ut fiotjv aya$oS voce non
virtute fortem interpretaretur, idqne verbis ayaSov ra jCoXejxixa ac.
ipya opponeret. Assumto deinde Apollinis iudicio, quod legitor II. p f
588., aperte eloquitur! ignavum ad fortem accessisse &xX rjxov
h. e. invocatum. Proverbii primitiva forma si est, nt diximus, avxopocxot
8 9 ciya - 3oI8£iAcJt' ini daitai iadtv, facillime agnoscas licet
homcricae hov fia}.9axov alxfirjrtjv, Qvalav itoiovfiivov xret
tOruov- rog tov 'styafisfivovos axhjxov ixolrjatv IX&ovxu rbv
Mt- veltav Isi t>)v Qoivtjv, %dga ovr a Isi rt)v xov « yeivovog.
poeaeoa superbiam , qaae iisdem verbis eodemqne usa verborum ordine
sententiae innocentiam ita pervertit , nt proverbium audiat :
avxoparot 6*' dya^cor 6 et Aoi ini Saltat ladiv* Iam quod Homerus
fecit, idem licere sibi, ut proverbium corrumperet, Socrates putabat,
Neqae tamen pro SeiXdiv, quod in primitiva pro- verbii forma
legitur, ad Agatho- nis nomen alludens dyaSdir scripsit, ut
Stallbauraium judi- cantem video, — r forma enim proverbii elficeretur
haec: avto- patoi 6* ayaSoi dya^av, qui verborum ordo non reperitur
nostro loco, neqae xai part., ut Riickert. censet, hoins muta-
tionis indicium facit, — pertinet enim vocula ad totam enuntiatio-
nem, eoius exemplum habes Symp. p. 193, C, ei Se rotiro ctpt6tov t
dvayxalov xai zcov vvv nap- orroor ro xovxov iyyvtdtca dptdxov
elvai. Adde p. 206, A. dtp ovr, iq>rj , xai ov povor elvai ,
aXXa xai dei elvat , — sed Homericum SetXoi in ayaSoi mutavit,
minus, ut videtur, Aga- thonis nomen (dyaSdiv), quam Aristodemi
laudem (ayaSol ) respiciens ; avxopaxoi 6 * ayaSdtv dyaSol 'ini Saltat
fadtr. Comprobatur haec explicatio no- stra perpulere Aristodemi
mo- destissimo responso : IdoDt pivrot xirdi ryevdod xai iy o>
ovx tiv Xiytit , <w 2oSxpaxet, aXXa xa%’ "Oprfpov cpavXo t
oSv ini dotpov avSpot Urat SoirrjY dxXrjto t, Ceterum ad Homericam
illam proverbii corruptionem, non ad primariam formam eius Socratem a.
Platonem respexisse, etiam ex ordine verborum colligitur, qui est apud
Pla- touem. Homerum enim ex avro- paxoi 6’ ayaSoi SeiXcov
fecisse consentaneum est: avxopaxot 5* dyaSdiv SeiXoL nihil
mutata verborum sede, et tamen mntata sede subiecti. Iam servato,
qni apud Homerum est, verborum or- dine Plato scripsit:
dyaSwr avxopaxot aya~ fiaXZaxov alxjiTfTijr. Fortem et
strenuum bellatorem Menelaum fuisse, e multis Homeri locis
colligitur. Semel apud eundem vocatur paXSaxot alxprjr/fS II. p f v.
588., ad quem locum Platonem respexisse multi fuere, qui
annotarunt. Utitor autem il- lis verbis deus Graecis infestus atque
rerum bellicarum minus peritus, Apollo, non, ut ignaviam Menelai notaret
, sed Hectoris euimurn nt excitaret et augeret. Si displicet
igitar, quam supra commemoravimus, malitiosa fiotjY aya$ot verborum
interpretatio, (licere autem interdum poetarum versiculos psr iocum
falso interpretari, quis negabit}: quibas tamen displiceat, iis dictum
esto: Menelaum paXSctXOY appellari, ut Agamemnone inferior, non
ut' ignavus ffcisse indicetur Quid, quod Aristodemus paullo infra
dicit p. 174. C. "I6&S pevxoi xiv$v~ yevdco — cpavXot axv ini
6o<pov dr8p dt Uvai Soivijr dxXrjxot, num revera hominem
nequam 2 • Tavz uxovOaq ilitnv £<pt]' *I<Stas pivtot
xivSwivOu xal iyd ov% ag 6v Xtynq , a ZdxQare g, aXla xo&’
" OfiijQOV , tpctvkoq m> ini <5o<pov avSQOg Uvai tooivrjv D
KxXrjtoq. atj ovv aytov (ii ti axoXoytjGu; uiq lyto fiev ox>x
b[io).oyTj<Sa axXr t roq ijxeiv, a/U’ vxo aov xzxXttfd- foisse
putas, aot ita moratum, ut qui ipse tpavXov se esse confi- teretur?
Si quid video, nihil aliud indicare Aristodemus voluit addita tpavXoS
vocula, quara se cum Agathonis sapientia comparatum Agathene inferiorem
esse. ovv aytov pe naxo- Xoyrjdei; Verba difficillima
sunt ad explicandum. Faciendum igitur est, ut, antequam senten-
tiam qualemcunque nostram ape- riamus, quid alii de hoc loco
consuerint, videamus. Levissima accentus mutatione Astius scribendam
coniecit : dp* ovv aytov pe ti aitoXoyjfdei. Sed duplex
interrogatio ab hoc loco alienissima videtur. Creuzer. Leet. Piat, ad
Plotin. de pulcritud. p. 5l8. ay aytov coniecit, quod saepis- sime
scribarum incuria in ayccv mutatum reperies. Ea coniectura
Stallbaumio probatur, qui verba convertit: Nam igitur aliqua ra-
tione excusare poteris, quod me adduxeris? Addit autem, non
quaerere Aristodemum, ecquam h abiturus sit excusatio- nem, dum
ipsum adducat, sed num futurum sit, ut possit excusari aliquo
modo, quum ipsum ad epulas secura duxerit* Non male. Nihil coniectura
opus est. Ut rectius verba intelligantur, ab Aristodemi responso
exordiendum est, quod legitor p. 174. B. ovttoS ( sc. 2x?> )
OTttoS av Cv neXevys h, e. ibo, manebo, prout iusseris. Haee eo
consilio di- cuntur, ut Aristodemus, quod in- vocatus veuisset, a
nemine pos- set, utpote qui vocatus esset a Socrate, rusticitatis
accusari. Socrates contra, ut. hominem ad suscipiendum iter
dulcedine quadam pelliceret simulque itineris suscepti excusationem a se
amoveret, Aristodeme, inquit, dic, si placet, Agathoui , quod
Homerus fecerit, at verba proverbii corrumperet : avtopatoi 6* dyaSok o
6eiX<uv ln\ daitaS iadiv, idem te experiri voluisse, atque eius
rei gratia ad ^AyaSt&v Saltas venisse avto patov d y a- 3 6 v.
Aristodemus autem quum vereretur, ne q>ax>XoS potius ad
normam Homerici proverbii, quam dyc&oS ad Agothonem profectu-
rus sit, a Socratica proverbii mu- tatione adventus excusationem
petitum iri negat, atque iturum se fastidit, nisi a Socrate vocatus esse
dicatur. Iam quo faci- lius hominis animam obfirmatum perspicias,
aytov scriptum est non ay aytov in interrogatione, quam nunc
interpretaturi sumus. Nimirum praesentis temporis participium eam vim
habet, ut de Socratis actione intelligendom simul Aristodemi voluntatem
in- volvat manifesto: ei ayoiS pe. Sensus est : Wenn i c h
mich von dir fiihren lasse d wollte. Spreta autem dulcedine illa,
quae in Socratica pro- verbii mutatione continetur, et vog. £vv te
dv , iq)tj y Iq%ou.Ivg3 , tcqo 6 tov fiovXev- dujlt&u 0 XI
iQOVptV. ctiX t&piV. Toiavx arra (Upccg Itptj dtalex^tvvccg
livai. tov ovv ZkoxQUxrj iatrup it&g stQogtyovzct tov vovv
xccra ti/v o6ov itoQEvsti&cci VTtoteizopevov , xal
stEg^aivovtog qua dicitur ad bonam accedere invocatus
ayaSof, aliam iam exigit excusationem uon sibi, quod accesserit
invocatus, sed Socrati, quod se vocaverit* Haec verborum explicatio
sequentibus verbis perpulere probari videtur. Schleierm. convertit:
Wirst da inich also uuch etwas entschul- digeu, weun du mich
einfiihrst? Rectior verborum conversio haec est ; Num ig>tur, si
duci me a te patiar , aliud quid habes , quo possis to, quod me
vocave- ris, excusare? Quod ad me, ovx dpo\oyi} 6 a) anArjxoi
?jxttr, aXX viro 6 ov H&HXrjfJL&voS. — Tl pro rl aXXo
positum reperies haud *aro upud scriptores Graecos, cfr. Piat, de
rep. I. p. 8S2. C. atXXd t i oiei ; £<pij. Sed quid aliud tu
censes Mallem tamen b. 1. legere olKKo tl olti ; Adde Piat. Crit.
p. 50. C. cap. XI. fin., ad quem locum Stallb. laudat Lanib. Dos.
de Ellips, p. 27. ed. Schaef. Ut unum locum o Latinis scriptoribus
laudem, apud Terent, legitor Heuut. Act. I. 8c. L v. 17« Nunquam
tam mane egredior, neque tam vesperi domum revertor^ quin to in fundo
conspicer fo- dere aut arare ant aliquid fa- cere denique,
<jvr tl 8 v, seqq. An- notat Stallb. ad h. 1.2 a
Alludit ad II. X. v* 224.," unde suum hausit Ruckertus
scribens satis negligenter: Hom. II. x • 224. Pro Xpo o tov ,
qua^iFischeri confectura est, libri exhibent ad unum omnes itpo ddov
, 'O tov antiquitus disiunctim scriptum cui% seriore tempore
coniunctim, ut lit, ederetur, ad mutationem aapte figura pellexit.
Ceterum Xpo o tov nou debebat Stallb. convertere alter altero
me- lius. Socrates controversiae per- taesus, et sibi et Aristodemo
ex- cusatione opus esse concedit. 'Sibi, quod invitaverit, illi,
quod audiens luerit vocauti. Sensbs est: In- ter eundum tu milii,
ego tibi, quid otrique dicen- dum sit, prospiciamus.
naxa xijv o 8 o'v iro- ptvEoSai. Habet Ficinus: Socratem
cogitabundum lento nimis passu gra- die ntem exspectasse sae-
pius, tandem iussisse So- cratem, ut praeiret. Enar- ratio haec
est, non conversio verborum. Ficini verba qui accuratius examinaverit,
mecumj& ^a\ suspicabitur fortasse, Graecira po -3 verbis oliro
infuisse, quod O r/J ce uti orum cura sublatum, magna»? ;&
££ molestias Ficino excitaverit. i it e 181 } Sh y evs 6
$ Stephanus iyiveto scribendum coniecit, Wolf. do ellipsi 6
vvi{Stt verbi cogitavit. Ut irttidr? — yevidSai, ita panllo infra
ei&vf 8 * ovr &>> I 6 etv. Haec structura virtus
admirabilis est Graecae orationis, qna efticitur h. 1., ut et de
prioris narratoris vivaci- ^ tato, et de alterius narratoris
• >* ov xeXevuv ngoiivai tlg to XQoOdev. htubr t ds yt-
vlo&ai hd t)j olida rrj 'Ayaftavog, dvcayfuvt/v xata- E Xafi flavetv
xrjv &vqciv , xal u Mtpij ccvzo&i ytloiov na- ftuv. ol (llv yag
tvdvg naiSa uva IvSo&cv dzavti/- fide, aliena, non sun,
exhibentis, lector admoneatur. Exempla huius structurae plurima
iuterpp. ad li I. laudant v. c. Piat, de rep. X. p. 617 . D. d (paS
ovv , iiteidi/ d<prx£d^ai , ev$vS 6elv ikrai itpds ttjv Aaxtdiv.
p. 619. C., p. 620. D , p. 621. B. Ceterum in tota hnc enuntiatione
infinitivi imperfecti 'et aoristi al- ternant ita, ut aoristicum
tempus actiones momentaneas , imperfectum durantes actiones
denotet. ol p$v ydp. lloc legitur in Bodl. aliisque codd. non
paucis. Inceptae stmeturae potestatem, de qua modo dictum est
ad ijteidt } — yivkdScti , misere tur- bant rov plv verba , quae
olitn pro ol yiev edebantm. Facere autem non potnit Apollodorus,
ut, cum Aristodemum paullo ante lo- quentem induxisset, nunc
desub- Ito ipse in sc reciperet illius orationem, id qnod X 6 V
piv scriptura efficitor. Recte igitur editores ol piv Platoui
vindicarunt, quod et Photius praebet in Lex. s. v. ol. Habet enim:
ol itepidTt&fi&vcoS dvrl t ov kccvxdr dZvTuvcoZ di ouroz*
dvpTtodiov ol plv ydp ev S vS itaibd riva luv ivSor (?)
ujTocvtijdetvta. xal xaxaXapfidvetv. tToc loco ne quis cum
Ruckerto arbitretur, quod in antecedente orationis membro obiectum
sit, Sn hoc subiectum esse yiaraXap- ftdvsiv verbi : aytiv abso1ute
positum eat. Structura verborum haec est. ?.<prj — ol ditavxj)-
riavTa — «ruida dytiv , h. e : dixit, puerum, qui obviam
venis- set sibi, ducem fuisse udeurn locum, ubi ceteri
cousedissent, et £<prj xaTaXapfidveiv t/Stj p. — Ceterum
solebant Graeci verbi transitivi infinitivo, qui idem snblectum
habeat, atque verbum fiu tum, e quo peudet, subiectum nou addere ea
fortasse de caussa, nc dupliciter posito accusativo (subiecti et
obiecti) ambiguitas oriretur sententiae, atque ut facilius obiectum
aguosceretur. cfr. Enrip. Piioeu. v. SI. TCudiv ittUtoi TEhiir, ubi
non addi potest pro- nomen personale, quiu ambigui- tatem
sententiae efficiat. Huius loquendi normae adeo severi ar- bitri
Graeci eraut, ut ne in in- transitivis quidem verbis, quae e
dicendi verbis penderent, accusativum pronomiuis casum iuiiuitivo oddi
paterentur. Ubi autem pro- nomen ponendam erat necessario, ut in
Piat. Parra, p. 127. 1). nominativum posuerunt, nou ac- cusativum :
.at>roV re ETteifeXStir $<prj o IloSodupoS xal rov
ILxppevlSrfy. evSvS 6* ovv. Mtv et 6e particulae ita
plerumque adhiberi soleut, ut duorum verborum, qui- bus apponantur,
mutuum relatio- nem iudiccnt. Relatio haec esse liequit nisi inter
verba, quae suapte natura possont alterum ad alterum referri.
Adhibentur itaqne, ubi nomen nomini, verbum verbo, particula
particulae respondet. Igitur nostro loco scriptum ex- spectaveris ,
quoniam ol vocuU nominis» proprii locum obtinet xrMnozioM.
23 ilavxa cfyuv au xaxixuvxa oi aMoi, xai xutakaujia vuw
y8rj (ittlovtas deutvBiv. tv& i>s 6’ ovv tog Iduv tov
’Jya&a)va , tpctvcu, '^iQiaxuSyfis , elg xa/.ov yxeig, Zlxeog
evvdunvijOjii' sl 8’ aXXov xivog evexa yX&ig, ei ulv — xur Si 'AyaSava. De- Ilex isse
autem scriptor a consueto harum particularum usu videtur, quod
enuntiatio itu conformanda «rut, ut non solum ol responde- ret
sequenti xdv 'AyaSuvct , sed «tiam evSvS ad sequens tv$vS
referretur. Duplicem hanc relationem indicare tantummodo scri- ptor
potuit, revera exprimere non potuit. Scripsit itaque ol pkv — U'3
vS 6£. Sed quoniam hac di- «endi ratione nou sublata quidem et
prorsus deleta , sed turbata tamen atque imminuta est vis relationis
utriusque ol pty — roV 'AyaSooya et rvj&vV ptr r— tvZvS 6£l ne
singula totius «•nuntiati membra dissoluta vide- rentur, OVY
particulam scriptor adiecit, quae ut contiouandi par- t cula est,
ita membrorum hiatum explet commodissime. Simili ra- tione scriptum
reperies Apol. 8ocr. init, ott p\v vpeif , oj avSpeS ’A$7/vatoi ,
xexovSaxs vxd xc ov £/i6jv xaxr/ydpav, ovh ol6a * £ y o> 6’ ovv
xat avxo$ xnt auioov oXiyov ipaviov £xe- AxxSopJfy. Qno loco non
vptlS ptr — £yoj 8£ Plato scripsit, quod inceptae enuntiationis
ratio «tiam o xt ptv — dsivotaxor 8t flagitabat. OvY priori
particulae additum reperies Symp. p. 176. B. £y co plv ovy \£yoo
vplv dxt reo ovxi rtdyv jtfAe- *rcJf 1'xo* vxo x ov xoxov y*
a$ 6iopm dvaipvxy* xtvuf, olfiat 6* xa\ vpaiv tovS «roAAoirf, quo loco chiasmi
ratio, qui plerumque in Uuiosrundi locis reperitur, iyoo non ad A
iyes docet sed ad ^aAtTrciiS’ ^gj re- ferendum esse. interdum
ovy particula omittitur in hoo dicendi genere de industria, ut re-
pugnantia quaedam voluutatis ex- primatur, verboruraque relatio
minus sibi respondentium deuotet id, quod apud Homerum Cst Ixc Jy atxovxl
ye Sv/igj. E.g. Piat. Ep. VII. p. $25. A. TtaXiv 61 fi p a 8 v x ep
ov plv,El\x8 8 £ pe ojucof 7 } 7iip\ xd TtparxEiv xd xoiva
>t<x\ noXixixd txiSv- pla. Adde Soph. Oed. C. v. 521.
i/YEyxoY xax6xax\ (u B,ivot, ijveyxov, dxaov plv, $£C>V ioxeo,
xovxgjy 6 * avSaipETOv ovStr , quo loco Reisig. axojy pav scri-
bendum couiccit, Dubito, unm rect'. Pessime autem alii docuerunt,
supplendam esse post ukgov ptr — IxaJy 6k oi/. Ceterum huius
structurae exempla permulta rc- periuntur, quibus ellectura est, ut
scribae interdum 8 * ovy pone- rent, ubi y ovy a Platone exhi-
bitum est. E is xaXov 7/ X EI S , d X G0> 6vy 6et7tY i/
6y$. Fortasse e Dawesiana illa lege , quae cum couiunctivo aor. I.
vetat oXgjS couiungi , Bekk. v* tivvSet- XYt/dEiS coi
rexerunt. Frustra. Stallh. nnnotut ad h. 1.: Vulga- tum dx
coS 6vv8ti7tvrj6ff> mutari, non quo coniunctivum aoristi primi
soloecum putaverim, quae fuit Grammaticorum quoruudaro opinio, sed
quod luturum rei ipsi m a g i s accommodatum •sso videbAter.
Continet «eim klgccvft ig AvuftccAov ' cog nccl %$zg {tytcSv (Jfc, i-va
xctAa- dccifu , oi?£ olog ** ^ Idslv. aM.cc IkaxQcctr] 7j(iiv icdig
ovtc aysig; Kal lyu\ iq >rj fisra<5TQEq)6pEvog , — ovdafiov uqcS
UaxQatT] iitofievov. eItcov ovv , ott xal avtog Utra UcoTCQatovg
ijxoifju, xXrj&elg iri Ixrivov Sevq Ini cohortationem
Aristodemi, ut epulis iuteresse' velit, adeoque indi- cat, Agathonem
persuasum habere, hoc ab eo factum iri. Nam in invitandi formulis
Qraeci sempcr post O7CG0S iuferuut futurum tempus, nunquam
coniunctivum aoristi. — Scripsit autem V, D. elS xaXov fjxetS*
oxqjS 6vr- &£i7tv?j6EiS. Efficitur autem hac verborum
disjunctione, ut Agatho, ceteroquiu homo elegantissimus, parum
honeste nunc egisse vi- deatur. E Stullb. sententia con- vertenda
sunt Agathonis verba: Schon, dass du gekommen bistj •peise nun mit!
Hoc non tam est vocare aliquem ad coenum, quam exprobrare alicui
tecte ad- ventus temeritatem; quasi non per se intelligatur, eum,
qui ad- venerit, una couvivari. Rectior explicatio haec est : Du
kdmmst gerade noch zur rechteu Zeit, um mit uua zu essen: hoo
modo praeposterae invitationis odiosa commemoratio vitatur
fe- liciter et rectius simul verba explicantur : Hi xaXov rjxeiS.
Sci- das habet: ds xaXov ' evxaipaS. Recte, cjS xal
Urbanitatem Agathonia ex his verbis coguoscas licet. Sensus eat: Si
alius, rei gratia huc profectu» es, in posterum di f fer;
idem enim et ego facere coactus eram heri, cum te quaereiem, ad
epulas ut‘lnvitarera, te nusquam terrarum conspiciens.
ovx olo S t ij 18 eir. Stallb. addito verbo nullo f\Y edidit,
quae vulgata lectio est , pro rf . Acute Ruckertus: confirmare V
lectionem videntur etiam libri i»» qui plane omittunt verbum,
quod fieri non potuisset, nisi v abes- set, ut interire rf in
sequente r posset. Vide quae annotata sunt ad p. 9.
dXXa Swxpdtij — &yeiS, Rogat propterea, quod scit, eum
semper cum Socrate esse, R iickert Vide ad p. 173. B. quae annotata sunt.
Ut illic ex epi- thetis, ita h. 1. ex Agathonis interrogatione colligere
licet, Aristodemum Socrati amicissimum fuisse, xal
lyv,l<prj fieradt pe- <pu pevoS, X, t. A. Comma po- tu i mas
post peraCfpetpoperoS , delevimus, quod in omnibus edi* tionibus
exstat, post i<prf , quo deleto sententiae vigorem auctum
habebis, et errorem Aristodemi descriptum vividius. Sensus est :
uud ich , sagte er sich mndre- hend, / — sehe nirgends den So-
crates mir folgen. Si qui snnt, qui post Hqtff interpurfetionem
flagiteut , /iiprjpacToS gratissimi severi osores , non
repugnabimus quidem: hoc certam est tameu, nostra interpunctione lepidiorem
Ari»todemi orationem fieri. Ce- teium lineolam post pe%adtpe<po-
ETMI10EI0N. 25 dst Jtvov. Kctliog y' , %<p?l
, nouov <Sv ' «Aia srou Itiuv ovzog ; — “Om6&bv ifiov &q
n dgyu. alXa ticcuud^a xal avxbg xov av eti]. — Ov axitpu, H<pr),
itai, cpcivai 175 zbv 'Ayaftava , xal tlga^BiS Saxffavtj; Ov 8’, rj 8’
os, 'AQiazvdrftis , 7ta(j 'Eov&tiaxov xaxaxllvov. peroS
ponendam cnra?imns, nam per aposiopeain xal iyco verba posita sunt.
Dicturus nimirum' Aristodemus erat: xal iyoo ijxco avxoS pera
ScaxpdxovS , converso autem ipsi inter loquendum, quoniam Socrates nusquam
comparebat, prae stupore lingua hae- sit* Paullo post animo
resumto, ut orationem interruptam expleret , xal iyco repetit ita :
ehtov ovv , oxi. xal avxoS //era 2co~ xpaxovS rjxoipi h e. :
ich sagte nun, dass ich ja anch gekouimen ware, ich
rait Socrates* Male Stallb,, quem Riickertus secutus est, xal
avxoS verba arctius coniun- genda censet atque convertenda : dass
ich j a e b e n mit dem So- trates gekommen ware. Ceterum aikxo-S
pexa 2arxpaxovS h. 1. dicitur, ut sexcenties alias v* c. in Xeuoph.
H* Gr. 2. 2. 17. scriptum legitur: psxaxavxa ypi$Tf npedfievxtjs is
Aaxedatpova avxoxpdxcapfd exaxoS avxoS. Numerus ordinalis, quem
vocant, StvxEpoS nou additus est nostro )oco , quod addito Socratis
no- mine plane otiosus erat atque inutilis. xXijSelS
vit ixeivov . Facit Aristodemus, quod facturum se esse indicaver.it
p. 174. D. ooS iyoj phv ovy opoXoyijdta dxXrjxoS ijxeiv dXXd
vito do v xexXrj pkv oS. xaXcoS y\ £<ptj, rtoitov dv
* aXXa x. r. A. Octo Bekkeri codd. yi omittunt; qnf qno sunt
melioris notae, co studiosiores editores in expungenda purticula
fuerunt. Fi particulam Platoni restituit doctissimus Stallb., quem
Riickertus secutus est, motus Uterqne constanti usu yi parti- culae
in hac dicendi formula apud Platonem. Lundat Stallb. ad h. 1.
Charmid. p. 156. A. xa- AcSff ye dv , ipr 8* iyoS , ir otior.
Hipp. M. iuit. xaXcoS ye dv — voplZoov. Lnchet. p. 192. B.
op-\ &<oS ye dv X iyajv. Theaet. p. 181 . , D. o
p$coS ye XeycjY. Lysid, p, 204. A. xaXtoSy, tjy 8*iyco f itoiovrxeS
, quibus adde si pla- cet exemplorum congeriem, quam addidit
Riickertus in edit. Symp, p. 17* Convertenda verba sunt: Bene
quidem, inquit, fa- ctam a te, sed abigentium est ille? xal
avtoS. Addito xal iu- dicatur, magnopere mirari etiam Agathonem (
aXXd nov edxtr OVXOS ;") absentiam Socratis, Mi- nus igitur
placet, quod in uno cod. Paris, legitur aAAa xal $avpd$a>, neqne
videre possum, cur id in textum receperint Astius et Reyuders. .
Ficinus habet . * quare ipse qnoque miror, nt eundem legisse
suspiceris < aXXd xal avxoS SabpaZ co-, quod cum correxisset ,
serior manna xal avxoS ponendo post Sav- paZa> f factum est
fortasse, ut 4 xal remaneret ante $avpd?,ca. ov dxllf>€l.
Futurum cum Cap. III. Ka\ 2 fiiv Scprj dnovltuv tov aalSa , T va
xaxa- xloito' aV.ov is uva tajv naiSav tjxuv dyyUkovta,
negatione iu interrogationibus ad- hiberi solet liaud raro pro im-
perativo, Potest adiuncta esse huic dicendi formulae indignatio-
liis* irae, clementiae notio, prout verba pronuntiaveris.
Servitutem clementem apnd Agathonem fuisse servis, verba docent p,
175» B. itccvTcoS icapaxi^ETt oxt av ftov - XrfOSe, iytstdctr ns
vuir MV ifpeSttjxy • d iyv ovSencdxoxs iirobj6a et q. sqq. Verba
con- vertenda sunt igitur nostri loci: Wil 1 s t du nicbt einmal
nachseheu, •agte er , habe Agatbon gesagt, and den Socrates hereinfiibren
? xrrl J?jukr x.t.\."E p£v Bastii cprrectio praeclara scriptnrae
Vul- gatae xa\ ifif, quam hodie nemo explicabilem indicabit. Probatur
his verbis , quod supra annota- vimus p. 22., ad evitandam
ambiguitatem Graecos per- sonale pronomen omittere solere In
transitivorum verborum infi- nitivis, qui e dicendi verbis peu-
deant idemque, atque illa, sub- lectum habeant. Efficitur autem hae
loquendi norma h, 1. , ut puer Aristodemum abluisse dica- tur, non
vice versa puerum Ari- stodemus, quod Graece audiret; xal leprj
axorifieir ?ov Konda. Puerum li e. servum quod attinet ; fitallb.
toV itaidct videlicet, inquit, quem antea compellaverat. Riickert. : 6
itaiS est h. 1. is 6errus , a quo supra Aristodemum introduci
vidimus. Neuter satis recte h. 1. articuli vim rnlerprtUtar. 'O
raif «t petius servus, cui pedum lavanda- rum officium mandatum erat.
SVa xax axioix o. Modus optativus cum particulu finali
couiuuctus satis demonstrat, duoruteir non praesentis tempuris, sed
praeteriti infinitivum esse. Vide ud p/ 7. quae annotata sunt.
Imperfecti participium ha- bes p. 174. E. &•£oxal t ur (>£
iva xaXcdtxifji x. r. A. In vett. editionibus scriptum exstat ira
7Cov xaxotxioixoy quod nullo modo lcrri potest. Depravatiouia fontem
felicissime Stallb. inda- gavit. Cod. nimirum Flor., lit- tera a
apud Stallb. insignitus, 0 7 tov. habet ty a
xaxaxeotxo. i r x gJ t cor ysixor o»r npoSvpu). Vitruv. Arcli.
libr* VI. 10. 7Cp6$vpa, inquit, Graeco dicuntur, quae sunt ante
ianuam vestibula. Addendum est, itpd- Svpcc non nisi privatarum
aedium vestibula esse, publicarum aedium vestibula TtponvXaia
Graece vo- cari, Minus apte igitur Schlcieriu. npdSvpor con vertit
: Vorhof, quo verbo npoTtvXaia indicantur. Narrationem quod attinet
Aristodemi: Socrates inter proficiscen- dum meditatus, cum prius
itiucris, quam cogitationum fiuem reperis— •et, ad vestibulum
vicinae domus deverterat. xapov xaXovvxoi. Ilacc est
vulgata lectio. Codd. non pauci xal 6ov habent, Eekk. ex optimorum
auctoritate codicum edidit xen or>j caiot patt«eini«na ot* SmxQcttTjs
ovtos «vajjopjJtfas Iv xta xiov yutovav ZQofrvQip tOtrjxe , xaftov xukovvxog
ovx i&tte tlsi&vtu. "Atoxov y' , s<pi], kiyug ' ovxovv
nutes uvtov xul (tri utprjGBis; Kal og 'iqirj tlittiv, MijSufica s, ukX
iuts uvtov. B suscepit !n Epliem. Litt. Ienens. Jul. 1852,
N. 1SS. censor Riik- kert. editionis : a Fragt es sicli, ob hier g
er ad e Red e odor abhan- £ i g o besscr sei , so ziemt die
Jelztere mehr darum , weil sie das i 11 den Vorder- und das iu den
Ilintergruud der Uuterhaltung Gebdrige schon abstuiend die das Gesprach
der lJuuptpei*- soueu unterbrecheude Meldung des Sclaven glcichsum
episodisch zuriickstcllt. Und gleichwie diese Form auch iu dem
Uebrigeu her- vortritt , indein 'kein H<pjj ein- fiilirt , so
sprechen fur xa\ ov, aul' welches wir schon durch innere Griinde
hiugewiesen wer- deu (?) i auch enlscliieden dio besteu
llandschriiten , welcben llekker mit Ilecht gefolgt ist. Dcnn auch
das Einzige, woran cin Vertheidiger des xdfiov sich konute halten
wollen, das ovxoS bei ^LtDxpdcxrfS vertragt sicli auch mit
ungerader Rede : dass Socrates hier iu der Niihe stehe.w llaec speciosius
sunt, quam verius dis- putata. Quid, si ipsa pueri verba scriptor
exhibuit, ut, ad quae omnes convivae aures ar- rexisse consentaneum
est, eadem jm»e ceteris etiam emineant? Non dispiciendum est
autem, quid obstet, quominus xa/iov scribatur, praesertim cum
hac scriptura totius loci vigor augea- tur incredibiliter. Iluc
accedit, quod Agatbonis verba atOTtov y\ &<pr} , Xkyttt et
q. seqq. ipsis nuntii verbis apprimo eoaveniant. Verba conrertenda
sunt: Eiu anderer aber von Aga- thon's Sclaven sei gekommen und
habe berichtet: Socrates der * steht beiseit am Hofraum des
Nachbarn, und ich rief ilin mehr- mals, aber er will nicbt heroin-
kommen. ato*or y, £<PV> XeyttS* Suut fortasse, qui
scribi iubeant axoitov yk xt, E<prj , XkyuS. Utrumque geuus
dicendi in usu erat Graecis. Iu formula axo- xov yk xi y l<pT),
XkyuS, XkytiS verbum transitivum est, ex ecquo xl pronomen
exaptatur, cui aro- Xoy est additum. Omisso t\ pronomiue atoxov
adiectivum adverbii vices obtinet, XLytii absolute pouitur ut
nostratium sprechen; exempla si quaeris huius usus, vide sis
Indices. Ea- dem dicendi formula explicatius perscripta audiret:
axoitov y, 2<p V , Xuyov Xiyetf, Felicissimo Si hleierm verba
convertit : Wun- dorlicher Bericht! habe Agathon gesagr.
ovxovv xaXetS aifrov * xal fu) a(pi/ <$iiS ; Vulgo male
xotXel legitur, paoci r.odd. etiam soloece exhibent u<pi]6yi pro
aqtijOEiS* Ovxovv vocem quod attinet, usu loquendi factam est, ut iu
interrogatione non ovxow , qnod ratio exigit, eed ovxovv
scriberetur. Igitur interrogationi conclusionem addi- tam habes,
quae voluntatem iubentis certissimo describit. Ceterum non possa-
I fdos y&Q ti tovx' X%u‘ Ivioth dnoOtag , Znoi, 3v
rvffl, itSTtjxtv. $u Si avxixa, cog fyw olpcu. fir) ow nivtite,
aAA’ lare. ’AkX ovxco %VV mas huius dictionis nisi hac
ra- tione assequi potestatem, ut con- vertamus: Du rufst ilio aiso
uud lasseat uicht ctwu von ihm ab. Mi/ particula quopiam non ea ,
quae revera fiunt, sed rei alicuius nonnisi possibilitatem, veuia
sit verbo, cogitatam negat, additis nicht etwa verbis commode
redditur. Recte Hermauuus ad Soph. Aiae, v. 75. /at/ sic positum
dubita- tivdm esse docuit. l$o? yap xt tovx* Cave
otiosum censeas x\ prono- men. Priscian. XVIII. p. 1208. costro
loco exemplo utitur, quo demonstret, Atticos scriptores interdum x\
pronomen abundanter adhibuisse Iu Platon. Hipp. M. V* 287. B. , quem
locum Stallb. laudat, eandem enuntia- tionem reperies verbo immutato
nullo. Facit inprimis ad agno- scendam xt additi potestatem Thuc.
1. 132. *ApyiXio? — Xvet x ds inidxoXa? — vnovof/da? xt x oiovx ov
TtposeitedraXSat x. r. X % h. e. Argilius cum suspi- caretur, harum
rerum aliquid imperatum esse et q seqq. Adde Pl. Syrop. p. 191. A.
fX<AY XI TOlOVtOY OpyUYpY , olor vl dnvxoxopoi. p. 194. E.
onoio? di xi? av roV oav xavra id&pi/- daro. Gorg. 472 ,C. idxi
pbv ovv ovxoS xt? tpoito $ iXiyxov, ei? 6v xt olet nat aXXot noXXoi
. Hom. II. 9. . 11. xovxo xl /tot xaXXidxav M <ppedlv
eldexat tlvat. Verba nostra convertenda sunt: dat ist «o teiue
Art; okoliIv , il <Joi Soxu, (pavas ort ot av rv XV H. e. d«- • istens interdum,
ubicun- que locorum est, ibi con- sistere solet. Quando iu-
delinite loquuntur Graeci, cum' verbo finito quietem significante,
non quietis sed motus uotiouem coniungere amant. Ut igitur de certo
loco dictum supra est Sdfij- 7<EY lv rcJ TCOV ytlXOYt&Y
7CpO- St Logo, ita nunc, quoniam certus locus Aristodemi animo non
obversatur, Znoi non Znx/ rectissime scribitur. Illud meliorum
codd. auctoritnte confirmatur, haec vul- gata lectio est, quae
etiam rvxp habet pro rvxot. Ali. ratio eat verborum c, I. p. 173.
A, X po rov Se xeptrpexuv oxy rvxpipt («c.. xepirpixuv ) ubi posito
rv- XOipi sc. xeptrpexuv, verbo mo- tum significanti admugitur
notio quietia. Adde Piat. Phaed. p. 113. B. — ov hcA oi fivotxf s
ano- OxdSparadvacpvSuSiv, ot iy av rvxarfi rrjs yyS, quo loco
ad Tvxatdtv supplendum est e prae- cedente verbo finito
participium motum in aliqnem locum sigivJA ficans ararpv Purus.
Aiioch. p. 365 C. artioxet 61 SioS :n — ti otfpypopai roSSe rov
<pu- roi xai ruv dyaSur, aetSti/S te xa l axvPtoS dxoixote
xeioo- pai Orproftevos, eis evids nat xruSa.la perafiaMuv. de
repi IX. p. 589. A. uste t^xeOSai oxy dv ixdvuv oxorepor dyp.
Ibid, VI. p. 492. C. qtepopivtjv nata (Sovv, y av ovro s <pepy.
prj ovv xivelxe, aAA’ iaxe avrd v. Valgo xivffte exhibetur,
quod Grammaticorum tov
'Aya&ava. ukX fjpccs, eo xaiStg, rovg aM.ovg £< Jtt « T8 ‘ Ttavtas
xccqcitI&stb S u ixv ffoviija&s , Ixudav t ig v/iiv fifj hpte
vtjxu' o iya ovSeikoxotb ixohjoa. vvv , praeceptis repugnat.
Aristodemo* autem cum supra dixisset aAA* idxe ccvxov, eadem verba
nimo repetit cuqj vi maiore, quod ser- vos Agathonis, dicto heri
audien- tes paratos adhuc ad vocandum Socratem animadvertebat.
Ce- terum e xtrnr verbo facili ne- gotio Socratis meditabundi
ima- ginem lingere tibi possis. Aft- reidScn nimirum dicitur,
quod ipsum se non movet. Ad Socra- tem adhibitum , hominem
osten- dit sine motu dantem atque re- rum externaruimoblitum,
qualem, descriptum legimus infra p. 220. C. cfr. p. 218. C. xal
eheov xtrt/daf aVxcrr, quae verba de eo dicuntor, qui sine motu
iacet atque somno quasi sepnltns. Adde Pl. de rep. I. p. 829. D.
xal iyoj aya6Se\s ctvrov einorxoS ravxa, fiovXo piros hi
Xkytir avxor ixirovr xal ditor x.x.X. Consentaneum est, Cephalum^
fi- nita oratione, rem, de qua dixis- set, secum reputantem, sine
motu sedisse, qua propter ixivow avxor Socrates ait. a
XX ovrct) XPV • v *d. 9 ,, ac annotata sunt p. 12. Addendum est h.
1., discrimen, quod ad p.* 178. C. inter XPV et cx ” stare
annotavimus , non dbique apud Platonem exemplis probari.
Reperiuntur enim loci, obi Sii pro XPV et vice versa XPV pro 6sl
adhibetor. Ne igitur Pro- dici sophistae instar nimia se- dulitate
usi esse videamur in in- dagando verborum discrimine: hoc
certissimum est: nusquam reperiri in una eademque enuntiatione verbnm
ntrumqne, quin alterum necessitatem ex- primat, alterum
inservientem ne- cessitati voluntatem denotet.' navtcoS it
apaxiSets. * IlapaxiSedSai dicitur de cibis et mensis, ut Lat.
apponere monente Stallbaumio in annot. ad Piat. Pol. p. 854. B. In
ali- quot codd. reperitur xovS aXXovS idxiaxe ndvxaS xal
itapaxi$ixc % * quod, Thierschio, Reyudeisio, Ruckerto, probatur.
Male. Nihil enim languidius xovt aXXovf — ndvxaS verbis }
correxerunt autem olim ita, qui de narxoaS vocis explicatione
desperarent. IJdrxaiS 9 inquit Riickerlos, habet, quod offendat.
Quid enim sibi vult ly 1. omnino, iiberhaupt? Cogitatione arctius
couiungendum est izarxwS cum oxi ar fiov- Xv6$£ f ut respondeat
nostratium; Thut ganz, wie ibr wcllt, setxt vdlJig vor, V.U3 euch
beliebt. iieeiddv xi s vp.tr pif iipedxtjxy . Satis
colligitur e lectiouis varietate, doctos homines iam antiquitus do
huius loci explicatione admodum du- bitavisse. Vix commemorandum
est vpir , quod in aliquot codd. reperitur pro vpir: gravior va-
rietas est in verbo i<pEdxt}xy. Pauci sed optimae notae codd.
iq>idtrjxei exhibent, tres atpe- 6xtfX7f, unus itpetdxijxu ,
alius itpidtrpiE commendant. Stallb. convertenda verba censet;
quum nemo vobis praepositus sit, id quod ego nunquam feci, In
Scliieierm, conversione 30 ijaatqnoz ovv
vofitgovxis xal l/ii v<p vficov «fxX fjo9ai ixl dtZ- C xvov, *«l
rovgSs rovg u/J.ovg Qtgaxeutts, iva viiag httuvaftev. Mtxu xavxa iqyrj
oepcic; (iiv dunvtlv, rov di ZcoxQocnj ovx slgdvau xov ovv 'Aya&ava
ita/j.uxiq xilivetv aaaxlii^ttOdM xov ZtoxQtxit] , X di ovx iav.
legitor p. 889.; trogt aof, was ihr wollt, wenn euch doch
Niemand Befehl er- thcilt, was ich noch n i e • mnis g e t h a n
habe. Riicker- tus verba convertit : Apponito quaecu nque vultis,
quam nemo vobis est praeposi- tus. Ficinus , cuius maxime
conversio probabilis: Ceterum vos, o pueri, aliis epulas afferte,
et, quodcunque lubet, apponite: vobis si quidem nullus
praesidet. Sed nmn credibile est, herum, qui revera neminem servis suis
praeposuerit, dixisse: si qui- dem nemo vobis praesi- det? Plato
scripsit fortasse iitt i, 'r av, x\S i ' ptv MV t*P E ’ tSrjjxp h.
e. nam, pueri, aliquis vobis ne sit praepo- situs. Atque ne cui maior
videatur huius s'cripturae audacia: scriptum exstat in omnibus codicibns
p. 174. D. itpo odov, ubi manifestum est, Platonem vtpo 6 xov
exhibuisse. Ceterum pro ppdtii cum vi ponitur h. 1. r\S — jJ7j ita,
ut r is per euphenismum dicatur. Sententia est: diros aliquis homo vobis
ne sit praepositus. vvv ovv vopi£ovteS seqq. Laborat hic
locus ex in- terpunctione mala, quam ut ce- teri editores, ita
huius libri ia- terpres celeb. Schleierm. immu- tatam retinuit:
Denkt also, auch ich wiire von euch tum Gastmahl geladen, so
wie (?) die Andern, uud bedient uus so. Commate post xovS aXXovS
deleto et posl ini Selnvcv posito sententia verborum haec est : nunc
igitur me quoque ad coensm vocatum exi- stimantes , m e et ceteros
, voa ut laudare possimus, curate. Ac ne cui mira videatur ijti prono-
minis omissio, dicturus Agatho erat: vvv ovv vofiigovxsS xal ipk v
<p vpavV%KexXrj6$ai ini Setnvov Sepanewxe sc. ijifc Sed quonium
non tam se, quam convivas servis commendaturus erat, ea dicendi
ligurii utebatur, quae omisso ipi pronomine in- prirois convivas
curandos osten- det et. Haud dissimilis est nostro loco Piat, Pol.
I. p. 329. D. xal iyoo fiovXupEvoS Exi Xi~ yeiv avx 6 v ixivow xal
tutov x. x. X.£ 61 ovx iav. Bekk. ex aliquot codd. d intextum
recepit, qua lectione oppositionis ratio turbatur, vid, Malth.
Gramm. pl. f. 536. p. 1054. annot. Ut hoc, ita t spernendum est,
quod non recepisse in textam frustra Bekkerum piguit. Equidem
Ru- ckerti iudicio subscribo, qui in aunotatione ad h. 1,; Egit,
in- quit, de hoc ignoto nominativo pron. pers, Buttm. Gr. pl.
I. p. 291. T. II. p. 413. seqq. al- latis testimoniis
grammaticorum, quibus id quidem edicitur, ut vix liceat dubitare,
quin exstite- rit ea forma apud Atticos scrl- fytiw ovv avtov ov
nokvv xqovo v, cag da&n , HuccqI- ipctvtcc , dlka (iah6xa 8(pa$
peOovv dHitvovvtag* xov ovv 'jiyafravcc, tvy%ccvuv yccQ £<fyarov
xazaxei[iBvov t (io- voVy sdtvQ , %(pij q)uvcu> ZaxQccreg , 7tag ips
xatdxBuJo, tvu xal tov fSotpov [ajtxofuvog tSov ] c#oAav<fo, o tfot
D ptores, Ternra nt recipere liceat alio loco, ubi
codd. desit auctoritas, non ef- ficitur. Quare cum in tot
scriptis Platonis ne uno quidem loco, quod sciam , ullo in codice
haec forma occurrat, haud scio, an recte inde colligatur, ab hoc
certe scriptore eam prorsus alie- nam esse. Ad verba izoWaxiS
xeXtvetv annotatum est ia Sym- posii ediiione Wolfiana Lips. 1828,
p. 13.2 TtoXXdxtf xeXevur xnuss vom bJossen Wollcn ge- nommen
werden , wie das Fol- gende zeigt. Male, Sensas est: Agathoa habe
wirklich oftcr den Befehl gegeben , den Socrates herbei zu scbaifen
, er aber habe es nicht gestottet. xov ovv’AydS<avct,
rvy- Xceveiv ydp x. r. A. Haud raro apud Graecos scriptores
ea pars orationis*, quae caussam continet alicuius rei, ei
orationis parti praefigitur, qua res ipsa continetur. Huius usus
exempla ai quaeris, adi Mattii. Gramm. pl, $. 615. p. 1242. Exemplo
est etiam hic Jocus, quo prius commemoratum est, cur Agatho Socratem
vocaverit, quam id ipsum dictum sit, Agathonem ad se Socratem
vocasse. Nollem tamen huius loquendi usus severior ar- t biter
exstitisset Riickertus,* qui ad h. 1. haec annotat: c Quod
nemo, cui vehementiorem dederit natura animum, non, ut ego
opi* nor, experitur, scribendo exprimere omnes verentur, Graeci,
quorum nondum regulis esset adscriptas stilus, licere sibi putabant, nt
inchoatae sententiae aliam insererent mediam , qua illam vel
explicarent vel proba- rent priusquam totam legisset audivissetqne,
ad quem dirigere- tur. Quamquam apud Herodotum, apud quem exsurgens
prosa ora- tio nullodum freno tenetur, fre- quentior hic usus ,
quam apud seriores prosarios scriptores. » Quem, quaeso, nostratium
offen- det Platonicorum verborum con- versio haec : • Agathon nun denn
zufal liger Weise habe et allein am letzten Tische seinea Platz
gehabt — hatte gerufen: Hierher , o Socrates u. s. w . Hdxatov xat
OLxtiptv ov 9 pQYOV, Interpunctionem ponen- dam curavimus post
xatocxttps.- yoy, ut, qui ultimae mensae ac- cubuisse dicitur, idem
significantius* solus fuisse perhibeatur. Festis diebus pluribus
mensis utebantur Graeci, singulis autem non nisi ties convivae
accumbere solebant. Hinc nomen tricli- nium ortum. Iva. xal
tov 6o<pov [aitto pevoS Oov] aito - A pcv 6ao, Ia paucis sed
melioris notae codd. v, c. in Bodl. omit- tuntur verba ctittoptvds
6ov , quibus negari nequit, orationem paullo rigidiorem fieri atque
in- comiorem. Nam duobus geni- jrpog&frij totg jrpoO-upoig.
djjAov yap ott tvpsg auro KKt i^Etg • ou.yap «v nQoaxiattjs. Kal rov
EcJXQiaij xa&t&6&at xal ilitslv, on Ev uv fyoi, tpavox, m
’Aya- &cov, tl xowvtov rfij rj Gorpla, togr’ bt rov nk^oiortoov
lis tw xivwtQov quv •fjfibv, lav ciTtzojju&cc akh)Xav, tivis
divertas relationis inita positis facile fiet i possit» ut verba
falso construantur: tov do<pov dntdpEvoS dov ano • Xavdoo.
Omuia bene haberent, ai scriptum exstaret: tva anxo- pevoS 6ov tov
dotpov ano- Xavdco, o doi nposidxy x. r. A. Videlicet Agatho
dnxEdSai xivoS tropico sensu h. e. de sedis vi- cinitate
intelligeret , Socrates autem verbum premeret pro more suo satis
festive, atque de con- tactu materiali intelligeret. For- tasse
anxopevoS dov verba e Socratis responso huc translata sunt , atque
in sede minus apta posita. Uncis eadem compegi- mus, ut quibus deletis
Agathouis sententia plane non mntetur, et flumen orationis minus
retarde- tur. — Verba convertenda sunt: Hierher, Socrates, zu
mir lege dich nieder, damit ich zugleich der W e i • -heit froh
werde, welche vor dem Hofr&um ‘der N a ch b a rs chaf t dir
bei- kam. Iam quo sapientiae lau- dem in Agathonem
converteret, Socrates posito pro xaxaxEidSai napct xiv a verbo
dnrsd^ai ri- vos , respondit, ut Fiemus qui- dem verba convertit:
Bene se res nostrae haberent, Agatho a si sapientia talis
esset, ut in va- cuum hominem ex pleniore ipso contactu proflueret,
quemadmodum «qua ex pleno calice io vacuum per lanam influens.
Si enim sapientia ita se habet, permolli facio, quod apud te
se* dto, repleri quippe abs tc uber- rima et praeclara sapientia
puto. oti yap npo anedxyS. Sensus est; non enim ah eo
investigando abstinuis- ses prius, quam id repe- ris se 3 .^
Supplendum igitur est: y EvpeS avxo , non ut Stall- baumio visum.
est, ei py EvpES avxo . Negari nequit, interdum npo praepositionem
comt veibis consociatam temporis ratio- nem eum indicare, qua
aliquid prius fiat, quam aliud quid evenerit, cfr. Piat. Gorg. p.
454. C. onep yap Xiyco y tov k%yS Ivixa nspaiysGSat tov
\6yov i pando, ov dov ZvExa y aX A* Zva py ZSiZojptSa
vnovoovvxeS npo apnaZeiv dXX.yX.cov td Xtyopeya x. r. A. Possis
hoc modo explicare etiam notissimum versum Hom. II. a, $.
noXXds A* ixpSipovS iftvxaS dtdi npotaipev ?}poocov ,
quo loco npoidnxeiv significet aliquem prius, quam exigat na-
tura, in Orcum demittere, vali- dum florentemque aetate necare.
Vides, quam bene huic notioni conveniat Z(p$ipoS epitheton, quod
proprie ad ypcooov refe- rendum est. Adde II. XI. , 55. f noXXaS
ltp$ipovS xe<paX.aS a£6t vpoidipeir- Priore versu usos es,t
Luciun. in epigr. 24» Anthol. Gr, lacobs. T, II, p. 25»
medicis :w $ &SMQ zi Iv zaig xvh!-iv &8 g>q zoi
(5«? zov IqLov Qtov lx ttjs irbjQSiStsQas eis tfjv xtvarsQav. d yaQ
ovzcog fyu xal tj Gotpla, nollou ziuiofiai r rjv xaQ« Coi xazct- E
X/UGiv’ olfiat, yaQ fie naga Gov noli fjs xal xabjg Go~ tpiag
nXrjQa&rjGEG&ai. rj fitv yaQ ifiri tpavltj ztg av illudens
adeo festive, ut mihi non obtemperem, quin totum epi- gramma hic
perscribam: 9 Iijtrjp xi i i pol xov lov tplXov v\6v
IrCEjnpEV, coite pa$elv nap' i pol xccvxa x d ypapparixd. c
oS Sfc to pijviv aei8e noti aXy&a pvpi HSrjxev lyvco , xal xo
xpitov xoi68 9 axoXovSov Inoi , noXXai 6 * ItpSipovi ipv- X a
S & 'i 6 i n potarfi ev , ovnhi piv nipnei npoi pe
paSrjdopevov. aXXa p idcjv 6 narrjpj 2ol plv Xapiij einev, hraipe
• avxap 6 notii nap e pol xavxct paSeiv dvvarai • xalyap iyoo
noXXai rpvxdi didi npoYantaj xal npoi xovt ovdev ypap-
patixov 8iopai . e ii xov xev ojxepov. Hano Wolfii
coniecturam nonnullis co- dicibus probatam editores rece- perunt ad
unum omnes excepto Itiickerto, qui eli xo xevcoxepov retinuit,
annotans : Platonem non de homine, sed de hominis mente cogitasse ,
ut eli xo x % ifpGov esset id, quod inanius est in alterutro
nostrum Artificiosior est quam verior haec explicandi ratio, qua nemo
non videt nativam orationis pulcri- tudinem corrumpi»
8ia xov ipiov fi io v. Horum verborum explicatio recta Geelio
debetur, qui haec anno- tat in Bibi. Crit, Nov. T. H. p, 274.: a
8ocratcs filum laneum significat» Nam verum hoc eat, quum duo pocula
sibi proximo adiunguntur , quorum alterum aqua repletum sit, alterum
va- cuum, ac filum laneum made- factum contiguis horum margi-
nibus ita impouitur, ut pars im- mergatur aquae, pars in vacuum
fundum immittatur, fore, ut ali- quid liquoris tanquam per cana-
lem transeat. Hic lusus institui non potest nisi cum poculis» Hinc
apta eius mentio inter convivas. Eundem
lusum scriptor noster in animo habuisse videtur Menon, p. 70. B. J
fl Mivcov t npd xov plv QextaXbl evduxipot jjtiav iv xoii n E7iXv6i
xal i$av- pagovxo icp * \nnixy xe ?cal nXovxcp , vvv 81, coi ipol
Soxei, xal ini docpia. — iv$d8e 8e 9 co tplXe Mivooy , xo
ivavxioy nepiidrrjxev • doin e p avxpoS xts xiji dotplai yiyove
, xal xiv 8vv evei ixtdov8e tgov xoncov nap 9 vpai oixedSai
tj 6o<pia. X 7fv napd 6ol xataxXi - <$tv. Pro
xaxaxXi6ii alio nomino scriptor usus esset, eoque quidem a
xaxatxeidSai verbo derivato, si id in liogua Graeca exstitisset»
Comparata enim nostra verba sunt ad Agathonis adhortationem nap 9
ipe xataxeido , quae, quo- niam contrario seusu Socrates
% l tYt] xctl , tjg xl 9 ovaQ ovda' t] de <Srj
X auTtQti *£ y.cd jtoXXrjv laldodiv %oi>o«, rj ye naga dov viov
ovtrog ovtcj GepodQU i^tXaiupe xcu exepuvtjg iyeveto TtQtonv Iv (i£.qtxhH
tcSv 'EXXtjvav icliov rj TQigfivgioig. 'rfctdTrjs li, a<pq, m
ZaxQtnes, 6 'Aya%av. dXXcc ravta fitv xul dXiyov vcStiqov
diadixadofie&a lyio ts xai 6v xsqi rrjs dcxpiag dixadrtj %Qtxi(itvoi
rep Aiovvdta • vvv 17C <5 e xqos to dtlnvov ngoxa xgizov.
ntinc cxliibet, ippiitr/i vocator putillo infra p. 175« E.
oluat ydp pe itapa dov — nXtf pcaSy <fed$ ai* Scri- ptum
exspectaveris ex lege gram- matica, de qua supra dictum est p. 22.
olpai nXijpcD^yded^ai 'itapa. dov. Interdum tamen ad- ditur
personale pronomen oppo- sitionis gratia , quae nostro loco
manifesta reperitur. Socrates enim ad Agathonis adhortationem
respiciens, quae p, 175. D. le- gitur, dicturas erat: ut ego a tc,
non tu a me accipias ad- inirabileni quandam sapientiae
abundantiam, cfr. Symp. p. 175. fi. xov ovv *Ayd5a>va icoWiimS
xeXeveiv peta7t£jJipa6Saz xov 2(a>xpdxy, 'i 8 l ovx iav, Adde p.
220. E. fin. avxoS izpoSvpo- xepoi iyivov xcov dxpaxyydov iph
Xafielv y davxov, qoo loco avxoS pro davxov scribi etiam praecedens
avtoS non pa- titor. p. 223. B. xov plv ovv 3 Epv&ipaxov —o
*Apidxo- ftyuoS oixed^ai diciovxaS , e Ztcvqv Aafieiv xoii
xaxadapSeiY x. r. A. 6oq>laS. Wolfium audi ad hoc
verbum laudantem Sydenh. an- notationem: Den Ausdruck docpla
braucht Platon sehr oft, und in »wei verschiedenen allgemeinen. Bedeutungen
, lOTOn die eino znr pliilosopbischen Sprache ge— hnrtj und da
bedeutet docpla dio Wissenschaft von der Natur und den ersten
Grundursachen der Dinge. Io der andern gemeinera heisst es iede
Vortrefllichkeit in irgend einer besonderen Wisaen- schaft oder
Kunat, irgend eia vorziigliches Talent, Kenntnisa,
Geschicklichkeit, wie es hier vom Agathon dem Dichter gesagt wird.
S* Piat. Theag. vom herein und Arist. Eth. ad Nicom. VI* 7*
iv papxvdi xcov *EWy- YcoY.y h, e. coram specta- toribus.
Satis nota est haec signikcalio iv praepositionis, quae unde orta
sit , facile intelligi- tur. Ut Latini dicunt in oculis versari, esse in
con- spectu alicuius, ita etiam Grae- cos arbitror primitus
dixisse: iv oppadi papxvpoov, deinde cogi- tasse tontumraodo ita,
scripsisse autem iv papxvdiv . Sic reperiea sexcenties iv orjpoo,
iv dixadxai iv 3 eoiS , alia* 7tep\ xyS docpla?. Delevi- mus
comma , qnod post docpla? in omnibus editionibus reperitur, non ut
verba arctius coniungan- tur nepl trjS docpla? dixadxy Xpcopevoi
diovvdu), sed ut XP°^~ pevoi 8. d. ad praecedens 8ia8i- xadopeSa
pertinere clarius in- Cap. IV. Mera zctvra, Sq>t),
xaraxhvlvrog tov EaxQaroyg xul HeinvrjGavrog xul xav aMcov, GjtovSdg te
G<pug nocfoaG&at, xul aGuvtug tov &tov, xul ralla tu vo-
ptgofiEva, TQtnsGftai XQog tov Ttorov- Tov ovv ITav- Cuvlav £tpij loyov
xoiovrov tivbg xuraQxsiv. Eltv } uv- dicetar. Tlepl rr/S dotplaf
autem verba explicando xavxa prono- mini inserviant* Sensas est
.* Hieriiber wollen wir nach einer kleinen Weile entscheiden,
ich tmd du, narolich iiber die Weisheit, nnd Dionysos soli Ricbter
sein. Continetur his verbis festiva adhortatio ad bibendam , quod
quo fiat iucundius, rerum seria- rum, curae Bacchi indicio subii-
ciendae esse censentor» xai x 66v aXXav ac. d«- 7tV7]6avTG)V , nam
ad alterum participium xaxaxXtvkvxoS haec verba non referenda sunt.
Habet Ficinus; Post haec, inquit Aristodemus, Socrate simul et
aliis discumbentibus, libare invicem et degustare vina
sacrificantium ritu. xal xaXXa x a vopiZo- fjLBva .
Magna est horum ver- borum difficultas. Sive spectas structuram ,
nescias , quid id sit, ad quod verba referas xal xaXXa tol
vojiiZopEva , sive ad significatum animum advertis, voluntatem scriptoris
explicata diffi- cillimam reperias. Astius scri- bendum coniecit
Marce xa vopi- gopsva. Censor in Ephem» Lit- tcr. Ien, Iuli 1832.
N. 52. xal &6avxaS xor $edv xa YOjj.iZ6jj.Eva commendat.
Audacias uterque, ut videtur. Stallb. absolute po- sita verba
ceoset hoc sensu: et quae alia suat usitata. Non male. Melius
Riickertus participium aCavxaS ad accusa- tivum utrumque pertinere
con- tendit, nt convivae et hymnum in deum et quae praeterea
cani soleant, cecinisse di- cantur. Restat, ut explicemus, quid sit
id , quod praeter hymnum in deum cecinisse convivae perhi- bentur.
Pro adsiv alind verbum ponitur in Sympos. Xenoph. II, 1. G oS 6’
dep%peS?j(jav ai xpa - xtEZai xal idTCeitjavxo xal in aiavitiar,
kpxexai ns h. x . A. Adde Athen., qui ad no- strum locum respexit
V. 7. p. 214. &S7tEp xal nXdxoDv <pvXa66Et ieaxd x 6
dvjixodiov pexa ydp xo bmtvrj6ca tfitovSdf xk cprj6i itoirjtiui xal
xov Seov xaicovi- 6avx aS xois vopiZojikvoiS yk - padiv. Colligi ex
his locis pot- est , verba xal xaXXa xa voju- Zopeva addita esse a
scriptore, ut a8eiv vocis simplicitatem ex- plerent atque notionem
efficerent itaiGoviZEiv verbi. Paullo infra legitur p. 177. A.
aXXoiS pkv Xi6i Segov vjjvovf xal 7tutu>vaS tivat X. T, A., ad
quae verba schol. haec annotat: xaiavaS * tj xovS XEyojikvovS
7taidvaS f vjjvovS eis UxoXXojva iirl xa- 3
* SQtg, <puvcu, riva tQoitov
qu<Stu xiofiefra ; iya jisv ovv Xtya vfiiv, otl ra ovci navv %aXeitas
£z a vito tov ^i>£S izotov, xal deocca dvcaln>xijs tivog, ot(iai de
xal B vfimv zoiig noXXovg. xaQrjte yccQ yfitg. axomtO&e ovv.
ranavdei Xoi/tov’ y Tlomjora tdv tcov Sediv iatpov * rj
nauo- vaS t coi vvv, cJSaS ini evtvxip xal vlxy, 8id tov gj, iB,
ov xal nauovl^Eiv. Est in hoc scholio , alienam manam quod
prodat, hoc tara^n certum esse reor, naiGovigeiv significare et
hymnum in laudem Apol- linis aliusve dei canere, et carmen canere
ini £vtv~ Xia xal vixy. cfr. Xenoph, Hell. IV* 7. Bdetder 6
$eof xal 61 jJ.lv Aaxedaijiovioiy ap- ZapivGOV toov ano
dajiotiaS, navtsS vjuvrjdoev tov nepl tov IlodEidco naiava. Alterum
ver- his expressum est adavtaS tov Seov, alterum in verbis
contine- tur xal taXXa ta vopi^djiEra. In conviviis igitur primam
libatio fiebat poculis , ut Schol. lluhnk. habet, tribus:
ixipvdovto yap iv avtcdS ( tais dvvov- diaiS') xpatypeZ tpeiS * xal
tov plv npGDtov Jids 9 OXvjiniov xal Segov ’OXvjtni(ov iXeyov
• tov 51 Sevtspov 'Hpcooov' tov 61 tpitov 2a)t?jpo£.
Libatione oblata illud facere solebant, quod naUkJvL2,£iv vocatur.
Hoc rite per- acto vino se invitabant» tpinedSai npoS tov
notov . Praecedente tempore aoristo infinitivas imperfecti positus est, ut
esset, quo possent momentaneae, quas vocamus, actiones , a duraturis
discerni» Tphcsd&ai enim npoS notov ipsam bibendi actionem
exprimit, quae ad multam usque noctem extenditur. Ceterum
articulus additas est, ut certa quaedam potatio, ad quam convivas
poeta invitaverat , denotetur. bIev , av8p£S, (parat.
Schol. ad Politic. annotat: eJbv ay£ 5rj' rj dvyxatdSedtS jikv tcov
ElprjfiivGQVj 6wa<p?) 6'e npos ta piWovta , rj ava<panrt]jia
ofioiov tov aWa. Utnntur hac voce ii, qui aliis facile aliquid
concedunt, quo facilius possent, illis pacatis, quid ipsi
sentiant, aperire» Iam qui assentituc, is habeat necesse est, cui
assentia- tur» Igitur dicta alicuius prae- cedant necesse est elsv
voci; quae quoniam non comparent, supplenda sunt. Videtnr
autem Agatho dixisse : aWa tpenGQjieSa vvv npoS tov notov , quae
ad- hortatio Agathonis .facile eruitur e verbis dcpaS tpinedSai
npoS tov notov. Agathonis dictum Pausanias cum audisset ,
bene hoc quidem, inquit, o viri, hoc dictum ab Agathone, - sed
qua ratione bibemus suavissime? Ut nostro loco, ita etiam in
Phaedon» p. 117. A» supplemento quodam opus est ante eiev. Verba
haec sunt : xal 6 nais iHeASojv xal dvyvov xpuvor diarptyaS
yxev dyajv tov jiiXXovta dcodeiv td epappaxov , iv xvXixi
epipovta tEtpijifj&vov. I8z>v 61 d 2?coxpa- tyS tov
avSpcjnov elev f Utprj, d> f SeXrtdte , dv yap rovrojv
inidtlj/icov • ti xpy notEiv Patet, hominem cum poculum afferret,
virus a se parati vim laudasse ita , ut eius haustui celerrimam
mortem adseriberet. Respondit tlvt tQoTtcp kv c5g QaCta xtvoiusv.
'tov ovv 'AqiGzo- tpavrj ihttlv ' Tovzo fiiinoi ev Ityus , ca FlavGavla ,
zo xavxl ZQOTtcp mxQaGMvdGaG&ai qccGuovijv uva zijs Jto Oecus-
sc u\ yag avzo$ Eifii tcov z&es @E(icaizc0/iEvav. Socrates: Gnt, o
Bester, das xnasst da ja wissen. Was muss ich non thua? vide quae
annotata sunt ad p. 204. C. cap. XXIV. init, . fi a 6 x a
itio /ie$ a. Haec est optimorum codd. lectio, quam in textum
receperunt Bekk. , Stallb., alii. Vulgo 7/8i6ra ntoo- fie$a
exhibetur. Bene Riickertus od h. 1, Futurum, inquibj propter- ea h.
1. praeferendam est, quod non, quid debeat neri, Pausanias rogat,
sed quomodo, quod futu- rum sit , fieri possit commodis- sime.
Indicativum habes etiam infra p. 21 4. A. tov 6’ ’Epv%l- /iaxov ,
Uc 5? ovv f cpavaij <J * A7oafiid8r\ , Koiovfiiv ; ovtcof ovte
ti Xeyofiev ini tf/ xvXixt ovt indSofiev , » a\\* atexv doSrtep ol
8n}>d)vtES itiofie^a ; Ceterum Schol. ad h. 1. fiadta r 6 ?j
diota ivtavSa dTjpalvet, quae verba laudo, nt facilius in-
telligatur, unde vulgata lectio rjdidta fluxerit* lydo fi sv
ovv \eyao. Pro- prie dicendum erat: Xiyco fiev tjjjIv — olfiet i
6i. De addita ovv particula , qua Jliv et 66 particularum positara
excusatur, qnaeque minus sibi respondentia orationis membra, quoad
eius fieri potest, inter se conciliat, vide quae annotata sunt ad
p. 22. vfi&v tov S noWovS sc. S£id^ai dvaipvxyZ* Prorsus
eo- dem modo cap. IV* initio neti t6jv dWoov positum
reperies. Laudat Stallb. ad h. 1. V). Apol* Socr, p. £5. E. tavra
iyco doi ndSoficn , oj Ml\r}te f olfica 81 ovde aX\ov
dySpooitcov ovdiva ac. iteidedSai Coi. Eutyphr. p. S. E. a) Wa Cv
re vara vovv dya- viei rr)v 8lxr\v , olfiat 81 xal ifik tijv i/irjv
ac. dycov induat. 7ta padxeva dad ^ai.Belk., quem Riickertus
secutus est , e codd. non paucis in textum re- cepit
itapadxevdB,ed^ai. Recte fortasse, quamquam etiam aoristi
infinitivus habet, quo se commen- det. Ceterum ne quis forte seri-
, •bendum censeat itapadxevada- d$at 8eiv atque cum Riickerto
convertcudum : Hoc recte dicis, omni modo esso parandam
commoditatem : Aristophanis vo- luntas hacc est: Das erachtest
du in der That ganz recht fiir nothwendig , dass man namlich
sich auf allc Wcise das Trinken angenehm zu machen suche, Ni- mirum
in huiusmodi enuntiatis verba Xeyeiv, fjyeidSai, Soxelv, dB,iovv,
vo/ii^etv al. significant: aequum ceosere , suadere alieni,
necessarium putare, vid. Ilcind* ad Piat. Prot. p* 346, Stallb. ad
Phaed. p. 95. B« et ad Polit. VI. p, 504. E., ubi laudat Ilom. II.
IX. 626. ov yap fiot 8oxiei j,iv$oio teXevtrj rySs y 68 (y
npaviedSat, xal yap avtoS. Valgo le- gitur xal yap xal avtoS.
Bodl. uliique codd. non paoci alterum tcai omittunt, omiserunt
Bekk. Stallb. alii. Ac Stallb. qoidem, Videtur, iuquit, 7tal
additum esse ab iis, qui nat yap non solum 'AxoviSavra ovv ttvrav
£<pij 'Ego^liiaxov rov 'Axovfit- vov, *H xafaos, tpavai , ilyftt. xal
t'n hos Siofiai vfiav axoveai, Xcog fjrei xgog r 6 t§§&09ca ittvsiv
’Aya- C 9av; OvSapas, <pavai, ovd’ ccvtds tooatiat.
"Egfiaiov av tb) rifitv, q 6’ os, »s htxs, i(ioi rtjtai
'Agiaxodqfuo 0ten!<n, sed etiam nam et, nam etiam significare
ignorarent* Non repugnandam est co- dicum auctoritati, minus tamen
Stallbaumii sententia placet exi- stimantis xal yap h* 1. esse nam
et. Id nimirum si expri- mere voluisset Plato, scripsisset, opinor,
tuxi yap iyco el/n, uti scriptum exstat apud Homerum lliad.IV, 58.
xal yap iyoo tlfu h. e., denn auch ich biu eine Gottin. Nostro loco
malim xai putare expletivum , cuius exemplum infra habes p. 198.
C. xal yap pe ropyiov 6 XoyoS drepipyyjdxev , ofere x. x. A.
Eodem modo interpretor verba Pl. Pol. V. p. 468* D. ’JAXct pijv xal
xa$* r/ Oprjpov xolS xotoisde dlxaiov xtpdv tcjv yLcov 0601 ayaSoi
. xal yap "OpilpoS x . r. A., quo loco, quo- niam praecedit
Homeri comme- moratio, xal yap^OpjjpoS verba significant: nam
Homerus. fiefi anxi6 pkv Conve- nit perfecti temporis
participium cum praecedente Pausaniae dicto: tcolyv ^aAfTrooS*
Ex& vito xov tzotov. Beftanxi6pevodv verbi significatum
explicat Iacobs* ad Eueni Epigr. XV* v. 6., ubi legitur :
ftaitxiZei d’ vrtvcp yeixovi tgj Savaxo ) . tt Clem. Alex. Paed,
II. p. 1 82. 29. , V7CO p&ijs (5a - TlTlB,6ptVOS tlSVTZYOY.
fia7CTi<>£- (5$at enim et ii dicuutur, qui se largius
invitarunt vino.* Lu- cian. a Iacobsio laudatus habet T.
III. p. 8t. 41. xaptjfiapovYTi xal fteftanti6pivcp loixev . Apud
Plautum Ps. V, 2, 7* reperitar: madide madere* xal Exi IvoV*
Ficinus in conversione exhibet: Probe dici- tis , atque hoc insuper
a vobis audire desidero. Rectius Schleier- znach. : Nur von e in em
nuter euch xnochte ich noch horen, wie er bei Kraften ist zura
trin- ken. Ceterum idveiv hoc loco idem videtur esse atque
tcoXvv niveiv olvov , quod paullo infra positum reperitur;
respondet igi- tur nostratium zecheo* " E ppatov dv eZrj
yj piv — ei vpets — yvv aTcei- prjxaxe . Ein unverhoflter Ge-
winn wiire es uns , wenn ihr, die tapfersten Zecher, dieses Mal das
Trinken im Ernst aufgae- bet. Nescit nimirum Eryximachus, utrum
ioci caussa, au serio Agatho ante locatus sit. Indicat autem
illatus post optativum cum el part. coniunctum indicativus , de obiectira
alicuius rei veritate agi, quam verbis exprimere so- lemus: im
Ernste, wirklich, in Wahrheit. Exempla si requiris huius
structurae, vide Stallb. ad Apol. Socr. c. 12, annotationem. Adde
Symp. p. 177* D. el ovv Zwdoxei xal vpiv , ykvoix dv i)piv iv A
oyoiS IxavtJ Siaxptftif Apol. S. p. 35. A. ei ovr xjpcHv ol
Soxovvxe? 6ia(p&peiy ehe tiocpLqi etx8 avdput ei'xe dAAp xal
&al8pa xal tolgde, ei Vfiets ot 6vv'm<&taxoi it Lieiv vvv
diieiQr\xctxe' ijfiei 'g (ilv yag dei advvaroi. StaxQttttj 8’ lt,aiQC3
Xoyov ' Uavog y«(J xal dp.rpuxtQa, agt i^ccQ- xetisi avrta qxoxeq av
itouofiev. ineidrj ovv fioi doxei ovSeig rmv itaQovxcov itQodvnag %%eiv
xgog ro itokvv tfnviovv (Sorpiit roiovroi S6ov- rat, al6xpoy
av sfrf. b, e. Wenn nun die anter ench , welche fiir weise, tapfer
oder soust tugend- begabt gehalten werden , wirk- lich s o sich
zeigen sollten , so ware daa aller Verachtnng werth. iB,aipw
Xoyov, Vulgo i^cdpoj rov Xoyov legitur. Ar- ticulum plurimi codd.
omittunt, quem ut minus desideremus, exempla faciunt Phaedr. p.
242. B., de Rep, VI. p. 492. E. alia, et similium locutionum
analogia. Legitor v. c. in Rep. PJat. L. II. p. 357. A. o oprjv
Xoyov dnrjWdxScLi, quo loco arti- culas in uno tantummodo
Paris, cod. comparet. Neque seriorum scriptorum auctoritatem nunc
curamus, qui articulum addiderunt; hoc fecisse constat, qui nostrum
locum imitatus est, Aristidem Orat. II. Tom. II. p, 269. TlXa-
tcjva 8* lt,aif)oo rov Xoyov ixecvoS yap apupotepa. Articulum addidit,
quem non abesse posse putaret, xcd omisit, quod non intelligeret.
Kal autem ita positum est, ut indicium primi- tivae conformationis
verborum ait: ixavoS xalrovro xal ixava, pro quibus verbis cum per
compendium loquendi dixisset Plato dp<p6TEj}a , xcd remansit.
dist ££> apx e6 ei avT(p. Stallb. rectissime : ut satis
habiturus sit, ut ei satisfacturum sit, utrumcun- que
faciamus, ovSelf rcor xaportcor . H. e. Nemo eorum, qui hio
adsunt in convivio. Admoneor his verbis de loco quodam Apol. Socr. p 22. B, c.
7., quem hucusque nemo videtur recte interpretatus esse.
oXiyov avr cov anavTES ol icapovisS av fttXnov UXeyov xepl gjv
avrol inenoripiEtiar. Convertit haec ver- ba Stallb.: omnes, qui
ad- erant, melius istis de car- minibus solebant indicare,
quae illi ipsi composuerant. Addit autem, non sine vi repetitum esse
pronomen avtol , quo graviter significetur poeta» ipsos de suis
ipsorum carminibus peius iudicasse., quam alios ho- mines, qui
illos carmiua recitantes audierint. Melius in explicandis his verbis versatus est
WoIUus: a Nam prope dixerim omnes paene, qui hic adsunt,
istis meiins dicerent Ue iis, quae isti composuerant; « quamquam ne
hic quidem Platonis voluntatem agnovit. Non verisimile euiin,
homines fiavavoovS , qui nuuc arbitri sunt iu iudicio, melius
potuisse de carminibus iudicare, quam poetas. Sensus est totius
loci: Ich schame mich nnn, ilir Miinner, ench die Wahrlieit zu
sageu, Dennoch muss es heraus. Alie, die hier anwesend sind, wurden
fast besser, ais jeue uber ihre Werke, uber das sprechen, vas sife
irgend selbst gemacht hiitten (h.e. si qui ex sua qnis-
f itlvuv qIvov , l'dog av lym tcbqI tov (U&vtixeQftai ,
olov D ictiy raXri%^ Xiyav rjtrov av eirjv ajjdtjg. ifiol yccg di]
tovro ys oiuca xcctadrjl ov yeyovivai ix tijg Icctql- xijg, ott %ateitbv
tolg (iv&QcoTioig 7] (ilfhj loti, xai ovre ctvxbg bxcqv rivca xoqqqj
l&riyfiaitu av iti&iv, ovxs akkco qtxt arto aliquid
fecissent, vid. Matth. Gr. pl, {.599. p. 119S.) idcjS av ifri
~ 7/ xx ov Av eiijv. Repetita est av particula in eadem
enuutiatione non negligentia scriptoris, at olim multi
arbitrabantur, nequo explendae orationis caussa , sed at loquentia
modestia elaceat ma- gis, qui sperat fore, ut de ebrietatis natura
quae sit, si ve- rum dixerit, minus fortasse molestus convivis videatur.
Tari cuuctatiouo et modestia, quae tum io verborum modesto
significatu, tam ia singularum orationis partium dispositione
cernitur, Cie. de oificiis loquitur L. I. c. 1. §. 2. Nam pkilosophaudi
scientiam concedens multis, quod est orationis propriam, apte, distincte
ornateque dicere, quoniam in eo studio aetatem consumsi , si id
mihi assumo, videor id meo iare quodam modo vindicare.
ort xaXeirov — 7 / JIES 7 / idxty . Adiectivom haud
ruro neutro genere poni seqoente substantivo, ad quod pertinet, femini
masculinive generis , satis hodie notum est. vid. Matth. Gr. plen.
§, 437. p. 815. Sed non perinde esse, utrum genus nominis in se suscipiat
necne, nd- iectivum, Rdckertu» ad h. 1. docuit. Puto autem, inquit,
nd- 7 4oetiva sabiccti genus tum sequi, quum res aliqua, qualis
sit, quae que attributa habeat, describatur, omnino quum do
certa re certi quid pronuntietur} contra neu- trum locum habere,
quoties vel de certa re, cui generi adnumeranda sit, praedicetur,
vel de re in universum cogitata aliquid pronuntietur. Equidem sic
statuo! Adiectivum substantivi genus in se suscipiens substantivo
subiungi ita, ut, qnod singulae alicui rei conve- niat, significet,
contra nentro genere positum , substantivo non subiunctum esse, sed
ad idem aequiparatnm. cfr, Lach. p. 192. ovh dpa zi)v ys
roiavtyv xaprepiav drdpiocv opoXoyi)- otis elvat, bceidfptep ov
xccXij idttv , 7/ avdpia xaXov idttv . Adde Ilipp. Mai. p.
288. B. StjXsia imtoS xaXr) ov xa- A ov; Ibid, p, 288. C. Xvpa xaXrf
ov xaXov; xvrpa xaXi) ov xaXov ; kxcov elvai , Addito
infi- nitivo hominis alicuius liberrima voluntas significatur ita,
ut simul coerceri posse atque minui liber- tas illa indicetur, cfr.
Phaedon, p. 80. E. idv phv xaSapa (sc„ V fax ?}- ) dnaXXdtTJftai
p?/6lv Tov doopatoS i(peXxov6a dre ovdtv xoivGjvovda avxai iv
rea fiUp kxovda elvat; utpote quae nullam suscipiat, quoad
eius fieri potest, quan- tum in eius potestate est, cum corpore
cdmmercium. Addendam hoc est atque beue te- nendum , non adhiberi
Ixojv GvfifiovXivScani aXXag te xal XQcuTCaXaivra tzi hi rijg
TtQOtiQciiag. ’AXXa [irjv, Hq)ij cpuvai vTtoXa^itvta (bal- Sqov tov
MvQQivovelov , eyays Ooi sia&a xti&eodca aXXcog te xai cczz’ av
mqI IcaQixijs As/?;g' vvv 6’ av fiovXovzcu xal oi XomqI. Tavzcc drj
axovSavzag Ovy- E I tlvai nisi in iis
enuntiationibns, quae actionem quandam conti- neant sive revera
additaxn, sive mente supplendam. Idem cudit iu omnes figuras
dicendi, quae nostrae consimiles sunt, v. c. to vvv elvai. cfr.
Lach. cap, SI* fin, zo 5h vvv elvai ttjv dvv - ovdiav SiaXvdGJjuev
h. e. wir vrollcn aber fiir jetzt, d. b. vas nns fiir jetzt uur zu
th uu iibrig bleibt, nns treuneu, Finitus nimirum dies erat,
noctisque adventas in proximum diem differri disputationem
iubebat;' quare Socrates aXXct Ttoir/doo, inquit, gj Avdtpaxe,
tama, xal tf £<0 Ttapd. dl aypiovj iav Seo* i&4 Xy. Male
autem Mutth. in Gramm. plen. $. 546. p. 1071. g liuc trahit Piat,
Protag. p, 317. A. eycj t ovtoiS dnadi xaxa rovro elvai ov
B,vji<pkpojiai , neque recte, opinor, Stallb. verba convertit in
Protag. ed. p, 45. : mihi yero cum his omnibus, quantum quidem ad
hoo attinet, non convenit. Kata tovro eodem prorsus modo h. 1.
positum est, quo in Apol. Socr. p. 17. B. legitur: el jtev yap
tovto A eyovdiv , opoXoyoiyv av lycoye ov x at a rovro vs elvai
fitjzcap. Itaque certum esse reor, Protagorara dicere 1.1. i mihi
vero cum his omnibus hac ratione sophistae esse non conducit*
Explica- tius paullo infra p. S17* B. eandem sententiam Protagoras
pro- t fert : iyco ovv xovtgjv xrjv ivav- xiav aitadav
oSov iAh/XvSa, xal o^ioXoy gj xe docpidxrjS elvai 7ial xaideveiv
av$pGJ7tovS* x. r. A. dXXcoS xe xal xpanta- X&vxa £xi.
Exspectaveris XpantaXojvxi, Infertur interdum post dativum casum
accusativas augendae gravitatis caussa. Nam vis quaedam est in
anomalia ha- betque, quod praeter exspectatio- nem fit, proprium
suum acumen. Ceterum nou poni solet dativo praecedente accusativus,
nisi infi- nitivus adsit ut nostro loco Ttieiv y cura qno arctius
coniungatur. Si- militer iu Pl, Criton. p, 51. D, ofiojS
Tcpoayopevopev xgj i£ov- Oiav TtETtoupiivai f A$7jyaLcj v xco
povXojikvcp ,\ . . igeivai Xa- fiovxa xd avrov aitievai OTioi av
ftovXr/rar. Lex nimi- rum Attica, quae cum gravitate h. 1. laudatur
— ajti$i Xapojv xd ddvrov x. X. A. audisse vi- detur. Symp. p, 188.
I). ovroS (sc. o"Ep(&S') xyv jiEyidXTjv 8v- vajuv kxei xal
nadav y/dv evdcxipoviav 7tapadxevd?,ei xal dXXyXoiS dvvapkvovS
oj.uA.elv xal <pi\o elvai x. x. A., ad quae verba vide
annotationem. lyooys do l el&Sa xel- $ed$ai.
Interpunctionem post 'XefaedSai vulgo positam expun- gendam
curavimus ; verborum enim dXXojS xe xai ea ratio est, ut
antecedentia cnm sequentibus arctissime coniungant. Eodem %toQtZv
mxvrag firj Sia iil&rjs itoir]<Su<s9ai zrjv l v tm itaif- ovri
OvvovUtav, aXX’ ovta, xivovza g XQog iidovtjv. Cap. V.
’Exh8t\ tolvw, cpavca rov ’EQvi,liitt%ov , tovto fiiv deSoxtai,
xlvuv '6<Sov av ixaotog (Sovfojzca., Ixavayxeg modo in superioribus
comma delevimus post 6 vp( 5 ovXev 6 aipi et post itielv, ut ne esset ,,
quod obstaret, quominus xpainaXarvxa participium ad infinitivum
prae- cedentem referatur. Ceterum recte Stallb. monet, art * av
Xi- yrjS cum gravitate dictum esse pro iav rl XiyyS.
vvv 8 * av fiovXovxai xal ol A oixzol, Vulgo post av legitur
ev , idque probant codd. plcriquc. Pro av noa paucis in codicibus
av reperitur; tredecimcodd. ^ovAcj^tarihabcnt. lia.stius cum
intelligeret, ol Aor- J rol non de iis intelligi posse, qui
assensum suum declarassent in praecedentibus, neque vero ad ceteros
convivas relatum, com- mode cum insequentibus verbis conciliari :
xavxa 87} axovSar- xaS tivyxcoptlv navxas x. r, A., scribendum
coniecit Spec. erit, p. 12.: vvv 8’ av iv fiovXevGov- xai xal ol
Xontoi, hoc ut esset : modo ceteri quoque bene sibi consulant.
Eodem fere modo Ficinus in coiit. : nunc- si militer , modo
ceteri quoque consentiant. Tliierscli. in Spcc. edit. Symp. Piat.
p. 8. vvv 8 * av ftovXotvx * av xal ol X olito i verbis locnm
sanare studnit. Astius vvv avxa (iovXovxai xal ol X ontoi exhibuit.
Orell. ad Isecr. de Antidos. maluit p. 324. : vvv 8* el ftovXovrai
xal ol Xontoi. Wyttenbach: vvv 8* opa ei vel vvv 8' av et
fiovXovxai , quod Reyndera. In textum recepit. Riickertus
Platonem scripsisse su- spicatur : xal vvv 8* av , iav fiovXovxai
xal ol Xontoi: Con- sueri in omnibus tibi obtempe- rare, quae dicis
de arte medica, et nunc quoque (sc. tibi pbtemperabo) modo velint
etiam reliqui, Stkllb. verbis nihil mutatis nisi quod ev post av
positum omitteret, haec ex- quisita, inquit, brevitate dicta sunt
hoc sensu: uunc vero rursus idem fiet, quando quidem etiam
ceteri^con- vivae volunt. Quam exqui- sitam boc loco Stallb. laudat
di- cendi brevitatem, equidem licen- tiosam appellare malim atque
in- solentem. Sed pone, verba vvv 8* av jiovXovXat
significare posse nunc vero rursus idem fiet, quando q ni dem
— volunt, num verisimile est, Phaedrum dixisse : Soleo tibi credere cum
alias, tum potissimum disserenti su- per rebus e medica arte
depromtis, nunc vero rur- sum tibi credam? — Nihil coniectura opus
est, ut rectissime Stallb. censet, neque quicquanx praeter ev vnlgo
post av posi • tum expungendum. Indicat autem av praegressae
alicuius rei actio- nisve repetitionem, manifestoque declarat hoc
loon, ftovXovrat per prolepsin pro itei&ovxai positum esse. Verba
convertenda sunt: Nunc vero rursus etiam ce- Si yrjSiv iivut, ro fi era
rovro tlsrjyoviuu rr/v fiiv agri tlgeX&ovSav avlyrgtSa %algeiv tav,
«vlovaav lavry -rj, lav /JouAijt at, raig yvvai^l raig tvSov, yyag 8's
Sue Aoj/cw «AAijAots (Svvuvcn ro ryyegov. xal Si oiav A o- yav, tl
(iovAca&E, l&tXa vy.lv slgyyySaS&ca. &avca teris (fidem
habentibus tibi) li- bitara est (sc. quaerere potatio-* uis qu and
ara moderationem.) Hoc dictum ut intelligatur, quam bene cum
insequentibus verbis conve- niat : Phaedrus verba vvv 6 * av
fiovXovxai xal ol Xoiitol dixisse cogitandus est vultu ad con-
vivas converso quasi ro- gitaturus: Rectene loquor atque de
sententia vestra? fi 1 } did Nota huno usum dia
praepositionis. Optime Scliieierip* convertit: Ilier au f also
waren alie iiberein- gekommen, es bei ihrem diesmaligen
Zusammeu- sein nichtauf den Rausch anzulegen. Paullo infra p.176.
E. eodem modo 8ia Xoyav d/ 1- XijXoiS dvveivai. Apposite Stallb.
laudat Piat, de Legg. I, p. 640. B. 1.6X1 8£ ys xoiavxrj
<Swov6ia, tbttp tdxai Sia 2r}$ , ovx dSopvfioS. Plura exempla si
quaeris huius dicendi usus, adi Klattli. Gramm. plen. $. 580.
c. p. 1149. ♦ d XX* bvx a , 7t lv o y x ai jxpos ijSovrjv.
ctXX* ovxa sc. Ttotf\6a65ai. Ceterum ovxa accuratius definitur
verbis inse- qoentibus itivovxaS 7tpoS ySovrjv, Male Stallb.
coniungenda censet ovxa itpoS TfdovTfy. nur so zum Vergniigen. cfr.
Symp. p. 193- C, oxi ovtodS av rjpav ro ykvoS evSaipov yivoiro,
tl £xx eX& tiatpev rov £ pa- ra x. x. X. Adde p. 215.
A. 2 coxpaxTj 6* iya htaivetv , cJ avdpes y ovxcoS
ticixtipytia. Si bIxqy av . Exempla huius dicendi usus plurima
reperiuntur, quibus possis adnumerare quale reperitur in Alcib. I.
p. 105. cap. 4. oxi avxov 6£ Sei dt>- Vadxevsiv £v ry Evpdiry,
quo loco indefinitum avxov praefigi- tur accuratiori indicio £v
xy Evpany • Ad nostrum locum ut revertar, Ttpo S' ?}5ovijv apprime
respondet nostratium : nach Wohl-# gefallen. Probatur haec verbi
notio verbis sequentibus : nlvtiv o6ov dv txa6xoS ftovXi/xai, bca-
vayxeS 6 e prjdlv elvai. £tz dv ayxeZ pySlr tlvai. Solebaiit
regem (tftyi- 7C06iapxov') eligere convivae, qui bibendi leges
daret, quibus convivae ad bibendum coge- rentur. cfr. Symp. p. 213.
E. apxovza ovv alpovpai zijs no 6egqS y taC dv vpuS IxavaS
Tityre, ipavxov *ro perci rovro yovpai. Tope ra rovro cum gravitate
dietnm significat: quod attinet ad id, quod post haec sequitur.
Recte autem annota- tum est a Riickerto: verba haec nunquam
temporis solam conse- quentiam denotare, sed ubique internum
aliquem nexura inter praecedentia et sequentia desi- gnare. ElSrfyovpai
verbum quod 177 bt] itavtuq xcd flovXiaft ai xat xsltvuv airov
elgijytL- 6&cu. Elnslv ovv zbv ’Egv!;ltitt%ov , on 'H (ih>
ftot aQyjj tov f.oyov lari xara rr/v EvqmISov MtXavlitittjV ov yaQ
ijibs 6 pv&os, tt/U« <PuldQov tovSs, ov fitiZa attinet,
Hcsycli. interjpretator elft]- yeldSai • dv/ifiovXtveiv h. e* suaclere,
censere , aliquid faciendum esse. Apprime verbo respondere videtur
nostratium : etwas zum Vorschlag bringen, x i)v yev — • av
Xrj x p iS a Xaipeiv lav, Tibicinam di- mitti Eryximachus iubet, ut
8id Xdycov aXX?jXoiS dvveivai con- vivae possint. Notari autem h.
1. Xenophontem, qui in convivio suo tibicinae locum dedisset,
ho- minum quoruudam liodie satis explosa opinio fuit, vid, Boeckh,
de simultate, quae Platoni cum Xenophonte intercessisse dicitur 8,
seqq. cfr. Protug. 347. C, Tiocl ydp 8oxei poi xo 7Cepl 7Coir]decoS
diaXtyeCSai opoiuxa- rov dvai xoiS dvpitodloiS xoi$ xgjv
q>avXa>Y TtctL ayopaicDV dvSrpGJTtGDY. xal ydp ovxoi, 8ia ro
pj) SvrctdSai aXXj}XoiS 8i iavxcZv tivv&Lvai iv tg5 itoxco
pr}8\ 8id xijs kavxcov (pcovijs ■holi xoov Xoycov xcoy kavxcov vito
ditaiSsvtiiaS, xipiaS noiovdt xds avXrjxpidaZ , rcoAAov pi-
OSoiytEvoi aAXorpiav cpcovifY xijv xqjy avXaiv , 7ia\ 8id xifi
ixeivaov qxxvifi aXXijXoiS dvv- eidtv. onov 8e xaXol xayaS ol
dvurcoxai xal TCuraihtvpirui elo \v , ovh dv l SotS ovt avXr r
xpidai ovxe opx*/dxpi8aS ovza ipaXrpias , «AA* avcovZ avxolS
\xavovS ovxaS dvvtivai dvtv xu)v Xi/pav xe xal ItlXlhlddV xovxcov
dia xijs avx&v (pwpS, A lyovxaS xe xai dxovoyxas Iv pipet
lavxojy xodplooS , nav 7tdvv itoXvy oivov itioodiv. Perscripsi
hunc locum, quo non Pla- tonis sententia Socrati adseripta
contineri videtur, sed ipsius So- cratis iudicium exprimi, ut cla-
rius intelligatur, etiam in minu- tioribus rebus Platonem ad So-
craticos mores scriptionem suam accommodavisse. xait yvyaiZi
talZ Ev- 8ov, cfr, Corn. Nep. praef. $. 7. Neque sedet (ac.
mulier) nisi in interiore parte aedium, quae gynaeconi- tis
appellatur. Ceterum ut paullo supra 8ia pi$TjS, fla nunc 8ta Xdyojv
positum est adhae- rente, ni fallor, notione temporis, quasi dicere
voluerit Eryximachus: 8ia Xuyor 8iax pipeiv xtjv tj ylpav .
ei p ovXe 0% e , i^iXoo. Differre inter se videntur haeo
verba eodem modo, quo inter se differaut verba et XPV* Nimirum eam
voluntatem i$£- A eiv verbum denotat, quae cou- silio nititur atque
intelligentia , PovXedSai contra adhiberi se- let , ubi aliquis
impetu quo- dam animi fortuito abripitur, cf. 174). D. avAovday kavtij
, rj , lav PovXrjxai , xaiS yvvat - £,Lv h • r, A. h. e.,' oder
wenu sie Lust liat. Adde p. 179. B. xa\ p?/v
vjrEpaito$V7}dx£iv ye povoi ESlXovdiy ol ipaov- xeS. Symp. p. 190.
A. lito- pEVETO 8t> Op$6v , GjSTZEp YVYf uTtorlpcjdf
povXjfSeitj h. e. nach welchcr Seite es ihn hintrieb, cr Lust
liattc. Igitur con- Mysiv. OaiSpog yuQ sxaetots xqus (t£ aynvaxztSv
Xe- yzi • Ov 8uv6v, (prjGiv, u’Eqv^m%e, kXXol g [iiv ruti &iav
vfivovg xal ncamvag sivca vico tiov itoirjtdiv ke- jcoirjjiivovg , ta di 'Eqciu,
rijXixovtcj ovu xal xoGovtto vertenda snnt verUo nostra :
Mit welchen Reden wir non den Tag hinbringen wollen , bin icb,
so ihr Lust habt, each vorati - schlagen entschlossen.
Prorsus eoden# modo Syrap. p. 199. A, a\Xd rd ye aXrj$i} % el fiov
X b6$e, iSiXoj linetv xar ipavrdv. cpavai drj rtdvra?
seqq. h. e. Es hatten nun alie ja ge- sagt und sie urollten es and
hat- ten in ihn gedrungeft, er mochte ihnen die Eroflnung
machen. Coacervatis verborum infinitivis satis vivide turba
describitur' convivarum strepenti clamore ser- monum materiam
exigentium. Ttard r?}v Ev ptniS ov MsXav innyv. Versus Euri-
pideus est: ovx i/ioS 6 pv$oS, aXX’ ipij? pi/rpo? Ttdpa
, ad quem alludens Eryximachus dicit ov ydp ipoS o' pv$o?,
aXXd $ai8pov rovSe. cfr. Alcib. I, p. 113. C. rd r ov
EvpiniSov apa ZvpftaivEi , co AXxifiiddtj, dov rade xiv8vv ev ei? ,
aXX 3 ovx ipov axrjxoevai, ov8* tya/ eij.il d ravra Xkycov, aXXd
6v. Adde Apol. Socr. p. 20. E. xal poi , a> avSpe? ’A5?jvaioi ,
jn) Sopv- firfirjrE, prj8\ dv dd%Go n vplv /xkya Xeyeiv, ov ydp ip
dv ipcd rov Xoyov x. r. A. Ad amoven- dam dictorum invidiam hoc
Euripidis versu veteres usos esse saepenumero, et ab interpretibus passim
annotatum est et exempla docent, quorum ex numero Apol. Socr. p.
20. E. Nostro loco Eryximachus versum Euripideum laudat, non
quo dicti magnificen- tiam excuset, aut sententiae in- solentiam,
qoibus invidia auditorum interdum excitotur , sed suum cuique tribuendi
studio. Initium orationis, inquit, ad Euripidis Melanippen
accommodandum est, nam non mcasant, quae dictu- ras sum, sed
Phaedrus, qui hic assidet, eadem excogitavit. vpvovS xal Ttai
co v a Tlaidva? codd. nonnulli habent et scliol. Verba schol.
laudata p. 35. in hunc modum restituenda sunt fortasse: rraidiv aS'
ij rovS Xeyopkvov? naiavas, vpvovS Ei? 'JnoXXava htl
xara- navdsi Xoipov. [rj Ilatr/ova r dv tcov $£gov iarpdv •] 7}
naicova? 00? vvv, cddds ini evrvxia xal vtxy, 8rd rov &j, i% ov
xal natcoviSjEtv. Verba rj Tlanjova rdv rcov Seiuv larpov uucis
inclusimus, quod aut abaliena raauu addita sunt, aut casu quodam a
sede sua in alienam translata. rrjXtxovrtp ovrt xal ro6ovrcj
J Ficinus habet: tantum talem ve deum, Ast. verba convertit talem
tan- tum q ne. Stallb. tam multorum bonorum auctori et tam potenti.
Exhibet in con- versione Schleicrm.: dem Eros aber, eiuem so
grossen und herrlichen Gotte, Optime Riickcrt. rrjXixovro ?
essa tam vetustus annotavit. Ad- dit idem, Eryximachum
querelam B &£a, firjSh £W ndxoTE toCovtav ytyovotov xoiijrdv
jttTKnrjxivca (irjdiv iyxco/uov; tl d£ fiovlu uv axi$a6&ai tovg
ZQijGrovs tiotpxitas, 'IlQuxktovg (iiv xtd uklav Phaedri referre,
qtil in oratione sua hoc ipso nomiue vel maximo honore dignam
amorem praedicet, quod omnium deorum sit vetu- stissimus. Iloc
igitur ei indignum videri , quod Hercules quidem, recens donatus
immortalitate, lau- datores repererit, Amor autem, omnibus ipse
prior, suis laudibus careat. prjSlv iyxwpi ov. Val-
ckenar. Diatr. iu Eurip. Reliqq. p. 157. scribendum coniecit prjSk
iyxooptov 9 quam scripturam ut ardori loquentia apprimo conve-
nientem probaremus , si lyxco- piov verbum latiore potestate
careret. Complectitur autem iu se vfivovj xal TtaidSvaS , ut Ilgen.
ad Scolia p. XXXVII* docuit. Queritur igitur Phaedrus, quod , cum
in ceteros eosdemque Erote multo inferiores deos poetae hymnos
composuissent et carmina pro salute et felicitate suscepta, e tanto
eorum numero ne unus quidem in Erotem carmen con- scripserit.
sl SI ftov\et av tixlipa- 65ai — dvyyp d <pei v. Fi- ciuus
habet : atqui, si vis, inquit, o Eryximache, quaerere, inve- nies
profecto Sophistas disertos soluta oratione Herculem alios- qne
laudasse, quemadmodum pe- ritissimus Prodicus , quamquam hoc minus
alicui mirum videri debet, sed etc. Hac conversione motus Stallb.
Platonem scripsisse censet : EvprjdetS 'HpaxXeovS plv xai aXXxay —
i ivyypdtpeiv (sc. avt ovS.) Dubito, num recte. Nam illud invenies
addita- mentum est, ut videtur, Ficini, qui concitatioris hominis
verba apta brevitate reddere desperaret, Riickert. interpunctione
post do- xpxdxaS deleta et posito post 6x&- rpadSai commate
sensum vetfborum ait esse; porro optimos so- phistas. Etenim formula,
in- quit, ei Se ftovXst, cui plerumque non ndditor infinitivus, quem
h. 1. appositum videmus, ita ad- hiberi solet, ut novum inducat vel
exemplum vel argumentum. Accusat. rovS <So<px<$xds propter
hanc, quam indicavimus, formulae vim nou putem obiecti casum esse
ad tixhpatiSau , quamquam supplendus hic ipse erit ad hunc
infiuit., sed subiecti ad seq. dvy- ypdtpeiv. Inde patet, usque ad
SvyypacpEiv omnia pendere e verbis ov Seiyov. — Displicet haec
interpretatio tribus de caus- sis. Primum tl Se ftovXet nus- quam
reperitur cum infinitivis verborum coniunctum, ut no- vum exemplum
commemorari denotet; deinde mireris post 6xtif)a6Sai
interpunctionem, qua efiiciatur, ut xovS XPV^ ^ovS 6o~ xpidtds non
cum dXEiftadSoct con- jungatur, ad quod verba illa supplenda sint
tamen. Postremo verba tovS xpijdtovS — dotpxdxds e praecedente ov
Seiyov apta tortuosam atque hiulcam senten- tiam efficiunt. Si quid
video, Phaedrus diettirus erat: si 8h ftovXei av
<5xiif>a6$ax rovf XPV~ 6rovS 6o(pi6rfx?yHp<xxXEOvS ptv
xaldXXa>y iizaivovS (sc, avTovf) xataXoydSrfY 6vyypd<pe3Y>
tZs- xoxahoyaSriv tivyyQacpEiv , 6 pUufStog Tlgodixos — xai
tovto fisv ytrov xai ftavfiad rov — alX kyaye ?jdrj nvi lvttv%ov (hpttcd
ccvdQog Cocpov , Iv (p ivrjdav ateg i iCEp O fttXtltftOS
Tlp6SlX0S?E p G>- t oS 8h ov , tovz ov 5 a vy fiadx (Sx axov ;
Facit nobis* cum in hac reFiciuus, qui paullo infra addit in
conversione: cui non gravissimum videa- tur? — Sed cum nondum
ad finem enuntiationis pervenisset loquendo Phaedrus , . in
mentem ipsi venit salis quaedam laudatio» qua minus etiam mira
Herculis aliornmque encomium indicari debeat. Igitur suppressis
verbis "Epc&ti dfc ov, xovx ov Savfioc dTGnaxoY , statim
pergit; xai tovto puv ytTOY xai Savfia- (Stoy , aAA’ fycoys x. r.
A._ xovS XP ydTovS. Ironice hoc dictum esse y ut mox 6 /JeA-
xtdtoS ITpodtxoS , Stallb. docet. Sohleicrm. verba convertit: und
willst du dicli auch untcr den edlen Sophisten umsehen, dass sie
auf den Herakles und Andero in ungebundener Rede Lobschrif- ten
verfertigen, vie der vortrelf- liche Prodicus. Riickert. ad h. 1.:
XpydToi , inquit, sunt boni, optimi, die guten. Adhibe- tur enim
haec vox iq derisione. TovS xpyfaovS 6o<pi6raS nou So- cratis
verba sunt Sophistis in- festissimi, sed Phaedri, hominis a studio
sophistarum non alieni, ut laudatio Erotis docet sophia stica arte
composita p. 178. seqq. Vehementius autem quam iu poe- tas,
Phaedrus in sophistas inve- hitur, utpote qui, cum siot re- rum
utilium laudatores strenui, inprimis Erotem lau- dare debuerint.
Sententia est totius loci ♦ Ist es nicht achreck- licii,
dass andere Gotter von den Dichtern gefeiert werden, dem Eros
abfcr, dem altesten und segenreichsten Gotte auch vou koi- nem der vielen
Dichter ein L«ed dargebracht worden ist? Willst du nuu aber die
praktischeu Sophisten ins Auge fassen : dass sie uber Hercules uod
andere Lobschriften abfassen , wie der tuchtigate uuter ihnen,
Prodicas — und das ist weniger noch xu bewundern, — aber mir kam
sogar eiumal ein Ruch zu Han- den, in dem der Nutzen des Sal- zes
auf bewundernswerthe Art erhoben war. xa\ tovto filv
yTTOY xcl\ S av pa6 T ov. Unus cod. Vindob. et Vatican, liber
alterum hoc xai omittunt probantibus Bastio atque Thierschio.
Sed recte servant illud ceteri codices. Pertinet autem ad ?/ttoy,
ut sen- sas hic sit: atque hoc minus etiam mirum est, quam
hoc, quod in librum qu*u- dam incidi etc. Nec mirum est 7/ttoy
praemitti voculae, quum t ovcodtY habeat. Quam* quam non in promtu
sunt alia huius collocationis exempla, Stallb. Iy cj ivrjdav
aA,£f, Apto comparari iubet Stallb. Isocr. Helen. Laud. p. 304. tvy
fily yap TovS /5oppv\tovS xa\ xovS aXaS' xai xd xoiavxa
floyXy- SivTtoY iitaiveiv ovdeis 7too7fore XoyaY T]7c6p7jdEY. Cic.
Brut* $. 47. Singularum rerum lau- dationes vituperationesque
cou* scripsit, quod iudicaret hoc lora* C titaivov davfiuGiov
i'xovres xqos w(fi/.uav • y.at aXXa Toiavta (5v %va XSoie Sv
iyxexMiuaGfieva. r 6 ovv xoiov- rcov fiev ittQi noXXrjV GxovStjv
itoirjOaG&cu , "Egma Se Hijdtva Tta av&Q dxav ter otyiyxivca
tls ravxrjvl xrjv tjpi- toris esse propriom, rem angere
posse laudando viluperandoque rursus affligere. Vid. Wolf, Prolegg,
ad Demostii. Lept. p. XXXV* Restat, ut indicemus, cur Prodicus Ceus
hoc loco fiii l- r idxoC audiat. Multam operam posuisse perhibetur
in verborum discrimine explicando, quae 8iai- pfdtff rcov ovopdxcov
vocator Prolog, p. 358. A. Iloc studium acerrime perstringitur
Prot. 337. A., D. et C , laudatur Piat. Lach* p. 197. §• 26. Haec
StalpedtS quamquam summopere a Prodico exculta, tamen Phaedro tanti
esse nou potuit, ut fiiXtidrofi Pro- dicum appellandum esse
putaret. Satis notum est, Prodicum lucri caussa Epicharmi versum in
ore gessisse: d 81 X £ ^P tc * v X&P a viP,£i. 8oS n xal Xapi
n. vid, Axibch. 366. C. Sed ne hoc quidem satis caussae est,
cur fiiA XidxoS appelletur. Videtur potius, ut ita piAxiCxoS
de eo valere, qui rerum laudem non nisi ex earum utilitate
ex- aptat. Prodicus autem ne a diis quidem rationem utilitatis
cohi- bere solebat, ut videre Jicet e dicto eius servato apud
Sext. Empir, adv. Mathcm. 9. 18. i/Aiov xai defajnjr na\
Ttoxa- povf xal xpTjvaS xat xaSoAov itdvta r d cocpsXovvxa xov
ftiov rjpwv ol itaAaiol Seov S ivo - puSctv 8ia X7}v ait avxcOv
coepi- Anav f KciSditEp ol AlyiJitxioi xov NeiAov t xa\ 8id
xovxorov Mtv dpxov Ji/prjxpav vopidSij- vat xov 8h oivor Jiovvdov
nal x d 8h vSaop Ilodsidcova , to 6h TXu p n Ilepaidxov xal
ehee rcov evxprjdovxcov ditavxa. Addo Cic, de N. D* I, 42. m Quid
Pro- dicus Ceus, qui ea, quae pro- dessent hominum vitae,
deorum ia numero habita esso dixit , quam tandem religiouem
reliquit?» Iam quod Prodicus fe- cit, ut iu deorum laudatione non
deos, sed rerum utilitatem laudaret divino nomine insignitam, idem
fero iu Erotis eocomio a Phaedro factum. Nou in indolem inquirit
atque iu naturam dei, sed rerum, quarum auctor Eroa esse perhibetur,
utilitatem expo- nit j quo maiorem illam videt, eo maiore honore
deum exornat nullo veritatis respectu habito* Non mirum igitur, si
Prodicum maxime laudandum Phaedrus cen- suit, ad cuius exemplar
ipse laudationem Erotis composuit. Ceterum quod Herculis laudationem
attinet, Riickertum audi ad h. 1. annotantem: Herculis laudationem
scripserat (sc, Prodicus) in libro, coi oopai titulus, ex quo notissimam
de Hercule in trivio fa- bulam mqtuatus est Xcnoph* Mem* II* , 20.
Prodici quippe admirator usque adeo, ut, quum in Boeotia vinctus
esset, quo tempore ibi sophista versabatur, vade dato ad audiendum
eum o carcere prodiret auctore PJiilostr. vit. soph. I, 12.
ro ovv x oiovtov seqq* Vulgo post -dpvij<5<xi comma
positum reperitur, pun- ctum post Wyttenbach* Qttv a^ltog
i(twj<Sai — - ukX ornag tffilbftcu toGovtos S-eos ! Tavxa 8tj poi
SoxtZ ev tiyuv ®ccZ8qos. eyui ow Int&vfico a fi a (ilv tovra iqctvov
elgeveyxeZv xal ^txQiSao&cu , afict de tv tc3 xccqovti itQ&nov
jioi 8oxeZ Bibi. Crit.^T. I. YoL, ra. p. 10. oti ante ovxcoS
inferciendam cenanit ; Steplianus coniecit a\\’ ovxcaS TjpsAijdSai
xodovxoy Seov. Non mirum, lumines doctos in verborum
structura admodum haesisse , in qua com- ponenda ipse, qui
loquitor, impe- ditum se atque implicitum sentiebat, Addita ovv particula
ma- nifesto indicatur, verba superiori- bus annectenda esse; sed
quoniam omissa sunt illic, e quibus haec exaptari potuissent, xovx
vv SavpadxaSxaxoy; factum est, ut quaedam structurae ambigui- tas
oriretur, et dicenti, et audi- enti molestissima. Ex hac stru-
cturae difficultate ut se extrica- ret Eryximachus, dissecto
inceptae structurae filo pro infinitivo in- dicativum posuit. Hinc
bene habet exclamandi * signum , quod post &eoS positam est ab
interpretibus, minus probem post vpvijdai, Verba convertenda sunt:
Dass, sage ich, an solche Dinge viele Miihe verschwendet wird, den
Eros aber Iceiner noch wiirdig zu feiern versucht hat, sondern so
vernachlassigt wird ein so segenreicher Gott! a^icoS v pvrf
dat. Wolfiu» ad verba tc3 6b "Epooxi — ptj- 6bv iyxoopioy
annotavit: Man muss annehmen, und dies scheint mir das wahrste ,
dass Platon vorsatzlich seinen Phaedrus et- was sagen lasst, das
nicht ge- grundet war. Viro doetissimo concedimus, Eroti laudatores
vix deesse potuisse ; sed cavendum est, ne Phaedro aliquid
imputemus, quod nec cogitavit nec dixit. Negat tantummodo reper-
tum esse adhuc, qui laudem deo dignam ediderit, non ne- gat,
prorsus neglectum iacerc atque contemtum a poetis sophistis- que deum,
Iam quid sit laudem deo dignam edere s. dB,iooS vpvijdai (roV
Seoy), infra paullo explicabitur. ipavov elfey eyxetv
h, e.' symbolam dare. Non caret lepore in symposio philosophico haec
dictio , de cuins tror pico usu conferri iubet Stal». Casaub. ad
Theophr. Charact, c. XV. xo dpijdai xov Seov. Mi- nus
qusfcrendum h. 1. est , quid omnino xodpEiv significet et aB,iooS
v/ivelv, quod paullo su- pra legitur, quam qua significatione haec
verba adhibuerit Phaedrus. Socratem ipsum interpretem sume p. 198.
E. x 6 dk apa (sc. ro iyxcopia^Eiv') ov xovxo jjy xd xa\co$
ixaivEHy oxiovv, aAAcz xo aZs pkytdxa av axt$ i- v at x ai
itpaypaxi xal co S xdWidx a iav x e y ovxgdS iav xe prf'
el dfc TfiEvdrj , ovdbv ap yv izpayjxa x. x. A. Atque eodem
fere modo ipse Eryximachus p. 177. D. Soxei yap poi t inquit,
Xpijyai txadxov ypoSv Adyov eItzeiv Inaivov *EpooxoS — cJ S av
Svvyxat xaWidx ov. v rj ptv iy \6yoiS . Wolf* convertit :
eine reichhaltige, weit- 4 tlvui rjuiv toig xuqovOi
xoOfiijtiai rov &tov. tl ow D £ vvdoxei xai vfilv, ytvoiv’ civ rjfiiv
iv koyoig ixavi) dictTptfir). doxei yaa fioi yjirjvca Zy.utirov i^fiwv
kbyov tiiteiv htaivov "Eqmos 1% i dsha wg av Svvtjrai xak-
kidrov, a$yuv 61 QcuSqov icgtotov, inudrj xai arpsJrog xaraxuzai xai
1'tiuv cifia xarr/Q rov koyov. OvStlg Coi, o3 ’EQv£lntt%£, (favea zbv
Eoxqcizi) , ivavzla iprjcpiti- lauftige Materio zum Reden. ypiv iv
X oyotS idem fero est, atque yperipoiS Ir A oyoiS. Sen- sus est.*
Wenn nun auch euch wirklich so diinkt, so hatten wir in aasern
Reden sattsame Unterhaltung» De structura huius enuntiati vide ad
p. 176. C. Minus probabilis Stallb. ratio explicandi est haec: tl
ovv %vv- - xai vjuiv, ovtco Ttoicoptv yevoiro yap av ypiv iv
Ao- yoi$ ixavy biarpifty. i tz\ btB,ia. Sic Bekk»
Stallb* alii; Riickertns veterum editionum lectionem imbLB,ia in
tettum re- cepit usu Homerico nixus, quem Plato haud raro imitatus
sit* Vid. F»uttm. Lexil. p. 173» seqq. For- tasse recte habet
iitibiByia^ ubi narratur, quo ordine aliquid factum sit; contra quo
ordine aliqnid fieri debeat, ubi indicator, rectius ini 6e%id
exhibetur, v. c. in Piat, de rep, IV, p, 420. £. xai rovS xtpapia?
xaxaxXlvavraS t inibi%ia Ttpoi ro itvp bta- nivovrds Tt xai
tvcDXovpivovS H . T. A. De xPV y Cct verbi potestate J es miisse wolleu ,
vide annot. ad p. 176. E. narrjp rov Xoyov . J7a- nyp
vocis insolentiam Stallbaum* leniri posse arbitratus est addito
exemplo Phaedri p. 257* B* &aidp6s re xai iyco Avdiav rov rov
Xoyov nazipa alxioo- pevoS. Fortasse EryxtfBachus rursus ad
Euripideum illum versum respexit ovx ifioS o javSoS, aXX* ipffS jirjrpo S
napa , at- que a se quidem profectum ser- monem negat: patrem
eius Phaedram esse contendit* y ra i p anxa. De his verbis vide
Commentat. de Piat» Symp, Certissimum autem esse existimo, Platonem
his verbis le- ctoris animum ad futuram So- cratis orationem
tanquam ad caput libelli dirigere voluisse. Ceterum ne mireris, cur, cum
Socrates ra ipoxixa initizatiSat dicatur, Aristophanes Bacchi Venerisque
cultor nomiuetur, Agatho et Pausanias indicio addito nullo ad Erotis
laudem celebrandam promti perhibeantur: Schoi. ha- bet s. v, f
Aya$QDVoS .... rpa - yaSt . ... ini paXaxia . . . zaby . yv b*
ovtoS ... itaiSj 'ASyvaioS .... naibixa JJavbaviov rov r pay ixov ,
x. r. A. Qui mutuo amore se complectebantur, iis nihil iucundius
contingere po- tuisse consentaneum est, quam laudationem Erotis.
Non com- memoratur autem h. 1. Pausaniae et Agathonis amor mutuus
diser- tis verbis , quod tum temporis notissimus erat.
ovbh pyv 9 Api(StO(pdvTjS. ovbh fiyv illatam post ovre ap-
t rta. ovts yaQ av xov lya c<ito<p>j<5aiui , og ovdiv
gtijyt alio IniGtotGxfai rj ra Igatixa , ovts xov Aya&av xal e
ITavUuviag , ovds yrjv ’AQiOTu<pdvr t g , a xsqI AwvvGov xal
'AtpQoSktjv xdoct tj diatQcjli) , ovds allog ovdelg tovtavl av lya oQa.
xal r oi ovx l| iGov ylyvstai 7jy.lv Tolg vGtcctoig xataxstfdvoig ' ali’
Idv oi xqogQsv txavu g xal xal wg sYxaOiv, IgaQxtGst r}yZv . alia
tvxu prime respondet Latinorum ne- que vero etiam, quibus
verbis res quaedam induci solet , quae maioris momenti est, quam
res paullo ante per simplex neque commemorata. Igitur cum gravitate
Aristophanes totus perhi- betur cura Baccho et Venere oc- cupatus
esse. De Baccho liquet, nam res scenica, inquit Stallb., Baccho
erat sacra, vid. Casaub. de Satyr. poesi p. 9. ed. llamb. Venerem
autem commemoratam h. 1. censet Riickertus, quod plenae sint ve n
eris Aristophanis comoediae. Wolfius ad h. 1. an- notat : In
wiefern er mit der Ve- nus zu thun gehabt habe, bezieht sich
vielleicht auf einen Um- stand , der der Gesellschaft be- kaunt
sein konnte, fiir uus aber verloren gegangen ist, vielleicht auf
die Sitten ' des Dichters. Aliter nobis videtnr de hoc
loco statuendum esse, quamquam in hujusmodi tenebris quis clare
vi- dere se audeat dicere? Ilaud raro Socrates nomina propria
facili quadam litterarum mutatione cor- rumpere solebat atque ita
immu- tare, nt nomen existeret, quod aive laudem sive vituperium
ex- primeret. Exemplo est p. 198, C., quo loco Gorgiae
Gorgnsque nomina inter se conferuntur le- pidissime. Adhibita
accentus mutatione in ’Ayd$oov et dya~ Scov nominibus ludit p. 174. B. Quid,
si etiam hoc loco in Aristophanis nomine lusit? Significat 9
Api6xo<pd.V7}S cum, qni opti- mum prodit. Optimam autem, veteri
proverbio, vinum et venus est, quod Graece audit: dptdxov diovvdoS
xal *A(ppo~ dlXTf . x ai x oi ovx i B, Id ov —<*AA.
Magnopere se torquent in huius loci explicatione, qui xal xoi
conianctim exhibuerunt. Ut gravior esset xoi port. affir- matio,
vocula ex scriptoris sen- tentia initio enuntiationis ponenda erat.
Id quoniam vetant fieri linguae leges , xai expletivum praepositum
est, do quo p. 6. diximus. Latine reddenda sunt verba: Pol non
aequa cou- ditione, qui ultimi con- sedimus, utimur. Quae se-
quitur aWa particula, ita com- mode explicatur, nt omissum co-
gitetur, quod facillime suppleri potest: 7 j/ieiS ovv ovx ipovfiev^
«AA* idv — iBiapxidei Locus nostro simillimus est Par- menid. p.
128. C. xai xoi GJSnep ye ael Adxatvai dxvXaxeS ev pexaSeiS xe xal
IxveveiS td \£X$ivx a. aXXd npuxov fiev Ce xovxo Aay$dvet, oxi x.
x. A,, quo loco ante aWd facillimo suppletur ovx zvpeZ xrjv
afa/Seiav. 4 * ! aya9y xaTaQ%itto OtauSpog xtu
lpta[HCc£ha rov "Egona. Tavta S>) xal ot nXHoi xaw Eg uqu £
we<p«<Sav t e xal 178 helevov axtg 6 Zuxqkti] g. ndvrav ylv ovv a
exadros tfotev , ovre navv 6 'AgiOroSyyog lu.iy.vyto oirt av tyto «
helvos Ueye mxvtct. « ydliGta xal av l<5o£e fioc d^ioyvrjfiovevtav
sivca, tovttov v/iiv iga exdtStov xov loyov. tffiiv to iS
v6tdx 01 $ xa- x an eipkv o tS. Dictam supra est p. 175. C. xov ovv
3 'Ayd - Saova, x vyxdveiv yap kdxotxov naTaxalpevov , povov *
Jevp cpctvai, oo 2ooxpaxeS f nap iul xaxaxeido. Sunt igitur
ol vdxaxoi xataxeipevot Socrates ct Agatho. xv XV
dyaSy. Formula erat, qua feliciter succlamare Graeci so- lebant
iis, qui aut navem conscendebant, ant ad bellum proficiscebantur, aut aliud
negotium suscipiebant, cuius incertus even- tus esset, cfr. Griton.
p. 43. D, dW\ gj Kpitcov , xvxy aya$y. navxeS dpa
£vvk<pa- 6 av. Wyttenb. scribendum con- iecit dpa pro dpa t qua
con- tectura efficitur, ut omnes uno ore consensisse dicantur.
Hoc consentaneum est convivas fecisse. Sed quoniam non sine turba
et clamore hoc fieri poterat •* nt quietius convivae egisse
viderentur, dpa non dpa Plato scripsit. De hi^ius particulae
significatu vide Heisigii annot. ad Oed. Coi. Enarr. p. CCVIH. Ortum
dpa est ab apeo , soletque adhiberi , ubi ab argumentorum enarratione
ora- tio ad finem tendit, h. e. ad conclusionem. Et cum singulos
convivas Socrates nominasset ita, ut simul, cur ad laudem Erotis
praedicandam parati essent, caus- sam adderet: ' om nes
igitur consensisse perhibentur. Minus apte Schleierm. in
conversione: Hierrait nun stimmten dann anch die Uebrigen alie
uberein, ovre navv 6 *Api6t o & 1 J' poS. De horam
verborum fine^ vide quae dicta sunt in Com- mentat. de Piat.
Sympos. Minut placet, quod Stallb. attulit ad ad hunc locum: Caute,
inquit, haec interposuit, ne legentes in eam inciderent opinionem,
ut has orationes revera habitas , non ab ipso cuiusque ingenio
convenienter fictas esse putarent. a^topvypovevtcov elvai.
Codd. plerique a£,io - pYTjpovevxoY j Bodl. omisso elvai 00
habet dZtopvrjpovevxov; in Pa- ris, uno, Vindob. duobus
pancis- que aliis d&iopvijp6v£vta ex- stat, quod Bekk. in
textum re- cepit, quem Stallb, Riickert. alii secuti sunt.
Videlicet docti viri negant, a^topvripovevxovS ora- tores vocari
posse , atque non nisi orationes illo epitheto recte Insigniri.
Aliter nobis de hoc loco statuendum videtur. Verba xovxoov vpiv
ipoo kxadtoy xov Xoyov ad praecedentia referan- tur drv UoB,k poi
dZiopvypo- vevxcov elvai: verba a pa- \idra nihil habent, quod
ipsis 9 I Cap. VI. Flgarov (ih>
y«Q, Cstuq Xiya, Irpi) &ui8qov aQ^d- ftivov tv&ivdt xo&tv
ktyuv, ori filyag &tos ut) 6 ”Equs xal fravfiaatos Iv av&Qthitoig
re xal &Eolg, sroA Aa%jj fiiv xal aXXy , ov% rpiMtd de xatd rtjv
yivEdiv. rd 'yuQ Iv tolg XQtafivzcccav tlvcu tbv &eov, tlyuov, ij 8’
os' tex/iq- B respondeat. Igitur dubitari ne- quit de xai
voculae potestate, Kctl nimirum auget corrigendo sigoificatque
atque potius. Exempla si requiris huius usus, vide Stallb. ad Apol.
Socr. p. 23. A. Convertenda autem verba sunt: Was mir nun am
meisten — oder besser, welche Redner mir am wichtigsten und
merkwiirdig- sten zu scin schienen, deren Ke- den will ich euch
einzelu dar- stellen. Proprie dicendum erat oi E8o£dv poi p
<x\i6xa a.B,io- pvjjpovevxoi elvai , xovxarv .... Genitivi e
praecedente d exapta ta sunt, quod xai addito quoaiam paene
evanescit, infra positum habes xovxgov vplv ipdb kxa- 6tov xov
Xoyov. Ceterum ex his verbis iodicnri licet de Apol- lodori
ingenio, qui orationes non tam ex orationum rationibus, quam ex
auctoritate et celebri- tate oratorum indicabat. Simili ratione
paullo infra p. 180, C. non orationum, sed oratorum obli- tus esse
dicitur Apollodorus his verbis: $al8pov p\v xoiovzov riva \6yov
Z<pij tinuv , pera $at8pov aAAovS’ tivaf, (li. e. oratores non
orationes,) elvat, ojy ov jtavv dispvt]- liovev ev.
icp&xov p\v yap. Phae- drus demonstrare studet, Erotem
deum antiquissimum et honoratissimum esse, atque summorum bohorum,
virtutis atque felicitatis benignissimum auctorem. Vide Comment. de
Piat. Sympos. Ce- terum de Phaedro, Pythoclis fi- lio, quem
Socratis aequalem fuisse negat Athenaeus XI, p, 505. F., et qui in
Protag. p. 315. C. in- ter Calliae convivas memoratur, rectissime
Stallb, m Erat inquit, homo mollis ac delicatus, <Soq>oS T a
ipGDZixd vid, Phaedr. p. 227* A, Sectatus autem rhetores Sicu- los,
iuprimis Tisiam et Lysiam, mirifice sibi placebat in oratione
comenda et calamistris ornanda» vid. Phaedr, p, 227.» p. 273** al.
Itaque oratio, quam Tlato hic ab eo habitam facit, habet nescio
quid fucati coloris et or- namenti, ut facile appareat, ho- minis
ingenium et mores ut ce- terorum convivatum, q Platone ad ipsam
veritatem esse ex- pressos. rd yap iv xoiS iep£6fivr
xaxov. Sic optimi codd. Legebatur olim iv roiS Ttpetipvtd- XoiS sequente
elrat xc ov Segov. Non dubium est, quin dixerint antiquitus Graeci
iv xoiS itps- tipvtdtoiS Tipedftvtarov et iv raiS nps6pvrdxaiS
itpstipvta- xr\v\ sed usu loquendi factum paullatim est, ut non
solum iv xo U ltpE6fivtaxoS dicaretur, sed qiov de tovtov' yovijg
yc<Q "Eoatog ovz elolv ovre kt- yovrcu vtc ovdevog ovre ISiutov
ovre TCoitjzov, aAA’ 'HaioSog xquwv filv %aog yeveO&ca (ptjOlv ,
' avtdp inerra etiam iv Toi? rtpedfivtdry, Videlicet ea
amplitudine verba £ v toi? esse voluerunt, ut quae gene- ris
discrimen non suscipiant, quasi dicas, omnium rerum, quae cogitari
possint, antiquissimam, maximum, pulcherrimum. Exemplum huius structurae
est p. 173. B. napayeyovei 8* iv ry dvvovdine 2ooxpdrov? ipet-
Crrj? cov iv toi? paXidra tcor rore. Adde Symp, p. 178. C. iv xoiS
7tpedftvraro? elvai. tifiiov, i / 5* o? . In upo Vindob.
exstat eido? pro y 8’ d?, ex qua scriptura, dupliciter po- sita
rifiiov vocis syllaba finali, rijiiov ovetSo? effinxit Creuzerus ad
Plotin, de Pulcritud. p, 146. Consentire videtur nobiscum vir
doctissimus, tlpior verbum hoc loco "admodum frigere, neque
nilo modo praecedentibus dei epithetis ^avpadro? et piya?
respondere. Exspectaveris potius superlativum, qui exstat apud
Aristot. Metuph. 1. 3. rifUQora* rov yap rd Ttpedftvrarov, Non
mutandum est y 8 1 5?, quibus verbis ipsissima Phaedri verba premi
manifesto indicatur. Phae- drum nutem dixisse reor: r o yap iv rot?
nptdfivrarov eivat rdr 3coV ov rifuov . Addita nega- tione et
interrogatione instituta efficitur, ut" orationis vigore
vis superlativi compensetur. Ceterum eo facilius scribae passi sunt
ne- gationem a praecedentis verbi syllaba finali absorberi, quo
mi- nus iotelligerent , interrogandi signo forte, ut fit,
oblitterato, qui possit non honorifica esse laus
antiquitatis. T EXfltf ptov 8 £ TOVTOV. Hacc verba si abessent, a
nemine desiderarentur, et facilius suaviusque flumen oratiouis procederet.
Cui euim non arrideat, enuntiatorum iunctura haec : rd yap iv t 61?
7fp£(jpvraxov elvai rov Stov ov xt/uov; ?/ 8 9 u?, yovy? 8e,”Eporo?
x, r.A. Cave tamen otiosum additamentum T exuypiov tovtov verba
cen- seas. Nimirum orationis conti- nuitatem ita intercidunt
h. J., ut gravior fiat caussae comme- moratio; simulque indicant,
quoniam oratorum, ut videtur, pro- pria sunt, Phaedri orationem
verbo tenus referri,# Huius rei, h. e. accuratissimae repetionis,
iudicium sunt etiam ?/ 8 ds verba, quae Apollodorus posuit, ut cla-
rius indicetur, iuitium orationis non nisi Phaedri sententias, Ari-
stodemi, non ipsius Phaedri verbis descriptas ( ap^dpevov iv- $£v6e
itoSiv') contiuere, nunc autem ita pergi in repetenda oratioue
Phaedri, ut etiam ipsa eius verba repetantur. Ceterum perraro xexpypiov
8i, paprv- piov 8i , similia ponuntur, quia in subsequentihus yap
part. repe- riatur, v. c. Plat, de Legg. VII. p. 821. E. r expypiov
8i, iycd tovtov ovre vio? ovre itaXat axyxoa depov. ovx
eld\v ovte i.iyov- taiy II. e. neque sunt revera parentes Erotis,
neque esse a Vat £vpv6xspvo? , Ttdvtcoy e8o? a<5(paX\? aiei f
’H8’ "EpoS. &rj(Sl {ietcc ro %aog 6vo rovta yeviti&cu,
yrpv re 'Aoi "Eqch tcl. IIccQpsvldr ( g 8e trjv ttvttiiv
liyzi, quoquam perhibentur. Non esse revera parentes Erotis,
non pro- bator; non dici a quoquam ita tantummodo confirmatum
liabes, ut allatis versibus quibusdam, quid Hesiodus et Parmeuides
de Erotis ortu tradiderint, edoceare. Notabis igitur, quam Plato
car- pit, levitatem argumentandi. ovxe i 8 1 cozov .
’l8iarr?]f latissimi significatus verbum est, quod plerumque ex
opposito ac- curatius definitur. Igitur non placet Ficini
conversio: Id autem ex eo c o 11 s t at, q u o d parentes
Erotis a nullo vel poeta vel alio quo- vis descripti sunt.
Nec prosarium scriptorem cum Stallb. interpretari velim Idiooxi]?
vocem. Antiquiores enim philosophi, ut Parmenidis exemplo
docemur, prosa oratione non usi sunt, cfr. Olympiod. ad Phaedon» p,
65« E* izoiTjxaS XeyEi ( sc. o JlXd - ro ov) llapjiEvL8?fv f
'EpTttdoxXiot, *Entxappov* ovxoi ydp x. t\ A. Consentaneum est
autem, philoso- phos et poetas ibi tangi, non poetas et prosarios
scriptores, tibi in Erotis originem inquiritur» Convertit
Schleierm.: von irgend cinem Dichter oder andern Erzahler» Exempla
si quaeris IduaXTj? vocis ex opposito ex- plicandae, legitur infra
p. 178. D. ovxe tcoXiy ovxe ISiqjxtjy h. e* vreder ein ganzer Staat
nocli ein einxelner Biirger. Prot. p. 322. *C» ei? Ixooy laxpixijv
itoXXoiS IxctvoS l8icoxatS x* x. A. tprjdl pexa ro x^oS
— x a i ”E p m r a. Haec verba quo- niam cum autecedentibus
nullo modo consociari possunt, Ilein- dorf. , quem Schleierm»
secutus est, post Iloio8oS pronomen re- lativum o? ponendam
ceusuit, Wolfins <pij6\ 67 scribendum existimavit. Ileynius,
Astins , alii, verba glossema censent, quod iudfcium Riickertus
probaret, si Socratis haec verba essent, non Phaedri hominis
inepti* (?) Sed ipsum audi Kiickcrtum: In Phaedri, inquit,
oratione nihil decerno , quae tota tam inepta ei/, ut ii tollere
velis omnia t quae displiceant , haud scio , an nullum versiculum
sis incolumem habiturus . (!?) — Plato poeta- rum versus laudare
solet duplici modo» Aut nudos versus afiert, aut commemorat
aliquid, quod idem in sequentibus versibus continetor iisque
comprobatur. Atque huius quidem rationis exemplum occurrit p, 195.
D. n OytjpoS ydp *Ax?}v Seoy xe <pj]6iv ejvcn xa\ ditaXr/v'
xovt yovv 71 6 8 a S avxij? dita~ Aou? Etv at , XlycoY Tij?
piv$' djraXol TiddeS* ov ydp iit ov6eoS niXvatai y aXX’ apa 1 )
ye xax* dv8poav xpdaxa fiaivei. Prioris rationis exemplum est
p. 197. C. Nusquam, quantum scio, poetarum versus laudat ita, ut
prolatis ipsis eorum prosariam explicationem addat. Fortasse cum
Riickerto foedidam quandam Phaedri sedulitatem Platonem no- taturum
fuisse contendis. Audio, / f
» npoitititov pkv * Epcora Itetur pijritSato xavrojv. C
Htitodu 81 xal ’Axov<slk ag ofiokoyti. ovta itolkct%6&tv neque
probo tamen. Nam hoc certe negari nequit , Phaedrum recte loqui potuisse,
ut non cre- dibile sit, eundem hoc loco bal- butientium instar
locutum esse. Scribendum videtur esse: dAA’ 'Hdlodof xpturov plv
xdoS tp?j6l yevidSat avtap Ixeixa tpj]6l
yai’ ev pv 6t epv oS, nav - tcov 28oS adqxxMs alsi rj 8 *
"EpoS. Repetitum tprjdlv est, quo magis pateret, ab
obliqua oratione ad ipsa poetae verba trausiri. Factum autem
videtur esse casu quodam, ut tprjdiv a sede sua in eo loco, quo id
codd. exhibent, colloca- retur, ubi ansam dedit nescio cui sciolo
Hesiodeos versus prosaria oratione explicandi. De tprjdi verba ipsa
poetae indicante cfr. p. 177. A. $al8poS yap b«x- QTore itpoS pe
dyctvcottoov Ai- yet* ov 8eiv6v, tprjdiv x.r. A. Adde p, 202. C.
Tcal iyco eluor , TtCOSTOVTO, 2<pTjv, \iyeiS. Al- cib. II, p,
142. c. 8. A iyei 8i xooS tu8i * Zev fiocdikev, r a plv a,
<prj6i, xai evxopivoiS Ttotl avevHTOiS ctppi SiSov , rcc di
8eiva xa\ evxopivoiS axa- A dB,eiv yteXe-vei. Tlap pevidrjS
81 — tcov, Haec quoque verba sunt, qui expungenda censeant.
Omisit ea cum superioribus tprfdl pera ro xdoi 8vo zovzgo '
yevidSai, yrjv re xal " Epcora , Stob. in Kclog, phys. I. p.
154. Verba sanissima esse iam colligere possis e praecedentibus verbis
ov8l idtturov ovre icotrjtov , Quibus !
commemoratis et poetarum et philosophorum certe unum exem- plum
laudari debebat ; si Hesiodum solum Phaedrus laudare volebat,
philosophorum mentionem facere non debebat. Verba sanissima esse
etiam e rectius explicato TevidecoS verbo patebit. Sic statuo: Duae
sunt in Mythologia Graecorum Veneres, quarnm altera maior, altera minor
aetate, Atqne minor quidem dea, *Aq>po- SirrjS nomine insignita
, a poetis celebrabatur, a populo colebatur. Maior natu dea, quam numen
rectius voces , iis tan- tummodo nota erat, qui omne studium in
coguo&cendis rerum caussis ponebant, b. e. viris phi-
losophicis, Factum autem vide- tur philosophorum inter se dissen-
tientium industria, ut plus minus divinae dignitatis dea maior nata
particeps haberetur, et cum vario modo spectaretur, ne certo qui-
dem nomine insigniretur. Ti- vediv eam vocarunt, et $i\lav f et
XaoS ; aeque, qui fons est magnae confusionis, ab A<ppo8l - r
rjS nomine abstinuerant, quin maiori illi deae interdum attri-
buerent. Sic Plutarch. Erot, p. 756. F. UtppoSityv posuit pro
Tevedet, sed addita Ipycav voce, qua nominis mutatio satis excusatur: 8io
IIappevl8ijS plv axo- tpcdvei r ov "Eptura rtuv ’Acppo- SirrjS
ipycov xpetifivrocrov iv zy xodpoypacpia ypdtpcav * xpoS- zitirov
plv * Epoota h. r. A. ri- ve 6iv autem Parmenidei versas subiectum
esse, etiam Aristotelis verbis probatur Mctaph. 1. 4. xal ydp ovroS
(sc. fla p pe - opoAqgtirtu 6 *Eqc>s iv rofe XQE<S(Svtatos tlvai.
XQtaflv- torros ol tw ptybSxsov &ya9mv ij ftw a?ttos itfrtv. ou
viSrfS) xctxadxEvdZoov rrjv tov navxoS yivediv' npcvxidxov
p&v, tprjdiv f "Eparxa Sevtv pr/xldaxo ndvxcov. Notasset
enim, si revera abesset, sabiecti absentiam philosophus. Satis notus
autem Graecismus est» quo dicitur trjv Ovediv Xiyei *
nptoxidxov x. r. X, pro Akytt * npoSxidxov ptv rj rivEdiS *Epooxa
Segqy pTjxidctxo ndvxoov. Iam patere opinor, Hesiodeos versus
cum Parmenidis testimonio optime convenire. Nam quod Xaos
apud illum est, ttyedis Parmenidi vo - catur, Igitur nullo modo
pro- banda est ea evplicandi ratio, qua Phaedrus callide dicitur
sub- iectum versiculi reticuisse, ne quod testimonium pro sua
sen- tentia afferat, quod idem contra ipsum testari nimis
manifestum sit. Verendum nimirum erat, ne quis convivarum, qui
Parmenidis versum memoria teneret, erroris atque fraudis loquentem
accusa- ret, aut, si non teneret, e ve- stigio subiectum rogaret.
Ceterum quod terram simul Hesiodus commemorat, (videlicet ut esset,
quo incedere Eros posset), id ei non officit, qui deorum
antiquissi- mum Erotem probaturus est. Ad- dere placet Simplicii ad
Arist» Phys. p. 9. revidecaS definitionem. Indicat nimirum, Parme-
nidem habuisse $eg5y alxiav Scri- povct iv pido» ndvxarv , T]
navxct Hvftepra, quam 3 Avdyxrjv s. xrjy xAydovyov Stallb.
minus accommodate interpretatur, xal *Axov diXe uf o
/io- do y e 2. Suidas habet; *Axov~ diAaoS, Kafia vlof 9 ‘
'ApyeioS ano KepxdSoS noAeaS , ovdtfi AvAiSoS nXrjdiov ,
IdxopixoS npedftvxaxoi * iypanpe <5£ ye- veaAoyiaS ix 6iXx oov
ds XoyoS evpelv tov naxipa avxov opv&avxd riva xonov xrjS
oixiaS avxov . Hinc de Clem, Alex, testimonio iudicabis, qui Strqm.
VI, p. 629. A. Acusilanm nihil nisi Theogoniam Hesiodeam in prosam
orationem con- vertisse docet. Phaedrum Acu- silai auctoritate
temere usum esse contendit Stallb. Habet, inquit, hominis oratio ,
ut iam supra dictum est , nonnihil sophistici acuminis et tumoris. Aliter
nos, atque fecit Stallb,, de Acusilai testimonio indicamus.
Videtur Acusilaus Argivus non Hesiodi solum mythos collegisse
atque in prosam orationem convertisse, sed etiam aliorum poetarum
narrationes addidisse, ut fecisse constat omnes eos, qui Logogra-
phorum nomine insigniuntur. Iu tanta autem, quanta erat antiqui-
tatis farrago mythorum, critica abhibita sedulo caverunt, no
discordia etinter se pugnantia col- ligerent. Fieri igitur poterat,
nt Acusilaus interdum ab Hesiodo discreparet; igitur illius
testimonio Phaedrus uti potoit satis commode, cfr. Otfried Mulier
ia den Prolegg. zu einer *isseuschaftlichen Mythologie p. 13.:
Iudcssen hatten sie (die Logo- graphen) zugleich die Absicht, die
Mythen zu ordnen und io Zusammenhang zu briugen, woriu ihnen auch
schon die kyklischeu und geueslogischen Epiker voran- gegangen
wareo. Bel diesem yuQ %yay typ tlxsiv o zi fieltov louv ccya&otUtov&vs
vtco uvzt, ij iQaetijS * Kt tQCKSzi] ncadixu « yag Ordnen mussten
natiirlich oft Mythen vorgezogen und aufge- nommen, andere
zuriickgestellt und iibergangen, es mnsstc eiue gewis.se Kritik
geubt werden. — ovtcj 7t oWaxoSev opo- Xoy eiTai. Parmenidis
Tersum delere dubitarunt interpretes non pauci ideo, quod ridiculum
e&set, solo Hesiodi et Acusilai testimonio laudato ita pergi :
ovzca xoXXaxfaty opioXoyEitau Haec verba num excusabiliora
censes testimoniis allatis tribus? Spe- ciosius quam verius annotat
ad h. 1, Wolf, : Er braucht, wiewohi er nur drei Gcwahrsmanner
on-gefiihrt Hat, TtoXXaxo^EV , weil em jeder von diesen das Haupt
einerSekte war, au deren Gruud- satzen sich eine Menge anderer bekannten.
Quid tandem? Num ad Phaedri confugiendum est sophisticum illum
tumorem? Non, placet. Ovtgd seiungendum est a tfoXXaxb$EY verbo,
non arctius cum eodem coniungendum, quod interpretes ad unum omnes
fecisse video. Ovtcj est, ut alias saepissime, hac, qua dixi, ra-
tione, hoc modo. Scbleierm, verba convertit: Von so vielen Seiten
her wird dem Eros zuge- standen, unter die altesten zu gehdren»
Phaedri haec potius mens est: Auf diese Weiao wird noch von vielen
an- dern zugestanden, dass Eros der alleralteste i st. Ovtcj
vocis sic positae si exempla quaeris, cf. Piat. Menex. p. 240. A., ubi
commemorata Per- sarum regum felicitate haec le- guntur: ai di
yvwpai dedov- i Xcjpivai a7tocvtcov dv&pujecay
?]dav • ovtcj noXAd xal pe- yaXa xal pdxipa ykvij narot- dEdovXojpkyrf
t/v Tf TJtpdcoy dpxrf t h. e * hac ratione factam est, ut multae et
magnae atque fortissimae olim nationes Persa- 4, rum potestati
subiicerentur. Adde Symp. p. 188. D. ovtcj KoXXr t y nat piydX?jy,
paXXov 6£ itdtiav dvvapiv ix Et HvXXt/PSrjr p\y 6 7CaS "EpojS
, quo loco e» sen- tentiarum nexu patet , ovtcj esse hac ratione,
hoc modo. itpEdftvTaToSdecjy pe- yidTcoy ct y a $ gj y
ijplv aftloS IdtlY, Ficini, ut videtur, horum verborum conversione
motus: Cum vero talis sit, maximorum bonorum no- bis est caussa,
Bastius scri- bendum coniecit: irpoS dfcrouro» tmr % peyidtcov h.
t. A. Frustra. Transitur his verbis ab altera oratiouis parte ad
alteram, h. e. ab aetatis ad beneficiorum com- memorationem. Non
omni ex parte Graecis verbis respondet conversio Stallb. ;
Quemad- modum autem est deorum antiquissimus, ita idem nobis
est auctor maximo- rum bonorum. Est enim, quam ille non reddidit
conver- tendo , species argumentationis verbis admixta, quam
sophistarum sectatores captare solebant. ov yap iycoy —
noti ipadxjj tc aiStxd. Riickertna ad h. 1. annotat: Non
accurate haec disposita sunt; quum enim esiet dicendum: nullum
est maius bonum homini, XQrj ctv&Quxoig yyEi6&ccc itavros
rov (Uov toTg t-dlhivGt, Aul cos (hmOst&ttt, tovto ovte fcvyyivsuc ola
re tfinotuv quam A PRIMA IUVENTUTE probus AMATOR, et postea AMANTI
PUER similis, sic eloquutus est, quasi otrumque ad verba evSvS vico
ovxi esset re- ferendum, Quod fieri non potest, nec voluit cogitari
orator. Notandum hoc duxi , sicut alia multa in hac oratione, quo
magis fiat perspicuum, quam multis ea vitiis laboret in omnibus,
quae ad sententias earumque cohaerentiam pertineut. Quod quum
perspectum fuerit , qua cautione in textu talium locorum casti-
gando utendum sit, plane iotel- ligetur. Cur de uno eodemqne homine
accipienda sint hoc loco, non DE DUOBUS HOMINIBUS MUTUO AMORE se
amplectentibus, vioS et ipatitijs verba, equidem caussam nou video.
Ruckerto non rectius Sdfileierm, verba interpretatas est: Dean ich
meiues Theiles weiss nicht zu ssgen , was ein grosscres Gut ware fur
eiuen Iiingling, ais gleich ein wohlmein en der Liebhaber oder dem
Liebhaber ein Liebling. Ad xaiStxa repetendum interpretes censent
jf/aj/dta. Minus apte, ut videtur. Nam nihil melius esse iuveni quam
probum amatorem, Phaedrus ita profert, ut iureni opus esse indicet
homine aliquo, cuius praeceptis et exemplo melior fiat. Non potest
autem is, qui melior reddendus est, eius, qui meliotem reddit, h. e.
AMATORIS epitheto ornari. Si igitur XPV& *oS nomen repetendam est, ad
ipadty referendum est, non ad kaidixa. Ceterum Riickerto assentimur de
structurae molestia querenti, qua et ad AMATOREM et ad amusium verba
non referri non possint: ev$vS vico ovrt , de lectionis veritate non
assentimur; sedulo enim cavendum est, ut nimio studio servandae
alicuius lectionis ne iniusti simus atque vitia v alicui imputemus,
qui nulla commisit. Ne multis, scripsisse Plato videtur: o v yap iyooy
&X& sIxeiy, oxi pst£ov itixiv dyaSov ev$vf vico ovxi,
Tjipadrrjs xal ipadtjj, (sc. XPV&&) V ^ou6txei 0
Sententia verborum haec est: Denn ich kenne kein Gut, das eiuem
gleich von dea friihesten Iahren an dienlicher ware, ais ein
verstiindiger Liebhaber, und das diesem ( dem verstaiidigen
Liebhaber} dienlicher ware, ais ein Liebling. avSp cotcoiZ
rjyzi6$ ail De jjyEidSai verbi structura vide sis Indices. Ceterum
interpositis verbis pluribus a verbo, ad quod pertinet, seiunctum
est xoiS piX- Xovdi xaXdoS fttQo6E62ou , ut vis maior esset
enuntiati. Sen- sus est: deno was den Menscheu ein Leitstern sein
muss des gan- zen Lebens , nam licii denen, welche recht zu lebeu
wunschen, cfr. p» 198. E. ro 81 apa , (gJs’ Hoixey , ov tovto rjv x
6 xa~ XcoS iit ot.iv eiv otiovv x. T. X. f ad quem locum vid.
ann.ad p. 202. C. tj xoXprj6aiS dv tiva. pij <pavai xaXov x e
xal svdai- pova $ Eooy elvca ; tovto ovtE Hvyyivsia x,
t. X. Pro Hvyyiviia Wyt- tenb, Epist. erit, p, 9. evyiveui D ovta
jeaAros ovts tifial ovts nlovtog oi W «AAo ovSiv (o S £qo S . tiya 8's
8rj il tovto ; rijv iarl fisv totg cdaxQocs al6%vvT[v, Ixl de totg xaloig
tpiXoufilav. ov yuQ Zauv avtv tovtav ovts ttoXiv ovts Idiatqv (isyaA.cc
xal xcda %Qya QtQya&GSai. tolwv lyio avdgcc ostig Iqcc,
scribendam coniecit, quod fue- runt, quibus magnopere placeret*
Stallb. gvyykvEiav gratiam esse contendit et auctoritatem, qua quis
propter hominum potentium affinitatem apud alios valeat. Rectioris
explicationis gloriolam mihi praereptam vides a Riickerto, qui
B,vyykvEiav de ipsis necessariis accipit, de eorum disciplina, maxime
autem de pudore , quo horum cogitatio iuvenem afficiat. l)icit enim,
Riickertus ait, in se- quentibus, nec matris nec patris tantopere,
si quid peccet, pudere, quam eius, quem amet, pariter* que amatum
amatoris. Conferri iubet praeterea Legg, I. p. 627. C, nxeo vtgjv
jj.Iv xoor itovif- pdjv {j te olxia xal 7} B,vyyk- reia avrij 7ta6a
ytrcov havtfjS Xkyoix av. V, 320. B. itoXiv te xal <pi\ovZ xal
B,vyykvEiav, Adde Alcib. I. p. 105. cap. V, xal ov t inixponoS ovte
dvy- ysvijf ovte aAAoS' ovdels Ixa- voS rtapaSovvai ttjv
dvvapiv x. , T. A. Restat, ut de verbis dicamus ovtco naAoiS , quae
a viris quibusdam impugnata sunt ac permutata, Reyndersius
nimi- rum pro ovtcj xa\<jj£ scribendum censuit ovte xaWoS
infarcto ante IpitoiEiv verbo ovtcjS. Iacobsius legendum proposuit
: ifutottiv ovtcjS 9 ovte xaXAoS x . r, A. Ovtcj xaAcjS verba
Phaedrus addidit, ut indicaret, aliquid con- ferre ad corrigendos
mores tara pa- rentum admonitiones tum honorum divitiarnmque faturam
possessionem : sed his maiorem esse atque validiorem amorem. Igitur
mutationi non locus est, neque satis- facit Stallb, dicens.;
quamquam pulcritudinis mentio in talibus frequens est, tamen non
ita necessaria videtor, ut libris invitis aliquid inferciendum sit y
praesertim quum addantar haec: ov t aKKo ovSkv, quibus verbis
cetera | quae vulgo bona habentur, significari manifestum est. Verbis ov
x aAAa ovdkv amicorum favor, gloriolae dulcedo, alia hoc genus
subin- telligi possunt, pulcritudo non potest. Patet enim, non nisi
de bonis sermonem esse, quae recto vitae modo servantur
augentur- qne, cadunt malo. Polcritudo autem non metuendam est,
ne malefactis imminuatur; igitnr ea non movetur, qui pulcher est
et malus , malos mores ut corrigat. Igitur ab hoc loco
pulcritudinis commemoratio alienissima est. Bene FICINO: haec natem
nobis neque genus neque divitiae neque honores praestare citius ac
me- lius quam amor possunt. \kyta 81 81} ti tovto;
Scriptum 'est in aliqnot codicibus: A kyo 81 6jj ti tovto \ quod Bastius
recepit. Iniuria. Sententia enim foret nostro loco minime
conveniens: Num est aliquid id, quod dico? & ti al<S%Qov
itouov xcadSijlog ytyvoixo rj itdoyav vito tov , di avavdQiav (irj
iqivvoyitvog , ovt av vito itaxgog offntivxa ovrag dlyijiScci ovts vnb
halpuv ovts vit ailov ovdtvog ag vit 6 itaidixiZv. xavtov Ss tovto xal
E xov iQcofiivov oQajisv, Btt SiatpeQovtag tovg tQu6tag aut
demto interrogandi signo j Est autem revera aliquid, quod dico.
Sexcenties apud Platonem rcperies mediae orationi interrogationes
interseminatas , quibus efficitur, ut ad rem, quae proferatur,
lectores attentiores reddantur. Vid. A st. ad Piat, de P* 29.
Heusd. spec. erit, p. 87. cfr. Sympos. p. 206. E. itavv pkv ovv,
£<pj / • xi 8 ?) ovv TTjS yevvtjdeooS; Ceterum Stallb. haec
verba explicat: zi de 8?} tovto idxiv, o XiycD, Commo- dior videtur
explicatio haec, ut, cum primitus dicatur A iyco di) tovto,
interposito interrogandi verbo ti , verba illa immutata maneant
Xiyco 8?) — - ti — tovto. Ad huius dictionis exemplar verba
Phaedon, p, 73. C. emendanda sunt: ap ovv xal to8e 0 // 0 A 0 -
yov/iev , dzav ixidn/pr/ itapa - yiyvr/rai rpoxeo toiovto), ava-
/ivi/div alvai ; Xeyoj 8e tiva Tpoxov tovtov . In codd. ali- quot
bonae notae riva pro tiva reperitnr. Stallb, scribendum vidit esse Xeyco
dfc riva Tpoxov; Tovtov*, neque tamen ipse sibi satisfecit. In
verbis, ^juae in- terrogationi praecedunt, cave credas, Tpoxov
verbum ita posi- tum esse, ut quod in sequente interrogatione
qxplicandum pro- ponatur. Scripsisset enim Plato, hoc si, edicere
voluisset, A iyco 6h Tpoxov tiva tovtov; Scri- psisse videtur
autem: A iyco 6} riva rpoxov tovto; sc, t 6 dva~ pvr/dw
eivai zo Ixidn/pr/v i tot- payiyvEdSca. <prip\ toivvv
iy<o . h. e. Meino Meinuug ist also nun. Quae brevius ante
dicta erant, ea nunc a Phaedro re- feruntur explicatius. In
sequentibus cum Astio et Riickerto comma ponendum curavimus post
vxo tov , ut 8i avavSpiav ar- tius cum pi/ apvvopevoS cou-
iungendum esse indicetur. Verba ovt av vxo xarpoS o<p$evTct
Ruckerti explicationem £,vyyi~ vtiav praecedentis confirmant.
MV a fivv opev of , Nam viri fortis esse potabatur iniu- riam
acceptam ulcisci et punire. Stallb. zavtov 81 tovto.
Du- plicem structuram haec verba ad- mittunt. Aut enim absolute
posita cogitari possunt, aut ab in- equente opaopev apta.
Prior explicandi ratio rectior. Sed audi Stallb. annotantem ad
hunc locum: In his, inquit, tavtdv Tovto absolute positum est.
Cf. Phileb. p. 37. IX pdov ovx op- $rjv ptv do£av ipovpev , av
dpSoTrjxa itixXh tovtov 81 7/8 o- vr/v; ubi Tavrov 8i absolute
accipiendum: pariterque vo- luptatem. Cratyl. p. 404. E, tavrov 6h
xal xspl tov 'AxoAAgq. Protagor. p. 344. D. xal yscop- yov
x&tenv &pa ixeXSovdat dpr/xavov av Seir/ xal laxpdv zavzd
tocvta. Menon, p. 90. D, «2 ai<fywET«i , otav
6(p&y iv cdtixQV tLVl & v - d ®w %avrj rtg yivoLto, cagre noXiv
yeveg&ai xj axgccxoxeSov tQaOxav Ti xal nui8ucdv, ovx k'<Sxiv
oitag av cc/iavov olxfcsiav xxjv sccvtdv jj axE^uficvoi xiavxav xdv
aia%gdv xccl xpdounovpevot xgdg dMqiovg. xul (iccxoftivoi y av
ovxovv xoc\ 7txp\ CCVfofySeOOf xal ruv aWaov ravxa xavxa icoWi
/ avoict ItiTiv , ftovXajiivovS x. x.X. Demosth. Midian. p. 526.
extr. cd. Reisk. faeiS* 6 nXrjyeif ht&voS vito xov
TIo\v$i/\ov ravto xovxo iStoe dtocXvodye- roS — ovd’ elSijyays tov
IIoXv- ZijXov. Loquendi genus tum alibi, tum hoc loco viros
doctos fefellit. iv aidxpfi ttvt cov. * Ev a . X.
eIvoci est defixum ^sse in re turpi, versuuken scin im B6- sen, im
Argen seinj hoc dicendi genus breviloquentia quaedam est,
supplendumque mente ver- bum est, quod cum iv praepo- sitione
commode consocietur. Pro iv oddxpd* xtvl a)V primitus di xisse videntur
Craeev iv al6xp<fi rivi xtijuevoS , ut iv fiopfiopu) xeidExoci
legitur Pl. Phaed. p. 69. C« De similibus dicendi formis : iv
olva> £ivai t iv xy x iyyy elvai y iv itoztjdEi ylyvedSai ai.
vide Matth. Gramm. pien. J. 577, p. 1140. el ovv p7jx av V Xl
* Y&- voixo . Sensus est: Wenn es sichnuumachen
1iesse, dass ein Staat entstunde oder eine Kriegsgesellenscliaft
aus Liebhabern und Lieblingen, so konn- ten sie ihren Staat
nicht besser verwaltea, ais owenn sie sich alles Hiisslicheu
enthielten und ei ner dea an dem zam Best cn aufmunterte. His verbis
aliquid iuesse videtur, quod minus cum sententiae ratione conveuiat.
Etenim civitatem non melius administrari posse, quam si a turpibus
abstineant chrcs, bo- nis studeant, hoc non tam in amantes et
amasios cadit, quam in homines universos. Debebat potius ita loqui
Phaedrus: neminem, si civitas existerct aman- tium , melius civitatem
admini- straturura esse, quam amantes. Non dubium est, quin
vitium verba contraxeriut, quod ubi lateat, quis audeat, codicibus tacentibus,
fidenter dicere? Videtur nobis apEivov vox tanquam scioli additamentum
expungenda esse, qua deleta verba convertenda sint: Wenn nun ein
Staat von Liebenden und Geliebten entstunde: so konnten dies
e deuselben gar nicht an-» ders verwaltea, ais so, dass sie
das Hassliche ver abscheueten und das Gute rait
gemcinsamer Anstrengung zu vollbringen s \\q h t e n . Iam
admireris licet MVTVI AMORIS utilitatem. Ut enim nunc in civitatibus
multa pessime geruutur, turpia laudantur, honesta expelluntur, ita
in civitate cx amantibus composita Eros efficeret, ut cives ne
pos- sent quidem male aliquid agere, sed nt optime h. e. malarum
rerum fuga, bonarum studio, civi- tatem administrarent. (itr aXXyXmv
o l xovovxoi vmcoev av, okiyoi ovrsg, cog &rog BfouZv, itavxag
dv&Qcort ovg. bqcjv ydg dvr/g vnb TZcadixcov oyftrjvca ij Xiticqv
xa%iv q OTtXa a7tof}(tffl>v r\ t- xov av dtjrtov Si^acxo rj V7to
Ttavrcov xcov aXXcov , xal 7cgb xovxov x i&vdvai av TCokXdiug ikoixo
* xai (irjv ly • 7tct\ /jotxo fiev oi y*. ITaec propter antecedens
?/ 6xpar6ize- 8ov adiiciontur, quo effectum etiam est, ut in
praecedentibus additum habeas xijv tavTGov; nam verbis his uou opus
erat, si alio loco posuisset aut prorsus omisisset rj 6xpax6Tt(.8ov
verba scriptor. Ceterum certam 'quan- dam txcnpiav Phaedrum in
mente habuisse, v. c. sacram Thebano- rum cohortem, haud credibile
est propterea, quod antecedit el ovv pi 1X av V tl y yivotto.
Significant autem haec verba, poni, aliquid fieri posse, quod revera
aut nequeat fieri aut quod adhuc factum non sit dtS litof Etieeiv.
Phaedrus ne nimius in laudando videatur esse dicens, paucos facile
su- peraturos esse homines omnes, cdS titoS eItceiv addit, quibus
ver- bis vis iudicii paullisper immi- nutur. Pertinent autem non
so- lum ad 7cdvxaS dv5pc>SjtovS , ut Stallb. iudicantam video,
sed etiam ad d X.iyovf, ut alteri verbo addatur aliquid, alteri de-
matur. Vide quae de £icoS eiiceiY verbis annotata sunt ad p. 215.
I). Xiitriv — ait o ftaXoov . Nam
\EiitOTa£,ict turpissima .ha- bebatur. , Lex Attica, cuius me-
minit Lysias Or. xaxd <Pl\covoS Compadia? T, V. p. 887. ed.
Rcisk, et Demosth. adv. Neaer. T. II. p. 1353. roy kiicovxa tijv
td&iv d7C£Xrt$ai 4 ayopaS pijxe dxecpctvovdScn prjt eISiIvcu
sl$ t d Ispd ra St/poxEXtj. Nec mi- nor erat infamia eorum, qui
arma turpiter nbiecissent: de qua re fuse disputavit Klotz. ad
Tyrt* 10, 27. cfr. ’de Rep. V. p. 468. B., de Legg. XII. p.
945. Stallb. Adde Arist. de Morib. V. 3. TtpOSXGtXXEl l) YO/IOS ,
Xal ra rov dvdpeiov Ipyct icouly, olov pi} XeiitEiY t i/y rdt,iv
, /irjSk tpevyELY, pr/61 filxtnv xd oitXa .1 } vico 7t d yt oo v
rcov aA- Xcjy. IIctYTES ol dXXoi inpri- mis parentes suut, fratres,
amici, vide ann. ad p. 178. C. tovto ovtE ZvyyivEia ola te
ipnotEiv ovv oo xaXdoS ovte xipai ovte nXovxos — eqS ZpvS. —
JJpd xovxov sc. 7t po rov 6<p$fjvai V7CO iroadixdov.
t e$ v dv at dtv TtoXXdmS, Schleierm. convertit: und dafiir
wiirde er lieber oftmals sterbeu wollen. Graeci ut nos : und da-
fiir wiirde cr lieber hundert Mal todt sein wollen. Videlicet adeo
invisum omnibus est ro oraro- $vr}dxEiv, ut pro eo Graeci te -
Svavai dixerint, nostrates di- cant todt sein. Huius tempo- ris
usus ita iuvaluit, ut id adhi- berent Graeci etiam, ubi proprio
praesens tempus ponendum erat. Sic Criton. init, legitur: if t d
icXmoY a<pixtai, ov 8 eI aq>t - 4 xopkvov Te$vdvai ps, Vide
Stallb, anaot* ad Apol. Socr, p. Ixardbxiiv ys r a xaiSixa i} (iij
porj&rjOai xivSvvevovu — oi3d£t$ ovta xttxog, 3 vtiva ovx av avtog 6
"Epag Iv&iov xotrjaeio itQog uQitijv , ugtB ofiowv dvai tu
B fhji6tip xpvOu. xal aTi%vag, o tqn) "OfiijQog, (itvog ift-
jcvivaca Ivioxg tnv yQauv rov &tav, tomo 6 "Epug tolg IquOi
naQijtt, yiyvofitvov xaQ avtov. SO. B. Igitur non
asseutiendum Buttmanno ia Gramm. pleo. j, 114. p. 161. «D«*
Streben nach Nachdruck hat deo Perfekt- begriff ale
entechiedener uod ge- wisscr Jautcnd au dia Stella des Praesens
gebracht.» xal pt/v iyxaraXixeiv y e. Non sine magna animi
com- motione haec a Phaedro profe- runtor, qui vix cogitari
nedum fieri posse contendit, nt AMATOR aut deserat amasinm, aut
periclitanti auxilium non ferat. Hac commotione animi, quam indignationem
vocare possis, factum est, ut aposiopesis orta sit, quam oculis
legentium addita lineoia indicavimus. Non nliter Astios in «nuet,
ad Convers. Symposii p. 279.: Der Text ist unver- derbt; xal yt/v —
yt ist ja auch, d. h. in diesem Zusam- xnenhange v o 1 i e n d s ,
und die ubgebrochene Rede, die mit einem allgemeinen Satze endet (
OVOllS ovia xaxoS x. r. X . ) charakte- risirt treffend deu
Phaedros ais leidenschaftlichen Erotiker , den der Gedanke, dass
der Liebhaber den Geliebten verlassen und ihm in der Gefahr nicbt
beisteben solite, empdrt und fast ausser sich setzt. Ceterum xal
pr/Y — yt particula» Astius, ut modo indicavimus, vo lien da,
Schleierm. gar converterunt. Apta oobis visa est »d Phaedri
exprimendum ardorem utriuaqua vocis coni unctio, nt verba convertenda
sint: \ olleuds gar den Liebling im Stiche lasseu , oder ihm
nichl bcispringen in der Noth. — cfr. Symp, p 196. C. xal fitjv
eis yt aySpetay ’ Epcort ovSi “jtprjS avSioxaxai. Alia ratio est
particularum p. 202. B. xal pi}v, T)V S tyoo, opoXuytirai ye napa
xdvxooy peyaS StoS tivcct, ad quaa verba vide annot.
xtvSvvevovti »c. av reo. Nimirum xaiStxd verbum non nisi unum
amasium significat. Laudat Ruckert. Phaedr. p. 2S9. A. ovre 657
xpeixxa ovtc ItSov- ptvov Ixtuv ipadxrjS xat&ixu aveSexai ,
rjxxa> 61 xal V7IO- StiiSxtpov ad dxepydderat. Phaedr. p. 240.
A. • Ixi roiwr ayapoY , axatSa, aotxov on xXtitSxov xp°yov xaiStxa
ipa- dxrjs evSatxo av ytvtaSot. Vide sis de generis mutatione
Theaet. p. 146. B. a\Ad xwy fittpaodcov xwa xtXevt dos
dxoxplredUca. Prot. 315. D. xxjv 6’ ovy iSear xdvv xaXoS, ubi
papdxtov praecedit, avxo S <%E P gj S. Phaedrus
neminem adeo mala indole cen- ' set esse, quin ab ipso Erote ad
virtutem propelli possit. Quae- ritor, quid sibi velit avroS pro-
nomen hoe loco? Fischerns com- mode explicari censet, si oppo- sita
existimentur praecepta vir- tutis, leges, educatio atque quae Cap.
m Kai fftjv viriQcoto&vrjaxuv yi fiovoi l&iXovGw ol
tQavreg, ov (lovov ou &vdQsg y dUa xal cd ywaTxeg. praeterea ad
virtutem adducere possint. Hac explicandi ratione num minas otiosum
pronomen censes $ Stallbaumio visum est ita frigere, nt corruptam
cense- ret atque in ovxgdZ immutandum; verba convertit idem :
Nemo adeo malus est, quem AMOR non possit tanto incendere
virtutis studio, ut vel optimo nihil cedat. Sed ipsi huic
sententiae inest, quod admodum displiceat. AMATOREM AMASIUM periclitantem
deserere posse Phaedrus praefracte negavit. Eius rei argumeutum nura
credibile est eundem Phaedrum hoc addidisse: Nemo adeo malus est, quem non
possit AMOR tanto incendere virtutis studio, ut vel optimo nihil
ce- dat ? Dicendam potias erat: neminem adeo malum esse, quem
AMOR non revera incendat. Nihil mutandum est, et omnia beno habent.
Abstractum pro concreto positum est, h. e. , dei nomen pro re, cui
ille praepositus est. Sensus est verborum. Nemo, QVI AMAT, adeo mala in-
dole praeditus est , quin IPSO AMORE suo fortissimus fiat atque iis
simillimas, qui optima indole gaudent fortissimique sunt non amore,
sed natura ad virtutem docente. Annotat Riickertus ad h. 1.: ttvtoS
o"Ep<oS f ipse Amor, h. e, hoc ipsum , quod amat, etiamsi
sit alio- quin ignavus. Virum doctiss. in huius loci rectiore
explicatione nobiscum consentire magno cum gaudio vidimus. Ceterum
monemur hoc loco de verbis Alcib. II. p. 1 88. B. : Ovxovy doxei
<5ot sroAA^f 7Cpop7]$daS ye 7tpoCdti- 65ai y uncos pjj XrjtSet
xis avtov eijxopevoS ptydXa xaxa, doxoov 6 ayaSa ; oi £fol
tvxgoGiy iv xccvxy ovxeS xy ££ei, iy y diSoadiv avxol a xif
evxope- voS xvyxdvei; Frustra Buttra. ad h. 1. libenter, inquit,
care- rem voce avxoi . Sensus est: Nonne igitur magna cautione
tibi opus esse videtur, ne forte aliquis bona precari opinatus, maxima
mala sibi expetat? diique ita morati sint, ut qui ipsi, h. e.,
nullis precibus moti, faciles, mit- tant, quod quis sibi expetat?
o Uqnj "OprjpoS* Laudavit Fisch. ad h. 1. Hom. II. x.
482. r&5 6’ tpnvEvtiz pivoS y\avx£>- *A5Tjv7j. et II. o ,
262. cj $ tirtaor Hpjtvevtie pevoS pkya. itoipkvt A ocoSy. Iu
sequentibus Orell. ad Isocr. Or. Ttepl arxtS. . p. 825. ob
praecedens ivioiS xqjy yptooav scribendum coniecit toiS ipcodi
ita6i i tap£x et * Frustra, Non enim quaeritur, utrum omnibus an
paucis quibusdam hoc praestet Eros, ut fortes fiant, sed de ratione
agi- tur, qua ad virtutem AMANTES impellantur. Neque verum est,
omnes AMATORES ad VIRTUTEM [andreia] impelli AMORE etiam ii amant, qui
natura fortissimi sunt, 5 tovtov 6's -mu tj
lltXiov dvyarrjQ "JXxtjUne Lxavriv fiaQ- ut illo Erotis
impetu lucile indigeant. y ty v apev ov rcap avtov. Omisit haec
verba Schleierm. in conversione: Ia gewisa was Ho- meros sagt, dass
c inige der Hel- den eiu Gott mit Muth beseelte, das leistet Eros
den Liebenden. Neque aliter FICINO: hoc AMOR AMANTIBUS efficit. Verba
non otiosa sunt, indicant euim, eam vim esse atque potestatem
avxov tov ipdv, ut ignavos virtute augeat. Pertinent uutem ad
praecedens Tovto, a qua voce scri- ptor eadem seiunxit, ut eorum
vim augeret, vid. ad. p.,178,- C* d yap Xprf av 5 peon 01S ?}yeb
6Scn navroS xov (iiov xolS piXXo vtil xaXaiS (iicStie- 6$ai>
Adde Pl. Cratyl. p. 423« fin. el xiS avxo xovto pipeitfSai Svvaito,
kxaCxov t^v ovdiav h. e. venn jemand es selbst nachabmen konnte,
ich mei ne, die Wesenheit von ie- dem. Convertenda verba
nostra sunt : Das gewahrt Eros den Liebenden, and zwar unmittelbar
aus sich. xal pyv vn epan o%vy - 6xeiv ye. De nat pyv —
yk particularum potestate supra dictam est ad p. 64. Solent eaedem
adhiberi, ubi commemoratur, quod aut praeter exspectationem
accidit, aut qnod fidem superat hominum, aut in rebus summae gravitatis*
Apprime igitur commotiori animo conveniant Phaedri, qui has maluit, quam
consequentiae particnlas adhibere, quarum usum orationis conformatio
flagitare videtur. Debebat nimirum Phaedrus, laudata Erotis vi, sic
pergere proprie; Hinc £eri solet plerumque, ut soli AMANTES.
clXXcl xal ai yvv atxeS . Hanc lectionem, quam verissimam
ducimus, Clark, exhibet aliique codd. non pauci. Satis notum est,
Graecos substantivis duobus, quae pariter definita atque per ov
povov — a\\d xal , ovx oti — aXXa xal sim. coniuncta sunt, aut
addere articulum duplicem, aut demere. Sic in Protag. p. 342. D. legitor!
eidi iv zavxaiS xaiS noXediv ov po- vov avdpef ini naidevdet
peya tppovovvxes, aXXa xal ywatxtS h. e. ut viri, ita mulieres
«... scribere etiam potuisset Plato nullo sententiae discrimine
ov povov ol avSpeS — aXXa xal ai yvvaixtS. Xenopli. Mem. II,
9. 8. ovx^oti povoS 6 Kpixcjv iv 7/dvxia rjv , aXXa xal ol qjiXoi
avxov. Ad huiusmodi exempla H. Stephanus respiciens, cum legeret
aXXa xal al yv- vaixeSy nostrum locum hoc modo emendandum censuit:
ov povov oi avSpeS, aXXa xal ai yvvai- xtS , qua coniectura
sanissimus locus corrumpitur manifesto. Sive addis sive demis in
huiusmodi locutionibus duplicem articulum, eiusdem dignitatis,
pretii, pon- deris substantiva esse indican- tur, quae per ov povov
, ovx oxi — aXXa xal coniunguntur. Sed quoniam feminae viris multo
debiliores sunt, Phaedrus, quo gravius vim Erotis extollelet, feminarum
nomen pondere praevalere hic voluit ita, ut non viri solum, sed
quod mirere magis, feminae quoque dicantur voluntariam mortem
oppetere. Hoc efficitur addito ai articulo. Eodem fere modo alteri
substan- tvqiclv inlg rovds tov A oyov etg xovg "EX-
tivo articulas additus est, omis- sus in altero Alcib. I. p. 104.
B. cap. IV. iav 6* ivSdde pi- yi6xoS y ? , xal iv xols dXXoiS n
EXX7/6iv * xal ov pdvov iv "EXX 7 / 61 V , aWa. xal iv x 01 S
fiapfidpoiS , 0601 iv xy avxy 7 /ptv olxovd iv yneipcp. Amplissimas
terras barbaros habitare, satis notum erat eo tem- pore, quo Alcib. I.
conscriptus est. Ut igitur regnandi cupido, qua Alcibiades
teneretur, validius emineret, praecedentibus iv "EA- \r\6iv
verbis barbarorum nomini articulum scriptor adiunxit. Sen- sus est:
Wenn da aber in Attica der grdsste warest, meintest du es auch uuter den
iibrigen Griechen zu werden, und nicht allein unter Griechen ,
sondern was noch viel mehr sagen will, auch unter deu
Barbare», rfb viel deren mit uns dasselbe Festland bewohnen. Adde
Aelian. Var. H. II, 41. p. 181. ed. Abr. Gronov. KXeigo , cpa6iv ,
eis dpiXXav lov6a ov yvvaiBX po- vaiSy aXXa xai xois dvSpadi
ro!> dvpitdxaiS detvoxdxr/ itiziv 7/v xai ixpdzei itdvxcov h. e.
Kleio, wird erzahlt, konnte aus- serordeiitlich trinken und wetteiferte
hierin nicht blos mitWei- bern , sondern , was weit mehr sagen will^
mit Mannern , die mit ihr dem Zechen ergeben waren, und ubertraf
sie. xovxov — vitip xovde xov A oyov, Schleierm. convertit :
und dessen giebt una schon Alkestis». die Tochter des Pelias,
hinlanglichen Beweis fur diese Wahrheit ... Recte V. D. verba
servavit, quae frustra sunt, qui expungenda censent. Heind. ad
Protag, p.471* locum sic interpretatur: ut huic dicto fidem faciam.
Heindorfio Stallbaumius assentitur. Riicker- tus ad h. 1. Nos sic,
inquit, sta- tuimus, si Socratis haec oratio esset, intolerabile hoc
additamentum nobis appariturum; quam Phaedri sit, ineptum quidem
esse et lan- guidissimum , attamen consulto posse a PJatone
adiectum esse. Si scriptum exstaret xovxo di xai 7 } TleXiov Svydxr/p x.
r. A., sedulo interpretes tantum non omnes annotarent: inceptae
stru cturae Phaedrum oblitum esse/ liuiusmodi confusionis
exempla plura reperirij Platonem h. J. satis eleganter non
praemeditatae orationis indicium edidisse. Ao possit sane commodius
rotrro explicari, quam xovxov l sed etiam xovxov bene habet.
Revocandum nimirum hoc dicendi genus est ad oratorum consuetudinem post
apodosin praegres- sam protasin repetendi. Vide quae annotata sunt
ad p, 186. B. Ut v. c. in Apol. Socr, p. 20. C.
dicitur: ov ydp di/nov tiovye ovdiv xcov aXX&v —
itepixxoxepov itpaypa- x ev opiv ov , inetxa xoCavxrj tpt/pr/ xc
xolI XdyoS yiyovEv> e I xi £ 7cpaxteS aXXoiov fj oi
TtoXXoiy ita nostro looo quidni liceat oratori xovxov praecedens
verbis interpositis plu- ribus ita repetere, ut simul ac- curatius
definiat anctiusqne exponat? Verba convertenda sunt: Hiervon giebt auch
des Pelias Tocher, Alkestis, einen hinlanglichen Beweis liber das
eben Gesagte. Ceterum non nisi oratoribus, quorum interdum oratio
altius exsurgit, neque vulgaribus prosae dictionis re- 5 •
JLijvasi i&sh}(Ja(la (lovq vniQ tov avvqg <xv8qo s ano- C
&uviiv , ovxav ccvta nccrgog te xal firjtQog' ovg ixrfvt) toOovtov
vxBQtficdtTo ty tfiXLq dia tov "Equxcc, iSgre anodilgai avtoi/g
allotQlovg ovtag tgj viti xal ovognlis tenetur, hoc loquendi genu»
largiendum, a ceteris scriptoribus prorsus seiungeudum est.
*AXxif6ttf* Schol. ad h. 1. ?} nepl rrjs * A\xrjdxi8oS
vnoSediS TOUXVTTf T is idttv • 'AxoXXgoy pxrjdaxo napa xcov
Motp&v, onatS d' v A8ppxoS xeXevxav peX- Xcjv napadxp tov V7ilp
tavxov 1x6 vr a xeSvrjiiopeYov, ira idoy xgj npoxipa) xp6vov
&i6Q' xal St) v AXxijdxiS 7] yvn) xov x ov ineScoxer kavxt/r ,
ov8e xe- pov tcor yoricov SeXpdavioS vix ep xov naiSoS
dnoSavelv. Stalibaumius laudat Senec. ad Hei 7. c. 17. Nobilitatur
carmi- nibus omnium, quae se pro con- ioge vicariam dedit»
eis xovS "EXArjvaS. Vulgo ad sequentia haec verba
trahuntur» Male. Pertinent ad praecedens papxvpiav . Ceterum non
assentimur Stallbaumio ad h. 1. annotanti: Neque vero eis pro iv dictum
putari debet, sed cum vi pro dativo positum est, ut Latine reddi
possit coram. Nimirum eis praepositio quoniam motum indicat ad finem
qucndam, cum verbo transitivo primitus coniuncta, id agit, uth.l,
actionem simul involvat eius, qui clarus esse dicitur. Sic inidffpoS
elS Stjpov eum denotat, qui se clarum insiguemque coram populo
fecit, contra inidrjpoS Iv Stjpat is est, quem clarum populus
existimat atque laude dignum. Hinc intelliges, h. 1. de actione
Aleestis sermonem esse, quae dou tam populi laudibus incla-
ruerit , quam voluutaria morte immortale virtutis testimonium ipsa
populo dederit» Exempla si quaeris huius usus, e Stallbaumii penu depromam
haec Menex, p 239. A. noAXa 81 xal xaXd ipya dne<pt)vavxo
elS navxaS drSpainovS xal idiot xal Srjpodiqt, ad quem locum
vid. Engelh. anuot» ed. p. 260. Protag. p. 312. A, dv 8± — ovx dv
aidxvvoio eiS rovS "EX- XrjvaS avxov dotptdxpr nape- X&v i
Gorg» p. 526. C. eis 81 xat navv iXX oytpoS ytyore xal eis xovS
a\XovS "EXXrfvaS ’Aptdxei8ijS 6 Avdipaxov , quo loco yiyove
cum eiS praeposi- tione coniunctum est eodem modo, quo 8id
praepositio cum dvveivat verbo coniungitur p. 176. D, ijpaS 81 8ici
Xoyatv aXXrjXoiS dvreirai pro rjpaS 8 i 8ia Xoyatv Siatpifirjv
noieid^ai. vid. ad p. 43. aunot* l&eXjj dada povrj .
De ISeXeir potestate verbi dictum supra est ad p. 44. De re
ipsa cf. Eurip. Alc. v. 15. narras 8* iXeyZaS xal 8ie£,e A-
Sgdy tpiXovS naxipa yepaiar 7 } dtp irixxe prjxtpa, ovx
evpe nXrjr ywaixoS , yriS 7/$eXe Saveir npd xeivov . »
rp tptXiqe, 8ia w Epoora. Perperam minuscula littera exhi-
beri solet ipeoxa. Hoc enim AMANTIBUS Eros praebet idque
Bigitizdd bfCjodgFe : pati povov itQosrjxovras. xal tovx’ iQyaOaflivrj x
6 Zoyov ovxu xctkov i'So£ sv IpyatSati&ai ov fiovov
av&Qcbjtoig, akku xal Qeois , Se t£ itokkSv nokka xal xaku
tQyaCa- pivav EVttQi&nijtoig di \ ritiiv tdoGav xovxo ytQU g
oi quidem ex «e profectam, ut soli mortalium alter pro altero
volun- tariam mortem oppetant, quod ne- que %vyy£veicc efficere
potest, ut Admeti exemplo docemur, neque honos et divitiae, quarum
summam facultatem regi fuisse, quis negabit? Restat, ut de <piXiqt
dicamus, quae vox non nisi feminis convenit et amasiis. Epav di-
cuntnr omnes non feminae, sed VIRI, qui amant. Feminae contra, ut
alias, ita in amore viris debiliores habitae, et amasii, aetate iuniores, quam
AMATORES, tpiXovdt tantummodo , capi se ac teneri patiuntur. Sic
Antig. Sophocl. t. 523. ov x oi Gxxvki&eiY aXXa
dvpqn- Xeiv itpvr • Amasii qnXlaS si requiris exem- plum, p.
182, C. legitur oyap jipidtoyeiroYOS £pooS xal rj \ Ap - /xoSLov
<piXla /UficaoS yeropivTj TtareXvdey avr&v xr\y apxV v *
Adde p. 183. C. xal xu ipav ■xal x 6 q>lXov$ yiyvedSai xolS
ipadxaiS. AMATORIS esse to ipav patet e verbis p. 180. A, Al6x v A oS 61
(pXvapei qxxdxaoY faiX- A ia UaxpoxXov ipar , 0 * r\y xaXXicoy x,
x. A. oj$xe artodeiZai avxovt dXXoxpiavS, Ut
ostenderet, illos n fflio alienos esse et no- mine tantum cogn atos
, h. e, ut efficeret, ut flHftiderentur tan- tum esse cogtlJPPfacta
comparatione eius umorft, quem ipsa illi probavisset , et cognatorum,
qui noluissent pro eo mori, t» t ai 1 b. Iuvat laudare Scolion
incerti auctoris, quod in lacobsii Anthol. Gr. T. I. p. 90. reperitar
et quo iuvenis admonetur, ut non nisi forti amatori sese
tradat: \A8pijtov XoyoYj cJ ’xaipe, paScuv [tovS]aya$ovS
<p(X.ei, [teUv] 8ei- iA 6’ dxexov yvovS oxi 8eiXoiS oXlytf x a P
lSt xovxo yepaS. Articulum addiderunt Fischerus,
Wolfius, Astins. Frustra, Tovxo sublectum est, yepaS praedicatum,
cfr. Apol. Socrat. p. 18. A. 5x- xadxov plv, yap avxrj aperi},
ptjtopoS 81 xaX.ij$ii Xeyeiv. Piat, de Legg. p, 683. B. vvv 81 8rj
xttdptij xiS rjfUY avtij itoXif, ei 81 fiovXetiZe, &voS ?/xei
xa- xoixiZdperoy. Ib, VIII. p. 829. D. rovro aTio8i8dvxQov
avtois yepaS. de rep. I. p. 331* U» ovx dpa ovtoS o poS Idxl
dixaiodvvris x. x. A, (3 ST s 7toXXcjy itoXXcc x, r.A. Rursum
habes oratoriae di- ctionis exemplum, quod^ prosae orationis leges h. e.
ad logicen examinatum summopere displiceat. Scriptum enim
exspectaveris: Atque hoc facinus cum patrasset, adeo pulcrum visum est
non solum hominibus. sed etiam diis, ut, quod alias npu uisi
paucissimis, qui praeclaras res gessissent, tribuerent honoris loco, idem
admiratione' com- moti facinoris huic concederent, # Sed si
sententiae Otol , ii "AlSov TCahv uvtlvai ttjv 4>v%t]v , aXX.a
zqv Ixti- 0 vr/s aveiUav dyaO&ivze g Ttp ovra xal &eoi xr/v
xcsgl x ov "Egena Gnovbijv re xal agexrjv (laXiGxu ufiaOiv.
exprimendae ratio, quae Phaedro placuit, cum lodicis regulis minas
convenit, habet contra, e rhetorica arte rem si iudicas, quo se
vehementer commendet audi- toribus, Cave igitur, hoc loco quicquam
mutandum censeas. Pro alpyadpEvtoY, quae vulgata lectio est, codd.
melioris notae ipya - Capkvtov habent, quod a Bek- kero,
Stallbaumio, aliis receptum est. Recte, Aoristicum enim tempus
perfecto tempore multo aptius hoc loco. dWa xrjv ixeivrjS
avet- 6av, Vulgo post aAAa legeba- tur xal, quam voculam ex
XXII, codd. auctoritate recentiores edi- tores omiserunt. Addidit
autem eandem aliquis olim, ut loco mederetur, quem uos quoque
corruptissimum censemus. Quid enim? Censent dixisse Phaedrum: X)eos
paucas quasdam animas ex Orco remisisse honoris loco, sed
Alcestidem remisisse cum admirati o affari n oris ? Quid diiferuut inter
onoris loco et eam admiratione facinoris, re- misisse et remisisse?
Neque satisfacit Stallb, ad h. 1, annotans: Ipondus huic sententia
a addunt verba ay a6$ £vxeS xp Epyto, ut tota verborum
comprehensio possit explicari sic: Hoc facinus eius diis adeo '.
probatum est, ut cum non nisi paucis quibusdam cx inferis redire
concesse- rint, huic non solam tri- buerint hoc beneficiam,
sed cum admiratione tan- tae animi magnitudinis concesserint. E
duplice vitio locus laborat, sed facillima mutatione utramque
emendatur. Alterum vitium in avewai latet, pro quo dvikvat
scribendam est. Sensas est: Paucas animas passi sunt dii ex Orco
redire, sed Alcestidem ex Orco remiserunt, Alteram iu dya6$ivreS
participio reperitur, quod, verissime annotante Ruhnkenio ad Tim. L. V.
Pl. p, 9, si nostrum locum excipias, nusquam apud Platonem cum dativo
coniunctum reperitur. Scriptum antiquitus erat aveitiavavayxatiSivTeS,
Syllaba nltima aveitiav verbi cum sequens av absorbuisset, editum
esse vi- detur: aveldav ayxaCS&vxeS, ex quo enatum est
aveidav aya - CSlvxeS. Haud absimili ratione Phaedon, p. 78, A.
cum'scripsis- set Plato 5xt av svxatpdxEpov dvaXldxoixe, scribarum
incuria exhibitum est dveyxaipoxepov et dvayxaipdxepov. Serior
manus ut uostro loco x, in hac forma p expunxit , habentqne Bas. 2.
Bodl, Tub: Venet. avay- xaiQxepov, Ad nostrum locum ut revertar,
sensas est verborum : Wenigen, die viel Scho- nes vollbracht
hatteu, ge- statteten dieGotter, um sic za ehren, das, dass
sie wieder insLeben % zuriick- k e h r e n konn t e n, a b e
r diese sendjjfepn sie, gezwangen d^Rn ihre herr- liche That,
an das Licht zuriick. * Avayxa65kvx& con- firmari videtur
schol. verbis! 'HpaxXiovS lni8r}pr]6avxoS Er ?1
OQ<pla di tbv Olayoov ArtXrj aitintpiiav Zrfitiou, <p<x(S[icc
dellzccvteg zrjg yirvaixog, l(p ijv ipav> ccvzijv 61 ov dovztg, o ti
iKtXftaKi&dftcn tdoxei , ars av xi^agadbg, rg GertaXla SiaGcS&rat
fiia- 6 ap iv ov xovS jfioviovS $e- ovs ned depeXofievov xi)v
yv~ vaina. Nimirum Phaedrus hunc mythum pro consilii sui
ratione interpretatus est ita, nt Alcesti- dis virtutem cum
Herculea virtute compararet, alteramque al- teri substitueret*
ov t o nal Seol. Convertit Schleierm, : So wollen auch die
Uotter den Eifer und die Tiich- tigkeit in der Liebe vorziiglich
ehren. lloc foret ovt cd nal ol $£oi, sed nusquam articulus re-
peritur. Sensus est potius: Sic etiam ipsi dii summo honore virile
studium amantium dignum censent. 1 Optpia 81 xor Oldy
pov. Stallb. annotat ad h. 1.: Etiam iu hac narratione de
Orpheo quaedam insunt a vulgari fabula discrepantia , quae Phaedrus
aut ipse pro consilii sui ratione im- mutavit aut repetiit ab iis ,
qui rem ita memoriae tradideraut, ut facile omnia possent
accoih- modari praesenti disputationi. ndXitir a T ifioS 6 iv ,
nam^ ut cum Terentio loquar, quod habuerunt summum, pretium persolveruut
illi. (p u6 fi a 6 el&avT£$ xijS yvv aixoS. Ovid.
Metomorph. X. 50. Hanc simul et legem Rhodopeius
accipit heros Ne flectat retro sua lumina, donec Avernas Exierit
valles, aut irrita doua fu- tura Carpitur ucclirus per muta
silen- tia trames, Ardnus, obscurus, caligine
densos opaca Nec procul abfuerunt telluris margine summae. Hic,
ne deficeret, metaens, avi- dusque videndi Flexit amans oculos: et
protinus illa relapsa est Bracliiaque intendens, prendique et
prendele captans Nil nisi cedentes infelix arripit auras.
i q> tjv f/nev. Abest a co- dicibus longe plurimis , c^uod
vulgo legitur hxoov post dtp i/v positum. Qui factum sit, ut iu
textum irrepserit hoc verbum, aliis indagandum relinquo. dxe dSv hi$
apa>8 6 S. Ci- thara non paucarum chordarum instrumentum nativa
hormonia- ram varietate aures audientium permulcere quidem
putabatur, sed animorum robur paullatim infringere atque quasi colli
quefacere. Igitur quod de arte tibicinum dicitur iu Piat, Gorg. p.
501. E, xijv ijSovtfV — porov Sidtneiv, aAAo o Jdb' q>povxi2,eiv
, idem io citharam cadit. Qua cum usus esset in Orco Orpheus,
Nasone teste Metamorph. 10, 41, Exsangues flebant animae, nec
Tantalns undam Captavit refugam, stupuitque Ixio- nis orbis ,
IJec carpsere iecur volucres, urnisquo vacarunt Belides, ioque tuo
sedisti, Sisyphe, saxo. 1 xcd ov roAfuev Evtxu xov "Egenos
djto9vrjOxuv , ogafp Alxt]<SXig, ulla 6iu[iTi%av&6&(H £<»v
tlgiivcu elg "Aidov. xotyagtoi 8uc xuvra dtxqv avrtS tntftsclav, xul
InoiTjaav xov ftavurov avxov vxb yvvaix wv ytvt(S&cu , ov%
d>gmg Tum primam lacrymi* victarum carmine fama est
fcumenidum maduisse genas , nec regia coniux Sustinet oranti , nec
qui regit ima, negare. Igitur non mirum, paXSaxlge- 6$at visum
esse eum , qui citharae adhibitis sonis alios delenire maluit, quam ipse
fortis animi specimen edere atque Zvtxa x ov "EparcoS mortem
oppetere. Ceteram maiuscula littera Erotis nomen scribendam
curavimus, nam ut supra p. 179* A. ovziret ovx av avroS 6
"EpcoS ZvSeov XOtTjtiete x. t. X. abstractum pro concreto positum
est, ita non intelligitur, cur non idem in nostrum etiam locum
cadat. xiSikvai eis n Ai8 ov. Quoniam qui in Orcum se
conferunt, e superiore loco in inferiorem descendunt, pro eisitvai
positum exspectaveris eundi verbum cum xata praepositione
coniunctum. Sed miuus h, 1. 1 regionis ratio habetur, quam versus
proficiscun- tur, qui Orcum appetant, quam xei, quaeuxn veteres
Orcum com- parare solebant. Petita nimirum a sepulcris imagine,
quae aedes sunt mortuorum, Zv " 'Aidov sc. Sopois et eis r
Aidov sc. dopovS dixerunt. Aedium autem notioni tiSikvai et
ZS,ikvai verba ap- prime conveniunt. Igitur nostro loco nulla
ratioue habita regionis subterraneae tisikvoa dicitur fis Aidov sc.
dopovS. Simili ratione paullo supra legitur areXrj ait Zite
pip av Aidov sc. 66- pcov ; contra p. 179. C. Z& a Atdov
dviivai reperitur et dvei- tiav sc, ZB, n Aidov. Adde Piat, de rep.
I. p. 527. xaxkfiijr aiS Ileipaid , et paullo in- fra
7tpoSEv%dpevot — anypey itpoS zq a6rv. xoiyapxot dia
xavxa. Haec verba ita posita sunt, ut sive xotyapxoi sive dia
ravra omiseris, sententiae ratio prorsus non mutetur. Cave tamen
pror- sus otiosum alterutrum verbum existimes. Nimirum Graeci
ac- curatiori alicuius rei indicio prae- mittere amant verbum
latioris significationis, tum orationem ut expleant grata quadam
ubertate verborum, tum, ut adsit, cui fa- cilius sequentia
annectantur. Verba convertenda sunt: Dahcr legten sie ihm
denn also wegen dieser Schwache eine Strafe auf. Idem dicendi genas
paullo infra repe- ritur p. 184. A. ovrcj df/ vito xavtijS xrjS
xtixiaS , . xai Zitoirjdav xov $d- vaxov. Nota vim xov
articuli, de qua supra dictum est ad p. 12. ovxgj Srj iovxeS dpa
xovS Xo- yovS itepl avxdjv ZitoiovptSa. Noluit dicere Phaedrus ,
deos morte poetam puniisse, sed tan- tummodo effecisse, ut eo
tempore, quo tempore Orpheo moriendum esset , poeta a mulieribus
inter- ficeretur. Rectissime Schleierm.: Deshalb haben sie ihm
Strafe aufgelegt, nnd veranstaltet, dass sein Tod durch Wtiber
cr- £itif e a£y ^CTu *A%i Xlka rov tijg Qitidog viov
ItlprjfSav xal elg fiaxagav E i rijtiovg aitETtEprpccv , ort
jtETivtipEvog itaga tijg {irjtgog , cog ttttofta.voZto aTtoxTELvag
"Extoga , (irj %ou]6ag di xovxo o”xccd’ iX&cov yiiQcuog
xeXsvrrjGot,, ItoXprjdEv Elt<5&ai folgte. Addo Symp. p. 195.
E. iv ydp 7 }$e6iy xtjy oixrjdiv ZSpvxau ovx
<vfit£p *Ax^XXia i xi p 7/ 6 a y . Hauc brevilo- quentiam, quam
vernaculo ser- mone assequimur , Schleiermach. aspernatus est in
couversione : 9 Deshalb anch habeo, sie ihra Strate aofgelegt
— nicht ihu, wie den Achilleus, deo Sohn der The- tis, geehrt und
in der Seligen Inselu gescbickt. Recte Stallb. orationem hoo modo
explendam esse censuit : aAA* ovx ixtprjdccY avtoY £>S7tEp
^zAA^or , dv xal ei f paxapcov vijdovS dnirrepipav, ori x. r. A.
Legitur paullo in- fra p, 189. C. ipol 8 oxov6iy avSpooitoi —
SvtiLaS dv rtoiEiv pEyidxaS , ovx coSnep yvy rov - tqjy ovSey yiyvsxai
itepl avxov. Exempla plura huius structurae Stallb. collegit ad h.
1., Heind, ad Gorg. p. 592. A. et ad Frotag. p. 841. A.
eis paxdpGov vydovf* De insulis beatorum vide Hesiod.
"Epy. xal 7/. v. 170. xai xo\ piv valovOiv axrjSia Svpov
UxOYTtS iv paxapoov vi]6o%6i rtap 'Elxia- YOY
fta^vSivTfY oA fi tot rjpoJEf, zoloi peXi tjdiat
XCLpTtOY rpiS SxeoS SdXkovxa (pipet SiDpoS
apovpa Multi fuerunt, qui in insulis bea- torum Achillem versari
narrarent. Aliter Hom. Od. XI, 487., obi Ulysi felicitatem Pelidae
praedicanti respondet Achilles: pr} 6rj poi Solyccxov ysrtapavSa,
<pai8ip 'O6v0dev, fioyXotprjv x indpovpos Igov STfXEVEpEY
aXXcp ecvdpl rtap* dxXrjpcp, co pr} filo* xoZ izohvS eItj i}
itadiv yexve66i xaxacpSipi- voi6i olv&6<$eiy % Ad hos versus
aetate Phaedri haud dubie notissimos ille nunc non respexit, sed
aliorum testi- monia praetulit, quae rem suam melius
probarent. rtsitvdpivoS 7tapd x rjS prjXpoS. Haec cum
Homero conveniunt, vel ex eodem potius depromta sunt^ cfr. II.
XVIIl.v.94. ojxvpopoS 8rj jxaiy xixoS, iddeai. oj^dyopEveis*
ocvxtxa ydp xoi Actito. peS* n 'Europa 7tdxpoS hxolpoS. p?}
rtoirjdax 8b xovxo. Haec est lectio vulgata, quam ex VIII. codicum
auctoritate in pif artoursivaS Sb xovxoy im- mutarunt Bekkerus,
Astius, Stall- baumius. Hoc certum est, veri- similius esse, ad
explicandum p?) noir/daS dk xovxo margini ad- scriptum, post in
textum rece- ptum esse pr} drcoxXElvaS 8b Xpvxov f quam vice versa
ad hoc explicandam glossema fuisse pr} itoirjdaS dfe xovxo.
Fidenter igi- tur vulgatam lectionem in textum recepimus.
fiprjSr)<$a$ fw ipadxy Jlax po x\<jp xal Xtpaprj -
180 (SoqQqiSas no tQaOTij TlarQoxkw xal rifiUQTjaces ou!
fto- vov vxEQUxo&aveCv , ulXa [xal] inaxoftavuv titeAevtij-
jtor i. o9ev St] ) ud vxtQayttO&Evug oi frsol St-atpiQotncog 6
aS, Wolfias ad h. 1. annota- vit: Es kann fioySydaS nicht vou
einer wirklichen Hulfe in der Schlacht verstandeu werden : deim da
Patroclus umkam , war seiu Freund noch nicht wieder ira
8chlachtfelde , uud er erfuhr die Nachricht davon erst durch den
Antilochus. Recte. Kai igitur ante xipOJpljdaS explicativum est,
cuius exemplum paullo supra reperitur p. 179. D. xoiydpxoi Sia xavra
8ixyv~ avxcp ineSe- vav na\ ixoiydctv n. X. A. Adde p, 179. E. ovx
doSxep *Axi AA«x tov xyS GixtdoS vldv ixipydav na i eis pandpcov
vrjdovS aniittpipav. Nostra verba conver- tenda sunt: indem er dem
Patroclus beistand, d. h. ihn rachte. Argutius quam verius de
his verbis Riickcrtus iudicavit exsulto Phaedrum (ioy- $EtV verbo
usum esse censens. Quum enim, inquit, non tulisset opem Achilles ,
quamvis prope abesset a certaminis loco , ne quid probri iude
videretur in ' eum, quem laudaret, redundare, abducendi erant ab
hac cogita- tioue quantum heri posset audi- tores , id quod hoc
ipso verbo factum esse puto. dXXd na\ iitcritoSccvetY»
Vitii aliquid haec verba contra- xerunt nat addito, quod nullo modo
explicari potest. Titepa- noSaveiv adhibetur, ubi aliquis pro
aliquo eoque vivente moritor, ut Alceste mortua esse dicitur pro
Admeto p. 179. C. &$e\y6a6a povy vitep tov avxyS dvdp6*i dnoSav
ilv . 'ETtaico^aveiv est : mori pro ali- quo, qui iam
mortuu*, est. Fici- nus verba convertit: nec pro illo mori solum,
sed et peremto illo interfici. — Igitur utrnmquc fecit , et
mor- tuus est pro Patroclo super- stito Achilles, et mortuo
illo morti se dedicavit. Phaedrum aliud quid dicere voluisse
certis- simum est. Expungendum est nat, quod uncis
includendum curavimus nimiae audaciae crimen fugientes. Est autem
ov povov • — aXXd eius , qui alterum mem- brum orationis, quod per
ov juo- vov commemoratur, negat, al- terum probat se ipsum
corrigendo. Sensus est: non dicam vitepa - itoSavetv, sed potius
Inarto - Savelv. Vide p. 11. de ov pev- roi — aXXd et ov pivxot
— aXXa nat .cfr. Alcib. II. p. 142. A. 61 61 apidxa 6onovv -
xeS avxoov rtpdxxeiv , 6ia 7roA- Xqjv mvdvvoov iXSuvxeS ncA
yjoficjy , ov pov ov iy xavry xy Cxpuxyyict , a A A* , iitei eis
xyv tavzajv naryXS ov , varo xgjv (SvnocpavxGbv rtoXiopnovpe- vot
itoXiopniav ovSiv iXaxx a> xyS vrto xdov rtoXepiaav 6ie.xe-
Xetiav, vSre n. x. A. o2e v 6?} na l — iitoielto. Haec verba
si abessent , nemo opinor desideraret. Nihil enim coutineut aliud,
quam praecedeu- tium verborum meram repetitio- nem. Sed de
industria haec re- petiit orator, ut quanti a diis aestimetur
virtus amatoris , durius eluceret» Eadem de caussa, atque ut exemplo
demonstretur, avtov Irliitjcsccv , oti xov lQaOtr\v ovtbj xbqI itoXXov
ixoiuto. AlCyvXog d's cplvuQU cpcctSxav ’A%Mtcc JJoxqo- xAou iquv, fig
r\v xaXtiuv ov (iuvov IlatQoy.Xov , aXkce amasiorum quam amatorum
vir- tutem maioris aestimari, paullo infra dicitur p. 180. B. :
dia. xctvxct xcti tov *AxiMict xrjS 'jJbtrjtiTiSoS paWov
ixLptjOav, eis paxccpav vrjtiovS dnonep- iltavxeS ,
ovtco itepl rtoXAov. Du- pliciter ovzcj vocula in huius- modi
euuntiatis adhiberi solet, atque aut praefigi praepositioni aut
eidem postponi. Nou perinde est, utram sedem occupet. Praepositioni ubi
praemittitur, aut ad praecedens dictum respici significat, quod eandem
rem, quae nunc commemoretur, enarratam contineat, aut hominum
opinio- nem tangit memoriamve audito- rum, qui bene/ teneant id,
da quo nunc agatur. Sic nostro loco ovxcd nepl noXXov
explicandum est: quod amatorem, ut supra dictum est, tanti
fecisset. Adde Piat, de rep. III. p. 391. D. fiy toivw , 7 / v 6*
£ya), p^re rade neiSaopeSa , pyx' idjpev Xiyeir, qjS QrjtievS
Uo6ei6wYoS vlds IletplSovS te JioS (Sppij- Gav ovzcoS ini deivcis
apita- yaS x. r. A., quo loco ovxaoS manifesto significat: ut
homi- num opiuio est, ut vulgo putant. Minus recte igitur
Stallbaumius ad h. 1. annotasse videtur: ovzcoS ini 6eivds ap-
itayaS h. e. i<p ovxco detrds apnayds. Non aliter explican- dus
est tovus Xeuoph. Cyrop. II. 2. 13» fin. opcoS ovzcoS iv TtoWii
dzipia ijpdS ixeiS, ubi ovzgoS convertendum est: ita, ut nunc
facis, ut facientem te videmus, cet. Contra praepositioni postposita
ovzcoS vocula proximum verbum ita extollit , ut additamento opus
sit, qno illud accuratius definiatur.AitixvXoS cpXvapei . Phaedri
oratio ad eum finem ten- dit, ut Achillis allato exemplo probetur,
deos amasii amore ma- gis delectari, quam amatoris fide. Factum
autem tragicorum fabulis erat , ut homines illo tempore Achillem
amatorem non amasioui Patrocli putarent. Priusquam igitur eo, quo
tendebat, Fhacdri oratio pervenire pot- erat, illa hominum opinio
corrigenda erat et emendanda. Hino verba Aidx^XoS. 6e —
"OprjpoS necessaria ad rem censenda sunt, /ruslraque fuerunt ,
qui ea ex- pungenda censuerunt,Valckenarius ad Euripidis Rell. p.
13., Wol- fius, Beckius, alii. xal iri ayivetoS. Pulcherrimum
omnium Achillem fuisse discas ex Iliad. p , 673. NipevSy ds
xaXXiGzoS avijp vno "IXiov tjASe Z(2v aXXcov docvaoov, per
dpv- pova IhjXelcova, Patroclo iuniorem verba indicaut Iliad.
A, 787. x ixvov ipoy , yevey p\v vn ap- te poS idziv
'AxiXXavS, TtpeGfivtepoS 61 6v l66i, ' Adde Od. A, 469.
AXotvxoS oS dpidzoS itjv eidos re Sipas re rcov dXXcov
davadiv, pex apv- povcz IbjXeloova . Imberbem adhuc fuisse
"nusquam apud Homerum indicatam repe- M xal t(ov fjQcbav ccjtavxuv, xal ta uytvuos ,
Ixtita vtta- TEQOS Itolv, <3g CptfiLV "OjllJQOS. ctkKu yaq xcj
ovxi (iu- kiOta (itv ravxijv xi)v doeri/v ot 9col UficSoi zijv xeqI
B xbv "Eqara , fid/J.ov fttvxot ftuviux^ovat xal ayavxat xal ries.
Hinc factnra est, opinor, ut Riickertus lectionem vulgatam
revocaret atque in textum reci- peret d\ X dpa xai. Colligebatur enim,
inquit, magis ex Homero, omnium pulcherrimum Achillem fuisse (atque adhuc imberbem)
quam ut disertis verbis ab eo dictum esset . Sed facile dpa voce caremus,
quam optimae notae libri non agnoscant. Efficitur enim verbis
(*>S <pr\6iv "OfirjpoS, quae cum prae- cedentibus htEixa
vearcepoS itoXv arctius coniungenda sunt, ut Phaedrus non nisi de
aetate Achillis poetae testimonio usus esse videatur, pulcrum autem
im- berbemqne eum vocet ©x artili- cum statuis indicium
capiens. Hae statuae imberbem, ut constat, Achillem
repraesentabant, barba- tos heroes ceteros, v. c. Hectorem, Agamemnouem,
Ulixem, alios. Ceteram ne otiosa verba censeas xal Ixt dyivEiof;
ama- sius non nisi imberbis pulcher habebatur. Verba
convertenda sunt: Aeschylus aber faseft, wenn er sagt, dass
Achilles der Liebhaber des Patroclus sei. Er war nicht blos schoner,
ais Patroclus, sondern auch schoner, ais alie Helden, und
noch bartlos, dann um vieles jiinger, wie Ho- mer es ausdrucklich
bezeugt. % aWa yap rcu ovxi. Re- ctissime Stallb. monet,
verbis de- letis Aldxvtos , di — "Owpof, non aXXa yap ,
sed xal yap ponendum fuisse. Indicatur autem aAAtr yap particulis,
Aeschylum ne ita quidem Homericam narrationem pervertisse , ot
Achillis laudem augeret facinusque eius clarius redderet. Nam deos
lau- dare quidem et admirari virtutem AMATORUM, magis tamen admirari et
laudare amasios, qui pro AMATORIBUS mortem voluntariam
oppetierint. 1 r i)v Ttepi t(jv w EpGoxa. Haud raro accuratiores
definitio*- ues verborum a verbis, quae de- finiunt, seiunguntur
plurimis in- terpositis verbis augendae gra- vitatis caussa. Vide
quae ad p. 66. annotata suut. Conver- tenda verba sunt : Dic
Gotter eliren diese Mannhaftigkeit ganz ausserordentlich , ich
meine die, welche der Liebhaber zu haben pflegt ; cf. Piat. Hipp.
M. p. 294. A. 7/pEiS yap nov ixuro igrjxovjxev , go n dvxa xa
xaXa. Ttpdypaxa xa\a t itixiv , ooSTtep c5 jectvxa ta peyaXa itixl
px- yaka> xqo v7C£pix oyr u $av paZovd i x al dy ar-
tat xal ev itoiov 6iv sc. xav- r rfv xrjv dpex-qr tijv 7tepl xor
"Epwxa. Ceterum ayadSai ita a SavpaZEiv verbo differt, ut
admi- rationem cum laude coniunctam exprimat. Bene
Schleierraacherus in conversione verba t reddidit • weit mehr
jedocb bewundern und loben und vcrgelten sit es dyarttji . Quoniam
in sup«~ zr Ninos ion. 77 IV xoiovdiv, orav 6
inwatvog tov iQa<St)]v uyanu i} OZCiV 6 BQCtOTTjS TU XCUdtXtt.
&SIUXBQOV yccQ (QUOTTIS Ttca- dixmv ‘ iv&eog yaQ ion. dia xavta
xal tov 'AydXia tijs 'AXxrjOndos palXov itifir^av, ds (luxaQav Mjtfovg an
o- rioribus de significata verborum diximus ipav et
<pi\tiv , iam videamus etiam de notione aya - rtav verbi. Mediae
est autem, quod vocant, significationis ver- bum, maiorem quam
(piXEiv, mi- norem , quam ipav potestatem habens. Hinc raro adhibetur,
ubi de vero amore sermo est. Legitor autem apud Xenoph. Mem. I, 5.
4. x a S” TtopvaS dyanoovxa pdXXov t) xovS kxaipovS. Piat. Dion. 4.
p. 175. itpiXt/daXE CtVXOY <*)$ TCCttEpOC xal i/ y a 7Cij doct e
gjS ev e p - yijxrjv. Symp. p. 181. C, ro <pv6ei
ipficopEYEdXEpoY xal vovv paXXov %x ov dyan&vTE?* Videtur
ayaitav verbum circum- scriptum esse iu Simonidis dicto, quod
legitur Piat. Protag. p. 345* D. mxvT aS 81 Inalvrjti i xal
tpi\hx> irtwv oSTtS f.pSy /vjSlv al^xpov. Nostro loco Phaedrus
hoc verbo usus est , quia neque <pi\eiv neque ipav ad ntruraque
enuntiati membrum h. e. ad AMATOREM et ad amasium referri poterat.
$ siot e pov ydp ipa- 6tyj S itai8txd>v. De neutro genere
StiotEpov verbi vide quae annotota sunt ad p. 176. D. ott XaXEito v
xoiS dvSpcoiroiS 7/ idxlv. Sententiam quod attinet, cfr. p. 179. A.
ov8e\S ovxod xaxoS , ovxiva ovx dv avtoS d "EpoaS ivSeov
itoirj6Ete xpoS dpETtjv , dpoiov slvai tc5 dpidxcp <pv6ei
, quae verba in amatores tantummodo , non item in amasios dicuntur.
Ce- terum otium nobis fecit Riickerti unnotatio ad h. 1. ,
ed. p. 46. : Phaedrus sic est ratiocinatus : qui amat , non suo ,
sed divino impulsu agit , est enim ZySeoS; contra qui amatur, eo
caret, Iam qui alieno et quidem divino im- pulsu agit , ei facilius
est , magna perpetrare , praesertim amanti , qui non potest non
subvenire amdto , quam ei , qui huiusmodi incitamento caret . Atqui
quo difficilius cuique est praeclare agere , eo maior virtus est ,
si fe- cerit i igitur qui non amat , maiore dignus est admiratione ,
quam qui artiat * Sola enim caritate facit id, quod amatorem
ut fa- ciat , vis divina impellit , — tov 'AxtXXea xrjs
'AXxi]- 6xi8o$. Interdum ipsas femi- nas Erotis auxilio gaudere,
cap. VII. initio Phaedrus docuit. Recto igitur scripsisse nobis
videmur p. 179. C. ovS ixElvtf xo6ovxov vnepEffdXexo xy ipiXint 8id
xov w Epoora, c oSXE x. X. A. Alcestis enim et ipsa UvSeoS.
Minoris autem a diis Alcestis habebatur, quam Achilles , nam illa
Erote ad mortem ducente mortua est, hic pietate erga Patroclum
motus, mortem oppetiit. ovxoo Srf HyatyE. Aliquot codd»
habent ovxui 81 ) xal fyooye Mple. Iu sequentibus ter posi- tum est
xal, ut epitheta Erotis, quae dei laudem efficiunt, signi-
ficantius extollantur. Comparari potest cum nostris verbis p. 180.
B. paXXuv pivxoi $avpd%ovd7 jr
i[i4'avTeg. o vtco drj iycyys cprjfu *EQ(oza %mv xccl ttqe- C^vtcctov xal
r ipidt azov xal xvQudtarov uvai slg aQETrjg xa l Bvdatjioviag xr rjow
av&QaTtotg xal £c5oi xal zeAev- %r}<Sa(Siv. xal
ayavxcn xal ev iroiovdiv . Sensas est: Hac igitnr, qua dixi»
ratione equidem contendo, Erotem et antiquissimum deorum esse ct
honoratissimum et ad vir- tutis felicitatisque assequendam frugem
et viventibus et mortuis auctorem potentissimum. Sed ipsa haec
verba mirum est, quam male cum praecedentibus conve- niant. Etenim
Phaedrus cum dixisset : maioris aestimandam esse virtutem
eorum, qui nullo Erotis auxilio adiuti fortes se praebuerint, quam
quorum virtus non nisi divino quodam instinctu quasi excanduerit,
num recte ita perrexit: ovxco 87) iycoyi (prjpi n Epcoxa $£gov xal
npedfvxazov — xal xvp iGoratov elvai eis a pexi} 5 xxrjdiv x, x.
A. roiovroV xiva Xoyov. Vide ann. ad p. 15. Sequentia
verba aXXovS xivaS tlvat convertenda sunt: nach Phaedrus wiiren
einige andere an der R e i h e gewesen. Pactum nimi- rum erat, ut
eodem ordine, quo sederent, convivae placita sua proferrent, cfr.
p. 177. D. 80- xel poi xPV vat exadxov \6yov etostr inauror
"EpcoxoS ini 8e- Btiu — apxeir 8\ <Pai8por npco- T or. Sed
non verisimile est, in- ter Phaedrum Pausaniamque lo- cum habuisse
omnes eos, quorum orationes ab Aristodemo praeter- missae sunt, vel
quas Apollodo- rus, quippe memoria non dignas, oblitus erat. (cfr.
p. 178. A. nav Tcav pkr ovr , a ZxacdxoS elnev, ovxe navv 6
*Apidxo8ij- fioS iyiyvT^co, ovx 9 av lyco t o IxeivoS iXeye,
Ttavxa). Igitur Riickertus in uberiore expositione convivii p. §61.
quaesivi , inquit, doctus videlicet nihil negligere zn Eia tonis
libris , in quibus haud raro res gravissimae ad perspiciendum
scriptionis consi- lium ex istiusmodi minutis vestigiis eruendae sunt,
cur hoc loco omissionem Aristodemus indicas- set , ceteris
reticuisset . Et olim quidem mihi risus sum reperisse , aliter tum
etiam statuens de ipsis orationibus , in quibus tem- poris quendam
ordinem observari putabam , quo singulae, quarum placita proferret,
sectae sese excepissent philosophorum . Post, mutata sententia rursus eo
de- ductus sum , ut nescirem . Com- mode possis hac ratione
hanc rem tibi explicare, ut Aristode- mus quidem, qui Symposio
inter- fuit, accurate locos indicaverit, quibus locis et aliorum et
suam ipsius orationem omiserit, ut Apollodorus autem satis
habuerit memoriae mandare, quid convivae dixissent, nou item mente
te- nuerit, quo loco quorum oratio- nes ab Aristodemo non
repete- rentur. Ut tamen aliqno modo commemorandarum
orationum paucitatem excusaret , Phaedri relata oratione alios
quosdam fuisse nniversim narrat, quorum orationes Aristodemus non
retu- lerit. De sua ipsius memoria tacet, quamquam panllo
supra p. 178. A. in minatis rebus de- biliorem confessas. Cap.
VIU. #>«[(5(301' fiiv toiovtuv riva Ivyov hfn) tlxuv, fi Era
c Ss 9 uISqov aXkovg uvas iivca, uv ov nciw die^vtj^i- tuv
ov itavv 8 1 tfivi; fi 6- vevev. Comparari cum his pot- est Piat.
Lacii, p, 189. C. iav 81 fiitaB,v dXXoi Xoyot yiv cov- xaiyOv ndvv
jiiyvTjycn, ad quem locum Engelhardtus de oi3 itayv vocularum
potestate disserens h. e., inquit, plane non recordor. Sic ov ndvv
saepissime} cfr. Theaet. p. 156. C. , Phaedr. p. 228. E,, ul,, nec
non in respon- sis, v. c. Xeooph. Mem. S. III' i , 12. Eodem modo
latinum non sane saepe idem siguificat, quod ov ndvv i. e.
plane noni de quo vide Heindorfium ad Horat. sat. II. 3. 138., p.
S04* Ov ndvv xi autem non satis, non sane multum explican-
dum esse videtur, cfr. Locian» Contempl» I, p. 506. elni pot,
Ct8?/poS tpvExai £v Avdiot ; ov ndvv xi i. e. non sane mul- tum.
Piat. Eutyphr. init, ovd avxoS ndvv x i yzyvcodxco, to EvSveppov, r
ov av8pa i. e. ne- que ipse hominem satis novi. Pronomen indefinitum quod
attinet, certum equidem esse reor, xi in huiusmodi enuntiatis non
ad ov ndvv pertinere, sed ad verbum finitura. Quis enim ne- get, ut
ad Eutyphronis locum modo laudatum revertar, Graece dici
yiyvdrfxEiS xi x ov avdpa , ut rectius Platonis verba convertenda sint:
ne ipse quidem ma- gnopere usquam hominem novi. Luciani verba ov
ndvv x t converterim : non sane usquam sc* reperitur. Rectissime
autem Stallbaumius io annotat, ad verba ApoL Soc^ p. 41. D.
p. 95. ed.: 8id rovxo xal £ph ovSapov dnixptipe x 6 tiijfiEiov, xal
Hyaoye xoiS xaxarl>r}(pi<jajAbvoiS pov xal r oiS xaxtjyopoiS
ov ndvv X a ^~ natvcd h. e. haud sane, non magnopere, nicht
eben, qua formula nos qooque cum Elpcoviict loquentes gravius
ne- gare solemus. Haec, quam Stallbaumius laudat, ov ndvv
vocularum uotio apprime ad no- strum locum quadrat. Apollodo- rus
nimirum alios quosdam fuisse narrat, qui Erotis laudationem
edidissent, factum autem esse il- larum laudatiounm mediocritate,
ut earum non magnopere recordaretur, Earum autem pror- sus oblitum ne
fingere qui- dem tibi Aristodemum possis, qui Phaedri, Pausaniae,
aliorum orationes memoriter recitarit. Restat , ut dicamus de
Lachetis loco supra laudato, qui sane do- cere videtur, ov ndvv
significare prorsus non. Verba sunt haec : iycj ptv yap xal
iniXav- Sdvopai 7/6 tj xd noXXa 8ia xrjv rjXvtlar (Zv dv
8ictvo7j^d> £p£- 6$aij xal av d dv axov6a). iav 81 ptxat,v aXXoi
Xoyot yi - * vgoyxoci , ov ndvv pipvrjpau Nonne frigidissimam
conversio- nem censes hanc: Ich pflege namlich Alters halber
immer das meiste zn vergessen, was ich im Sinne habe, sie zu fragen
, and so auch , was ich hore (h. e., was sie antworten)* Falleq
aber noch qndere Erdrterungen da- zwischen, so erinnere ich
mich vevev * ovg TtccQELQ tov Jlavdavlov Ao yov dirjyeixo.
slitelv d’ av toVy ot l Ov fcaktog f 101 6oxtl y o5
<&ai$QE, XQOpEpXijO&cu 7jgiZv 6 nicht eben leicht des Vorigen?
Multo nptins lectores censebunt Lysimachi verba converti: Fallen aber
noch andere Erdr- terungen dazwischen , so ist es mit mei nem
Gedachtniss g a n z- lich aus. Sed neque Haec con- versio recta
est, neque omni ex parte Platonis verba recte exhi- bentur. Maior
interpunctio post axovdco poni solet, pro qua si comma posueris,
optime sibi re- spondentia verba habebis irti- Xav^dvopai ra itoWa
et ov itavv fiipytffiat . Lysimachi sententia haec est: Denn
ich vcr- gesse Alters halber das Meiste von dem, was ich im Sinne
habe sie zu fragen, und erinnere mich wicderom nicht an das, was
ich hore, d. h. was sie auf meine Fragen antworten, besonders
wenn anderweitige Gesprache dazwi- schen fallen» tov
JJavdaviov Xoyov. Phaedrum , qui iracrj/p tov A o- ; yov vocatur p,
177. D. , Pausanias vituperat, quod nihil accuratiore definitione usus
Erotem laudandum proposuerit. Etenim ut duplicem Aphroditen, ita
Erotem duplicem esse, ut Phaedrus, si recte atque ordine habendarum
orationum materiam edere voluis- set, anto indicasset, uter Eros
laudandus sit. His praemissis Pausanias in utriusque dei natu- ram
inquirit, ac Pandemum quidem h. e. vulgarem minus laudabilem iudicat, contra
summis laudibus extollendum Uraniam existimat. Idem iudicium
opti- marum civitatium legibus, quae sint de AMORE, probari
censet. Athenienses enim et Lacedaemonios Erotem per se spectatam
ne- que laudandum censere nequo contemnendum, sed accurate
sem- per cognoscere studere, virtuti» an voluptatis studio AMATOR AMASIUM
AMET, AMASIUS AMATORI se tradat, atque eum solum AMOREM admittere et
probare et laudare, qui homines ad virtutem impellet. De Pausania
paucissima sunt, quae scimus. AMATOREM Agathonis fuisse Pausaniam
e Protag. p.S15. E. colligas. Adde Xenoph. Symp. c. VIII. §.
32. Scholiasta, cuius verba laudavi- mus p. 50., Agathonem
amasium fuisse tradit Pausaniae tra- gici. Aelian. Var. Hist. II.
cap. 21. narrat, Pausaniam una cum Agathone apud Archelaum
regem vixisse : tls *Apx £ Aaou icotk ctcpi- xovto o te ipadtrjs
xoci 6 ipri- fiEvoS ovtoi ; de quo diverticulo vide annot. p. 8.
Dixit autem Aelianus 1. 1. eIs *Ap x £ Xaov eodem dicendi
compendio, quo eif *Ai6 Ov dici solet, quae ra- tio dicendi
Aristophanis aetate ^ fortasse usitatissima ansam dedit comico
diverticulum illud elu- dendi Ran, v. 83- Ceterum non minus, quam
Agathonem, Pausa- niam mollitiei atque luxuriae de- ditum fuisse,
ex eius apud Ar- chelaum tyrannum diverticulo coniicere
possis* r 6 «jrAca? ovtu) yt . r. A. b. e. definitione addita
nulla, tam simpliciter, sine ulla explicatione accuratiore. Quaeritur,
stru- loyos, ro ecxAag ovra xceQyyyel&ai lyxmfuaguv
“Egcora! fl filv yaQ tlg yv 6 "Eq0 g, xaXug av sl%s. vvv SI —
ov yag louv tlg- prj ovzog Se Ivog, 6q&6z£qov Ioti ctnram
verborum quod attinet, utrum nominativo an accusativo casu posita
haec verba rectius accipiantur. Ut verba vulgo ex- hibento?) nihil
certius esse reor, quam nominativum casum unice probari posse.
Efficiunt enim X 6 anXcoZ ovtcoS verba praece- dentium verborum
appositionem: Nicht gut scheiut mir, o Phaedrus, die Aufgabe gestellt zu
sein, namlich so schlechthin aufzuge- 1 ben, den Eros zu loben.
Neque probaverim accusativum casum, qui Riickerto placet»
Caussam enim, inquit, proponit, cor non recte proposita dicendi
materia sit, quatenus cet. Nimirum hac structurae ratione
frigidiorem orationem effici censemus atque sedatiorem , quam quae
Pausaniae, homini inprimis ipco- xixfi , conveniat. Fortasse hoc
modo Pausaniae verba scribenda snnt, ov xaXc jS poi Soxei , gj
$alSp £ , 7tpofi£ft\f/6$cti ijjiiv 6 XoyoS • ro anXoaS ovtoo
napr\y- yiXScci iyxcopia^eiv " Epcoxa ! qua verborum
distinctione quan- topere vi augeatur totum enun- tiatum, sponte
apparet. Habes enim vituperationem Phaedri coniunctam illam cum
indigna- tione summa, quam per me licet etiam irrisionem
interpretari: Wie kann man nur so schlechthin die Aufgabe stellen,
den Eros zu lo- ben ! Atque, si quid video , haec natis malitiose a
Pausania pro- feruntur ita , ut ad praecedens Phaedri dictum
comparentur p. 177, C. io ovv xoiovtov phr itkpi TtoXXjjv (xxovdrjv
noirjtia- 6$ai y"Ep(oxa&k pT}8ha ita> av - SpQOItCDV
TEToXflTjxlvai tfe XCCV- Ttfvl xrjv rjpkpav aZlooS vjuvtj - Coa!
Ceterum iu aliquot codd* non malae notae ovtgo? exhibetur, quam formam h.
1, unice probamus» Sed fusius de ovrvt et ovtgdS formis infra
disputaturi sumus. vvv 8h — ov yap l6xiv sis* Haec verba
sunt, qui nno tenore pronuntianda censeant; v» c. Engelhardtus ad
Apol» Socr* p. 83* B. p. 221. ita iudicat, nt nullam prorsus
omissionem verborum Graecos sensisse statuat» Sed neque hoc indicium
proba- verim, neque vero iis accesserim, qui vvv dh — ov yap verba
li- neola apposita disiungunt, vide- licet ut esset, quo
legen- tium oculis «aposiopesis* indicaretur. Aposiopesis
enim non nisi in iis locis reperitur, in quibus aliquis ita commoto
animo loquitur, nt pauca verbis expri- mat, cetera legentibus
divinanda relinquat. Non igitur aposiope- sin agnosces in verbis :
Hoc vidi, neque vero illud, aed omissionem praecedentis verbi
fi- niti, quod, quoniam facillime e praecedentibus suppletur, ne
nimia abundantia oratio laboret, lectoribus supplendum relinqui-
tur, Idem in nostrum locum cadit, ubi, cum praecedat xaXcoS av £?££,
facillime post vvv da suppletur ov xaXcoS $X ei - I an * quid
differat aposiopesis ab omissione verborum, quam 'ellipsin vocari
licet, statim ap- paret. Aposiopesis reticentia P •xaotEQOv
xgo^QTj&rjvai vxolov det Ixcavuv . lya ovv nu- » p«(Jof(«t tovto
ixavoQ&uOaO&aL , xqutov fiiv "Egara eorum est, quae aliquis
additurus rebatur potius, uter eorum laucrat , sed propter ammi comraodandus
esset, quam qualis esset tionem disertis verbis non ex- is, quem laudari
oporteret. R ii Im- pressit; ellipsis contra elegantem kert.
verborum omissionem indicat, inavopSudatiSat. Hu- quae in
praecedentibus leguntor, ius yerbi potestatem Ficiui conet quorum repetitio
foedam quau- versio non satis assequitur: hoc dam abundantiam dictionis
eifi- itaque emendare conabor, ceret. Ad nostrum locum ut re- Ea nimirum
ini praepositionis vertar, lineolam post vvv 8e cum verbis compositae vis
est, verba ponendam curavimus, ut ut aliquid post aliquid fieri e
praecedentibus verbis aliquid significet, cfr. p. 180. A. oti supplendum
esse clarius indicetur. nenvdpivoS napa tijS prjxpoS Simillimus nostro
loco est Lachetis ais’ dn o$ av olxo — ixoXprf- p. 200. E. el fikv ovv iv
xols tfev •— ov jiovov vnepanoSa- SiaXoyoiS xols apxi iyco plv veiv aXXa
inanoS av elv, Itpdvqv elSooS , xooSe 81 p?) quo loco quid differant
ano- elSoxe , Sixatov av rj iph / ia - $av&65ai et inanoSctvtiv
, Xidxa ini xovxo x 6 ipyov na - sponte intelligitur. Adde Protag.
paxaXeiv' vvv 81 — opoicof p. 328. E. vvv 81 nbteidpai * ydp itavxeS iv
ctnopia iyevo- nXr,v dpixpov xi poi ipnoScdv, pe$a, quo loco post vvv Se
o 8f/Xov oxt TlponayopaS (ict- supplendum esse ratio loci docet: 8la>S
in ex 8 18 dB,ei , ineiSi} ovx ig>dv7fv eISojS. nal xa noXXa
xavxa it,e8l- 7t poxepov n po ij - 8a%ev. xal yap el piv xiS
vai . Haec. verba ex abundantia nepl avxdov tiityyevotxo oxojovv
quadam posita sunt, quam etiam xdiv Srpirjyopoiv , xa% dv xal Latini
adamarunt dicentes : prius xoiovxovS XoyovS axovdeiev ij praefari. Simili
modo supra IlepixhiovS i) dXXov xivoS xoov p* 177. D. dicitur: apx £ ^v
8h Ixavcov elneiv * el inave- 4?al8pov n pdixov , neque no- poixo xiva
xi, Gjfi tep (iifiXia strates ab Jmiusroodi diccudi ge- ovSev i'xov6iv
ovxe dnoxpiva- nere abhorrent. Quem enim of- 6$ai ovxe avxol ipidSai,
aAA* fendat conversio haec: Phaedrus iav rtS xal dpixpov inepta -
hahe zuerst den Anfang gemacht? Xrj6y x i xtav prjSivxtav, Ssnep Nostra
verba Schl ei erm ac heras xa x a hxela nXrjyevxa paxpov convertit: dasi
zuvor bestiramt rfx £ 1 xdl anoxeivei, iav prj werde. Graecis verbis
magis re- imXdfirfxai xiS , xal ol fiijxopeS spondet: dass zuvor
vorausbe- ovxta dpixpa iptaxrjS ivxes 8o- stimmt werde. Xixdv
xaxaxelvov6i x ov Xoyov. 6 nolo v 8 el in aiv £iv ., Perscripsi
totum hunc locum, ut Nondum licebat oitoxepov dici, lectores e vestigio
de Stallbaumii s quia quot Amores essent, nondum sententia iudicare
possent. Jn erat definitum ; accedit v quod, his, inquit, vereor,
ne vitium alietinmsi esset, tamen non id quae- quod lateat. Quum enim in av
t- i ' i (pQtzGcu ov 6tl Inaivtlv , insita Inaivioai a^tcag
tov &sov. navzss yag Zapsv, on ovx isziv civiv "Egazos
p £ 6% a i sit interrogare aliquid praeter illa , quae ipsi
oratores dixerunt, haud scio an deinde parum accurate dicatur In e
p cj - Ti) 6 Tfl. Equidem scriptum malim av EpGDtrj dp, h , e .
interrogando denuo attingat, Quamquam codices veterem lectionem tuentur
omnes. -Nihil mutandum est, et omnia bene habent. f Enav£pid%ai est
ali- enius rei , de qaa paollo ante dictam sit, caussam et rationem
sciscitari. Enepcoxdv contra eius est, qni audita qua- dam oratione
alicuius sententiae sire repetitionem sive enarratio- nem flagitat.
Sensus verborum est: lefzt aber glaube ich es, Nur eine Kleinigkeit
ht mir noch im Wege, die Protagoras ^ gewiss nachtraglich recht gut
beseitigen wird, da er iiber so Vieles mir Belehruug gab. Wenn
freilich Iemaud iiber denselben Gegen- stand mit eiuem der gewdhnlichen
lledner sich bespriiche, so mdchte er leicht solclie Reden horen,
sci es von Pericles oder von irgend einem andern, der zu reden
versteht. Fruge dagegen Iemand nachtraglich nach Grund und Ursache
irgend eines Satzes , so haben sie, wie die Biicher, keine Antwort
und bleiben stnmm ; biito Iemand aber um die Wiederho- luug nur
eines kleinen Satzes, so sind diese Redner vrie Erz , das lange
klingt und tont, wenn man es nicht anfasst, und geben ia solcher
Weise (vide ann. p. 58, nam ut illic ovxgj noXXaxoSEV, Protag. loco
ovxco dpixpa positam est) auf eine kleine Frage einen unendlichen Sermoo»
Ad nostrum locum ut revertar, verba convertenda snnt : ich
will nun versuchen, diesen Fehler nach- traglich zu
berichtigen. npootov 'jtlv " E p coxa. <p p a 6 cci .
Ne quis forte xoci particulam desideret, qua haeo verba
praecedentibus commodius annectantur: Sol ent Graeci, verissime
notante Stallbaumio ad Apol. Socr. p. 22. A., eas sententias, quae aliis
sub — iiciuutur explicationis causia, ita addere, ut particularum
et conjunctio- num vincula omittant. Effici autem videtnr hoc
asyn- deto, ut gravitate quadam oratio augeatur, quae addita xai
par- ticula prorsus evanescat. Hoc di- cendi genus tam simplex est
at- que omnis expers artis , ut non mirum, idem iam apud
Homerum reperiri, cf. II. a, 504. seqq. coS zco y dvxifiioidi
pax^dda- peveo inktddiv dvdtT/tTjy • Xvdav 6 * dyopt/v napa
vsvdlv Axaiar. IJqXeiSqS psv ini xXidiaS xal vijaS ildaS
rfie, dvv re Mtvoixiu.br) 7ca\ oli Ixcepoidiv * 9 Atptibr)i 6
* upa vija $or)v aXabe npoipvddtv , is 6* ipirai i-xpivsv x. r.
A. Adde Phaedon, p. 91. B. Xoyi- B,opai ydp, oo <piXe
Ixcfipe. xal Sioedoa gjS nXeovexTixtiS • tl pev tvyxdret dXrjSrj ov
xa cc Xiyoo , xaXcoS 6t { xo nei- dSrjvai* eI bl prjbbr idxi
xe- Xttrxijdavxiy dXX ovv rovxov yt x ov xpovov avxdv tov
itpd tov Savatov ijxxoY xoiS na- -6 * . ’Aq>Qo6ltt].
(tiag (ilv ovv ovGtjs ttg av Tjv “Egag' hct 1 dt 8q 8vo Igtov, 8vo
dvayxrj xal "Eqqhb tlvav. xag 8' ov povdiv u7j6i} 5 Idopoa.
odvpo- ptVOf. c tB,loo S tov 5eov. Haec verba vario
modo interpretari li- cet. Possunt de elegantia lau- dationis
intelligi , de sinceritate laudatoris» de laudationis veritate
cett. Sed horum nihil Pausanias in mente habuisse videtur. ’A£UgjS
tovSbov esse: ita deum laudare, ut nihil omittas eorum, qnae deo
conveniant atque ad praedicandam eius laudem pertineant, ver- bis
indicatur p. 180. E. a 8 ’ ovv huctrepoS eTlKtjxe, itEipaxkov
Elireiv. TtdvTsS ydp tdpEV* Omne s, inquit, s c i m u s,
Aphrodite n' non esse sine Erote. Sed quod omnes scire dicuntor,
idem fieri interdum potest , ut scire se opinentur tantummodo,
revera non sciant. Eandem igi- tur argumentandi sive levitatem sive
audaciam habes hoc loco, qua Phaedrus in oratione sua usus est p.
178. B. yovijs ydp KpcDToS ovt sidlv ovte Xiyov- xai vit* ovSevoS
ovte iSicorov ovte noirjTov f ad quae verba vide ann. p. 55. Cur
Aphrodite sine Erote non sit quaerentibus variae caussae se
offerunt, quarum aut una vera est aut nulla. Eas nunc recensere eo
facilins omit- tere possumus , quo minas ipse ^Pausanias de caussis
rei cogitasse videtur, quam rem omnes compertam habere narrat.
Ceterum ut TtdvtES ydp Idpsv h . t. A. Pausanias dicit, ita
Socrates dissimulato ingenii acumine p. 202. B. neti jnjv, inquit,
?jv 6* iycd 9 opoAoyeirai ye napd ndvxoov pty/US etvai.
« ptciS p\v ovv ovdtj S*. Ve- teres editt. habent
TavrrjZ 8\ pia* phr ovdrjS , quod fuerunt, qui probarent. Sed non
dubium est, verissime notante Stallbau- tnio, quin id grammatico
alieni debeatur. Bekkerns e codd. non pancis piaS p\v ovdtjS
edidit, quod sane habet, quo magnopere se commendet. Tantnm
enim ponderis enuntiationi, quae quasi fundamentum eat totius
disputa- tionis, infert, qnantnm eidem ap- prime convenire videtor.
Sed codd. optimorom auctoritas re- spicienda est, qui
coniunetivam particulam exhibent. Probatur eadem nobis etiam
propter du- plicem relationem, quae hoc loco manifesta est, et de
qua fusins disputavimus p, 22. et 2$. Pro- prie dicendum erat: pia?
p\y ovdrjSf sii av ijv^Epwg' Svolv 8^ 8r) ovt o iv, 8vo dvayjcrj
xal EpcoTe slvaiy sed eandem enun- tiationem etiam hoc modo
cogi- tari Pausanias voluit, E i p\v pia Tfv , eU dv t/v^EpcoS-
insl <$?/ 8vo idTov , 8vo dvdyxrf v.a\ "Epare elvai.
Duplicem hanc et nominum et particularum relationem mutuam indicare
Pausanias tantummodo potuit, non item disertis verbis exprimere*
Indicatur autem ea, pkv vocnla ad prius nomen apposita, 8s autem cura
posteriore particula coniuucta ptaS p\y — iitEi dL Sed hac
scribendi ratione repugnantia quaedam exoritur singu- larum orationis
partiam , quae addita alterutri sive nomini sive particulae ovv
particula mitigatur atque lenitur. Riickertus ad h, I* ita disputat, ut
Pausaniae 6vo Tio &ea; rj (iiv yk loti itQEOjivztQa x«l
afi^rap, OvQavov &vyutr]Q, tjv Srj xal OvQavlav l%ovo(iatfiiiiv
' Teri) a corruptissima ceuseat atque non nisi verborum
mutatione sa- nanda. Videtur enim , inquit, haec ipsa varietas ,
quod alii tavTTjS 8 i, alii ovv addide- runt, argumento esse ,
antiquius hic vitium latere , quod variis modis sarcire stpduerint
librarii. Itaque in mentem mihi venit olim, essetne Platonis manus haec
; *Aq>po8ixrf % j]S ytiaS plv ovdTjS, Cui si quando acci-
disset, ut negligens librarius pro *Aq> poSitjj ?fS scriberet
*Acppo~ 6 It rj S , Jieri postea non potuit, quin ~6 abiiceretur,
quo facto alias coniungendi verba rationes iniri oportebat, quarum
ad nos duae pervenerunt. Perscripsijhaec verba, ne deesset, quibus
nostra displicerent, quo commodius Pau- saniae verba
explicarent. 7t 65 i 8 * ov 8 vo x oo $ ea. Vulgo xa $ed; sed
miuus usi- tatum hoc apud Atticos ex prae- cepto Grammaticorum.
Eodem xnodo reperitur rcJ 68 co in Piat, Gorg. p. 524. A» Plura
huius loquendi usus exempla Matth. congessit Gramm. ampl. $.
456. 1. p. 812. Ceterum haec interrogatio ex eo genere est, de quo
diximus ad verba c.VI. p. 60. Xkya 8tf xi xovxo; Mediae orationi
interrogationes immisceri haud raro, ut vigor orationis structurae
mutatione augeatur, satis notum est. Hoc vigore, quem
oratorium vocare licet, Pausanias ita utitur, ut argumentorum
absentiam obtegat, quibus duplex deae numen probandum erat,
?} pkv yk itov Ttptd flv- tkpat, Riickerto yk particula
videtur non argumentationi, sed expositioni ante dictorum inservire.
Frustra. Quod modo annotatum est ad praecedentem in- terrogationem,
optime cum huius particulae vi, quae est vis argumentationis, convenit.
Rectissime Buttmanni praeceptum ad Dem, Mid. p. 46. laudavit
Stallbaum: Quum quis uno argumento ,vel exemplo aliquid probat,
potest hoc ut suiliciens afferre : quod fit particqla ydp ; potest
etiam significare, plura quidem posse desiderari , sed hoc unum
satis grave esse : quod fit addito yk, certe, saltem. Restat, ut
de tcov particula dicamus, cuius po- testatem non satis recte
Riicker- tus interpretatus est. Annotat nimirum ad h. 1.; Addita
part. itov urbanitatis declaratio est , ' qua speciem exhibet qui dicit
' etiam de re certissima dubitatio- nis atque ad lectoris
assensum provocationis . ' Non aliter Butt- mannus de eadem vocula
indicat in Indic, ad Piat, Dial. IV. Be- rol. MDCCCXXII, Sed
quam hi urbanitatem dicunt, equidem in Pausaniae oratione
arrogantiam interpretari malim. Nimirum 7tov vocula e dicendi
genere ov xl Tt ov depromta est, atque iu in- terrogatione positum
significat, mirari atque indignari eum , qui interroget, si quis
aliter atque ipso de aliqua re indicaturus sit» IIov vocula igitur
non tam wol con- vertenda est, quam doch wol, doch sicher, doch
gewiss. Usu loquendi factum paullatim est," ut nov particula
significet, notissimum aliquid esse ita , ut de eo dubitari
nequeat. 5ic in ij 8e vecotIqcc Aioq xai Aicovrjgy yv 8% ITavdrjfiov
xa- E Xovusv. avayxaiov 8rj xai * 'Eqcotcc tov (iiv ty hijpqc
jfrvSQybv IIdvdypov 6 q$ ag xcUsid&ac , zov di Ovq&vlov. Alcib. I*
p. 129. C. 'O di XP°^~ pEvoS xai (L xpip ai °vx aXXo ; — TIgoS A
eyeiS ; — "fhSTtEp tixv- toxojioS xipvei itov tojjeI xai
d/it\y xai aXkoiS opydvoiS. Adde Criton. p. 44. A. IIuSey rovro
TExpatipg ; — EyoS Coi ipaj. x\f yttp ttov vCxspaia Sei pe
ditoSvijCxeiv, if v dv Z\$oi to tcKoiov h. e. den Tag darauf mus»
ich, wie du weisst, sterben, wenn das SchifF zuriickgekommen sein
wird, xai Ov p avia. De Venere Urania atque Vulgivaga
secun- dum Platonis sententiam dispu- tarunt Apulei. Apolog, p.
281* cd. Oudend., Io. Lydus de men- tibus p. 89. seqq. Alios
lauda- vit Astius ad h. 1. Qudd autem illa dicitur dprjxcap 7 pro
magna deorum laude haberi solere, quod alterutro parente careant,
docte demonstravit Wesseling, Obserr. II, 10, p, 177. seqq.
De Venere Vulgivaga ex Iove et Dione nata v. interpp. ad Cic. de
Nat. Deor. III, 23. Elmeuhorst, ad Apulei, p. 328. seqq. et
quos laudat Bach. ad Xenopb. Symp. VIII. 19. Ceterum vix est, quod
moneam, totum hoc argumentum a Pausania ita tractari , ut fabulas
de Amore et Venere pro consilio ano mutaverit eique accommodaverit.
Stallb. iit aiv eiv piv ovv det itavtaS SeovS. Vario
modo sollicitarunt haec verba interpre- tes. Bastius scribendum
couiecit inaiYEiv pkv ov dei itavxa (sc. w EpGDxa ). Orsilius ad
Isocr. de Antidos. p.326. iitaiveiv juv — 3cod 5* expungenda
censuit. Riickertus Astio assentitur, qui vel superstitionis caussa vel
propter metum verba addita esse iudicat, videlicet ne Pausanias
deos con- temnere videretur. Stallbaumius, ne Pausanias sibi
contradicere rideatur, facto inter litaiveiv et iyxajpidpEiv
discrimine verba convertit ; Omnes deos cum honoris
significatione commemorate pietatis est; non autem omnes en-
comio digni haberi pos- sunt, Hanc verborum interpretationem cave
probandam censeas. Non yerum est enim, quod Stallbaumius inter
hcaiveiv et iyxwpidpEiv discrimen sta- tuit, neque idem scriptorum
locis probatur, cfr. Piat. Menex. p. 235. A. yorjxevovdiv T\pdtv
ras ipvxaS xai xrjv ito\iv iyxoopidpovxeS xaxd itav- r aS xpoxovS
xai xovi texeXev- TTjxoxaS iv x<p noXipw xai TovS TtpoyovovS
?}pcjv dnavxaS tov f ipitpoCSsv xai avxovf TjfiaS xovS Zxi ZrivxaS
Ijtai- vovvxss x. r. A., ad quem locum Engelbardtus verissime
annotavit p. 241. ed.: irtaiv ovvr e$ ni- hil est nisi
repetitio quaedam praecedentis iyxcopidP,ovx eS ob enun-
tiati longitudinem ad- iecta. FICINI conversio, ne verbo tenus
quidem facta, audit : laudare quidem deos omnes decet, sed utriusque AMORIS
opera distinguenda Pausaniae mens haec estx Male ’ Enaivilv yh> ovv dei fiavtag ftsovg' «
& ovv txattQog *’i hj%B, XBiQceriov tlitilv. Uda a yag
ngd^ig <od’ fyti' aixrj hp avtijg figar- Phaedra» nihil definitione
nccuratiore usus Erotem laudandam proposuit. Duo enim sunt Erote». Duo
igitur (ovv) nunc Erotes laudandi sunt, quoniam omnes dii, ut dii,
non possunt non laudari. Ea laudatio ut recte fiat atque digne
deis, quid utri** que Eroti datum sit muneris, iam dicendum est.
Pausanias igitur , quod in laudatione Erotis a Phaedro proposita duos E
rotes commemoret, alterum Ovpdviov , alterum ndvSypov , eius rei
excusationem petitum iri putat et a negligentia Phae- dri, qui
Erotem laudandum propovicrit dei naturam duplicem non respiciens,
et a pietate quam diis omnibus mortales praestare debeant. Restat, ut de
ovv particula dicamus, quae h. 1. dupliciter posita est. Prior part. con-
tinuandae orationi inservit, de ulterius potestate dictam supra est
p. 22. et p, 84, o(vt fj i<p avtyS itpat- ropivy.
HpatTopevy parti- cipium adeo suspectum visum est hominibus
quibnsdum doctis, ut tanquam inutile additamentum expungendum
censerent. Neque his assentimur , nec Stallbaumio credimus, quod
annotat ad h. 1.: Poterat omitti participium, fateor: et omisissent
fortasse alii, qui non haberent Pausaniae in- genium, Ficinus in
convers.parti- cipium non expressit, cuius tamen parva in huiosmodi
rebus auctoritas. Quid? quod Gellius, verba graeca laudans N. A, XVII,
20. participium edidit, idem in latina conversione omisit.
Participii vis haec est: itatict yap itpct%iS c o6 9 ix*f avty
avtrjS TtpdB,iS o v 6 a ... h, e,. Mit • aller Handlung
verhiilt es sich so: so fern sie an und'fiir sich Handlung
ist,ist sie weder gut uocli^ schlecht. Haud raro Graeci scriptores
verbis transitivis utun- tur ita, ut addito obiecto nullo, non
aliquam actionem denotent, sed meram verbi notionem ex- primant.
cfr. Symp. p, 184 . B, av t eu epyetovpevoS eis XPV- para. — p y
nata<p povij 6y h. e,, wenn er in Beziehung auf Geldgeschenke
oder auf Befdrde- rungen im Staatsdienste s e i n e Verachtung
niclit zeigt. Pl. Gorg. p, 489 , D. y olei pe Xeyeiv, idv CvpqtetoS
6v\ Xepy 6oi> Xcov 9tal 7tocYto8ot7td)V av- SpcoitGQV pySevoS
d£,ia>v rtXyv iocj? tc 3 dajpazi itixvpfcaOSai, xal ovroi
<pd>6 iY t avia tavuc elvat vojptpa; in his verbis, cum
praegnantem , quam vocant, g>dvai verbi siguifteationem non
perspicerent, Heindoriius, Butt- mannus, lleusdius, ad conie-
cturas ingenii confugerunt, xal ovtoi <poo6iv est: und (wenn)
diese das Wort nelimen, ihre Stimme erheben. Pro- tag. 384. D,
coSicep ovv dv el ItvyXOLVOV VltOXGDtyOS cov, <5ov av xP 7
} yai t tlnep epeXXis /tot diaXkZetiBai, pelP t ov cp$ty- yeCSai y
itpoS tovS dXXouS, ubi pei2,ov positum est pro pdA- 181 TOfiivtj
ovzs xcdrj ovzs ale^Qa. olov 8 vvv tfftus holov ■ ptv, nlvsiv Tj aSuv rj
duxkeyto&cu, ovx i'<J n zovzay, > avzo xafr’ ccbzb xaXov
ovSlv, ai. A’ Iv zy sipaiju, a ; av nqayfiy , tocovtov «jrifJij* xcdas
(itv yaq nqaxzb ■ fiivov xal oq&w s xcdbv ylyvszai , prj OQftas de
alctyQOv . ovza 8rj xal zo Iquv. xal 6 “Equis ov nas eOn xaXbi;
ovdi agto<; lyxujiui&<5%at, , aiX b xaXw$ nQOZQtnuv
Iqcxv. Aor, ut esset, quod verbis q>$oy- yov itapexeiv (b. e.
tpSiyye - 6Sai) conveniret. Adde Apol. S. p. 80. D. — idv ipl
ditantei- vrjxe — ovx ijj.1 pel^QD fiXa- ifrete rj vpaS avzov$ t
quo loco ad utrumque dicendi genus re- spicitur. Hac significatione
verborum praegnanti factum est, ut multa verba cum genitivo couiungi
soleant, ubi quartum casum exspectaveris cfr. Protag. 851. E*
itorepov ovv , rjv 5* iyc & , tfti fiovXei ijyepovevEiv (h. e. 7jys-
jj.Gov elvat) xrjs dnhpeooSy rj iyco ijydopai ; JixaioS, £<prj f 6v
Tjyei- G$ai' 6v yap xal xaxdpx xov Xoyov. Ne praeteritum pro
xorcdpXEtf exigas, sensus est; da bist ia auch der Urheber der
Rede. Menex* p. 237* cap. 6* xijS 8* Evyereiaf icpcoxov vxrjp^e
toiSSe i} tgoy Ttpoyovaov ylve^ 6i$ tu T, A. h. e. war die Ur-
sache* Adde e latinis scriptori- bus, apud quos rarior hic usus,
Plaut. Asia. v. 256. Both. Aeta- tem ego velim servire (h. e. servus
esse), Liburnum ut conveniam modo. roiovrov ditiftTj* Tropum
aliquetn in mente Pausaniam habuisse, certum est* Fortasse proverbium
erat, ad quem allu- sit: talem farinam prodire solere , qualis in mola
parata sit* ovtoo 8ij xal to ipav. Post ipav nulla interpunctio reperitur
neque in codicibus uequ s in libris editis ; graviorem posui- mus
nos, qualem sententiarum ratio exigit. Pausaniae mem haec est: ut
quaevis actio per se spectata neque tur- pis est nec pulchra:
sola ratioue agendi cogno- mentum accipit: ita nitiii in se
habet % Q ipay per se spectatum, qnod veli vituperes vel laudes:
ex sola amandi ratione indicatur. Quod sequitur xai non mera copula
est, sed fortiorem significatum habet, quo apud La- tinos poni
constat adhaerento consequentiae notione atque pro atque igitur*
Verba con- vertenda sunt: So verhalt es sieh auch mit dem
hieben, Und ist also nichtieder Eros schon und eines b e-
sonderen Lobes wiirdig, sonderu nur der, welclier auf eiue schone
Weise zur Liebe treibt. ooS dXySooS Ttav 8 rj jio Quid
sibi velit goS «A?;3o3s' , a nemine demonstratum video. Si-
gnificat autem , propria potestate adhiberi, h. e. adieotivum esso
non nomen, 7tdv8rjjioS. Recte igitur aliis in locis mihi videor K
t Cap. IX. 'O (Tsv ovv Ttjg HavSy/iov 'AcpQoStzrjg eos
aArj&cog JtavSrifiog eOzc xul itiegya&tai o xi av xv%y xal ovxog
B lozt/v, ov ot tpavAoi xmv dv&Qtltxcov igatiiv. £ga( H 6s ol
xoiovxoi ngdhov (iiv o&% fjxxov yvitcaxav i} itaiSav, IWf hxa, eoi/
jcal tQcoGi , zov Gufiuzav puAA ov xj zav m«inscnla littera
UdvSyfioS «eri- psisae. iZepyagexat 3 xt «Y xvxy^ Vett.
edd. pro xvXQ exhibent xvyoi, Male. Ad xvxy •imple* verbum e
praecedentibus repetendam est, uon compositam i&pya$Qp£YQf, ut
visum est Stalibaumio, Sensos est: und was irgend noter seine
Hande Itomnrt, das henutzt er oh ne vr e i ter es fur seinen
Zweck. Huius structurae exempla per- multa reperiuntur. cfr.
Phaedon. P- ( 64, C. 6H(ij!<ti St}, <J dyaSl, £av apa xal dol
%w8oxy, aixep Xal £fio\ (ac. doHtl,') Pari modo affirmativum verbum
repetendum est praecedente verbo negativo Platon. Gorg. 457. D. —
<ft A' iav Ttepi zov dfupidftnxtjdatdi xal prf <pfj o exepos
x ov Sxe- (>ov opS/wS Aiyuv fj fit } o'a- tptaS JC. tpy,
Sententiam ipsam quod attinet cfr. Piat. Pro- t*g- P- 353. A. xi
SI, o! 2aS~ HpccxcS, §ei ?) licis 0xoixei6$ca T?jy tgm* 7toXXcov
Sdfcctv ctv~ Spomtaiv, o'{ oxt av xvxoodi, xovxo Uyovdiv, Adde
Piat, Criton. p, 44, O. xal ovxoS idxxv, ov x. X, A.
Pausanias si brevius loqui voluisset, verba audirent xal tovzov —
ipwdtv, Illam oratoriam dicendi figuram etiam in- fra reperies p. 182. A.
ovxot yap cldiv ol x. x. A,, p. 186. C. xal xovxo idxxv , fi
ovofia %o iaxpiHov et alias sexcenties. Ceterum ipdv coniunctum
cum quarta essu verbum transitivum esse, cum genitivo,
praegnanti, quae vocatur, potestate adhiberi, ut idem sit, atque
amatorem esse alicuius, supra annotatum est p. 88. Hinc nostra
verba con- vertenda sunt; und das ist der, welchen die minder
Gebildeten unter den Menschen lieben. Liebhaber aber «ind
solebo zuerst, nicht minder von Wei- bern ais von Knaben,
cos av Svvatvxai avotj- xoxaxoov. Stallbaumii ad h. 1,
annotatio haec est: Tribus par- tibus ait constare diiferentiam
inter asseclas Amoris coelestia atque vulgivagi, primum sexu, qui
ametur, deinde parte, quae ametur, postremo amandi modo. Itaquo
mutavimus lectionem vulgatam avo7/XQxdxa>Y Schiitaio obsecuti, cuius
coniecturam fir- mant codd. aliquot non malae notae (Paris, et duo
Vindobb.) Satis speciosa est, neutiquam ta- men vera haec verborum
interpretatio. Tantum euim abest, ut temeritate tanquam argumento
Pausanias utatur, quo tpavAovS il'v%ibv , htuxu m g av Svvavtai'
avorjxoxazmv , jrpog ro ' diangdl-aO&ai fiovov fi /.{novies, a/eel
ovvteg de xov xa- AcJg ij [trj. o&ev 6rj %v[ifiatvu avrols o rt, av
xvfjaGi, xovxo ngdxxuv, opotcos pev ccya&i>v , opoias Si
xovvav- C riov. laxi yag xal ano xijs &eov vecoxega g xe ov6t]S
nolv rj xijs exigas, xal pexe%ov<3ris Iv rjj yeviaei xal I
• tu>v avSpcdnoDy Pandemum amaro quam pueros, deinde corpus
magis probet, ut potius allatis argumen- quam animum amant,
postremo tis tribas Pandemi amatores te- natu minores» mernrios
esse doceat intempe- icpdf x 6 Siart pd£,a6Sai. raritesque atque eorum,
in quos* Ut paullo supra i^epya^ed^at, cunque inciderint, ineptissimos
ita hoc loco dianpaB,ad%ai verbi corruptores. Nullo enim, inquit, di-
latissimo significata turpissimae scrimine facto etmulierum etpue* rei
notio obtegitur. Schleierrn. rorum AMATORES sunt, deinde sire in conversione
habet: indem sie mulierem amant sive puerum, cor- nur auf die Befriedigung
sehen, poris quam animi pulcritudinema- unbekiimmert, ob auf sebdne
gis delectantur, postremo, quain Weise oder nicht. Ceterum per- fieri
maxime potest — uum i ne- pulcre hoc additamento explicatio p tis simo m
od o Pausaniam di- nostra dyoj/xotdxcjy verbi pro- xisse censes? — quid
ineptius in bari videtur. Aetate enim pro amore cogitari potest, quam cor-
vectiores cordatique homines haud pore magis quam animo delectari? facile
ab iis corrumpi possunt, K evocanda lectio vulgata est avorj- quos
temerarios libidinososque ToxarcDYy quam Riickertus quoque amatores esse
intelligOnt. Contra, in textum recepit, minas tamen quorum aetas
prudentia caret, recte verbom interpretatus. Avorj- quo facilius fraudi
obnoxia est, j oraro i enim h» 1. non stuleo cupidius ab illis
tissimi sunt, sed infirmio- Edti ydp jcai ris aetatis. Hinc verba ex- 5
eov. Cave Riickerto crcda» plicabis p. 181. D. xp V v dk xal annotanti ad
Jianc locam, da- vo/iov tdvctt pyj ipay it a i 8 cov t riorem omissionem
verborum esse fya pjj eis adfjXoy tcoAAtj dirovdi/ o "EpGOS ovtoS ,
nulla videlicet arrjAitixero ' x. r. A., ad quae in proximis praecedente
Erotis verba vide annot» Quid? qivH, mentione. Brevior Pausanias
esse quae his verbis praecedunt, no- maluit atque, quae facillime
sup- etram explicationem apertissime pleri possint, eadem
-audientibus probant: aXX* ovx i^anarf/day- supplenda relinquere, quam
ora- xe£ , iy aq> p o dv y y Xaftov - tionera exhibere nimia
verbositate x eS cis* viov x. T, A» Pausa- laborantem. Proprie euim
dt- niae igitur voluntas haec est: cendum erati eidi ydp xal and
Pandemi amatores non nisi e ge- xovxov rov "EpaxoS , oS idxtv
nere temerariorum hominum sunt; and xi/S Seov x . T» A. Similiter
quorumcunque ipsis potestas est, Pausanias brevitatis studio dixit eos
Amant, non miuus feminas p. 181. C. ol ix tovxov xov
oppetitur. and x ii s ahjtaos xal aQQtvog. o 61 tijg
OvQccvtag tcqStov ftlv ou (izxzyovdijg &t]A.sog, a A A’ ctQQBvog
ftovov — xal Igxlv ovtog o tojv italdav Eqco g — 1'sr utk itQEGfivttQcig,
yfigcag CC(lolQOV. 0&BV 6tj iJU tO UQtjBV TQZTCOVXai 01 £x
XOVtOV rov “Ego rog Mxvoi, ro <pv6e i iggauBvzdtzgov xal vovv
fiuMov Myov ayuTtavttg. xal ng av yvotrj xal tv avry EpGDToS
hnnvoi pro ol ix tov- TOV TOV^EpcuroS tov <X 7 CO xav- TtjS rijS
iitiitvoi. Cetcrnm ne mireris itoXv voculae post comparativum
posituram, ita lo- quuntur interdum Graeci, ut se- dis insolentia
verborum potestas augeatur» Exempla huius locu- tionis non rara •
supra reperitur p. 180. A. xal itt aykvEioS, hcEira VEooTEpoS
7to\v, <2s <prj- div "OprjpoS. Adde Piat. Gorg. p» 488.
E. ol yap xpEixxovf fisAxiovS itoXv xaxa rov dov 4 \ 6 yov. Plura
exempla Stallbuu- mius laudavit ad h. 1. ed. p. 50. xal
^rfX^os xal a?/3/5e- YOf, Ilis verbis explicatur, qui fiat, ut
TlarSjJpov asseclae et femineo et masculo sexu dele- ctentur. Hoc
quamquam disertis verbis non commemoratum est a Pausanid, tamen
colligere licet ex iis, quae paullo infra legun- tur: aW afifisvof
povov — xal idxir ovxos 6 xwv itaiScjv "EponS — quae
verba immerito tanquam glossema expungenda censuerunt Wolfius,
Schiitzius, Astios. Sensus est: und dar- auf beruht das W e s e n
der Knabenlicbe. OvxoS autem pronomen positum est e generis
haud rara assimilatione prorotiro. vfipscoS a/ioipov . In his
asyndeton improbantes Astios et Orellios alter xk inseruit, alter
apoipoS scribendum existimavit. Frustra. Solent addita
eopola nulla ens partes orationis enu- merare Graeci , quarum
suam quaeque pondus habet, cf. Symp. P 17 3. B. ’Apt<5To8t//toS
7/y xiS, KvSaSijvauis , apixpoS , dv v- noSijroS dei. p. 175. C.
rov ovv AyaScava, xvy x dvctv ydp ?d X a- rov xaxaxclperor, yiivov.
Ce- terum vfiptaS d/ioipos Urania dicitnr ita, ut simj| ,* 0 P a
„de- mon Aphroditen oratio dirigatur, cuius Swepyos perfidos et
cavillatores asseclas reddit, cf. p. 181. D. aAA^ ovx iSoxaxijCavxeS,
iv dtppo6vvy XapoVTtS cjV viov, xaxayeXddavxes oi x ji d
£ d $ ct i ije \ccX\oy djzo — xpi X ovx£S x. x. A. oSev 8xf —
trixinvoi. Haec accuratiori explicationi in- serviunt praecedentium
xal Hdxiv ovxos o xtiv itaiSov *Epa>s. quae verba quoniam ita
exhibita snnt, ut pro concreto, quod vo- cant grammatici,
abstractum po- situm sit, nostro loco concretum ha^es h. e. masculi
generis ama- tores in abstracti nomiuis locum substitutos. Cave
igitur h. 1. de inutili praecedentis «licti re- petitione cogites,
"Exixvoi vo- cem qnod attinet, cfr. Piat. Me- non.^p. 99. D.
cpaipiv civ Seiovs xe tLvai xal IvSovtiidZetv, inl- TtvovS ovxaS
xal xar£ X opevovS ix xov Seov. Adde etiam Phae- dri verba p. 179.
Br xal dxe- XvdiS , S £<pi) ” Opi/pof , pivoS Ttj muSigatitla
tovg tUtxgivcSs vno xovtou tov * 'Egatog D oQiirjfdvovs. ov yag igmat
nalfa iv t «M* ix$Ldav rjdq i/iitvevdai Mot$ xgjv ypcocjv
TOV jSfoV, TOVTO 6 "EpGOS T OlS i paxSi Ttapixei yiyvo/ieyoy
itap avxovx tq cp vdet ififxu/isyidTe- pov x. r. 'A.
cfr. Piat, de rep. V. p. 455. D. ovdb' dpa idxir , c 5 <pi\s,
imxtfSevpa tgov noXiv dioixovvTGDY yvvaixoS Stoxi yv - vy) , ov8 *
avdpoS 616x1 dvtjp , aX A* 6/1 oie os 6iEditap/iEvai ai cpvdtiS iv
a/jypoiv xoiv Z&oiv, xai icdvroov plv pexexsi yvvrj
faixjfdevpdtGrv naxa cpvdiv , irarxGJY 6 l ayijp , in\ icadi 6h
adSevidxepw yvvjj avdpoS. Ceteram came h. 1. Pausanias dyanwvxeS
participium exhibuit, tie forte aliquis, si ipcovXES di- xisset,
rei iutelligentiam perver- teret explendae voluptatis notio* nem
simul adiungenx. nat tiS av yvoiij xal iv avxy xy icai8
spadxia » Inest his verbis , quod male me habet. Nullum in
codicibus vestigium est deprationis, igitur commendanda tantummodo
lectoribus , non item in textum inferenda scriptura haeo est: xai tiS av
xai yvotrj iv avxf/ ty izaidepadxioc K. x. A, Nihil frequeutiua apud
scriptores Graecos dicendi genere xai T\S xal, xal Tivef xal ,
similibus. Unum hu- ius dictionis exemplum nt com- memorem, in
Piat. Criton. p,4$. A. legitur; ZvvrjSrjS. JjSrj jaoI idxtv, <y
2 &lx parces t 6id xo jr oXXaxiX Sevpa q>oixdv’ xal ti xai
evepyeretxai vk i/iov, quo loro Stallhnumia rectius Buttniauuuf
edidit evepyexelxat, ille evepyhrjxca in textum re- cepit.
Sensus est; Er kennt mich scliou , o Socrates, da ich oft hierher
komme \ dann uud wann bekommt er aufch etwas von mir. Ad nostram
locum ut revertar, certissimum esse reor, Platonem non scripsisse
xai far aruxy xy ica\8epadxla. Satia enim erat dixisse far* avxy
xy itaiSepadxlq. aut addita xal vocula xa\ iv xy TCcaSepadxla. elXixpiy
dt X k Etymol. M. p. 298, 56. Sylb.. elXixpivrjS' 6 xaSapoS hqi\
d/Mtfifc kxepov. icapd xo eXv, 1 } Sep/iadia, xal xo xpivGOy q iv
xy £Xtf xexpi- /aevoS. Alii aliter hanc vocem explicare studuerant;
nobis, unde haec vox depromta sit, quaeren- tibus sponte se obtulit
salia comparatio , quod coquendo purius fit et clarius.
Salinatoribus igitur vox antiquitus propria fuisse videtur; deinde,
ut fit, ia quotidiauao vitae consuetudinem ita abiit, ut propria
eius signi- ficatio prorsus evanesceret, cfr* Symp. p. 211. E* xi
8rjxct , iqrq, olopeSa , el xoo ykvQixo avxo xo xaXov 18eiy
elXixpivls, xa$ a pov , a/iixxov , dXXd. /xi} avaicXecov dapxcov xe
av- $ p coTziv-ojv xal xpGopdxGov xal aXXyS itoXXi}? <pXvaplaS
$vrj- xrjS , aAA* avxo xo, Seiov xa- Xov 6vvaixo jaov o$i8hS
xa- xi8e\v ; Adde Piat. Menex. p. 245. cap. 17^ 8ia xo
eiXixpi- vdoS elvca h £X\7/yeS xal dpiy&ls fiapfidfiGJY. Sunt
igitur, Riicker- tus inquit, ol eiXixpivcaS vico Xovxov xov
"EpooxoS capptjpivoi, qui pure, sincere, ab hoc Amore aguntur,
nec admistum habent agxavtcn vovv ”6%uv • roxho Ss itlijOuc&i t< 3
yivuadxuv. XKQBOxsvccOfievoi yuQ, olfiat, tlalv ol ivrev&tv
agxu/iE- qnicquam de viliore illo et vul- ga ri.^
ov ydp i p oj 61 it ai8 cov , «AA* ineiSav x. x. A. Haec est
librorum omnium lectio, quam H. Stephaniis primus ita immutavit, ut
aAA’ iitsiddv verbis 7 voculam interponeret. Ea scriptio tum aliis tum
Stallbso- mio adeo probabilis visa est, ut eam in textum reciperet.
Con- stat autem , aAA* ?/ voculis du- plicem rationem, quae
proprie non nisi duabus enuntiationibus exprimi potest, in una
euuntiatione coniunctam indicari. Sic nostro loco dicere possis ov
ydp (npoxepov) ipcodt naidcov 7 iiteidav jjSrj apx&vxai
vovv $6X £lv t dicere possis etiam ov ydp ipcooi izaldGov, aAA’
(ipu>~ 6iv avtoov) insidar 7/67 ap- X<&vt ai vovv 1 l6x £
iv ’ His enun- tiatis in unum couflatis dicendi genus efficitur hoc
: ov ydp ipdodi nalScov, aAA* 7 / iiceiSdv X. t. A. Hoc per
se spectatum, cur reprehendas , non habebis. Nam quod Riickertus ad
h. 1, dubitare se ait, num recte jral- 8tS dici possiut ii, qui iam
pu- bescant, eo quidem argumento lectores non admodum movebuntur.
Quaeritur autem, an Pausa- nias ita locutus sit. Certi quid equidem
statuere non ausim, ve- risimile tamen mihi videtor, Pausaniam, cum
paullo ante AMATORES nominasset, qui eo delectentur, quod validius natura sit
atque intelligentia emineat, nostro loco non nisi oppositionis rationem
habuisse , Ttald&v nomen autem ita posuisse, ut idem sit atque
dvorjxoxdxav , quod p, 1 8 1 . B. reperitur. Eodem significatu
paullo infra dicit: XPV y ^ vopov elvat jn) ipav naiS 00 v ( h. e.
pueros immaturos ) , ivct p7) elS dd?jAov iroAAr) freovSt/
dv7]At6xEro. xo ydp xdov n aci- da) v xiAoS aSr/Aov, ol xeAevtcc
xaxlaS xal dpexi/S. Ceterum ellipticam enuntiationem habes, quam
cave per aposiopesin explicandam censeas. Expletior enuntiatio audit: ov
ydp ipcodt icaiScov, aAA* ineiddv ?/8 tj dp - Xcovxai vovv l6x £iv
y r dxe ipdj- 6iv avxGJV. Sensus est: Sio sind nicht
Liebhaber von noch unausgebildeten Knaben, sondern zeigeu sich
ihnen erst dann ais selche, weun iene anfangen Verstand zu bekommcn.
Schleiermacheri conversio: Dean sic He- ben nicht Kinder et q.
seqq., ea -de caussa minus nobis pro- batur, quod illud nomen
de utroque sexu intelligitur , h, 1, antem non nisi de masculo
sermo est. Noluit autem Pausanias dicere: orAA* 7/67 vovv
{(Sxovxcov, quia significantius indicatura» erat, amato ies id
agere, ut ea aetate, qAMASIOSua
intelligentia efflorescere posset , omni studio excolerent,
consilio adiuvarent, exemplo meliores reddereut. Hinc apx £
<S$ctt verbum appositum habes temporis momentum significans , quo tempore
amasiorum ingenia excoli possint, atque 7toXAy 6itov8y amatorum,
quae<, p. 181. E. commemoratur, eru- diri, porro iireiddv finali
parti- cula Pausanias usus est, tardum maturitatis proventum
depingens, x g 5 yeveidtixeiv. Ne hoc quidem, inquit Stallb.,
Pausaniae roi igav cog tov filov Szavra gvvetfofitvoi xal xoivy
OvfijiiaOofisvoi, alf! ovx t^cczccrrj 6 avrig , iv dtpQotivvr/ J.ajiovzig
wg viov, xazuyiluGavtts olxrfitQ^ai lz’ aliov ingenio indignam
est, quod aeta- tem illam adolescentium diligen- tias indicat, qua
perveniant ad maturitatem quandam rationis, et qua iam liceat veris
illis, quos dicit, amatoribus eorum uti consuetudine, Nimirum pubertas
est {/fit} ^nyjzetfrnr//, ut ait Nom. Od. X. 279. De hoc loco vid.
Comm. de Symp. Platonis. itape6xEvct6 pivoi ydp, olpat,
Eidiv seqq. Verba haec Stallbnumius convertit: Nam qui inde ab hoc
tempore amare incipiunt, ii se ita comparave- runt, ut velint per
totam vitam cum amasio suo versari, non quum eum, quippe quem
depre- henderint iuvenem, imperitum et imprudentem fefellerint ac
dece- perint, cum risu et contcmtu ad alium aufugere. — Participia
igi- tur ita posita censet Stallbaumius, ut ad praecedentis
participii ex- plicatiouem sequens fucer® exi- stimet. Sic iv
dfppotivvy A a- fidvTEf toS viov. quae verba Orellius in £zr'
dtppo6vvy Xa- fidvttS mutanda censuit , ovx iB,anati}6avTES verbis
explicau- dis inservire arbitratur. Nostro arbitratu non dubium
est, quin i^axarrj(javTcS participium ver- bis supra lectis tcov
datpdtcav fiaXXov v T&jy rpvx&v, iv drppo - 6vvr? XafiovtES
o oS viov, intifbc cjS dv dvvGovtai dvoTjzoTarajv respondeat.
Igitur hoc loco participia propriam ac suam potestatem habent, id quod
Orellius Eix pro iv scribendo indicaturus erat. Verba convertenda
sunt: Deno entschlossen sind, meino ich, die, welche das
mannliche Gesclilecht von diesem Alter aa zu lieben beginnen , die
gauze Lebenszeit mit ihm zusammen zu sein nud ein gemeinsames
Leben zu fuhren, nicht Betrug an ihm zu dben, nicht es in
seinem Iugendunverstan- de zu iiberlisten, nicht mit Hohn davon zu
gehen, indem sie zu einem andern ab- springen. Ceterum participia
cu mulari solent vinculis nullis col- ligata, quando loquens
inducitur, qui est animo commotiore, cfr» Gorg. p. 471. B. favidaS
xal xarapESvdaS avrov re xal tov viov avrov ’A\i%av6pov ,
dve- ifnov avrov , cfredoV r/A ixigjttjv, i p fiaXodv e 1$ ltpaB,av
7 vvxrcop i^ayaycjv ani- 6<pa£,Ev x. t. A. Adde Symp. p. 2
1 0 . D . xal fiXiiearv 7tpo$ noXi) 7/677 ro xaXov , prjxin r 6
itap Ivi — dyanuv x. r, A. i 71 dXXov dxor p i x° y
T E S. Aliquo modo hoc loquendi genus vernaculo sermone assequimur
quidem, sed repugnante plerumque dicendi usu. Aliena enim a nostrae
linguae indole illa facilitas est, quam felicita- tem vocare possis
, qua scripto- res Graeci complurium actionum rationes in una
enuntiatione con- iunctas exhibuerunt. Schleicr- macherus habet in
convers.: und von ihm zu einem cmdern zu entlaufeu. XPV
v ^ xal vdpov tlvat x . r.A. De XPVVU 1 verbi notione supra dictum
est p. 12 . dncrtQiyovtu;. XQ , 1 V vofiov ilvai firj igdv mxiScav,
ivcc fitj tls aSrjkov xolfo) Onovdij dvr t liaxtxQ. zo ydg zwv e
Ttaldav zti.og udrj?.ov ol Tlievza xaxiag xal ctgctqs Significat
autem: Debere aliqnem aliquid facere ita, ut, si id omi- serit ,
officio suo defuisse censeatur. Imperfecto eiusdem tempo- ris exprimitur:
Debuisse aliquem aliquid facere, quod revera non fecerit olTicium
suum male exse- cutus. Iam nostro loco quoniam non comparet, cui
male servati officii crimen imputare possis, verba hoe modo
convertere li- cet ; Eigentlich hiitte , wenn es nach Fug und Recht
gehen solite, ein Gesetz da^seiu miissen etc. Ceterum cave av
particulam XP*j y verbo adiungendam censeas. Ea enim si adderetur,
particulae potestas esset , ut, quod olim fieri oportuisse dictam sit,
idem nunc non opportere fieri indicetur. Sed oflicii quovis tempore
eadem conditio est, ut nou possit aliquo tempore officium esse,
quod idem alio tempore non officium ait. Alia ratio est Selv
verbi, quod quoniam necessitatem indicat extrinsecus illatam h. e.
cer- tis quibusdam de caussis ortam, £8ei dv commode dicere
possis ita, ut cedentibus iliis caussis vetere proverbio effectus
cessisse cogitetur; 18 ei dv autem significat, olim necessa- rium
fuisse, nunc autem non amplios necessarium esse. Et quoniam
saepissime contittgit; ut non amplius necessarium videatur
praesenti hora , quod olim ma- xime necessarium fait , non mi- rum
est, $8ei av crebro opud veteres scriptores reperiri ; con- tra XPV
V nusquam, quantum scio* occurrit apud veteres, coitis rei
argumentum est, quam supra commemoravi, officii constantia.
tva ut) eis aSrjXov — avTj XioxET o. Codices aliquot dvaMoxoixo
exhibent, quae le- ctio bene haberet hoc loco, si Pausanias non nisi
de possibili- tate, quam vocant, xov dvaXi -' tiHEdSca ageret.
Indicaturus autem ille aperte erat, saepe iam fa- ctum esse, ut AMATORES
AMASIOS frustra ad virtutem propellere studerent , ut unice rectum
censendum sit avtjXLoHETO . Optativi modi exemplum est Alcib. I. p„
105. E. YEGOXtpGD filEV OVV OVXl doi xal itplv xodavxrjS iXxidoS
yipEiv, gj £ ipoi doxEiy ovx sia. 6 5eoS diaXayeoSai , iva prj
fxaTTjv StaXey oiprj v. Opta- tivo autem modo Socrates hic utitur,
quod revera non expertus erat, ut in erudiendo Alcibiade frustra
operam consumeret. Adde Menon, p. 89. B. ouff TjptiS dv
TtapaXaftovxEf ixtivoov djzoepij- vdvxcDV icpvXaxTopEV Iv dxpo-
tcoXei — ivot pij8 eis avxovS 8lE<p$EipEV, aXX ETtElS)}
dtpLXoivxo eis xijy 7/Xixlav xp*j- Cipoi ylyvoivxo xals itoXtdiv. Plat.
Criton. p. 44. D. ti yap dxpEXov f cJ KpitcQV, oIoIxe eivat ol
noXXol x d piyi6xa xaxdf.£ep~ yd&CSau tv u oloixs i)6av xal
aya$d xd pkytdxa. vid r Rostii Gramm. §. 122. 12. to yap
x&v 7tai8wv xk- XoS x. x.'X. Duplici significata TtaiSajv
nomine Pausanias utitur, ut id aut masculum genus deno- tet cfr. p.
181. C. xal idxiv 4’vxrj s te jrtot xal 6ca(iaros. ot (uv ovv
ccya9ol rov vopov tovtov avtol avrolg exovteg ri&Evraf x9V v ^
ovtoS 6 tcov itai§Gdv w EpcoS — oSev 8 rj ini to afifiev
tpinov- tat x. t • A., «ut veootipovS significet, ut hoc loco.
Schleier- macheriis haec verba convertit: Denn bei den Kinderji ist
der Ausgang ungewiss, wo es hineus will, ob zur Schlechtigkeit
oder Tugend der Seele und des Lei- bes. Ut V. D. convertendum
censuit, h. e. virtutem a vitiosi- tate disjungendam , non conjungendam
cum eadem, ita Graeca verba scribenda sunt; nullo enim modo ferri
potest, quod in omni- bus editionibus exstat xccxlaS xal apErrjS .
Constat autem saepissime xal pro r/ et 7} pro xal exhiberi in
libris, ut non audacias agere censeri queat, qui sensu flagitante
verborum alteram vocem in alterius locum substi- tuat. Scribendum
igitur h. 1. puto esse xaxiaS r/ apEtijs. Ge- nitivos quod attinet
xaxiaS et apEtrjSy qui e praecedente loci adverbio pendent, vide
Matth. ampl. $. 324. p. 632. avtol avtols %xovxeS
tiSEVtai» Media forma Pau- sanias usus est TtSivat verbi, quod qui
legem scribunt, iidem illi legi sese subiiciunt. Eodem modo apud
Xenoph. Oecon. 9. 14. scriptum reperitur iv tatS EvvopovpivaiS
noXsdtv ovx ap- * XEIY SoXEt TOtS XoXltaiS , 7 JY vopovS xaXovS
ypa~ if> cjy t at , quo loco Pausaniae verba abundantia quadam
exhi- bita esse doceare. Satis erat dixisSe r ol plv ovv
dya$ol tOY YOpOY TOVtOY ixOYtES tl- Sevtai. Addidit autem
avtol avtolS 9 ut aequitas illorum ama- torum clarius
eluceret, qui ipsi nulla necessitate nrgente, sed li- berrima
voluntate {biovtES') il- lam legem scribant. tovtovS tovS
itavStf- povS ipadtaS, OvtoS pro- nomen nominibus praeponi
solet ita, ut significet, de aliqua re sermonem esse sive landanda
sive turpi, quae alias iam innotuerit* Igitur et laudis et
ignominiae exprimenda* notioni inservit. Ac nostro quidem loco non
obscu- ram esse potest, quo significatu pronomen accipiendum sit,
et recte Stallbaumius annotat, ovtoS cum contemtu dici.
Exempla huius usus ubivis obvia sunt. Laudat Stallbaumius Piat.
Criton. p. 45. A. ovx opacS tovtovS x ovS 6vxog>dvtaS coS
EvTeXeiS, quilus verbis occasionem datam video, de Sycophantarum
nomine quid mihi videatur, aperiendi. Ad- modum enim displicet,
quod Schol. annotat, ad Piat, de rep. I. apud Bekk. Comment. Crit.
T. II. p. 397* dvxotpavTTjS XkyEtat d iffEvSddS ti xtv oS
xatTjyopdiv. XExXijdSai 8* ovra> nap ./ISi/- vaiotS TCpdrtov
EvpESivtoS rov t pvxov rtjS dvxtjf, xal 8ta tovto xgoXvoytcjy
iZayeiv ta dvxa, tc ov dk (paivoYtGJV tovS i£d- yovtaS
dvxoq>avtcoY xXr]^h'-~ TGJVy dvviftrj xal t ovS 6na>So\jr
xarrjyopovvtaS ttvurv tptXane - X^TfpovooS ovtoj npoSayops->j -
$ijvai % Duplex schnl. eat ad Aristoph. Plut. 37. Alterum ctim
Platonico convenit, alteram haec habet : Xipov yEvopivov iv r y 9
Attixy tivls Xa$pp taS dvxxS taS atpiEpcopivaS toiS SeoiS ixapicovvtOy
pera 8h rav:at xui rovtovg tovg navdrjfiovg tgatixag
itQogavayxa&iv to roiovrov , wgittQ xal tc5v
EvSrjviaS ' yevope vtjS xanjyo- povv TOVZGDV rivis, xcti
£xel- $ev dvxocpctvrai Xiyovzai, Mae narrationes non dubium est
, quin fictae sint, qnibus 6vxo- qxxvr&v nomen explicetur.
Per- cit schol. Aristopli, evpijrai 61 itepl tovto v xcd hvepct
Idro- pia itavv ipvxpd, Sed ipsa illa schol, explicatio admodum
friget, 2vxo<pavTcov nomen a 6axxv- <pavT7jS descendit, dc
qua voce Pollux habet X. 192. otav drj- jLiodS&vrjS
Eiitrf GaxxvcpdvTaS, rovS itXixovraS rctiS ywcnBX XEXpvcpaXovS
axovovdiv, Hoc genus hominum consentaneum est loquacissimum fuisse
et cu- riosissimum nequitiaque refertis- simum, atque in omni re
tonso- ribus, obstetricibus, aliis similli- mum, Factum est autem
usa „ loquendi atque, ut in Piat, Cra- tyl. est p, 421. C. dia —
ro navraxy GrpicpedSai ra ovo - para, ut nomen 6vxxo<pdvnjS
audiret, ex quo 6vxo<pdvTi\S enatum, it poSav ay xd2,tiv to
roiovrov . Pauci libri pro t d roiovrov habpnt rdHv roiov- roov.
Exspectabas, inquit Stall- baumius, oldyitep idrl tovto, ori xal ro
ov iXEv^Epoav y . it . avtovS p?) ipav. Sed nihil mutandum. Annotat
Riickertus ad h. 1,: Spe- ctat pronomen ad snpra lecta verba pyj
ipav itaidoov. Neque habet duplex accusativus huic verbo iunctus
quicquam , quod offendat. Alia ratione nobis hic locus explicandus
videtur, Pausanias nimirum cum praedi- casset eorum amatorum
iustitiam et aequitatem, qui^ipsi tibi lu- ite v&igav
ywaixav xqos- beatissime illam legem imponant, nunc id agit,
ut non cogendos Pandemi amatores censeat, ut eandem legem sibi
scribant, at- que ab immaturis pueris absti- neant , sed statim ad
rationem cogendi abit, modumque indicat, quo modo viles isti
amatores ab immaturis retineri possint. Sen- tentia igitur verborum
haec est: Die guten Liebhaber legen sich dieses Gesetz aus eigenem
An- triebe aufj non muss man eigent- liph auch deo Anhiingern
des Pandemos dieses Gesetz aufdrin- gen, g an z in der Weise,
wie wir sie nach Kraften nothi— gen , freigebornen Frauen ihro
Liebe nicbt zu widmeu. Prono- mina generis neutrius cum arti- culo
coniuncta haud raro sic ad- hibentur , ut absolute ponantur atque
adverbii vices obtineant, . Sic in Piat. Phaedone legitur p.
65. B. olov ro roiovde XeycD, quo loco to towv6e absoluto positam
est, vehementerque dif- fert a verbis, quae leguntur Eutyphr. p.
13. B. olov toiovds se, Xiyco. Symp, p. 178. E., ad qnem locum vide
annotat, p. 61., t avrdv 6e tovto xcd rdv ipeo - pevov op&fiEV
, on x. T. A. ubi T avrov tovto est : ganz auf die- sflbe Weise.
Adde Piat, de Tep„ X. p. 605. B. t avrdv xal rdv piprjrixov
itotfjrr/v (pyjdopev — ipitoieiv x . r. A. Prorsus eodem modo ro
roiovrov positum est nostro loco. De plv ov v — Si particulis vide
aunot. p, 22» r qoy £Xev$& pcov ywai - xgjv — prj ipav.
Liberae mulieres ex hominum conspecta quam heri potuit maxime remo-
7 182 avayxatofiev ccvrovg, xa&’ 5 Oov dwapi&a, fiif
igav. ovroi yag tlaiv oi xai to oveidog ntnoirpimtg , ujtftt rivas
toAj iiav kiytw , co$ aloxgov jjK(x'£tC0ai IgaOralg. X iyovai 5a sl$
rovrovg unofiXbiovns , ogwvrig avrdv rrjv axuigiav xai ddixlav' htd ov
Sr/ xov xo6(Uas yi vehantur, cfr. Symp. p. 176. E. tals
yvvailA raiS IvSov, ad qnera locum Nepotis praefat. $. 7.
laudavimus p. 44. Mens Pausaniae hic esse videtor: De- bete, si
heri posset, pueros immatoros domi manere abscon- ditos, ut liberae
mulieres domi maneant, hominum adspectum fu- gientes , ne amatorum
prava se- dulitate corrumpantur. ovxoi ydp eidiv oi xai
x* t. A. Pronomen sequente ar- ticulo cum contemtu positum est, ut
supra tovrovS r ovf TtavSif- pouS. Sic p. 181. B. non sine
adhaerente ignominiae notione dicitur xai ovtoS idtiv , ov ob
cpavXoi rcov dv^pcditcov ipdodiv,, Kal vocula hoc modo explicanda
est: Isti enim cum aliorum ma- lorum, tum etiam auctores illius
rumoris sunt, quoad quidem non- nulli dicere non dubitant, torpe •
esse amatoribus gratificari. Pro < Sire TivdSf quae optimorum
co- dicum lectio est, vulgo tuSre rtvd legitur. Sed singularis
numerus minus aptus hoc loco, non quod sequitur pluralis numerus
Xiyovdi 81 x. r. A. , sed ne forte lateat lectorem, non certi cuiusdam
viri, sed populi rumorem hic tangi. Ad to oreiSoS Riickertns
anno- tavit: Graeci, quamvis frequen- tissimus usus sanxisset
quodam- modo hunc amorem , tamen ut probarent eum , nunquam
indu- xerunt animum, immo turpitudi- nis nota erat, non quidem
amasse pueros amatoribus , sed pueris amori eorum
satisjecisse . Aliter, atque Riickerto visum est, super puerorum
amore iudicarunt Grae- ci. Vide Commentat. de Symp. Platonis.
avrcov tTjy axaipiav xai aSixiav. cf. p. 181. D.
i&aKazrjdavreS , iv dtppodvvy XafiovreS coS viov , xatayeXa-
davtts olxytfedScu iit aXXov dnotplxovxES. Ibid. 1. B. itpoS to
8ianpd£>ct65ai pdvov fiXe- itovTtS, dpeXovvteS 61 tov xa- Acuff
?/ firj et q. seqq, i x el ot) Srjxov — yi . Haec est
optimorum codicum le- ctio; vulgo male ov Srjitov — re exhibetur, ri
ad verba perti- net , quibus appositum est, et conditionem indicat
ita, ut ap- prime Latinorum si quidem respondeat. 8tjxov voculam
quod attinet, supra de itov particulae significatu dictum est ad p.
180. D. Eius significatus vis 8tf ac- cedente, cui ironica potestas
est, ut in Piat. Menone p. 86. D. iireiSij 6h dv davxov pkv
ov8' imxetpeis apxtiv, tva 8 rj iXev- SepoS tjS , maximopere
augetur. Ficiuus verba convertit satis fri- gide, ut videtnr: nihil
autem, quod n\odeste etlegitime fit, vituperare decet. Verba
convertenda sunt potius: Dena es ktnn doch offenbar wol ir-
gend eine Handlung, wenn an- ders sie mit Maass und Fug un- xai
vofilfiag orwvv Ttgayucc nQuvcbtitvov i poyov av Si- xaiag tptQoi.
Kul 8rj xal 6 xcgl tov tgcoza vvfiog iv fiiv ra is ctM.cug itoktGt,
vorjecu gudiog' anXag yag SquStcu ' o 6’ iv&dds xal v iv AaxtSulyiovi
TtoixUog. iv "HXiSi B ternommen wird, tiicht mit Recht
getadelt werden. Prorsas eodem modo dicitor in Apol. Socr. no-
tissimo loco p. 20* C. o v ydp djfrtov dovye ovdev xcov aAA.Gov
nepixxoxepov npaypaxevopivov, t7TF.iT a toGavxij tprjpTj xe xal
AoyoS yiyovev x. r. A.., quo loco interpunctionem post dovye
delendan^ curavimus» Sensus est: Denn es hatte doch offcnbar wol,
vvenn auders du nichts weiteres gethan hiittest , ais die andern,
eia solches Gerede und Geschwatz nicht entstelien kdnnen» xal
8?) xal . Harum parti- cularum notionem Sehleiermache- rus in
conversione non reddidit, neque Ficinus easdem convertendo
expressit. Exhibet enim: lex utique de AMORE et q, seqq. Biickertus
ad h. 1. haec annotat - Particulae coniunctae xal 6r} xai ibi locum
habeut, ubi a genera- raliore sententia ad specialem transitur , h.
e. , quum id , quod in universum disputavimus, etiam de certa
aliqua re valere dici- mus, quo in nexu semper aliquid conclusionis
est. Habet igitur harum vocum quaevis vim suam nativam; quarum
prima copulat cum prioribus, altera vel conclusionem indicat, vel rem pro
certa ponit, quam particulae 8rj vim velim ostensivam appellare,
ter- tia adiungit, fierique subsumtio- riera docet» — Negari
nequit, xal 8rj xai particulas interdum ita a scriptoribus
adhibitas esse, ut iis transiri significent ail ea, quibus,
quae antea in universum dispntata essent, proben- tur. Cave tamen ,
omuibus in locis hanc particularum significationem veram habeas. Ac
no- stro quidem Joco Pausanias ad novam rem , b. e. ad
civitatium leges transit ita, ut, cum cora- memorusset p 182. A.
duplex de AMORE iudicium Atheniensium, quorum alii ipsum laudent,
alii vituperent, aliorum civitatium iudicia annectat, et quomodo
in- ter se differant, exponat. Ad eum rem commemorandam adi-
tum patefacit 8rj particula, quae quo magis emineat, initio
enuntiati ponenda erat, atque eidem xai expletivum , quo suf-
fulciatur, praefigendum, vide annot, p. 5* an ydp <2 pitixa
i. E recta ditA&S vocis explicatione sequentis verbi itoixiAoS
recta explicatio sequitur. Illud denotat actionis reive alfeuius
sim- plicissimam conditionem, qua ef- ficitur, ut facile possis et
quasi primo obtutu, quid sit actio sivo res inspecta, cognoscere.
Jlot- . xi\oS contra de plurimarum re- rum inprimisque de
colorum compositione valet, quae ita comparata est, ut nequeas
dicere statim, cuius coloris sit id, quod noixiXov vocatur. Hinc ad
ho- minem relatum noixiXoS eum significat, quem non tam ver-
sicolorem, quam varium appella- fiev yaQ kcc I Iv Boiorolg , xal ov firj
docpol Alysiv> ca tAiJg vEvqfio&itrjtai xalov eo %aQl£E6ftcci
Ipatiraig, xal ovx av ug tlxoi ovts veog ovts itcdcuog d>g al-
ti iQQVy iva , olfiat, ^XQaypcn? t%atit Aoyco «stgi»- rnnt et versipellem
Romani. No - //oS"; iroixiXoS est igitur lex, quao ex
ambiguitate sententiae labo- rat. Eius ambiguitatis in Athe-
niensium et Lacedaemoniorum lege Erotica exemplum explica- tius
enarratam habes p. 182* D. seqq. iv "IIAiS i plv yap\
seqq. Triplex apud Graecos de AMORE lex obvaluit. In Elide et in
Rocotia atque in iis civitatibus omnibus, quae eloquentia carebant,
obsequi amatoribus pulcrum habebatur. Apud Iones eosque, qui barbaris
subiecti erant, ut philosophicae gymoasticaeque exercitationes, ita
obsequium erga AMATORES dedecori erat. Ambigua lex erat apud
Athenienses et Lacedaemonios, ambiguumque indicium. Nimirum ro
xapl<Sa<$$ai ipadralS et pul- crum et turpe habebatur.
vEvopo^irrjrai. Sydenh. annotat, ad h, 1, laudatus u Wolfio
:• Dies Wort, wie das vor- hin nnd mehrmals gebrauchte vo- poS,
muss man nicht von einem geschriebenen Gesetz, von einer positiven
Satzung in ausdriick- lichen Worten verstehen , son- dern von
Gcwohnheit und Gebrauch , der nach und nach das Ansehn eines Gesetzes
gewiunt. cfr. p. 183* D. rjyrjdair av •xaXiv altixtdrov ro
roiovrov ivSaSe v o pi^ed^ai. In Piat. Cratyl. p. 384. v. 16. Bekk.
ov ydp tpvtiei kxddrca necpvxivat dvopa ov8hv ovdevi, dPiA.cz v
o- pep xal rc ov iSitidrtarv te xal xaAovvtcDV, Ib. p.
388, Hermogenes interrogatus a So- crate, quis nominum usum
sup- peditaverit, cum id nescire se confiteretur, ille ap ovxl ,
inquit, d vopoS doxei doi tlvat 6 xol- padidovS av ia i
Iva prj Ttpaypar x. r. A. His verbis Pausaniae indicium
continetur demonstrantis , qui factum sit , ut cautione adhibita nulla
paederastia in Boeotia et in Elide pulcra indi- caretur, Sed ex
ambiguitate qua- dam hoc indicium laborat, de qua interpretes nihil
annotarunt. Aut enim licere obsequi amatoribns dicit, ut impetrent
amatores, quod lege prohibente iuvenibus nunquam persuadere
possint, ut ipsis concedant, aut propterea legem illam latam
censet, ut iu- venes, quos Boeoti atque Elidenses admonitione non
possent, AMORIS vi ad virtutem impellerentur. Utra explicatio
rectior sit, in Commcnt* de Symp. Platonis explicatum habes.
r 7 } S 8 h 9 IcDviaS xal «A- XoSt n oAAaxov. Quid Pau-
sanias dicere voluerit, ut facil- lime intelligitur , ita
difficillima structurae ratio est, quam nemodum sati3 explicavit.
Plerique interpretes ad coniecturas inge- nii confugerant, quarum
numero pon minus turbatum te senties, quam ipsa difficultate
Platonici loci, H. Stephanus scribendum coniecit rrjs 81 IooviaS
jroAAa- fitvoi ntiftuv rovg veovg, Sn aSvvcttoi Ikyuv. r rj$ di 'I
avias xal aklo&i xoXku%ov altSxQov vtvo[u<Stai , cicJot vito
fiaQfiuQoig olxovGi. rotg yag fiaefidQOi s Sicc rag TVQawidus aloxQo v
tovxo ys, xal % yt <pdo<Soq>la r.al C ' x°v xal aAAoSz x.
r. A.; Thier- «chias ty 6i luriae, Astius rois 6 h 'iGDviaS
conieceruut. Ut elios silentio praeteream, ingeniose Riickertns
scribendam duxit rijS * IcarlaS xal aAAoSt #oAAa- Xov al6xpov
vevopidzat , pa- \i6xcl 6 * o6ql vno fiapfidpois olxov6iv.
Stallbaumius , vide, inquit , ne genitivas pendeat e pronomine vdoi
vel potius e pro- nomine demonstrativo ante 0601 intelligendo. Nemo
enim olTen- deret in his TrjS 61 'iooviaS xal dXXuv noXkuv x^pdjy
0601 vno fiapfidpois oixovdt , napd t ovroiS ai6xpov
vevopidrat. Quum autem orator post r 7/S 61 'iuvlaS posuisset
adverbia <*A~ Ao.9i noXXaxov, addidit statim aldxpovvevopidTcti,
quae sic non poterant commode alio Joco collocari, atque deinde demum
ad inchoatam structuram , quam in mente habuit, reverti putandas est.
Haec explicatio impeditissimae structnrae et ipsa impeditior est. Riickerti
ingeniosa quidem sed audacior coniectnra est, atque cura veritate rei
non satis conveniens. Ceterae coniecturae omnes ita comparatae
sunt, ut intelligere sane non possis, qui factam sit, ut lectio ad
sensum facilior in difficiliorem sit mutata. Ut meam, qualiscunque est,
sententiam proferam,' cum in praecedentibus Pausanias iv*H\i8i pev
yap xal iv Boiu- totS xal ov pi) Cocpoi XiyEiv dixisset, pev
particula adhibita, verba secutura esse indicavit, quae illis verbis
opponerentur, Ilaec oppositio ut validius emineret, ita instituta est, ut
altero membro oppositionis ad ulterios exemplar comparato
adhibitoque chiasmo gratissima varietate delecteris. Igitur cum proprie
dicere debuisset Pausanias iv 61 zy 'ioDviot , ut supra legitur iv
v H\i6i — xal iv BoiuzoiS, di- xit rif 'luvlat, nomen ad praecedens ov
comparans; pro aXXoov TtoXXuv x<* opuv , quod optime cum
sequente otioi — olxovdiv conciliaretur , «AAo3t ^roAAa^ov posuit ,
ut esset , quod praece- dentibus dativis cum iv praepo- sitione
coniunctis respouderet. Iam certam est, genitivum r rjS *Iuvia5 per
se spectatum non esse explicabilem ; excusabilem autem indicabis, si
ad prius oppositionis membrum respexeris. xal i} ye tpiXodo
epia. Gymnasia philosophorumque scho- las matres fuisse et altrices
pae- derastiae , a multis vantiquitatis scriptoribus traditum Cst.
Unum ut laudem, cfr, Cic, Tuse, Q, IV. 53. Mihi quidem haec
in Graecorum gymnasiis nata consuetudo videtur l in quibus isti
liberi et concessi sunt AMORES. Bene ergo Ennius: Flagitii prin-
cipium est nudare inter cives corpora , Persecuti autem esse
barbari dicuntur pari vehementia et filiam et matres , quia elatio-
res animos hominibus ingignerent, novarumque rerum studio pectora
incenderent. t) (pUoyvfivaarla. ov yag, olfiat, <Sv/uplgsi roig Sq-
XOVOi tpQovrjfiaTa fttydXa lyylyvs<s9at rav ag%ofievcov, o«(5e tpiltag
loxvgctg xai xotvmvLag, o drj fuelusxtt tpt- hi tu re ulla narra xai 6
"Egcog ifinoieiv. igya 6h tovto Pfia&ov xai oi tv&uSe
xvgavvot' 6 ydg 'AgiGxo- ov y <x p , olfiat. Olfiat
rerbam haud raro modestiae in- dicium est, indicatque, qui eo utitur se
nnimi iudicium pro opinione haberi velle. Nostro loco non sine
acerba ironia adhibitum est , cu- ius usus exemplum est Piat, de
rep. I. p. 337. A., ad quem lo- cum vide Stallbaumii annot.
<p po vrj pax a peydXa — fc 5 v upxopiroor. Minus apte
Sdileierroacherus convertit: grosse Einsichten. Amore efficiuntur
potius atque procrean- tur elatiores animi h. e. grossartige, kiihue
Gedanken. cfr. Me- jaex.p.239. fiu. cj v 6 ptr np&- XoS, KvpoS
, l\£v$FpGo6aS Tllp- tiaS rovs avrov TtoXlzaS tgj avrov <p
povr)fLaTi cepa xai rot)? diuitoTaS MifiovS idov - Xoodaxo x. r. A.
Pro tgjv ap- XOpivoov io aliquot codd. repe- ritur r diS apxopirotS
, quo casu Plato non usus est , ut dupli- cis dativi vel
ambiguitatem vel simplicitatem vitaret. Ne mireris autem lyylyvt6$ai
verbum siae dativo positum esse: paullo infra legitur o 81} paXiOxa
cpi- Xu — 6 *EpcoS ipzou.lv. Adde, quem locum lluckertus
laudat Piat, de rep. V. p. 464. D. tjSo- vdt re xai aX yijBovas
ipzoiouv- taS }$la>v ovxoov idlaS. o 8 1 } pdXi6x a
epiXei, Adhiberi solet singularis numerus pronominis relativi,
quando ad plura nomina refertur, quae plurali numero posita sunt.
Ultra pluralem numerum egredi non licuit , igitur singularis
repertus est generis neutrius, quo prae- cedentia
comprehenderentur, ra re dXXa narra. Annotat ad haec verba Schleier-
roacherus: Dieses andere al — les kann doch nur Philosophia tmd
Gymnastik sein , uud fur diese wenigeu Falle ist der Ausdruck etwas zu
reich. Allein, wo so viele Biicher alie schwei- gen , und die
Nothweudigkeit nicht sehr dringend ist, da ist andern vorwitzig.
Eine solche Nothwendigkeit scheint aberwobl vorhunden zu scin.
Igitur pro narra V. O. scribendum censuit xavxa, quam couiecturam
Riik- kertus vulgatae scripturae praefert. Monet contra Astius : sensum
esse verborum: prae ceteris omnibus maxime amor. Hoc ex- plicandi
genus et Stallbaumio placet, et nobis probatur. Pausaniae mens haec est:
nihil esse, quod non odium moveat tyrannorum,
philosophiam, gymnasticam, musicam, poesin alia hoc genus: nihil
autem mugis illis invisum esse, quam puerorum amorem, quo iuprimis
elatiores animi , firmae amicitiae atque contubernia efficerentur.
xax iXv6 ev avrcov rrjv dpx V v ' Pausaoiam h, 1. in historia
Pisistratidarum errasse primus, ut videtur, Abrah. Grono- ytltovog
Hq<os xcu tj 'Jgfiodlav tpMu filfiaiog ytvofiivt/ xctttXvOtv avrdv
xfjv KQ%i)v. ovuog, ov fiiv al6%Qov tte&i] xaQi&e&ai
£Qct<Staig > naula rdv ftipivav xuxcu, xdv fitv aQxovxov it
Xtovd-ia , rdv Si ciQxofiivav avav- W 8(/ia' ov dg xaXov aitldg
Ivouia&rj , Sia xyv rdv 9e- vins rectissime docuit in annotat,
ad Aelian. V. H. XI. 8. Tantam eaim abfuit, at interfecto Hipparcho
libertas civibus Athe- niensibus redderetur , ut potias Hippiae
tyrannis durissima secuta sit. cfr, Thucyd. VI. 54. Neque hic error
solius Pausaniae fuit, sed Atheniensium fere omninra, qui ob
libertatem restitutam Har- modium et Aristogitonem summopere colebant.
Sic in spolio no- bilissimo, quod apud Athenaeum exstat XV. p. 695.
B. dicitur: Ev pvptov xAordl to BiitpoS (pOf)lf Ogj
&SitEpApp68ioS x *Api6xoyeircav , ore rov xvpavvov
xxavlxj/v ItiovopovS r *A$ tjvaS licoi- rj6dxrjv. Nihil igitur
mutandum , neque interpretatione xataAveiv verbi potestas mitiganda
est, qua aperte indicatur, Pisistratidarum dominationem funditas eversam
esse. Restat, at paucis dicamus de verbis fiifiatoS yerdfiim/, quae
opposita esse videntur xaxeAvOev verbo. Minus placet Schlcier-
macheri conversio : denn des Aristogeiton und Harmodius zu einer festen
Freundschaft gedieliene Liebe zerstorte ibre Herrschaft.
Converterim equidem potias : Denn so wie die Liebe des Aristogeiton and
die Neigung des Harmodius Halt und Festigkeit gcwonneu hatte,
stiirzten sie die Herrschaft der Tyrannen. Ka- xeAvdev autem
dictam est, non xoneAvdar, at significantius indicetur, nou viros ipsos,
sed animum elatiorem, qui EX MUTUO AMORE natus sit, interitas aucto-
rem fuisse. xaxiac rc ov 5 epiv cov. ol Siperotf ut sequentia
docent, et tyranni sunt, et ii , qui tyrannis sublecti sunt.
KetdSai, de tabulis solenne, quibus leges inscribebantur, de more
dicitur, qui hominum pectoribus intixus est atque quasi
innatus. rijs i>vxy S apyiav. Sa- pra dictum habes: tva f
oipai, pr) npaypax ixatit A oya> nei - pcopevoi TCeiSnv xovS
viovS. Recte igitur apyiav xijS tyvxijS converteris: Tragheit,
Stumpfheit des Geistes. 'Ey$ vpTjSivzi y ctp. Hia
verbis quid respondeat in proximis, non reperies. Igitur Pausaniam inceptae
verborum structurae oblitum recte existimave- ris, ut Stallbaumias
censet, qui Ex hoo loco , inquit, Pausa- niae ingenium plane
cognoscas, qui plurimis sententiis coacervatis magooque cnm studio
collectis deinde inchoatae structurae adeo obliviscitur, ut videatur
ia alia omnia abiisse, donec ad ex- tremum in memoriam eorum
re- deat, de quibus ab initio coepe rat dicere. Nos Stallbaumio
clementiores oratori nou praemeditato largiendum esse ceu-
I fdvcav TTjS *l>vxrj$ agylav.
Iv&ude Sl itokv tovxcav xctk- Xlov vevofio&iTijTcu xal, SjtEQ
tlxov, ov {tudiov xata- voijCui. Cap. X.
'Ev&vfirj&Evu yccQ, ott Ityecat. xaXkwv r 6 tpavE- * ptag
Iq&v rov lu%Qa, xal fuxfooxa vav yEwmotatav semus hoc, at
interdata, senten- tiarum accedente mole, quae me- ditatione in
ordinem non digesta sit, ab incepta structura oratio deflectat.
Aestu sententiarum refrigerato Pausanias ad oratio- nem suam
revertit p, 183. C. rauxy plv ovv otySeirt av xi$ x, T. A. ut eum
dicturum fuisse colligas : <pi\odo<pla$ xd piyidta xapnotx dv
oveldrj, ndyxaXov 6 o£eiev av vopigedSai iv xy8e xy ndXei xal xd
ipdv xal rd <pi\ov$ yiyvedSai xois ipa- dxcaS. rd
q>avEp&$ ipdv rov XdSpa. Aperte amare pulcriua esse, quam
tecte amare nusquam, si lionc locum exceperis , apud Platonem
commemoratur. Con- sentaneum, est autem, Athenien- ses sic
consuisse, ut ab improbo bonus amator facilius discerne- retur.
Convenit cum nostris verbis, quod infra legitur p. 184. A, rovrovs
87} ftovXexai o ypi- tepoS vopos eu xal xaAdoS fiat- davi^Eiv x, r.
A. In sequenti- bus yervaidraroi iuvenes intel- liguntnr
nobilissimo loco orti ; aptdxoi sunt, qui optima indole gaudent,
aldxlovS autem epithe- ton de corporis, non item de animi habitu
accipiendum est. Sententia verborum est; Dicitur h, e. censetur (
nara Xiytxai eiusdem h. 1. significationis est atque
vopi^exat, neque dubiam est, quin hominum iudiciam tan- gatur, quod
vopoS a Pausania vocatur, vid. annot* p. 100.), dicitur igitur pulcrius
esse aperte quam tecte AMARE iubetnrque AMATOR AMARE quam maxime fieri
potest, nobilissimos atque optima indole praebitos, etiamsi minus for-
mositate excellant. ovx &S tl aidxpdv 7Coi- O vvxi. Stallbanmius
haec verba arctius cum praecedentibus coniungenda censet, quae hanc in se .
» h sententiam contineant: xal oxt 7) napaxtXzvdiS rrJ
ipdUvxi napdt itctvx&Y ylyvtxai ok $ av p a - dxov xi
itoiovvxi, Displicet haec explicatio duabus de caussis } primum aliud
quid sensisse Pausanias perhibetnr, quam qaod verbis expressit,
deinde si ponas, cum ita sensisse, admodum frigent sequentia xal itpoS xo
ini - XEipelv — i^ovdiav 6 vopoS 6 £8 coxe rej ipadxy Savpa-
dxa Ipya ipyaZopevcp iitat - VEitiSaif de quorum verborum sensu mox
dicetur. ' Verba ovx <yf xi aidxpov 7Xoiovvxi ad rc3 ipwrxi
pertinent, apposita autem sunt propter napaxeXevdiX padxtf verborum
ambiguitatem. JJapaxiXsvdiS enim et iis fit, qui aliquid facere
jubentur , et iis , qui aliquid ut ne faciant, admonentur. Possit
igitur li. 1. xal agldtav, xav al6%iov g cUrav wGi, xal ori au tj
xagaxblevG ig ta igairu maga jcavtav davfiaGz!] — ov% ag %i al6%gov
itowvvxi — xal eXovti te xculor Soxtl ilvai xal (it/ slovri alti%g'ov,
xal ngog ro etii^uqhv e tkuv i^ovGlav 6 vouog dlSaxt tcj iga&ty
&av(ia6ta %gya Igyaifiiiiva tnaivEiG&ai , a ei ng roXfup//
tcoleiv aXti Iruovv diaxav xal povXuuevog biaitgalaa&ai icXr/y
183 re» ipiUvTi xapaxiAevdiS etiam ita intelligi, at uoa
amplius AMARO AMANS iubeatur. Sed ne haec verba sic intelligerentar ,
Pausa- nias ovx fifr xi aldxpdv noiovvxi verba apposuit* Sententia
totius loci haec est: Si quis reputat apud se, — ingentem ab
omni- bus cohortationem fieri amapti non quasi turpe aliquid
faceret et q. seqq, xal kXovxi xe xaXov, K venatione
repetuutur verba in re amatoria usurpari solita; qui amat , duaxei
, si res succedit, alpel XOV ipcopevov, AMATUS aXtdxexai. Riickert*
N 011 sine caussa iisdem venatoriis verbis Plato etiam de vero
indagando utitur, cuius usus exempla non rara sunt. cf.
Stallbaumium ad Piat, Phaedon, p. C6. A. Cete- rum cum eodem
Stallbaumio e praecedentibus verbis dxi parti- culam repetere
nolumus; etenim iam his verbis Pausanias ab incepta structura verborum
defle- xisse videtur. xal 7tpoS x 6 iittxei pstv ZitaiveidSai,
Non caret hic locus difficultate. Stallbaumius verba convertenda
censet: et quod attinet ad studium amasii capiendi etiam
laudari licere quamvis AMATOREM mira lacientem. Quae conversio e
duplici vitio laborat, quorum alterum est in male intellecta 7CpoS
praepo- sitione, de altero paullo iufra di- cetur. Certissimum hoc
est, at- que xal ante — „ xe — xal vocula posita probatur,
verba kXovxi xe xaXov 8oxel elvat, xal p?} kXovxt aldxpoy
posita essp, ut confirmentur praeceden- tia ovx ri aldxpoy
Ttoiovvxi. Interdum enim Graeci, qnae ad- dita caussali particula
proferenda sunt, praecedentibus copula ad- hibita annectunt. Possis
igitur verba convertere: nicht, ais vena er etwas hassliclies
tbate, denu wer Beute fing, dem wird Lob zu Theil, dem
beutcloseu folgt Sclimach. Recte igitur post Savpadxri et post
aldxpoy li- neolas posuisse nobis videmur, quippe quibus legentium
ocu- lis , quae enuntiationes arctius coniungendae sint, indicetQr.
Iam non dubium est, quin verba ori av rj TzapaxtXivdi? rw
tpajpxi napa ndvxQjv Savpecdxij de studio amasii dicantur, quod
in- fra vocatur xo imxsipEiv kXetv. Non verisimile igitur,
Pansaniam cum cohortationem amatoris commemorasset h. e. cius , qui
cupiendi amasii cupidus est, itu perrexisse: xal itpd? xd iiti -
Xeiptir kXetv et quod attiuct ad studium amasii capiendi» Desideratur
nimirum rovro, [(piXotSoyiag'] ra (ityiata kccqi rott av ovsidrj. tl
yag »; X9W a ra fiovlofiBvos i tagd rov lafieiv fj ccQxr/v ag^ai i j tlv
akXrjv dvvctiuv idtloi xouiv ola neg ol yi particula, qua respici
indicetur ad id t de qno iarn sapra dictnra sit: xai TtpoS ye x 6
Imxetpety ?(. x. A. Non parvi aestimandum Astii evpTjftat, quo
illud deside- rium mitigatur: xal npoS x<p tjnxnpuy kXeiv
x. x. A. Cave, tamen coniecturam aliquam pro- bes , ubi codd.
lectio commode explicatur. Rectissime autem Ficinus verba convertit
: Ad AMATUM sibi conciliandum; codcmque modo Schleierm icherns: u m
den Versuch z 0 ' m a - i- heu, ob er i'lin gewinnen konue. Quod
verba attinet t&ovtitay — 6f.6g.ixf — lucuveraSctij mira
Stallbaumiana ex- plicandi ratio, qua lex permit- tere dicitur amatori,
ut laudetur. Quamquam satis intelligitur quidem, quid sit, quod dicitur
permittere alicui, ut laudetur, tamen non lau- dabilem hanc
dictionem merito censeas. Non autem id agit h\x ad augendum amasii
capieudi studium, ut, quamvis mira faciat amator, tamen eundem Inudandum
censeat, sed ea sine dedecore facere permittit, quae si quis alius
h. e. non amans facere auderet, summopere vituperaretur. Posi- tura
igitur participium pro' infinitivo est, infinitivus participii Jocum
obtinet notissimo Graecorum usu, qui iam apud Home- rum haud infrequens,
cfr. II. IX. 540. oS xenia rroAA* Ip6e6xtv t'5ci)v pro oS itoAAa
xaxd ip- Guv Proprie igitur Pausanias dicturus erat: xal TtpoS x 6
litixtipcty kXely iZovdlccv 6 YopoS SlSwce xg> lpa6xy $av-
pa<$td Mpya i py agetiS ai xai ( sc. dldooxe ) litatvFitiSai
lit\ xovtcj . Ad 816coxf e praecedentibus ne l£,6v6iay nomen ad-
dendum censeas, videunnot. p. 89. [ip i\o 6 oq>iaS] x a plyi~
6ta xapitotx’ dv oyeidtj. Uncis inclusimus <pi\o6oq>iaS
nomen, quod nullo modo ferri potest. Idem Bekkerns fecit rectissime.
Stallbaumius, ut veritatem illius nominis probaret» verba convertenda
censuit; quae si quis faceret alias, eruditorum maxima acciperet
opprobria. Sed agitur hoc loco non tam de eruditorum indicio , quam
de totius populi existhnatioue, neque aliud tangit Pausanias , nisi
roV TtEpl XOY "EpeJta vdpor , ad quem con- •titiieuduin
eruditorum iudicia aliquid conferunt tantummodo, non omnem
constituunt. Iam quaeritur, quo modo haec vocula iu textam
irrepserit. Diximus de haere in Commentat. de Syra- pos. Platonis,
ad quam lectores ablegamus. 7 / t iv* aX \ tj v &v vapiv.
Uniusmodi zeugmata non rara sunt apud scriptores Graecos,
quotidiani sermonis indicia, non praemeditatae orationis orna-
menta. Idem dicendi genus ROMANIS in usu fuit, siquidem apud Terent,
exstat in Andr. I. 1. 28 « Quod plerique omnes faciunt adu- '
lesccntuli ; tQtttiTtti ngog ra naiSixd, Ixttflag te xtd
dvTifioXriOug iv Tcclg dirjdiCt noiov/itvoi, xal opxovg 6 /ivvvrcg,
xal xoifu/O sig in i frvQtug, xal i&iXovtag SovXtiag dovXeveiv
Ut animam ad aliquod studium udiungaut, aut equos Alere, aut
canes ad renandum, aut ad philosophos, Horum ille nihil egregie
praeter cetera Studebat. Idem dicendi genus patillo infra
recurrit: xal xoipr)6etS ini 5v- pai$, quo loco frustra xotpGopE-
voS Bastius addendum, Riickertus transponenda verba esse censuerunt. Alia
ratio est Piat. Apol. S. p. 23. D. xccvxa Xlyovdiv, oxi x a
/.UTc&pa xal ra vno jniS , xal SeqvS /«?} vopi?,Eiv xal xuv yxxo
0 A oyov xpeixxGO n oze/K, quibus verbis variae hominum
susurra** tiones ielicissime depinguntur adiuncta simul temporis,
quo edebantur, diversitate. Ac temporis quidem diversitatem mutatio
structurae indicat, fiuitorum verborum omissiones hominum
opinantium, haesitan- tium, aliquid aut nihil scientium sermones
depiugunt. Brevius de eadem re et signifi- cantius, adde sis
lepidius, Socrates loquitur Apol. S. p. 18, B. ipov yap ttoAAoi
xaxrjyopot ytyo- radi npo 1 » vpds, xal naXai itoXXa 7/drj Hxtj xal
ovSlv aXe- A eyovTES7 quibus verbis et multos iam annos
accusatores exstitisse dicuntor nihilqoe veri dixisse; his tertium
additur, quod verborum sono Socrates assecutas est. Dixit nimirum itaXai
- jcoXXayjSijecrj, quod sonat ut natJcdXtj , atque vanos
accusatorum susurrationes rumoresque lepidissime describit.
xal o p no vi d j-ivvvte?. Num iureinrando non nisi amanti uti
licuit? Quid, si quis pecu- niam ab aliquo sumsit, non debere censendus
est ad reddendum se inreiorando obstringere ? Aut qui rei publicae
administrandae praeponendus est, eine cives se iniurato subiicient?
Non dubium est, quin upxovS dpvvvtES de periurio inteliigendum sit
, quod iu quavis alia re turpissimum, in amore, e Pausaniae certe
senten- t a, maxime excusabile est. Quaeritur autem , qui possit
opxovS o/.ivuvteS periurare signifi- care, Pluralis numerus
upxovS indicat, ut videtur, iusiuran- dum semper in ore gerere, at,
quicquid dixeris, eodem confirmes. Hoc qni faciunt, iurmuraudi
sanctitatem non magui aestimare solent, eo- demque haud raro
confirmare, quod est fulsissimnm. Iliuc fa- ctum, ut upxovf
oprvvrfS haud raro peri uros significet. xal xoipijdeis ini
3*J- paiS. Amatores pernoctare so- lebaut ante fores amasiorum ,
ut severitatem eorum misericordia adhibita/ infringerent.
Notum Nasonis praeceptura est: Auto fores iaceat; crudelis
ianua! clamet» xal eXoyt af 5oij- A eiaS 8 ovXevetr ,
Vulgo l$£\ovtdS legitur, quod imme- rito Astius in iSeXorxai
immu- tandum cenauit, Recentiores edi* tores ad unum omnes
/SeXoi'T£S probaverunt , quod plurimorum ”3*. olag ot56’ av
dovlog ovdelg, l/ixoSt£oito av ftrj it pat- ii thv ovtci tjjv XQcrhv xal
vito (pD.av xal vtcd effipav, t(5v [tfv vveidi^ovrcov xo kaxdas xal
KveAev&epias , tav de vov&etovvtuv xal ala^wo/ilrm’ vnep avtcaV
ra 6’ fpuvn navta tuita noiovvu %a.Qi s iitedti , xal dtdotai
codicum auctoritate confirmatur, u Stullbaumio autem ita
expli- catur, quasi positum sit pro xal iSeXovzl SovAeiaS
8ov~ AevovxaS. Eius videlicet loquendi normae memor est, de qila
diximus p 106. Praeplacet nobis i%eAov~ xaS, quod arctius cum
dovXevetv iuhnitivo coniunctum notionem c ilicit iSeAoSovAeUtS,
quae infra commemoratur p* 1S4. C. avtjf av i/ i5tAo8ovAela ovx
ai6xpd tlvai ov8s xoAaxda. Adde prae- terea p. i84. B. c Zsnep ini
xolS ipadxaiS fjy dovAtvetv iSeAoYxa ifYTivovv SovAeiav x. r.
A. ijnt o 8 igoiT o av pj) 7 T pdx r eiv ♦ Impediendi
verba vel cum solo infinitivo exhiberi soleut, vel addito infinitivo,
qui cum jn} couianctus est, si im- pediri significant, ne
quid t‘i a t. Contra ubi cautio indi- canda est, ne fiat, quod
iam saepius factum sit, infinitivus cum prj et articulo*
exhibetur. Exemplo e$t Thuc. III. 1., quem Incani Riickerti
industriae debeo, flpyw xo J17J TtpOE^lOVlLXS XWV OitAojy xd iyyvS
rijS 71 u AecoS Xtthovpytlv. xal aldyvv o ji iveay vnlp
(xvttv y- lTep\ ovtcHv B ii cicer to videtur non ad actiones
referen- dum esse, quas aliquis commisit, sed ad homiuem, a quo sunt
pa- tratae, Habet haec explicatio, quo so commendet, neque
oilicit eidem pluralis numerus, ad quem a singulari numero Graeci
solent interdum transire, Praeplacet tamen nobis ea explicandi
ratio, quam cum ceteris interpretibus Schleicrtnaclierus recepit.
Verba convertit: indem dieso ihm Schmeichelci und
INiedrigkeit vor- werfen, ieue ihn zurecht wei- sen und sich
dariiber acharnen wiirden. xal Sedoxat t )ico rov r 6
jio v dvev 6 v e 18 ovS np . Prorsus eodem modo , quam- quam verbis
paullisper immuta- tis, p. 182. E. xal — iZovdiav 6 vdpoS 8i8coxe
rc3 Ipadxjj Savjiadra ipya ipya? t opeva) iitaiveidSai. Iu
sequentibus pro bianpaxxopLvov veteres editt, codicesque pauci
8ianpaxropiv(p ex 'libent, quae scriptio quoniam ad explicandum
facilior est, quam illa, minus est hoc loco probanda. Possis
conferre cum nostris ver- bis, quae leguntur p. 182* C, , xal
oxi av 1 } napaxiAevdiS rc3 ip&vri napd ndvxoov Savjxa- c ni}
ovx <*jS xi aidxpov noi- OVYTl. o 8 e 8 eiYoxaxov x,
t. A. Rarior haec structura, eademque oratorio dicendi generi
apprime couveiiieus ; vide Matth, Gramm, ampl. 482, p. 806,
Verba convertenda suntvQ uod autem gravissimum est, h o p
est, quod cet. Quae sequuntur verba, &S ye Akyovdiv ol
noA- A ol et ad praecedentia referri vxo tov v6(iov ccviv oveiSovg
xquvcuv, wg xayxttXbv. u jtQayfi a SiaXQcmofiivov. o di duvbtarov , Sg yt
Xt- yovGiv oi jtoXXol, on xal opvvvti fiova Ovyyvatfii] naga &ec5v
ixfidvrt jwv oqxov ' utpQodiGiov yctQ opxov ov (fdGiv elvcu. ovto xal vi
&eol xal o i av&gazoi xaGav possunt, et ad sequentia;
quae- ritor, utra relatio rectior sit Ruckertus ad h. 1. Verba, in-
quit, gjS yt Atyovdiv ol itoXKol non ad seqq. referenda sunt, quasi
dicat: quod vulgo dicunt veniam esse cett., hoc enim ipse sentit
Pausanias pariter atque vulgus, in eo autem discrepat, quod vulgus
hanc rem gravem, admirabilem putat esse, qnipJ| quod caussam
ignoret; ipse auten^ gnarus caussae, non admiratur. Pertinent
igitur haec verba ad adiect. 8tivotaxov\ Quod autem gravissimum est
ex vulgi quidem sententia, hoc est , quod cet. Re- ctius quam
Ruckertus f fecit , Schleiermacherus et Astius de ho- rum verborum
explicatione cen- suernnt. Verba nimirum ojS yt Xkyovdiv ol TtoXXol
ad sequen- tia trahenda esse, ipsius Pausaniae verbis , quae
insequuntur, demonstratur. Dicit nimirum d<ppo8i6iov yap opxov
ov <p ce- ti iv elvccij a quibus verbis, quo- niam suum indicium
Pausanias secludit, satis apparet, eundem de impunitate periurii
certe du- bitavisse. Quid, quod Pausanias p. 183. E. turpis amoris
indi- cium censet, si quis amasium aetate provectiorem
relinquat, jcoWovS A oyovS xalvno- dx&<> £1 *
xqraidxvvaS, umn verisimile est, eundem per- iurii impunitatem
credidisse? Certissimum igitur est verba cjS yt Aiyovdtv ol zoAAol
ad se- quentia pertinere, quibus ea prae- posita sunt, ut
clarius appareat, vulgus , non Pausaniam sic iu- dicare*
ixfidvti t gj v opxoov. Stnllbaumius FJekkerum secutus ut
exquisitius tov opxov in textum recepit, quae lectio Vindobb* duorum est
; eadem apud Cyril- lum adv. Iulian. VI. p. 187. re- peritur. Sed
minus placet nu- merus singularis, (vid. p. 107.) et genitivi, quem
plurimi codd* habent, certissimum exemplum Ruckertus suppeditat de
rep. I* p. 538. E. tov tovtov ixfial- vovra xoAd^oudir, Vix
iutel- ligitur autem, cur Plato hoc loco exquisitiorem verborum
structu- ram admiserit, alio loco eandem probaverit minus.
dcppo8 i diov y a p op- xov. Schol. habet ad h. U d(ppo8idtoS
opxoS ovx Ipnoi - vipaS, ikl ttav 6i Hpt&TOt dpvvv- tgjk
itoXAaxis xal intopxovv- tcov ptpvrfxai 81 tavti/S xal 'IldioSoS
Aiyarv, ’Ex tovS’ opxov £St/xev apti- vova dvSpcoxoidt,
vod(pi8laov ipyoov ittprl Kvitpi - 8oS. xal TIA.d.toav iv.
Svputodicp. cfr* Aristaenet. II. 20. p. 105. tov£ 8h opxov? avrol
(parh p?} itpoS- Ttikd&iY zois g )dl tgov Secor. Adde Epigr.
Callim. IX. v. 3* in Anthol* Gr. Iacobsii T. I. p. 214. C
llovtilctv ntJtoirjxatii tu tQavn, wg o v6(iog (prjdv o ivftads. rccury
[ilv ovv ohftdrj av ng nayxaXov vofii- & 0 &cu iv ryde rij ndXu
xal ro igav xcc i ro xplXovg ytyv£0&ai toig igaOtaig. insidav da
naidaycoyovg ini - CryOav rsg oi narigsg tolg igcsuevoig firj ico6i
diaXs- yeti&ca xolg igaCralg, xai ra naidayaytp rctvta ngogre-
tofioCev' aXXd Xlycvtiiv aXifiia, ita aggressos est, ut p. 183.
D. rovS iv ipcoxi diceret: eif xavxa xiS av dpxovS pij Svvetv
ovar is aSa- fiXitfuxS» His verbis ioest autem, 4 h * vutgjy. quod
minos bene habere videtor. ovtcd xa\ ol 2 eoi. Si Constat quidem,
5i purtjcnlam non addita essent verba coS 6 adhiberi saepenumero ,
ut ad vdfioS (pjjolv d ivScide , ncmi- praecedentia orationem
recurrero nem esse puto , qui Pausaniae eaqoe quasi resumere
indicetur, argumentationem non rideret. sed ita tamen noster locus
com- Colligeret nimirum ille e vulgiJkuratus est, ut foitiorem
parti- de periurio sententia, eoius ve-^Ptulam desiderare videatur.
Eau- ritatem ipse addubitare se osteu- dem in lectione vulgata habes
: dit, d«*os revera summam agendi eis 6r t xavxa XiS av ftX itpaS,
• licentiam AMANTIBUS concessisse. quam recepissem in textum,
si Addito autem d)S d vdpoS (ptj6iY plurimorum codicum auctoritas
6 ivSade nihil, quod reprehen- non obstaret. De paedagogis,
das, habebis. Ceterum discas ex qui puerorum et puellarum do- liis
verbis, qua potestate vofioS ctores fuerunt atque doctores, nomen
Pausanias exhibeat. Si- Stallbaumius laudavit Piguorium gniiicat
enim nihil aliud, quam De Servis p. 116. seqq. rulgi opinionem.
ftif ico6i SiaXeyetiSai xavxy /ilv ovv olrj^eitf x otS i p a6x ais
. Ad senten- av xiS. Si quis igitur reputat tiam quod attinet,
nihil est in apud se, pulcrum haberi xd ipdv bis verbis , quod
reprehendas, ita, ut, qui amet, potitus amasii Dicuntur nimirum patres
familias laudetur, eidemque iurato periurii pueris praeficere, qui
prohibeant, poena apud deos nulla esse ere- no cum amatoribus
congrediantur datur, is dubitare non potest, quin coufabulenturque.
Sed si ad iu hacce civitate pulcherrimum cen- conformationem
enuntiationis re- aeatur et amatorem puerorum esse spicis, duplici dativo
offenderis, et amatpri amasium gratificari, quem Graeci scriptores
perraro iiteiddv 51 7t ai6 ay co - admiserunt, quippe osores acer-
bo vS. Plenius si dicere Pausa- rimi fortuitae ambiguitatis. Unum nias
voluisset, verba audirent exemplum huius rei ut afferam, ineiddv de xiS
opii, oxi ine6xy- Plato insolei^iorem verborum 6av ol natepeS —
tjyijcaix' dv structuram admittere maluit, quam x. x. A. Sed ipsam
rem h, e, duplici dativo ambiguam oratio- xo i7tt6xTjvat xovS
TtaxipaS x. nem edere atque e nominum s^- x. A. non intercedente
upa verbo millima terminatione laborantem tayniva y, rjfoiudtTai de xccl
eraigoi dveidl£co6iv, euv xi ogatii roLovro yiyvofievov , xcd rovg 6
veidi£ovtag .av oi 7tQS0pvtfQ0i (i?'j 6ucxco?.vcoCt prjdh koidoQcoCtv cdg
ovx D OQftug Myovrag, elg de ravta ng av fiAi^ag rjyyCcxLx av naXiv
td6%i6xov ro tolovtov ivftade vopltecftai. Td de, oluca , cJd’ ov%
ccTthovv iouv , onsg p. 182. C. OV tivjupfpu TOlS a pxov 6 1
tppovijpaxa peydXa iyylyve6$cti zoS v dpxope- vcov, ad quem locum
vide annotationem p. 102. Nostra verba quod attiuet , videtur
du- plicem dativum Flato admisisse* ne nescias, amasios an amatores
confabulandi facultate privare dicantur amasiorum patres. Quoniam autem
amatorum pro- prium erat, ut loquendi cum amasiis initium facerent,
non amasiorum, ut cum amatoribus: optime Orellius pro xaiS ipa
- tirc&S scribendum esse vidit xovS ipadxds, z 6
6^, oi/utt, To 8i poni solet, ubi ab opinionum falsarum mentione ad
id, quod rectius est et verius, tranaitur. Hinc re vera autem
verborum significationem esse Biickertus censet. Recte. Prin-
cipium, inquit, hic usus duxisse videtur, ab eiusmodi enuntiatis,
quale hoc nostrum est, ut ro 8i revera esset illud autem, sub-
iectique vim haberet suo in mem- bro , quod deinde alterum exci-
peret d<5vv8ixG)X, at h.l., postea contracta sunt in uuum duo
haec membra, et quidem vel sic, ut td maneret subjectum, quod
ad rem, de qua sermo esset, respiceret, suumque haberet subsequens
praedicatum , vel at subiecti vim plane amitteret. xal ro3 naidaycoycp r
avxa xpoSxezaypera y. h. e. and dem Fiihrer dies ausdriicklich xur
Pflicht gemacht ist sc. fttf idr xotS Ipcouf.voiS 6ia- } AiyttiSaci
xovzipatixdr. Iu sequentibus libri ad unum omnes ixepoi exhibent, quod
praeennte Heiudorfio ad Piat. Pbaedr. p. 210. plerique editores in
ixalpoi immutaverunt. Schleiermacherus , quem Riickertas secutus est,
ui- mia cura, ut videtur, JVepot retinuerunt. Adnumerandus hic
locus iis est, quos summa con- stantia male exhibuerunt codd. Vide
p 21. annot, ad verba npo 6 xov. ovx anXovr l6x\v y
oizep seqq. Respicit Pausanias ad verba cap. VIII. TcaCa ydp'
itpa£,iS gj6* avtt) lq> ccvxijs Ttpat- TopkvTj ovxe xaXjj ovxe
aiCxpd d\\’ iv ry npa£ei, d>> av npax^ift xoiovxor dnifir/.
Fue- runt, qui uegutionem ante nr^Aotiv positam uncis includerent
tan- quam ineptum scribarum additamentum; alii alia ratioue locum
sanissimum emendare studuerunt, v. c. Astius eivoct omisso, quod in codd.
aliquot non comparet, scribendum censuit: ovx chzXajS idxlr, onep
IB, ap- XyS &\&x2V > ovxe xaAov avtd xa$*avx6 ovxe
aitixpov . — Qoo minus recte verba intelligerentur, interpunctio
impedimento fuit, quam post iXix$V * n omnibus £* aQxrj s IA s%fhj
ovts xakov ilvca avxo xa&' atrto (wtb cdaxQov , dXka xakug fisv
ngccrrofievov xukbv, altSxQag 6i cdtSxQuv. cdOxQajg (itv ovv iorl
tcovj]qc 5 re xal itovrjQhig %uQit,t d9ai, xakidg i5s jjpjjffroj te xal
xa- E koog. novrjQog d’ itsnv ixtivog 6 IgaOrr/g 6 itavdtjiiog, o
rov (Suficcrog fidkkov yj rijg ilwpjg eqdjV xal ydg obSi /luvLjiog iauv ,
ars ovdi (lovlfio v Igav ngayfia- rog' ccfia yag tcS rov Gcjjiarog
av&Et foyyovti , ovjreji editionibus repertam
delevimus. Subiectum enuntiati est ro <pt- Xelv s . ro x a pfe*i
1$oci ipatizaif, SensOs est: Gratificar i ama- tori uoo simplex
actio est, quoad quidem sta- t i m ab initio actio per se spectata
nec pulcra esse nec turpis dicta est, sed pulcre acta pulcra,
malo acta mala est. cti(S XP&Z p\v ovv * Haec est
codd. plurimorum lectio, quam cum olhn io sequentibus KOtXov 8s
legeretur, in aldxpov pev ovv immutavit II Stcpha- nus. Nunc illud
codd. consensu probatur, igitur xaXajS 6e scri- bendum est etiamsi
non in qua- tuor codd. exstaret. Ceterum non recte Stallbaumius ad
al- 6xp&$ et xaXcjS censet e supe- rioribus intelligeudum esse
Tcpaz- T6iv . Nimirum iu superioribus p. 181. B. seqq. Pausanias
cum de ipav actionis ambiguitate lo- cutus esset, nunc eo orationis finem
direxit, ut et de amasii amore h. e. de tpiXtiv, quid videretur,
ediceret. Sensus est: 'Hassliche Liebe nun ist beim Liebling, wenn
er sich einem Schlechten auf schlehte Weise e r -
giebt. ixtivoS o ipa<5z?jS. Ille, de quo dictum est p. 181.
B. Collocata verba ita sunt, ut necessaria articuli repetitio conteintum
qnendam exprimat, quo maliim amatorem Pausanias atFiciat. Padem articuli
repetitio honorifica est p. 187. E. xal ovtoS itiziv o' xaXoSf 6 OvpdvioG
, o t rjs Ov pavias Mov6rjS "EpcaS* Igitur neque honorifica
neque ignominiosa significatio ixeivoS verbo cum duplici articulo
con- juncto eilicitur, sed extollit tan- tummodo verba, quibus
apponimur, quae verborum sublatio pro sententiae ratione in bonam
aut in malam partrm accipienda est» offerat ukotcz a pzv os.
Haec verba ex Homero II. ^,71* depromta sunt, ut primus Fische- rus
vidit. Reperiuntur eadem haud raro apud poetas serioris aevi, ut apud
Mare, Argentar. cp. VIII. 1. opvi , zl fioi cpiXov vvtzov acptfp - 7ca6a$
; ?}8v 6h II vfifijjS EidcDXoy xoizjjS (&x £Z dnonza.-
pevov. Ceterum quam bene Homerica dictio rei describendae
conveniat, iam vide. AMATORIS am^siique coniunctio cum ^mimae et
corpo- ris conjunctione comparatur, quae nisi coniuncta sunt, esse
non possunt. Amator igitur amasium deserens levitate sua, quae
azco- I i tjQct, ot %tT<u a7CoitT<x[isvoSj itollovq
Zoyovg xal vito- tf%E<SEig xcaai<S%vvug. 6 8 e rov ij&ovg %Qr}6
rov ovrog egatirrig duc p Lov [ievel , ars iiovifico Gvvray.ug. rov
- rovg 8ij povlezca o rmitEQog vofiog ev xal jccdiug pa- Gavltuv,
xal roig ]itv %aQL($cc<sftcu, rovg 8s 8tcc<psv - yuv. 8ta recura
ovv tolg fuv duoxeiv itaQaxEXBV&caiy roig $£ (pEvyEiv ,
ayavo&etdjv xcd Patiavl^cov jtoztQav 7toxs iGnv 6 eq&v xcd
jrotEQav 6 6QcZtiEvog. alita 6q ittdyevoG participio
expressa. Umbrae imaginem repraesentat; amasius ab amatore
derelictas miserrimam conditionem ostendit quasi corpus sine anima
iacens. Sensus est totius loci : Denn er (o itdrdijfioS ) ist
nicht treuhaft, da er nichts dauerndes liebt. Denn mit dem
Verwslkon der \ Bliithe des Korpers, die er Jiebte, schwindet
er fiatternd daron nnd xnacht viele Worte' nud viele
Versprechungen z u ni chte . r ovrovS 6 rj fiov\ st ai
seqq. Verba convertit Schleierm.: Diese also will unsere Sitte,
dass man wohl and rccht priif j, nndden einen gefallig sci, die
andern aber meide. Iisdem fere ver- bis in convers. Symposii
usas est Scbnlthessius p. 75 Riickertus verborum sensum esse ait:
Velle legem explorare amatores, facta autem ex- ploratione pueros
aliia obsequi, alios vitare. Aliter atque doctissimis viris visum
est; nobis de his verbis statuendum videtur; sed ut Pausaniao voluntatem
fucilins cognoscamus, brevi repetitione opus est sententiarum, quae in
eius oratione continentur. Athenis nimirum legimus fuisse de amore
legem ambignam, cfr. p. 182. B. Eius rei caussam esse, quod
quaevis actio per se spectata et pulcra esse possit et turpis.
Actionem enim non cx actione sed ex agendi ratione recte iudicari,
cfr, p. 181» A. Hinc bonum amato- rem esse , qui bene amet ,
ma- lam , qui male, cfr. p 181. A. fin. Pari modo amasium
malum vocari, qui male se tradat ama- tori, bonum, qui bene, cfr.
p. 183. D. AMATOREM, Pausanias pergit, ad persequendum
amasium omni modo impelli lege Attica, cfr. p. 182. D., amasium
contra ab eius congressu retineri. % cfr* p. 183. C. Hoc quo
consilio fiat, iam dicendam est. Utrosqae videlicet, h. e, et
amatores et amasios, lex Attica explorare studet, atque bonis
amatoribus araasiisque favere, malos pellere. Huic explicationi
Graeca verba optime respondent excepto uno,- quod de legis
efficacitate dictum admodum friget, Atacptvyeiv , si quid video,
depravatum est, scripsitqae Piato (pvyaSeve iv. 8ict roruta
ovv toiS iikv seqq. Totam hanc enuntiationem delendam censuerunt
Schiitzius et Astius. Mitto aliorum conie- cturas commemorare ,
quibus non 8 vxo rav tijs tijg atrius XQtarov [liv ro
aXlGxtG^ai ta% v altSxgov vtv6(u<Srai, iva %qovos iyyivrytai, og
Srj Soxti tu xo Xka xahas fieafavl£eiv ' ixura ro vito %qj]- B
[turav xal vxo xoXvttxav Svva/iitov aitovai (iIg%qov, luv rs xaxcos
xa6%cov xryfy xai /irj xaQtipyGy, av t tviQyetov(iEvo$ elg ZQijfiara i)
eis Sucxga^ei , g xohuxas sonatur, sed corrumpitur locus
sanissimus. Mens Pausaniae haec est: Um nun die Sinnesart der
Liebenden kennen zu lcrnen, mnntett das Ge- setz die Liebhaber
znr Verfolgung derLieblinge, die Lieblinge zur Fluclit vor
den Liebhabern auf, und ^ichtet nun and priift, wes Geistes
RinderLieb- haber uud Lieblinge sind, ob sie zu den
schlechten oder zu den guten gelid • ren. Eodem fere modo in
con- versione Ficinus : et hos qui- dem sequi iubet, illos
fu- gere, diiud icar, s et examinans, quae quis amet et quae in
quovis amen- tur, Nam ex iis , quae quis amat, cognoscere possis,
utrum bene amet necne, ovtej 8 rf vxo x avxrjS xyS
aixiaS , Hac igitur, qua dixi, ratione atque ea de caussa sc. ut
amantium ingeuia accurate examinentur, vide annotat, p. 72^ xpcoxov
p\v xo aXl6x£~ 6^ at. Statim capi atque te- neri amasio dedecori
est, quod intercedente tempore nullo amasius de amatore indicare
non potest, fierique potest, ut malo se tradat. oS 8rj 8
o x ei. cfr, Meleagri Epigr, LXII. in Iacobsii Authol, T. I. p.
20. EItte AvxatviSi AopxaS' F6’ ok £xixr)xta tptXovda
"HXgqZ. ov xpvxret xXaCrov ipeota xpovoS. xo vxo
XPV t 1 *** cov aXdjvat. Divitiis atque potentia in civitate capi,
h. e. si quis invenis diviti viro et potenti se tradat , non qao
mores probet , sed quia* divitem eum esse videat atque poteotem;
quod quibus modis heri possit, in aeqq. statim exponitur} mem- bra
enim, quae seqnuntnr, iuueta particulis iav xe — av xe, non nova
quaedam continent, quae ubi locum habeant, torpe sit amati
obsequium, quem sensam Astii versio exprimit, sed dupli- cem viam
indicant , qua - possit heri, ut divitiis aut potentia quis capi se
patiatnr, si aut male tractatos ab amatore praepotente reformidet,
nec audeat fortiter resistere, immo metu se submittat, aut
beneficiis pellectus non con- temnat, sed tradat se homini, qn»
pecuniam det, in reboa pu- blicis gerendis adiuvet, Riik- kert. De
xaxa(ppov?/6y verbi significatu supra dictum est ad p. 87. vxo
noXtx txGov 8vyd- pec ov. h. e. spe magnae in civitate auctoritatis
et potestatis, vid. Wyttenbach. ad Plut. de Ser. Num. Vind.
p. 58. StaUb. Eodem modo posi- prj xctTCKpQovrjtffl, ovdlv yap
'SoxeZ rovtav ovrs fiiflcaov OVTE fLOVLflOV ElVUl %dQl$ tOV fMfdi
7tE(pVxlvai ai£ CiVTCDV yEwalav tpiklav. pia 8rj Ieltcstccl r<3
^psziQtp vopcp oSog, et (iskkeo nakng %ctQieZ<5&cu iQa&rjj
jcaidwa. fifrt yaQ rjpZv vopog, &Q7UQ Irii roZg iQaCtaZg ijv — dov
- Xevuv i&tkovra qvtwovv dovkeiav icaidu&olg pfj xoka- C
tam habet p. 178. D. ovxe xi- pal ovte irkovxoS h. e, neqae
honoram neqae divitiarum futara possessio, vid. annot. p. 60.
iav te xax&S zadx oav X. X. A. Expressit haec Phaedrus p*
178. D. hoc modo* ei xi alOxpov zoidZv xaxaSf/koZ yl- yvoixo 7f
7tCt6XG>V VICO xov 6i avavdpiav prj dpvYopEYoS, ad quae verba
vide annot, p. 61. XMpif xov pijdl 7tE(p v- xkvai . Recte
Stallbaumius: praeterquam quod ne ori- tur quidem inde
generosa amicitia. Eadem dictio repe- ritur Symp. p. 173- C. xgo/jI?
xov ofedSai QotpEktidSai vnep- <pvooS c oS X a tp°°* Exempla
plura huius dictionis Stallbaumius congessit ad Apol. Socr. p. 35.
B. fin, : x&P^S & r V s 8o5y*> cJ dvdpES, ovSl Sinaiov
fioi Soxei elvai x, r. A $ikiav cave latiore sensu dictam putes $
non enim valet nisi de amasii erga amatorem benevolentia, vid.
an- not. p. 69. ' %6xi yap ijpiY vopoS seqq. Haec
Verba, ut vulgo disppsita sunt, non nisi per anacoluthiam explicari possunt.
Dicere debebat Pausanias : l6xi yap rjpiv vopoS, Ssicep iitl xoiiS
ipadxalS tjy SovAeveiy — ovtgo xal uWtjy piav iiovrjY 6ou- A eiav
kxovdiov tivai x. x. A. Acquiescentem, in anacoluthi*
Stallbaomium video, quae in hu- ius enuntiationis brevitate satia
molesta est. Displicuit eadem et aliis , qui vario modo locum
sanare studuerunt. Aliquid vitii verbis inesse videtur, sed non
mutauda verba sunt pia poY7f 9 de quibus Thierschius egit Spec.
Crit. p. 47. seqq. et Schaeferus Melett. Cr. p. 19. Plura exempla
attolitStallbRumius ad h. 1. Rectis- simum est, quod in uno Bekkeri
codice legitur, oSitep pro daSzep\ verba hoc modo disponenda sant:
£ 6 xi yap i}piv vopoS t oSnep inX xoiS kpadxalS 7 }V • dovkeveiv
kSkXoYta ifvnvovY dovXeiaY itaidixols p?} xoXaxeiav elvat pr/de
£zoYEi 6 t 6 xoY * oyxeo 87 } xal aXkrj x, x. A. Sensus est: Lex
nimirum nobis est, quam AMATORUM esse supra diximus: Si quis quo-
libet modo serviat ama- siis, eam servitutem non ignominiosam esse,
lam nt amatori, ita amasio etiam lex est eaqne sola, quae
serviri amatori concedit quidem, sed non nist ita, ut id fiat
virtutis ergo. Iutelligent prudentiores, quid homo sibi ve- lit.
Apprime huc pertinet Xe- noph. Symp. c. VIII. $ 32. xaixot
TLai) 6 aviaS ye, 6 *Aya - Sgovo? xov TtoiTjxov £pa 6 xijS 9
dzokoyovpEYoS vnlp tgjv axpa- dia dvyxvXiYdovpEYODv , eZpij- xev ,
coS xat dtpaxEvpa cifoa- 8 • xdav dvv.i pijdl iitovtiduS tov, ovtco
drj xcct alit] pia povq Sovlda ixovdiog Idrttrai ovx htovdSitixog.
avri] di iduv rj xeqI zqv ccQBttjv. Cap. XI.
NsvopiGtca ya.Q drj fjpiv , idv ng t&ily uva &£- QttJtevtLV
rjyovpsvog 8i ixelvov apelvav HcBti&at, rj xcczcc (iocplav riva ij
xaza cillo oxiovv pigog dgszfjg, ccvrq au % l&Elodovltla ovx cdo%Qd
tlvai o vdb xolaxela. ficorarov dv ykvotzo in nauSi - xojv te xal
ipadzcov. i} nata dotpiav riva. De latiore tiotpicxS
significatu, quae qn\o6ocpia. paullo infra vo- catur, vide annot.
p. 34. Satis autem erat dixisse: y Maza. 60- rpitxv riva ij holS*
onovv fii- poS dpEZrjS, Sed haud raro Graeci iu rebus, quae
genere non differunt, specie di- screpant coniungendis vtWoS
nomeu -addunt, quod qua ratione fiut , infra docebitur. Exempla
sunt huius usus Symp. p. 188. A. civ$pGj7toiS "Hat zotS aAXoiS
ZqjoiS T£ HCtl (pvzoiS. Gorg. p, 473. C. ZtjXgdtuS qqv nat cvdai-
povt%dpevoS vi zo zaiv itoXtzdjv xai z<yv aXXcov gtva) v. Alcib,
I. p. 112. B. xal al paxen ye xal oi Sdvazot dux zavryv trjv
dicupopav toiS ze 'AxaioiS tux\ to2s aAAoiS Tpco6iv iyivovro.
%v /tftaleiv cis tavto. Bene Riickertus , duae, inquit, hae
leges in unum quasi locum conferendae sunt, h. e. cura agenda est/
ut harum legum utra- que valeat atque observetur, quo- ties amatori
puer se dedut , ut ille nihil recuset facere atque pati, quo
dilecti gratiam consequatur, hic eo flagret sapientiae atque virtutis
studio, ut cum fugiat, qui ad hanc nihil conferre possit, contra qui
virtutis auctor sit, ci se tradat, nihilque, quo gratus illi sit,
facere recuset. ro ipadty itaibrxa x a ~ pitiatiScei.
Plerumque solet duobus nominibus hoc modo iunctis articulus demi, si in
uni- versum de toto genere sermo est cfr. Piat. Eutyphr. cap.
IV. dvodiov yap etvai zo vi 6 v itazpi <dovov I xe&iivai.
Symp, p. 1 84. B. cl ftiXXei xaXcvS x a ~ pul6$ai ipa&cy naidixet.
Tw ipcttizy autem, quamquam sensu nou cassum est, tamen,
quoniam sententiae rationi minus convenit, prae pauciorum codd.
lectione zo ipa6zy postputandum est. Et- enim non dispicias , cur
suo quisque amatori amasius re- ctius dicatur, quam iu
univer- sum amatori amasius grati- ficari. otav yap e
Is zo avzo l f Sensus verborum est: Weun uumlich
Liebhaber and Liebling den eincu Zweck vpr Augen haben, velcher
sicli aus der Vercioigung ihrer hei- 6e Z Sfi xa vufia xovta
^vfificduv elg ruito, xov re itegl t>)v mu8iQu6tiuv xal xov % egi
t>)v epdotiotplav r t 1J xal rijV aU.ijv dgtzijv, el fisXXn ^vafir/vai
xaXov yt- veOftcu xo IgaOrfj xtcadixu xagl<Sa(SQai. otav yag elg
r 6 tcvx o iX&coOiv iguGxrjg xe xal naiSixcc , vo/xov %% cov
ixaxtQOg, 6 (i iv %aQ(J5ayLtvoig xcadixoig vxi/geuav ouovv Stxulag av
v7tt]QBTBLV, 6 de xa xoiovvu avtov Corpov xe xal aya&ov Sixaiag av
ouovv av vnovgyelv , xal 6 (itv dvvafiivos elg tpQovrjOev xal xrjv aAXijv
dgextjv £i\u- (iaXXeO&ai, 6 Se Stotnvog elg nalSevOiv xal xijv aV.rjv
e derseitigen Gesetze ergiebt. Co- piosius paullo infra p.
1S4. E» dicitur: rore — rodrmv ZvvioY- tc av eIs x avtov xgjy
ropcav. Minus recte RiickertusJ Quum enim conveniunt.
na l ti}v &XXrfv d p ex ?}y Bivfi{jdXA.e6$ai. Verba tran-
sitiva, quae vi quadam pronun- tianda sunt, ut iis seutcntiae caput
contineatur, haud raro ab- solute ponuntur. Verba conver- tenda
sunt*, indem der eine in Beziehung auf Weisheit und Tu- gend
Befordcrer zu seiu verraag, der anderc in Bezieliung auf Bil- dung
und Weisheit Besitzer zu sein verlangt ... Vide, quae de absoluto
usu verborum supra an- notata sunt p, 87. Eius usus ut unum
exemplum hic addam, legitur Symp. p. 175. A. napov naXovYtos ovn
faeXei eisiEYca, quo loco, quid differat naXe.lv et naXeiY xivd ,
edocearis; re- ctius igitur, quam factum a me est p. 27., verba
convertenda sunt: und ich rief mehrmols , h. e, liess mehrmals den
Ruf ergehen. xox e 61 / — eis xavxov- X gdy YvpGDY. Wenn
dann, sage ich, dicse Gesetze zu einem Zweck sicli
vereinigen. di/ particula positu est , ut filum orationis
interpositis verbis ab- ruptum rursum anuecteretur. Pror- sus eodem
modo p. 183. D. t.is 61 } xavtd xiS av (IXtipaS, ad quem locum vid.
anuot. p. 110. Pertinet autem b. 1. tore Stj n. x. A. ad,
praecedens otocv }'dp eIs tu avxo £A $a> 6 iv n. r. A.
Coniecturis verba frustra sollici- tarunt Astius et Bastius.
B,v p it i nx Et xo naXoY elvai . Phavoriuus : 6t>j.iitl-
Ttt E iy XiyErai nal xo tivpftai- veiy et s. v. 6v/iftE<SeiY :
<5tyi- iriittEiY • opov yEvk6Sai • oi /uS? "Oprjpov trjY Aefciv
nal inz xi’xypd>Y aTtofiaGEWY ti- SeadiY. Stallb.
tovxcj. Convertit Schultbessius : Selbst sicli hier- i n
getauscbt zu finden , briugt keine Sebande. Schleiermaclic- rus,
cuius verba Riickertus pro- bat , exhibet in convers. : i n
diesem Falle. Ficinus verba red- didit; in hoc utique falli
turpe non est. Unice vera Stnllbaumii interpretatio est: quum sic a
f- ' fecti sunt animo. Errat 'autem Ruckeitus, xo
ititcutaxu- <3o<piav maci&ca , r6te Srj tovtcov kvviovrav tlg
xavrov xav vofiav (iova%ov Ivrav&a fcv/ixlserei to xaX ov elvai
XcuSixk IqccG xjj %aQlQa6&UL , aAXofrc de ovda/iov. ini zovToy xal
Hganaxqfrijvai ovdiv alaxQoV ini fis rotg «X- Xoig nceifi xal
i^anarafiiva alo%vvr t v tpiqa xal fitj. ei 185 yecQ «S tQaarjj ag
nXovdicp nXovxov evexa xaQiQa^ievog htanaxri&eiri xui ur/ Xafioi XQVf
lccta ) ivcupuvivxog tov d$ai ad solam amasium perti- nere
censens, non item ad ama- torem. Etenim quae sequuntur exempla,
quamquam non nisi de amasio loquuntur, tamen simul amatoris imagiuem
involvant, qui vel amasium frustratur falso amore, vel ipse amasii
studio falsissimo decipitur. Verba con- vertenda sunt: Bei solcher
Absicht ist selbst die Tauschnng deseinenoder des a"n
dem nichtschimpf- lich. Bei ieder undern Absicht dagegeu
bringt Lieben undLiebling sein Sebande, mag nun einer
getauscht werdea oder nicht. lB,cntaTi\% elrj xal jxy
Xdftoi. Si quis spe excideret h. e. si non acciperet. Igitur xal h.
1 . explicativum est, de qua vide sis Indices, cfr. Al- cib. II, p.
143- c. 10. xaxov apa — idrlv rf tov fieXxidxov dyvoia xal xo
dyvoelvSo fie A- xidxov. Dc iusequentcava^nrW*'- TOS Riickertas
<K ava<paive6$ai f inquit, verbum proprie significat ex
inferiore loco emergendo apparere $ hinc subito apparere, dicitarque haud
raro de iis, quae cum speciem quandam habuissent antea, falsam
illam, subito, qualia revera sunt, se ostenderunt,» Displicet hoc
subito, quod ne quis, verum habeat, videat Piat, de rep. VI. p.
484. A. oi pty di} <piXodocpoi — xal ol /ii} dux /laxpov xivoS
die- ZeXSovtoS Xoyov /loyiS it co s dve<pavTj6av olol eldiv
a/i- i poxepoi . Neque debebat Rii- ckertus exemplum putare ,
quo sententiam suam probet Symp. p. 213. C. eicSSeiS
l€,aCpvi)S ava<paived$ai onov iyoj di/u/v r/xidxa de idedSat,
quo loco neutiquam abundat i%al<pv7jS verbum, XO y e
avxov: quod ipsum qttinet, quantum quidem in ipsius potestate
est. Wolfius verba convertit: sei- nen Charakter, seine Ge-
sinnnug, quod quamquam ferri potest, tamen propter iusequens to xa$
avxov etiam aliis minus probatur. ovdiv jjxxov aldxpov
h. e, non minus turpe est, quam si AMATOR revera dives esset, AMASIUS
igitur non deciperetur atque pecuniam acciperet. xav ei' xiS <ȣ
dyaSai. De xav el particularum signifi- catu disseruit Buttmaunus
ad De- mosth, Mid. p, 33. Nimirum quoniam non nisi ad modum
verbi alicuius referri potest dv particula, conseutaneum est in
fdr- Igadrov xlit/ros, ovdhv qzzov alexQov. Coxsl yng o toiovtos xo
ye avxov budet%eu , oxi svBxa %gyiia xav oxcovv av oxaovv vxtyQtxoi'
xovxo Se ov xakov. xaxd xov ctvzbv 6r/ luyov xav el ug ®g aya&m
jragvSafUvos xai oevxos wg dfidvcav toofuvo g Sia X rjv epiHav xov
tQaOzov i^aitazri&tlT} , dvcupavevxos Ixdvov xaxov xal B ov XExxijfiivov
ccQtzijV, oncas xcdtj rj dxaxtj. doxei ydg mula xav ei, av
particulam ad alterum post ei verbum perti- nere, Igitur recte dici
Batt- mannos ait xal, ei xovxo itoioirjv, ev av itoioirjv et
6oxco jiot xav t ei xovxo noioirjv , ev itoieiv , Inter- dum
praecedente xav, quod od apodosin refertur, verbo in apo- dosi
posito av superadditur, ut recte dicatur Graece tioxm jxoi , xav,
ei tovro itoioirjv, ev av Ttoieiv . Nostro loco quo- niam apodosin
uon habes, ad quam av particulam referas, ca- put enuntiati esse
xai ei i£- ait axrj $ eirj censendum est. Et quoniam xal el
conditionem exprimit , qua revera fieri posse significatur illud,
quod in couditione continetis, haud abs re visum est scriptoribus
av particulae in hoc dicendi genere additamentum , quo possibilitatis
, notio in verisimilitudinis notio- nem immutetur, Sensus est: Anf-
dieselbc Weise nun, wenu einer, indem er einem sich ergiebt, ais
einem guten , um selbst. besser eu wenlen, getcuscht wird (and das
kann gar leicht ge- scliehen and ist schon oft geichehen), s.
Gesetzt nun, es wiirde einer wirklich be- tfogeu, indem er
cett. 6ia rrjv qnXiav xov l pati tov. Deerat olimroti
ar- ticulus, quem ex octo codicibus addiderunt interpretes.
In an- notatione Riickertus habet : s u am caritatem erga
amatorem, Schleiermacherns : d u r c h die Freuudscliaft 'seines
Lieb- habers. Scbulthessius: durcli seine Fren,ndschaft. Ama-
sius, qui AMATORI sededtrrat, quem bonum putaverat, ubi frustra id
se fecisse videt, non caritate erga amatorem deceptus est, sed malo
amdre amatoris. Verba 6ia xrjv <piMav xov ipa- tixov prorsus
repuguare videntur iis, quae de (piXiaS notione supra annotavimus
p. 69. Neque tameu illic non recte iudicare nobis vi- demur, et
commodissime huius loci verba explicantur. Satis notum est, viros,
quarum igna- via notunda sit, feminas interdum appellari. Exemplo
est huius usus notissimam Homeri dictum 'jixatdeS ovx ix* *Axcuol.
Nou minore, ut videtur, cum acerbi- tate virorum ignavia notatur
ad- dito , quod solis feminis laudi est. Quis feminas dou
laudet in nendo subtemine diligentes? at Herculem colo assidentem
quis uon vituperet atque derideat? tpiXiav Achillis, Patrocli
amasii, summis laudibus eilert Phaedrus p. 180, B. Alcestidis
laudat p. 179. C., nam et amasiis et mu- lieribus propria
<pi\ia\ vide an- ai xal ovzog t o xa& avrov StStj Xaxtvai, on
uQEtijg y svExa xal tov jleXztav yEVE<S#ai ndv av navtl tzqo-
%vfi7]&ehj ' zovzo Sb av nuvzav xakhdzov. ovzco itav- rog ys xaXov
dpiZTjg ivexa %uqI%e<5%(U. ovzog Idriv 6 tijg OvgcivLag &eov
"Eqoq xal OvQaviog xal noXXov utjiog xal xoXei xal USuircug, xoXXijv
tx^iXetav, dvay- not. p. 69., nostro loco amatoris
<pi\ia ita commemoratur, ut ma- lam, effocminatum, turpem amo-
rem siguificet. Similiter feminis a serioribus praecipue scriptori-
bus ipcoS nomen attribnitur adhaerente ignominiae notione. Caute igitur
Phaedrus, Alcestidis laudans in amore virtutem , non 8i ipeaxa
dixit, quo verbo omnis laudatio misere periret in licen- tiae
crimen conversa, sed (pi~ "kicLY commemorat, qua pa- rentes
superarit mulier fortissima 8 ia x6v*EpGJxa* xal o v x
exxTjpiv ov dpexrjv. Prorsus eodem modo supra dictum est p. 185. A,
i£- anazTjSehj xal prj Xaftot XPV~ / iaxa , ad quae verba vide
uunot. Adde p. 185. C; apexijS y £v£- xa xal xov fieXxiaov
yevitiSaz X. t. A. In sequentibus o/idoS xdAjJ tj anati} verba
conver- tenda sunt: tamen non igno- miniosa fraudatio est,
ignominia cum frauda- tione amasii non coniun- cta est. Sic p. 184.
E. ini tovto) xal i%aitat?]$jjvai ovdlv aidxpov. Soxez
yap av xal ov- toS*. Kai scriptor posuisse cen- seri potest ita, ut
ad praecedens 8oxet yap 6 toiovxos — Im- 8tlB,at x, T. A.
respexerit. Ha- bet tamen haec dictio , quod mihi quidem admodum
displicet. Quid, si scripsit Plato Soxel yap av xal ovz gjS? h. e.
videtur eoim etiam hac conditione i. e. etiam si hoc ei contigerit,
nt ab amatore deciperetur, quantum in ipsius potestate est,
declarasse satis et q. seqq. ndvrcos: ye xaXov ape -
xij$ ivexa h. e. Hac igitur ratione in universum pul- crum virtutis
ergo ama- toribus gratificari. In permultis codd. yi legitur
post dpetrfi, quam particulam recentiores editores delerunt
Riickerto excepto, qui eandem in textum recepit. Particulam non
exhibent Bodl., Vatie. Vindob., quorum librorum tanta auctoritas est , ut
recipienda particula sit, si hi eandem exhiberent contra ceterorum
auctoritatem. Ut res nunc se habet, particula delenda est.
ovroS’ l6tivot ijSOvpa- v ia$ $ eoi)”Ep gdS. Ut ovxa haud
raro significat: hac ra - tione, qua dixi, ita ovtoS h. 1.
convertere possis: Ecce ta- lis est, qualem descripsi, Uraniae
Eros, Quod sequitur OvpavioS nomen maiuscula littera scribendum curavimus
, nomen enim revera est, non adiectivum. Minus apte Schleier-
maclierus verba convertit : Dieses Ist der Eros der himmlischen
Guttin und scibst himmlisch. v t£iki xatov, MlBltS&ai 3CQ0 S
ttQEtifV TOV TS Iq 10VTU‘ ttVTOV C ctvrov xal tov igcoftevov' oi 6’
ersgoi navus T ^S Bti- qus, rijjs ITavSrftiov. Tama <joi, iipij, cog
ix tov nu- Qu%Qrj[ia, (o <PaiSQB, nsgii "Egenos
OvfifSuklofiai. TlavOctviov Se navGafiivov — didatSxovSi yag
fis Ida Xtyuv ovtadl ot Oocpot — Igpjj 6 ^QiOzodrjfios Alia
ratio ndvSjjfiof verbi, qnod supra p. 181. B. ut adiectivum positam
est : d fib' ovv t ljs Ilcevdtjftov 'AfppodhijS coS a\?/~ itctv Si]
fxo S idziv x.t.X. Perfacile autem fieri potuit, ut aliquis cum
ovpavioS littera mi- nuscula scriptum exstaretin codd., xat adderet,
quo orationem, quam censeret mutilatam, expleret. In codd, nullum
vestigium deprava- tionis est, igitur ne uncis quidem voculam inclusimus,
nimiae audaciae crimen fugientes. tov te ipcovta — xa\
tov' i poS fievov . Post roV ipco/ievov rursus iutelligas
avzdv avtov. Frustra Bastius et Astius tov ipcopkvov scribendum
putarunt: quod si ab ipso Platone esset profectam , ordo verborum
hic, opinor, foret: tok ipajvxct avtov te avtov xal tov ipoo -
pkvov. Nunc sententia liaec est: Eros Uranius utrumqae, et amatorem et
eum, qui amatur, impellit et cogit, ut omnem coram ponat in
studio virtutis et sapientiae. Stallb. Eodem modo verba
intellexit Scbleiermacherus in convers. p. 405. *. indem er den
Liebenden nothiget viel Sorgfalt auf seine eigene Tugeud zu weuden,
und auch den Geliebten. coS ix tov itctpaxpT/ fia. Schol.
habet:, ix tov avxopa- toVf ix tov itpoxeipov. Appo- site
Stallbaumius ad h. 1. Xenoph, laudat Hell. I. 1. 21. A £- yeiv ta p\y anu
tov nctpaxprj- pof, ta 6h fiov\ev6atp£voi'S* Non dubiam est autem,
quin additis his verbis Pausauias ex- cusare voluerit orationem
suam, quam elegantiorcm atque poli- tiorem edere potuisset , si
ad eam rem aliquid otii datum fuisset. Ilavdaviov 8e
tfavda- pkvov. De sophistarum irri- sione hic agi, qui similes
sonos verborum studiose quaesiverint, iisque orationem suam
exornaverint, conseutiens iudiciom est interpretum omnium. 9ed non
verisimile est, Apollodorum TIavdavlov 81 7Cav6af.ie.vov verbis ita usum
esse, ut ad Pausaniae orationem non respiceret, in qua illius
studii sophistici nullum vestigium reperitur. Praecellit autem haec
oratio prae ceteris verbositate, ut non videam equi- dem , quid
obstet, quominus in hanc verbositatem Tlavdavlov navdapkvov verba
directa esse censeamus. Fuerunt, ut ipse Apollodorus indicat
sequentibus verbis, magistri dicendi , qui si- militudines verborum
discipulis commendarent. Sed commenda- runt eas ita , ut quibus
aliquid efficeretur, quod modo indicatum est esse h. 1. iuanis
cuiusdam verbositatis satis acerbum vita- 6'siv fiiv Agiarorpccvij
Xiyuv, t v%dv 8e avta uva rj vno srAijfffiov^s rj vito rivos allov A vyya
liaitmra- xvlav xal ov% olov re elvat Xiyuv , aAA’ tliteiv av- ii
tbv — iv z)j xarto yag avrov rov laxgbv ’E(>v!;!pa%ov xcaccxeia&ai
— r £l ’EQv%l(ia%s , d mulos d ij itavOai pcriiim. Non igitur
illos dicendi magistros Apollodorus carpere voluisse censendus est,
ad quorum praeceptum ipse verba sua composuit, sed eos commemoravit
tantummodo, ut eorum auctoritate dictionis iusolentiara excusat et. Restat, ut
de conver- sione verborum Tlavdavlov Sl navdapivov dicamus:
Schleier- mucherus exhibet; Ais nun Pau- sanias ausgesugt hatte.
Schult- hessius habet: Nachdem ntm Pausanias pausirt hatte.
Astius verba reddidit: Nachdem Pausanias eudlich geendet, quae couversio
Orellio displicet, quod ni- mis longa oratione Pausanias usus esse
dicatur. Sed ea ipsa de caussa Astiaua illa conversio r.obis
magnopere placet. Est ta- men nobis, qnod Graecis verbis mugis
respondeat, quod si durias videbitur atque minus elegans, non
magnopere dolebimus, quippe exhibituri, quod revera excu- satione
indigeret tg ov dotp&vx Ais Pausanias nuu ansposaunt
hatte, ovTGodl oi do <pol . TovS tiocpouS dicendi
magistros esse, supra indicatum est. vide quae de docplaS notione
annotata sunt p. $4. SI avrcp riva — ii vyya.
Scbol, ad h. 1. varias singultus caussas laudat eiuaque sanandi
modos studiosissime re- fert, quos hic repetere longum est. Unum hoc ex
eius annotatione depromam, quo prndentiores de Aristophanis voluntate
certiores fieri possunt : zo rov A vypov dvpnzcopa irtiylvezat tgj
dtopaxoo Sta 7t\ij pojdtv rj xiv od div r) if>v % iv, iviote xal
dia 8rj£,iv Spipe arv vypo)V xal (pappaxoaS&v zalS noidztdiv.
Pluribus de Aristo- phanico singultu dicturi sumus in Commeut. de
Symp. Platonis, ad quam lectores ablegamus, iv x y xdteo.
Haec est lectio codicum plurimorum. Vulgo iyyvtdzcD legitur, quam
lectionem Astius retinendam censuit. Frustra. Non enim de vicinitate
hic agitor, sed de ordine seden- tium; quandoquidem Eryxima- chus
praecepit: Zxadrov \6yov eltceiv hcaivov "EpcjroS ini 8e-
£,id. Saepissime autem ivzoS, iyyvS , iv x\j xdra> , iyyvrdzco,
similia, commutata reperiuntor in libris, ut non defuerint, qui
etiam Lachetis loco ditficiliimo p. 187* $• 13. iyyvzata vocem
mutan- dam censerent. Beue tamen id habet eo loco. Verba sunt
haec: ov poi Saxeis elSivai , dzi ds dv iyyvzata 2a)xpdzovS y
A oya>, c Zsnep yivet , xal n\r/— Qid^y SiaXeyopevoS, quae verba
quoniam nullo modo explicari possunt, in hunc modum emen- danda
suut: ut; poi SoxeiS eiSi- rai, ori ds av' iyyvzata 2iu- xpdzovS
ift A oyoj, &snep yv- vatxl nXrjdid^et SiaXeydpevoS, fis xijg
Ivyyog, q liysw vxig Itiov, smg av iyd xav- Cafiai. Kal xov ’Egv£liia%ov
slntiv, 'Alia xoiqe a dfitpoTSQa tavxa. iyd fiiv ycig igd iv xd <5(5
fiigsi, 6v 6’ insUlav xavtiy, iv r a ifid' iv a S’ av iyd liyca,
idv fi iv <Soi iftihj dxvtvOxi l%ovxi aolvv %go- xa\ dvdyxij av
ro3 x.r.X, Agi- tnr autem satis lepide de mulieribus , qui severissime in
virorum suorum vitam inquirunt, ne- que prius ab interrogando atque
explorando desistunt, quam omnem vitam , quomodo gesta sit gera -
turque, cognoverint. Verba con- vertenda sunt : Du scheinst mir
nicht zu wissen , dass wer dem Socrates zu Leibe geht ,« der
gleichsam mit einem eifersuch- tigeo Weibe anbindet, und er muss ,
wenn er auch vorher -von etwas ganz andcrm zu reden^begonnen hat, ohne
Aufhdren sich von ihm im Zirkel herumfiihren lassen, bis er sich
endlich vervrickelt, und gesteht, wie er ietzt lebt und wie er geiebt
hat. dixaio? el rj navtial pe x. r. X. De SlxaioS vocis
si- gnificatu supra dictum est p. 6, Male Ficinus in conver»,
exhibet: O Eryximache, tua tunc (nunc?) iuterest. Ceterum
dixaio? h, 1, Eryximachus dicitur duabus de caussis. Nam medicus
erat, ut siugultui mederi posset atque a dextra sedebat, ut ad eum
per- veniret dicendi munus, si Aristophanes, quominus ipse
loqueretur, singultu prohiberetur. Quae sequuntur verba, eoo? av
iyco itavdoofiai abundantia quadam laborare videntur,
quandoquidem personali prouoraine facillime carueris. Cave tamen id
mutandum censeas aut delendum. Dicturus Aristophanes erat; Dicere tnte debes,
donec ego possim. Sed inter dicendum factum est et hic et alias
haud raro, ut, cum stru- ctura verborum ad verbnm comparata sit, qnod
scriptor iu mente habuisset, pro illo verbo subito aliud poneretur,
quod cum incepta structura verborum mions Cfcuveniret. Optime igitur
se ha- beret scriptura haec: 7/ Xlyetv vnlp ijiiov 7 Eoo? av iyoo
Xiyeiv dvvoopai, sed non minus bene dicitur Ego? av iyoo —
rfau- (S oo fica. idv ftiv 6o i i$iXp — el /i r/. idv
fiiv praecedente scriptum exspectaveris idv 8i y ut legitur iu
Piat, Protag. p. 848. A. idv fisv fiovXy Exi epoo - rav , Etoipo?
elpi 6ot napi- Xeiv anoxpivopevo ? • idv fiovXy, 6v Ipol ndpa6x£y
nepl co v petaS,v inctv6ape$a 6ie - B,wvxe? , rovroxs’ reWtf
iniSel- vai. Passim annotatura est ab interpretibus, el interdum
poni idv praecedente, eiusque rei caussam indicare studuit
Engelhardtus ad Piat. Menex. p. 237, ed. non satis, ut videtur, veterum
scriptorum voluntatem assecutus: particulae idv , inquit, inest notio
exspectationis manifestum fore, sitne id, tjuod hypothetice ponimus , necne. Si
ergo duae res hypothetice opponuntur , iam tufjicit , semel hanc
notionem additan¥ esse , et quidem priori membro , quia id prius po
- vov ituviGftai v) Avyl' tl 51 (ilj , vScezi uvaxoyxvlla- E Oov. d
S’ aga itavv lo%vga Idziv, avaXujiijv zi zoi- ovzov, oim xivfacus av zqv
(uva , itzagt' xal lav zovzo nere solemus , quod nostra
magis interest ; superflua haec notio in altero membro est.* Nos sic
sta- tuimus. Ubi idv phy — idv 6e ponitur, duae enuntiationes
hypotheticae sibi aequiparantur, in quibus , quod fieri ponitur,
idem facile fieri posse certis qui- busdam de caussis exprimitur.
In aequiparandis enuntiatis veteres te — T £ particulis saepius utuntur,
quam fiiv — - 8£ t igitur saepius idv TE — idv te repe- rias, quam
idv phv — idv 8£. Exemplum habes Symp. p. 184. B, init. Pro altero
iav veteres scriptores etiam si posuere. Sic legitur no- atro loco idv
phv — sl Si, nusquam cutem £dv te — eX te reperias. Colligitur
inde, el post idv po- situm non eiusdem potestatis esse atque iav
praecedentem particulam, sed alius, quae cum 8£ adver- sativo commode
consocietur, non item cum te vocula, de cuius potestate supra
diximus, conveniat. Ut paucis dicam, iav poni aliquid
signiiicat,H|uod fieri posse cogitatur certis quibusdam de caussis, el cum
adversativa particula coniunctum exprimit id poni, quod contra
exspectationem revera contigerit. Ad nostrum lo- cum ut revertamur, dicit
Eryxi- machus : Vide , an tibi ditvtv - Cz l ixovTi h. e. animum
reprimenti aliquod tempus singultus abeat, (et credo, fore, ut ab-
iturus sit, experientia edoctus) sin vero minus h. e. wenn
dcrSchlucken aber gegen ali es Erwarten wirklich nicht
weiclit..cf.Plat*derep, VII. p. 540. C. pvypeta 5*
avTOlf XOLL Svtiiotf TJ/V Tt6\lV 8ypo6la jtoieiv, idv xal ?}
TIv- $ia B,vvavaipy (neque dubito, quin id factura sit Pythia)
coS daipodiv’ ei 8h py (&z.£,vvai- vaipEi h. e. contra
exspectatio- nem non, revera non) eoS’ EvSat- poCi te xal SeoTZ,
Hoc dicendi genus quid diflerat ab eI — eI oh pi/ sponte
intelligitnr. cf. Piat. Churmid. c, 14. Heind. ed. p. 190. eI ovv
Coi <pt\ov, i$£X co Cxoieeiv pera Cov • ti d£ p ?/, idv. Adde
quem Stall— baumius laudat ad PJat. Piiacd. p v JB8. ed. Isocrat.
Archid. 44. p. #11. ed. Lang. idv phv yap iSiXcopEv djtoSvjjCxEiv
vithp t&v dixalcov — aCtpaXdjS yplv iZtCTai r,ijv m tl 6h
<pofiySyCo- pe$a tovS xivbvvovs x. T. A, Ceterum post y Xvy%
supplen- dum censent ev %X £t Minus no- bis placet hoc explicandi
genus; meliorem explicationem iu con- versione huius loci dedimus.
v 8 aTt av axo yxvXla- dov. Schol. habet: dvaxoyx v- XiuCai t
6 xXvtiai ryr cpdpvy- ya } d Xiyopsv avayapyapiCat . oXoo x
ivyC aiS dv Tyv piva ♦ Vulgatum xivyCaiS , quod codd. omnes
exhibent, et Athenaeus servat V. 2. p. 187* iv 8h Tofis
xnto&yxaiS tov xap - tpovS > tva Tyv piva xivy6a$ TtTapy ,
itapiypt % mutatum in xvyCaiS apud Stob., Florii. Tit. 98. p. 542.
reperitur. Eam lectionem cum aptiorem censerent Wyttenbachius, Creuz. ad
Plot. 2 noirj6]iS «Jfal ij 5lg, xal sl itaw 1 <S%vqu t<Sn,
3iav~ (Sectu. Ovx av cp&avois liyav , cpavai xov ’A QKScocpavi
j' ly w di Tttvra noti^a. Einuv 6rj tov ’Eqv!-!iikxov' de palent,»,
Astius , alii, nemo luit excepto Riickerto,. qui vulgatam lectionem
defendere atque in textum revocare auderet, Riickerto autem tutius visum
est retiuere, quod libri darent, a a t- que nisi bonum, at.
non absurdum esset. Aliud no- bis de vulgatae lectionis prae-
stautia iudiciutn est. Kivei v ni- mirum nou significat solum movere, sed
movere ita ali- quid, ut id se moveat. Sic iu amore verbum
usitatissimum, adhibeturque, ubi aliquis ad nequitias allicitur, Pari modo
in pro- verbiali dictione dicitur pijxiVEiv, tov ev 'heIjievov
videlicet, ne is, qui moveatur, ubi motum se sen- serit, moventi
molestias paret» Iam vides xiveiv r?/V f)lva esse, movere nasum
atque -excitare ita, ut se moveat h. e. ut orian- tur nxappoi,
Bekkerus xvjfdaio habet, quod apud Stobaeum le- gitur 1, 1.
Sternutatione mota pelli singultum probatur Mippocr* Aphor. VI. 13-
t; 7to Xvypov £*o- pivaj ittapfiol iitiyEvopEvoi Au- ov6i xov
Xvypov. xal eI 7tavv l6xvpa idxiv . De xal el et eI xai
part. ita disputavit Heind, ad Platon. Gorg. p, 509. A. , ut
negaret, couditionulis enuntiati seutentiam mutari, sive xal eI
sive ti xai scripseris. Consentit cum Heindorfio Matth. Gr, ampl. T, II.
p. 1252. Nostra verba etiam t um, si vel ma- xime pervicax sit,
cessabit Eugelhardtus interpretator 5 rectissime idem de xal el et
el xal purticularnm discrimine dis- serit ad Apol. Socr. pag. edit.
196. Ex eius annotatione haec laudare iuvat: el xai rem aut ponit,
aut indicat fieri posse, ut ait, ita ut latiue reddendum sit
quamquam, etsi vel quamquam fortasse. Kal eI sem- per de incerta
hypothesi usurpatur, quam sive ponit ali- quis sive non ponit,
tamen id fieri oportet, quod in apodosi ponitor. ovx av
q> 5 av o tG Xiyoov. Schol. habet: ini ccor eIg 5 T$- paG
ayovTGJV aZioatilv tivoG //>/- 7 tcj nipas iiei^EvxoS avx\j.
Pro- prie verba significant: Mit dem Reden kannst du nicht zu
frxih komme^ h. e. quin statim loquere. Haec annotavi, ut liqueret,
interrogandi signum ab hac dicendi formula non abesse non posse,
quod in Phaedone positura est apud Stallb. p, 100. C. akXa prjv ,
l(pr\ o KifirfG, coG 8 i86vtoG 601 ovx av cpSavoiG itepaivav
; eIkeiv 8\ tov 9 Epv%l- / iaxov . Eryximachus medicus,
qui nunc dicturas est, Acumeni medici filius, Hippiae auditor ana
cum Phaedro aliisque fuisse tra- ditur Piat. Protag. p. 315. C.,
Phaedro AMICUM fuisse discas e Piat. Phaedr. p. 268. A. , ubi
Socrates cum Phaedro colloquens el xiG , inquit, 7tpoGE A- $qjv t (3
kraipfp 6ov ’Epv%i- fjiaxcp V ‘&^ 7tar P' t &VXQV ! 'Ahqv -
/.ievco tircW x.t. A. Cap. xn. AoxeZ roivw fio i ccvayxcaov tivca,
timSi/ Tlav- 186 6avlag OQ^rfias htl rov kbyov xabag ov% txuvas
aite- teXeGe, 6 s Zv ifis XEigaGftai teAos htifrElmn rc5 Aoj/gj. tb
fisv yag Saikovv tlvai xbv "Egara SoxeZ [ioi xa- xaXco ? ov x
Inavco?. Ex Eryximachi sententia Pausanias rectissime disseruit de
duplici Erote atque de utriusque dei na- tura , minus recte de
erotica vi locutus est, quae vis latius pa- teat, nec solum in
animis mor- talium, sed etiam ia universa re- rum natura
eillcacissima conspi- cietur. Respicit autem , Stall- ba umius ait,
Eryximachus haud dubie ad nobilissimam illam et inultis, ut
videtur, posteris temporibus probatam sententiam vetferum quomndam
philosophorum, qui statuerunt elementa totius rerum universitatis
inter se pugnantia per concordiam et amicitiam ( tpiXiav ) esse inter se
conciliata et in ordinem redacta, vid. Arist. Metaphys. I. 4. et
quos laudant interpp. ad Aristopli. Avv. v. 695. seqq. zcAo?
iniSslvai rc3 Ad- ' y<*>» * EitiSEivcti ex artificum
officinis depromtura est, qni eam reliquum corpus sive
hominis sive animalis arte elaborassent, capite ad postremum
elaborato caput imposuisse dicantur simul atque opus ad finem
perduxisse. IJaec formula iam apud Homerum reperitur II. r, 107.
tfjEv6xrj6Ei? ovd* av re xiX o? /iv$cp imSfoeiS. Adde Piat. Alcib.
I. p. l^D. xov - Tccv yap Ooi arfJthov xcov Siaro?/juarGjy x
JX o? inite^r/vat avev i/iov advvaxov. Cratyl. p. S95. A.
xivSvvEvei yap xoi- ovroS xi? tlvai 6 'Ayapkpvcav, olo?, a av
dcZeiev avufj 6ia- 7iov£i6$cn xal jtapTEpEtv, riXo? inniStl? xol?
SoZatii di’ a pEtrjv. oxi < 5 £ ov /iovov &6xlv seqq.
Schleiermacherus conver- tit: dass er aber nicht a I- lein iiber
die Seelen der “Menschen w altet in Be- ziehung auf die
schonen, sondern auch auf vieles Andere and auch in allen
andern Dingen Quaeri potest primum, quid sit id, ad quod,
praeter pulcros homines Eros in animis hominum insitas pertineat.
Deinde si Schleiermacherianae conversionis sensum Eryximachus exprimere
voluisset, haud dubium esse potest, quin dicere debuisset ov /iovov
idrlv in\ tat? Tpvxai? xcov av^peo- Ttcov — ctXXd yioct iv xol?
aX~ Xoi? Quoquo modo verba specte*, distorti quid enuntiationi
huic inesse senties, quod deleto xai post rtoXXa posito optime
removeri potest. Verba nimirum per chiasmum explicanda censeas, nt non
solum in animis ho- minum formosae iuven— tutis, sed etiam
aliarum rerum multarum Eros in aliis rebus habitare
dicatur. kag SicXla&KL' on 8s ov (tovov Ifiriv ini taig cjiv- ya
lg tav av&Qconav jrpog rov$ xcdovs, dii-cc xal tiqos «AAa 3Coi-i.cc
xal iv tolg ai.i. 0 tg, rolg re Oci^aGL tui/ ndvrav %d>uv xcd tols iv
ry yy tpvofievois, xal, mg fjtog tlntlv, iv nccGc tols ovGl,
xa&toQuxtvaL ycoi 8oxa ix vfjs luTQLxrjs, rijs ryitxiQag TeyvySt wg
(dyas xal &av{ia<St6$ xcd ini ndv 6 fttog ttLvu xal xaz’ B
Posses etiam hac ratione verba emendare: ort ov [IOVOV ini
x aiS ifwxcfis tgjv txvSfjQQitoav xaz 7 tpos xov? JutXuvS' , a XX
a xal npo? aXXa noXXa xal iv toiS aXXoiS x. r. X. Haec olim
scripseram. Sed neutra mutandi ratio nunc placet et omrfSa bene
habent, modo Moi post itoX Xa positum non und sed aach in-
terpreteris. / co? Eno? elneiv, vide annot* p. 63- Schol. ' autem
haec verba explicat: gg? maivExai, cbs iv Xoycp sinetv, addmjue:
xovxo dxVM ar ^ £taz Kapa xois na - A aioi? xal cJ s e in st v
EnoS xal eo? inoS einetv xal co? ino? (pavai xal guS’ opavai
inoS, Exi dfc xal Sia pia? Xi~ %egoS ixtpcoveixai , olor goS
<pa- vai xal as slneiv. drpial - vei 81 x 6 avxo . ol 8s
<pa(5iv av xi xov co ? <p aiv ex ai xei- C$ai i f avxl xov
ooS iv A oycp e in Eiv . Converterim verba : in den Korpern aller 1
ebenden Wesen und in den Erzeugnissen der Erde, und, ich vage es zu
be - haupten, in alleu Dingen, Adhibentur nimirum verba ilia,
ubi aliquis aliquid dicturus est, quod fidem hominum superare, ipse
sentit, go? ftiyaS xal 6x 6 5. Stallbaumius in his,
in- quit, ~co? significat nam, quip- pe, usu haudquaquom
infrequenti. Male. Praecedenti protasi, cui apodosin Eryximnchus
praemisit, altera apodosis additur, alterius potestatemquae
amplificat et auget. Haec verborum structura ex oratorio genere
dicendi de- promta est. cfr. Apol. Socr. p, 20. C. o t; y ce p 8 rj
nov dov- ye ov8ev xgov a XXgov n e- ptxx ox e pov np ay /xax
ev o- pivov, ixetra xo6avx?j (pqprj te xal Xdyo? yiyovtv , e i
/ir/ xi Enpaxxs? aXXotov rj ol noXXoL Compara cum his verbis
Symp. p. 211. E. xi 8i)xa , iq>7j,oio[iE§a, sl xod yivoixo avxo
x 6 xaXov i8slv eIXi - xptvE?, xa$ a pov , agt- xx ov, aXXa /n) dvdnXeaov
uap - xgov te avSpoDnivGDV xal XP&- p areor xal dXXi)? noXXijS
epXva- pia? $V7]T7] ?, a A A* avxo xo Seiov xaXov Svvaixo pov
oei 81? xaxt8 Etv, Adde Cicer. Orat, pro Rose. Amer, e. V, §. 14.
Atque ut facilius intelligere possitis, ludie#*, ca, quae facta sunt,
indigniora esse, quam haec sunt, quae dicimus, vobis exponemus, quo
facilius et huius ho- minis innocentissimi mi- serias et illorum
audaciam cognoscere possitis et rei publicae calamita- av^gajuva xal
xara &na jigdyfiaza. ccq^oucu Se airo rijg Icczgixfjg ktyuv, iva xal
ngta^eva(iev zr/v zt%vi]v. 'H yag (pvGig rcov Oafirczav zbv Sutkovv
"Egena zovzov ex,ei. ro yag vyiig tov tidfiazog xal ro vo-
Covv buo7.oyoviii.vag ezegbv re xal avvftoiov eozi. ro Se dvopoiov
avofiolmv izci&vfiei xal ega. akkog fiev ovv o eztl za vyieiva egag,
akkog 6 e b tjtl ra vo- OibSei. eCzi Si ) , dgneg agzi JIavOaviag ekeys
zoig tem. Huic loquendi generi non adnumeranda sunt verba
Alcib. II* p. 138. B. , quae sunt, qui corrupta censeant ; sed ut
clarius videas, corruptelae indicia ipsis nulla inesse, hoc modo
disponenda sunt : ooSKEp TOV OiSlnovv avzl- xa (padiv ev&ad$ai
xoAxgj 8ie-> A sdSai rd narpifia rovS vleiS’ l£,6v OVTCk) TC OV
TZCtpOYTGDV aVTGJ xaxoov anozpomjv riva tv£,a~ ti$cu, crepa npoS
roiS vitap * Xov6i xaxypdzo. xal ini nav o5£o?. Ne
forte ad SavpadxoS supplendum censeas idriv et scribendum xal cjS
ini nav , tria dei epitlieta sunt: magnus, admirabilis, late
potens. Dicitur cutem ini nav — xeivet pro ini nav teIvov — idriv
vid. annot. p. 87. Sensus est totius enuntia- tionis: Dass er aber
uicht blosden See1en der Menschen in Beziehung auf das Schonc,
sonderu auch i u Beziehung auf vules indere auch den anaeren
Dingen einwohnt, sowohl den Leibern der gesamm- ten Thierwelt ais
den Erderzeugniss e n and, ich wage es z u sagen, a 11 en nur
vorhandenen Dingen, glaube ich aus der Medi- cin, meiner
angestamm- ten Kunst, ersehen zu ha- ben, dass ^ros s nnd
wunderbarund ei n flus s reich auf alles der Gott ist, so in
mgnschlichen, so in gottlichen Ange1eg en h eiten. Ut n(#tro loco ab
hominibus ad animalia, ab anima- libus ad mineralia transitur, haec
tria autem verbis comprehendun- tur : ndvra z d ovra , eodem
modo in Riaedon. p. 70. D. le- gitur : prj toivvv xar avSpGo-
ncov dxonei povov rovro , aWa xal nara Zwgdv navrojv xal <pv -
tgov xal BtvWiffidrjv. odanep ix& yivediv, nept navtcov idea-
fiev , ap ovzojdl yiyvetat ndvra. iva xal n p ed fiev gdjjlev
. Explicat Schol. ad h. 1. npe— dfiEvcopev npozipeopev ,
peya- XvYGOpEV. npEdfieveiv riva est aliquem ut senem venerari,
ali- cui ut seni primum locum attri- buere. Non iniuria Phaedrus
dixit Symp. p. 178. B. zo yap iv rols npedfivrarov slvai —
[ov] rifiiov ; Eryximachus autem di- cit: ut simul primi loci
hono- rem nostrae arti attribuamus. Kai enim ita explicandum
est, ut proprie verba audire dicantur: iva xal A eycopsv nepl
xovzcdv xal npEdfie.voDfj.Ev x. z. A. (i\v clyadoig zcdov xaQl&Gftai
rtdv kv&qcojt av, roig c di axolaOtoig alOxgov, ovra xal Iv avroig
roig GcS- ftadi roig fiiv dyadoig exkGtov tov Ga fiarog xai vym-
voig xcdov yaol^iGxTui xai dii, xai rovro iGnv a fivo/ta r 6 iatQixov,
rois di xaxoig xai voGadiGiv alGxQov r e xai dii dxaQiGrtiv, it iiii.Xu
ng nxvixog tivai. tori yctQ latQixtj , tag Iv xiipaXaia ilmiv, ixiGr^i]
rav rov Otoiiurog igamxav nQog xXtjGfiovTjv xai xivuOiv,
Itepor re xal avopotov. Rectissime annotatum est ab Astio et
Stallbaumio, Thierschium fru- stra scribendum coniecisse PrzpoY ti
xal avopoiov. Nimirum Zxzpov h. 1, non alind sed diversum est, quae
verbi signi' ficatio non rara apud Platonem, cfr. Alcib. I. p. 11
4. B. xorzpoy 81 ravrd i6ri 8lxaia rz xal <Svp<pkpovra , y
erzpa. Adde Piat. Protag. p. 833. A. note- pov — Xvdcopev rcJ v
Xoycoy; ro fy M juoror Ivavtiov zlvai, y ixetvov , iv cp iXkytro at
ep ov etvai daxppotivvyC do<pia — : xal irpoS rep trzpov
zlvai xal avopoia x. r. X. xaXov x a pineti Sai tgoy
txvS pant oo y. Verba rdov ay - SpconcoY seiuncta snnt ab iis
rerbis, e quibus pendet rolS p\v ayaSoiS, ut pondere augerentur.
Huius exemplum structurae verba aunt p. 178. C. o ydp XPV av~
$pG07toiS yytZ6$ai nayroS rov piov rolS pkXXovdi xaXcuS pia$-
<5e<5$ai x.r.X. Urgendum autem prounntiando est tgjy
dySpeoTteoY ideo , quod, cum Pausanias in hominnm tantummodo
animis dixisset Erotem versari, Eryxixnachus contra etiam in corpo-
ribus habitare deum narret, indicandum erat atque demonstrandum auditori,
quibus modis ab illius oratione medici oratio , diflerret.
xal rovro Idrtv gj uvo- pa ro larptxdv h. c. und darin
besteht das Wesen dessen, was wir das Medicinischo nennen. Prorsus
eodem modo p. 185. B ovrco nccynoS yz xa- Xoy apztyS y Zyejicc
xapiZe- 6$ at. Ovr 6 S itirtY 6 fijs OvpctvictS SzoxPEpaoS xal Ovpd
- YtoS X . T. A.’ Ad ea, quae insequuntur, apte laudatur ub
interpp. Hippocr. De morbo sacro sub Cu. Xpy — py avZziy r d
vov6y- para , aXXa <5 iczv8ziy rpvxztv , 7rpoS<pzpovtaS ry
yovCco to' ito- Xepicoraroy kxatfry, pt) r 6 epi- Xoy xal 6vvySZS *
vn 6 ptv ydp T7/S' CvYijSEiaS SdXXzi xal aij&z- , rai f vito 81
rov noXzplov <p$l- vzi xal apavpovrai . %6rt ydp larpixy.
Hippocr. de flatibus : r d IvavricL rc oy irarrloav itiriy
Irjpara. larpixy ydp i<Sn xpoCSeCif xal d(pa{pz(itS‘
dg>aipzOiS plv rooY v 7f zppaXX oYroyy , 7tpo6$f6iZ dlroor
iXXzin ovrco v' o Ss xdX- Xidra rovro noizcov apitiroS lyrpoS.
Articulum ne desideres, omittitur, ubi per se positum spectatur
nomen, cfr. Piat. Lach. p. 191. c. 18. rovro r oiyvv alriov iXeyoY
, das also 9 130 riAAT&NOZ xui
6 Siayiyvmoxav iv zovzoig zov xakov re xal D aioxQov " Egaza , ovzog
lottv 6 lazgixdzazog' xai 6 jit- rajidlkuv noicdv, dgze dvri zov tzigov
"Egeor og zov tre- gov xzrjOtta&cu, xal ot<j [irj bveOuv
"Egcog , dii <5’ lyyt- viafrcu, IxiOzo^itvog i/XTeoiijOai xai
ivovra ifcksiv, aya- meinte icli mit dem Worte altiov.
Alcib. I. p. 133. c. 57* o 87 } xal xo pijv xaXovjtev : Was
wir auch mit dem Worte xop7j bezeichnen ; Symp. p. 196* C*
civai ydp opoXoyEitai 6a>- <pp 0 6VY7J tO XpOLTElY IjdoVGJY
xal iirt^vjiuav , dcun unter der Be/.eichnnng: 6coq>po6v V7j
wird allgemein yerstaaden Itaque hoc Eryximachus dicit: Es
ist namlich, was wir * iatpi - X 7/ » neunen, der Hauptsache n a c
h cet* xal o diaytyvcSdxcov iv tovtoif. Difficillimam
esse atque gravissimam morborum e symptomatis petitam cognitionem, quam
diagnosin medici vocant, iutelligunt etiam ii, qui artis medicae
imperiti sunt* xal 6 yi Et a ft aXXeiv not djv. sc. td i
porrixa tcov (jayiaTCJV j hinc post cJsre sup- plendum est td
tioopata. Caven- dum est enim, ne quis tov £T£- pov subiectum esse
censeat enuntiationis» Quae sequuntur verba a xai incipientia,
praecedentium verborum explicationem eflicinut. Sensus est : Wer die
Nei- g u « gen der Kdrper so umaodert, dass sie an- statt der
einen Neigung die andere erlangen d. h. wer es verateht,
Korpern eine Neigung einzupflan- zen, die ihnen nicht ein-
wolint, aber ihnen c i n w o hnen muss, und die einwohnende, die nicht
einwohnen darf, heraus zu trei- ben, iitidtapEvoS i/iTtoiif -
6ai xal ivovta IB,eXeiy. > Quod de duplici Erote hic dicit
Eryximachus, Socrates de morbo profert in Piat, de rep. I. p. 333*
E. ap * ovv xal vodov o6tiS 8ei- yoS <pvXatia65ai xal ptj Xa~
$etv , ovtoS deivotatoS xal iyutoirj6ai , quem locum inter- pretes
propter xal jutj XaSeiv verba vario modo sollicitarunt. AaSeiv,
quae vulgata lectio est, rectissime e duorum codd. auctoritate in TtaSitv
mutaverunt. Non est autem assentiendum Stallbau- mio xai ante pnj
TtaSetv delenti. Nodov <pvXd%a6$ai positum habes propter
antecedentia : ap * ovx o natabat SeivotaroZ iv pdxy ritE nvxtixy
tltE tivl xal dXXy , ovtoS xai <pvXa- B,aOSai , quae si non
praecederent, pro <pvXd£,a6$ai Socrates alio verbo usus esset, quod
cum YOtioS nomine melius consociaretur, Veritus autem, ne quis
yotiov tpvXdgatiSai non satis iutelligeret, accuratiorem explica-
tionem verborum statifei addidit, quae in verbis xal yirj
TCo&EtY continetur. Kai igitur explica- tivum est, atque hoc
est, id est, significat. a y aS 6 Z dr 8 tj p tov py 6
i. Ad 8 yfiiovpyoS Stallbaumius i .e. ttog 'Sv rft] drjiaovQyos.
SsT yag Si/ rn SjftuSut mna iv tcj Softari fpD.a olov t ilvcn noteiv xal
Igiiv akfo)- >.av. ?< ito lybiOta tcc Ivavxudtara' 4 'vzqov itio
fio), zixgdv ykvxtl, $>]quv vyQtjj zavra rcc roiccvra. roinoig
• ime uj9elg "Egma iyzoiijeai xal oydvoiav d TjfikcQog E
inquit, iarpof. Sed /admodum haec verba languerent, si prae-
cedente superlativo sequeretur dyaSoS larpof. Eryximachus ab artis
medicae theoria ad pra- xin transit ita, ut, cum larpt- xuraror
appellasset eum , qui malum et bonum Erotem in cor- poribus
dignoscere posset, aya - J3oV drjpiovpyor practicum medicum vocet,
qui medicina adhibita malum Erotem e corpore removere, bonum in corpus
immittere possit. <pi\a olovr elvai not- at v xal i par
aWijX&v . Sublatum discrimen vides in Eryxi- machi oratione,
quod intef (piXt~ir t <piMa f q>i\o$ et Spei S*, ipdr ex-
stare supra annotavimus p.69 ,quibuscumcf.annot p.lS2. Docemur autem hoc
exemplo, qui Hat, ut vocabulorum significationes vergente aetate saepius
immutatae sint. Verba nimirum quasi alSaXa sunt cogitaudi rationis,
quae ratio ubi mutatur, corrumpi necesse est atque perverti verborum
significationes. narra rar otavr a. Wol- fiu* asyndeto
offensus xai ante narra ponendum coniecit. Possumus nos quidem in
eiusmodi dictionibus copula non carere, qua propter
Schleiermachenis ia conversione und a lies der- gleichen exhibuit.
Verum non solum Graeci sed etiam Romaui copulam omisere,
quippe efficatius eo indicantes, verba narra ra rotavra
eiusdem potestatis et iuris esse, atque praecedentia, quae dOvrSercjS
enu- merantur, exempla, cfr. Gorg, 503* E. olor tl fiovhet
idatr rovS ZwypaqjovZf rovS oixodo - povS f rods* ravnrjyovS ,
rov£ dXXovS ndrraS SrjpiovpyovS or- tiva fiovXai avrdUr.
Demosth. Orat, pro corona c. 74. , quem locum Stallbaumianae
industriae debeo: para ravra dvdrdvroov olf ?}r impeXlS iph
xax&S notetv , xal ypacpds , tvSvva?, tlsayytXlaS , narra
rotavra inayovrt&r x. r. A.Verba mxpur yXvxti a sciolo
quodam addita censent, praesertim quum in nostri loci repetitione
non reperiantur p. 188. A., Astiua Stallbaumius , Riickertus.
Atque Riickertus quidem, quatuor haec , inquit, frigidum, calidum ,
siccum et humidum t saepius in corpore esse diversasque eius
mutationes procreare dicuntur : at ntxpoV et y Xvxv in corpore
huntano quid sibi Velint , non intell igitur. Accedit , quod injra
p, 188. A. ipse E ryx irn achus repetens huius loci dicta caetera
enumerat , haec omittit . Cavendum est, ne quia his assentiatur.
Nimirum p. 188. A., ubi nixpor yXvxal verba non reponuntur , ne
poterant quidem apte poni, quoniam anui muta- tionibus, de quibus
illic sermo est, neque cum acerbo neque cum dulci qnicqunm
commercii XQoyovos 'Aoxkijjuoe t <Zg <pa6tv oTSe o i
xoiijtcu xal iyu mi&ouat , 0vvt<Sti]6E rr/v ijfUztQav
ze%vt)v. est. Nostro contra loco verba i['t'Xf)6v Seppry, itmpov
yXvxtt, Bypov vypcp, Ttavxa rd xoiavxa nou corporis conditioni
describendae, sed explicando inserviunt praecedente verbo xa
ivavxiao- xctxa. Sensus est totius enun- tiationis ! Er muss
namlich das Feindlichste ira K d r- per sich befreunden las-
se n u n d zu gegenseitiger Neigung umstimmeu kdn- nen. I c h
verstehe ab er «n ter dem Worte iv av - xt cjxaxa (ride anno't. p.
129.) dic reinen Gegensiitze: kalt und warm, bitter nud suss,
trockan und feucht, und alles dergleichen* Ceterum ne quis forte
putet itavxa xa xoiavxa verba rectius poni , ubi duo exempla
aliata sint, quam ubi tria posita repe- nantur: legitur in Piat*
Gorg., quem locum Heiudorfius laudat, p. 517. D. ixitopi&w, iar
plv xeivy xa doipata yjpcov, dixia — idv di fnyco, Ipaxia ,
dxpGo- paxa , vxoStjpaxa , aXXa , gjv epxsxai CoSpaxa eis imSvpiav.
Dubito autem, num reperiatur locus, in quo duobus tantum exemplis
laudatis zdvxa xa xoiavxa, dXXa t simileve sit po- situm*
zovxoiS Itci dxtjS e/f seqq. xovroiS ad tu ivavxtcdxaxa re-
ferendum est, non ad singula xoov iyavxiooxdxcDV exempla , quae non
nisi ad explicandam vocem xa ivavxuoTaxa apposita sunt. E p coxa i
pno irj d ai xal 6 pov oiav . Supra iam anno- tatum est ad verba
cptXa olov x iivaixal ipdv dWr/Xcjv, signi» beatum verborum
(ptXelv et €pav t <piXia et £poj£, similium, in Ery- ximachi
oratione prorsus mutari, "EpeoS igitur nostro loco nihil alind
siguificat , qn <m rerum sibi repugnantium concordiam. Huius nominis
vim ipse Eryximachus additis xal 6 povoiav verbis declarat,
ubi xai rursus explicativum est: Liebe d. h. Einklang. Si
quaeris autem, cur amandi verbis •> nominibusque Eryximachus
uta- tur, memineris velim, laudandi Erotis cQUssa orationem ab
Ery- ximacho haberi, atqna eundem statim ab initio orationis
suae ita censuisse, ut etiam artes ab Erote regi atque per cum
esse contenderet, cfr. infra p. 187* C. xi]v 81 opoXoyiav nadi xov
- zoiS, GjS7tEp ix£i rj ieexpim }, lv- zav$a j/ povdix? }
IvxiSrjdiv, *EpGDxa xal 6 povoiav aXXijXoav ipxon'/dada.
o?8e ol TtoiTjtai dicitur propterea, quod adfuerunt Agatho et
Aristophanes : wie die Dic h- terzunft da behauptet» Testantur
autem poetae, Aescula- pium medicorum npoyovov esse: artem medicam
euudem constituisse , ut qui res in corpore contrarias sibi conciliant,
non testantur. Igitur minus apte verba Schleiermacherus convertit
: Dass diesen Liebe und Wolwollca unser A h n - herr
Asclepios einzuflos- sen verstand, dadurch hat er, wie die Dichter
hier sageu und ich es glaube, unser e Lunst gegriindet. ”H
te ovv laxQMTj, <og itEQ liya, ituOa dut TOV 9eov tovtov 'xvfiegvutai
, agavrag 6'e xai yvfxvaOttxlj 7f' t s ov v lar pixr} , o)S
- 71 £ p Xiy cd seqq. Si scriptam exstaret rj x e ovv latpvkr}, cofnep
Xiyoa, nuda. dia xov $eov tov- tov xvfiepvaxai xai yvpva- titiXT]
xai yeoDpyia, nihil esset, quod lectorem olleuderet. Nam et medica
ars, et gymn.<stice di- cerentur atque agricultura dei ope
gubernari. Accedentibus verbis coSccvxcdS di, manente Te parti-
cula , dicendi genus eilicitur, quod certe minus usitatum est. Non
nescimus quidem, xe — di sibi respondere saepeuumero, sed tum
scriptum exspectamus : i/ xe ovv iaxpixi] .... xvpepvaxai ,
yvptatixixi) xai yeoipyia GjSavTGoS. Huc accedit, quod post xi
Graeci scriptores di «on admittunt nisi in rei, quae prae- cedentem
gravitate superat, com- memoratione, ut Lutiue conver- tendum sit:
et vero, et vero etiam. Ea gravitas nostri loci verbis convenire
frustra docet Stallbaumius ad Piat, de rep. II, p. 367. C. Cave
tamen, quic- quam mutarum censeas. Ery- ximachus in^Hae structurae
obli- tus , quasi dixissset ?/ /ikv ovv principio enuntiationis,
coSaiixcoS di dixit. Vide de piv ovv — di voculis annot, p. 23.
Alia ratio verborum est Piat, de rep. III. p. 494. C. iv xe xy
xmv &K& v x oirjdei itoXAaxov de xai a\Ao$i, ubi plus
ponderis in altera] enuntiati parte est, quam in altera , ut ti * —
di apprime respondeat Latinorum cum — tum. Adde Piat, de rep. VI.
p. 489. C. ix di xoivvv tovxqov xai iv xovxoiS ov fiadiov evdo-
mpelv — TtoXv dfc peyidxy xai Idxvpoxdxtf dtafioXrf yiyvexat
xy tpi\o6ocpioc x. t, A. wSitep A iy<a. Praesens tempus A
iyeiv verbi de senten- tia loquentis valet , praeteritum ad
praecedentia eius verba le- ctorem revocat cfr. Apol. Socr. p. 17.
B. ovxoi piv ovv, cofnep iyco Ai^or^ut mihi videtur) y xi y oidlv
aXySl* elpi]xa6iv. Adde Symp, p. 221. D. ei ^ prf apa oh iy oj A
iyoo diteixa^oi TiS avxpv . yv pvatix ix?} xai yecop -
yia . Articulum haud raro omitti in artium nominibus, Schaeferus,
Ileindorfius, alii do- cuerunt. Nostro quidem loco eum omitti eo
magis etiam mirum, quod antecedit fj TE ovv iaxpixi] . Si quid
video, non piomiscue veteres artium nominibus aut addiderunt
articulum aut dem- serunt. Addidisse videntur, ubi de re sermo est,
quae omnibus nota est, vel qbae definitione prae- missa nunc
innotuit. Demseruut articulum , ubi de re nondum explicata, aut in
universum de aliqua re dixerunt. Nostro loco artis medicae
definitionem Ery- ximachus dederat in superioribus, ut de huius
artis natura certio- res facti auditores intelligerent, quomodo per
Erotem ars medica dicatur gubernari. Hinc iaxpixi ] verbum articulo
insignitum est utpote definitum atque notura, non insignitae sunt
yvpvadtixif et yecopyia , quotam uon ex- plicatae sunt atque
accuratius de-- finitae: Die Arzncikunst nua wird mei ner Ansiclit
nacli gunz dur ch diesen Gott 187 xul yeagyiu. fiovGix!/ de xal
navxi xurciSijAog ra xcd Gfuxoov oJtqogtypvti zov vovv, ori xazct zavza
lyei zov- tois, ogneQ iGcog xal 'IlguxXei zog (iovXerca Xtyiiv, g f
1 e i t e t , ani gleiche Wcise auch das, vas Gy- mnastike
und Georgia g e- n u n n t wird. Ceteram Syden- liainium audi
laudatum a WolGo; Per E u d z w e c k der Arz- lieikuust i s t
Gesundheit, und der GymnastikStarke des Korpers. Ab er in deu
Mitteln, lvodurch b e i d e K u n s t e ihren Ziveck zu erreiclien
suchen, indem sie der g u t e u korperli- cheu Anlage
uachgeben, und der schlechten e n t - gegen liandeln und sie
verbessern, sind sie ei nan- de i- ganz aualog. So hat auch die
Eigenschaft des Bodens Analogie mit dem Tempcrament des Kdr-
pers und die vershiede*? lien Gattungen von D ii n - gung mit deu
Nahrungi- und Anzueimittelu* Eia guter Boden gewinnt durch
eine homogene B e - handlung, ein schjechter wird durch eine
entgegenr gcsetzto Bchandluugsart bosser, und iindert se i ne
Icatur. Was iibrigens die M etaphcr von der L i e b e lietfifit, so
brauclit mao diese in d e r Land wirth-r" scliaft auch h e u t
zu Tage* Auch wir sagenreinBaum, einePflanze liebtdiesen, - 1
i e b t j e n Boden. naxa tavxa £xet xov- XoiS h. e, arti
medicae et iis, (|uae gymnastice et georgia ap- pellantur. Pe xaxpc
praepositionis significatu vide annot. p. 41. Paullo infra eodem modo p.
187. E. xal iv pov6ix\ \j 6t) xal iv iaxpixy Xal iv xoiS p:AA
oiS itd6i sc. artium nominibus sive terrestrium sive
divinarum. cjSirep iticoS xal 'Hpa~ x\f ix o S. Heraclitus
Ephesius Ut morum asperitate, ita orationis dura quadam obscuritate
insignis, Schol. ad Piat, de rep. VI. habet 'HpdxXeiroS , BaSiurvoS,
9 Ecpe- OioSy pef'QtA.p<ppGDV yeyovwS xal v7tepo7txrjS Ttctp
oyxiyovy. Orationis obscuritas cum ex brevi- tate quadam dicendi, tum e
ne- glecta singularum orationis partium iunctura orta est, ut Ari-
stoteles narrat Rhet. III. 6. Videtur ea ipsa de caussa Heracliti oratio
cum maris fluctuatione comparata esse, qnae cum innu- merabiles
undas exhibeat, ut sen- tentiolas illa, neqoe finem neque initium
undarum discerni pati- tur. Lectorem igitur Heracliti, ne mole
seutentianyn quasi fluctu undarum immergatur ( fl? xd p?}
(tnojtviyfjvai iv avfcS), djjXiov XoXvpfit/TTfv esse debere
Socrates censuit, Ut quqsi brachiis validis, fi. e. interpunctione
posita, con- tinuum tenorem discerneret ac disiuugeret verborum,
jJtjAioi XoXvpfirjxai celeberrimi erant plurimumque natando
pollebant, vide Wachsmuths Alterthumsk. II. 1. p, 404. , qui
laudat piog. Laert. %y 22. 9, 11, Ipterpun- ctionem omissam, nop
verba ipsa obscuritatem illam effecisse , ut clarius appareat,
fragmeptum lau- dabo Heracliti, quod in dissert. txel tois ys
QTrj/iuatv ov xaAw? Atyfi. ro Sv y«P, qn]al, StawEQo^ov avrb «fap
tvficpiQSO&ai, &&*<) ««f/ V iav roiov re x«l fi»» S'e
™AA>7 aAoyt'« «r de Samo -Thraces nnminibns ex- plicare studnit
Schellingios: iV to dorpov povvov MyedSai ovx tiitet xal i&fAtt
Z)/ro? ovopa. ro i \y yap, <pi]di, Statpe-
p&pevov seqq. Caute distinguendum est, quid Heraclitus o CxuzilvoS
his verbis exprimere voluerit, et quomodo Kryximachus eius verba
explicaverit. Medicus nimirum de musica loquens verba illa laudat
ita, ut non nisi de re musica dicta intelligeret, i. q. ex
additamento perspicitur, quo Siatpcpd piva explicat p. 187.
B. rov o Sio s xal ftapioS atque e subiecti mutatione. Ap-
poviav nimirum reo ivi Eryxi- machus substituit. Heracliti autem
voluntas haec videtur esse: Das Eins ist in sich selbst entgcgengesetzt
Eins , wie die Eiuheit des Bogens und der Lyra h. e. das Eins ist
nicht absolut Eins, sondern momeutan zusamraenge- seut aus
Gegensatzeu, wie die Eine Kraft des Bogens (Schuss) momentane
Verschmelzung ist xwreier Gegensiitze, oder der Eine Klang (Accord)
der Lyra momentane Verschmelzung mehrerer Uissouanzen. Non recte
autem, ut videtur, 'interpretes to fV totam rerum univer- sitatem
significare censucruut, neque recte Simplicii testimonio ntuutur ad
Aristot. Pbys. p. 11» A. iveSeixwxo Si (sc. HpaxXti- roS') ti}v iv
ty ytvidu ivap- fioviov piSiv tuiv ivavuurv, quae senteutia ex
enuntiato illo derivata est, atque eidem, tan- quam in basi,
innititor. Proba- tur hoc Plutarchi testimonio Do animi procreat,
p. 1026. ^B. 'IIpdxteiToS SixaUvxponov ap- povhjv xodpov, oxgdS xep
Av- pijS xal ToSov. Erostra autem in dicto Heracliteo aliquid
mu- tandum censuerunt Astius , Ba- stius, alii. Ad Hcracliteae
dictio- nis exemplum supra laudatum ut revertamur, videtur
Schellingio interpunctio ponenda esse post ovxiSiXei; nobis haec
verborum dispositio placet: ir 10 dotpov povvov AiyedSai ovx ISitei
xal l$i\n ZtjyoS ovopa. Absolut Eins ist nur das W e i s e ,
Absoluta unitas nostrae rationi repugnat, eam repugnantiam ita
expressit Heraclitus, ut diceret: es will nicht und will Eins genannt
sein der Name des Zeus. Audi Goe- thii nobilissima verba, quae si-
milem rationis repugnantiam fe- licissime describunt - AVer darf
ihn nennen? Und wer bekenncn: Ich glaub’ ihn?
Wer empfinden Und sich unterwindcn Zu sagen; ich
glaub’ ihn rycliU. yiyovcv V7t d TrjS pOV- dtxijS tixrV*-
Vulgo addi- tur V dppovia, quod addita- mentum per se spectatum
non_ habet, quo offendat. Saepius enim subiectum e
praecedentibus repetitur, non tam augendae gra- vitatis caussa,
quam perspicuita- tis. Sed non agnoscunt nostro loco XXI. codd. 7/
dppovia verba, fioviav ipdvca SiaiptQfGftai jJ ix dtatptgofilvav $n
tlvcu. aX£ 1'aag toSe ipovksto Xiyuv , on ix diacpt- B gofiivav xgotegov,
rov 6 |eog xal ftagtog , 1'xuru vOteqov onoXoyrjedvrcov yiyovev vito zijg
(lovaixrj g xi- %vrfi, ov yag 8g xov Ix Siaq>sgo[iEvav ye izi tov
oj-iog xal fiagiog agfiovla av ity. rj yag agfiovla evfupavla lari,
Cvfupuvla ds ofioXoyla zig' f>(ioXoyiav ds Ix Sux,- <pego[isvav ,
sag av Siacpigavzai, advvarov tlvai' dta- (ptgoiitvov ds av xal firj
ofioXoyovv advvaxov uQuoOai. igitnr cnm Bekkero,
Stallbaamio, Rukkerto delenda curavimus. De verbis insequentibus ov
yap 8tf nov vide annot. p, 85 et 98« rj yap ap povia*
Bene Schleiermacherus in conversione: Denn Harmonie ist Zu-
sammenstimmuug, Zusam- mcnstimmang aber Ein- tracht; Eintracht
aber kann unter entzweitem, solange es entzweit ist,
nnmoglich s e i n ; und das entzweitenicht e i n t r a c h- tige
kann wieder unmog- lich ausammeiutimmen, dZfnep ye xal 6
fivSpof* 8ensus est verborum : quemad- modum, ut hoc unum exem-
plum commemorem, rythmns , . . Indicat igitur yk particula, plura
exempla afferri potuisse, quibus res probari posset, unum
sufficere, vid. annot, p, 88. 8ievrjvey pkv wy xtpoxe- pov.
Ante 8 levrfveypkvoov omnes \ fere codices ix praepositionem
habent, quam cum tacide omisis- sent interpretes, Riickertus solus
exstitit, qui in verborum ordinem revocaret. Sed dubito, num ali-
quo modo excusari possit. Aut repugnandum est codicum aucto-
ritati, atque ix e verborum or- $ \ a
dine tanquam inutile additamen- tum expellendum, aut scriben- dum
est ojsxep ye xal 6 /5uS- poS 6 ix tov rorato?? xal fipa* 8 ioS, ix
8 iEV 7 ]ytypkvojv itpoxe- pov , vtixepov 61 6po\oyrj0dv toov
ykyovev. In sequentibus codd. non pauci habent "Epasta xal
opovoiav aAA^Aozf , quae lectio unde orta sit, haud diffi- cile est
ad intelligendum. Ni- mirum scribae seducti sunt vi- cino ipnoieiv
verbo, ut dativum pfo genitivo exhiberent, quem nunc novem
tantummodo codd* exhibent. tyAozf autem, ut et Riickertus vidit,
non satis commode explicari potest; aut igitur «AAr/Aiwv scribendum
est, quod in textum recepimus (de ipnoieiv vid, annot, p.
102.) aut exhibendum avxoiS y cuius vocis ne unum quidem in
codi- cibus vestigium apparet. xal iv pkv ye ctvty ty
6v6x a 6 et x, r. A, Stallbau- mius ad h. 1. annotat: Jn ipsi*
rationibus musicis , h, a. in har- monia et rhythmo t nullo negotio
ait cognosci et animadverti posse X a i p a) x ix d , h. e, quae
sint consona et congruentia : simplices enim illas esse et quae non
pa- tiantur discrepantiam aut diver- t s itate m ullam i sed in usu
et ex- r —a' / &gitzg ys xal o
$v&[wg ex zov ta% zog xal (fgadzos dievtjVCyfiBvoiv itgoxzgov, v6zsg
ov 5 e of loloyrjOdvzav yt- c yovs. rrjv SI ofiokoylav ituOi zovzoig,
agxf g IxeI fj latQLxrj , lvzav%a y (lovtSixrj EvrlftrjGLv, "Egazu
xal 6fto- voiav akkrjkav l(i]tou]Oa<Sa' xal lazw av fiovtSixt]
nzgl agfioviav xal gv&jj-bv Igertixcav Imazyfirj. xal Iv fitv
ys avxy rjj tivOzadEt. agfiovias te xal gv&fiov ovdev Xakenov ra
iganixa Siayiyvbi6xuv , ov Se 6 SiTtXovg 'Egag ivzccv&u ncog ttinv’
ak£ inziSuv Sky itgog z oi>s dv&gw- ercitatione musices -plurimum
in - ter esse , quo modo illis utaris , atque hic cerni vim
duplicis il- lius Amoris , coelestis et vulgi- vagi* Mira est
sententia , fateor : sed non sine caussa Eryximacho tributa*
Ineptit enim nunc acer- rimus iste Heracliti cavillator adeo , ut
propter inanem illam sophistarum imitationem misere vapulet .
Perperam igitur Schiitzius haec : ovSh 6 $iit\ov S *E p oo S ivi av$ a
irtuf idtiv delenda iudicavit. Isimirum non intellexit vir
acutissimus homi- nis ineptias. Non rectius Plato- nis verba
Schleicrmacherus inter- pretatas est io eonvers. p. 408. Und in dem
Aufstellen des Wol- lautes und des Zeitmaasses selbst ist es wol
nicht schwer, die Liebesregungen zu erkennen, noch findet sich
hierin jener zwcifache Eros. Hoc si dixisset Eryximachus,
merito vituperaretur» at vituperandus est Riickertus ad h. 1,
annotans: Ego nescio, quo hic stupore tenear, cui, ut ineptias videam,
plane non contingat. Nihil mutaudum est, neque quicquam e
verborum ordine expellendum, sed rectiore explicatione opus est
enuntiati, quam a nemine hucusqde repertam esse miror. Verba
nimirum ovSh o 8in\ovs"Epoo$ iviccvSci yrooS 1 idtiv
elliptice posita 'sunt, atque supplendum e praecedenti- bus est
£tfA£7roV. Mens Eryxi- machi haec est: In derblos schematischen
Aufstel1ung der Harmonie und des Rhythmus ist es nicht schwer, die
erotischen Elcmente zu erkennen, noch macht der zwiefache Eros
'hier irgend Beschwerden. Quae sequuntur, optime cum hac verborum explicatione
conveniunt. a\X' iiteidav 6iy itpoS rotis 1 ctv$ ptortovS x.
r. X. Schleiermacherus exhibet in conversione: Allein wenn man vor
den Menschen Wollaut und Zeitmaass in Anwendung brin- gen soli;
quae si mens fuisset Eryximachi, scripsisset haud dubie iv
dvSpooitoiS. Ficinus non sa- tis explicate, sed Schleiermachero
rectius, ut videtur, verba inter- pretatur: sed tunc demum, cum ad alios
rhythmo et harmonia est utendum. Nobis Eryximachus de rhythmi'
atque harmoniae usu eo loqui videtur, qui hominum utilitati
inserviat. Rectissime Matth. Gramm. plen. J. 591- p. 1180. seqq,
ita de ifpoS praepo- sitionis potestate disputat, ut D jrovg
xara-/Q^<S^ca Qv&fiai te xal ccq/iovm tj noiovvtu, o &rj
fuloTtouav xcdovtiiv, rj %qc!>hsvov 6q&(5$ roig 7ie- jro»;fi£votg
( uiketii re xal fierpoig, 3 bi) ncudeia Ixlq&rj, Ivrav&cc dt]
xal %oAenhv xal dyct&ov SrjfuovQyov dei ncihv yuQ ijxei 6 aviog
loyog, o« rofg n'tv xodfiioig plerumque dxoftEiv verbi notio- nem
loquentia animo obversari diceret. Possis igitnr nostro loco 7 t
poS TovS avSpodirovS Graece explicare: itpoS ti/V xgjv av-
Spamwv utpiXeiav dxoitovvtfc. o 81 } peXoit oit a v x a
- Xov 6 iv . His verbis exemplo usas est Mattii. Grarom. plcn.
§. 475. C. p, 891», quo probaret, pronomina relativa iu
explicativis enuntiatis haud raro ad praece- dentium nominum genus
confor- mari. Interdum ad sequentis nominis genus effingi pronomen,
notissimum est. Utroque dicendi genere, quorum alterum accuratius, alteram
elegantius est, Latini quoque usi sunt Vide sis Kriiger, de Attractione
Lat. Liug. $. 56. p. 129. o Si) TtaiSeia cfr. Piat, de
rep. If. p. 376. E. c. XVII. TiS ovv ?} naiStla ; T/ x a Xt7t6v
evpeiv piXtico ryS vito tov noXXov xpovov Evpij- pEvrjS; i.6tt Se
7tov 7 } p\v ini yv/tvcttitix?/, ij 8 ini vxf/ povdVHjj. Adde de
7tai- StiaS notione verba Waclismuthii in libro; Hellenische
Alterthuras- kunde Th. II. Abth, II. p. 4. Recte ad h. 1.
Riickcrtos, Omnis, inquit , institutio liberalis apud Graecos duas
habebat partes, y v- /iv adnxijv et povdixijv, quarum illa ad
corpus pertine- bat, haec ad animi culturam , at- que in poetarum
maxime carmi- nibus legendis ediscendisque versabatur, addita
sonorum modorumque arte . Ceterum ne offen- das in temporis mutatione,
cum supra o 81 } xaXovgev , nostro loco o 81 } ixXy&rj dicatur:
illud est: vias man nennt; hoc signi- ficat: was man gewohnlich
nennt s, Mas man zu nenuen pflegt. ivT otv 5 a 87 } xotl
£aA£- 7 t o y x. r. A. se. ta ipootixa 8 iayiyvoS 6 xeiv. Scriptum
exspectabam equidem ivxavSa 81 } xat goAaroV, ut ad verba respiceretur
ou<$£ o SiicXovS EpoiS ivravSa ncoS itirtv. Nam ro
SiayiyvGjdxEiv theoriae, quam vocant, ut medicae (vid. p. 186. D.
init,} ita poeticae artis cou- venit. Nostro autem loco non de
theoria poeseos sermo est, quam Eryximachns tetigit verbis iv piv ys
avty ry dvdraCEi X. T, A., sed de eius usu hominum utilitati accommodato,
ut haud sciam, an non et aliis probabilis videatur verborum conversio
haec: Aber weun man Rhythmus und Harmonie zum Nutzen der
Men&chen in Anwen- dung bringt, — da macht der zwiefache Eros
grosse Beschwerde, und es bedarf eines tuclitigcu Pruktikers.
naXtr yap yxei 6 avroS X oyoS, Riickertus ad Pausa- niae
verba liic respici docet, quibus praecipiatur: iis tantum AMATORIBUS
obsequium praestan- ziov av&Qwxmv, xal ag ccv xoafueyzeQOz ylyvoivro
oi (hjjtm ovze g, Sei xaQifea&cu xal (pvXctzzuv zov zovtav
"E(iaxtt, xal ovzog i6ztv b xaXbg, b Ovquvios, b rijg OiiQavlag
MovOrjg "Egcog 6 Se Ilokvfiviag , b IlccuSt]- E ( tog , ov Sei
evkaflov[ievov TZQOgtptguv otg «v TtgogqiiQij, dum esse ab
amasiis, qui et ipsi virtutem colaut, et ad eam co- lcudam amasios
adhorteutur. Hioc factum, ut Eryximachi contortiorem censeret et obscuram
et subineptam orationem. Certis- simum est autem , praeceptum
medicorum ab Eryxiraacho tangi, quod legitur p, 186. C. lv ctvrolS
tols 6oopaoi, rols ply dyaSol? ixddrov tov dooparoS xal vyut- roiS
xaXov x a ptfe6$ ai *dl xal tovtq Idxiy y co ovopa tu laxpixuy ,
%oiS 61 xaxols xal YodcoSedty fddxPOY re xal 6ti dx<xpidT£iv>
ei yeXXei ris texyi- xoS. elvai. Mens Eryxituaclii haec est- ut
illic medicus corpori , ita nunc poeta sive magister consulere debet animo ADOLESCENTIUM,
atque bene moratis, et quo liant meliores , ita prospicere, ut nulla res,
cuius laude corrumpi possent, laudetur, o trjs Ov parias
Mov-r 6t]S "E paS . Haec verba cave ad praecedens
"Ep&ta verbum referas. Pertinent potius ad ro
Xapi&dSat et x 6 cpvXdtTEiv, quae nomina e praegressis facillime
eruuntur. Ov%oS autem e generis haud rara assimilatione, de ‘qua
vide annot. p. 129. positum est. Sensus est : Gutgearteteliing-
linge zu beriicksichtigen und ihre naturliche Neigqng zu bewahre»,
darin besteht das Wesen des Eros der Urania* Vide etiam au- uot. p.
126. o' Sfc TloXvpviaS. Poly- , hymniam Musam cum
Pandemo Aphrodite comparari ab Eiyxima- cho nemo non videt. Iam
quaeritur, quo iore id fiat. Polyhymnia vulgo cantuom multitudinem
si- li i fica t; possis igitur ea de caussa illam comparationem
institutam putare, ut cum AMASIORUM multitudine, quae a Pandemi
asseclis ametur, illa carmiuum multitudo comparetur. Possis etiam,
quae Riickerti sententia est, ita judicare, ut numero abunda ntiora
rarioribus viliora censeas. Neutra explicandi ratio nobis nunc placet,
neque credimus, Polyhy- mniam nostro loco carminum mul- titudinem
denotare. Agitur de Jiarmoniae atque rhythmi mota- tione, quae
iusto saepius in car- minibus admissa TloXvpviaS nomine insignitur. Ut
igitur Ilar- 6)jpov asseclae ab uno amusio ad alterum transeunt, non
virtutis, sed LIBIDINIS ergo, quae e varietate amatorum oritor ,
ita poiitae, asseclae llav6i)pov , qui HoXvpviaS £,vvtpy6$ est,
sigui- ficautur harmoniae atque rhythmi varietatem captare, aurium,
non animi oblectamenta. npoScpipEiv oU dv 7tpos~
(pepXJ. Vulgo male olS ar TtpoSiplpoi. Minus accurate haec verba
Ficinus reddidit ! cui summa cautione indulgendum est , ut
voluptatem quidem homines hau- riant , incontinentiam vero devi-
tent, , Sensus est: quem, qui*? 1 twreg av zyv /xev ySovyv
avzov xagjtd<S7]zai , dxolu- clav 6e (lyStfiiav tftsronjtf}/ , tog xtg
iv ry yy, triga xi%vy fiiya 1'gyov raig jitgl z yv oiponouxyv ri%vyv
im- ftvfitaLS xaXtag XQyOScu, togr’ ctvtv voOov zyv ydovijv
xagnddao&a*. xal iv yovOr/.y Sy xal iv lazgixy xal iv rotg ctlXoig
ndai xal roig dv&gaittiotg xal _ toig &tiotg, xu\r' ot Sov
Jtagdxti, tpvXaxztov ixdztgov xbv’'Egcoxa’ 188 ivtazov yug. bus
adhibetur cunque, magna cum cantione adhiberi oportet, nt suavi-
tate quidem eius fruatur, qui eo ntitnr vel poeta, vel lector, sed
turbas devitet atque ordini* cor- ruptionem. Harmoniae autem
atque rhythmi commutationes le- gibus artis poeticae probantur ita,
ut paucis quibusdam in locis, quibus conducere possint, modice
admittantur v. c. in exprimendis animi allectibus. Iu sequentibus ad
xapjtGjdrjxat pronomen indefiuitnm subintelligendum est, qnod et ad
poetas et ad lectores referatur. Ad poetas refertur ita, ut artis
poeticae opera componendo, ad lectores, ut eadem legeudo sibi cavere
moneantur, ue rhythmorum atqne harmoniae ordinem concinnitatemque
turbent, vel non satis recte agno- scant. Clarior res fit exemplo,
quod Eryximachus statim addit. Nimirum artis coqninuriae deli- cias
medicis in universum pro- bari negat. Interdum tamen li- cere ait
eas delicias hominibus commendare, quae et delectent et damni nihil
aderant. xa& o6ov itapeixei. Convertit haec verba
Stallbaumius: quoad eius fieri potest. Recte. Laudat idem nostrum locum in
annot. ad Piat. Polit. II. , p. 574. E. 6p 6* uvx anobtiTaatkov,
o6oy y av bvvapiS irapeixq. Ceterum verba sunt non pauca, quae
omisso subiecto suo transitivam vim amittunt, atque ut verba
imper- soualiu adhibentur. Quem usum huius verbi cqm non notum
ha- berent librarii, factam est, ut in eius scriptura libri non
consen- tirent. Bodl. enim aliique codd, itapijxEt exhibent.
Ceterum con- ferri iubet Riickertus ad h. 1. Thucyd. III, 1,
TCpoSfioXcA iyl - yvovxo TG7Y * A^i}v cxxqdv inithov , onxf
icapeixoi. Soph. Philoct. 1048. ic6\X av Xiynv ix ol M l TCpoS ta
xovd’ hcr\ eE, pot ita- peixot. xa\ rj tcov eo p cov tov Ivi-
avxov 6v6x adiS, Schleier- macherus exhibet in convers. p. 409. Die
Anordnung der Iahres— zeiten und der Witterung. Fici- nus verba
convertit ; Anni tem- porum constitutio. Neutra 6v- OxadiS nominis
conversio nobis nunc placet satis ; verbum desi- deramus potius,
qno significantius exprimatur , de finibus atque de initiis anni
temporum hio agi. Nimirum consentiunt medici , nihil perniciosius esse
corpori hu- mano animalibusque et plantis, quam subitas coeli
mutationes, Cap. xm. '/Sarti arcti rj twv wQiav tov Iviaircov
OvtSraOig /is- 6tf) laziv IXtUpOtfQUV TOVTCOV, 5 tttl ixSlSaV fllv
ICQOg a IX>;?. a tov xoOfiLov tv%\) "EQcnog 8 vvv St] lyu
tk tyov, za re &EQ(itc xal tu ilrv%Qcc xal |i;p« xul vyga, xal
cp- l toviav xal xqkClv AajSy CwcpQovu, jjjactc yigovTu tvetij-
v. c. si frigus acerbissimum se- quatur subito aestus
ferventissimus. Patet igitur, Eryxiinucbum .medicum non tum / de ipsis
anui temporibus, quam de eorum finibus iuitiisque apte coniungendis
agere, ut tivtiratiiS nomen convertendum sit: Verkuiipfung, Ver-
biudung. xal dppovLav xal x pa- ti iv. Vulgo omittitur xal
ante apporiar positum , quo omisso atque commate post vypa
deleto sententia verborum haec evadit : Si calida et frigida
houesto amore consociantur, porro si sicca et humida harmoniam et
mix- turam aptam admittunt.*. Haec quominus probemus, vetant
a rvr 8tf iXeyov verba , quibus t d re Seppa xal rd ipvxpd
xai £,r}pu xal vypa arctius couiun- genda esse docemur.
Ceterum ad ea haec comparata sunt, quae de musica arte supra
dicuntur. Ut illic xo dS,v xal fiapv, tq tax v xal fipadv com-
memorantur, uostro loco habes rd Seppa xal rd if/vxpa t rd £rjpa
xal rd vypa. Kpatiif tiojippoov autem in re rhytii mica evpv^plar
gignit, quae eodem modo iuvenum moribus erudiendis inservit, quo, modo
sanitatem generis humani auimalium- que et plantaram progignit eve-
rrjpia. Apte Stallbaumius comparari iubet Piat. Phileb. p. 26* B.
ovxovr ix rovrcov copai re xal otia xaXd narra rjptv yi- yove ,
rcor re dnelpcjv xal rcbv nepas ixorroav £,vppi- XSerrar ;
tico cppova. Substantiva haud raro a verbis, e quibus pen-
deant, seiungi, ut gravitate ex- hibeantur auctiora* supra indicavimus p.
59. et p. 66. Pari modo a substantivis adiectiva disjunguntur,
cuius usus noster locus exemplum est. Sensus est: Wenn das Warme and
das Kalte, Trocknes und Feuchtes gegensei- tig des geordneten Eros
sicli er- freut, und es einer Harmonia und einer Mischung, namlich
einer ganz zweckmdssigen , theilhaft wird ... xal ovSlr ?jdixtjtiev.
Aoristicum tempus praecedente tempore praesente i/xei ne quem
offendat, habet praeteriti fere potestatem yxeiv verbum, cfr* Piat.
Crit. p. 43* A. apri 6h jJxeiS 7f naXai ; kamst da eben erst oder
schou lange? Igi- tur ijxei epepovta idem fere est atque ijve^xev.
Proprium aotem aoristicum tempus in rebus, quas experientia docuit,
recteque praecipiunt grammatici , haud raro giav TE xai vyiuav
av&Qcoicoig xai xoig aklotg tcootg te xai cpvxoig y xcd oijScv
xjStxijdEV" oxav Ss o uncc xijg vPgsiog "Egag byxQaxiexEQog
ntgi xag xov Iviavxov agag B ysvtjrai , 6d(p&EiQS x e xokka xcd
•fjdtxrjtlEV. oi! xe yag koiftoi gidovOi ylyvEO^ca 1% xav xocovxav xcd
ak£ uvojioitt 7to?J.a [vo<3>juaxa ] xai xoig fhjgloig xai
tofcf aoristum usurpari, ubi indicetur, aliquid fieri solere.
Eodera modo explicanda verba sunt, quae paullo infra leguntur; 8 i
e cp$ e i- pe v, 7f8 ixrj6ev . Alia ra- tio est Piat. Phaedon, p.
84. D. xai Ss 1 axovdaS iyeXa6i re 7 jpepa xcd qn\6iv .. etenim
ab aoristico tempore ad praesens subito transitur, quoniam
nunc non narratur, quid Socrates dixerit, sed ipsa eius verba af-
feruntur: Hoc audito ille cum subrisisset: Vae, in- quit, o
Sim mi a. Adde Piat, de rep. VI* p. 508. D. otav per, ov xataXapnei
ab/ $ eia. re xai ro ov, tls rovto dne- peior/rai (ac. ?j if>
vx/f) evoi\6e re xai Eyveo avxd xai vovv If^erv (paLverat . Quo
loco quid anima facere soleat , aoristo, lo- qucntis de animae
conditione iudicium praesente tempore exprimitur. Ne plura huiusmodi
exempla afferam, lioc in universum tenendum est, aoristo et praebente
in eadem enuntiatione positis non eandem potestatem esse, sed
ao- ristum quod fieri soleat, aut quod factum * sit indicare ,
praesens tempus vel facti veritatem ex- primere, vel aliquod
iudicium loquenti? in se continere. xai d XX dv 6 pota TtoX*
\u v o pax a 4 Haec verba Corrtipta esse multi fuerunt, qui
annotarunt eademque emendaro studuerunt, Ficiuus habet: Testes siquidem ex
/iis oriri con- sueverunt, aliique morbi permulti et vani brutis ac
plantis infia - sci. Igitur legisse eum Stall- bunmius censet xa\
aXXa noXXa )xal nocytola vodijpara* Schii- tzius scribendum
couiecit xai aXX’ opota, Orellius ad Isoctf. do Antid. p. 330. :
ciXX’ dv opoia. Astius aXX * axr opoia , quod Stallbaumio probari video.
Fa- teor, harum mutationum nullam mihi placere. Olim
scribendum putabam xai aXX * dvopa noXXci [ vo6rj pacta .] Ac v 067
) para qui- dem etiam nunc persuasum habeo glossema esse eius, qui,
cum recte intellexisset avopoia t ut et alii intelligerent, verbi
expli- cationem margini adseripserit* Memor autem Eryximachus
ver- borum erat p* 186. B. ro 81 dvopotov dvopoloDV huSvpei
xai ipa, ad quae respiciens avopoia dixit, ut simul ad in tGDV X
OtovTGOV supplendum sit avopoioov xov iviavx6v (opcSv . xai
tols $tjpiotf' t xai toiS epVtolS . Eryximachus cum supra dixisset
dv^pcbnoii xai xoli aXXoiS ZgjoiS re xai cpxnoiS, humani generis
nunc videtur esse oblitus* Verum licet medicis de re medica loquentibus
homines animalibus adnumerare : den thierischen und vegetabilischen Korpern,
xai ipvdifiat» Timaeus iu L, V, Pl. : ipvtiifiai piXxoa - cpvrolg * xal
yag ita%vat xal %aXat,ai xal iQVtiSfiai ix Tckeovs^lag xal axodplag Jtsgl
aXXijXa zwv zolovzuv yi~ yvezca sp&zixcov , av iitufziyfiq adzgav re
q)ogag xal IvLavztiv agag adzgovopta xaXzlzai. %xi roivvv xal
ftvdiai itadai xal olg [lavuxij htidrazel — zavza 69 l6zlv rj negl fteovg
ze xal dv^gtbnovg jcgog t&XXiqXovg C drfS Spodos • itax y V
SpodoS XiovqoStjS. Hesych. ipvdiftrf. vo - 6oS riS aepoS
iitiyevopivT} toiS cpvtotS xa i xapnoiS. Pro yi~ yverai pluralem
numerum exhi- bet Stobaeus, quem numerum Fischerus et Wolfius
reposuerunt. Frustra. Naturae phae- nomena quoniam verbis impersonalibus
exprimi atque describi solent, substantiva etiam, quae cum his
cohaerent, ut infinitivi, quibus deest subiectum certum, tractantur.
Vide Astii annot. ad Flat» Polit» p. 400. Adde Matth. Gramm. plen.
$. 303- p. 603* ojv ire tdnj p.7j xaXetr at. Fuerunt, qui haec verba
delenda censerent; alii eadem coniecturis teutarunt» Primus Astios
monuit, meteorologiam et astrolo-giam veteribus astronomiam appellatam, neque
meteorologiam antiquitus ab astronomia disiun- ctam fuisse» Id
factum ideo, quod astrologorum non solum erat, sidera observare,
sed etiam tempestatis mutationes, quae si- derum indicari solent
vel ortu vel obitu , praedicere. Quod autem, Stallbaumius ait,
Eryxi- jnachus hanc defiuitionem astro- nomiae addit, atque mox
etiam defiuitionem pavrixi}S\ id nemo inepte aut temere fieri
arbitrabitur, qui reputaverit, hominem sophistarum artibus
assuefactum ridicule captare inanem quandam doctrinae speciem atque
umbram. Aliter nobis videtur de his verbis iudicandum esse.
Solebat vulgo astronomia definiri ita, ut imdri/prf adrpu>v re
{popoiv xal iviavtcov copcov vocetur. Hanc definitionem veram
esse Eryximachus negat, astronomiam inidtTjfirjy ip GJtixoJV
ite- pl adrpav re q>opaS xal ivi avt air copaS esse
contendens. iri roivvv xal Svdiai TCadai . Haec est
xneliornm codd. lectio, quorum iu numero primus est Clarkianus.
Probatur ea lectio fiekkero , Astio, Stallbaumio. Alii habent xal al
SvdLai aitadai ; minus apte, ut videtur» Non enim ita de
sacrificiis loquitur Eryximachus, ut singula quaeque sacrificia significet
intel- ligcnda esse, sed in universum sacrificiorum mentionem
facit» Convertenda verba sunt : Ferner auch alie Arten von Opfern
und das, woriiber die Mantik gesetzt ist. Memorabilis hic locus
est, quo veterum de religione iudi- cium continetur. Dupliciter
cum diis agi Graeci censuerunt, eorumque numina aut sacrificiis
adhi- bitis placare studuerunt propter vitae anteactae scelus , aut
pav- tixg usi sunt, cuius auxilio de deorum voluntate
certiores fierent, futurainque viam ad ean- dem dirigerent» Vide
Wachsmuthium, qui nostrum locum lau- davit ia libro; Helleniiche
Al** xoivavta — ov xepl «AAo xi lotiv tj xeqI "Egcrtog tpv-
Xaxyv te y.cd TaOiv. tcccGcc yciQ ij aGtfiua tpiktZ ylyvE- Gfrai, tuv
fiTj tls toj xoGpla ”Equti ittQltfiTcu (irjdh ripa tcrtliumslunde P. II.
T. II. p. 222. In sequentibus xavxa non solum ad verba pertinet ols
pavxixi } iitidxaxel , sed cliam ad Svdiai itadat. Recte igitur
Schleiermacherus in conversione: denn dies insgesammt ist die Ge-
meinschaft der Gotter und Mcn- schen unter einonder. Ceterum ut
melius intelligas, verba X avxa 6* idxlv i } nepl $eov* xe xal
dvSpcJnovS npoS dXXTfXovS xoi - VGQvtac immerito a Schiitzio in
suspicionem vocari : Eryximachi mens haec est: Ferner sind pun auch
alie Opferungen und das, wortiber die Mantik gesetzt ist dies zosatmnen
aber ist nach der gewohnlichen Meinung fiir' den vrecbselseitigen
Verkehr zwi- schen Gottern und Menschen cigentlich nichts anderes,
ais die Bewahrung und Htilung des Eros, Epi*Epa>xoS
tpvXa- xrjy xe xal tadiY. "EpcjS hoc loco generaliter positum
significat et malos et bonos affectus- Pluralem numerum paullo infra liabes p.
188. C. fin. a 61 } nposHxaxxai xfi /tavxixp ini - Cxoniiv x ovi
" EpcoxaS xal la- rpeveiv. Adde p, 188. D. ubi 6 naS *EpG>$
legitur. nuda ydp 1 } adi fi eia. Nihil in his verbis comparet
le- ctionis varietatis. Mallem tamen abesset articulus, ut de
impietate in universum, non de impietate in certis quibusdam
actionibus Eryximachus loqueretur, cfr, p* 188 . D, fidXXov 61
nddav 6v - ra/nv fyei x. x. X. Paullo in- fra nadccv ij/itY
eVdaipoviaY. Restat, ut de cpiXeiv verbi potestate dicamus, qtfam vulgo
non satis accurate interpretantur docti homines. Annotant enim,
Grae- corum (piXetY atque Latinorum amare haud raro rebus
actioni- busque ita apponi, ut quibus esse fierive solere res
actionesque indicentur. Merito autem quae- ritur, quid differat hic
qnXeiv verbi significatus ab aoristorum temporum usu, de quo p.
142« diximus, et quibus itidem so- lere aliquid fieri significatur.
cfr. Eugelliardtus ad Piat. Menex. p. 240. ed., Stallbaumius ad Plat,
de rep. VIII, p. 650. B., ed. p. 183. Matth. Gramm. plen. J. 602. 3
> p. 954. Aori- stum poni adhaerente notione s o- Iere verbi,
ubi de actionibus sermo ait, quae iam saepius factae sint, satis
notum. $iXeIy contra ad- hiberi solet de rebus, quae non tam factae
sunt iam saepius, sed quibus vim quandam inesso indicatur, qua
necessario fiant. Et quoniam quae necessario fiunt, saepias iam facta
esso possunt, multis in locis perindo est, utrnm aoristicum tempus,
an tpiXeiY cum praesentis temporia infinitivo coniunctum
posueris» Sic nostro loco, quoniam pestis Atticam terram saepius
invasit, Eryximachus etiam dicere pot- erat: ol xe ydp Xotjiol iyi
- rOYXO ix T(k)Y TOIOVXCDV x.r. A, Adhibito 9»iAeiV verbo haec
eius voluntas est: Nam pestis ea natura est, nt quae facillime ex
hie zs tevrov xal TCQEBpEvy Iv Ttavr l fpy», «Ala rov eteqov, xal
7tEQi yoviag xal t,avtag xal xtTtltvzrjxbtag xal xeqI foovg. a 6 tj TtQogxiraxtai
zy (uxvuxrj inuSxontlv zovg exoriri possit et qaae seqq.
Con- ferri potest cum hoc <ptXeir verbi usus iStXeiv et
fiovXedSat ver- borum in rebus inanimatis ; sic v. c. legitur in
Piat. Phaed. p.74. D. ovxovv opoXoyovpEv, oxar x iS xi idcjy ivroijdy,
oxt fiovXexai plv xovxo, o vvr iydo opcj , elvai olov dAAo xi
XGQV OVXQDY , Mei 8h XCtl OV dvvaxai xoiovxor elvai x. x. A.,
quo loco non dubium est, quin eadem rerum natura, quam cum
instincta animalium comparari licet, tangatur, ad quam etiam
cpiXeiv verbum referendum est. iav fiif x iS seqq. Notabis
hic usum Graecorum in collo- canda negatione a nostro disce-
dentem. Nos enim, cum non ipsam sententiam negamus, sed partem
aliquam sententiae, curam agimus diligentissime, ne negatio- ni»
particulam collocemus ita, ut cum verbo possit coniungi, recte
facientes, ut opinor. Sic nostro loco non x 6 x a P^ £ ^ at negatur, sed
asseritur aliquis X a P^ m c>ed$ai quidem, at non ta xo- d/iioo
sed fc3 hxepa "Epcoxi. Id nos sic exprimimus: Wenn Ie- mand
nicht dem gesitteten Eros folgt, sondern dem andern. Con- tra
Graeci ita amant negandi particulam cum coniunctiouibus ei, iav,
oitGDS aliis, arte coniungere, nt perspicuitatis illa lego neglecta
breves certe voculas, ante illam ponendas, post eam reii- ciant. Quod in
pronomine indef. xis maxime fit. cfr. Crat. p. 453* C. ei jirj xi
xaXaS ixe&q dictum pro et n firj xoXgjS Xenoph. Hell. VI. 4. % ei pij
xiS iaorj avtovopovS xaS noXeiS elvai. Non negatur ibi ro id v
riva, sed affirmatur xo prj iav. Pariter ante xal Tbucjrd. VI, 60.
collocat: hceidev avxov cuf XPV el jxjj xal 6e6paxev x.x.X. pro ei
xal prj didpaxer. Quin etiam ante ipsam coniunctionem ib. VI.
18. xov yap xpovxovxa ov jiovoY iitiovxa xis ayvvexai, a?iAd
xal prj oitaS iiteidi itpo - xazahafifidvei. Riickert. d XXa
xov Zxepov. Vulgo aAXct nepl xov ixepor, quod ferri potest nullo
modo. Illud in Vin- dob. 2. et apud Stobaenm repe- ritur Ecl. phys.
p. 24. Memo- rabile exemplum, quo probatur, interdum falsum esse,
quod codd. fere omnium consensu exhibetur. d 6 r) 7tpo
Sxlxaxrai. Schulthessios: Desshalb ist es eben das Amt der
Wahrsagekunst. Astius habet: qua in caussa. Schleiermacherus : w o
r i n eben der Wahrsagekunst obliegt. Care * scribendum censeas,
quod olim mihi in mentem venit: d dij icpoSxhaxxai xy pavxixy
ini- dxoiceiv xal xovS *Ep coxas ia - rpevei >o. d enim est: in
welcher Beziehung s. und in dieser Be- ziehung liegt es der Mantik
ob, die Neigungen zu betrachten und Heilung anzuwenden. xal
idxtv av i ) fiiavxixj}* Spectat av 'ad p. 188. C, xavxct o idxlv
?} Titpl $eovS te xal dvSpooTtovS izpoi aAXyXovS xoi - varia.
Definitur autem 7 f yar- Zixrj nane ita, ut dicatur conci- 10
$ Ega zag xal largtvuv , xal %6nv ccv f\ (mvzzxrj tpMag I)
ftttZv xal dv&gnxav 8t](uovgyog za htiGzuGfrai za xazu
av&ga>7tovg igaztxa , o6u ztivu ngog depiv xal a<St- jleiav.
orto xokXrjv xal (isydX rjv, fiaMov 81 naGciv 8vvu(uv %vM.rjf}8tiv (itv 6
xag "Egcog, 6 81 sr egi tcc «ya&d atra <Saq>go<3vvr]g
xal Sixai oGvvqg caioze- Aovptvos xal xag xal itagd. &solg, ovzog
zrjv (liyiazrjv 6vva[uv iysi xal xaOocv ‘tjixiv tvSaifiovlav
itagadxeva&i, xal «AA>]Aotg Sirvafilvovg ojuXelv xal (pllovg uvai
xal zoZg xgelzzoGiv ijfiuv &eoZg. — "iGag E utv ovv xal lya zov
* 'Egaza txaivcov xoXXce naga-kdxa, ov (itvzot, kxav yf liatrix
esse amicitiae inter deo* et homines eo» qaod sciat, quid ad
procreandam et pietatem et impietatem habeant in homines Krotes
potestatis. Auctor definitionum p. 4l4. B. habet: par- XIX}],
iltltiTljuTJ $EG)ptjTtxf/ tOV OVTOS XOtl ptXXoYTOS Zgjgj $V7]- tgo.
Yerior haec definitio illa, quam Eryximachus profert, quae ad
duplicis Erotis naturam hominibus inhabitantem comparata est. ovtu 7
Co\\t}y xal pe- yaAljn' seqq. Convertit Schleier- xnachcrus : So
vielfache and grosse oder vielmehr alie Kraft besitzt Eros
iiberhaupt... Errat iisdem paene verbis usus Schulthessius» Ovtgj
seiungendum est a verbis insequentibus et ad totam enun- tiationem
referendum : Hac ra- tione multam habet ma- gna m q u e potestatem
Eros» vide ad p* 58. Sequentia verba ZvXXrjfidrjV p\v 6 7taS
"EpuS clare docent, Eryximachum, quoad eius fieri posset, se
accommodare Phaedri proposito voluisse: iyxco - pia&iv "
Epcata . Idem Pausaniam fecisse annotavimus ad p» 180» akX (X tt
i^sXuiov , Oov £q~ E. htaivnv ptv ovv dei tcolv- x aS
SeovS. xal aXXrjXot^ dvvapik- vovS opiXeir, vid,
adp.4l., ubi dvvaplvovS pro SvvatiScti rjpaS dictum esse censuimus.
Igi- tur participii accusativam accom- datum censeas ad ?}pdS
prono- men, quod ad opiXeiv supplendam est. Non assentimur autem
Buckerto, qui xai ante tolS xpeitto6iv rfpeov SeoiS expun- gendum
putat. Cohaerent inter se xal aXXrjXoiS — xal xoiS xpeitrodtY
tjjic&v SeolS , atque ea cohaerentia horam verborum ut,
emineret magis, dwapevovS a Platone scriptam est, non 6v-
vapkvoit. xal iyco. Ut Pausanias, ita fortasse etiam ego
multa intacta relinquo. Tempore praesente Eryximachus ntitnr, ut ad
audi- torum sententias oratio compa- rata sit magis, qui forte
cen- seant, oxi noXXa itapaXeixet ’Epv%ipaxoS, De insequendum
verborum explicatione liteidq xal rjjs Xvyyos xatavCai audias Fi-
yov , c S 'AgiGtocpctVES, avaxXr]Q<3(Sai' Jj ll stas alias iv va %xns
lyxaftid&iv rov 8eov, lyxa/iltt&, Insidr/ xal rtjs Ivyyos
ninavaca. jExfcfaftEi/ov ovv £q»] shniv rov 'AQiGToyttvt] on
180 Kal {iaX htu.v6u.to , oi5 fihvtot scyfo ys rov straQ/iov
stQOSEvtx&rjvai avry, agts fie &avfia£uv, el r 6 xo- <S[uov
rov amfiaxos htfovfiil rotovrcov s^ocpav xal yuy- ycch6[iuv, olov xal 6
straQfios ItSti. stavv yay ev9vs istavGato , htEtZSrj avra rov strayfiov
stgosrjvEyxa. Kal rov 'Eqv^iiuxov , r £l 'ya&E, cpavat,
'JyiGzocpuvEg, oya tl stottlg ; yElarostouis (isllav liytiv, xal
tpv- laxa (te rov loyov avayxatfivs yiyvEG&ai rov
esavrov, scherum: Particula xal a Stephano ciici non debebat . Nam
Eryximachus ostendit, partes disserendi iam Aristophani susciiendas esse non
modo propter ordinis rationem, sed etiam propter ea, quod singultibus non
impediretur, quibus sedatis promisisset se verba esse 'de Amore facturum
. Prorsus eodem modo dicitur paullo infra olov xal 6 7trappoS idrtv,
ubi xai addito indicatur manifesto, non solum sternutationem hic
tangi, sed cetera etiam, quae Eryximachus praescripsit, remedia
singultus, ov fisvtoi itpiv ys itpof ev ex$V v ai ccvtji i.
Dixerat Eryximachus p. 185. E. tl d’ apa itavv Itiyvpd idnv,
dvaXaftdv n toiovrov, oVfp xi- vijoaiS av rijv f)iva , nrdpe. Vides
igitur, cur articulum Aristophanes adhibuerit rov ittap- fiov . h. e.
sternutationem eatn, quam praecepisti. (3sre pe £ avfidd,szv .
Haec est lectio codd, omnium. Bekkeros, Astius , alii, ia textum
receperunt «stf lp\ SccvftaZetv ea opinor de caussa, quod
prae- cipi solet, particulas non pati iuxta se positam encliticara
for- mam pronominum. Huius regulae rationem quoniam neque nos
perspicimus, neque ab aliis satia explicatam reperimos , codicum
auctoritati, quam mutandi libidini obedire maluimus. Sententiam
quod attinet, Stallbaoinias ad h.l. ridet , inquit , quae Eryximachus
disputavit supra p. 187. D. et E, Audi Riickerti annotat, ad h. 1,:
habet etiam Eryximachus, quod respondeat, non r 6 xod fiiov illud
appetere, verum r d axo— 6fiov hac ratione expellendum esse. Id non
facit respondentem Eryximachum , ne urbanitatem violaret i lectori reliquit
inveniendum , erant que inventuri f qui mores hominis nossent, facillime,
nec potest latere attentum lectorem, qui totum hoc episodium de Aristophanis
singultu quorsum spectet , secum reputa- verit » Vide Comment. de
Sympos. Platonis, ijtstdq avrdi . Ia aliquot 10
iav n yeXoiov tixys , ll,ov Ooi Iv tlffrjvy Xlytiv. Kal tov ’ AQiOtoipavr]
ytXcKSavta tlntiv, Ev Xiyug, a ’Egv- £l(ia%£ , v-al fiot, t6ta aggr/tu tu
fifnjfiLva. aXXa fir/ fis tpvXatts' tog fy 0 * (pofiovfiat ntgl twv
fisXXovtav QjjftijOttSfrcu, ov n, fiij ysXoZa sYxa, tovto fisv yag
av xigdos tfij xal tijg r/fistsgag MovOrjs truxagiov, clXXa fir/
xatayiXuGui. BaXav y£, giavai , a ’Agi<Sto<pa- codd. avnj repentur,
quae le- ctio 'eorum sedulitati debetur, qui pronomen ad trjv Xvyya
re- ferendum censuerunt, Riickertus ad h. 1.: Non habet, iuquit,
neu- trum hoc, ad quod reteratur. Nolim avtdj neutrum putare.
Quamquam enim Eryximachus r ijS A vyyoS nomine usus est, tamen hoc
loco quasi tov Xvy/iov dixisset , pOSUit CtVTGJ. iav ti yiXoiov
etayS, Sensus est: Vide v , quid agas. Rides sententiam meam,
qui ijiso nunc dicturus es, meque custodem esse iubes orationis
tuae, ai quid ridiculum forte proferas, cum tamen liceret tibi
securo tutoque orationem habere. i£,ov 601 iv elprfvy
Xi- ysiv Grammatici in i&ov, 6iov, aliis participiis
nominati- vam absolutam agnoscant. Haec participia, quoquo modo
explicaveris, nam certa explicandi ratio non reperietur in dicendi
formis, quae quotidiano usu loquendi quasi sancitae cum linguae
legi- bus minus conveniunt, recte cum nostratium formulis
comparantur: vorausgesetzt, dass; angenommen, dass. ov ti ,
ilt} yeXoia efarm. Stalibanmius ad h. 1. rectissime: Hoc ov 1 1 ,
inquit, connectas cum cpofiov fiat. Nam sen- tentia haec est : Noli
me custodire: nam ego vereor de iis, quae nunc dicturus sum, non
quidem, ne ridicula proferam — hoc enim lucrum foret et
comicae Musae nostrae consentaneum, sed ne de- ridenda. Revocandum
est ov Ti — aXXa ad notissimam formulam loqudbdi ov Xiyco oti aXXa,
de qua vide annot. p. 66. Verba convertenda sunt: Gieb auf mich uur
nicht so genau Aclit, dena ich iiirchte mich, liber die gestellte
Aufgabe spre- chen zu miissen, nicht etwa, dass ich durch meiue
Worte Laclien erregto, sondern dass ich Thd- rigtes vorbringen
konnte, ^ ytXoxa xaray
iXa- 6ra* a Dicitur yeXoia ex mente Aristophanis, qui narrat de
aliis, quae risum moveant, vel omnioo res alienas in partem profert
ri- diculam. Qua in rp quum non- nihil sit artificii positum,
tota- quc comici professio in co ver- tatur, ut moveat risum
audien- tibus , non timet hoc , immo in lucro .ponit, si
contigerit. At ‘KaxaykXa6xa qui dicit, sui in- genii fatuitatem
prodit, sunt enim deridenda. Est igitur verum discrimen, quod hic a
poeta ponitur, in ipsaque fundatum ety- vf g, o Xsi htxpsvfcsaftcu; nXXa
TtQogsys tov vovv xcci ovtGf$ Isye dos dcoOcov loyov. iGas (isvtol> av
86 C ffOt, U(pTj(JCO as. Cap. XIV. Kal \Lrp>>
iS *Eqv%Iim%s > slittlv tov 'jiQUStoyavrj, SXly yk ity Iv vtp Ikyuv y
y Cv re xal JlavGa- mologia , at vulgari in usu non
observatam, cai xaxaykXadra quidem semper sunt deridenda, cfr,
infra p. 198. C. ivEVorjda tote apa xaxaykXatfxoS c ov. Apol. p.
28. D. tva pi) iv$a8e pkvco xataykXadxoS icapct vrjvdl xopcovidi.
Ibid. p. S5. B, xa- 9ykXadxov xrjv noXxv noiovv - teS ; ysXolov
vero est quodcun- que risum movet, sive consilio eius, qui facit
dicitve, sive im- prudentia. cfr. iufra p. 199. D. yeXoiov ipcoxijpa
i. c. xaxayk - Xadxov p. 213. C. ubi Aristophanes yeXoioS dicitur h. e.
dedita opera risum excitans.» Haec Iliickerti verba sunt optimo de
discrimine yeXoiof ct xaxa- ykXadxo? verborum disserentis. Minus
bene V. D. addit: Itaque, et quum minime sit huius loci vocum
discrimina explicare , ne- minem esse puto, quin Prodici in his
agnoscat disciplinam, modo sit memor eorum, qnae de hoc homine
discimus e Protag. p. 337. A., p. 341. A., Crat. p. 384. B. ,
Euthyd. p. 277. E» , Lacii, p. 197. B.Vide Conuncnt. de Piat.
Symposio. fiaXcov y e — oZei kxcp e v~ B,e6%ai; Suidas Tom.
I. p. 414. ed. Kiist. ftaXcov tpEvgsdSai oZei ; itpoS tovS xctxov
xi 8pa - davtaS xol\ olopkvovS lx(psv- yetv. IIoc proverbium e rc
militari petitum est, uh! aliquis misso in hostes telo tela
hostilia vitaturus recedit. Riickertus proverbium hoc modo
reddendam censet: Ia, nachdem du ab- gcschloss en, denkst du
davou zu kommen. av 8 6 B,xi po t. Si videbi- 0 tur h. e. si
rationem reddideris, qnae' satis mihi et sufficiens esse
videbitur. xal /u}r >elxeiv tov 9 Api6r o cp dvtj.
Aristophanem intelligi comicum poetam, comoediarum lepidissimarum
auctorem, extra dubitationem positum est. Eius oratione
recreabuntur, qui Pausaniae Eryximachique ora- tiones legerint. Nam
et a di- ctionis elegantia pulcherrima est, et ad rem si respicis,
tanta referta venustato, ut dubitari ne- queat, quin multam studii in
ea conscribenda Plato consumserit. Orditor autem Aristophanes
a praedicanda Erotis laude , cuius naturam non cognoscere
possit, nisi qui prius in hnmauam na- turam inqnisiverit atque in
7ta - $i}f.ictTa eius. Aliam, atque nunc sit, olim fuisse narrat,
quatenus quidem non duplex fuerit, sed triplex antiquissimis temporibus
genus humanum *Av8p6ywov enim , cuius non nisi nomen re- liquam sit
idque ia igaominia 150 IIAATSINOE vias
tlnirriv. i/iol yag 8oxov6lv av&Qcoitoi it avraitatSt rtjv rov ’
'Eqozos Svvafuv ovx ijO&fjti&ai., litti cdoftav 6-
positam, tertiam genas exstitisse viribas pollens, felicissima
inte- gritate gaudens atque tanto ani- morum superbia praeditum,
ut ipsos deos aggrederetur. Iovcra autem ceterosque deos dia
haesisse inopes consilii, neque, quomodo eius superbiam infringe- rent,
habuisse. Tandem lori in mentem venisse Androgyni dis- sectionem,
qua eftecta Androgy- num periisse, neque remansisse nisi segmenta
hominum, quae amissae integritatis desiderio ve- hementissimo
agerentur. Huic desiderio AMOREM nomen, eiusque tantam vim esse, ut, ubi
partem suam pars repererit, ab eodem nunquam discedat. Igitur summorum
bonorum hominibus auctorem Erotem esse, ntpote qui ad pristinae
integritatis felicitatem homines perducat. xal /i 7} y 9 co ’Epv
Zlfiaxe* Male ad h. i. Ruckertus : Videntur , inquit, ad Eryximachi
verba respicere xal prjv particulae , ut oppositionem contineant .
Quum enim spem faciat Eryximachus , fore , ut dimittat
Aristophanem, hic tale quid videtur dicere : Cupio equidem me
dimitti, sed tamen vereor ut fiat, sam enim aliam viam a vestra
diversam ingressuras* cfr. Menex. p. 234. cap. 2. init, xal prjv ,
co IMevIUeve, TtohXaxv xivSvvevei X. t. A., quem locum laudo,
ut lectores tutius de Ruckerti ex- plicatione 7tal pijv
vocularum iudicent. Ut nostro loco, ita ia Menexeno xal pjjv nihil
nisi gra- vem affirmationem exprimit. Astios habet: ac
nimirum, quod nullo modo probari potest. Unice rectam
particularum interpretationem Schleiermacherus exhibet in conversione:
Allerdings. KaL expletivum est; vide annot. p. 6. et p. 38,
elrtitTjv. Bekkerns, quem secutus est Astius , eliterov edi-
dit. Stallbaamius cum audaciam eorum non probaret, qui secan- dam
personam dualem nunquam a tertia diversam fuisse docerent (Elmsl.
ad Arist. Acharn. v. 773» ad Eurip. Med. v. 104 1., Monk. ad Eur.
Alcest. v. 282. ) , hrc certum esse annotat: apud sciW ptores
veteris dialecti Atticae se- cundam personam saepenumero in — ttjv
terminari. Schaeferas, quem laudat Stallbaamius ad Schol. Apoll.
Rh. p. 146. anno- tat: prisca graecitas dua- lpm certe activi in
his temporibus videtor bifariam flexiss e etoy, et ov et kxr\Y ,
itrjy , sed poste- riorum usus temporum, grammatica subtilius
an argutius exculta, termi- nationem in oy assignasse
secundae personae, in tjv tertiae. Secundae personae in Ttjv
terminatio saepius reperitur apud Platonem, exempla collegit
Stallbaamius ad h. 1. cfr. praeterea Duttm. Oraram, plen. Vol* II, p.
417. Matth. Gramm. T.I. $. 195. n. 1. p. 347. itavt anadt —
ovx y 6$ij- at. Negat Aristophanes, Erotis vim hominibus satis
notam esse, atque aperte indicat, pror- sus aliter, atque Phaedrus,
Pau-i. i (itvol ys (liyiOz av avtov lega xmttGMvaOtti xul (ta
)- (lovgy xai &v<Ji<x$ av sioiuv (ityiorus, ov% agnig vvv
sanias, Eryximachus dixerint, de deo sese dicturam esse.
Idem paullo supra disertis verbis ex- pressum est : &AAy yk Tty
, in quibus verbis nou urbanitate, ut Hiickerto videtur, sed ironia
At- tica factum est, ut aAAu verbi austeritas addita 7ty voce
miti- garetur? ejn weuig anders. Hac ironia Socrates haud
raro usus est, ut summam rem tan- quam minutam exilemquc
profer- ret. Exemplo est PJat. Prot. p. 828. E. vvv itkitttdpat,
7tfo/v (Spixpov ri jnoi ijixoSaoy, d 8ij- Aov , oti tlpooxayopas
fiqtSkoS I7cex8i8d£,et f iiteidr} xai td noX- Aa xavxa
i%E$ida%Ev, ipol ydp 6 oxov div ctv-. SpooTtoi. Haec est
codd. le- ctio plurimorum, Wolfius e tribus ol dv^pcJ7COi in textum
recepit, ©e gerere in universum hic ar- poortoi dictum putari
senten- tiae ratio non patitur, neque vero cum contemtu homines
commemorantur h, 1. Nihil igitur esse vides , quo possis articuli
defectum explicare. Fortasse scribendum est dv^pco7toi eodem modo,
ut avSpcDTCoi nunc haud raro apud Platonem reperitur. cfr, Symp. p,
206. A. ooS ovSkv ye aXAo i6x\v f ov ipdUtitv avSpco- jcoi, ad quae
verba Stallbaumius annotat; Non opns articulo, cuius omissio admodum
usitata est in eiasmodi vocabulis, qualia sunt avjjp, adeAtpos,
yvvrj, yij , aliis, quum de genere posita sunt. Vi- giuti codd.
articulum addunt. Fortasse et 1». 1., quoniam dege- nero humano
verba non puta- mus accipi posse, av$p<*)itoi scri-
bendum est. De formae huius veritate vide Apollonium iu Bekkeri Anecd»
gr. II. p. 495. 24. apeivov ovv. itapa8k%a6$ot.i dto- ptxrjv
peraSEtiiv xov J eis xo a , xal gjS' 6 avijp dvrjp y o «y* $pGD7TOS
aV$pG)7COS 9 OVXCJS XO ixepov Sdxspov idxiv. ixel altiSavd
fiev ol ys. Aptissimus hic locus, ad quem de ItieI vocis natura et
potestate, quid videatur, dicamus. Satis notum est, atque exemplis ubivis
obviis probatur, etCel nou solum consequentiae, verum etiam caussae
notionem habere. Eius notio- nis origo est liteita vox , quae
loquendi usu, ut fit, iu breviorem formam mutata ita adhiberi so-
let, ut temporis notio cum con- sequentiae caussacve notioue
commutetur. Iu vernaculo sermone eodem modo e temporali- bus daun et wann
factum est caussale d e n n , et coqditionalo nv e u n . Sic cap.
XIII, initio ijtsl XOLl 7} TGJV GOpcZv XOV iviavxov 6v6ta6iS
jtE6tij idxiv dpfporkpcov xovtoav x, x. A,, quo loco eadem ixei
vocis po- testas est, atque iitEixa . Ery- ximachus nimirum cum
dixisset, in arte musica et in medica du- plicem Erotem reperiri,
ita pergit : Hernach ist auch die Yerknupfung der Iahreszeiten voli
von diesca beiden. Non repugnabimus autem si quis verterit; Denu
auch die Verkniipfung cet. , quoniam in omnibus artibus et
re- bus duplicem Erotem reperiri dictam erat, quibus verbis
procedentibus efficitur, ut quod po- stea sequi dicatur, idem
illius 152 HAA TS&N02 tovtcov
ovdtv ylyveua itsgl avtov, Siov itavtav (laAidta D ylyvs<S&ai.
€<fn yug &Eav tfnlav^ganotatos , Ixlxovgog te uv tav avftganmv xal
largos tovttov, av la&iv- tcov (isylOTTj av Ev6cu[iovla rei av^gamla
ytvEi eitj. lyto ovv xugaOouai vytlv ElsrjytjOaO&ai tyv
8vvay.iv avtov, v(itls 8s rav aXkav 8i8d<SxaXoi ttiEC&E. 8eI
Se itgatov vyag fia&elv tffP dv&gazivjjv qwOiv xal ta xa~
ftrjyazu avTjjg. dicti veritatem, ut caussam veri- tatis, comprobet,
cfr. Apol. Socr. p. 26. D. jua At , c5 av8peS 6ixa6ta \ , inel rov
p\v t/Xior XiSov (prj6\v etvai , r i}v 8\ d£- A rjvrjv yifv. In
Alcib. II. p. 143. C. ixeidr) ovtoa 6ot 8oxti 6<po - 8pa Seirov
Elrai ro jtpaypa, Ssre x, r. A., imi pro litEi8r\ scribendum est;
scribae enim inei vocis significatum non per- cipientes 6jj
addidisse videntor. Battm. ad h. 1. bteiSij 86 scribendum censuit»
Dubito, num recte. Adde Prot. 334. B. ei 6 f i$6\oiS hti xovS
mopSovS xal tovff viovS TcXtavaS InifiaKkeiv (sc. TTjY 'H07tp0V)
TtOVXCL dnoX- A v6iv iitel xal r d iXaioy roiS plv <pvxoiS
anadiv Itixi ituyxccKOV x. r. A. Adde p. 181. C. d St rfjs
OvpccriaS rtpdSxov f-tlv ov pexexovdtfS StjA-eoS, aAA* dfifieroS
fiovov — xat idnv ovxoS 6 rcor TtalScov " EpcoS— in e ix a
izpetifivxipaS , vfipEGDS dpolpov , quo loco iittira con-
sequentiae notionem habere vi- detor. Dieser aber gehort zur
Urania, welche zuvorderst nicht Theil hat am Weiblichen, son- dern
bloss am Manolichen — welche folglich die Aeltere und ohne
Uebermuth ist. Antiquissimis eoim temporibus illis masculum genas
exstitit tantummodo, non item femininam» Adde p. 180. A. S! r\v xdWiov
ov povov JlaxpoxXov aA\’ apa xal xoay rjpcdcjv dnavXGtv, xal
iri ayivEiof, ineixa vecotEpoS Ttohv , <2s (p7]6iv n OpiipoS. Ad
nostram locum nt revertamur, litei temporalem potestatem ha- bet,
quo simul effectum est, at sequentes infinitivi e praecedente
finito verbo 8oxov6iv exaptaren- rentor. Sensus est: Denn mir
scheint, dass die Menschen durch- aus des Eros Bedeotung nicht ver-
standen haben, hernach, dass sie, wenn sie dieselbe verstanden
hatten — die grossten Heiligthiimer erbaut haben wiirden... Simillimus
nostro loco est Xe- nophontis , quem Stallbaumias laudat, Hell.
VII. 1. 38» 7 tpoS dfe rovroiS xal ro rcor XPV~ lid.XGov7t\i}$oS
dXaZoveiar avxcp doxEiv slyai iqnj, in si xal rijy vfivovpbrqv av
xpv6rjr itXdxa- vov ovx Ixavrjv elrai rkxnyt tfxtccv napix^y*
fitiy t6r av avrov lepa. Wolfius ad h. 1. annotat: Schoo aus
diesen Worten hatten manche Sammler von Mythologien ler- nen konnen
, dass Amor keine Gottheit war, die der Volksglaube zu cincm
Gegenstaud der einge- fiilirten Religion gemacht, son- 'H yuQ xaXai
yficov cpvOig ov% avtrj rjv Sjiteg vvv, dXX’ dXXoia. xqiBtov [ilv yuQ
rgla fjV ta yevrj ta. TtZv dv&QUXMV , OVI «S**0 vvv 8vo , u$Qtv xal
frijlv, ctXXa xcd tqItov xgogijv xoivov ov d[icpottQow tovtarv, E
ov vvv ovofia Xoatov, avto 81 ^tpavuStai. dvdgoyv- vov yciQ tv tore [ilv
ryv xal sidog [xal Svo[ia ] , au- tpotegav xoivov, tov te ccQQevog xal
frqXeog, vvv 8’ ovx Sotiv aXX’ y iv oveidei ovo[ia xeljxtvov.
exeircc ilern mehr ein Abstractam , das den Dichtern seinen
Platz im 01} rap zu danken hatte. Ceteram xaxadxev adai aoristicum
tempus positam est sequente itottlv imperfecti infinitivo, at actio
praeteriens, qualis est templorum aedificatio, a sacrorum fe- rendorum
consuetudine discer- neretur. Vide Engelhardtum ad Meocx. pag. 234.
c. 2. xal yap tacpf/S xaXrjS xe xal fie- yaXonpeitovS rvy^ayn,
xal iav rtivrjS xiS uiv xeJLevxrfdp, xal iitaivov av itvxe,
xal idv <pav\oS j} x. x. A. ovx vSrtsp' vid. ad p.
179. E. annotat. Oratio plenior foret «AA* ovx av litoiow ,
usitep vvv , o xi xovrarv ovSlv yl- y vexat. Nvv autem Tocula
non solum de praeaente tempore intelligenda est, sed etiam de ve-
ritate rei. De verbis insequen- tibus 6 eov 7 tavTGDV paXidxa yi-
yvedSai, vid. ad p. 131. i%ov doi iv elpyvy A kyeiv. litlxov
poS x £ &v. Addito elvat verbi participio epitheti veritas
indicatur, ut convertenda verba sint: denn er ist unter den Gdttern
des menschenfreund- lichste and der walirhaftige llclfer der
Menschen and Arzt der Uebel , deren Heilung dem
Menschengeschlechte zur grossten Gliickseligkeit gereichen miisste.
vjjieiS 61 xoHvdXXcDV 8i- ' 8a6xaXoi i&edSe, Haec verba
vario modo explicari pos- sunt. Fortasse Aristophanes vulta ad
serenitatem composito , tan- quam summae veritatis rem probaturas satis
festive, ut comicum decet, doctoris formam imitatus Vobis, inquit,
ego, vos ce- teris praeceptores eritis. ovx avxrj rjv, rjitep
vvv. Bekkerus, quem secuti sunt Astius et Reyudersius ex
Euscbii Prae- par. Evang. XII. p. 585. C. i) avxrj in textum
recepit. Fiemus habet: neque enim, qualis nunc est, olim erat,
sed longe diversa. Nihil mu- tandum est. Verba proprie au-
diunt generis assimilatione omissa: 7} ydp Ttakai rjpcov cpvdiS ov
tovto ijv , Zizep vvv, aAA* aA- A owv xt. Sed minus adamatum hoc
dicendi genus fuit Graecis; quamquam enira rectius censeri potest,
atque exprimendae sen- tentiae convenientius, tamen minus elegans est
atque durius. Hinc factum, ut generis assimi- latione adhibita
scriberetur ovx avtrj — tjxEp — . Diximus de hoc genere dicendi p.
139. «Aov rjv hiouSt ov tov &v9q<6xov to slSog, GtQoyyvA ov,
vojtov y.al kXevqus xvxXa %ov. %HQas Si xtrtaQas tljE, xui Gxibi tu %6u
tuis X e Q^' *«* Xqosuzu Svo avdpoyvvovydp e v r o- te y\v
rjv xal eido S [xal ovo/ia.] Ficinus Tcrba con- vertit: Androgynum
quippe tunc erat et specie et nomine, ex maris et feminae sexu
commix- tum. Eum secutus est in conversione Schultliessius: Deuu dazumal
war das Mannweib wirk- lich wie im Namen, so in der Gestalt
vorhatiden. Stallbaumius od h. 1. deest, inquit, ev in mul- tis
codicibus, itidem apud Sto- baeum ct Eusebium. Quod vide, ne
omittendum sit. Riickertus %v verbo servato verba conver- tit :
Androgynum enim tunc unum erat non minus genus quam no- men , ex
utroque conflatum , vi- rili et muliebri ; nunc non est nisi nomen
opprobrii caussa inditum, Displicet haec conversio eo nomine, quod
repetitionem iuutilem continet praecedentium verborum : crAAoc xal
rpixov (sc. yivoS) itposijv xoivov « 7 / 90 - xipCDv rovx&v x.
t. A. Porro caussam frustra quaesiveris, qui fiat, ut commemorato in
prueee-» dentibus yevo$ verbo nunc elSoS idem significet atque
yivoS. Po- stremo male se habet: Tore h. e. tum temporis unum
fuisse et ge- nus et nomen avdpoyvvov , quasi non et Platonis
aetate unum nomen avdpoyvvov fuisset. Ev voce deleta sententia haec
est verborum: Mannweib war damals in Beziehung auf Gestalt
uud Numen aus beiden, dem Mann- Jichen. u. Weiblicheu ausatnmen
- gesetat. Sed rursnm quaeras, nuin Aristophanis aetate
Androgyni nomen ex ntriusqne generis no- mine non compositum
fuerit? Si qnid video , ineptum scioli additamentum est xal ovo/ia
, quod praecedentibus verbis ov vvv ovofia A ontov nullo modo
explicari potest. Deleto eo optime huius loci verba se habent. Ari-
stophanis mens haec est : sed et tertium genus insuper erat utrios-
que generis et masculi et femi- nini particeps , cuius nunc no- men
superstes , ipsum t periit* Videlicet androgynum (ut nunc nomen,
ita) tum temporis nnum erat etiam eldoS utriusque par- ticeps
generis , masculi femi- neiqne. v v v d’ ovx tdxiv aAA*
rj i v 6 v eide t ovo y a xeiy e- vov. Ietzidagegen istes (das
An- drogynum) niclits auderes, ais ein schimpflicher Name. Scripsi
aAA pro vulgato aAA*. * Vide Engel- liardtum ad Piat, Apol. . ed.
p. 207. Similiter scribendum est Gorg. p. 447. A. trAA*, 7/,
xo Xeyoyevov, xaxomv hopxijS rfxo - pev xal vdxepovjiEV \ Non
ubi- vis autem scribendum <*A A ?/ esse, Phaedonis Jocus docet
p. 81. B. goSte yt/dlv dAXo doxelv BLVCLi aAijSlZ aAA* ij xo
dcojia- X oeideis x. t. A,, ad quem lo- cum Stallbaumius
rectissime: Orta est,' inquit, haec locutio ex coniunctione duarum
loqnendx formularum , , quarum altera op- positionem altera
comparationem indicat. Hcrmannus disiungendas esso has particulas iocet
atque 7J cum altero 7/, quod in me mbro orationis supplendo
comparcat, In' av%ivi xvxXoteqcT, ouoicc itavty xscpceXrjv 8 ' In
190 aiKpoxiaous rovg ngoganoig ivavxloig nEx/ihoig [ilav, xai coxa
xlxxaQa , y.al alSola 8vo, xal talla navxa ug iungen xal talla
navxa ug iungendura. Nimiram expletiorem orationem esse, ut
v. c. nostram locum ad Hermanni praeceptum exornemus: vvy 8 ’ ovx l
6 xiv d\\’ V & v dvelSei oyopa xei/isvov r) ovx ol 8 a iv
ct xsixai. Sed falsam esse, Ed. Haenischius ait in annot. ad
Amat. p.45., hanc explicandi rationem, hinc maxime apparet, quod,
si yera esset, nemo sic diceret, nisi qui aut ipse se rem suam
pa- rum compertam habere profiteretur, aut id, quod certo sciret et
eloqueretur, ita afiirmaret, ut, si non verum id esset, se de suo
ipsius indicio desperaturum esse significaret. — Pro dXX ?/ inter-
dum 7 tX?}v r/ reperitur, neque ra- rum Tt\f\v olK X ?/, quibus
for- mulis similes sunt formulae no- stratium ausserals, uls
nur, ausser ais nur. De xsi- G$at verbi potestate dictum est
ad p. 100. Ut de legibus civi- tatis , ita de usu loquendi re-
cepto saepissime apud scriptores reperitur. Ceterum Riickerto non
assentimur, ovopa iv ov sidet xsiuevov eodem modo dictum censenti,
atque Xafislv iv cpipvy ^Svpiav y Syriam dotis loco accipere. Ut
Homerico J SsgUv iv yovvadt xsixai fatura infle- xibile
significatur, ut iv ftop” popeo xsidSai in Phaedon, p. 69. B. de aeternitate
vitae miserrimae dicitur, sic ovopa iv oveiSst xsipsvov usus recepti
constan- tiam exprimit. — dvdpoyvvov . v. Suid. s. r*
dvdpoyvvoS et Muson. Fragm. p« 208. ed* Peerlk* Alter habet:
6 xa avdpoS rtoiGov X&l xd ywcnxwv TzaoxGDv. Alter: ol ys
dvkxovxat avdpoyvvoi xal yvvaiXG) 8 etS opatiSai ovxe ? 9 onsp s 8
ei (pevysiv iB, anavxoS, si 87 ) roi> dvxi avdpss 7/tiav,
Urtsixa. Praecedente irp<a- tov psv, quod male Ficinus
con- vertit a principio,» htsixa 8 s scri- ptum exspectaveris.
Sexcenties autem iizsixa reperitur omissa 8 i particula, quoniam
htsita tantae gravitatis est, ut ipsum pos- sit, hoc est, non adhibita
dfc par- ticula , oppositionis pondus su- stinere. Unum e multis
exem- plum ut laudem, p. 194. E. le- gitur! iy<d 81 87 }
(iovXopai xtpooxov p\v tlittiv , y XPV M e elrtEtv , IneiXOL shtsiv
. In se- quentibus Ruckerti annotatione factum est, ut post
xo EiduS comma poneremus. Riickertus autem. Me oppositio, inquit,
quae hic adest pristinae integritatis et insecutae postea
dissectionis admonuit, ut oXov praedicatum esse censerem, quam
interpre- tationem haud scio an commen- det etiam vocis locus ante
7/v y quem vix teneret, si cum sldoS esset conuectenda. Dicit
igitur hoc: Deinde iutegra erat hominis figura, rotunda,
dor- sum et latera circa habens (non,* ut nunc, dorsum, latera et
pe- ctus.} xEEpaXrfY 8 * — plav. Quis non Iani
meminerit, Latinorum dei antiquissimi, quem uno capite, facie duplici
insignem venerabantur? Erat autem Ianus dito rovtcov &v rig tlxdaniv.
litoQtveto 51 6q9ov, agitSQ vvv, oitoztQaOs fiovXq&ilt] ’ xal ditor e
xu%v oq- (itjGut &siv, iSgittQ ot xvfiiatavrig slg oq&ov tcc
Oxalrj itsQitpsQOfisvot xv)3 MJtiutft xvxha, oxuo Tore ov<5t tolg
fitXs~ Civ aitEQEid6[iEvoi xa^v Itpiqov to xvxlco o yv da Sia
taura pacis dens, nt verba Aristophanis iu Erotem directa et Iano
con- veniant: l6xi Seoov cpiXotv^pco- TtQTCtTOS, $7tlxOVp6f TE G$V
XGOV dvSpdiccdv 7 (ai laxpoS xovxgdy, cor IocSevxcjv psyidrr/ av
ev- Saipovioc rc5 dv^pcjTteiw ykvEi fi?;. Adde p. 191. D. $6xi 6?}
— 17/ f dpxalaS q>v6£GDS 0vvayco- yevf, xal inixEipivv
7Xoiijdai 'ev lx Svotv xal latiadSai xrpr tpvtiiv x tjv
dvSpGDTtivTjv. Quid, quod ipsum nomen Iani aliquam haberevidetur cum
{aivco verbo cohaerentiam? Romaui bellorum quam amoris intentiores
rixis, concordiae amantium pacem pacisque conditiones videntur
substituisse. ijtOpEVEXO OpSor, GjSrXEp rvr. Koti vulgo
ante vpSov positum deest in codd. non paucis, Bekkerus vocem
in textum recepit, uncis Stallbau» mitis et Dindorfius
incluserunt. Ficini conversio haec est: Incedebat hoc tunc et
rectus, ut nunc, in utram vellet partem. Kai vocis tuemluc
provinciam suscepit Ruckertus his verbis usus: Duplex
incessus pristinorum hominum narratur, erectus, quem nunc etiam
habent, eo tantum ab hodierno diversus, quod tum , utram in partem
vel- lent, pariter praecedebant , /z. e, prorsum et retrorsum ,
alter ro- tationi quam meatui similior • Sequentia igitur verba hoc
modo exhibere voluit : Jtal, dxots xaxv oppyjdEie $Etv,
ooSTtEp ol 7wfh- CxdvreS x, X. X., nam in eius editione comma post
Ttai non comparet. Sensos est: Er ging aber aufrecht, wie jetzt,
nach welober Seite hin er wollte, und, wenu der eine oder der
andere schneller sich bewegen wollte ete. Vulgo pro opfiJjdeu
legitnr opprf- Cei pro %eiy verbo IXSeiy, Male. <k)S7XEp
ol XVfildXGOYXES* Derivatur hoc verbum a xv(bj > quod idem
aotiquitus significasse perhibetur, atque XEqjaXij. Igi- tur
primaria xvfit6xdv verbi si- gnificatio videtur esse: capite
insistere, se praecipitem dare, cfr. Hom. II. 21. 554.
XElpOYX lyx^Xvk? x e hclI Ix^veS, , o*l xotra Sivaf ol
xotra xaXa fissSpa xvfiidxcor $v$a xcii $vSa. Erat autem apud
Graecos salta- tionis genus, quo qui utebantur, caput deorsum,
pedes sursum proiicere solebant, non nisi pe- dibus solum
attacturi. Summa corporis atque inprimis spinae mobilitate opus
erat saltantibus, quare Patroclus Kebriouc, Hectoris auriga, iuterfecto,
satis acerbe II. 16* 745. haec profert <L nbxoi> r\ pdX
9 iXatppoZ dvrjp, fisla xvfhtixd et v. 749. <6$ vvv Iv txeSIgj
IB, itctcoov pEta xvptdxd r) fia xal iv TpdedCi xv(h6xq-
rr/peS iadiv.tqlcc ra ylvr) xal roiavta, on r 6 fitv kqqiv rjv r ov rjXtov
B t rjv «QXV V Pxyovov, to Se %rjXv Trjs yijs, to Se aiupo- TSQC3V
iitzs%ov vfjs OiXrjvrjs , ori xal rj Gelrjvtj a[i<pore- QatK yiEzl%u.
TtEQirptQrj Se Sr) yv xal avrcc xal rj noQsia avrav Sia zo rotg yovevOiv
ofioia elvai. rjv ovv xrjv Tangit fortasse hoc saltandi ge- nos
Herodotus 6, 129. — 6'bt- izoxAeiSyS — ixiAevdi oi riva tpanaZav
iSevEtxai * iASovtiyS 8h ryS rpaTtE&jS n patra plv in avrijs
oopxyoaro Aaxaovtxd &XV~ paria’ pera. 81 a\Aa *Arnxd • to
rpirov t ?/ v xecpaArjv ipeidaS ini r rjv rpane- %av roidi
6xiXe6i ix «i- povopyde. Schol, ad nostrum locum iusto brevius :
xvfiidryp 6 opxydryS xal xvfiidtav to op- XsiGSai. eis
opSov ra dxiAy n. Ante eiS in plerisque codd,, qua- tuor exceptis,
xai legitur, quae depravatio textus est manifesta. Omiserunt voculam
editt. omnes. Orta ea lectio est e mala intel- ligentia
praecedentium verborum, quae intellexit, quisquis fuit, qui xai
interposuit, hoc modo : ino - pevsro 81 opSov (3snep vvv , xal, sc.
(inopsvero) ditare tax t) opprjdeie Seiv, ooSnep ol xvfti- dravrsS
’ xal eis opSov x. r. A. oxtgj tore ovdi. Vulgo legitor rore oxrcJ
x. r, A. Trans- posuit verba , qui putaret , rore ad praecedens
onore pertinere. Probari posset vulgatus verborum ordo, si scriptum
exstaret: rore rolS uxtgd piAediv anepEiSope - voi x.t. A. Sed non
addito Ar- ticulo, ovdiv autem participio adhibito, cur is ordo
verbornm unice probandus sit, quem cdd, omnes probarunt, facile
iutelli- gitur. 7/v dk Sia Tavta Tpla Ta yivy xal
toiavra. Ad certam quandam philosophiam comicum poetam respexisse,
quam- quam a multis annotatum est, tamen ut credamus, animum
in- ducere non possumus. Vulgatum euim hoc erat , et vero
etiam nominum terminatione firmatum, TfXiov, solem, virili
potestate esse, yyv , tellurem, feminea, qua propter etiam rerum
ma- ter vocata est. Fieri igitur facillime potuit, ut philosophia ad-
vocata nulla, mera vulgi opinione nixus solis prolem masculum genus
vocaret, terrae femineum Aristophanes. Restat ut de Androgyni origine
dicamus, quod cur Lunae prolem dixerit, disertis verbis indicatum est; ori
xal ?} dsAyvy dptporipoov perixei. Atque ipso nomioe deXyvyS
haec coniunctio terrae ac solis indi- cata est. Dorica forma est
(?£- A avaia, quam convertere pos- sis Glauzerde. Solebant
autem veteres novam quandam in huiusmodi rebus opinionem prolaturi,
argumentorum loco er ipsa rerum natura petitorum, alias res
conquirere, quibus illam pro- barent, Sic Pausanias, ut du- plicem
Erotem esse probaret, ad duplicis Aphrodites mentionem confugit,
quarum suum utrique Erotem assignaret, n epitpepij 8h 8?) yv.
Non gkreisformig,» quod in Astii et S chleier macheri Itfrvv 8
uva xal xijv qcoiiijv, xal xa tpQovrniWK (itycda tl%ov, lnt%dqvfiav de
zoig &eolg, xal o kiyu "OfitjQos 3 csqI Ecpiccltov xs xal
”ilrov, jtejh Ixdvav Xeyixai, xo C ds tow ovgavov dvafiaGiv im%UQelv
noielv , ag Ixi&iy Gofiivav xoiig tteois. versionibns legimus
(adde etiam Schulthessii conversionem p. 88. ed. Orellii,) quis
enim circuli formam corpori tribuat, sed kugclformig.
Riickert. In sequentibus 8ia to — opoia eivai verba Schleier-
macheros convertit: um ibren Erzeugern ahnlich zu sein. Rectius Ficinus:
quia parentum similia. xal ta (ppovrfiiaT a pe* ya\a
elxov. Schleiermache- rus: nnd hatten auch grosse Gedanken.
Minus accurate. Ar- ticulo enim addito efficitur, ut sensus sit:
und der Hochmuth, den sie hatten, ging ins Un* geheuere. vide
annot. p. 12. Articulo non addito supra legitur p. 182. C. ov yap, olpai,
dvp- tpipei toiS apxovdi tppowjpara peyaXa lyyiyvedSai, quem
laudo locum, ut de nostri loci articulo facilius certiusque
iudicari possit a lectore. MeyaXa <pporj}para dicuntur autem
habere, qui con- tra dominos conspirant, cfr. p. 182. C. ov, yap,
olfiat, dvpq>e- pei toiS apxovdi (ppovrjpata fieydXa lyyiyvedSat
tgjv dp- XoiUvoov ad quem locum ' vide annot*. p. 102. Comparativum
exspectaveris, non positivum ; ille tameu in hac formula solennis. o
Xkyei "O prj poS. Od. 11. Sl4. "Oddav iic
OvXvjiitto pe* padav SepEY, avtap £tz "Oddy
JlrfXiov elv o diq>v\\ov,lv* ov pavos apfiaxoS etr/.
ooS litiSr] 6 o pkv gjy roiS SeoiS. Riickertus iungenda
haec, inquit, cum Ttepl ixeivGOV , quae structura propter
interiectum membrum to — tcoieiy , in quo avxovS subiectum est ,
aliquid incommoditatis habet. — Ad l7Ci$t]6op£vcjv supplendum
est potius avTCDY. Exhibetur autem genitivus participii cum
gjS, ubi aliquis refert quod aut ex alio- rum opinione depromtum
est, ant quod ab aliis vult cogitari , ut in Piat. Apol. Socr. p.
30. B. itpoS lavra , (pocbpr av, cJ av— 8 pes *A%r]vaioi , rj nelSedSs
*Avvxcp rj pjj — oj S ipov ovk av itoiijdovroS «AAo x, T. A., h, e.
de me ita cogitate, me nunquam quicquam facturum esse aliud.
*0 ovy Z evS xal ol a A- Aot $ 80 i. Omnem hanc narrationem de
deorum consultatione et quid facerent, dubitatione, nt cupierint
quidem punitam humani generis protervitatem, sed nec severitate uti
ausi fuerint, quam laesa maiestas exigere rideretur, nec aliud
invenerint remedium, quo et illi poenas darent et suus honor salvus
maneret, donec ad postremum Iapiter aegre aliquid excogitaverit,
hanc,, inquam, a d deorum derision em com- Cap. XV.
'O ovv Zevg xa l ol «A Aoi 9iol Ijiovltvovto o « %(M} avtovg
'MHrjtScu xal TjXoQow. ovte yag onag axo- positam esse neminem
poto non videre. Riickert. Male; vide Comm. de Piat.
Symposio» oti XPV ctvtovS rtOtij- 6 at. Ne quis pro
indicativo optativum reponendum censeat, quod Astius olim fecit, post
infectum, voluit: Graeci ingenii tanta est vivacitas, ut structuras
verborum doas, quarum ntraque suam quan- dem iucunditatem habet,
confun- derent atque commiscerent, videlicet ne, cum alteram prae-
tulissent alteri , alterius gratias simul amitterent. Igitur oxi
XPV avtovS rtoii}6ai compositum est ex oratione obliqua oti XP E ty
avtovS it. et ex oratione recte ti XPV ocvtovS Xotijtica xal
ojSitep, rovS ylyav - taS xepavrccHj arreS. Stall- ' baumius ,
intellige, inquit, post yiyavtaS tfq>avi6otv ex proximo
ctqxxvldEiEV , cuius breviloquen- tiae exempla collegit Wyttenbachius od
Selecta Princip. Hi- ator. p. 364. Riickertns verba sic inngenda
esse censuit : ovte yap eIxov ortcoS drtoxTEtvcaev (sc. avtovS) xal
ro ylvoS dtpa . - vldaiEv , XEpavvGotiavtES GDinep rovS yiyavtaS .
Neutra expli- candi ratio nobis placet. cuV itep h. 1, non
similitudinem indicat, sed agendi rationem describit, yl- yavteS
autem homines vocantor illi ipsi, qui e masculo et fenri- neo
genere compositi viribus freti ac robore, elatiores animos ale-
bant. Sensus est: Sie wuss- ten iiberhaupt weder ei- nenRath,
dass sie sie tod- teten, und besonders w i e sie, nach Erlegung
der Riesen durch den B 1 i t z das ganze Geschlecht verdiir-
b e n . Disertis verbis ylyavtES commemorantur, ut esset, quod sequenti
ykvoS opponeretur. Quo- niam autem homines nondum dis- secti erant,
fieri non potuit, quin caesis hominibus illis totum ge- nus hominum
misere periret, at- que nemo remaneret, qui deos veneraretur.
ai tipal yap avtolS — 7/ <p avi$£t o. cfr. Symp.
198. C. vit ai6xvvr]S oXiyov arto- dpaS <px^PV v ? KV MX 0V
- Nemo Stallbaumio melius de in- dicativo huius loci
explicando disseruit. Eius verba haec sunt: * Aoi istas et
imperfectum sine av particula positum in talibus si- gnificat certo
et haud dubie aliquid fuisse futurum , pr opter ea quod habeat
obiectivam , quam dicunt , necessitateniy ut Lat^ fu- turum erat:
accedente autem av particula etsi paene idem significatur , tamen
conditionis et mudalitatis , quam vocant philo- sophi , accedit
notatio , ab hoc loco, paene prorsus aliena . Quocirca non tantum XPV V
> £5 Et, npoSijxEV , ut Lat , oportebat , decebat , debebam ,
ita usurpatum est, sed multa alia verba , irtpri- m slvaiEV ii%ov
xal 'cos it£Q, tovg ylyavzag xsgawdeav- reg, to ytvog oxpavLaaitv , al
rifial yag avroig xal rcc tfQcc ra naga rwv av&Qamov rjtpavl&ro —
ov& oitag latv aCilyaivuv. fioytg 8rj 6 Zsvg IworjtSag Xlyu,
ore zloxd fioi , %<pi], %%uv iiTjiavijv, wg av iliv te
uv&gaicoi D xal xavOaivro t ijg axoAaOlag aG&tvtGztQoc
ycvofuvou vvv (iiv yag axnovg, £cprj mis ea, quae
natura sua conti- nent aliquam obiectiuae necessi- tatis
significationem. Indicativo in hypothetica enuntiatione Latini osi sunt
plerumque ita , ut non tam obiectivae ne- cessitatis, qoam temporis
ratio- nem haberent, quo tempore ali- quid, quominus fieret,
impedi- tum esset, cfr. Tac. Histor. II. 46. iamquo castra
legio-^ dum exscindere parabant, ni Mucianus sextam legionem
opposuisset, h. e. achon waren sie daran, das La- ger der Legiouen
zu veruichten, hatte niclit zur rechten Zeit noch Mucianus die
sechste Le- gion entgegen geworfeu. Adde notissimum Horatii locum
Od. II. 17* 28. Me truncus illa- psus cerebro sustulerat,
nisi Faunus ictum dextra levasset h. e. Mich hatte der auf mein
Haupt stiirzende Stamm getodtet, hatte niciit noch zur rechten
Zeit Faunus durch seine llechte die Kraft der Wucht
gebrocheu. Temporis hanc notionem quando assequi volunt Graeci
scriptores, eodem dicendi geuere utuntur quidem, sed non nisi
addita iv3v$ particula temporali, cfr. Thucyd. VIII. 86., quem
locum Stallbaumins laudavit iv gj da- tpidxaxa 'looviav neti
'i&U?/- dtarenco $i%a exadtov, xal difovtov evSvS’ eTxov
ol ito - TUfiioi, doxdj fioi, £<PVt Quod supra
annotavimus p. 159. ad verba o n XPV olvtovS itoitj- dai y id iis
vehementer displice- bit, qui omnino duas verborum structuras
confundi atque com- misceri neguut. Negant autem, qui non
intelligunt structurae originem. Etenim rem animo suo ita
informant, ut censeant, scriptores positis dnabus verborum structuris
artificiose ex utriusque quibusdam fragmentis tertiam composuisse. Nobis
persuasum est, hoc structurae genus non e scriptorum officina prodiisse,
sed e quotidianae vitae sermone iu scriptorum libros im- migrasse.
Pertinet huc noster locus, ubi praemisso ott, quod indicium est
orationis obliquae, ipsa alicuius verba laudantur. Pa- tet autem,
proprie dicendum fu- isse Aristophani : \iyet, ori do- mi ol Ixew
prjx ay yv r. A. Factum autem Graeci ingenii fa- cilitatemne dicas
an felicitatem, ut servato obliquae orationis indicio rectam orationem
retinerent, atque orationis suspensae continuitatem cum rectae
orationis vigore coninngerent. De hac structura vide etiam
Mattii. Gramm. plen. $. 623. 2. b. p* 1270. a
«pa fiev &0&svl<3teQOi $<Sovzai 9 apia %Q7]diu6TEQoi Tjfilv
dia ro irXEtovg tov dgi&ndv ysyovEvai' xal fia- * diovvtai O 0 #oi
liti dvoiv dxsXoiv. lav d 9 Htt, doxaCiv aGzXyuivEiv xal firj e$eXco0iv
i]0v%iav ayeiv, itdXiv 'av, %(pr] 9 refiu dl%a, wgz’ Ecp kvdg xoQEvdovzai
OxtXovg doxcoXia^orreg. ravza thtcov Sze^vs rovg dv^Qunovg di%a,
&g%EQ oi za da zipivovzEg xal (isXXovzEg zapixsvsiv, ij E xal ajia
n'ev adSeri- 6tepoi idovz ai. Sensas est: nane eos dividam
bifariam, at et debiliores homines sint et utiliores nobis, quippe nam
ero auctiores. Amant Graeci, quae de certissimo eventa actionis
praecedentis dicantur, ea xal addito superioribus annectere. Paullo
infra legitur naXiv av te/ico 8ixa , Sst iq> kvoS no- psvdovtai
x.T.X., ubi bene ha- beret xai pro gjSte positum ; hoc tamen
scriptor praetulit, quod reiterata divisio cogitatur tantummodo , non
tanqaam actio, quae hat aliquando certissime, proponitur.
7tdA.iv av t Zcptf, teji c 3 Sixa. Rursum exemplum habes
verbi, quod casu suo spoliatum ita exhibetur, ut notio verbi pre-
matur magis, quam vis actionis, Minus recte Schleiermacherus iu
conversione: So will ich sie, sprach er, noch einmal zerschneiden.
Rectior conversio liaec est: So wiederhole ich die Theilung noch
einmal. Atque obiter ut hoc moneam, ut Graeci naXiv av, ita
nos nochmals wiederliolen, pleonastice loqui solemus.
txdxcoXt ccZoyteS. Schol; ad h. 1 . a<jKG)\id?,Eiv xvpicoS
filv tu ini tovS adxovS aAA«- d$an dXrfXippkvovS , iq>* ovS
in7fdc.iv yaXoiov ivsxa • TivlS xal ini tcoy Cvf.tnE(pvx6<5i
zotS dxkXEdiv dXXo/ikvcDV. . ?fdrf 61 TiSkadi xal ini tov aAAe- 69
ai to YEvpov (Bekk. legen- dum censet roV Sr Epov ) took noddUv
avkxovTa^ rj a>S vvv ini OxkXovS kvoS fiaivovTa. %6ti 61 xal to
x^XatYEiv. E Schol.' ad Aristophan. Plut 1130., ubi complures
ddXGoXtdgEtv verbi explicationes reperiuntur, male autem adxcoXia
vocatur iopTtj tov Jiovvdov , nisi fortasse latiore significatu
accipiendum est hopTif verbum, ex huius, in- quam , Schol. annotatione
se- legi haec : xvpioS ddxciXid- Zbiy iXEyov to ini tciy
ddxoov aXXEdSai ZvExa tov yk Aco- ro: noiEtv • iv /ikti& 61
tov $sdrpov ZtISeyto adxovS ns- (pvdifpkvovS xal aAijXififikvovS
, fis ovS ivaXXufiEvoi ivaXiOSai- vov xaSansp EvftovXoS cpifdi
• xal npoS ys tovto ctdxov elS fikdov xazaSkvTES , EtsdXXedSa
xal xayxd&Te ini rols xarafi- fikovdtv . — ddxooXia^Eiv 'eXe-
yov To ivdXXsdSai tois doxols, ?/ to ini ivds nodos dXXedSat. Haec
satis de significatu adxcj- Xia&iY verbi. Non dubium est autem,
quin h. 1. doxa>XutP,EiY uno pede saltare significet» Ut, cum
humanum genus primi- 11 162 II AA TSINOE
wgmo ot tu (bu xaTg ovrtvu fie rifioi, rov 'Aitbkha ExtktVE
T 6 TE TtQO gtOJCOV flETU0TQEtpElV XUt TO TOV ClVyi- vog ijfiiGv tcqos
Ttjv rofiijv, tvu &Etbfiivog rtjv avxov TfirjGiv xoC/ucoTEgog d'rj 6
av&Qmnog , xal tukka ia6&at IxiklVE V. O 61 TO TE KQogUltOV
liETEtiTQEqiE , XUt GVVtkxaV tos nvfiuStav dicatur, post ln\
Svoiv dHeXoiv fiaUiZEiv, futoro tempore ddxooXiddEtv dicatur. Uno
pede etiam hodie saltari in Helvetia, Italia, Graecia, satis notum
est. &S 7t ep ol r d da xkpy ov- tf? nal pkXXoy x eS
xapi- Xeveiv. Lectio vulgata est c oa, quam merito interpretes
recen- tiores improbarunt. Nimirum legitur in L. V. PJ. Timaei: da
dxpodpvojy eldoS pr/XotS pi- xpois iptpepis. Colligitur
inde, Platonem hoc verbum commemorasse in scriptis. Ilaud facile
autem locum Platonis invenias, cui vox illa magis conveniat.
Interpretantur, qui harum rerum periti sunt, da sorba (Arlesbeeren , quae
condita esse, nt diutias conservarentur, non pauci sunt, qui tradidere;
cftvVarr. de re rust. I, 69. ( Putant manere) sorba quidam dissecta
et in sole macerata, ut pira, et sorba per se ubicunque sint
posita, in arido facile manere. Quae sequuntur verba, spuria censuerunt
Sydenhamius, Bastins, Astius. Frustra. Quamquam enim prorsus
nescimus , cur in ovis dissecandis crinibus usi sint ve- teres, hoc
certum est: duobus allatis exemplis Aristophanem et
facilitatem et artificium dissectionis indicare voluisse: ao
Jexcbt, wie man Arlesbeeren zum Einmachen spaltet, so fein und
kunstlich, wie man Eier mit Ilaaren theilt. Eodem modo
explicanda sunt verba Plut. Amat, p. 770. B. ojSittp cdov avrtdv
Tpify Siaip&tiSai t rjv cpikiav. Male igitur Rtickertus ad h.
1. Hoc quidem, inquit, concedimus, languidiusculam esse alteram
com- parationem, concedimus, fieri potuisse, ut ab alio adderetur;
sed additam esse tantum abest, ut contendamus, ut facetiarum
captatori Aristophani recte tributam esse censeamus. Ceterum coniicio
equidem, ovornm per crines dissectionem ludi genus fuisse; fortasse
ex ovorum dissectione per crines facta convivae futura praedicere
solebant. 7t p o 5 xr)y xoprjv. Ut in praecedd. ad xa cJa
supplendum est e proximis xiproyxeZ, ita h. 1. psxa6xpl<peiy
recte repetieris. Toprf significat proprie 'id, quod ex aliqua re
abscissum est ; no- stro loco corporis eam partem denotat, quae
dissectionem passa est. Similiter topi j apud Hom. II. a , 234.
positum repentur: va\-pa rode dxijnxpov, To p\y ov%ot e (pvXXa
xa\ d £ov? $>vdei, iiteidr} TCpddxa t o- pijy iy
opeddt XeXoi7tev, quo loco truncum denotat , ex quo sceptrum
abscissum erat. In sequentibus pro Trjy avxov xpij- diy , quod
recentiores editores omnes habent, plurimi codd. avxov exhibent.
Non male , si 3 iuvtct%ofttv r 6 SsQjia Ixl xrjv yaCtiga vvv
xaXov(ik- vi]v, SgntQ ta eioxaUxa (iaXavtuc, tv 0 x 6 ( 1 « xoicov
ank- Sh xaxce (ii(St]V xrjv yaOxtQa, .0 Srj vvv 6 (upcd 6 v
xaXovOi. xal rag (iiv aXXag Qvxldag xag xoXXag igtlLcuve, xcd xa
191 Gzrforj dujp&QOv , ijrcw n xoiovxov ogyavov, olov ol Cxv-
avrov pro avxoSi positum ac- cipius ; melius tamen illud
habet. xalraAAa ladSai ixe- A evev. Schleicrmacherus ia
conversione habet ; u n d das ubrige beiahl er ihm auch zu hei 1
en. Scriptum quidem exspectaveris xa\ navxa iadSai ixiXcvEv ;
addita auch particula insolentia verborum non mitigatur. Ficinus
verba convertit: reliquis autem mederi iussit. Alia nobis
explicandi ratio placet. xaXXa a sequente infinitivo seiungendnm
est, iddSai absolute positum est : und iibrigens befahl er ihm Hei-
lung an. De hoc usu verborum saepius iam annotavimus , vide anuot.
p. 22. , 27* al. Paullo \ v infra eodem modo 8ioatavEd$ai positum,
ut non actio, sed notio verbi exprimatur tva — ittoj- dpovi) yovv
yiyvoiTo xi}$ 6w- ovdiaS xal dianavoivro h. e. ut satietas esset
amplexandi et quies. ln\ xr)v — yadrepa vvv xaXov
pivrjv. Schlciermache- rus : tiber das, was wir jetzt deu
Bauch nennen. Non satis accommodate, ut vide- tur. Cum vi
pronnutiandum est yadripa, ut ne vernaculo qui- dem sermone
articulus recte addi possit. Structura verborum pri- maria haec
est: ItzI to yadz?'fp vvv xaXovpsvov , quam structu- ram ut minus
elegantem incom- tioremque aetas Graecorum ex- cultior nou
tulit. <3 Sirsp ra dvdnadxa fta- Xavxia. Poli. V. Si. in
recen- sendo venatorio apparatu xv» vovxof, inquit, 8ipya podx^ov
t lis o brciSexai ro Sixxvov , rcJ 6XVP<* XI TCHlOnjpbvOV
, (3 Sit E p xa dvdnadxa ftaXavzia. Ficinus convertit:
tanquam contracta marsupia. Ar- ticulo addito effici videtur,
ut sententia sit: in Form von zu- sammengezogenen Beutcln,
-wio ihr sio ja kennet. o 6 7 vvv o ptpaXov xa- A ovdi.
Codd. omnes habent o 8i) xov u/i<paXov xocXovdi , idque editores
in ordinem ver- borum receperunt. Male ; urgenda est vox ojutpaXof,
atque vi qua- dam pronuntianda, quae vis ad- dito articulo funditus
perit. Si- militer Sjrmp. p. 180. E. ov 8?} ndvdtjfiov xaXovpev, de
rep. I. p. 332. C. r) xidiv ovv xi dito8i8ovda — xixyrj
iarpixj) xaXEixai p. 191. B. o 8?} vvv yvyaixa xaXovpev.
Menon, p. 81- B. o 8tj artoSvyjdxEiv xaXovdiv. Alcib. II. p. 140.
B, ovS 8ij xaXovpEv iaxpovS. ib« p; 187. D. o 8jf pEXonottav
xaXovdiv., Ibid. *L p. 382. D. yj x idi x i ano8i8ovda —
xixrv payEipixrj xaXtixai. vide annot. p. 129 et 130.
xi xoiovxov op - yavov. De indefinito pronomine supra dictum est p.
28. ad verba £3 o r yap xi xovx £*«. 11 *
IUAT&N02 rotofiOi, xiqI rov xaXccnoda Xeatv ovreg rag tav
dxvrmv QvrlSccg' b Xlyag 6 e xaxlXmi , rag mqI avrrjv n)v yaStega
mu rov ofitpaXov , (m/ftaov dvca rov nctXcaov xa&ovg. 'Enubi]
ovv r; (pviiig Sixa no&Ovv exaGrov ro t}fu6v ro avrov tvvfai,
xai neo^aXXovre.g rag %UQug xal £v[inXex6/i£V0i uXXt/Xoig, em&vfiovvrsg
Ovfirpvvai, ane- to 9 tn] 6 xov vnb Xiuo v xai rrjg aXXijg agyiag dea ro
(iTjdev e&iXuv %w@ls aXXijXtov noielv. xai onore ri ano%avoi
Quibus verbis ut respondere an- notavimus nostratium J d as
so sfeine Art, ita verba no- stra convertenda videntur esse:
indeift er etwa ein soK- chesWerkzeug hatte, wie die
Lederschneider, Creu- zerus Lect. Piat* p. 525. censet, ut p. 185.
E. dicatur dvaXaftobv xi roiovtov, ita h. 1* satis esse l 'x&v
n roiovtov. F rastra* nepl rov xaXditodot XsaivovtsS. Pes ligneus
vide- tur fuisse, super quem coria ex- tendebantur, quo facilius et
explicarentur et ad pedis formam adaptarentur. Etym. habet xa-
AoVovV XvplooS o ZvXivoS itovS* xaXov ydp xd B,vXov. Suid. s. v.
xdXaf xaXov ydp rd B,vXoy % ig ov xai xctXoTrovS, 6 gvXivoS itovS.
E Pollucis auctoritate, qui habet X. l4l. rd dxvrord- pov dxevij —
uaXd/tovS, iv rc J dvpitodicp y Bckkerus, Stallbaumius , alii dederunt
xaXditoda, codd. non pauci xctXo7Co8ec ex- hibent. Fortasse utra^ue
forma Graecis scriptoribus usitata fuit* rov itctXaiov itdSovS
. h, e. rjLitfacjf, ?/v titaSsv o dv~ SpGoitoS iv r<ji TtdXaicp
xpovoo. cfr, p* 189* D. insidi) ovv 7} tpvdiS. Annotat
Riickertus ad h* I. : Offendit Astium nude positum vocabulum , post quod
avrdov vel rjfi&v excidisse putat. Of- fendit nos quoque $ sed
putamus ipsius Platonis peccatum esse posse . Etiam Stallbaumius
ad h. 1. avt&v supplendum esse censet. Aliter nos statuimus
de hoc loco; Articulum exhibuere veteres scriptores haud raro ,
ut ’ indicarent, de re sermonem esse, quam in praecedentibus iam
te- tigerant. cf. p. 189. D. ?/ ydp TtdXai ij/tcov <pv6i$ ovx
avnj 7jv rjitsp vvv x. r. X. Mens Aristophanis est; Da non
die urspriingliche Einheit der Kor- per, vou der oben
gesproclien worden ist, gelosst war cet. Exem* pia si quaeris huius
usus articuli, vide anuot. p. 12. , vito Xipov xai rrjs
aX- Xt}S apyiaS. Vulgo vito rov Xiuov legitur, quae lectio
cur ferri nequeat , e praegressa annotatione colligitur. Ceterum aX
- AoS 1 rebus apponi, quae genere non differant, specie dis-
crepent, supra annotatum est p. 116. Restat, ut dicamus, quo iure
id fiat. Riickertus ad h. 1. Videtur, inquit, aXXrf alia verti non
posse, neque negare licet aAAo? non nunquam ita dictum esse graece,
ut propriam hanc vim neutiquam exerceret, de qua ffi>v yfiteeav,
t 6 81 lutp^sit], zo letcp&ev aXko IfiJ tu xai avvmkixezo v eize
yvvcuxog tijg o ki/g hrcv%oi Jjfiian, o Sr/ vvv yyvcuxu xakovfi sv, iit’
avSgog' xai ovroig attiiiXkvvto. ekerjSag Se 6 Z evg cckhjv [ij]%avt}v
xogltexai, ■ xai fuzazt&rjtiiv avzuv tu aldoia elg ro jtgoO&ev
zeag yag xai zavza exzog (l%ov, xai lylvvcov xai Izixxov ovx elg
akkijkovg, akk’ elg yfjv, agxsg ol zexziyeg. fiezi&rjxt C re ovv
ouzag avta elg ro XQod&ev] xai Sta zovxav re non est, cor hic
pium dicam, qui nostrum locum, ex hoc numero excipiendum esse
censeam. Nam cxpyla non segnitia est, sed cessatio, vacatio a re
quacunque, sicut ager dicitur <£pyo$ t dum cessat a cultura. Jam
igitur Ai- fivv in genere xfjf ctpyiaS esse apparet, est enim
cessatio a capiendo cibo , licuitque dicere, homines illos, cessantes et
a cibo capiendo et ab omni opere su- scipiendo emortuos esse. —
Ridiculi aliquid inest his verbis; quis enim ferat cibi capiendi
cum ipyoo comparationem? Deinde male Ruckertus posteriori nomini
tantam vim tribuit, ut ad id di- rigeretur prius. "AAAoS
semper ita adbibetur in huiusmodi dicendi genere, ut priori nomini
addatur, quod cura eodem cohaereat, quod ex eodem genere sit, quod
cognatum sit cum eodem. Primitus autem dixisse arbitror vete- res, ut ad
nostrum locum rever- tar, vito Aipov xai tov dAAov, li. e, fame et
ceteris, quao cum ea cohaerent. Acce- dente autem appositione ad
verba tov dAAov, ne incomtius existeret atque inelegantius dicendi
genus, tov aAA.ov, apyiaS , admissa ge- neris assimilatione xrjs
dAAi]S, apyiaS edictum eat. Sic com- mode explicatur Piat.
Gorg. p. 473. C. etyAcoxoS tov xai evbai- povi?,6fuvoS vito t<Sv
icoAixgjv xai xgov dAA.Gov (sc. ) HevQov. Alia exempla, quibus
nostram explicandi rationem probare pos- sis, laudavimus iu aunot,
p. 116, ooSitep ol xixxiy eS. Audi Wolfti ad h. 1. annot. :
Sie thun dieses vermittelst eines Stacbels, den das Weibchen aui
Hinter- theile luit, and der eiu Dritttbeil der Langte des gauzen
Thieres Husmacht. Damit bohren sie in die E«de, dDnen ihu und
lasseu die Kier in deu Sand fallen, wo sie vou der Sonne
ansgebriitet werden. cfr. Aelian. H. A. II, 22, tals acpvaiS o*
itijAoG yiveais id xi' bi aAAi/Acov 61 ov xt- xxovdiv avbh
iniyivovxai x.x.A. f.t£T i ^ TJX i X E OVV OVtGOf avxtov elS
xo it. OvtgjS iu multis codd. non comparet, quare id uncis inclusit
Dindorfius, Reyn- dersius expunxit. Idem Stall- baumius servandum
censet rectis- sime, Plerumque enim haec vox ita adhiberi solet ,
ut ad aliquid respici significetur, quod in prae- cedentibus est
conteuturo. Spe- ctat autem nostro loco ovtcoS ad verba iXEijdaS bl
6 ZsvS, et convertendam est: hac ratio- ne» qua dixi, vide annot.
p. i ryv yhvtOiv iv aXXyhnq IxolyGB, dia rov UQQtvos Iv
Tqj ftrjXei, tuvSi tvBxa , iva Iv ry GvfixXoxy afia fiiv ei avrjQ
yvvaixl ivzvioi, yivvaiv xal yiyvouzo to ytvog, 63- et p. 146.
Deinde qninqae melioris notae libri pro avtcov exhibent avta, quod
a Stallbau- roio, Astio, aliis io verborum or- dinem receptum est.
Audacias fortasse quam rectius. Avta verbi avToov correctio est,
avxdov autem scribae alicuius sedulitate e praegressis olvtgjv ta
al8ola eis to izpoCSev huc translatum est. llectissime, ut videtur,
Ru- ckertus ad h. 1.: Mihi , inquit , Plato videtur
scripsisse: fi £T £- te ovv ovtcoS eis to itpodSev. Ficinus verba
con- vertit : cum vero ad ante- riora transposuisset, ut
legisse eum censeas, quod Rii- ckertus dedit, e( nos unice pro-
bamus. Ceterum verba fisti- 2yxe te ovtGoS eis to itpodSev repetiit
Aristophanes , ut cum sequentibus artias coniuugerentur: 8ux
tovtoov trjv yevediv Iv aXXyXoiS irtolydev, quae couiunctio per ti — xal
particulas instituta quam vim habeat, nunc dicendum est.
Coniunguntur duae hae actiones ita, ut eo- dem fere tempore
gestae esse dicantur: Simul atque ea ad anteriora
transposuit, per da tyv yevediv effecit. cfr. Flat. Phaedon. 73. D.
, qui lo- cus huius significatas luculentissimum exemplum est:
iyvoo- dav te trjv Xvpocv xal iv trj Siavolqt iXaftov to eldoS
tov iraiSoSj ov tjv rj A vpa. Ad haec verba Stallbaumius aoristi ,
in- quit, indicant, rem identidem fieri solitam. Essent ex hoc
prae- cepto verba convertenda: Sie pflegen die Lyra ru
erkennen und das Bild des Geliebten, dem die Lyra gehorte, in der
Seele aufzufasseu» Verum tenendum* est accurate, quod in
superioribus Cebes dixit: Reminisci non solum eius esse, qui aliquid
agnoscat, sed qui aliud, ab illo diversum , mente simul complectatur , ut hoc
non ex eadem perceptione animi h. e. e perceptione animi praesente, sed
ex alia eaque priore ( ov y v y Xvpa) pendeat. Probatur haec
sententia imagine amasii, quae AMATORIS animo statim obversetur, simul
atque hic lyram conspexerit, quam amasii esse iam dudura observaverat. Non
ingratum lectoribus erit exemplum e Taciti Hist. petitum I. 76 ,
quo doceatar, quomodo illam dicendi normam Romani sint imitati:
Primus Othoni fiduciam addidit ex Illyrico nuntius, iurasse in eum
Dalmatiae ac Pannoniae et Moe- siae legiones. Idem ex Hispania
allatam : laudatusque per edictum Cluvius Rufus et statim cognitam
est, con- versam ad Vitellium Hispaniam., nal ylyvoito to yivoS. In
his verbis Riickertus haesit non immerito; Iovem enim fe- cisse,
quae fecisse narratur, nt nasceretur genas huma- num, (Astius
habet: ct progenies existeret) quis probet? Schleier- macherus in
conversione exhibuit» und Nachkommenschaft entstiind e. Id dicturus
vide- licet erat Aristophanes. Fortasse afia 6’ tl xal u^qy/v
ilpoivt, , itl^apovij yovv yiyvoiro rrjg GwovOtus, xal diaitavoivzo xal
htl rd fpya rps- Ttoivto xal xov dXXov /3i'ov tmiiiXoivro. 'idn drj ovv
ix aliquid vitii verba contraxerunt, lluckerto scribendum
videtur xal iti yiyvovto to yivoS. Faci- lior, ut videtor haec
coniectura est : holI yiyvoiro yovoS. Facillime nutem demonstrari
potest, qui factum sit, ut manus Platonis corrumperetur. Incuria
ni- mirum scribarum syllaba finali yiyvoiro verbi dupliciter
posita erat: yiyvoiro r 6 yovoS, Quod cum seriore tempore alii
men- dosum esse intelligerent, ro ye - voS scribendo locum
emendare atque sanare stndueruut. a // a 8 9 ei n a l a /3
f>tjv afifievi. In quatuor codd. Flor, ct apud Stobaeum
afjjiev legitur pro afifajv, quod plurimi libri habent. Illud
Stallbaumius in textum recepit ut exquisitius. Masculinum genas
neutro praetulimus propter praecedens et avijp yvvaixi. Reddidit
verba Schleiermacherus : Wenn aber ein Mann dem andern.,.,
omissa xai particula, de cuius significatu interpretes ad h. 1.
nihil anno- tarunt. Schulthessius habet: zu- gleich aber , wenn
Mann und Weib sich einten . ... vitio, ut videtor, typothetarum.
Sententia est totius loci: damit in der Umarmung, wenrf dem
Weibe ein Mann zu Theii wiirde, sie der Zeugung sich ergiiben
und Nachkommenschaft entstiinde , -wenn aber dem Manne auch
(h. e. wieder) ein Mann, wenigstens et quae seqq, 7t\ij
<$ p ovr} yovv . Postquam dissecta corpora fuerunt, parte» dimidiae
amplexari se adhuc non desierant, immo mutuis in amplexibus deperibant.
Ut igi- tur plane abstinerent a complexa, non potuit Iupiter
efficere, ni- mium enim urgebat vis naturae. Itaque quum totum
consequi non posset, novo instituto, quantum potuit assequi,
molitus est, ut satietate caperentur coeundi intervallaque facerent. Hinc
yovv cnr positum sit, intelligitur, Riickert, na\ Siartavoivto.
Haec codicum est lectio. Vulgo 8ux— vcntcivoivxo , quod unde
ortum sit, facile intelligitur. ^Margini enim interpres aliquis
avoc7tccv~ oivxo .adseripsit, ut 8ia.7t<xvb6%oii verbi raritatem
explicaret. Post alius nimia sedulitate ductus in ava
textq posuit 8icc7tavoivxo t ex quo factum est 8iavanavoivxo.
Ceterum non opus est ad 8iol — Ttavoivxo suppleas avtijS. Verbum absolute
positum est: und sie Ruhefanden und sich der Arbcit zuwendeten und
Sorgo triigen fur ibren weiteren Un- terhalt, ini rd
ipya. Haec verba de agricultura intelligcnda sunt noa minus, quam
quod supra legitur p. 191 . B. vno Xipov xal ttjs aXXr/S dpyiaS.
O ftioS in se res omnes complecti- tur, quae ad vitam
sustentandam necessariae sunt. De scriptura imytXolYTo cfr. Thomas
M.: impiXopai xaXXtoy >j inipe- Xovpai. Adde Buttm. Gramm.
ampl. T. II. P. I- P. 187. : Die C DtoOov o "Eqcxs
tyywos aXXrjXav xolg ccv&qkmois xcd rijg agyaiag cpvGmg Gvvayayevs,
xal Imysigav xoiijacu. 'iv ix dvolv xal laGaoftcu zljv tpvOiV trjv
txv&gaxivqv. Cap. XVI. "ExaG rog ovv rjfiwv
iGzlv kv&qq irtov fcvfijioXov , are Formen des Compositi
imjJEX?}- Copai etc. werden gewohnlich za i7ti/i£\ei6$ai gestcllt,
welches eiue ganz gleichbedeutende Ne- beulbrm von iitiftiXedSca
ist, die aber von den Atticisteo fiir xninder gut erkliirt wird.
Bei- de Formen sind iudessen in nn- sern fiucliern so haufig , dass
wenigstens an den einzclnen Stel- ' len sicli nicht entscheiden
lasst, ob wirklich der Schriftsteller so geschrieben. Doch ist kein
Zwei- fcl, dass lnifi£\E6$cti das altere ist, ond die Flexion von
faipe- Xijdopai urspjiinglich dazu ge- hurt. wSitEp al
Tpijttai. Piscium genus iprjrtai Graecis notissimum, quandoquidem
Callonice in Aristoph, Lysistr. v. 116. dicit: ' fyo$ 6i y <* v
> uSitEpeX tprjt- rav 8ox65 dovrat av ipaxrcfjs
xapra/tovdoc Srjpidv ad quem locum male Schol. iprjr-
tot, inquit, opYEOv rerprjpEvov nata ro pidov cJ S oi 6q>ij - x
e S. XeyEi ovv , ori xav dvpfifi ripvE6$ai ro ijju6v jiov ftov-
Tiopoci. Rectius Schol. ad no- strum iocnm annotat: ix$v8iov
n rcov irXocriw 7 } ipijrra £x Svo $ Ep parco v 6vyxEi6$ai
rrjv idEav doxovv , o rives davSd- Taov uaXovdWf oi 6'e
fiovyXGod- <Sov, xaxooS 8 e. dXXa yap idti ravta. Colligitor px
bis verbis, Tfxrjrrav cum in altera corporis parte os, oculos ,
nares posita habere, tum ca corporis figura esse, ut dissecta censeri
queat, atque non integra nisi cum altera couiungatur. Facit igitur
nostro loco ifxrjrrta v mentio ad descri- bendam figuram androgyni
dis- secti, contra ' ZvpfioXov nomen nataram et conditionem eins
expri- mit. &vpfioXov nimirum tessera hospitalitatis est,
annuli, astragali, alius cuiusvis rei pars al- tera, quam hospes hospiti
conr credere solebat, ut alter ad al- terum veniens haberet, qno
agno- sceretur familiariterque excipere- tnr. Hoc facto uterqne a
fraude tutus erat. Nam si quis pere- grinus ficticia hospitalitatis
tes- sera prolata sibi exposceret, quae non nisi amicis amici
praestare solebant, receptaculum, cibi ac potus facultatem, alia
hoc genus, tessera admota tesserae rem ve- ram aperiebat.
Zr/ret 8?) ro avtov %xa- 6roS £,v p$ oXov. In aliquot
codicibus 8£ legitur pro 8t}. Il- lud, minus aptum hoc loco, ut ia
sententia communi; nam d?j apud nostrum ceterosqne prosae ora-
tionis scriptores haud raro eius- dem potestatis est, atque r oi
particula apud tragicos poetas, quamquam etiam huius particulao
frequens est apud illos usus. cfr. Matth. Gr. plen. $. 627. p.
1281. " ExatitoS cum Bekkero et Stoll- tBT{it]iilvog mgxEQ at
i’rjrrai , i£ e vos Svo. Srj ad 1 6 avrov exaiSTog £vti(iokov. ooot
(iiv ovv r tov dvSgcov tov xoivov t fiij/xa sltSiv , o di] tore avSgoywov
ixa- Aelto, (piXoyvvaixtg te eIoI xal ot sroAAot rcov fioi%tav ex
tovtov rov yivovg ytydvaOt • xal oOat av yvvalxig £ rpikav&Qoi te xal
(ioi%EvtQiat, Ix tovtov tov ytvovg yt~ baumio ex codicum
auctoritate in textu posuimus pro vulgato 2xa6xov, quod Iluckertus
frustra reposuit. Ficinus verba conver- tit: quaerit autem sui
quis- que dimidium. Nam ut mit- tam geuus masculinum, quod et
praecedit et insequitur, ut exa- 6xov vix ferri posse videatur:
etiam ambiguitas quaedam exoritur vulgata scriptura admissa, cuius vitandae
Graeci studiosissimi erant. Certum est enim, verba non hoc modo
intelligenda esse: ixa6xov £,vfi(joXov etyXEt a e i To ccutov.
Sententiam quod attinet, homines dissecti cum peA egrinis comparantur*
qui habent tesseram hospitalitatis, sed hospitem reperire non possunt,
illam qui agnoscat, ipsosque comiter excipiat, eaque, quibus opus
sit, ipsis suppeditet, o 6 t} tore av 8 p 6 yvv ov
ixaXsixo , h. e. quod tum temporis androgynum vo- cari diximus. De
genere neu- tro relativi pronomiuis vide an- notat. p. 138. Ceterum
dicendi, indicandi, similia verba in huiusmodi enuntiatis saepissime
reticentur ita, ut infinitivi, qui ex iisdem penderent, id tempus
assumant, quo tempore dicendi verba proterenda erant. Exempla huius usus
permulta repe- riuntur. cfr. Piat. Alcib, I. p. 106, D, ovxovr
xavxa povov ottiSa, a Ttap’ aXXcov £fia$eG t V ovtqS
l&Evpe£ ; nbi oldSa dictum est pro eldivai XiysiS. Ibid. p,
111. E. Ti 8* eI pov- XtjSdrjfUv Eivat jjt} povov noioi avSponol
Eidiv , aXX* onotoi vytEivol rj voGc&dsiS, apa \xa- vol jxv
rjfj.lv tfCav (pro i-cptjfisv av Eivat ) 8i8d(jxaXoi ol itoX- Xoi;
Adde Piat. Crit. p. 47. D. cp eI ftrj axoXovSrjdofiEV , 8ia - <p$
EpovjJEY ixEtvo xal Xajfiij- dojJESa , o tg3 Sixaitp fiiXrtov
iyiyvsxo, xcp 81 d8lx(p a- 7tGoXXvr o , Vide praeterea En-
gelhardtura ad Piat. Lachetem p. 185. ed. p. 28., qui ad lo- cum
modo laudatum verissime haec annotat: Quamvis disertis verbis haec
sententia nondum sit dicta, continetur tamen quo- dammodo in
praecedentibus. Post- quam enim recta exercendi ra- tione corpus
melius reddi, prava perdi ostendit, sic pergit Socra- tes : ovxovv
xal xaXXa, co Kpl - zooVf ovtgjZ, Iva prf itavxa 8ii - Qjfjtv , xal
8 j) xal nEpl rcov Sixaie&v xal adlxcav x. t. A., ubi verbis
xal xaXXa TCavxot omnia complexns iam id sibi concedi vult
Socrates, animam iniustitia et pravitate perdi; quare pergere
licuit: o tgj jj\v 8ixaicp fieXxiov iyiyvsxo , rc3 ddiHoo
anaXXvxo. Eodem modo , h. e. supplendo dicendi verbo explicandus
versus est Me* leagri in epigr. XII, 5« T* 1» p. 6, ed. Iacobsii.
yvovzca. odae di zcbv yvvcax&v yvvccixog Z(irj(id sidiv, ov 7tdvv
avzai zolg avdQadc zov vovv itQogiyovdiv, dXXa pdXAov itpbg zag yvvalxag
zErpappivca tldi, xai ?/ taxet xovvop’ %x £t tavxov povov ,
ipya 81 xpedd cov, ubi Ixet positum est pro ixetv XeyeiS*
Malimi tamen ix 01 le- gere, quod positum esset pro. ?/ taxet tpairjS.
xai bdai av yvvaixeS — yiyvovtai. Av plerum- que ita ponitur,
ut eadem ali- cuius actionis reive conditio in- dicetur, quae in
praegressis re- peritur» Hinc fit, ut av posito saepissime verba
omittantur, qui- bus conditio illa exprimatur. Expletior oratio haec
foret: xai odai yvvaixeS tov xoivov xpij- pa eldiv % 6 8tj tote
avdpoyv- rov ixacXetto, tpiXavSpol t* ei- di xai al noXXoil xgjv
jioixsv - tpicbv ix tovtov tov ytvovS yeyovadiv. Sed nemo non
vi- det, e nimia verbositate haec verba laborare ; quapropter
av vocula adhibita, qua ea, quae in praecedentibus continentur,
suppiendaque esse siguificantur, no- stro loco omissa sunt. Et
quoniam praecedit ix tovtov tov yivovS yeyovadiv , haud scio, an
non insiticia verba sint ix tovtov tov yevovS yiyvovtai ;
quibus omissis neque sententiae vigor minuitur et comtior fit
elegan- tiorque oratio. Sed nihil mutau- dum contra codicum
auctoritatem , qui ad unum omues verba illa exhibent, EaMem etiam
Fi- cini conversio probat: Rursus quae cunque mulieres virorum
cupidae moechaeque sunt, hac stirpe nascuntur, ov navv —
ciXXd paX- Xov. Dictam supra est de ov navv vocularum
significatu io an- notat. p. 49* Recte ibi contra Engelhardtum
monuisse nobis videmur, ov navv non esse plane non, sed non magnopere, non
sane. Exemplorum, quae illic laudavimus, nul- lum esse puto, quod
probandae huic sententiae magis inserviat, quam nostrum locum.
Addito nimirum paXXov comparativo statim intelligitur,
Aristophanem dubitanter loqui, atque illarum mulierum erga viros
amorem non prorsus negare. xai al htaip idtptai. Timaeus
p. 123. Itaipidtpiai' al xaXovpevai xpifiadeS , ubi Bnhnkenius :
tales crissantes, in- ™it, mulieres, quae aliis nomi- nibus
Lesbiades , tribades, frictrices et subagitatrices vocantur, in telligi t
Clemens Alex. Puedag, II, p. 264. yvvaixeS avSpi%ov- teS napd.
<pvdiv. Stallb, Te- tigit nostrum locum Wachsmu- thius in libro:
Hellenische Alter- thumskunde T, II. Abth. H, p. 48 et 49,
bdoi 8h dflpevoS tpij- pa. Ut concinnitati singula- rum
partiam orationis cousoleret, Bastius scribendum coniecit odoi
afifreveS afifaevoS tpijpa el - dtv. Recte fortasse, neque
au- dacior haec coniectura censenda est. Factam est enim scribarum
incuria haud raro, ut, ubi scriptor duo verba iuxta posuit, quae
inter se aut plane non differ- rent aut non multum, alterum at
iTaigldTQiai Ix tovtov tov ytvovg yiyvovrca. oGoc iis k$qsvos tfirjiia
d<St, rcc a§§iva SuoxovGi , xal Tiag fihv av accidis u<Hv, are
Tcicu%ca orna tov aggivog. chartae mandarent, alteram omit- terent.
Hoc modo depravatas est v* c. locus pulcherrimus Platonis, Crit.
p.45 A et B.; verba haec sunt: 2. apri 81 Tjxet S 7 ) TtakcLi; Kp.
iniExxooS itdXai. 2. sita 7tdo? ovx evBrvS iitjjyeipaS pe, aXXd
diyy itcrpaxdSjjtiou ; Kp. ov,pd tov di\ <0 2ojxpattS i ov8* dv
avToS ?/3eAov iv to~ davrp te ay pv it vi at xal Xi >7ty elvai •
aXXa xal dov naXai $av pa^Go al- .dSavopevoS, co? t/SegoS xa$
£V 6 EiS . Faoit Stallbaumius in annot. ad h. 1, ed. p» 102. Critonem
loquentem : Ne ipse quidem vellem in tanta insomnia tantoque
moerore versari, in' quo revera sum, tibi autem, * cui tam gravis
imminet calamitas, haec tua quies non videbatur turbanda esse.
Cur Socratem e somno non excitaverit Crito, caussam justissimam
habes * placidissima quies non videbatur turbanda esse. Cur tacide
consederit (diyjf 7ta- paxaSt/dat), ei quaestioni quid respondeat
in Critonis responso, frustra quaeras. Tantum enim abest, ut verba;
ne ipse qui- dem vellem in tanta insomnia tantoque moero- re
versari aliquo modo cum Socratis quaestione illa conciliari
possint, silentiumque excusent, ut potius ipsa inepti quid ha-
beant atque excusatione indigeant* Verba Critonis depravata sunt*
atqne eo modo, quo Bastius nostrum Symposii locum emendare studuit,
corrigenda. Satis notum est, summam animi anxietatem eam esse, quae
silentium non patiatur. Quid multis? Scripsit Plato: ov pd tov di*,
oi*S* av avTvft avav8o? iSeXor x. t. X. Haec verba scribarum
incuria in hunc modum depravata sunt: Ov8 9 dv avroS avavToS , ut
scripserunt Symp. p. 174. D. itpo o8ov pro t tpo o rov ; post alii,
cum dv avroS verba male repe- tita esse putarent, pro dv av - ToS
avavroS scripserunt dr av - toS, Sensus est totius loci ; Socr.
Warum wecktest du dann (quae vox quomodo cum d e n n cogna- ta sit,
dixi p. 151 .) mich nicht sogleich auf, soudern setztest dich
schweigend ' neben lier? Krit. Ceim Zeus , o Socrates, ich selbst
vermochte es bei so grosser Unruhe and Traner nicht uber mich
2 u bringen (vide, quae de iSeXsiV verbi potestate dicta sunt ia
annot. p. 44.) ganz- lich lauti os zu sein; und doch bewundere ich
dich schon lange, indem ich bemerke, wie sanft du schlafst.
Emendatione nostra quantum gratiarum Critonis responso accedat,
prudentio- res persentiscent. .1 xal TiajS plv dv itat
- 8 e? G)di. Memorabilis hic locas, quo relativa potestate tegjS
positum est. Astius praeter nostrum locum cum nullum in Pla- tonicis
scriptis reperisset, qui eadem potestate exhiberet tIgoS vocem
usurpatam , egoS scribeudum coniecit. Tego? in textu tpilovOi xovg av$QKg
xal %aiQovGi dvyxcttcixtlfiivoi 192 xal avpKtxltyulvot roig dvdQccGt •
xal d6iv ovroi (itX- ttOrot tau nalScov xal [itigaxCcov , uve
dvdQuozaroL ovrtg tpvOU’ tpaol 6 'e dy rivtg ainovg dvaiOyvvrovg
Eivai, . ipEvdouEvoi ' oi5 yccQ vit dvatOyvvxlag zovro dgwOtv, dXX’ vito
&<x$Qovg xal dvdQtiag xal ccQQEva- posuit prudentissime
Stallbau- mius, cuius silentium aliter, at- que Riickcrtum fecisse
video, ego interpretor. Ipsum Riickcrtum audit Tacet, inquit, de h.
I. Stallbaumius , sed mallem dixisset, si quid haberet , quo defenderet T
iooS relative usurpatum. Si repcritur in veterum libris, quod contra
consuetum dicendi usum est, codd. autem auctoritute probatur, a mutando
abstinendum notauduque est, si eo opus •it, novitas rei. Nostro
loco T tcoS non idem atque MgoS esse, quem lateat? sed quo id
defendat, quis habeat? cpiXovtil to v 5 d v 8 p a S — x ots
avS patii v . $iXttv verbum feminis amasiisque ple- rumque
convenire supra annota- tum est p* 69. Ceterum prae- cedente XOvS
dvSpaS in sequentibus scriptum exspectaveris fortasse pro xoiS avdpatii
pronomen avroif, quod cur non posuerit Aristophanes, caussa in prompta
est. Solent enim inter- dum veteres praecedente aliquo nomine non
pronomen exhibere, sed ipsum illud nomen repetere, nt id
significantius emineret le- ctorumque animis maiore cum gravitate
insinuaretur. Igitur nostro loco pueri, quatenus segmenta sunt integrorum VIRORUM,
VIROS AMARE dicuntur, atque cum VIRIS lubentissime congredi, ut io
universum significetur, PUEROS illos non nisi VIRORUM societate delectari. In
sequentibus pro xai tltiiv ovroi fUXtitiroi scribendum coniioio na
i tltiiv ovroi oi (iiXntiroi. Articulus fi- nali syllaba ovroi
verbi absorptus est, ut factum est haud raro. Unum depravationis
huius exemplum ut laudem, in plerisque codd, male exhibetur p. 179.
B. ov ftovov ori avSptX, aXXd xal yv- vaixtS. Alio loco de
superlativo vel cum articnlo vel sine eo exhibendo dicemus, quam
rem nemo Grammaticus, quautum scimus, adhuc satis accurate tetigit.
ars avSptiotar oS ov- XtS (pvtitl. Alludit Aristophanes lioc loco ad
avSptioX nominis ambiguitatem. Signifi- cat enim et fortem ct eum,
qui cum VIRIS aliquid habet coniunctiouis, similitudinis, commercii. Neque
dubium est, quin ARISTOFANE illam nominis significationem ex hac derivatam
esse censuerit. Verba couvertenda sunt: Et sunt hi quidem OPTIMI
PUERORUM ET IUVENUM, quo AD MASCULO SEXU DELECTANTUR MAXIME ideoque natura
fortissimi sunt* tpatil St} tivsS x. x. A, Eandem rem
Pausanias tetigit p. 182. A. his verbis: ovroi ydp tltiiv ol xal to
ovtidoS ntitoi- rjxottS , cafr e xivaS roXpav Xt- ytiv , o)S*
altixpov x a P^ etiSai ipatitouS, Ceterum etiam hoc xi 'as to
fifiotov cnrroig acsxa^o/iivoi. (liyct di te x/iiigiov xal ydg
xckEa&svxsg fiovot ccxopatvovGiv clg xu ito- hxtxd avdgs g oi
xoiovzoi' enstdav de avdgca&aiGi, mudegaOxovOi xal itgog ydgovg xal
itutdoitouag ov B itgogi%ov6t rdv vovv cpvtiu, dk).d vnb xov vu { uov
dvay- xu^ovxui ' ulk’ tgagxsi avxotg ft£t’ dkkrjkav xaxagijv
loco Riickerti sententia de Grae-corom saper PÆDERASTIA iudicio, quam
supra exposuimus iu annotat p. 9 satis reprobatur. TiveS enim h. 1., ut
illic x iva$, quamquam de populi quodam ru- more accipiendum est,
tamen non omnium Graecorum constans de PÆDERASTIA indicium
exprimit 3 d fi fi ovS xal dvSpstaG xal dfifiEvaitiaS» Opponuntur
haec tria nomina praecedenti avat 6 xvrtiaS nomini oratorie» ut indicetur»
quantum numero superent praecedens nomen haec tria nomina tantum etiam ei
praevalere significatus potestate. Tantum enim abest ut pudore illi PVERI
careant» ut potius VIRILI sua
indole ducti AD VIROS se convertant. Ceterum illa nomina haud multum
inter se differunt siguificatu. 'AfifiercD- itia enim VIRILEM
INDOLEM significat non minus quam dv - 8 peia t cuius indicium est
Sctfi- fiu$ h. e. fiducia audacia; animi fortitudo Laudat Fischerus
E- tym. M., in quo d fi fiev coniaS no- tio sic explicatur: afifievcDitds
ix x ov ufifiijv dfifi&voS xal r ov d)if> oonoS, o
tiijpaivti rd itpoSco- 7 ior, dfifisvcojtds 6 afifievoS jtpoS-
coitov 8 x ojy > xaxd dvVExSoxi / y . yyovv o dvdpelo S xal
idxvpdf xal dvvdpevoS it poS cx$pdv dv- Tvrax$fiyai. idxi xaxd
6vv- exSoxy v ano pipovs rd oXov. xal yap xe\e&%evxeS —avS pES
ol xotovtoi, Pi- cinus verba convertit: Iluius evidens argumentum
est , quod cum adoleverint , soli ad civilem administrat ionem conversi ,
viri praestantes evadunt. Nou rectius Schleiermacherus in conversione:
dass wenn sie voll kommen ausgebildet sind, solclie Manner
vorziiglich fur die An- gelegenheiten des Staats gedei- hen. Unice
vera Orellii explicatio verborum est in Scbulthessii convers. p. 92. :
Deutlich eihel- let dies daraus » dass solchc al- lein » wenn sie
heran wacbseu» in den Angelegenheiten des Staates sich ais Mauner
beweiscn. Eodem modo verba intelligenda esse docuit Rtickertus ad
h. 1. vito xov vdpov av ay - xagortai * Apud Stohacum
Serm. 65. p. 4 10. legitur: *Znap- riatav rd/ioS rdxxEi ZypiaZ, ryv
ptv npcdxyv dyaptov xfiv SevXEpav uiptyaplov xyv rpi- xyv 8
\xaxoyapiov. Utrum apud Athenienses ayapiov lex exstite- rit,
necne, in incerto est* Vide Wuch&muthii librum: Hellenische
Altcrthumskunde T. II. Abth. I* §. 98. p. 266., Meier u. Schom.
Att. Proc. £87. Cuvendum est autem, ne quis forte nostro ioco probari
ceuseat, legem dya - piov Athenis latam fuisse. Nam vdfioS ambigua
significatione apud Platonem adhiberi solet, ut et legem, et morem
receptum» ccyafiotg. stuvTug fitv ovv 6 toiovtog 3tai$SQcc6r>']g
re xcd <pt2cga<STt)g yiyvtrat, au r 6 igvyytvtg
aO}ttt^6[icvog. orctv fitv ovv xai avrtp Ixdvcct Ivtv%iq tu ccvtov
y/ilttu xcd 6 naLSegaOtrig xal cckkog xag, rore xcd 9av(ia0td C
lx7tfo'iTTOvrcu cpckict re xcd olxuoTrytc xcd Hquti, ovx i&D.ovttg ,
ug Enog tbteiv , %UQi&6&ac aAAjjAov ovSb consuetudinem,
exemplum significet. Vide annotat, p. 100. nai8epa6xr}S xe xal
<pi- Xepadxi/S. Non de pueris hic sermo est, sed de viris, qui
in- tegri viri segraeuta sunt. Me- rito igitur roirere it ai8 £
patiit/ S verbi cum cpiXtpatiTtjS coniuu- ctionem. Interpretes
verba convertunt: Knabenliebhaber und LiebhabertVeund, ut alterum
ver- bum ad viros, alterum ad ama- sios pertineat» Sed fac,
hanc ARISTOFANE mentem fuisse, quaeritur, cur ordinem verborum inverterit,
adraiseritque vdxepov itpuxepov, quod rectissime etiam a Riickerto
not.itur. Sed quam hic verborum illorum explicationem exhibuit, eam
fateor mihi neutiquam probari. Eam, inquit, rationem inii , ut
tpiXepaOxj/v dictum hoc loco putarem amicorum amatorem ad analogiam naiSt
patir/fS, quasi non a cplXeco , sed a (piXoS petita esset pars
prior nominis. Jam idem est , ac si dicat it a i 8 cov X £ xal
cpiXoov i padxi/v. Sen- sus hic est: Ex hoc genere qui est ,
js semper AMATOR est , sive PUERI sunt , quos AMAT, sire AMICI Quos
enim PUEROS AMAVIT, eosdem amicos habet, postquam adulti sunt, ita ut
horum etiam AMATOR magis, quam AMICUS sit, Displicet haec explicatio
duabus de caussis. PUERI enim, qui AMANTVR, non minus AMASII sunt quam AMICI
AMATORVM. Deinde non dicitur Graece cplXoov ipadxqS sed posito ipadxijS
nomine itaideS s. itaiSixa adiungautor necesse est, coutra cpiXcov ubi
ponitur, non ipadxrfv sed qiiXov adiungi usus loquendi flagitat. Possis
itai8epa6x?}s xe xal qnXepa6tr}s: ita explicare, ut VIRVM inlelligi
censeas, qui neque alios vituperet AMATORES puerorum, et ipse pueros amet.
Dubito tamen, num haec significatio cum tptXepadxtj S verbo
satis conveniat. Supra annotavimus p» cpiXeiv adhiberi haud raro, ubi de
actione sermo sit, cui vis quaedam, qua necessario fiant, inesse
indicetur. Eadem significatio interdum in iis nomi- nibus obtinere
videtur, quae cum cpiXeiv verbo composita sunt. Sic in Alcib. I. p.
122. C nod dubium est, quin de indole Lacedaemoniorum jfrmo sit,
qua ad labores suscipiendos , ad aemulationem summam et ad honores
consequendos ferantur. Verba sunt: ei 8* av iSeXt/tieiS elS
(ScjippodvvTjv xe xa\xo6piu>ri]ict aitofiXeifiai — xal
(piXonoriav xal (piXoveixiav xal tpiXoxipiaS xaS AaxeSaipoviaiv x.
x. A. Eo- dem modo verba p. 189. D. intelligenda sunt: l6xi yap
Secor tpiXavSpGHioxaroS quae ita de Erote dicuntur, ut deus sua
natura perhibeatur homines maxime AMARE. Adde verba p. 191. Giuy.qov
xquvov. xccl ot SucraiovvTtg fiiz’ dlXylav Sm .fiiov ovzol tlOiv , ot
ovS’ av %%oitv dmiv , o zi (3ow- Xovzai 6<pl<5i 7 ta</ ccV.t)
Xav ylyvt6&ai. ovdh yctQ av So^hb tovz’ ilvai r/ zav utpQO&iolav
tivvovoia, tog ciga tovtov iviy.a. ezegog iztQca %aigu ‘gvvcov ovz
ag ini fuyaXzjg 6mvdijg' «AA’ SXXo zi flovAofitvi] tua- C.
(piXoyvvaixe? , p. 191. E. qxiXavdpoi, quae de naturali quodam instinctu
dicta esse, etiam e verbis paullo infra positis colligitur: aXXa paXXov
npos raS yvvaixat t et p a ppkv a i el- tflvy quibus verbis
qnXoyvvaixeS nomen manifesto explicatur. Ad nostrum locum ut
revertar, <pzAe- padr/jS idem est, atque ipadn}S tpvdet , quo
nomine supra utitur ARISTOFANE B. itat - depadtovdi xal itpoS
yctpovS xal 7tai8o7ZoitaS ov tc poSexovdt tov vovv cpvdti Igitur ARISTOFANE
mens haec est: Omnino igitur talis puerorum AMATOR est atque naturali
quodam insctinctu, quippe integri VIRI segmentum, ad pueros AMANDOS fertur. xal
aXXoS it ai. Valet, quod hic do solis iis dicit, qui ex integro VIRO
dissecti suut, de ceteris quoque, mulierum et androgynorum segmentis } de
quibus quum nolit copiosius dicere, solis hisce verbis additis ad
hos quoque id pertinere significat, Riickert . tpiXia te xal
olxeiotiftt xal i p coti. Exspectabas ordinem nominum inversum, quoniam
priori loco positus est itat depadrr/i, ad quem Ipcoi nomen referendum
est. Vide annotat. Sed minus veteres in huiusmodi rebus accurati
fuisse videntur. Ceterum olxeiotqS Ad androgynum referri possit, ad
integram feminam cpiXia. Sed dubito, num id recte fint. Tria potius
nomina ARISTOFANE adhibuit amoris, ut esset, quod cum praecedentibus
verbis Sav/iadta ixTcXrjttovtai conciliaretur, atque recuperatae
integritatis gaudio responderet, xal ol SiateXovvr ei — ovtoi
e id iv , oi x.t.X. Pi- cinus verba convertit : jitque hi sunt ,
qui per omnem vitam amare pergunt: neque quid potissimum a se vicissim expetant
, exprimere possunt. In conversione Schleiermacheri exstat: und
die ilir gunzes Leben lang mit einauder verbunden bleiben , diese
sind es, welche auch nicht einmal zu sagen wiissten, was sie von einander
wollen. Non aliter Schulthessius verba convertit» Sed admodum
languent j si quid video, probata hac verborum explicatione ovtol eldiVy
oX verba, Aristophanes hoc potius dicturus erat: Mirum esse in AMORE
hoc, quod AMANTES, cum veliut per totam vitam conioncti esse, i id
em huius voluntatis ne caussam quidem habeant satis gravem, quippe
nescientes, quid alter ab altero sibi fieri velit. Est igitur,
quod fugisse VV. DD. miror, diate- X ovvtei non praesentis, sed
futuri temporis participium. D ztQov y 4>v%r] StjXri idziv, o oi3
Svvarcci tlnuv, aJUa f lavztvtzai o fiovkezai , xa i ulvizztzcu. xca tl
avtoig iv zm avrcj xcetdcxtifuvoie imazag 6 ”H<pui<Stos ,
lyav zd OQyavcc , Iqolzo ' „TL £o&’ o (SovkiQ&E , o
av&gco- moi, vfilv na(i’ dkb'jXwv y« >la&cu; n xal tl
anoqovv- gJ ? a pa rov rov Uvexa. Tovtov
pronomen generis neutrius ad praecedentia verba tg3k d<ppo8i<jlcov
6vvov6iot referendum est. Soiet autem neutrum genus pronominis relativi
et demonstrativi jexhiberi, si praecedit v tota enuntiatio, ad quam
prono- men pertinet, vel si praecedens nomen e pluribus verbis
compo- situm est, velut nostro loco rj tgjv cteppo8i6icov 6wov6ict.
LATINI eodem modo neutro genere pronominis interdum utuntur; saepius
aliquod nomen latissimi significatus pronomini addunt: quae res* Adde
Piat, de rep, I. p. 329. C. it&S, £q>n, <J ^otpoxXeiS ,
fyetS’ itp&S za- (ppodloia — xai oS, JEiv<pTjfi£t y to
avSpvne' dtipavaizazac pivzoi avzo diticpvyov x . r. A., ad quem
locum rectissime Stall- baumius monet, pronomine singularis numeri etiam
contemtum rerum Venerearum exprimi, ut gd£ dpec tovtov Zvaxa
convertendum sit: dass dieser Armseligkeit halber cet. In sequentibus
ovzcoS, latioris significatus verbum accuratiori deliuitioni, uti solet,
prae- mittitur. cfr. p. 192. E. ixal av iv AiSov. Adde Alcib. I. p.
105. c. 4. dzt ocvtov 6e 8el 8vva- 6zevtiv iv zf/ Evpojxy.
Vide anuot. p. 43- Censet Riickertus ad li, 1. ovrooS ix\
payaXijS' <Sxov8fj$ pro l<p’ ovtcj paydXrjS tfxovdi/S positum
esse. Eam me- tathesin verborum Graeci admit- ty
* tuntin verbis xaw, xoXXv, aliis; num in ovzcoS verbo admiserint,
vehementer dubito. o o v dvvazai sixelv x. T. X . Vis amoris
haec est, ut amantes impellat ad aliquid, quod quid sit, ipsi f qui
amaut, prorsus ignorant. Quod autem petvravec 1$ai atque alvizzefBai di-
cuntur, hoc est, diviuare atque caeco quodam animi praesagio
sentire id, quod sibi fieri velint, idem Margarethae verbis notis-
simis in Faustio Goethii pulcherrime expressum est. ixidz as o
"Hpatdz o f, rdopyavax.x.X. Si germina duo salicis aliusve
ar- boris, aut fructus 4uo mali, piri, pruni, filo adhibito ita
colligantur, ut alterius latus cum alterius lateri .firmissime connexum
sit, fieri solet haud raro, ut e duobus germinibus fructibusve
prodeat unum. Haec res, nostris temporibus PUERIS satis nota,
non dubium est, quin et Graecis innotuerit. Ad eandem ARISTOFANE fortasse
allusit. Iam iutel- liges, za opyava verbis cuius generis
instrumenta significantur. Vincula sunt et compages, quibus adhibitis duo
homines ita colligantur, ut germinum frnctuumve instar firmissime connexi
alter ab altero discedere nequeat atque duo in unum concrescant. Minus
apte Riickertus ad h. 1. Semper mihi , inquit, visus est Elato his, qu-ac
de Fui - rag ccvrovg staXiv Zqoito' -J-Aqu ys tovSs Ixi&vpu- xe,
Iv tc 5 avuS ytviG&ca ou (icchti tu txXXyXoig, wgxs xal vvxra xal
rjutQav fii) rxxofainMS&ai alhjkav ; sl yccQ tovtov ixt&vfieiTE ,
tQiXa vaag Ovvrjj^ai. xal E <Svpcpv6ttt, tlg xo avxo, ugxs 6v bvtag
sva ysyovivav, £ cano dicentem facit Aristopha- nem,
Homericam fabulam respicere de Martis ac Veneris amoribus , Odyss . VIII , 266.
seqq. maxime propter Mercurii verba } quibus ille , etiam si ter
tantis vinculis constringi debeat, omnesque deos deasque spectatores
haberi, tamen se Veneris fructum vel hoc pretio emturum fore profitetur
. apa y e xovSs irtiSv- pstx e. *Apa peponi solet,
quando is, qui interrogat, veram esse opi- natur, quam rem
sciscitatur, cfr. Piat. Polit. 1 , 328. A. xal o USeipavToS , Apa
ye, rj 8 oS, ov 8 9 Xdxs , ori XapitaS idxai rtpoS kdnkpav acp 9
Initoov xjj 5c<y; Nescire revera Socratem ceterosquo Adimantus
suspicatur r ij£ Xapzd 8 o? celebrationem, quod abitum parantes
conspiciebat. Adde Piat. Crit. p. 44. E. apa ye pr/ ipov npop-q^et xal
rcbv dXXcoY ijCiX 7 j 8 eia)Y ; ubi sup- plendum est: aliam certe
recu- sationis caussam non reperio* Alcib. II. p. 138. A. apa.
ye xpoS rov Seov 7 tpo<rev£ 6 pevof Tcopevei ; ubi verba
quaedam omissa sunt, ad quae yk parti- cula referenda est :
Coronatum te certe conspicio sacrificantium ri- tu. Nostro loco
Vulcanus cum animadvertisset, SxepoY hxkpqo Xaipeiv B,vv 6 vxa ini
peydXTjS ditov 8 ijS , yk particula usus lianc cogitationem
interrogationi ad- miscet; Videmini certe velle al- ter
alteri se artissime adiungere. ' dvvr rjZat xal dvptpv- dai,
'ZwxrpiEiv verbo Plato supra usus est p. 183* E. o 8h rov rjSovS xPV^
t0 ^ ovroS ipa - dtrjs Sia fiiov pkvei axe povl - pqu dvvxaxeis.
Proprium est do fabri ferrarii arte, qui metalla colliquefacit, ut
ca artissime couiungat. Vide Ruhukenii an— not. ad Tim. L. V. Pl.
p. 139« Pro dvptpvdai codd. non pauci 6vp<pv6ijdai exhibent,
quorum in numero sunt Bodleianus, Vaticani duo, alii. Hinc non mi-
reris, dvptpvdrjdai a Reyndersio atque Riickerto in ordinem verborum
receptum esse, praesertim cum fabri ferrarii opificio verbum apprime
conveniat. Nobis cur unice probetur, quod Bek- kerus et
Slallbauraius dederunt, dvp<pv(ftxi , ex annotatione im- dxaS 6
r 'H(pai6toS f Ix&v ta op- yava verbis subiecta patebit. Sio in
Piat. Epist. VI. p. 323. C. le- gitur: oipott yap 8ixxi xe xal
al8oi xovS itap 9 fjpdoY ivxev- $ev iXSovxaS XoyovS, el pr\ xt r 6
XvSlv pkya xvxoi yev ope- ror, inqoSr/S xjsxivosovv pdXXM dv dvptpv
6ai xal dvP&tf- 6 at TtaXiv elS njv itpotitidp^ Xovdav
tpiXotrjxd xe xal xot- YGQviaY. Ad nostrum locum Aristoteles videtur
respicere De rep* II, 4.; xaSanep iv toiS ipoo- rixoiS Idpev
XkyoYta roV *Api- dxoqxivrjv, ooStuv ipwvxGOv 8id 12 xal eco$
t av ZijtSy wg evoe ovtet, xoivtj dfitpmsQovg £rjv, xal httidav
dno^avrjtB , IxeZ av iv "Aiiov dvtl dvslv tvet tlvai XOtvfj
TE&VEWTE. cUA’ OQatE, M TOV - tov eqccze xal e^ccqxel vpiv , av
rovtov TvyrpiE ravta dxcvOag ttifiEv, on ovd’ av tlg i&Qvq&Eit],
ovd’ &XXo ,tt 1 6 (SepuSpee (piXtiv i7Ci$vpx>vr- rcor
6vptpvvai xal yeveOBat ix 5t;o ovtg>v dpcpoxepovS ira, cjS
ira arra. Valgo pro ovxa igitur brraS , qoae lectio non nisi tribas
Belkeri libris confirmatur. Non dubium est, quin brraS in textum
irrepserit scribarum errore, quj, qum paullo supra legerint
&Sxe 8v * ortas, etiam hoc loco pluralem numerum admiseruut. Quamquam
au- tem non falsum est c bs ira ur- raCy tamen ipsa oppositionis
ra- tio , quae inter o oSxe 8v uvxaS ct cdS ira orta manifesta
re- peritur, singularem numerum exi- gere videtur. ixei
av iv Aidov — era elrai. De verbis ixei — iv Aidov supra dictum est
p. 43* " Era elrai e praecedente <3ffre particula pendet,
quae non opus est, ut hoc loco repetatur. Quae- ritur autem, qui
possit "HcpcatiToS ix&v X( * opyara corpora aman- tium ita
coninngerc atque colli- gare, ut et in Orco manes cod- iuncti
maneant. Explicanda haec res est e veterum de animorum post mortem
conditione* Man^s enim quasi umbrae erant ad si- militudinem
hominum mortuorum accuratissime conformatae, qua- propter apud
Homerum haud raro fipoTOJV efScoXa vocantur, cfr. Odyss. 11. 475. Adde
II. 23. 65. yXSe 8' in\ ipvxp TlaxpoxXrjoS
SeiXoio itarx* avxcj, piyeSbs te xal bpuara xaX* elxvta
-v xal tpannjr , xal xola nepi xpot ei pax a e6xo. Ex
veterum igitur opinione qui in vita breviorem alterum pe- dem
liubebat, etiam in Orco so- lebat claudicare, monocolos non nisi
unius oculi lumine gaudere. Sequitur inde, qui in vita ita
colligati fuerint u Vulcano, ut in unum corpus concreverint, eosdem etiam
in Orco coniunctissi- mos esse. — Pro arxl Svoir / quae lectio
vulgata est , arxl Sveir edidimus cum Bekkero et StallFaumio,
Bodleiani codicis auctoritatem secuti. Jvoir prae- ter Riickertum etiam
Matth. ve- rum habet in Gramm, f. 138. p. 262. Annotat tamen ille
ad nostrum locum: minime , inquit, dubium nobis est , quin a Platone
usurpata fuerit haec forma ( 'Sveir ) , cuius sat multa vestigia in codd .
reliqua . el tovtov i pax e. Ilaec brevius dicta sunt;
expletior oratio audiret: orAA* opaxe, et tov - to idxir , ov ipdte ..
Sequentibus verbis tavxa axovCaS Io per dxi ovS * av eis x. r. X.
apodo- sis efficitur ad verba p. 192. E. init, xal ei ecvToiS ir
tqH av - toj xaxaxeipiroiS exi6tds x. r. A. Annotant autem
interpretes, Aristophanem avTolS pronominis in protasi positi non
amplius memorem , simularem numerum ia uv cpavett) povXiftsvos, &XX’
axt%vag olo it’ ccv axtjxo Lvtxi tovto, S icaXai ccqu 6vvtX\nltv xal
Ovvzaxtl $ zu iQMjjLtVtp IX dvELV EIS yEVtO&al. Tovro yaQ
ttfr i zo alziov, ozi r] &Q%aia cpvOi g f/iuov i]v Kvzrj xal yixtv
oXou tov oXov ovv ztj lici- apodosi posuisse, atque eum pro-
ximo ov8 av efc accommodasse. - ov8* av eIs. Ov8h sis ita differt
ab av8ets, ut hoc nul- lum significet, illud, quoniam interposita
av vocula vis nega- tionis augetor incredibiliter, ne- minem
denotet ne uno qui- dem excepto. Unum exemplum huius usus ut laudem,
Piat. Hiaed. p. 100. C. cpaivExai ydp pot, eX tL Itiriv aXXo xaXov
nXrjv aveo x 6 xaXov, ov8e 8* ev dXXo xaXov elvai rj 8 l6xi
JdETEXtl ZxeLvOV TOV TioXoV. l J iura exempla Stallbanmius congessit in
aonot. ad Piat, de rep. I. p. 353. D. «AA* 'Atexv&S
verbum apud Platonem saepissime reperitur, ibique vario modo
ex- plicandum est. Primaria verbi significatio est, ut etymologia
do- cet, anXadrcji?, aSoXcoS , a qua reliquae verbi significationes
fa- cili negotio derivantnr. Nara quae sine artificio dicuntur
aguuturve , ea clare a per te que, certissime, ad<paXco£ 9
lucidissime, tpavspmS , simplicissime, anXcoS j sum -n matim, naScinat,
pronuntiantur. Nosftro loco possis etiam de tempore voculam dictam
intelligere, ut conversio audiat verborum : und ieder wird so-
gleich, oh ne Weiteres das gehort zu habeu vermeinen, woruach cben
er lange schon streb- te. Scboliasta ad Eutyphronem habet
apud Bekkerum, Comment, critt. in Platonem T: II p. 325. atEx y
d>S‘ xavreXcoS' ? axXcoj tj xaStarraZ, IfavpCDS, rj teXIgdS. ol
81 iv l6(p xgj ovxi, xal aXrj- $eiqc* ol 81 SrfXovv xo itapa - xav
xal xaSoXov , xax * aXtj - Ssiav. oloi x* av axi} xokv cti
+ Ad ofozr’ av ex praecedento ovdfc eU intellige Zxa6xoS. De
rep, II. p. 366. D. xojv ye «A- Xcov ov8e\s Ixcov 8ixcnoS, aAA* rxo
avavSpiaS — ifriyet xo aSixEiv, aSwaxcov avxo 8pdv. Horatii Serm.
I. 1, 1, Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem Seu
ratio dederit, seu fors obiecerit, illa Contentus vivat, laudet
di- versa sequentes h. e. sed quisque laudet cet. Stallb .
Comparari potest cum hoc dicendi genere ea verborum structura, qua
haud raro e praecedente verbo negativo affirma- tivum repetendum est; eam
in- dicatam reperies iu Indicibus, Ceterum Riickertus censet
non ZxatixoS sed 6 dxovoaS sub- intelligendum esse.
tovto yap xo alxiov. FICINUS verba convertit: Huius caussa est, quia
prisca hominum natura haec erat inte- grique eramus. Eodem
modo Sclileiermacherus : Hie v o n ist sun dies die Ursache.
Neque 12 * 193 dvfita xal tficog u "Eqos ovofia. xal xqo tov,
SgJtCQ liya, tv tjfLiv • wvi Swc rrjv adixltxv diaxtofhjfuv ixb tov
&eov, xa&aTtcQ 'AqxccSe $ vito AaxEdcafiovUov. defuerunt , qui
tovtov pro rot>- to in verborum ordinem infer- rent. Si pro yap
legeretur Si particula, ut in Piat. Apol. Socr. p. 31. C„ ipsi
tovtov scribendum censeremus: yap part. genitivam pronominis non admit-
tit. Referenda autem canssalis particula est ad praecedens idjuv:
Scimus ne unum quidem eorum, qui haec audirent, ea recusaturos esse
in caussa enim h/ic est, quod natura nostra primitus talis
erat integrique eramus. Epeo S ovopa. Erotis nomen maiore cum vi hoc
loco pronuntiandum est; igitur, quo validius emineat, articulo
caret. Exempla si quaeris nominum sine articulo positorum, vide
annotat, p. 129. Fortasse etiam eadem de caussa in Piat. Gorg. p.
448. E. lectio vulgata vera est, quam codd. lectioni posthabuerant
in- terpretes. ov yap azExpivd- prjv , ori sXrj xaXXidrij.
Codd* plerique articulum exhibent 7} xaXkidTT}. Ceterum hoc loco
interrogandi signum in punctum mutandum censemus, quod iro- nicae
dictioni convenit apprime. Polus enim hoc dicit; Videli- cet non
respondebam eam xa\ XidTJjv esse. Quae sequuntur verba , xal Ttpo
tov ev qptv, meram repetitionem sen- tiae supra probatae continent,
ut uemo ea desideraret, si abessent. Hanc repetitionem
perspicuitatis caussa admisSam ne quis aegrius ferat , <2faep Xiyco
verba addita sunt, de quibus diximus in annot. p. 133. ad
verba 7/ re ovv laTpiHt), doSiup Xiyco, icada x. T. X. ' xa$
ait s p 'Apxa&eS vxo AaitsSa ipor Igov , Ad quam rem
Aristophanes Arcadum Lacedaemonumque laudato exemplo alluserit, notum est atque
ab in- terpretibus satis indicatum. Lau- dant Xenoph. Hell. V. 2.
7. ix 81 tovtov xa^xfpV^V J&v to teixoS , SiajxldSrf 8 "k
7} MavTi- veu TEtpaxv • Aristid, Orat. T. II. p. 287. ed. Iebb.
SiaoxidSTj- dav Si ye MamvEiS vno Aa- XESaipovicov rjSrj rijs
eipt/vjjS opoopodpivrjS, Alios Riickertus laudat ad h, 1. Adde
Wachs- muths HeUeniscbe Alterthnms- kunde I, 2. p. 420. : Vor
alleu war Mantinea eiutrachtig und kriiftig. Aber auch gegen
diese Stadt machte Sparta mit em- poreuder Ge wa 1 1 die
Sat/ung des Friedens geltend; sie wurde Olymp. 98. 3 , 386 v. Chr ,
in Ortschaften aufgelbst, aus denen sie vor etwa einem
Iahrhundert entstanden war. Constat autem, eo tempore, quo Mantinea
a Lacedaemoniis eversa est, plcrosque convivas symposii, quod et
ipsam celebratum est Olymp. XCVIII* 4. h. e. 386. a Chrt n. ,
iam fuisse morfruos, Anachronismum igitur h. 1. Platonem admisisse
interpretes annotant simulque Symposium post Olymp. XCVIII. 4.
conscriptum docent. Comparationem ipsam quod attinet, frustra tertium,
quod vo- tpojlo s ovv Iotlv, lav ftij xoOfiioi tj/isr xgdg rovg deoiig,
vTCag (irj xai av&ig xca xe- ql ifiev £’z°vzes wsxeq ot Iv tulg
etijla tg xctta yQcccprjV ca»t, comparationis quaesivi. Vel-
lem annotasset aliquis interpre- tum , quo iure hominum dissectionem cum
Mantineae eversione comparatam putet. Non dubitarem equidem, xc&aitep
ApxdSef vno AaxtSoupovicav insiticia putare, nisi praecederet
dtooxi - < iSijfisv verbum, quod aperte ad haec verba comparatum
est. Praetervidit hoc Cornarias, qui di£- 6xi6^Tffi£V scribendum
coniecit. Sed nec hoc nos prohibet , quominus certe depravationis
aliquid verbis, inesse censeamus; vide Excors., ubi fusius de hoc
loco disputabimus. <poftoS ovv $6xiv, Vulgo ivetixiv
legitur, quod ne Graecum qoidem censuerim in huiusmodi enuntiatione.
Sequentibus verbis xo6f.no ? icpoS xovS SeovS ad primaevum hominum
genus respicitur, quod iu ipsos deos impetum fecit. Ex quo genere quoniam
, qui nunc vivunt, homines orti sunt, cavendum est, ne forte natura
ad impietatem ducente illis similes sint, eandemque, quam illi, corporis
dissectionem experiantur» GjSnep ol iv rctiS 6x?j- XcCtS —
IxXEtVTtGDflk V O l. Annotat Stallbaumius ad h. 1. : Locus videtur
hoc modo expli- candus esse. Veteres -artifices vasa, signa, alia,
ita caelabant, ut ea ostenderent figuras extra prominentes,
interdum totas, in- terdum dimidiatas. Et hae qui- dem vocabantur
itpoSxvica, illae vero nepupavij et ixtpavij. v. Salinas, ad
Solin. p. 736. Quum igitur ixxvjc ovv omnino sit caelare adeoque de
figuris utriusque generis dici soleat, perspi- cuitatis caussa additur
xaxii ypa- cpjjv , picturae s. tabulae pictae modo, quo
additamen- to efficitur, ut cogitandum sit necessario de
xpoSxvicoiSs. crustis.Hanc verborum xaxu ypaqnjv explicationem
fateor mihi noli placere, neque omnino video , quomodo clariua fiat
illis verbis additis , de c rastis sermouem esse. Schleiermacherus verba xaxd
ypcupffV plane non expressit: Dass wir nicht noch cinmal zer-
spaltet werden und so herurngehen miissen, wio die auf den
Grabsteineu ausgeschnittenen,die m i t ten durch die Nase ge-
spalten sind. Atque fortasse interpres doctissimus de figuris
cogitavit ab impia incultae ple- beculae manu violatis. Quis enim
alias unquam de dissectis figurarum naribus in veterum monumentis quicquam
audivit ? # Al- tera explicatio est, qua dicuntur homines in
monumentis non a facie tota, sed a parte faciei al- tera efiormati
esse atque ideo dissecti vocari. Si hoc modo rem animo suo
informarunt VV» DD. : potuisse cuiquam huiusmodi artificia intuenti
dissectionis cogitationem in mentem venire, constanter negamus. Quid enim?
Rem quamque ut in operibus caelatis, picturis, aliis, ita in rerum natura
ex altera tan- Ixrervmofilvoi, SunXE7CQi6fiivoi xuru rus &vag,
yeyo- votss SsitEQ Xlanui. akku rovrav svtxa nuirc’ uvSgu
tummodo parto conspicimus, totam uno obtutu non comprehendimus. Nara cuiquam in
mentem venit de dimidiatis vel monte, vel domo, vel alia quavis re
cogitare? Ut in rerum natura al- teram tantummodo rei cuiusvis
partem conspicimus, alteram supplemus meute , ita etiam in artis operibus ex
altera parte ef- fictis , quae uon videmus , mente supplere
solemus. Alia verborum explicatione opus est, atque, si quid video,
litterulae unios mutatione. Vulgo legitur xccxa- ypciupijv , quod
primus Ruhnke- nius vidit in annot. ad Timaei L. V. Pl. p. 175. in
xaxa ypa.~ (pyjv mutandum esse. Ortum nobis illud est ex
xocxctjfyatpiiv, scri- psit autem Plato xccxa fiatprjv . Haec
scriptara quam bene conveniat Aristophanis sententiae, iam vide. 2x7/\7j
est Suida teste lapis in altum erectas, figura quadrata, idemque
figuris haud raro exornatns. K Pa(pr\ compages est laterum duorum ,
angulum efficientium. Iam patere opinor, figuras in statuis quadratis
xaxa fitCL<pvv IxxEXvnwpiva^ non aliter intelligi posse, quam in
ipsa duorum luterum compa- gine positae. Eo loco dissectione
figurae opus erat, ut altera eius pars iu altero, altera in altero
latere poneretur. Uckermanni, viri humanissimi industria fa- ctum
est, ut quadri effigies tabulae lapideae incisa apponi posset, qua clarius
redderetur lectoribus, quid Aristophaues verbis xaxa jbcupijv adhibiti*
intelligi voluerit. XQrj taucvtu xagaxtievsa&ai tvatfitlv xegi
btovg, iva B rct itiv ixqwyea(iev, rmv di rt faca/uv, tov 6 "Eqcos
qfiiv Habes duornm virorum segmenta duo, quorum alterae partes non
conspiciuntur quippe positae in statuae lateribus, quae cum hoc
latere cohaerent, sed ab hac parte statuae non comparent* Vide
autem, quam bene haec segmenta conveniant cum verbis supra lectis
p. 190. D. idv 6 * Mxi 8 o?tGo(5 iv doEXyctivtiv — ndXtv av x ejxai
dixct , gqSx' i<p hvoS no pevtiovr at 6xi\o vS ddKGoXidZovT
eS. Adde dissectarum narium narrationem, quam optime repraesentatam habes
jiorum segmentorum effigie; Ne autem de veritate figurarum xaxa fiatpi/v
effictarum dubites, ipsi veterum monumenta sepulcralia vidimus, in
quibus huiusmodi dissectiones admissae erant. Eas admisisse
videntur artifices ea de caussa, ut fabulae, quam figuris describerent,
continuitatem, continuo figurarum ordine certius assequerentur. Quod autem
artifices plastici sibi licere arbitrati sunt, figuras ut
dissecarent, idem haud raro poetae in versuum finibus imitati sunt»
Nullus enim dubito, quin verba , quae et ipsa sunt figurae
artificiosae et quasi imagines rerum, in versuum finibus recte dissecari possint.
8ianen pi6 fiivot xaxd tds fitvetS. Ne qnem offen- dat hoc loco
8iaKE7Epi6fxivot verbum, depromptum est e comparatione sequente dfertep A
Idnai, Tali enim serra dissecari solebant. Prorsus eodem modo p.
193. A. de hominum dissectione dicitur dtuJxltfStfftfv , quo'
loco CSrjfLEY Cornarium frustra coniccisse supra monuimus.
Aitiltott autem vocem Schol. ad b. 1. explicat : al A eiat xai
bctsxpt/i- - pivai xai dnvyot A lar, xai ol diaizEnpuSfdvoi
d6xpdyaXoi . ol te *A5i/vaioi Xitinoi xaXovrrat Teo £JC Ttjs iv TGJ
XGOXTjXctTElY - dwEXovS iepidpaS avzovS aito - yXovxovS elvat,
Stallbaumios ad li, 1. oi 8ian£npi6fUvot, in- quit, aCxpdyaXoi quid
sibi velit, inlelligitur e Scholiis Euripideis ad Medeam v, 610.: ol t
imB,EYOVfiEYoi xi6tv , adxpaya- A ov xaxocxipvovxES , SaxepoY jur
ocvroi xocxeixov pipoS, $a- TEpor 8h TCaXtXipTtOCVOY TOlS
vno&E%apkvoiZ, Iva , si 8ioi na- Xiv avrovS jj T ovS IxeIyqoy
.irtiZtruvuSai npds dXXtf\ovj> 9 inayofuvoi to fjju6v adxpaya- X
tov, dvaviolvxo Ttjv Zeviav. EvflovXoS &ov$oir x i not idxiv
azavxa 8iartEitpi<Sptva 7}pi6EQoS , dypifio jS nep ete xa
CvpfioXa. ovxooS 'EXX d8ioS. Non dubium quidem est, quin Aristophanes ad
hospitalitatis tes- seras respexerit, quae A i(5nai vocabautur, verum, ni
fallor, ea- dem tessera etiam modus disse- ctionis indicatur. Tali
enim non in medio dissecari solere con- sentaneum est, sed ab imo
an- gulo - ad alteram versus. [ cjy o"EpcoS 7 } fity
ifye- ft oo y , Vulgo legitur oaS pro tiov, quod in ordiuem
verborum recipiendum esse primus vidit H. Stephanus. Eum secuti
sunt Bekherus, Stallbaumius, alii. Riik- kertus ooS reposuit motus
codicum auctoritate, qnortun exiguus numerus oov exhibeat. Sed no-
ijyEfiwv vml aTQttvriyos- « ftijfielg Ivuvrta jtQcmtra' jtQccttu 6 ’
Ivavtia, ogTis &tolg rpUtu yaQ yEvofiivoi xcu SiaXXayivtEs zcy
&tta igtVQyGo^iEV ' «• lait dicere Aristophanes,
facien- dum esse, ut eo modo, quem Eros indigitet, pristinae
integri- tatis participes fieri studeamus ; (alio enim modo eam
nemo assequi potest); sed ut eorum compotes fieri studeamus, ad quae Eros
ducat. Necessario autem b)V ponendum est etiam ideo, quod x&v
8i t cum ra pkv satis explicetur praecedentibus, non eatis
explicatum est atque defi- nitum. Ceterum TjyEjuoov xal GxpaxyyoS
abundanter dictum est ornatus gratia, quod moneo, ne quis forte
maiorem ipsis vim tribuat, quam qua Aristophanes eadem exhibere
Voluit, /iTjSelf ivCLVtlct ItpCLX* texo). Haec verba prorsus
ea- dem gravitate dicta sunt atque verba p, 189. D,; iyoa ovv
Ttti- padouai vffiv ElSyyydocdSai xyv dvvapiv avxov y vjaeiS
8h - x eo v a A Xayv 6 1 5 d d xaXo i %ded$£. Vide anuot. p,
153. iZevpy dopkv xe xa\ Ivxev&,6jme% a, Latinis non
licet diversae etrnetarae verba ita coniungere, ut sequentis nomi-
nis terminatio tantummodo accommodetur ad unius verbi naturam. Neque
Graece licet, accurate si rem spectas, huiusmodi structuras verborum
adhibere. Nam nostro loco re xad particularum ea vis est atque
potestas, ut prio- ris verbi finiti pondus imminuant, posterioris
adaugeant, quasi si dixisset Aristophanes IB,ev- p y d oyxeS
ivx£vB,6 p.£% a.. Haud raro etiam nominibus, quae a verbis diversae
structurae derivantur, conjungendis, re xa\ particulae solent apponi, v,
c. p. 147. E. icapadxaxyS xe xal doozyp' In nominibus quidem
harum particularum non constans usus , ac facile quidem iisdem, ubi
non comparent, caremus, nul- lum autem apud veteres scripto- res
locum repereris, ubi verba diversae structurae adiuuctoque aliquo
nomine per simplex noci coniuncta sint. XolS y jaex e p oiS
avz&Yt Ingeniosa quidem est, sed mi- nime probauda Bastii
coniectura : xoiS yfiitojioiS avz65r . Exem- pla non rara sunt,
quae avxoS pronomen cum possessivo pronomine coniunctum exhibeant.
Idem usus iam apud Homerum obvaluit, v. c. Odyss.1. v. 7.
avxoov yap dq>£xkpydiv axa- CSaXiydiY oAovro* Alia exempla
Motth. congessit in Gramm. plen. §, 466. Verba no- stra convertenda
sunt: unsern eigensten Lieblingen. o XG)V vvy oXiyoi noi
- OvdiY h. e. quod eorum, qui nunc vivunt, faciunt pauci.
IToieiy interdum, ut Latinorum facere , non actionem describit, sed
vitae conditionem, quare recte Schleiermacherus verba convertit : Was
ietzt nur w c - nigen begegnet. Invaluit hic 7COIEIV verbi
usus ideo, quod vitae conditio talis plerumque esse solet , quales
fuerunt actio- nes praecedentes. ib xal ivttv£6(iB&a rolg
xca8t,xo Tg toig ^fwtlpotg av- rav, S rav vvv 6Uyoi noiovoi, xt£ (ir/
(ioi vno- i.d(ig ’Eqv^ax og xoficoScov tov koyov, cog IlavGavluv
xal jirj pol vitoXa ftp . Haec est Bodleiani aliorumque
nonnullorum lectio, quam receperunt Bekkerus Slallbuumius, alii. Vulgo
legitur xal Jiu} / iov vito - \ctfiy, quod unice probans Riik-
kertus : Reposuerunt , inquit, dativum casum recentiores editores omnes , Cuius
rei necessita- tem ego nullam me confiteor videre . Est enim
hyperbaton pov ad roV Xoyov referendum , sicut haud raro Graeci
prono- minis casum obliquum in prin- cipio ponunt sententiae ita t
ut 9 regens vocabulum in fine demum sequatur. Speciosa hac
annotatione cave seduci te patiaris. Non negamus quidem, pronomina
alius- que generis verba interpositis quibusdam voculis ab iis verbis
saepissime seiungi, ad quae proprie pertineant, tenendum autem est,
huiustnodi verborum disiunctio- nem non admitti a scriptoribus,
nisi ita, ut vi quadam augeatur vel prbnomen vel aliud quivis
verbum a verbis suis disiunctum. Igitur nostro loco si scribitur 7
ta\ prj fiov vnoXafty 9 EpvB,i- jtaxoS xcopipScov tov Xoy ov , sententia
existit naec ; Ac ne meam suspicetur Eryximachus orationem ridens,
me Pausaniam et Agathonern tangere ; sed hoc neque potuit neque
voluit Aristophanes dicere. .Unice verus dativus casus est, quem
ethicum grammatici vocant; explicatur is commodissime hac I
Ne mihi accidat 1 ximaclius orationem meam ridens suspicetur,
me Pausanian! atqae conversione^ )c, s ut Ery-
Agathonem hic tangere. Exem- pla dativi ethici Matth. congessit
Gramm. pleu. $. 389. p. 713. XG>p.u)Sd)V tov Xoyov. Stull-
baumius ad Piat. Apol, Socr. p. 31. D.: oxi pot Selov r i xal
Saupdvtov yiyvtrctif o hi) xal iv ry ypoupy iitixcopcodcov Mf-
\?}ToS dypaxfwtTO , Fischeri an- notationem laudat hanc, ed. p.
61»: ln:iHU>pcjdu.v est ridere, notare, nt HopooSeiv et 6ia-
xcoftcaSelv idem valent, quod dux- ' dvp&0r, dUCOTtTElY , X^ £v<
x% aiy » v. Poll> IX. 148. Caussa est, quia in comoedia vetere
vitia hominum describebantur et ho- mines quasi notabantur. Quid
igitur de Aristophanico Socrate iudicabis in Nubibus? Num ibi vitia
hominis sanctissimi notan- tur? Non credo, neque milii sa- tisfacit
Fischeriana xcopooSetY verbi explicatio. KopcpdEtv non eius solum
est, qui vitia notat, sed etiam, qui res serias in ridiculam partem '
interpretatur. Quo consilio ct modo id Aristophanes in Nubibus fecerit,
alio loco explicabimus. Nostro autem loco, quoniam Eryximachus
medicus censorem se fore minitatus erat orationis p. 189. B. ,
Aristophanes vereri se simulat, ne forte ea , quae hucusque dicta
essent, in ridiculam partem in- terpretaretur atque in Pausaniam
Agatlionemque orationem directam explicaret. Ida $ plv yap —
apjtB- veS. Quod fortasse dicantor bonoram illorum b* e. pri- y.ctl
Ayafrava llya ' Xaog ' [ikv , yctg xal ovzot rovzav Cxvy%uvov6cv ovzeg
xal tlalv dficpuzEgoi rrjv cpvSiv ct$- $ivtq , Ityu 8e ovv iycoyE
xe.&' citavrav xal dvSgiov xal yvvaixav, uzi ovzag civ fjtiwv zo
yevog tvdcdfiov yivoizo, ii ixztltGaitxiv zov Igaza xal zcov naiScxav
zcov auzov exaOzog xv%oi elg zrjv ag%aiav dxEi&ov cpvGiv. ii 81
iovzo agiGxov, avctyxa tov xal zcov vvv nagovzav zo rovzov lyyvzdzco
dgiGzov ilvai. zovzo 8 ’ iGzl mu8i- xcov zvyeiv xazci vovv avza
xscpvxoxcov. ov 8t) tov ac- U zcov &eov vfivovvzig Scxaiag dv
vfivoifisv "Egcoza , og ev te tcp xagdvzt y[idg xteiGza ovlvyGcv elg
zo oIxelov stinae felicitatis integritatisque participes cssc, id
satis spinosum Fortasse alterius figura altero procerior erat, ut ne
cogitari quidem potuisset, alterum alte- rius partem esse. De
altera parte huius enuntiati xai eldiv d/upu- TSfJOL Ti)v cpvfSiv
afifieveS vario modo interpretes iudicarnnt. Ba- stius pro dppeve G
scribendum coniecit dfjpevoG , Orellius ad Isocr, p, 330. loco
mederi cen» suit scriptura afifitvoS kvo G, Stalihaumius ad h. 1.
appevtG idem esse censet atque dfifievoS bvuS. Videtur appeveG
cum emphasi positum esse, ut supra p. 192, A. dvdpeG nomen,
Moi- titiein autem utriusque poetae notat .Aristophanes, atque
ad porum nomina respicit, ut, cum Fausaniam et Agathoncm summorum
bonorum compotes atque revera viriles dicat, 3 laixSapivovG rcov
dyaSav in- telligi velit, h. e. homines parum virilitate gaudentes,
sed elumbes, «nominatos, enervatos. Probatur haec nostra verborum
explicatio verbis sequeutibus : ei txrekidai- /tev tov £ parta.
Tetigimus hunc locum in Gemment, de Sympos. Platonis. rcov vvv
7t apo vrcov. Td vvv napovra sunt, quae in prae- senti nostra
conditione fieri pos- sunt, nostraque sunt in potestate. Quum enim illud
assequi non possimus, ut plaue coalescat na- tura nostra, cum
altera nostri parte, sicut omnino in rebus Jiumauis, ita bac quoque iu re
optimum illud est habendum, quod ad idealcm illum, in quo olim
fuimus, statum quam proxime ac- cedat. Riiclcer.t* naxa vovv
avt gj. Iu per- multis codicibus pro avrcp legi- tur avtGJf quae
lectio ab iis re- perta est, qui frustra quaererent, ad quod
avr<o referrent. Sub- tectum cum alias haud raro oroit-- titur,
tum boc loco omissum fa- cillime feras, quod praecedit : xal rcov
7caidixoov r gov avrov 2xa6r oG rvx°i A. Cete- rum xara vovv avrco
it. appri- me respondet nostratium; seiuem Gesclimack entsprechend,
9 eli ro olxeiov &yoov . Do thyeiv verbi usu absoluto
su- ctymv, xal ilg *<> bttvta etotftag /icylazag ituQtytxai,
Tjuiov nttQixofdvcov XQog 8tov g tvtskfiticcv , xazccdzi/aag ffflag tlg
zt/v doyalav q>vGt,v xal luadfievo g f taxuQwvg xai evSalfiovag
xoiijeau Cap. XVII. Ovtog, ?yt/, ta ’Egvl!na%E, 6 iftog Xbyog
i<su xbqi Effatos , tMolog »; o Oog, xaficpdr/dyg avzbv ,
Tva xal exaozog (qu, (uxkXov 5e r l ZaxQa rtjg XolxoI.
pra diximus annot. p. 22. Quid significet x 6 obedor , frustra
io Ficiui conversione quaeras: dum in suum igniculum quemque
conducit. Recte Schleiermacheras verba convertit: indem er uns zu
dem verwandten hinfuhrt. Ne qais autem scribendum censeat eis Xov
olxtiov, quo significen- tur 7tai8ixd xara rovv izetpv- : xota : AMANTgenus
neutrum seri- 1 ptores adhibere in sententiis» quae in universam
proferantur. l\7ti8aS jieyltiraS Ttap- iXBtai — xax a6xr\ daS
— rtoiij 6 ctl. Participium xaxa - 0xr^6aS post iXxiSaS p.
7tapi- Xtxai ponitor, quia/AjrfdaS’ izap- &X& eiusdem fere
significatus est atque dtixvvpi , SrjXoGD , quae verba participium
adsciscunt. Vide de hac verborum structura Mattii. Gramm. plen.
549* 6. p. 1077. De 7C0iij<Scti aori- sti infinitivo vide
Heindorfium nd Piat. Phaed. p. 48. , Stall- baumium ad Piat.
Phileb. p. 204« Ceterum eodem verbo Aristopha- nes usus est in
couditionali enun- tiato xapexexcu , ypcov «rap- wgjciQ ovv
ISeifotjv Gov, /ii/ zav Xoixaiv dxov6<o/uv zl lxdzsQ 0 $ •
’Aya%av yccQ xal E exo/tivar nt efficacior ev«- derct via
conditionis. ovtoS , ttprj, c v ’Epv£i- M a X e i d d/jo s
XdyoSx. r.X. Respicit Aristophanes ad verba p. 189. C. xal fti/r,
<« ’Epv£l- fiaxe — &XXr) y£ it; £r va> Xiysiv i) y 6v te
xal Tlav- OaviaS ilntnjv. — OvtoS hic SsixttxiuS positam est. at
verba convertenda sint: Ecce talis est oratio mea. cfr.
Mattii. Gramm. plen, p. 471. 12. p. 875. 'O ifioi autem cnra vi
pro- nuntiandam est. significat enim : oratio, quam habere
de- bni. firj xa> fiu>8r/<Sij S uvtdv. vide
annotat, p. 185- "ClSxep — £8e7/$z/v uov verba spectant ad p,
. 189. B. aXXa fu/ fis tpvXazts, tds iycv ipofjoviiai iccpl
xoov. fieXXdvtwv fyi/ST/iSsd^ai x. t. X, et p. 19S. B. xai ftij
fioi vito- Xcifl’,1 ’Epv£ifiaxoS xcofttaStiv roV Xoyov, tvS
llaviaviav xal 'jiyaScova Xsyu. De verborum fidXXov 8s significatu
vide an- uot. p. 15. Alia neldoftal 601, l'<pij tpavai rov
’Eqv%1(iccxov' nui j mq uoi 6 loyo s Jjdl ag 9 '?#'?• xal el fir)
gwjj- Seiv Zmjxqutu te xal Aya&ave Seivoig ovdi negl ta
egcotixa, na w av icpoftovfiijv , [i/tj anogydadi loyav Sia xa\
yap poi 6 \6yoS yj 8 i gdC i fi fi7j,$7j. Spectant haec verba ad p.
189. C. idcoS p&vTOt dv 8oB>xf yoi, a<p?}da> de. Eryximachus
igitur vel ipsa Aristo- phanis oratione pacatus vel motus verbis
Iva xal tgov Xoindov thiOvdoDjxEv , nolle se iam pro- mittit
iuiuriam sibi illatam p. 189. C. ulscisci. ’Efifij/$?j scri- pturam
quod attinet, vulgo ififii- $7} legitur, quam formam Butt- roannns
in Gramm. plen. p, 121. iis scriptoribus tribuendam cen- set, qui
non sint attici. Anno- tat enim: Aus den Werken alte- rer
Sr.hriftsteller ist diese Form durch die Autoritiit der Hand-
schrifteu ietzt vielfaltig entfernt. vide Lob. ad Phryn. p. 447.
Bekk, ad Aesch. 2. 34, 124. ISicht selten steht sie aber auch grade
in den bessern Ilaud- schriften. ei pn} %vvy 8 etv Sei
- voiS ovdiv . Rariore usu dvv- eLSevai rivi ri ponitur hic
pro uliquid de aliquo scire» Isocr. Archidam. p. 229. dvvei-
Sozef *A$rjvaioiS IxXiicovdi rrjv %cdpav vitkp x t}$ ru )v uXX.gov
— i\ev$epiaS. Id. Arcopagit. p. 257* dvvoiSa re r otS
xXeltixoiS avrvv ?padra x a ^P ox) 8iv. Piat. Phaedon, p. 92. D.
lyuid^roiS — Xoyoifv B,vvoi8a ovdiv a\a?,d- Civ. Stallb. Alia huius
stru-* cturae exempla Matth. laudat in Gramm. plen. 548. 2. p.
1075., quibus adde, quem Riickertus lo- cum laudat Piat. Protag, p.
$48. B. aXX* rftoi SiaAeyedSco rj ehcerao, ori ovx iStlei 8
1 aXi- yedSai , iva r ovraj ptv rocvta dvveiSdopev, prj
a.7t o p ?/ d co 6 1 . Coniun- ctivi modi post praeteritum po- siti
exemplum habes p. 174. A. fio. ravra 8rj ixaXXGoniddfxyv, fva —
i'co , ad quae verba vide unnot. p. 16. Nostro loco ar- tificio
quodam dicendi et non timere se significat Eryximachus, ne non
habeant, quippe maxime erotici, Socrates et Agatho, quod dicant ,
et rursus timere propter ingentem praecedentium senten- tiarum a
convivis prolatarum co- piam , ne oratione sua uterque et
philosophus et poeta indigeat, Possis haec verba etiam hoc mo- do
interpretari: nitvv av £<po~ fiovprjv (aXX* ov cpofiovpai vv- vl
f pi) dicoprfOGo6i, ut magis ad sententiae efficaciam dicatur scri-
ptor orationem direxisse, quam ad verborum grammaticam con-
formationem. Eam explicationem verba, quae insequuntur, probare
videntur vvv 8 ’ op&S Safipai, Sed non dubito equidem , quin
liaec verba etiam cum priori stru- turae explicatione conciliari
pos- sint. naXcdS yap avroS yy co- ndar,
Schleiermacherus verba convertit : l)u hast eben deine Sache gut
bestanden. Schult- liessius: da hast deine Rolle gliick licii
nusgespielt. Ruk- kertus jtaXaS riihmlich con- vertendum censet.
Ficiuus in zo itoU.cc xal jtavtodana dQijo&ai' vvv df ofiag ^aggco.
Tov ovv ZaxQurr] tlxuv, Kalag yccQ avtbs TjycovL- Octt , a ’EQvi-![itt%s.
d 6s ytvoio ov vvv lyco dui, fial- lov ds lOtog ov t do ficu, hcudav xal
'Aya&av drtij, iv conversione exhibet: strenne et ipse
certasti. Aliud quid So- crates xa\ds verbo adhibi- to videtur
exprimere voluisse, quod quid sit, e praecedentibus et
insequentibus facillime colli- gitur. In praecedentibus enim
Eryximachus vereri se dixerat summopere, ne non habeant Socrates et
Agatho, quod pro- ferant, quoniam a plerisque iam multis modis de
Erote dictum esset, non vereri se dixerat, ne non bene uterque locuturus
sit. In sequentibus Socrates non dubium est, quin verbis ov vvv
lyd elfiiiy ftaXXov 5k IdcjS ov Ido- jicti x, x. A. ordiuem
sedentium significaverit, quo factum sit, nt sibi de Erote dicturo
nihil, quod proferret, relictum sit. Sequitur inde, Socratem
Eryximacho non dixisse: bene enim ipse di- xisti. Hinc verba ita
dispo- nenda esse censebam : xaXds yap t (sc. SafifSEi?) avxoS
ijydvidai, G) EpvB,lfiax& h. e. Du kannst ganz guten Muthes
seiu: deine Rede ist vorviber. Sed scripsisset, si hoc voluisset
exprimere. Flato: xaXds ydp , cj ’EpvB>t- /iaxe‘ avxoS
tjyojvidai. Igitur nunc xaXaS de tempore acci- piendum esse autumo,
ut idem haec vox significet atque slS xa- X6v y de quo diximus
annotat, p. 24. Socrates hoc dicit: Du hast gut von Muth reden,
(vide de supplenda enuntiatione qua- dam ante ydp particulam
quae annotata sunt p. 14.) zu guter Zeit hast du deine Rede
gehalten, warest du aher wo ich ietzt bin oder vielmehr wo
ich nach Agathons Rede sein werde cet. Ceterum iam supra sedis
inopportunitatem notatam habes a Socrate p. 177. E. xal r ot ovx
Zdov ylyvExai i)filv xo'iS vdxdxoiS xaxaxuf.ii.voiS • «AA* idv ol
xpodSev ixavcoS xal xaXcoS tincodiv . , lUapxi- Gei 1/f.ilv.
Ceterum patet, Socratem Eryximachi verba aliter interpretari, quum medicus ea
intelligi voluit. Dicturus enim erat: nunc non metuo, ne non
habeaut Socrates et Agatho , quod pro- ferant. Socrates contra ita
re- spondit, qua^i ille dixis,set: Nunc mihi securo esse licet, ne,
quod proferam, nOn habeam. Sed so- lent, qui cum acerbitate
loquuntur, interdum non ad sententias re- spicere, sed singula
verba captare iisque ad suam sententiam coutorsis responsa
accommodare. el ykvoio , ov vvv lydi e i fit . Eandem fere
sen- tentiam hoc modo expressit Terentius in Andr. Act. II. S. 1.
9. Facile omnes cum valemus recta consilia aegrotis damas» Tu si
hic sis, aliter cen- seas. De insequentibus verbis xal Iv icavxl e1lr)S
vide an- notat. p. 62. Recte ea Stullbau- mius interpretatur: in
summa consilii inopia, in summo timore versari. Deinde ev xal
fidXa rarior dicendi formu- la est, pro consuetiore ev fidXa .
Addiderant interdum veteres seri- xal fiaJ.’ av cpofioZo, y.al Iv mxvrt
tcqs, Sgmg lyco vvv. (PagfictTTHV fiovAei fis, co Ikoxgcatg, tlntiv rov
’Aya- ftava, iva Qtogvjiri&m dtcc ro ohti&ca r 6 ftiargov
ngogSo- xi av neyukr t v i%uv , tog sv igovvrog luov, 'EniXtfiimv
fdvt’ av tl'tjv, w ’Aya%uv, tlntiv r bv Zwxgdry, d id uv ptorcs Taxi
particulam, qua significarent, cum vi maiore et ev et puXct pronuntiandum
esse. Non mate Riickertos ad h. 1, Ttai addito effici censet, ut
eadem fere cogitatio bis ad animum af- feratur. Huic dicendi generi
apprime respondet nostratium gat und g e r r» , quibus verbis utun-
tur, qui animi sui sedulitatem ostensuri sunt. cpappatteiv fi
ovX st jus. tpappaxrEiv fascinare significat herbarum adhibito
succo, deiude etiam de aliis remediis valet, in- primis autem de
magniloquen- tia, qua aliquis ita sui impos reddi posse credebatur,
ut nihil eorum, quae vellet, neque facere posset nec dicere. Sic in
Piat. Phaedon, p. 95. B. legitur: IA ’ya$l t Utpi/ 6 2?cjHpdxr/S^,
pi/ piya A iye, p)} xt? Tjp&v fia- < ixaviot 7tfpiTpeip?j
rov Xdyov xov plXXovxa XiysdSai. Cete- rum nihil aliud voluit
Socrates laudato Agatliouis nomine efficere, quam ut accuratius
locus definiretur, quo sibi esset dicendum. Poterat enim iud«
loquendi difficultas expendi. Igitur notabis, quain manifesto Plato
hic carpit, vanitatem Agathonis verba Socratica in suam virtutem
dicoudique artem directu censentis. ro Siarpov — ev £
puvvroS ipov. ro rpov h. 1. de convivis intelligendum est. Eius vocabuli
insolentiam ne mireris, adhibitum est t Platone, recte monente Wolfio
? ad h. 1. , ut sceuicum poetam hic loqni lectores ^oneantur.
De gdS cum genitivo participii con- iuncto vide anuot. p.
158. EiiiXi) 6 pcav pkvx* av siijv. Recte monet
Riickertus ad. h, 1., pivTift interdum nnd adversandi , sed
asseverandi po- testate adhiberi. Eandem signi- ficationem xai xoi
habet, quod disiunctim scribendum esse supra monuimus p. 51.
Fortasse etiam pivxoi, ubi asseverandi vi posi- tum est, scribendum
est piv xoi t neque dubito, quin Graeci, quos studiosissimos fuisse
constat ver- borum recte pronuntiandorum, pronuntiando discreverint
•ptvx dv et piv r* av. 'EitiXijtipeov verbum quod attinet, senum
de- crepitorum constans epitheton est, »ut et oblivionis atque
ridi- culae stultitiae significationem habeat» Schleiermacherus in
con- versione exhibet: Sehr vergess- lich miisste ich dann sein.
Eo- dem modo Ficinus verba reddi- dit: Nimis, o Agatlion ,
oblivio- sus essem. Neutra nobis ItxiXij- tipGDV . ^ocis explicatio
arridet, seque tamen facile verbum re- pertum iri concedimus,
quod ilii vocabnlo satis respondeat. T7/v 6i) v dv $ p tiav
— dv a fiaiv ov x o S n. x. A. Laudat hunc locum Mutth. in
Gramm. ampl. J. 466. 1. p. 864., t))v cijv uvSqsmv mu nsyaXoqiQoavvrjv
avctfialv ovtos hd 11 tbv vxQifitxvta (liza tcSv vitoxQLuav i tal
(tttipavrog ivcivcla toSovtu (liXXovzog esudEi^ttj&ai Cav-
um kuyovg, xul ovd’ bnagnovv IxTcXaytvzog , vvv o lr r Stlrjv oe
%oQv(irj9>;OtG&ao evExa i/fubv, oXiyav uvftQcaxwv. ub i complura
Innas structurae ex- empla congesta sunt. e. c. Arist. Ach.93.
ixuoipeii ye xopaB, itaza- ZaS tov yt 6 ov (ocpSaXpov') tov n p i 6
(i e cjS . Ceterum du- bitari nequit, quin Socrates Aga- tlionis
virtutem animositatemque praedicet ironia consueta usus; pauli o
infra enim ipsum pugnare secum ostendit, ut, ni Phaedrus eius
pudori succurrisset, hominem misere turbatum eiusque
animum elatiorem prostratum humi cerneres. Hoc ironiae artificium,
quo eximia laudatio acerrimae notae praemittitur, videlicet ut
elatiores cadant miserius, ex epi- corum arte depromptum est, qui
heroum solent, quorum caedes narranda est, ipsi huic narrationi
summam laudationem virtutis, ma- gnanimitatis , pulcritudiuis prae-
mittere. x iitt tov oxpift Civ x a . Schol. ad h. 1.
oxpifiavxa , in-/ quit, r 6 Xoytiov , i<p ov ol xpaycoSol
jjyoovi^ovxo’ tivt ? Se xiXXifiavxa tpidxeXrj (padiv, i<p’ ov
iCtavxai ol vxoxpixal xai xa ix peteojpov Xeyovdiv. Adde Fhotii
verba : oxpifiaS ’ to X oytiov , i<p’ cj ol xpaya)8ol
tfy<k)vi£ovto. xcti nXdteov 6 tpiXo6o<poS Svpitodioo x£XPV
rca T ai ovopaxi. Timaeus haec ha- bet : oxpipaS' nijypa to lv xa
5 $e axpeo TiSipevov , iq> 9 ov idxavto ol xa Sr/podia Ac-
yovteS * SvpiXy yap ovSinos tjv. Hesychios exhibet; fi&Xtwv
tpavat to Xoytiov , £<p* ov i&xavxo ol tpaycpSol i/
ol, vno- xpixoLl ix pexeoSpov xal iXe- yov. fiXirJ;
avxoS ivavxia to - 6ovtcj $ e at pco . 9 EvavtUt > fiXiittiv de
bellatoribus dicitur, qui intrepidi hostem adventantem intuentur. Pro TOdovTCJ
Searptpy quae plurimorum opti- morumque codicum lectio est, vulgo
rodovxov Scarpov lege- batur, id quod in hac loquendi formula
usitatum fuisse Stall- baumius rectissime negat. Iu sequentibus
davxov A oyovS ne quis articulum desideret, quem, si in codicibus
exstaret , nemo non probaret: Socrates hoc dicturas est: iudem du im
Bpgriif standest, eigene Compositioueu bekaunt zu macheu. T L
Sal. Codicum baud exi- guus numerus ti Se exhibet. Multis in locis,
nbi xt Sai scri- ptum reperitur, de lectionis ,ve- ritate dubitari
potest. Nostro loco nihil certius est, quam tl Sai bene se habere.
Miratur enim, Riickertus inquit, quem consentire nobiscum
gaudemus, Agatho Socratis orationem, qui multitudinis se nimio
studio te- neri insimulet; verissimum au- tem illud est, quod Stallbaumius
ad Fhilebum p. 6. notavit, xi Sai locum habere, ubi admiratio quaedam
esset exprimenda. Quoniam autem admiratio ulicu- Ti dal, to ZdxQccTBS, tov 'Aya&avcc
<puvca, ov tfij itov fit ovra StaTQOv (itOtbv fjyu, dgts xa\ ayvotlv,
oti vovv i'%ovu oXlyoi %nq>QOVES xolXdv dipQovuv (poftlQUtcgoi'
C Ov fiivT av xa/.dg itoioltjv, tpdvai tov ZaxQdrrj , ol ’Ayudav , xbqI
Oov ti iyd aygoixov do^utuv. ciV.’ tv olScc , uti, ti tiOiv Iv xv%oig,
ovg yy oio Cotp ovg, (idXXov ins re! hand raro cum quadam
indignatione coniuncta est, quae e rei alicuius insolentia , quam
dtoniav vocant Graeci, enasci- tur, zl 8aL plerumque ita exhi-
betur, ut rem aliquam veram esse neget is, qui illis voculis
utatur. Exemplo est Piat. Gorg. p. 461. B. zi Sal, 2 cox p dzrj S ;
ovzoo xcti dv xepl zij ? pijtopixfjs 8o- B,a?>EiS,
&S7tEp vvv XtytiS ; ov 8 y 7COV/.IEOVTG3 seqq. Haec est
codicum lectio, quam Themistius confirmare videtur Orat. XXXVI. p.
Sil- B. , qui nostra verba imitatus est: ov 8r} Ttov pe za Siazpa
ovzooS dyandv i/ysid^E, qjSze ayvotlv, ozi oXlyoi lyuppovES
noXXcov aqjpuvcjv rc5 A kyovzi cpofjtpcJ- TEpot . H. Stephanus
scribendum coniecit dv 8? ) itov jxe x. r. A., quam scripturam
verissimam c«nserem, si iu sequeutibus scriptum exstaret: ozi vovv
^xovxi oAiyoi itoXX&v (popepootEpoi. Hidiculum enim foret, si
Agatho quaereret de re, quae Socratico dicto pro certa iam posita
esset. Dixerat nimirum Socrates, fieri noa posse, ut Agatho
paucorum homiuum praesentiam extimesceret, cum coram ingenti multitudine
animatum se ostenderit at- que intrepidum. Ad quae verba pessime
responderetur ab Aga- thone: Profecto non ita me spe- ctatornm
applausu elatum indi- cabis, ut qui nesciam, prudenti
paucorum hominum, quam mul- titudinis iudicia timenda esse magis.
Additis autem verbi* ipqypovE? et cttppov av nihil certius est,
quam Platonem ov Srj itov pE scripsisse. De 5 ? / 7tov verborum
siguificatu vide annot. p. 98. Verba convertenda sunt: Da wirst
micli doch olTeubac vvohl nicht so vom Lobe der Zuscliauer
eingenommen halten, dass ich nicht wusste-, dass das Urtheil
weniger Besonneuer weit melir zu furchten ist, ais der Uuverstnnd
der Mengef iCEp\ dov ti iyco. Nota vim pronominum 1 , quorum
ordine hoc exprimitur} de te, viro tanto tamque insigni ego, homo
vilis. Ceterum Ruckertum audi, annotantem ad h* 1. : aypoi - xov.
fcSic dedi cum edd. rec. inde a Wolfio, vehementer licet dubitans
de Grammaticorum illo praecepto, quod inter aypoixoS et aypoixoS
hoc discrimen poni iubet, ut dypoixoS eam denotet, qui rusticis
moribus sit, aypoixoS t qui ruri habitet. Timaens : dypoixoS
dxXrjpoS xal anai** SevzoS, rj 6 iv aypoi xatoixcov* Esse accentuum
discrimen nolumus negare, sed utrum idem etiam significationis sit, an
po- tius dialectorum aut aetatum, dubitamus, « A A a
p?} ovx ovrot ijpels cjfiev Alio loco di- cturi sumas de usu prj ov
ne- av tt&rav (pQOvd^oig y xwv noXlav. ulla f ti? oi% ov- T 01
tjflSLS 10UEV. TjlUlS y-EV yCiQ XCtl IxtL TtUofjfltV XCil jjfuv rdv
xoXXiSv. el Si ailoig lvTv%oig 6o(poig, xk% itv alOyvvow avrovg , t” ti
16 cos o toto alaygov ov noiiiv. rj Ttcog kiyi ig; 'AXrftry tiyug,'
cpavca. Tov g Si xollovg ovx av alo%vvoco , t" rt oioco
aldygov D gationura* Nuperrime de iis egit Bellermannns ia
Commeat, de graeca verborum timendi structura, censetque esse apud Graecos
eandem et cavendi et timendi verborum structuram, qua, quicquid molesti
instare sibi arbitrentur, praemissa indicent fxrj particula, cui alteram
insuper addant negationem ov , si quod exspectent malum , in eo
contineri dicant, quod quid non sit eventurum. Haec sententia cur
nobis non probetur prorsus, alibi dicemus. Ad nostrum locum ut
revertar, convivas ex ordine tgov i/Kppovcov esse, Socrates non ne-
gat quidem disertis verbis, sed vereri se tantummodo ait, ne non
aint tales, quales esse ab Agathone perhibeantur. si aWotS
ivtvxoiS doepotS. 2o<poiS nomen a verbo, ad quod pertinet ,
sejun- ctum est, ut sensus sit: si aliis iidnne sapientibus, de
qoo vernorum dispositione saepius iam diximus ; vide aunot. p.
59* p. 129* al. Ne autem scriptum exspectes pro doq>otS verbo
do- cpGOtepoiS rjfiaov: Socrates et se et ceteros convivas
multitudinis imprudentiae prorsas aequiparat, ixl quod etiam
colligitur V ver- bis : 7 plv neti ixel napjj- fXEV TCCti
7Jfl£V T(OV TtoXkwv* e£ rt tdeoS oloio al - dxpor ov
rtoieiv. Stallbau- mius ad hunc locum , non est, inquit, quod ov participium
cum Astio delendum putes, si quidem sententia haec est: si
quid facere te putares, quum ta- men turpe esset , sc.
tcoteiv . Participium revera in Stallbauxniana textus recensione
omissum miror. Ceterum ponderosior est eius explicatio ov
participii. Si abesset, nemo, opinor, id desideraret. Addito eo nihil
nisi rei veritas exprimitur, ut verba con- vertenda sint: si qnid
forte facere te opineris, quod revera sit turpe. na\
tov $ a 18 p o v , £ q> 77 , VTtoXafiovx a. Supra iam dictum
est, Agathonem, cum non haberet, quo se posset Socraticis retibus
extricare, pudore suffusum obmutuisse, Phaedrum autem miserrimae eius
conditionis miseritum , atque ut finis esset silentii ingratissimi,
<pt\e *Aya$GOV et quae sequuntur verba protulisse» Ut
igitur esset, quo etiam oculis legentium illa Aga- thonis
reticentia indicaretur, post aidxpov iroieiv lineolam ponendam
curavimus* lav (X7tOKpivv ^co repa- ret h, e. si pergas
respondere. Amant enim Graeci) ut vim augeant verborum, ipsa verba
ponere pro eorum infinitivis cum aliquo finito verbo
13 noiiiv; — Kal t dv &aid(>ov I tpr} vitolajiovTa
timiv, r Si cpli Ie 'Ayuft ov, lav anoxglv]) ZkoxQaru, ovdlv eu
dwiGei avra, dxrjovv tov ivdude otlovv yiyveaftta, lav fiovov h'%y ora
diaXtytjTaz, cilkag te xal xakcii. iya de ydeco s (itv ccx ova ZJaxQaTovs
d caley ofievov, dvayxalov de fiot eMfuhj&yvat tov iyxafiCov za
"Egau, xal uTCodt^aG&ae nag’ evds txuGzov vumv tov coniunctis.
Diximus de hoc ge- nere dicendi in aunot. p. 169« Sic in Piat.
Phaedr. p. 230. A. legitur axap, <J Ixaipe, petaZv ta)Y Xdyarv 9
ap* ov rode i\v tu 8/v6pov , i<p’ uitep yyeS i)fict9 } quo loco
ijyeS cum vi positum est pro ayeiv IflovXov. Adde Engelhardtum ad
Platonis Lachetem ed. p. 29* Meus autem Phaedri haec est : Cave
Socrati respondere pergas» nam ubi perrexeris» nihil ipsius
intererit, quomodo ea, de quibus dicere constituimus, per-
agantur, dummodo ipse habeat, quocum colloquatur. Magnam fuisse
constat Socrati aviditatem colloquendi, quae haud raro apud Platonem
descripta reperitur. cfr. Apol. Socr. p. 38. A. idv x* av Xiyco 9
oxi xal xvyxavei piyi6xov dyaSov ov avS pedit (p xovxo, kxdtixtjf
ijpipaS itepl dpexijs xovS XoyovS noieuSSat xal xcov dXX cov x . r.
A. Adde Phaed. p. 61. E. xi yap av xi9 xal Ttoiot dXXo iv r&5
pexpi ijXlov 8v6pdov XP° V( ? 8C * V poSoXo- ydv te xoCl
diadxoiteiv nepl x. r. A. De more Socratico a^- tem abeundi a
proposito atque alips ab eo abducendi vidp Piat. Lachetem p. 187*
p. 13* ov poy foxeif eldiyai , Zxt o? av ly. r yvxaxa
ZEooxpaxovS Xy A oya 9 $Snep yvvaixi Tc\r\6idZ,ii 8ia - A eyopevoS
xal dyayxrj avx<p 9 idv dpa xal itepl aWov X ov it potepov d p
Ztjx a i SiaXiyedSai , prj i tavetSSrat vito xovxov nepiayopevov tg
j A oyaj 9 itplv dv ipnitiy eis x d didovai itepl avxov Xoyov
x, X. A., ad quem locum vide quae annotata sunt p. 122.
d AAgj> te xal xaX(S. De his verbis, quae cave falso
interpreteris, vide Commeat» DE SYMPOS. PLATONIS, xal ano SigatiSai
itap* kvo9 kxatixov. Dixerat Ery- ximachus p. 177. D. Soxel
yap poi XPV V at adtovijpGov Xoyov eineiv inaivov ” EpcoxoS
ini SeZtd cj 9 dv bvvrjxai xaX- Xidxovx. x. A., quod dictum
cum probassent convivae ad unum omnes, unumquemque Erotis laudatione
habenda obstrictum recte censeas. Igitur non mirum, quod Phaedrus hoc
loco anoSe- XetiSai verbo utitur; id enipi de debito accipiendo
solenne. Cum vi autem Phaedrus anodeB,ct- 6$ai et paullo infra
anoSovS verba adhibet , ut commoneatur, Socrates, super alia re non
dis- putandum esse prius, quam debita Erotis laudatio exsoluta sit.
Apposite Stallbaumius ad h* 1. «t Zoyov. dnodoiig ovv
txdrtQog ra fhu oikag r\8rj dia- Zeyc69a. AUm v.ahZg kiyug , d
<H>cci8qs, tptcva i rov E 'Aya&avcc, xal avdtv fie xaZvu
Ztyecv' 2axQuzu yut> xal av&ig tOxat, nolldxi g &ux).tyt(Sft<u. ’Eyd
de < 5 >} (Sovkoficu tcqwtov (iiv einelv, r) %q>] laudat
Piat. Politic, p. 173* B. xa - \coS xal xa$ ait e p eI xpz&S
ditidcoxaS poi rov Adyov, ovtcjS ?/8 7} diaXeye6$a). Ovzcd haud
raro ita in veterum scriptis positum reperiri, ut ali- quam
conditionem in universum insigniat verbisque insequentibus
accuratius definiatur, supra indicavimus p, 43Contra ubi accurate descriptae
actioni postponitur, illam vim prorsus amittit; ridiculum enim foret
atque inutile, si quis iu universum id describeret, quod accurate
descriptum praemiserit, Aliam igi- tur vim habet, de qua solertis-
sime, uti solet, disseruit Engel- hardtus ad Piat. Lachetem ed. p.
52-: Ovrcj, inquit, repe- tit notionem participii tanquam cum
sequente actione (h, 1* SiaAeyetiSai) caussae, conditionis,
rationis ineundae similiqne notione coniunctam, Exempla si quaeris huius
stru- cturae, cf. Piat, Apol, Socr. p, 29. B. xal ei 8ij ra>
(Sopare- pos rov <pait)V slvat , rovrco dv 9 ori ovk el8coS
IxavcoS it epi raiv iv n Ai8ov ovrco xal oiopai ovk sldivai. Piat.
Phaed p, 61. D. xal apa Asycov ravra xaSrjxe ra 6xiArf ano rijS
xAivrj? iitl Trjv yijr, xal TiaSeZopevoS ou- rcoS ?j8?] ra Aonta
8iEAEyEZo> Piat. Protag, p. 314, C. tv* ovv pi}
drsXifS ysvoiro ( sc, d Ao- yo?) a A Ad dianepavdpEvot ov- tgjS’
elsioiptv x. r. A. Piat, do rep. IX. p. 576. E, xaradvvreS eis
diradav (r rjv itoAiv) xal iSovref ov ra 8o£av anocpai-
veops^a. xal ovSiv pe xcdAvei A kysiv. Atytiv h. 1, est
oratio- nem habere atque deum laudare. Qui paullo ante obmutuerat,
cum, quod respouderet, non haberet, nunc eifugiQ opportunissimo
usus, recuperata animi audacia, Socrati, inquit, etiam posthac
saepe erit respondendi facultas, iycd d £ Si} povAopai*
Queritur in ipso orationis initio Agatbo, quod omnes, qui ante % se
dixerint, non Erotem laudaverint, sed homines felices praedicaverint ob bona,
quorum ipsis Eros sit auctor. Omne autem encoraium' pergit esse
debere ita comparatum, ut priori loco eius natura describatur,
cuius encomium exhibendum sit, posteriori loco bona commemorentur
^quae ab illo proficiscantur, His^Pae- missis ad ipsam dei
laudationem abit, tantosque honores in ipsum confert, ut in
Agathonem potis- simum verba Socratica directa videantur, quae infra leguntur
p. 198. D. r d 81 apa , (sc. rdArj- $i\ AJysiv x*r. A.) toS ioixev
, 13 * [is ehtuvy Inuret dnuv . doxovGt, yctQ poi narres oi
nQoGftev, elgqxoTsg ov tov %eov eyxG vpi&fciv, alXa tovg
av&Qi&novg tvdacftovl^BLV teov ayaftcov 9 av 6 &ebg « 5 -
tolg aluog. onolog de ug avtog dtv ravta edoQrjGazo, 195 ovdelg eX
prjxev. elg dh tQonog oQ&og navxog Inaivov neQi navxog > koyco
diekfteiv olog oicov cuuog av xvy- ov tovto f?v ro xa\ goS
litui- veiv oxiovYy aXXa ro gjZ /ilyi - 6xu dvaxi%Evcti r&
npd/jxati xat oJs’ yidX\.i6xa > lav xe y ovtoai ix oy xu >
Idiv re pr). Nam beatissimum Erotem vocat omnium deorum et
pulcherrimum et fortissimum» Haec epitheta tum ut firmentur, tum ut
au- geantur, alia multa accedant, quae singula enumerare nunc
non labet. Altera pars orationis, in qua dei dona recensentur,
ita referta est antithetis aliisque ornamentis orationis, ut
Gorgiae discipulum invenili ardore ex- sultantem facile agnoscas.
Ut autem auditores Aguthonis finita eius oratione hominem
summo- pere admirati esse narrantur p» 198. A», ita universis
Atheniensibus ipse GORGIA acceptissimus erat atque iucutidissimus, ut
teste OlympiocToro, quem Stallbaumius laudat ad Piat. GORGIA p,
447» B. eos dies, quibus artem suam pu- blice ostentabat
spectandam, festos (hopxaS) et orationes ipsas lampades vocarent. Hoc
nomen quam bene conveniat oppositio- ni bm^jipepissime repetitis,
anti- thetis Captatis, cincinnis orationis delicatulis, patere
opinor. AapitabeS enim faces intelligun- tur, quae certis quibusdam
festis diebus per nocturna spatia huc illuc -circumferebantur. Ut
hae faces in Xa/maSovxiu, quae et ipsa Xajmds vocabatur et
\ujx- itaSoSpojiia, mox hunc, mox il- lum locum campi
illustrare sole- bant , ita illis orationis artificiis adhibitis
sententiae oratoris splendidae reddebantur atque luce clariores. X)
XP 7 ? P E eliteiv. Sio editores omnes praeter Ruckcrtum, qui e codicum
plurimorum auctoritate gjS XPV ordinem verborara recepit. Addit
idem, noo minus recte habere gjS quam y , utramque enim vocem
exhi- beri, ubi quomodo quid fiat aut fieri debeat, oblique
rogetur. — Interest tamen aliquid, utrum goS an y posueris. Exem-
plo ut clarior res fiat, y XP V M E ehteiv est, qua ratione di-
cendum sit 5 verbum autem XP 7 ? non nisi expletivum est, ut qna
ratione ego debeam dicere nihil aliud siguificet, quam qua ratione
dicendum sit. Contra cJs’ XP 7 ? M E eliteiv significo t accentu
orationis in scqnens post- ea? verbum transmisso, quo modo debeam
dicere. Pari modo explicandus est locus Piat. Eu- tbypbr. p. 4. E.
xuxgoS eiSoreS ro Seiov as $x El T °v oCiov re itkpi HCti tov
dvo6iov . Adde Polit, p. 304. E. it o\e prj - rkov htu6roiS
oli av itpoe — XtopeSa icoXejiEiY» Protag. p. 338. D. 7t£ipado/iai
avrcp 6eZ— B,ai y coi iyoj (pypi XP 7 / ya 1 roxr ditoxpivopevov
<x7toxpive6^at 9 Legg, VI. p. 774. A. in srA eiaa yavti ntgl ov av 6 ).oyog f/. ovta Stj zov
"Egavct xal Tjfxug Slxaiov htcuviGca ngatov avzov ol6g tGtiv,
Intuta xag SoGtig. (ptjjxl ovv lya navum v &t mv tv- Satjiov av ovxav
"Egaxa, ii 9t(ug xal avtiitGtytov 1 1- ntlv, tvdai[iovtGzazov tlvat
«vxav, xaUMixov ovta xal agiGtov. ti! av ctnoi nepii ya/uav
, ai 5 Xp)} ycepslv. Quibas exemplis male ita usus est Riickertus,
ut probaret, oJ? prorsus eadem potestate atque y usurpari» Agit
autem nostro loco Agatlio cum vi de ratione dicendi, ut rectius y
scribatur, nou item, quomodo debeat dicere, indicatu- rus est; certa enim
quaedam dicendi ratio non praescripta est ab iis , qui Erotem
laudandum convivis praeceperunt, Eryximachus et Phaedrus. De
HitEiza verbo praecedente npcoxov jxkv aAAa xovS av%
p(ditov$ ev8ai/. toviZEiv Urgendum est pronuntiando
EvSaipovl^eiv verbum. Sensus est: Alie, dio vorher gesprochcn
haben, scliei- nen mir nicht den Gott zu lo- ben, sondern die
Menschen den Gdttern gleich zu stellen. Sequentem genitivum casum
quod attinet, notum est, verba, quae affectum animi exprimant,
geui- tivo casu eas res adiunctas ha- bere haud raro, quae
allectus caussae nominantur. Laudat BiickertU8 ad h. 1.
Thucyd. VI. 36. xovS ayykXkovxaS roiavta xa\ itepupopovS
vjiiiz rtoiovvtaS x i)S ptv zoXprfi ov $avjidel(*>, xfjS 8$
a&i>vE(jiaSy eI fxrj olovxai £v8y\oi elvai. Piat. Crit.
p.43- B. itoWdxiS dssvSai - jxovida tov xpoicov. Adde Piat. Phaed.
p. 68. E. ev8aip.uv yctp yioi avrjp ifpaiveto — • xal tov
xpoicov xal xojY Xoycov x. r.A. Alia huius structurae exempla
Matth. congessit in Gramm. am- pl. §. 368. p. 681. Plerumque illo casu
ponuntur res inanima- tae. Dubito, num eadem stru- ctura usi sint
scriptores, ubi ho- mines affectuum auctores nar- rantur.
olo i oicjv alxioi <uv, Frequentissimum hoc genus di-
cendi est, quo adhibito et gravio- rem reddiderunt et ornatiorem
orationem Graeci. Laudat Stall— baumius Eurip. Alcest. v. 145. oiaS
oloS dpapxavEiS. Soph. Trach. v. 1047. olaiS oloS qdv IXavvEzai .
Ceterum ut recte intelligantnr iCepl icavxuS verba, mens Agathonis
haec est: Iu quavis laudatione dei liomiuisve unam tantummodo
laudandi ratio- nem esse, ut explicetur, qualis sit et quorum bonorum
auctor is, qui laudetur. ovxcj 8y x ov " Epcota
xalffpdZ. Exspectaveris scriptum ovxgj 8)j xal xov y Epcoxa. Respicit
autem Agatho nunc ma- gis ad laudandi rationem, quam, qui ante
ipsum locuti sunt, ser» vaverunt, quam ad rem laudan- dam. Hinc
factum, ut advocato 7 ifxacS pronomine xal cum pro- nomine, non cum
Erotis nemiue coniungeretur. svdaipo vkdxaxov stvat
avtGJY . Apud Stobaeum Serm. "Eeu de xaXhdzoe ov toiogSe.
xgatov fuv vto- B taxos v, m Oatdge. fteya Se texpfawv tta loyn av-
%og Ttttgex neu, cpevyav (pvyy zo yijgag, za%i) ov StjXov- LXI. p.
S96., quo loco tota Aga- thouis oratio repetita est, pro clvt&v
legitur avtov. Sed ni- hil mutandum est. Stallbaumium audi haec
annotantem ad h. 1. : Sic avtoS saepius post nomen substantivum vel
pronomen per' redundantiam quandam infertur. Infra p. 200. A.
XotEpov 6 £pa>S ixeivov — htiSvpEi avtov. Xe- noph Cyrop. I. 3 •
15. itEipa - (Sopaci tcp xditn&, ayaSdjy \n- ItEGOV xpatuStoS
gjv ixXEvS, advppaxElv avt(£. Ibid. I, 4. 5. al. Ceterum Agatho
non minore, quam Pausanias providentia (v. p. 180. E. InaivEiv jiEY
ovv 6 ei xavxas SeovS) hic agit Omnes enim deos excepto nullo beatos
esse praefatur, dein- de cautione hac praemissa omnium beatissimum
vOcat, si quidem ita dicere liceat, Erotem. VECDtat o S
Segdy, gj $ai- 6 pe. Ne mireris, cur Phaedrum alloquatur Agatho,
Erotem deum nutu minimum dicens: Phaedrus Erotem iv toti
xpsdfivtatov esse dixerat p. 178. B. Igitur ad eum potissimum
oratio diri- gitur, cui maxime ab Agathone contradicitur. Apertius
paullo infra poeta iyaj 81, inquit, 8pcp TtoXXd S\Xa
opoXoycijv tovto ovx dpoXoyaj , &s"EpeoS Kpovov xa\
*Ia7tEtov apxcno- repoS iotiY, aXXct q)Tjpi veota- tatov avtov
sivai x. t. A. ep ev y gdy cpvyy ro yy — p a* h. e. summa
conten- tione, quam fieri potest maxime, fugiens senectutem.
Magnopere augetor no- tionis alicuius gravius , si dua verba
eiusdem radicis iuxta po- nuntur, ut hoc factum est nostro loco.
Quae sequuntur verba taxv ov drjXoYoti — itposkp- XEtai Bastius
delenda censuit motus, ut videtor, (jctoxla senten- tiae. Recte
autem servantur ab editoribus, quippe Agathonis in- genio, apprime
convenientia. Ceterum vulgo drjXoYOTi legitur, quam scripturam Stallbaumius
ex optimorum codd. auctoritate in df/XoY otl immutavit.
Recepi- mus nos drjXovoti Buttmanni iudicium probantes, quod in
Indicibus continetur ad Platonis Dial. IV. Berol. MDCCCXI. Servari,
inquit, forma diaiuncta solet, ubi commode et solenni modo otl vocula
sequentibus se adap- tat, scriptura autem continua ad- hibetur, ubi
pars saltem eorum, quae ex otl pendent, iam praecessit. Snut vero alia
etiam exempla, ubi integra, quae ex ort particula pendet, f)rj6LS
prae- missa est, ut in fine locatum sit dtfXoYoti. Legitimam autem
esse etiam ad antiquorum mentem scripturam coutiouam , inde
ap- paret, quod etiam in structura, quae fit per accusativum
cum iufinitivo, formula illa servatur, ubi dissolvi nequit v. c.
Alcib. II. B. tov yap $eqy ovx lav drjXovuti. ov8 * ivtoS
xoXXov xXtj- dict%EiY+ Libri ad unum omnes exhibent ov8 ovtoS
xoX- X ov itX}]6id?,EiY , quam lectionem exstiterunt, qui tueri
atque 6tt • ftdtxov yovv xov dsovzos rjfuv 7tQogEQ%etat. 8 drj
nitpvxsv "Eq&s fudstv, xal ovd’ ivxos^coAAov xAt]- Gux&iv.
[iBra 6h vicov dei fcvvetit i ts xal itizw' 6 yccQ explicare studerent,
Apud Sto- baeura legitur, ovd’ ivtoS, quod hodie ab omnibus in
verborum ordinem receptum est, atque Thucydidis loco confirmatur,
qui Astii industriae debetur, II 77. EvxoS yap itoAXov x™p{°v
xijS rtoAeuS ovx ijv iteAdtiai. Ad jtoAAoi; autem nostro loco neque
x<&ptov, neque, quod Stall- baumio placet, dia6xrpiaxoS %
supplendum est, licet id in huius- modi formulis haud raro addi-
tum reperiatur docente Lamb. Bos. de ElJips» p. 103» seqq ; non
video enim, quid obstet, quominus neutro genere positum per se
multum spatii significet. Pro itAytfia&iv in aliquot codicibus
legitur 7tAT}6id£ei f quod nullo modo probari potest. Pro- prie
dicendum erat o Si) 7ri<pv - xev"EpcoS fiidstv goSx’ ovd*
iv- xoS noAAov 7tArj6id8,eiv ; sed sn-< pra iara monuimus
saepius, Grae- cos haud raro, quae per caussae consequentiaeve
particulas proferenda essent proprie, copnla ad- dita praecedenti actioni
annectere, lam cum mens Agathonis sit*: quam natura' Eros odit,
ut ne eminus quidem accO- d a t , patere opinor et odium et
fugam senectutis cx Erotis in- dole atque natura exaptanda esse, id
quod efficitur itAi/did*- S,eiv scriptura. Ceterum Stall- baumius
ad li. 1. Ad irArfdid&iVt inquit, intelligas <xv rc5. Id
prae- ceptum cur improbemus, haud difficile est ad explicandum.
37A;/- 6id&iv absolute positum est, prorsus ut nostralpLinT
Welches Eros seiner Nator nach hasst ohne sich die
entfernteste Annalieruag zu gestatten. / n •fiExd
dfc vicov dei Hvv- edti re xal idxiv* Et in his et in
praecedentibus verbis reddendis negligentissimus fuit Ficinus:
eamque (sc. senectutem) Amor natura odit fu gitque, iuvenibus vero se
miscet. Bastius tautologia offensus verborum ZvvEdxi re xal Idxiv
scribendum censnit pexa 8's vicov B,vve6xi x b xal dei idxiv , cuius
conjecturae ipsnm postea pocnituit» Schleicrmacherus verborum quaesita
similitudine verba convertit: Mit der Iugend aber gesellt er sich
und gefallt sich* Schulthessius In conversione exhibet : Pagegen naht er
sich (?) der Iugend und weilet bei ihr. Aliud quid Agathonem
nostris verbis exprimere voluisse certissimum est. Laudat
Stallbaumius ad h» 1. Fjutarchi locum, quem cum nostris verbis
Wyttenbacliiua comparavit ad Plut. de Ser. Num. Vind, p. 5G. >
dc Is. et Osir. p. 352. A. nap’ avxij xal pex ctvxijf orta xai
Gvvovxa; quo docemur, simplicis verbi potestatem sequente composito
interdum augeri, sed ad npstri loci insolentiam mitigandam nihil
sane confert. Negamus autem, Grae- cos ita locutos esse , ut
prae- misso composito verbo simplex verbum adderent, quod
cudi illo eiusdem actionis no- tionem describeret» Nos
ellipticam enuntiationem essecen- i 4 iV
xcdaiog luyog tv £%h, ag opoiov opola dcl mXd% u. iyib SI QfalSga
jroAAa ulla bpoloyav rovro ov% opo- Xoyto, ug ’Ega g Kguvov xal ’Iccm rov
dgycaurcQvs ttSuv, C «A A« qitjpt vEtbtKt ov avzov elvca &b<op xal
dii vtov, semus, quae hoc modo supplenda est: pera 81 vicov
dei Zvredrl re xal ael veoS i&tlv h. e. ut semper cum iuventute
est, ita ipse aeterna iuventute gaudet. Ellipseos similli- mae
exemplum infra habes p. 213. C. oiao& et nS aXXoS ye- AoioS*
l6xi re xal fiovXetai sc. yeXoloS elvoci. Ceterum cum hac nostri
loci explicatione quam bene conveniat insequentis proverbii mentio, nemo
non videt. Ne autem dubites de verborum structura pera nvoS
Zwelvai, laudat Stallbaumius ad Piat, dc rep. V. p. 464. A.
ovxovv per a rovro v rov 8 6 y p a- r of re xal /)?} paroS
iq>a- fxev &vvaxo Xo vSeiv ras re ?}8ovaS xal rds XvnaS
xoivp, praeter nostrum locum Piat, de legg. I. p. 639. C. pera
xa- xcov apxovroov dvvovdav. opoiov opoicj ael ite-
Xd?,ei. Laudat versiculum Schol. quo et Plato usus est: ojS ai e l
rov 6 poiov a yez $eoS coS rov 6 poiov > quibus verbis haec
adduntur: ini rdSv rovi, tponovS napa- TtXrjtiicov xal dXXtjXoiS
ael 6vv- diayorreov, iB, 'Opijpov Xafiov- da r rjv dpxr/v.
pipvrjrai 8h avrrjS nXarcjv xal iv AvdiSi xal iv 2vpno6ioj, xal
Mivav - 8poS 2vwcovUt» Satis nota Tul- lii conversio est huius
proverbii in libello de Senectute 3. pares cum paribus ( veteri
proverbio ) facillime congregantur. coS^EpcoS Kpovov xal 9
Ianerov ap^atorepof. Ridet Agatho allatis Crooi Iape- tique
nominibus Phaedri senten- tiam censentis, omnium deorum
antiquissimum Erotem esse. Quid enim antiquius cogitari potest
Iapeto , cuius vetustate Suida et Ilesychio testibus usi sunt vete-
res ini Siativppcf ) , aut Crono, h. e. ipso tempore, cuius ille
deus esse putabatur? cfr. Moe-r ris, quem Stallbaumius laudat, p.
200. 'laneroS' dvrlrov yipojv. xal TiScovos xal KpovoS ini rejv
yepovrojv, a*H6io8oSxal Ilappe- vi8i]S, Stallbaumius ad h.
1. Nomen, inquit, Parmenidis Astius mutandum censet in 9
Enipevi8ijS propterea , quod de theogonia Parmenidea nihil memoriae
tra- ditum est. Quid vero? si Par- menides in altera carminis
parte, nunc deperdita, vulgi opiniones de diis eorumque rebus
gestis exposuerit? Quod si veram esse ponimus — nam pro vero
affir- mare nemo audeat in tanta cer- torum testimoniorum penuria
— manifestum est, Agatho- nem prae nimio doctrinae
ostentandae stadio, quid inter Hesiodi atque Par- menidis
narrationes in- 'teresset, prorsus non vi- disse adeoqne nane
dis- simillima temere inter se confundere ac miscere. Viri
doctissimi iudicio adstipu- Iflnlui Kuckertus et Schleierma- za. Ss
ctu7.tt.ia ccqdyfiara xsqi &tov$, a 'Hotodos xal IlaQ- {lividijg
UyovGiv , ’Avayxy xal ovx "Eqcotc ytyovivcu, d ixdvot d7.rj&f]
tktyov. ov yccQ av ixxofia 1 ovdh drti/ioi uX7.y7.uv lylyvovxo xccl
ci.7J.tt tcoa/.cc xcd fUaia, d "Eqwg cheras. Equidem sic
statuo: Parmenidis versiculum esse a Phaedro laudatum p. 179.
B. praeter Phaedrum etiam alii te- stantur , v» c. Aristot.
Metapli. 1. 4.; quo iure auctorem Empedoclem Goeltliugius narret ad
Hesiodi Theog. v. 120., non reperio. Ipse autem ille Parmenidis versus,
quippe theogouiae alicuius fragmentum, testis est, theogoniam
Parmenidem conscri- psisse. Utrumque autem et Hesiodi et Parmenidis
versum Phaedrus J* c. ita laudat, ut quibus probetur, Erotem deorum
antiquissimum esse , atque pareutibus carere. Recte ad eam rem
probandam versus adhibitos esse, neque, quae virorum doctorum opinio
est, Hesiodum atque Parmenidem inter se pugnare , supra demon-
stare studuimus annotat, p. 57. Sed tertiunl est , quod allatis
Hesiodi atque Parmenidis versi- bus Phaedrus videtur probare vo-
luisse. Cogitasse nimirum cen- sendus est ita: Nisi indicaturi
fuissent Hesiodus atque Parmenides, omnia, qbaccutique gesta sint usque a
principio rernm, Erotis auxilio gesta esse, Eroti non primum in
theogonia sua lo- cum concessissent. Hinc verba Phaedri recte
explicabis : itpE- OftvxaxoS cor pEyidxcov dya- Sgov rjylv ccLTioS
idxiv. Sed cani ipse sentiret, antiquis temporibus gesta esse, quae
cum Erotis natura ncutiquam conciliari possint, ad bonorum descri-
ptionem subito confugisse videtur , quae ex mutuo amore et amasio et
amatori enascantur* Ad Agathonem ut revertar, poetam non latuit Phaedri
artificium, atque ut ille autiquissimum depm vocaverat i deo que
summorum bonorum auctorem, ita hic et natu minimam laudat et
necessitati, quod fatum interpretari li- cet, adseribit, quaecunque
Homerus et Parmenides e Phaedri certo sententia per Erotem facta
esse dixerunt. Elliptico igitur dicendi genere usus est Agatho.
Exple- tior oratio audit: xd itaAata npdypaxa, d 'HdioSos neti
Flap- jjEvidr/S Aiyovdiv *EpGoxi ye- y ov kv cli , *Avdyxy xal
ovx "Epcoxi yEyovkvai. e i ixsivoi dXrj^rij ZAe-
yo v. Ficinus verba convertit: Si modo illi vera narrarunt* Exhibet
Schleiermacherus : wenn iene anders wahr erzahlt haben. Iisdem fere
verbis Schnlthessius usus est in Symposii conversione, quam Orellias
denuo edidit p. 100. Dixisset opinor Agatho, si hoc exprimere
voluisset, eI ixsi- voi dXtfStf Elpijxadi s. Akyov-i div. Quis
porro ferat hauc sen- tentiarum coniuuctionem : vetera illa
facinora Necessitati, non Eroti patrata suut, si vera illi dixe-
runt. Ut paucis fungar, aliud quid Agatho dicturus erat, quod quid
sit, quoniam tectius locutu* est atque brevius, interpre- tes non
perspexerunt. Sensus verborudi hic est: veteres deorum rixas,
quas per Erotem factas narrant iv ftvroig rjv, cpMa xal tlgrjvt],
tognt Q vvv , tfc ov "Egcog «ov &Btov (iatiitevu. Neo
s filv ovv edn, ngog Se ra vtca aitaXog. itoii]- D tov S’ k'ouv Ivdeijg,
olog r t v "Opygog itgog x 6 ImSet^cu 9eov «xcdonjra. "Onijgog
yag ”Axi]v &eov te cprfiiv Hesiodus atque Parmenides, dixissent,
opinor , si vera dicere voluissent, Necessitate non Erote fa-
ctas esse. Noluit autem di- cere Agatho a — Xiy ov 6tv , iXeyov av
'Avayxtj xal ovh * Epcon yeyovivai, ei aAr/Sr/ iXeyov, ne ter
posito Xiytiv verbo oratio incomtior fieret at- que inelegantior.
Possis etiam lianc primitivam verborum conformationem putare: ra di ita
- Xaid 7tpdypattx, a'H6io$oS xal Jlappevi&rjS AeyovtSiv
(Epcuri yeyovivai ) , 5 'Avdyxyf xal ovx E pari yeyovivcu , ( d
ixelvoi IXeyov av ,) ei dXrjSij iXeyov. i xx opal ovSh 6 e 6
fio i. Conferri iubet Stallbaumius ad li. 1. Piat. Euthypbr. c. 6.
avrol yap ol avSpanoi tvyxdvovdi voptiefav teS rov 4 ia zcov
Sfoov dpiorov xal 6ixaiozarov , xal rovrov dpoXoyovdi rov
avrov itaripa dijdcu, on tovS vieiS xarimvev ovx iv 6 lxtj,
xaxel- vov ye av rov avrov itaripa ixrepeiv 8i* irepa
roiavra; his adde, quae paullo infra le- guntur xal itdXepov apa
i/yel 6v elvai rd> dvn iv r ois SeotS itpoS aXX rjXovS xal
iffipaS ye 8eivds xal /xaxaS xal dXXa roiavra itoXXa, ola Xiyerai
re imo rc5v itoirjx&v x . r. A. cfr. Hesiod. Theog, 164
seqq. xoiyjro v 6 * idriv iv - 8 B 7) S x, t* A» Huius looi
Terb* Bekkerns et Stallbaumius ita dis- posuerunt, ut comma
ponerent post "OpijpoS, Efficitur hac in- terpunctione , nt
arctius coniungantur verba itoirjrov tdnv iv8et}s itpoS ro imdeiZai
$eov ditaXorifra , quae iunctura sane molesti quid habet atque
spinosi. Ficinus verba convertit: Opus autem est tali quodam poe-
ta , qualis Homerus exstitit , ad teneram Amoris mollitiem de-
monstrandam . Sed haec verba non satis respondent Graecis, Quis,
quaeso, probaret dicendi genus hofc : Ad demonstrandam dei
mollitiem deus poeta eget, qua- lis Ilomerus fuit? , Omnis haec
orationis difficultas removetur commate post "OpijpoS deleto,
posito post ivde )/S, quae verbo- rum dispositio etiam RLickerto
placuit. Seusus est: Tali autem poeta Eros eget, qualis Homerus
fdit ad divinam mollitiem describendam. Videtur autem se ipsum poeta
tangere, utpote qui mol- litie atque teneritate in carminibus componendis
ne Homero qui- dem cedat, tovS yovv ito8aS av -
TrjSaitaXovS elvai • Ad- didit hnec verba Agatho, ne quis aut 1
imprudentia aut fraude fa- ctum opinetur, ut * Attf ditaXij
dicatur, exemplo allato non nisi pedum mollities probetur* Fru-
stra Orellius ad Isocr. p. 330. verba TovS yovv — ft alvei cen- suit
expungenda esse. Stallbau- tlvai xul uitaXrjV * rous yovv xodag
Kvvtjs axalovg uvta, Xiycov Tijs pivS’ aitaXot xoScS' ov yap
iit’ ovSa niXvoctui, aXX ’ dpa r) yt nat ’ avSpcor npdtata fiodret.
KttXta OVV SoXEL fiot TEXtVJQLlp t»)v aXaloTTJXCt uxotpai- mius ad
h. 1. : Ista, Inquit, versuum Homericorum recitatio non indigna est
Agathonis ingenio, quem iam antea vidimus inani quadam se iactare
doctrinae ubertate atque elegantia. Vide annotat p. 200. Diximus
autem de hoc versuum recitandorum more annotat, p. 55. Cete-
ram Homerici versus leguntur II. XIX. 92. qui, ut mollissimi sunt
atque exquisita elegantia com- positi, ita Agathonis ingenio ma-
xime conveniont. Pro ov8eoS f quae plurimorum codicnm lectio est,
apud Homerum ovdtt legi- tur. Illud eorum sedulitati debetur, qui versuum
fines similiter cadentes non ferendos censuerunt. Versus similiter
cadentes veteribus mollitiei indicium fuisse videntur. Apprime igitur
convenit ovSei lectio nostro loco, ubi mollissimis versibus allatis
Agathonis ingenium describitur. Similiter cadeutium versuum exemplum,
quod apud Persium legitur , acerbissimum efleminatorum poetarum osorem, hic
laudare iuvat petitum e Sat. I. v. 98 seqq. Torva Mimalloneis
implerunt cornna bombis Et raptum vitulo caput ablatura
superbo Bassaris , et lyucem Maenas flexura corymbis Evion
ingeminat: reparabilis adsonat Echo. Qni his versibus praecedit:
Quidnam igitur tenerum, et laxa cervice legendum et qui
sequuntur: Haec fierent, si testicnli vena ulla paterni
Viveret in nobis? Persii iudicium continent, qnod idem fuit
totius antiquitatis, Alio loco Persius Sat. I, v. 93. dicit de
enervato aliquo poeta: Claudere sic versum didicit: Berecyntius
Attin Et qui caeruleum dirimebat Ne- rea Delphin TCal
7}flElS Riickertus ad h. 1. annotat: Bek- kerus, Dindorfius ,
Astius, S tali— baumius > utamur. Quos cur sequar, non video j
li- cuit enim hoc quidem Agathoni, ut semet ipse eohortabundus
conianctivum poneret ; at non minus licuit, quid facere vellet, in-
dicare: eodem igitur nos argu- mento utemur. Et coniunetivo et
futuro uti licet in huiusmodi dictionibus , neque facile digno-
scas, ubi utrumque libris commendatur, coniundtivnm an futurum scriptor
exhibuerit. Coniunctivum plurimi codices exhibent, pauciores sed optimae
notae li- bri futurum habent. Inprimia codex Bodleianus nominandus
est, ex quo rectissime Stallbaumius XpTjtiobfieSct in ordinem
verbo- rum recepit. vuv , ou ovx ini OxhjQov fiatvei, aXX ini fiaX&axov.
E xa ax ha 8>) xal ryitlg xQxjOaiie&a xcxfit]QCq) mgl ’
'Egaxa ort ccnalog. oi5 yaQ ini yijg jS aivu ovb ’ in i xqaviav, a idxuv
ov naw /icdaxa , ctkX’ iv xolg pala- xaxaxoig xav ovxcov xal ficrivu xal
olxu. Iv yaQ xj&cdi xal xpv%aig ftecov xal av&Qanav x rjv oixyaiv
idQvua, xal ovx av e£ijg iv nuGcag raig xfn>%aLg, cllV xjtlvl av
OxlrjQov xfiog l%ov<5r) lvxv%y , antQXitai , y 8’ av fictka- xov,
olxifcxai. anxoptxfov ovv ad xal noal xal navxy iv /laAaxtoxaxoig xcov
(laXaxmaxaxv , anaXuixaxov avay- 196 xrj uvai. veuxaxog (iiv oini
xpaviav, a idxtr ov naw pa\axa. Hoc loco confirmatam habes,
quod supra de ov naw vocularum potestate monuimus p. 79. Nam
prorsus non mollia virorum capita hic intelligi nullo modo possunt.
Sed et rectius expli- cata haec verba ita comparata sunt, ut non
possis non mirari inconstantiam Agathonis , qui modo laudata Homeri
in describenda divina mollitie peritia nunc eundem corrigit atque
capita virorum non admodum mollia censendo auditorum risui poetam
exponit. r xal ovx av k%i}S, Ficinus i» convertit : neque
tamen in quibuslibet animis. 'E5)}€ significat continua serie;
di- citur igitur non promiscue in omnibus animis habitare,
sed selectu facto eas tantummodo .! sibi eligere , quarum mollis
sit ac tenera indoles. xal 7todl xal itdrtfl* Fedum
mentio fit propter comparationem cum Ate homerica, cuius non nisi pedes
teneros fe- 8tj lau xal anaXaxaxog' cit poeta. Riickert.
Qnao sequantur verba, iv paXaxcatd- toiS tq5v paXaxcotdtcDV , ana
- XcJraroVf ipsius Agathonis mol- litiem describunt, quae si
audi- ret Persius Flaccus, rursus diceret : Haec fierent, si
testiculi vena ulla . paterni Viveret in nobis?
vypoS to eidoS ♦ *TypoS verbum est latissimae significa-
tionis. Primitus videtur li umi- dus, madidus significasse. Qnod
autem madidum, idem etiam lubricum est atque haud raro splendore
quodam insigue* Hinc apud Homerum sexcenties legitur vypa xiXevSa,
quod non minus de splendore undarum di- citur, quam de earnm
flexibilita- te; utramque autem notionem micandi verbo
expresserunt Latini. Qaarn notionem nostro loco habeat, e dxXrjpoS
nomine colligitor, quod paullo infra po- situm illi opponitur.
Recte Stall- baumius monet, vypoS saepe de rebus lubricis, lentis,
flexibilibus, mollibus dici atqae frequenter ngog is Tovroig vygog
ro tISog, ov yag av olog r’ rjv Ttdvzy itiQi7trv66ia%ai ovds Sia itdayg
ipv%ijs xai tigudv to ngcotov Xav&aVBiv xai i^iav, fl tSxlygdg
yv. dvfiiiiTQOv 81 xal vygag ISiag jitya ttxjirjgiov y sv- C%t]fio6vvt]
, o St/ duaptQovrag i» nuvrav djiokoyov- fiivcog "Egag %%u'
a<fp/fio<Svvy ydg xai "Egeni ngbq aU.rji.ovg «si Ttouaog. %goa
g 8s xaUog y xar’ av&y SLaira tov fteoi 5 ayfiaivH ’ avav&e i ydg
xal ihtyvfty-. xori xai (Suijiati xai ipvx\ j xai aUn oraovv ovx lvl£ei
B "Egag , ov 8’ av tvav&yg te xai tvuStig zoitog y, Iv-
rav&a xai i£ei xal (i&ve a ad Amorem transferri.
Apposite Riickertus Piat. Theaet. laudat p. 162, B. /n) SXxeiy
itpos xo yvpradiov dxXjjpov rfdrj orta (h. e. aetate provectiorem
atque corpore robustiorem) rc5 8 fc 61 } vecoxipoo re xal vypotipcp
ovxi TCaXaUiv . 6 vppixpov 8 i x&l t5 - y p aS 18
iaS. Acute vidit Astius, dvppetpoY referendum esse ad
7tepi7Ctv66E6$ai, Amor enim, quia potest itav xq itEpiitxvddE -
C$ai, recte dvppsxpoS vocatur. Itaque ne hic quidem audiendus est
Orellius, qui dvppEXpoS pro (Svjijiixpov legendum
putabat. Aristaenet. I. 1. p. 4. ed. Abr. ov xcd pivxoi dvppsxpa xal
xpv - pEpci. xrj5 Aat8oS xa plX 7, coS vypo<pvcZs avxtjf
XvyiZEdSai ta odxa ro3 7CEpi7txv66opivcu. Stallb. Ficinus habet in
con- versione: aptae vero t compositae jlexibilisque formae ,
vitio, ut videtur, typothetarum. Non du- bium enim est, quin
scripserit: apte vero compositae et quae •eqq. o 8rj
diatpepovTGoS Pronomina relativa haud raro praecedentis nominis ,
ad quod grammatice referenda sunt, genus non sequuntur, ut
indice- tur, nomen collectivum, quod vocant, ipsum illud nomen
esse, atque complures notiones in so continere , quae genere
neutro pronominis relativi consummentur. cfr. Matth. Gramm. ampl.
$• 439. p. 820., ubi et noster locos laudatur, sed addita auto
SiaqjepOYXojS vocula xai t quam ex optimorum codicum auctori- tate
Stallbaumius expunxit, Riickertns uncis inclusit. Eandem prorsus delere
Y. D. noluit, quod vim habeat h. 1., quae ad rem paene necessaria
videatur. Etiam Bekkerus xai expungendum cu- ravit, neque idem in
Ficini con- versione expressum est: qua (sc. figurae
concinnitate) Amor omnium maxime procul dubio decoratus est. ?/ xax
* aY$ij 8 ia ix a. Notabis levitatem argumentabdi, quasi non cogitari
possit, ejun, qui deformis sit, pulcra amare, turpia fugere.
Respexisse vi- detur Agatho ad proverbium, quo Cap. XEX.
IIcqI /J-lv ovv xdklovg tov &bov xal tccvru txavcc, xal l'rc
itoXka Xtfottzai. Jlcgl ds agsrijg "Egarog (X£t« similis simili
gaudere dicitur. Verum noti probatur tamen eo, quod probandum erat hoc
loco. Se- quentia verba quod attinet , ov 6* dv ivavStS te xal evo
odtjS roitot y), ivxavSa xal i£ei xal pavet, cfr. Soph. Antig. v.
781 seqq. "EpooS dvixaxE pdxctv *EpcoS y o? Iv xxypadi
niitTEiS o? iv paXaxalS napsialS r e dy id o S ivvvxzv eiS •
Adde Aristaeueti Platonicorum verborum imitationem II. 1. p. 73.
Abr. avavSet yap xal anrjv^ijxoxi dojpaxi ov netpv- xe TtpoSulavEiv
6 "EpcoS, nspl Sh dpetijS x. r. A. Laudat Agathio AMORIS virtutes ita,
ut,eius iustitiam, temperantiam, fortitudinem, prudentiam ordine celebret
j quae quidem virtutum cardiualium, quas vocant, recensio et ipsa habet
nescio quid inanis ostentatiouis atque redolet ingenium hominis, qui
praeter poesin etiam philosophorum sapientiam degustaverat , sed fortasse
nonnisi primis labris degustaverat. Observes praeterea, quam
artificiose Agatho verba composuerit, quara lepide paria paribus
retulerit et ut similiter caderent, elaboraverit, S tali b. otid’
afiixei. Prorsus repugnant haec cum aliorum poetarum sententiis, tum iis, quae
apud Sophocl. leguntur in Antig v« 191« dv xal dtxaiav
aShtovS (ppevaS napadnaS ini Xcofict dv xal zo6e veixoS
dvdpcov B,vvatpov %x £l S rapd£aS. ov te y a p avtoZ
piet 7t uCxti* xi re a <Sx £t ‘ Haec verba Schleiermacherus
convertit : Denn weder widerfahrt ihm selbst gewaltsam, weon ihm etwas
widerfahrt. In Schulthessii conversione exstat: denu er selbst leidet nie
Gewalt, es wi- ' derfalire ihm, was da woile. Ficinus verba
interpretatur: non enim ipse vi patitur, si quid patitur. AvxoS
pronomen ita explicandum est, ut oppositum 1 cogitetur verbo cuidam,
quod nunc non comparet, quoniam structuram verborum, quam in
mente habuisse videtur, Agatho immutavit. Dicturus videlicet erat :
ovxe yap avxoS pia na<Sx £l > Xl itddxsi' — ov r* d A A
o s oSxiS ovv pia nadxtt x. x. A. Structurae verborum ita mutatae,
ut cogitatam structuram singula verba sequantnr, quae cum structura
revera posita uon satis conveniant, exempla non rara sunt atque a
grammaticis ita explicantur plerumque, ut ad sententiam, non ad
verba directa esse dicantor. Verba pia icadx^i quod attinet,
quaeritur, qui fieri possit, ut aliquis patiatur aliquid, neque
tamen plexv experiatur. TlaSoS enim ne cogitari quidem potest
nisi coniuuctum cum vi quadam ex- ruvTu Aexteov. to fiiv [ityiOrov,
ou "Egag ovt’ dSixEi • oik’ udixEitai ov&’ imo 9eov ovte
&eov, ov&’ vn av- %QUitov ovte av&Qonov. ovte yaQ
avrog (Ua nuOyEi, si' n ita<S%ET m (ila yaQ "EgaTog ov% uxtetcu '
ovte xouiiv jtoiEi onag yccQ ixav "Equu ndv vji)}$eteZ' cc 6’ pv
C trinsecas illata. Ov ftitt jradxEl contradictio est in
adiecto, quam rocant, quam hic admissam esse ab Agathone admodum
dobito. Aliud quid poeta videtur expri- mere voluisse illis verbis ,
quod quid sit » e rectius explicatis et T i 7tadx £t verbis
patebit. Supra monuimus annotat, p. 169. Grae- cos haud raro , ubi
infinitivus verbi alicuius ponendus esset proprie cum finito aliquo
verbo couiunctus, omisso hoc verbo in- finitivum eo tempore
collocare, quo finitum verbum ponendum erat. Sic legitur Piat.
Alcib. I* p. 106. c. 7. ovxovv Tctvrct fiovov oldSa, a netp*
aWcov ipaSeZ rj avtoS i%evpeS , quo loco iam supra monuimus,
oidSct positum esse pro eldevat Af- yeiS, Eodem modo Agatho nostro
loco ad fubulas quasdam respiciens, in quibus rtdSrj Erotis narrantur, et
r i itauSx El posuit pro et xi itadxsiv A eye- rai. Hinc sententia
verborum existithaec: Weder er ist es, der etwas erleidet, wenn man
ge- xneinlich sagt, dass er etwas erleidet, cett. filet autem
positum est , ut eo 7cddx £iy verbi potestas augeotur, ad utrumque autem
negatio praecedens tanquam ad notionem unam refertur. ov re itoidov
Ttoiel. In paucis quibusdam codicibus, in Vindob. uno et Paris, uno
itoidov participium non comparet, hinc Bvickertus ad h. 1.: habet,
inquit, primo adspectu speciei non- nihil haec omissio, quid enim
iucundius procedit, quam haec oratio: ovte avtoS fila Ttddxsi, ovte
itoiei ? neque tam necessa- ria est h. 1. conditionis additio, quam
altero iu membro; agere enim Amorem aliquid nemo du- bitat, utrum
patiatur an minas, incertum. Attamen non puto n Platone omissam
vocem esse, sed solam duarum similium viciniam hanc lectionem peperisse.
De hoc genera corruptionis vide quae annotavimus. Praeterea codices
nonnulli exhibent ovte filet noiGDV noiei, quod ab iis additum est,
qui bene sentirent, fila nostro loco e praecedentibus repetendum
esse. Sed ut clarius videas, fila non Platonis manum esse, posita
vox est in loco ineptissimo, eodemquo modo se habet, quasi supra
scri- ptnm exstaret ovte yap avroff Ttddx&f st Ti fila Tta6x E
t* naS yap kxcov. Si dixis- set poeta b<Gjy dixovrl ye
Sv- jMp, nemo eius verbis offendere- tur. 'Exgdv nude positum
mul- torum poetarum de saevitia Amo- ris querentium refutatur
exemplo. Moneo haec, ut habeas, quorsum referas verba Socrati- ca
p. 198. E. to dpa OV TOVTO 1}V TO ■HOLXgjS htOLl veiv ltiovv y
aXXci to coS pe- yidxa dvctTiSlvcti tgj npdypart xat oo» HaWtdTUp
idv te y ixmv Ixovtt ofioAoyydy, cpadlv ot itoAtag padiAijg vopoc
dlxaia tlvca . itgog ds ry dixaiotivvy daxpgodvvyg hAeI- tizyg iitxk%u.
ilvai yag opoAoyElzae dGJtpgodvjnj r 6 xgp- r elv ydovav xal lsu9v(uav 9
"EQCozog $6 [lydsutav ydo- vi]V xqeizzco uvae. eI 6e ytzovg,
xqozolvz’ av vtc "Ego- rog, 6 de xgaz ot. xgarcov dh ydovtdv xal
Irtidv/iuav 6 "Egeog diacpEQovrcog av Gcocpgovoi. xal fiyv stg ys
dv~ D dgsiav "Egooze ovde "Agyg dvftlGrarai. ov yag e%el
"Egeor a * 'Agyg , dAA’ "Egeog "Agtj, 'Atpgodlryg, wg
Aoyog. xgeizzcov ovtajf $xovTO£ f iav re fiTf' el tpevSrj,
ovdtv dp * tjy Ttpay - pa. Nostro loco Erotis aequi- tas probanda
erat, quod quibus fieret argumentis, verisne au falsis, non
magnopere curaba- tur. fn sequentibus verbis d 6 * dv Ixojy e
paucissimorum codi- cum auctoritate tiS ante kxcov positum
servarunt Bckkerus, Stallbaumius , alii. Riickertus, quem secuti
sumus, voculam ex- punxit. Qui factum sit, ut in ordinem verborum
irrepserit, per ae intelligitur. ol noXeco? /SadiXijS
vd- poi. Haec Bodleiani codicis lectio est. Florentini
quatnor fiadiXixrjS habent, vulgo ftadi- X ilS legitur. Bastius
conferri iu- bet Arist. Rhetor. III. 5- tqdy ndXecov fiadiAelZ
vdpovS. In Piat. Gorg, p. 484. B. dictum Pindaricum laudatur: vdpoS
6 ndvTcjy ftadi\f.vS Svcctqjy te xal dSavdtGJV. elvai
yap opoXoy eit ai 6<o<p p o dv vt) . In Definitio- num
libello 'Platoni vnlgo ad- •cripto p. 412. A. legitur: do>-
tppodvvTf o perpidtrjS ttjs i>vxrf$ irepl tds iv avr?j xata
<pvdiv yiyropevccs &m$vpias te xal ySovaf.
eficep/iodrla xal eu- taB,ia ipvxyS xpds rds xatei tpvdiv ijdovd?
xal Xviraf. Adde Aristot. Rhet. I. 9. ~GD(ppodv~ vrj dpetr}y 6i'
ijv npoS taS 7/<5o- vaS tov dajpatoS ovta>S %X ov- diVy goS d
vopo£ xeXtvei. Ne- que aliter monente Stallbanmio ad h. I.
da)(ppodvv7]Y definit ipse Plato, cfr. Phaedon, p. 68. C. de rep.
IV. p. 431» A. xpat&v i}8oygjv. Fa- cta conclusione hac
nemo non videt, in dwtppodvvjjy aperte illudi ab Agathone, homine
hu- ius virtutis, ut videtur, expertis- simo eodemque Pausaniae
amasio, quem non puduit Xenophonte teste Symp. c. VIII. 32. dnoXoyeldSai
vitep tgjk dxpa- dia dvyxvXivdovpevcDY. Sed non dubium est, quin
ipse Agatho behe senserit, huiusmodi nugas sophisticas auditoribus
minimo probatum iri. Ut igitor haberet, quo posset futurae
convivarum reprehensioni sese subtrahere, in fine orationis suae
haec appo- suit: ovto? — o nap * ipov XdyoS — tca 3eoj
avaxeioSco, rd p\v Ttaidids ta 81 ditov - 8ijs petplaS —
perlxoJY. xal pyv - — eZs ye . De *
/ ds 6 ffccav rov ixofiivov. rov d 9 dvdgBioxdtov rcov
&U.C3V xgaztov stuvrav dv dvdgEiorarog sYrj. xsgl fiiv ovv
dixcuoOvvrjg xai OcocpgoOvvyjg xai dvdgelag rov fteov BiQqtca , TtEQt de
Oocpiag teliterai. o6ov ovv dvvcctov , nugaxeov f vi ) Ikteinuv. xai
TtQwtov pav , iv 9 av xai iycb x t\v fj^Exigav xeyyr\v n^6co, agneg 9
Egvlzt[ia%og rqv iccvxov , Ttotrjrtjg 6 {#£05 6o(pog ovxcog, Sgts xai
dklov E %oii\dai % ndg yovv itoirprig yiyvEtai , xuv cl[iov6og $ ro
xgiv , ov av "Egcos aiptjtau to drj ngirtu Tjpag pug- Kai
fiijv — ye voculis vide an- notat. p. 64. Patet autem, Ho- mericam
narrationem hic taugi, quae legitur Odyss. VIII. v, 267» seqq.
Ceterum non opus est, ut ad A<ppo8ixt 7? nomen , quod fiaullo
infra legitur, nomen ap- pellativum ipaS suppleatur. Dei enim nomen
saepissime appella- tivum nomen simul exprimit. Unum exemplum ut
laudem, legitur p. 197. B. o$er 6r) xai xaxstixEvddSrj 'xeov $eojv
tot itpdypaxa "EpcoroS iyysyopi - vov 8t]\ov ori
xaAAovf. it Etp ariov ptf l\\ei- 7 tEiv. AeiitEiv verbum cum
iv praepositione compositum iis verbis adnumerandum est , quae
amissa vi transitiva non actio- nem aliquam exprimunt, sed ab-
solutam verbi notionem indicant ; iXXflitElv icitur idem significat
atque iXXEiieoyra elvai . Hinc accedente indicio rei, quam ali-
quis praetermittit s. negligit, ge- nitivus casus exhibetur, non accusativus.
Vide , quae de hoc genere verborum diximus p. 87» tv* av xai
iy cJ. Tres Bekkeri codices exhibent 7va ri xai iyoo. Non male. Sed
nihil videtur mutandum esse. Etenim av vocula
reiterationem signi- ficat actionis , quae indicata est p. 186. B.
tva xai TtpEoflevoo- fiey r tjv xtxvrjv ; xai autem pronomini
additur, ut significan- tius indicetur, aliquem olim fuisse, qui
idem fecerit. Verum inest tamen nostro loco, quod attentiorem
lectorem merito of- fendat. Nimirum notum satis est atque a nobis
commemoratum annotat, p. 5., Graecos scriptores comparationis membra
ita exhibere, ut nat iu posteriore comparationis membro
ponant, quando idem in priore positum sit, contra id illic
omittant, si in priore comparationis membro non comparuerit, Iam
nostro loco, quoniam &$7tEp vocula duae actiones indicantur
inter se comparari, Platoni scribeudum erat vel dicendum Agathoni ex
prae- cepto supra laudato : iv av xai iyoj t?/V r/jiExspav xix v V
y Tl ~ ptjdco y GD^TtEp xai 9 EpvB,ipaxoS t 7}v kavxov sc.
ixiprjdev. Potuit etiam hoc modo haec enuntia- tio proferri : tr *
av lyco x tjv rjpexipav xkx v7 l v Xtptjdoo, u tS- 7Up 9
Epv£i/j.axoS xtjv kavxov. Exemplum est xai in compara- tione
dupliciter positi Piat. Phae- don. p. 64. G. tixiipai 8ij , <3
14 ^ - A xv (fla xofi<S%ai , 3« xoiTjttjS o ”Eqg>S
«yafrog lv xecpcc- lala ituGciV noiri<5iv rt]v xaxct (lovOutrjV « yciQ
ng i} flfj ?J(El 1 J fd/ oldtv, OVt’ Sv BTEQCp SotT] OVl' CCV «AAoV
’ya$h , <fav apa xarl 601 E,vv - doxy , a«rtp wai. i/io/.
Alia huius structurae exempla Stall- baumius laudat nnnot. ad
Piat. Apol. Socr. p. 22. D. Nam praeter nostrum locum aliud
ex- emplum apud veteres scriptores reperiatur, quo in priori compa-
rationis membro xai positum, in altero omissum sit , vehementer dnbito.i
ita 5 yovv nonjxifS y i- yvEtat x. X. A. Audi Stallbau- mium
annotantem ad h. 1.: Al- ludit iudice Valckenario Diatrib. in
Eorip* Fragm. p. 207* ad versus Steneboae Euripideae :
iroiTjxtjv 8* dpa. *EpGo£ 8t8d6xei xdv apovdoS y xo npiv .
Quae sequuntur verba, aliquid vitii contraxerant, quod facta verborum incisione
duplici optime sanari videtur. Annotat Stallbaumius : Ne quid desideres
in verbis sequentibus, rtuoav noiy- 6iv X7jv xata povtiixyv
arcte connectas cum ctyaSoS. Perperam enim in vett. editt. post
ayaSof interpungitur. Addit vero xj)v naxa jiovdixtjv propterea,
quod deinde TtoirjtitZ et itoirjxyS la- tiore sensu de cuiusvis
generis procreatione et generatione dicit. Itaque nunc de poesi, quae
in carminibus pangendis cernitur, cogitari cupiens , commemorat
jcoltjdiv rrjv xaxd povdixtjv Exhibet Schleiermacherus in con- versione:
Uml zucrst nun , damit auch ich uusere Konst ehre, Vtie Eryximachus die
seinige, ist der Gott so knnstreich (dotpoS o vxgoS') ais
Dichter, dass er uuch andere dazu macht. Iedcr wenigstens vrird ein
Dichter» war er auch den Musen frerad vorher , den Eros triilt.
Was wir also wohl koonen ais Be- weis brauchen dafiir, dass
Eros ein trefdicher Kiinstler ist ( [itotij - X7/S ayaSoS) iedes
hervorzubrin- geu , was zur Konst der Musea gehort. Ut
Schleiermacherus, ita ceteri interpretes non satis ac- curate
interpretati sunt verba docpoS noiyxyS et dyaSoS noiy- xyS , quorum
verborum rectio^ explicatio viam aperit totius loci rectius explicandi.
Eryximachus medicos, ad cuins exemplum Agatho suam artem
celebraturas est, de theoretico et de practico medico {xexyixoS, ,
iaxpixco- taxoS et dyaSoS SypiovpyoS) disseruit p. 186. C. et D, ;
vide annotationem p. 131* Puri modo nuno Agatho de theoretico et
de practico poeta agit ita, ut docpov itoltjTljv vocet eum, qui
poeticae artis theoriam calleat, dyc&or Ttonjtyv practicum*
poetam no- minet. Mens Agathonis igitur haec est : Die Theorie der
Dicht- kunst liat der Gott so iune, dass cr auch andere iu
Dichtern macht. Ieder wenigstens wird ein Dichter , den Eros
ergreift» wenn er vorher der Dichtkunst auch nocli so fremd war.
Quae sequuntur, revocata post ayaSoS interpunctione vulgata hoc
mo- do scribenda sunt : co 8y TtpETtEt ypdS papxvplcp XPV O^ai,
oxt tcoiyxyS o^EpooS ctyaSik, lv xz~ vSida^nc. xccl [ilv di]
zijv ye rav £aa v holt]6iv nuvzmv 197 rtg lvavtt(i}<Stzai ]iij ov%i
"Eqotos tivca 0o<plav, y yiyvt- zat te xai cpvEzai navza tu £wa;
aXka zyv rav zr/vuiv qraXaioo Ttaticcv xohjdiv , rrjv , Tiarcc
povdixijv. Sensus est: Dies raag uns zum Beweise die- nen, dass
Eros practischer Dich- ter ist, wie iiberhaupt in aller Kunst, so
in der, welche sich auf Poesie bezieht. Sed ne hoc quidem modo verba
Platonis satis recte se habere videntur. Fortasse scriptor exhibuit
ordinem verborum hunc : iv xecpa- A aleo nadav noitfGiv, xata trjv
/iovtiixijv. a yap riS i} fi rj 7 ) firj ol 8 ev.
Praecedentium ver- borum explicationi favent ix £ltr et eidevai
verba, quorum alte- rum ad artis- usum, alterum ad eius theoriam
refertur. Idem ia sequentia verba cadit didovai et SiSdtixeiv.
Ceterum cavendum est, ne quis ovre dv praecedente ovte av minus
elegans iudicet aut rei exprimendae non satis conveniens , ideoque
facillima litterulae unius mutatione scri- bat ovre av:
frequentissima est, Stallbaumio annotante ad Plat. Apol. Socr. p.
81, E. in huius- modi dictionibus dv particulae repetitio. Sic in
Apol. Socr. loco laudato legitur — ndXai av anoXdoXr) xal jovt’ dv
vfidf cocptXijHTf ovSev ovr* dv ifiav- rov. Addit Stallbaumius
Piat. Fhileb. p, 43. A. SrjXov 61 } tovro ye, do Saoxpdrrff,
coS ovre ijdovj) ytyvoix* dv iv r<w xoiovrco itork, ovr* dv ns
Xv- TtT}. Xenoph. Hier. V. 3 . dvsv yap tijS tzoXeodS ovr* dv
6qjZs- 6 $ at Svvairo, ovr * av evdai- ftoveiv .xal p.\v 81} tTfv
ye. Pi- cinus in conversione: Quod uti- que per Amoris sapientiam
ani- malia cuncta gignautur atque nascantur, quis dubitet?
quod sane negligentius est interprer tandi genus, quandoquidem
xai ftlv 87 } — yk vocularum potestas delitescit. Fischerus scribendum
censuit xa\ ftijv 6?/, quae nonnullorum codicum hodie ab omnibus
editoribus improbata lectio est. Kal ftkv 8rj — yk eadem prorsus
potestate adhiberi videtur atque xal firjv — yk, do quo vide
annotat, p. 64. ; utrum- que enim ita ponitur , ut commemorari
significet, quod aut praeter exspectationem accidit, aut quod fidem
superat hominum, aut in rebus summae gravitatis. aXXa ovx — t
dfiev. Le- nis ironia htiic dicendi generi inest, quae adhiberi
solet, ubi plane fieri nequit, quin nesciant, quod nescire
confitentur, qui ita loquuntur. De aitofialveiv verbi tropico usu
vide annot. p, 88. Aoristicum autem tempus positum est de re, quam
experientia docuit, cfr. annotat, p, 144. Ceterum Hesycluus, quem
Stallbaumius laudat, habet: tpavov' '(pcorei- vox xal XafLTCpov .
Apte Schlei- crmucherus: in Ruhm und Glanz . ' %
r o&ixijv ye ft?}v. ri particula argumentatioui inservit
ita, ut indicetur, alia multa ex- empla ailerri posse , sed pauca
nunc sufficere. Diximus de hoc osu yk particulae anuot, p. 85.
14 * di/f uovpyluv ovx ttf/uv, on ov uiv av o deos ovto$
61- 6i«5xcdos ylvrjtai, iXA.6yi(ios xal (pavos axe^rj , ov 6’ av
"Epa s (irj iyayrjtai, Gxozuvog ; to\ixi { v ya f irjv xal latpixrjv
xal pavtixqv 'AxoXXaiv uvevpev, ixidv- (ilas xal "Epotos
rjyefiovevGavtos , dgte xal ovtos Ii "Epotos av iitj (la&tjtris,
xal MovOtti fiovGixrjs xal "HtpaiOtos %«A)££ia:s xal 'Adrjva
iOtovpyias xal Ztvg xvfieQvijGEos &edv te xal avdpdxov. < o&ev
61 ] xal xatsOxEvdadi] tdv de ov tu xpayiiata "Epotos eyye-
et p. 1S6, In seqnentibns ma. iuscula littera scribendum curavimus
Erotis nomen , ut alibi saepe, nal enim h. 1* explica- ti vum est,
de quo vide anuot» p. ISO. p. 132. «1, De ijyti- <53«i , verbi
absoluto usu supra dictum est annot» p. 59. nal Movtiai
ftovdinr,^. Magnopere in explicanda horum verborum structura
interpretes se torserunt. Astius eam ita expe- dire studuit, ut
nominativos ca- sus ad avevpev referendos censeret et ad pc&rjxijS av
ebj, genitivos autem casus e verbis imSvplaS nal "EpootoS
ijyepo- vavdavxoS e praecedentibus repetendis exaptaret. Annotat
Riickertus ad h. 1. : Simplicissimum hoc esse videtur, ut proxime
praecedens membrum GdfXB — fiotSrjTTjs plane negligi in seqq»
dicamus et quasi in’ parenthesi positam, de reliquis autem sic
statuamus, sensisse Agatliouem, AMOREM illum, quo duce Apolli- nem
dixisset artium inventorem exstitisse, non esse alius rei, quam
ideae artis , apud mentem couceptae et spectatae; quum igitur dicendum
esset Mov6ai pQvtiiHtfv avtvpov"EpGotos ijys-
povev6avroS 9 quia povtiinrjS ille AMOR esset , contrahentem omnia
haec, quae plene posuisset de Apolline, unum in membrum, subiectum
posuisse, omisisse praedicatum ex superioribus repetendum, suo cum accusativo
supplapdo illo ex genitivo, quem apposuit, quique ab ’'Epa>Ti
aptus est, quod et ipsum supplendum. Stallbaumius ad nominativos e superioribus
mente repe- tendum censet * EpcotoS av elrj- xSotv paSrjxai , ut
genitivi pov- 6ixi}S , goAxela? cet, a nomine jia^rftai peodeant. —
Et Astii et Riickerti contortior est expli- candi ratio. Quam
Stallbaumius laudat, ea proxime ad verum ac- cedit» Nollem autem,
genitivos jiovdtxf/S, xodneiaS cet. cum pa- Srftai coniungendos
ceosiiisset. Nihil certius est, quam pov6i - HfjS ceterosque
genitivos ab Ero- tis nomine regi , quod in verbis supplendis
"EpaxoS av elrj6av pa% 7 }Tcti continetur. Musica au- tem ut
xoB,vnr} 9 laxpinr}, pccvxi - Tcrf . inventa est imSvpiaS nal *
EpcotoS (sc. povtSinijS xo^tni)S f iaxpintjf, cet.)
rjyepovEvtiavxoS. Ut igitur Apollo, illarum inventor artium,
paSijXrfi vocatur Erotis, ita Musae , musicae artis inven-
tSTMnomoN. vousvov dijkov ori xakkovs' ai6yti yag ovx l'm-
driv "Egeas- n go xov 61 , togjr tg tv cegxfi tinov , jroA- la xal
duva fnois lylyvsto , tog Uyttai , dia rfjv rrjs 'Avceyxrjg pcctidttciV
Inudi) 6’ 6 &eo$ ovtog %<pv, ex rov igccv zav xcdeav navi’
aya&ct yiyove xal C ^ £0 r S xal txvftguTtois. orneas fftol 6oxu,
<J 6gs, ’ 'Egeas ngeotos avros uv xalXmos xal agi- «jtos
fj.tr et rovto tois akkois akkeov zoiovxeav ai- nos elvai.
trice», hoc loco diicipulae vo- cantor "Epatot /jovOixfjS , Vul-
canus discipulus EpGaTOS X a ^-~ xelaS x. r. A. xa i -ZevS xi
ipepvg tSea>S. Mira lioc loco codicum varietas repentur, cuius
originem caus- samque frustra quaesivi. Unde- cim libri Bekkeri
exhibent: HV- fispvdv pro HvfiEpvi/dEGoS , tres alii apud eundem
HvfiEpvdv xa habent, in uno xvfitpvwv repentur. xqdy S ecvv
xa itpaypa- x a. Iutelliguntur rixae illae, quarum iam supra Agatlio
mentionem fecit p. 195. C. : xa S\ TtaXaia npaypaxa nepl ScovSf et
quae paallo infra verbis insigniuntur: noWa "nat Stiva StolS
iyiyvEXO. In sequentibus "EpooxoS iyyevopivov Sijlov art
TidXXovSj rursus nomen proprium ita positum habes, ut simul appellativi
nominis potestatem ob- tineat. Hinc xff AAouf geni- tivum
explicabis. aldx Y*P ovh iite- (St iv *EpoS . In Basii, uno
legitur ivEdtiv pro SltEdxiv. Unus Paris, paucissimique ulii libri
exhibent idtiv ; Porsonius Advers. p, 58. tvi scribendum coniecit,
qua coniectnra facile caremus. Ut supra dicitur p, 195. U.
ovh ini dnXrjpov fialvEi aAA Ini paXSaHoi ), ita quidni hoc
loco dicatur: aXdxti ovh inedxiv ? Neque audieudus est Astius,
qui collitis verbis p. 201. A. al - 6xpMV ydp ovh Eli] " EpGJf
scri- bendum esse ceusuit aXdxovS ydp ovh Idxiv "Epcof.
JlpdjxoS avxoS «jv ndX- \ldxoS. Ficinus habet in conversione l Ila
mihi videtur , o Ehacdre , AMOR ipse primum pulcherrimus optimusque
esse, Legisse igitur videtur npcZzov pro npoozoS. Illud etiam
apud Stobaeum reperitur, atque WolHo adeo placuit, ut in ordinem
verborum recipiendum duceret. Fru- stra. Agathonis mens haec est:
Ante natum Erotem pulcrum non erat; ille omnibus et diis et hominibus
pulcritudinis auctor; ipsuna igitur deum prius, quam omnes, alios,
pulcherrimum et optimum fuisse necesse est: nam quae quis
ipse nou liabet, alii haud facile largiatur (vide p, 196. E.
fin.) iitlpxeta* V 01 k' *• «ubit me dicere,
valetque IxipXitiSai de ea memoria, quam no« verbo
unwillkuhrlich ’ 'E7ciQ%eTttt, SI fioL n xal lymttQOV tlneiv, ott,
ov- zog bsziv o xoicSv elprjvrjv fiev iv dvSpaSicoif, iteXdyei Sh
yaXrjvrjv, vrjvepiav dvifjoov xoizrjv , vicvov z’ ivi xijdeu
insignimus. Ceteram nt versas p. 195. D. ita laudati sunt, ut sua
mollitie, quae cum in ipsorum verborum placidissimo quasi flumine, tum in
finibus similiter cadentibus conspicitur, Agathonis ingenium ad mollitiem
proclire depingant, ita nostri loci versus non dubium est, quin
habeant in se, quo Agatho notetur. De qua re nemodum' interpretum
quic- quam annotavit. Notatur autem, •i quid video, in bis
versibus artificium, quo siugula verba carundem litterarum
repetitione iuter se comparantur. Sic pijvrjv ykv iv av $ p
QJitoiS positum ita habes, ut inverso ordine, quae litterae in
verbo eipijvrjv continentur p et r, easdem habeas in
dv^JScoiCoiS nomine positas; idem cadit in sequentia verba
iceXdtyst 81 ya - %l}vijv. Idem artificium in verbis VTjvepiav dvejiGDY
conspicitur, sed auctius et clarius, quod verba sunt eiusdem
radicis. Restat, ut de xoIzt\v vicvov z 3 ivi xr\8ei dicamus, in
quibus videmur equidem nobis aliquid vitii deprehendisse. Lectio
vulgata ivi jajSei a Bekkero, Stallbaumio, aliis iu ordinem verborum recepta
est , ac Stall- bauraius quidem ivlxijSei ita ex- plicat, ut esse
dicat iv zols xtj- dopevoiS, Accuratius opinor verba ivi XjjSei
explicantur zt6lv ivi xr\8ei ovtfiv. Sed sire hanc, sive illam
explicationem probes, certum hoc est, hominum, maris, ventorumque
praecedente men- tione non bene commemorari zovS x?]8o/.iivov£ s.
zivds iv xrj8ei 6vraS t et cum eipijvrjv iv dv$poJ7toiS non aliter
intelligi possit, quam iv xijfiop.lv oiS, hoc loco iv x?j8ei
admodum friget. Ac ne quis cum Stallbaumio censeat, non offensurum
ess^ queroquam iu sententiae ratione parum di- ligenter expressa,
qui meminerit, Agathonem hos versiculos ludere a Platone iussum
esse , ut sibi ipse quasi illuderet: alio loco de consilio Platouis
dicemus, excusationem autem Stallbaumianam quod attinet, vide, ne
probata ea, ne manifestissimum qui- dem in huiuscemodi versiculis
vitium mutando tollere possis. Quicquid euim vitiosum ibi deprehenditur,
poetae, non scribarum negligeritiae vel ignorationi imputabitur. Magna
autem est in codicibus varietas lectionis. Ero vicvov Z 3 ivi xi/Sei
Vindob. unus habet vicvov ze vtxrj8et . Quatuor Flor, aliique non
pauci vicvov ze vrfxijSij s. vicvov ze- vijxi]8ij exhibent. Hinc
variae doctorum hominum coniecturae. Dindorfius scribendum
censuit: vijve/dav dvipoiS , xoiry vicvov vrpoj8ij.
quae coniectura verissime mo- nente Stallbaumio propter zi
alie- no loco positum improbanda est. Vix commemorandum Bastii
commentum est vicvov z 3 ivi yij^tt, Ficinus, quem veram Platonis
mu- ovtos ds rjficcg dJJoTQioTijtog fiiv xtvoi, olxetoTTjtoe D fia
nJrjQol, rag TOiagde |j woSovg (itr’ dZJ.Tjt.av natiag u&tlg £vvi tvai,
iv toQTatg , Iv %oQolg, Iv Ovoiaig yi~ yvojuvog rjyifiav ’ jrpaorijra
[ilv x oql^ov , aygwTTjra nam habuisse suspicor, versiculos sic
convertit: qui pacem lar- gitur hominibus, qui mari tran-
quillitatem, qui ventis requiem, cubile viventibus omnium- que (
Stallbaumius somnum- que rectissime censuit legendum) securum.
Viventibus autem verbo adhibito animalia, ut videtur, exprimere voluit,
quae videtur et ipse Agatho in mente habuisse, sed more poetarum
ad- hibito unius animalis nomine expressisse, ad quod nomen
reperien- dum ultro duxit TteXayovS com- memoratio. Scripsit enim
Piata: : KoitTjvvitvov r * irlxtjte t Ut autem melius intelligas,
quam facile xtftEi in xijSst mutari po- tuerit: Hesychius xijtei
affert pro dTEprjdEif iprjpla, dicens xrjroS esse non solum
«Snr- \ol66iov ix$vv nappEye^rjy sed etiam ait o piar . Iam
aliquis olim Platonis commentator non indoctus, cum xjjtEi de fero
marino non intelligi posse opinaretur, dc ait opia verbum dictum
intellexit, atque, ut intelligentiae faciliori versiculorum
consuleret, xffiEi scripsit. Ut autem praecedentia verba earundem
littera- rum reiteratione inter se compa- rantur, ita nunc Sioiirjv
et xrjTEt eodem ornatu gaudent. raS roids 8 e b,vv 6 8 ov S
fitz* aWijXtoy, His verbis conventus significantur similes A-
gatlionis convivio. Ilinc uiiuus accurate legitur iu, Schulthessii
conversione p. 105: indem er manclierlei Vereine und Zusam-
menkiinfte stiftet. Schleiennacherus verba convertit: Und dieser eben
entlediget uns dea Fremdartigen und sattiget uns mit dem
Angehorigen, indem er nur solclie Vereinigungen uns unter einander
anordnet cet. Non reddidit V. D. itddaS vocem, quae et nobis
molesta est. Si quid video , vitium liis verbis iuest, quae hoc
modo emendari videntur: raS toiasSs gvvodovS juet' d\Xi}Acjy narras
ti$e\s B,vv- ikvai. Ne quis autem hanc scripturam iusto audaciorem
censeat, facile fieri potuit, ut scribarum aliquis, cum praecederet
feminini generis substantivum, ad id dirigendum censeret itavraS
ver- bum , idque in itatiaS mutaret. Sensus est: Hic solitudinem
a nobis cohibet, familiaritatis stu- dio nos implet, quippe
huiusce- modi conventibus omnes inter se conciliari iubens. Quae
sequun- tur nopi^Go^, i&opiZooy partici- pia optime a
Schleiermachero conversa sunt : Mildheit dabei verleihend, Wildheit
aber zer- streuend. Captat enim Agatho et hoc loco et in
sequentibus syl- labarnm similes sonos. qn\o 8 <n p oS ev
psr siaS x. r. A. Haec verborum structu- ra , rarior apud prosae
orationis scriptores, propria est tragicorum poetarum , vide Matth.
Gramm. ampl. §. 339. p. 647. ubi prae- ter alia laudantur Soph.
Oed. C. 6’ 1!-oqI%cov' (pMSaQOS «vft tvuag, uS&qos dvgtit- vsictg’
iliag dyaSolg , Statos 6oq>oT§, ayaot og Seoig' iijXatos dfiOiQOts,
xtrjtos tVfioiQOig ‘ TQVcprjs, afigo- TJJTOg, JjAlfljjg, JJKpfcwv,
IflSQOV, XO&OV JtaTlJjJ ’ SJU, 677 . drrfve/tos xbcvtwy
xafiaj- rcav, Eurip. Med, 671. ovx idjuby evvrjs &%vysS
yapjjXiov. Eur. Phocn. 834. axex\oS (poc- pioov .
fAsca? ayctSotS. Consen- tiant codices in scriptura! quam FICINO in
conver- sione expressit: propitias , be- neficus, spectandas
sapienti- bus. Sed nemo non videt, aya - 2uS scriptura probata
singaloram huius enuntiati memborum concinnitatem turbari, qaam studiose
ab Agathone quaesitam esse supra annotavimus. Rursam igitur exemplum
habes corruptelae, quae omnium codicam consensa tuetur. Apud
Stobaeum ayc&o~i$ legitur, quod primas recepit Wol- fias , quem
ceteri editores secuti sunt. Mollities, de- liciae. Derivatum
nomen est a #1 /m verbo, calore solvo, mollio, deliciis
frango. Stallb. Timaeus habet Lex. V. P1 . x A 1 8 V * ZxXvdif
yal paXocxUx. tiprytai 8 e arro rov IxkictvSai a6$tvzia xov
Sepjiov, ad quae verba vi- de annotationem Ruhnkenii p, 176 .
i V 7t 6 Y6J, iy (pofiMy lv Tioyco x. t . A. Magno iugenii
acumine de his verbis egit Schu- tsias in Ltct. Platon. Specitn. I.
p. 4. Quam ibi verborum emeodationem profert, quamquam ut eliis, ita
nobis minas probatur, tamen ita egit V. D. , ut non sine fructu et
delectatioue lectorum eius dissertatio repeti videatur. Sententiarum, inquit,
iuter se relatarum oppositionem tur- batam esse, nullo negotio
perspicitur. Primum enim inter nova et A oyoj prorsus nulla est relatio,
quae inter (poficp et noSw satis clara intercedit , deinde qnorsnm
omnino hic iy A oyco pertineat, aut quam vim habeat, intelligi vix
potest; denique quatuor illi nominativi xvfiepvijrrji, imfiaTTji ,
napadrdtrff xai deo- rijp quomodo ad quatuor dati- vos iv itovGO,
iy <pofiax y iv no * £ca, iv A oyoj referantur, ut sin- gula
singulis ad sententiam re- spondeant, haud apparet. Itaque cum vix
credibile ait, Agath^uis operam in concinnitate senten- tiarum assectanda
positam extrema in parte claudicasse, librariorum culpa nonnulla hic
turbata esse arbitamur. Ut paucis defungamur, ita nobis Plato videtur
scripsisse : iv (poficp, iy itoScpy iy itovep, iv poyoo, xv-
fispvT/T inifjdxifi , Ttapadra- rrjS xcci 6cor ijp dpi6roS . Iam
primum totam imaginem e re nautica petitam esse existimamus. Nautis
eoim saepe timor nau- fragii, desiderium terrae, 1 a- bor in
difficultate navigandi, aerumna nauseantibus, fame periclitantibus
, cum tempestati- bus conllictantibus accidere solet. In timore igitur
illo quid guberuatore, in desiderio t fitXfjS aya&av ,
dfieAys xaxcov' iv nova , iv (popa, iv no&to , iv Aoyta xv^egvi/ttfg
, inifiarijs , n«QaOta- e zrjg *s xa\ (Jot?)p aptoroc, gvfindvrav ts
%ciav xal dv&QojTcav y.udfios, t)yeiiav xdXhtito $ xal cptSroff.
a quid socio itineris et comite ( irtifidry ) , in labore quid
auxiliatore (xapadxdxp) in aerumua quid s os p i t a t o r e (Gartij
pt) optabilius? Haec igitur officia uuum Amorem omnia praestare amantibus
docet. Deinde hac unius litterae mutatione unius- que vocabuli transpositione
hoc efficitur, ut 'singula singulis ad amussim respondeant. Ut
enim iv q>of$Gp ad malorum, sic iv arJ- ad bonorum
exspectationem refertur; ut itovoS molestiam iu agendo, sic poyoS
molestiam in patiendo designat; tandem xu- fiepv?jtrj3 ad tpuflov,
ixifiarijS ad noSov ( quis enim flagrantis desiderii sensum melirfs
lenire possit, qnam socias itineris, qoi- cam colloqueudo horas
tardius euntes fallere possis?) itapadtd- T rjS ad icovoVf
similitudine a remigantibus ducta, deniqne 6co- rr/p ad poyov aptissime
refertur. Haec Schutzii ingeniosa et periucunda explicatio ideo non
pro- banda est, quod codicum lectioni adversatur, quae et ipsa
com- mode explicari potest. Neque tamen Asthma verborum explicatio
placet , quam Stallbaumio probari video. Censet nimirum Astius,
Xdyov h. 1. bene habere, quod nouuisi inanes verborum similitudines
Agatho quaesiverit; ad negamus nos, quamvis o* fxv- $oS ICqd^tj , o
XdyoS djtajXeto apnd Platonem saepe reperiatnr. Verba iv ito vgj ,
iv iv xoSgo, iv Xoyw e * j AMATORIA depromta sunt, affectusqne
ama- torum exprimunt, donec congrediendi confabulaudique cum AMATIS potestate
fruantur. JIovoS curam denotat, quam quis animo coucepit AMASIO conspecto;
tpo- ftoS timorem, quo cruciatur, qui AMAT, ne ab alio AMASIUS
sibi praeripiatur, indicat; jr 6$oS DESIDERII summi indicium est, A
J-» yoS confabulandi cum AMASIO potestatem quaesitam describit. Atque A
ofov 7iv (jEpVTjzijS Eros dicitur, ut qui ilumen orationis
largiatur idque ad optatum finem dirigat, izoSov irtifidtTjS Eroa
audit, quod cupienti se adiungit, itapadrdrrjS iv <p 6(i& , quid
si- gnificet, sponte intelligitur, dc u- x ifp autem iv itovcp nc
quis opiuetur non recte dicr: periret amans, nisi Eros accederet
ani- mosque ac spem potiundi amasii adderet» eu XPV
Sittd&ott. Haec, est codicum plurimorum lectio. Vulgo dei
tnedSai exhibetur. Recte illud recentiores editores probarunt. Non
enim de ne- cessitate quadam hic sermo est, quam propter non possit
nou sequi, quisquis est humana condi- tione natus , sed de lege
agitur, quem quisque ipse sibi imponere debeat. Vide de 6el et XPV
ver- borum significata auuot. p. 12» Recte verba Ficinus
convertit: quem profecto sectari debet praeclarisque hymnis
venerari vir quisque cantilenae illius parti- %Qrj iittG&ca nrxvTu &v8qk
itpvjivovvxcc xakag, xalrjg adi]s jiBxejjovta , ijv i xSet ndvxav
&tav te xal dvxtQbjTtcov vorj(ia. Ovzog, tcpij , o jt ag’ ifiov
/16- yog , (o 0c/.l8qb , x aj &eoi dvuxu6&(j , xd jj.lv ■
itat- 8idg, x a de 67tov8ijg jiixQLtxg, xad’ voov lyo J dvvajicu,
jiixlxav. Cap. XX. 8 Efot&v tog de xov Ayd&avo
g nuvxug l'<pt] 6 ’Aql- exoSrjjiog dvu&OQv(lijatn xovg
tcuqov xag, wg icqizov- ceps, qaam Amor ipse concinit, mentem
deorum horainumque per- mulcens. — KaXijS post xaXojS positam
permulti codices non habent. Potuit facillime, cum praecedat
xaXdoS, scribarum in- curia vel addi vel omitti xaXijS, ln textum
id receperunt Bekke- rus et Stallbanmius,. Astius scri- bendum
censnit xf/S a o8?jS /iexe- Xovta y Orellius scribere maluit nati
rfjS oodijs /iexExovxa y Rii- ckertus verbum uncis inclusit* Sed
neque uncis opus est, ne- que mutatione verbi. — ‘7fv ^stXyoov pro
rjr ddcov SeAysi positum est, de qua verborum structura vide
Indices. ta /ilv itaiSiaS. Si quae- ris, quo consilio haec
verba ab Agathone proferautur, vide an- notat. p. 208.
dv aS o pv firj <3 av. Prorsus eodem modo in Piat. Protag. p.
334. 6. eItcovxoS ovv xavxoc avxov ol TCapovxeS aveS opvfSij- oav
goS ev Xiyot, Ut 1. 1. nu- dus optativus, ita nostro loco genitivus
participii opinionem ex- primit eorum, qui magno cum clamore
exsurrexisse narrantur, vide annot. p. 158. fiXlty avxa EiS
xov *Epv~ Zipaxov. cfr. p. 198. E. 7t(Xi El /17} B,VV7j8ElV
^GJTfpdxEl xe xal ’Ayd3covi dtivols ov6i TtEp\ xd ipcorixd. ,
itdvv av i(poftov/i7jv, /n) aitopi}<5<M)6i Ao'- ycov 8ta rti
noXAd xal itavxo- Sana eipt/CSai, vvv o/igdS $a fi ad quae verba
Socratis allocutio nunc refertur. aSs^S TtaXai 8ioS 5«-
'SiEVai. Suid. laudatus a Stall- baumio habet T. I. p. 48. ddtlS
8e8ias 8eoS Xeyo/iEvov n £oxi ini xgov xd /n} q>o(jEpa <pofiov
- /livcov. JldXai exprimendae praeteriti temporis notioni ita
inservit, st cum perfecto tem- pore coniunctum plusquamperfecti
temporis notiouem efficiat, quae cum praesente tempore aliquam
habeat couiuuctionem : Nuni frustra metus, quem ha- beo,
fuerat meus? Conve- nit cum hac notione Ammonii explicatio 8eoS
verbi: AeqS xal q)6(ioS 8ia<pipet. AioS /itv ydp i axi
ito\i>xpovioS xaxov vico- voia , cpufioS 6 i i} napavxixa
7CX07}6iS , 8io7tep t Hpo8oxoS iv xy xexapxy • ' H/ilaS ex « cpoftoS
xe xal 8eoS. Contra nbi cum praesente tempore naXai coniongi- .
rmg tov vsavtOxov ilgrjxoTog xal ctvtcS xal r<u &Ba. Tov ovv
22axQa.Tr) ilntiv (iAhparna tlg tov 'Egv^ifia- %ov , ’Aga Ool Soxa , (pa
vca , a nal ’Axov(tevov , adiig ituAai Sto g deddvca, a AI’ ov (luvuxag,
« vvv 8rj £Ae- yov , ilrtstv , ori ’Ayd&av %avpuGTug Iqol, lya
8’ dxogqGoifu; To fiev etiqov, tpavai tov Egvli)ia%ov, HavrLxdg
Soxtlg (ioi rfgtjxiva*, on ’Ayct& av iv Igel' to di oi ajioQijOuv ,
ovx oiuat. Kal jtdg, to (laxagtE, B ' tlntlv tov 22axQurr), ov gula
ctxogeiv xal lya xal aAAog ogugovv, fitAAav Ai\uv gixd xaAov xal nuv
to- tar, perfecti notio efficitur, at in Piat. Apol. Socr. p. 18.
B. ipov yap itoXXol xaTt/yopoi yeyovatit itpds vpd$, xal nd-
Xai noXXa tjStj Itrj xal ovSlv dXrj^tS XiyovreS , quo loco iza- Xai
XiyovxeS idem est atque ei - prjxoreS . Noluit autem ipsum perfecti
temporis participium ex- hibere Plato, ut significantius et
praesenti hora accusatores me- ras nugas proferre dicantur atque
credularum anicularum inanes su- surrationes. vide aonot. p. 107 Ceterum
schol. ad h. 1. habet: dSete 8iof M tav rd prj a%ia tpofiov
SeSioxuv. opoiov xovxo xal to ijtofpoberjs avSpconos. d vvv
81 } iXeyov . Nvv 8 r} saepissime a librariis confun- ditur, neque
pauci loci exstant, ubi pro vvv 8 tj scriptum repe- ritur 6j} vvv ,
et pro 8 rf vvv vice versa vvv 8 f\. Utraque verborum compositio
propriam potestatem habet , ac 8 ?) vvv quidem in adhortatioue
soleune, atque nostratium also nun apprime respondet, aut ad
rem praesenti tempore notissimam refertur cfr. p. 191. A. o 8 /}
vvv optpaXov xaXovOiv p. 191* B. I o St} vvv yvvaixa xaXovpev, Nvv 81 }
autem de tempore ac- cipiendum est, ut signiheet nunc igitur. Vide
Boechhiuui ad Piat. Min. p. 90. et Stallbaumium ad Piat. Phileb. p.
105 seqq. on 'AydScov $ av pa- ti t cos ipoi. V ulgo legitur
ipei, quod ferri nequit propter inse- quentem modum optativum;
ac- cedit huc Bodleiani aliorumque optimae notae codicum
auctoritas, qui ipoi optativum repraeaen- taut. In sequentibus
dnopijtiai- pi vulgo edebatur. Recte Bek- kerus, Stallbaumius ,
alii , futu- rum in ordinem verborum rece- perant. ,
xal Tt&Sj cJ paxdpie . Kat h. 1. mere expletivam est, de
quo vide annot. p. 6. p. 38. ai. — MaxapioS nomen quod attinet,
haud raro apud Platouem ita reperitur, ut blaudae appella- tioni
exprimendae inserviat. Inter- dum id apud eundem, docente Stall-
baumio ad Piat, de rep. I. p. 335. E., ad ingenii sapicutiaeque
prae- stantiam refertur, cfr. Piat. Me- non* p. 70. B. xlvSwsvcj
tioi Soxeiv paxapioS xiS elvai , dpextjv yovy f site
SiSaxrov, t Sccnbv ovto Aoyov gq&ivTa ; %a\ ra piv aXla*
ovy ouolcog &avpcc<5Tu; zb de In l zetevzijg zov xaXXovg
fl'3’ oxrp xputfcp irapayiyvetai , eidevat. Adde Piat. Menex.
p. 249. D. M. N?) Ai ' , cj 2d- ■xpaxeS , paxaplav ye A eyeiS
ttjv 'A6na6i(xv , ei yvm) ov6a toiovtovS A oyovS oia z' l6x\
6vvri%ivai. xal rtOLvroS artov ovxcj. Apud Bckkerum legitur
pera xa\ov ovxco xal 7tavxo8ait6v A. /5» Uterque verborum
ordo codicum non paucorum auctoritate nititur» Equidem non du-
bito, quin ovxco vocem ei verbo Plato apposuerit, quod maiora cum
vi pronuntiandum est; igi- tur 7tavxo8a7tuv ovxco in ver- borum
ordinem recepi. Recte autem Stallbaumius ad verba xal TtavroSartov
ovxcd annotat ‘Multiplicem vocat Agathonis orationem quippe quae
videatur omnia attigisse et percurrisse, quae ad laudem Amoris
pertineant» xa\ xa p\v aWa ovx 6 poicoS $ av pa6x a\
Sic Beltkeriis et Stallbanmius omisso piv] quod post opoicoS in
omni- bus fere codicibus reperitur. lliickertus ad li. 1.: Habet
sane, inquit, quod mireris, piv parti- cula in eodem orationis
membro repetita. Attamen hoc ipsum cautionem imponit critico,
cni nihil magis est mctnendnm, quam ne librariorum vel
grammaticorum' correcturas in textam reci- piat. Quos quum multa
hic illic correxisse constet ex iis li- bris , in quibus ipsa
correctoris manus cernitur, quid est magis consentaneum, quam iis
quoque in locis, ubi insolentius dictum aliquid pars codd. non
agnoscat, omissionem ab antiquiore critico institutam in libros
receutiores receptam esse. Quam ob rem, ut ratio reddi nullo modo
possit repetitionis, servandam tamen particulam equidem existimo.
Sed vide, an possit sic defendi, ut prius pev membrorum oppositioni ,
alterum sententiae inservire dicas; et cetera quidem, non sunt illa
quidem similiter admirauda. — Si recte Riickertura intellexi , eius
explicandi ratio nullo modo pro- bari potest; non perspicio enim,
quomodo membrorum oppositio non item sententiae oppositio esse
possit. Ceterum exempla non- nulla laudavi supra ( cfr. annot. p.
21. et p. 216.), quibus pro- batur, interdum falsum esse, quod
omnium codicum consensu con- iirmetur. Nostro loco duo Bek- keri
codices piv post opoicoS positum omittant, ex quorum au- ctoritate
id recte omiserant Bekkerus et Stallbaumius. Ceterum male post SavpaOxa
punctum ponitur. Schleiermacherus verba convertit : und wemi auch
das Uebrige wol liiclit alles eben so bewundcrnswerth gewesen
ist; aber die Schonlieit der Worter und Redcnsarten am Ende,
wel- cher Horer ist nicht- uber diese erstaunt? Haec quamquam
cum oratione Agathonis apprime conveniunt, tamen quoniam vitope-
rium continent prioris partis orationis, praeter consuetudinem Socraticam sunt,
de qua vide an- not. p. 191 Signo interrogandi post $avpa6xa posito
locus sanatur. Sensus est : Et cetera qui- tiov ovoficciav xal Qijuatav tlg ovx av
it-utXcc ytf axovav; ixu syays Iv Sv[iovjisvog , on avios ov% ol6$
dem nnm non pari modo praestantissima sunt? to Sh iitl
xrjXevti) S rov ndXXov 5 . Haec verba Riickcrtns ita explicat, utro' de
vocu- las censeat cum sequeDte rov xdXXovf genitivo arctius
cooiun- geudas esse. Addit idem, genitivum nominis alicuius coniunctiim
cnm nominativo articuli genere neutro positi prorsus non differre
ab ipso nomine, quod cum suo articulo exhibeatur; perinde igitur
esse, utrum to rov xaX XovS, an to xdX- XoS scribatur. Idem
praeceptum Matthiaeus dedit in Gramm. ampl. 285. p. 574., quod ta-
, men neutiquam probari potest. Nominis periphrasis effecta
illa per articulum neutro genere positum semper aliquam nominis
adjuncti conditionem indicat, quae e verborum contextu facillime
eruitur. Posses igitur nostro loco, y scriptor ro' 6e tov xaX- XovS
arctius coniungi voluisset, verba convertere l Vim autem
pulcritudinis et verborum et di- ctionum cet. Non aliter, quam
Riickertus , verba converterant Schleiermacberus in conversione p.
427. et Schulthessius p. 106. ed. Orellii. Persuasam nobis est, to
61 irci t eXevTrjS ita positum esse, at, cum praecedentia verba Ta plv
dXXa reliquam ab initio orationem denotent, hoc nihil aliud
denotet, qqam: verba posita sub finem orationis» Tov xaXXovS autem
genitivus e verbo oi^enXdytf pendet, de quo genere structurae vide
annotat, p. 197» et Matth. Gramm. ampl. $. 868. p. 681« Sensas est;
Quod autem verbaattinet snb finem orationis posita, quis pulcritudinis
verborum dictionumqne non summa admiratione tenebatur
audiens? Ceterum aoristo tempore Plato usus est temporis rationem habens , quo
Agatbonis audita est oratio. Rarissimo verba magnum animi affectum
in- dicantia alio, quam aoristo tempore ponuntur. In caussa boo
est, quod animi commotio maior, ut subitanea , ita fugitiva est,
non dnrans, ut iam praeterierit necesse sit eo tempore, quo qnis
eius mentionem facit. Perfectura tempus infra babes«p» 211. D , ad
quem locum vide annotat. T&v ovopaxcov xa\ farf- p d T os
v . * Ptjpctxa sententiae ' sunt, ovopata singula verba» Hinc
Eryximachus non singala Heracliti verba, sed integram sententiam vituperans
male ver- bis expressam p. 187. A. dicit J coSTtep tdcoS xal
'JIpdxXeiTof ftov - Xexat XeyeiVj inel t ois ye fir}- padiv ov
xaXwS Xeyei. Infra legitur p. 221. E. Toiavxet icotl ovo pax a. xal
fjTjpara i&<vBev itepiapnix°vTai x. r. X. Adde Piat. Apol.
Socr. p. 17. H. ov pev t ot } pa dt\ avdpeS 'ABp- vaioi,
xexaXXieTtrfpkvovS ye Ao- yovSj (Ssxep ol Tovxoovy fitjpa- 6 i Te
xal ovopadiv ovde xe- xodprjpevovS x. T. A. Piat. Cra- tyl. p. 899.
A. — otov 4il < piXoS * tovto iv a avzl fiijpa- r oS ovopa rjpiv
yhnjrai, ro te Vxepov avxoBev iooxa igiiXoper x. t. A.
ixel iycoye ivBvpov - psvoS x. r, A. Pe ixei vocis C t’
iaouca <rv8’ lyyvg rovxav ovStv xttXov elnelv, v% a.ia%vvr/g oXlyov
dxoSgdg cjj%6fit/v , sl xr/ tl%ov. xal yuQ f ib Togylov 6 loyog
dvE(ii(ivt]6xsv, agtE drejrvag rd tov 'Ofit/Qov EJiHcov&rj'
i<fojioi\u>]v , fit/ /ioi xiktv- caussali. potestate atque de
eias origine supra diximus annotat. p. 151. Ad verba, quae
sequuntur, oXlyov dnobpaS qtxoprjv Stallbaumius rectissime aunotat;
ne quis scribendum suspicetur oXi- * yov dnodpaS ar Gajfppijv, €en
~ tenti a verborum haec est : ego prae pudore paene aufugeram,
siqua potuissem. Vide praeterea annotationem p. 159. et
ny elxov. Vulgo legi- tur 71 oi pro ny» Hoc optimi plurimique
codices praebent* At- que videtur, Riickertus inquit, ny etiam
verius est; non tam enim , quem in locum fugeret, curandum Socrati
fuerat, quam quae fugiendi ratio et via esset, possetue an non. Utrumque
licet, sententiam si spectas, in ser- mone familiari, et locum,
quem versus aliquis fugam parat, et rationem , qua fugi possit ,
sine maguo sententiae discrimine commemorare, neque nostratium
vitu- peraretur, qui diceret: ich war schon halb auf der Fiucht,
vrenn ich nur wusste, wohin aut wenit ich nur wusste, wie. Sed
araatrt ' Graeci, ut supra indicavimus an- notat. p. 28., verba
motum in aliquem locum significantia cum quietis notione
coniuugere; hinc non dubium est, praesertim cum codd. optimi,
quorum in nume- ro Bodieiunus est, ny exhibeant, quin Plato Ttoi
non exhibue- rit, Ceterum dnodidpatixeiv ver- bum de servis
soleune, qui, quod hero debent, id non sol- vunt
aufugientes. Debent autem hero servitium. Apte igitur ano- 6 paS h.
1. Socrates dicit, quod claucnlum aufugiendo, quam pro- miserit,
non praestiturus esset Erotis laudationem. xal ydp pe Topy io
v o XoyoS. Gorgiae Leontini ce- leberrimi sophistae et
dicendi magistri illius aetatis, cuius omne artificium in verborum
ornatu et magnificentia (Xap.nd. 8 eS, vide an- notat, p. 196 )
constabat, id quod abunde discimus ex Phaedro Pla- tonis. Duae
declamationes, quae eius nomine feruntur, Helenae en- comium et
Palamedis defensio quibus de coussis suspectae fidei habeantur,
nescio ; id scio, pro- prietatem Gorgianae eloquentiae in iis reperiri.
Riickert* cfr. Pliilostratus de Vit. Sophist. I. xat 'AyaScov dt 6
rijs tpaya)- 6 iaS noitjzi}s , ov 77 xoipcpSla Cotpdv re 71 al
xaXXienij olde , noAXaxov tg5v lapfieicjv yop - yidZei.
in enbvSrq * Hanc formam Atticis usitatam cum parum no- tum
habuissent librarii, factum, est , nt saepe mutarent. Vulgo legitur
InenovSeiv. Bodleianus codex inenovSet exhibet, cfr. Matth. Gramm,
ampl. J. 198. 4. p. 360 Buttmanni Gramm. uropl. T. I. p. 432. Rem
extra dubita- tionem ponit Eustathius ad Ilom. Odyss. p. 1946. ed
Rom., quem Stallbaumius laudat: napaStdcodi ydp 'HpaxXeidTjS , ori
'AttihoI tcov 6 'Aya&cov rogytov XEcpakrjv dsivov liyuv Iv r tp
Xoyca ini rov iftov koyov nipt^ocg ccvtov pe At&ov ty atpavl-a
itomtius. xal ivsvorjOa tote aget xocrayii.a<5rog coV, 7 jvlxu ifiLV
cS [toAoyovv iv rui pigti pE&’ vp& v tOVS TOlOVtOVt
V7tEp6wte\lXOVi iv rui ijra povcp icepazov6iv f TfSrj
Aiyovzef xal ivero/fxrf XoA i 7t£7COirfX7f HOLI OVZGD
tprjoi llavaizios ex £ tv ypet- tpaS Ttapa IlXdzoavi' xal
&ov- xi8i8?}S 8h xixPV rat X( p toiov - zrp *Aztix<j) cfr.
Stallbau- mius ad Piat, de rep. I. p. 329* B. ubi eadem
eiusdem verbi forma in omnibus fere codicibus depravata reperitur.in
ijC£7t6v$£iY, Fopyiov he < p aXtjv 8et- v o v Kiytiv .
Annotant interpretes , ad Homeri Odyss. A. 632. respici, ubi haec
leguntur: ’Ejje 81 jkmtpov 6ioS yp£i, 'Mt/ poi ropyeujv
HEtpaXrjv 6ci- VOIO TtEXttpQV. *E% at8ov
7tijitl>£i£v ayavrj Il£p - de<p6v£ia. Gorgus adspecto
capite mortales in lapides mutari , veterum opi- nio erat» Iam
vide, quam lepide Socrates in Gorgiae Gorgusque nominibus lusit.
Tanquam conspecto Gorgus capite, audita Agathonis oratione, ue in lapidem
mutaretur h. e» lapidis instar avavSoZ sederet, veritum se esse
dicit. Ceterum quod apud Ho- merum est 8£ivolo neAcopov nunc satis
festive Seivov Aiyeiv dicitur adhaerente notione mon- struosae
dictiouis. ini rov ipov A oyov. AoyoS hoc loco orationem significat,
quam Socrates habiturus est ; igitur verba convertenda sunt : io
faturam orationem meam. Rependit autem Socrates satis
festive, quae ab Agathone dicta erant p. 194. A, qtappdxzeiv
fiovA-El /i£, cJ StOXpaztS — Uva $opvfiri$(Z. — Pro A faov zy
atpcovia consuetius dicendi genus est p?) — pl dfpaovov noi -
rjCEitv aSTTEp A i$ov, sed multo lepidius est atque praecedenti
comparationi convenientius Ai$ov zy dgxovia. xal iv ev 6 t} 6 a
zoze apa xazayiAadxoS gjv, Aoristicum tempus positum habes tempore
praecedente imperfecto, ut momentanea actio a durtua discernatur,
de quo significatu temporum vide annot. p. 36. xaxayekadxoS nominis
siguifi- catum supra tetigimus annot. p» 148. Ceterum cave zoze
cum iv£vo7fda coniuugendum censeas, pertinet enim ad sequentia
verba tempus accurate exprimens, quo tempore Socrates deum
laudare promiserit. "£lv imperfecti par* ticipium est : oratio
enim recta audiret: zoze apa xazay iAatfzoS 7)V i/vixa x. z. A.
Respicit autem Socrates ad p. 177. D. ovSeiS doi, gj *Epv£,lpaxe, —
ivavzia < pielxai . oirze ydp av itov iyoo (iizoLpaidaipt , o£
ovdiv cptpit «AAo InidxadSai i) za ipeo- zixd x . r. A.
iv reo pipet pe$’ vpdSv. Socrates sibi ridiculus videri sc
simulat, non tam , quod Ero- tem laudare promiserit , quam quod iis
promiserit, quibus nemo elegautiorem et pulcriorem Ero- D iy%(d[iucCs6ftat rov "Epota xctl
l(pr\v ilvcti dsivos tu iCQOtuccc , ovdlv Side os cepa tov npciy fiatos,
os edsi iyxa(ucc£uv btiovv. iyd (ilv ydp vit dfieXreplas (S(i?]v
detv tdXq&ij kkyuv sceql exccGtov rov lyxo(ua^0(iivov 9 nat tovio
(ilv vitdp%eiv , avxdv 81 xovxov tu xaU.i- <Sza ixktyo(iivovs &s
evxQSTt&Ctaza ttdivau xal itavv tis laudationem exhibere
possit. Vides igitur» accentum orationis in verbis ponendum esse iv
roa fxipEi vficjv, quo facto ironiae acerbitas
incredibiliter angetur. Quae sequuntor verba .xai tcpr\v eivai
betvoS xd ipeo» nxd non satis cum Socratico dicto p. 179. D.
conveniunt. Mo- destius euim illic Socrates locu- tus est. Ne
mireris igitur, quid sit, quod vehementius Socrates hic t se vituperet
: omne vituperium in convivas convertitur, qui non veriti sint, coram
Socrate, homine maxime erotico, rerum eroticarum imperitiam suam
pro sapientia vendidisse. iyd p\v ydp vn* dfte A- repiaS x.
r. A., Hi* verbis auditis verisimile est, erubuisse, qui de Erote verba
fecerunt. A(i£\xeptocS teste Stallbaumio Bodleiani codicis lectio est
aliorumque plurimorum librorum. Riickertus non nisi in Bodleiano,
Vaticano ono, Angelico uno, ct(iE\- tepiaS reperiri annotat. Iloc
certum est, codices permultos afiefarjpiaS praebere, quae lectio
unde originem duxerit, haud dif-" ficile est ad explicandum.
Li- brarii enim cura non ad etymo- logiam respicerent
df\eX.TEpia nominis , sed ad analogiam vo - cabulorum in ?jpta
desinentium, ad dfieXxrjpia lormam recipien- dam proclives
erant. KEp\ kxccOxov rov IYt xcj yidS,oy iv ov.
Ficinushaec verba convertit: Putabam equi- dem ob ruditatem meam,
do quocunque quod lauda- tur a nobis, vera oportere re-
ferri; quod si verbis exprimere voluisset Plato , scripsisset haud
dubie o iyx&judZExai. Schlei- ermacherus exhibet in conver-
sione; Ich duchte namlich in meiuer Einfalt, man miisse die
Wahrheit sagen in iedem Stiick von dem zd preis senden, quam conversionem
verborum nemo facile probaverit* Kiickertus idem esse contendit
Zxatixov x o iyxa>yiaZ6j.ievov 'at- que xo ael iyxa>/ucu}6y£vov f
sed exemplis hic loquendi usus pro- bandas erat, quod V. D.
facere omisit. Vulgo legitur : Ttipi Ixa - <Sx ov xoov
lyxooptctZofiivGDv, quae lectio Schleiermacliero pla- cuisse
videtur. Nobis ea- non est, nisi coniectura eorum, qni TCepl
bcatixov xov iyxGopiaZo- flivov explicari posse diffiderent.
Scripsit fortasse Plato : TCepzkxd- Otov iyxG>yta£o/i£rov h. e. de
omni re, si laudatur; fortas- se etiam verba xov iyxGDj.uaZo pi-
vov glossema sunt, quo facillime, si abesset, careremus. Nam cum
praecedat ovbtv eISgjS dpa xov itpdyyaxoS , cJ? ibtt iyHGoyid-
?,Elv oxiovVf satis patere opinor, izepl kxaoxov per se positum rem
laudandam significare. dfj (ieya IqiQovovv m$ tv Iq<ov, wg flStd g
ti/v ftuuv xov ixaiveiv ouovv. xd de ccqb, cog Houctv, 01J tovxo
rjv xo xakmg htcavelv ouovv, dlXcc xd tog (ii- E yufxa uvaxitiivtu xa
Ttodyuait, xal d>s xedhaxet , iav xe y ovxag £%ovxa iav xe (irj. ei Se
4>tvSij, ovSiv «p’ tjv XQayfia. XQOv^Qtjdy yaQ, mg foexev, uxiog
exuOtog xal tovto fitv vnap- XBtv, Bastius paru*n
perspe- cta VTtapxetv verbi potestate 7tal tovto npdotov pkv rei
pkyiStov fikv vnapx&y scribendum cou- iecit. Frustra.
Rectissime Stall- baumius xal tovto plv vnap - inquit, est: et hoc
de- bere orationi subiectum esse argumentum. Nam verissime
Scbneiderus ad Xe- noph. Oecon. XXL 11. vnap - X&iy dicuntur a
Platone quae- c ungue fundamenti loco adesse debent , ubi quis quid
exsequi vo- luerit, to SI a, pa, cjsHoihev, ov tovto
7/r x, t. A. De xo 6 k vocularum significatione vide annotat, p.
111. Adde Stall- banmium ad Flat. Apol. S. p. 23. A. " Apa
conclnsivae notionis particula hoc loco ironiae augen- dae
inservit. Praeteritum tem- pus falsam opinionem aut spem fuisse
indicat, quam aliquis olim susceperit atque per aliquod tem- plis
veram habuerit. Utuntur autem hac formula satis cum do- lore aut
acrimonia ii, quos even- tus docuit, aliter atque antea putaverint,
rem se habere. Eo- dem modo paullo infra legitur p. 199. A. aAAa ydp
iyco ovx ydij apa tov tpoxov tov inai- •vov x . T. A. Egit de hoc
ge- nere dicendi Stallbaumius ad Piat. Phaed. p* 68. B., ibique
Home- rum laudat, Odyss. XVI, v. 418, 'Avtlvo', vfipiv £x
gdv * xaxopkj- Xav&, xal 61 6k tpa6iv iv Stjpoo 'l$axi]S pe$ *
optjXixtxS ippev' dpidtov fiovXy xal pvSotdi * 6v 6 *
ovx apa toios hjdSa. Pro irpporfccto interdum in hoc
dicendi genere praesens tempus reperitur, v. c. in Piat. Gorg. p.
469- E. t /2 'ScoxpaxE5 i ovtgj pkv navtES av pkya Svvaivto ,
IkeI xav ipnpjjdSEirj olxla rod- tqo ra5 tponoo rjytiv' av 6oi do -
/ xrjy xal ta yE 'ASrjvaicov vsa- pia xat rpii/pEiS xal ta
nXoia navta xal ta drjpotiia xal xd idta. aAA’ ovx apa rovt*
l6ti xd pkya Svva6$ai, to not - eiv d Soxei avtqj, DiiTert a
praeteriti praesentis temporis usus ita, ut illo posito evento
aliquis indicet se edoctum esse, rem aliter se habere, atque olim
existi- maverit , praesente autem tempore indicatur, indicare
aliquem ita, ut iudicium eius adhuc uoa probatum sit eventu.
aAAa to goS pkyitira avatiSkv ai t& npdypa - ti.
*Avaxi$kvai verbum solenne est de donis, quae diis ab homi- nibus
consecrantur» Idem etiam eum significatum habet, quo ali- quis alicui
aliquid attribuere di- citor. Neutra verbi notio ad nostrum locum
satis quadrat. Nimirum ironia consueta Socra- tes usus et pietatem
d£ia diis 15 ijfiwv xbv "Eqcotu lyxauiateiv dot-ei,
oi>% ortas lyxa- (uaGtxai. 8ia xavxa 8i), olfiat, rtavxa kbyov
xivovv- xcg avati&exs xa "Epazi, xal ycczt avxbv xoiovxov
rs 109 tivcu xal xoGovxav aixwv, orta$ av (patvtjxai tbg xak-
liOrog xal olqiCxos dijkov oxi xoig M yiyvuGxov- consecrantiam et
mentientium impudentiam notaturus est. Deest vernaculo sermoni
verbum, quod utramque notionem exprimat; nam quod mihi nunc in
mentem ve- nit, aufhiingen, de fore suspen- dendo intelligas
facilius , quam de corouis, quibus templorum parietes exornabant
veteres. Sed pone, vernaculum illud Graecorum verbo dvaxpEfxairvvvai
ap- prime respondere, alteram notionem adde, qua dicimus : i e -
mandem etwasaufhiingen, et expressum habebis avariSi- vai verbum. In
Latina liugua verbum est, quod Graecorum verbo ad unguem
respondeat: imponere alicui aliquid» iepovf$f>i}$7}ydp,G)Sgoi-
xtv. Socrates ex orationibus, quae hucusque habitae erant,
conclusionem facit ad Eryximachi medici voluntatem p. 177. D» , eiusque
verba ita interpre- tatur, ut non veram Erotis lau- dationem, sed
arbitrariam, hoc est, vel veram vel falsam lauda- tionem exegerit.
Hinc verba explicabis coS UotxsVf quae ita pro- feruntur a Socrate, ut ad
con- vivarum orationes respici signi- ficetur. Sensus est: Deun
die Aufgabe war, wie aus den ge- haltenen Hedeu crhellt cet.
iy xoo fiiaZeiv 8o%ei t ovx 0 7tQ3s: iyxooj^iiddETat. Fiemus
baec verba convertit : Nihil ‘fenim referre, faisaue an vera
sint, cum propositum sit, non quomodo Amor ipse laudetur, immo ut
quisque AMOREM laudare quam maxime videatur. Indicativo futuri rei
veritas indicatur, quae arbitrio opponitur, quo quis Erotem laudandum
censent, Paullo obscurius Socrates loquitar. Verborum sensus hic
esso videtur: Convivas non Erotem, sed se ipsos landasse ita, ut suam
sententiam de Erote laudando maxime celebraverint» xavxa Xoyov
xivo-vv- xeS avaxiSe te x &"Ep gdxi. Ruckertus ad h. 1.
XoyoS 9 in- quit, utrumque significat, oratio- nem et orationis
materiam, xt- veiv Xoyov , excitare sermonem vel excitare, de quo
dicatur» Hinc sensus est, nihil, quod dici possit ullo modoy
praetermittitis, quin AMORI tribuatis. IldvTot Xoyov xiveiv neque de
ora- tione neque de materie orationis accipiendum est, sed de
genere dicendi ac de modo res animo concipiendi; verba converterim:
iedo mogliche Rede- und Be- trachtoqgsweise auwenden. cfr. Piat, Phileb.
p. 15. -E. o 8 l xpcotov avrov yevodpevoS hxd- dTOTE XGOV VECJV
tfd$ElS ttfS* XlYCt dofpiaS EvprjHooS Sqdavpdv vq>* ijSovrjG
ivBovdia te xal xavxa mvtt Xoyov h. t. A. Adde Piat. Theaet. p. 163.
A * tovxov *a- ptv td xoXXa xal arojta rav-<Siv' ov yaQ av otov xotg
ye e16o6l xal xctAag y' £%ei %al asfivag o htatvog. uM.it yaQ lya ovk
ydq figet rov x qotcov xov BTtctLVOv , ovd’ eidas vfilv c o^oAo-
yijtia otul ainog iv % c3 hbqu ineat ve<SE6&au y yXdrta ovv
viti6%ETO , fi (pgqv ov. drj. ov yitQ ra ijiivrjdctjJTjv . Piat.
de re pub. V. p. 450. A. o6ov Aoyov ita- Aiv, QjSXEp apxy$>
xivsixe zepl rijs noAixtlaS. Ad ava- tLSeze cogitando repetendum
cen- aet Riickertus navia A ayov vel supplendum avxov , quod
ad jtavxa Aoyov referatur. Frustra, *Avazi%kvai hoc loco
absolate positum est, ut idem sit atquo txvd%i6iv itoeltiSat.
t oiovtov xe elv cti xa\ r o 6ovx av ah iov . His ver- bis
indefinite positis et natura Erotis et utilitas dei vario modo in
convivarum orationibus descriptae insigniuntur. Igitur roiov- tov talem
significat, qualis a convivis diversis modis descriptus est,
lodovicjv talium auctorem tantorumque, qualium et quantorum auctorem illi
Erotem praedicaverunt. xal xaAas y * $\eix. r.A, Eadem fere
ironia Socrates utitur in Plat. Apol. Socr. p. 20. C. xai iyco i ov
Eutfvov ipa- xdpitfa, ei aS aArjS&S lx £l T<xvrr,v xifv xix
v V y Ka ' L °vxcjS cpptXdii 8i8a6xei. lyd yovv noti avios
ixaAAvvo/njv te xa\ JjftpVV OflTfV <XV y eI 7/7tl(jxdp7fY xavra
* «AA* ov ydp initira- / tat , ($ uvdpES ’A$rjvdioi. Cave igitur,
serio dicta censeas verba xdi xaAd>S y ’ tx £L tepraf o Zrt
aivoS. a A A d ydp iydf. Duae co- gitationes insunt in sequentibus
: Promisi me verba facturum esso de Erote ; Ignaras eram
rectao laudandi rationis, quam vos se- cuti estis. Ad olterum
cogitatio- nem yap refertur, ud alteram aAAd. Huiusmodi
cogitatione* quoniam saepius in nna enuntia- tione comprehenduntur,
aAAd ydp haud raro coninnctum reperitur. Quod sequitur ov8 ’ e1-
dtuS' Latine expressum audit r Sed enim ego non noveram buuc modum
laudationis, non scieus autem vobis promisi, ut ceteri, ita et ego
ipse dei laudationem. Positum igitur habes ovd’ ei- do oS pro ovk
e16gj£ 86. Effici- tur autem illa scriptura, ut accentus orationis ,
proprie in ovh lidcoS 8i ponendus , in sequens finitum verbum
transeat. ?} y A arra ovv v it e 6 x £ - to, 7 ) 8 fe tppTrjv
ov. Legitur apud Euripidem, ad quem Socrates respicit li, 1. , Hippolyt.
v. 612. 7 } yAc566 * ojjgSjjqx’, 6t tppi} v avapox
oi Haud raro in Platonicis scriptis ad hunc versum alluditur, v.
c, Theaet. p. 154, D. EipiitlSeidv xi HvpjpijdEiai' tf plv
ydp yAdoxxa aviAtyxxoS ijpiv forat, 7 } cppifv ovx
avEAeyxxof. Adde etiam Cicer, de ofif, 111, 29* 108,: Nou enim
falsum iurare periurare est, sed quod ex animi tui senteutia
iuraveris, sicut ver- bis concipitur more nostro , id 15 *ftt
lyxafua£<o rovtov rov rgoxov ov yag av Swal- fiijv' ov (iknou akka ta
ye dkqdq, el fiovkte&e, non faceie periariam est. Scite
enim Euripides: Iuravi lingua, mentem iniuratam gero.
Ad Socratem nt revertamur, Eu- ripideis verbis laudatis hoc
effi- cere voluit: Promisisse sese qui- dem Erotis laudationem, sed
non talem, qualem ediderint, qui ante 6e locuti sint. Aut igitur
ta- cendum sibi esse , quippe pro- misso suo ad Erotem illa
ratio- ne laudandum non obstrictus, aut eam laudationem proferendam
esse, qualem, cum promiserit, in animo habuerit. , ov ydp kri
iyxapiaZa xovxov tov tporcov. Breviloquentia est : hae enim sen-
tentiae verbis insunt: laudaturus eram, at non amplias lauda- turus
sum , si huuc in modum laudatio instituenda est. Riickert.
*EyxoopidS,co absolute positum est, ut non tam actionem, quam ipsam
verbi notionem cum vi repraesentet : iyxcjpia^cov el/ii. Hinc
facile intelligitnr, quid sibi velit hi hoc loco. ov ydp av
dvvaiprjv . ov /jLevxoi . Admodnm dubi- tant viri docti de horum
verbo- rum iuterpunctione recte ponen- da » alii punctum post ov f.Uvtoi
ponendum, alii omnem prorsus interpunctionem post ov fievtoi
delendam censent. Atque sic Bekkerus verba edidit, quem Riickertus
secutus est annotans ad hunc locum: tftraque verba in- terpuogendi
ratio vera est gram- matice; sensum si spectes, roi- rere, quid
sibi velit tam fortis ac vehemens negatio, qualis fa- tura
sit, si ov pkvtoi cum prae- cedentibus iungatur. Contra si iungas
ov pkvtoi aXAa, multo lenior erit oratio, sensumque praebebit hunc:
Vestro isto modo AMOREM laudandi consilium plane abieci, non possim enim,
etiamsi forte velim. Attamen hoc ita accipi nolo, quasi dicere
omnino recusem, immo vera quidem cet, Equidem non dubito,
quia Ov pevtoi verba per anadiplosin rectissime ab Stallbaumio
expli- cata sint, cuius exempla si quae- ris, adi Stallbaum. edit.
Sympos. p. 97» Quod autem scire se negat Riickertus, quid sibi
fortis negatio velit h. 1., exprimendae veritati enuntiatiouis
negativae inservit, ut verba convertenda sint : ich konnte es auch
nicht, wirklich nicht, ei ^fiovXedSe, i$k X oj xa x 9
ifiavxov . De (5ov Af- 6%at et kSkXeiv verborum signi- ficatu vide
aunot. p. 44. — Ka - T a praepositionem quod attinet, vide Piat.
Apol. Socr. p. 17. B, el phv ydp tovro Xiyovtiiv, opoXoyoiyv av
iycoye ov nata. xovtovS elvai jirjtcop. Piat. Prot. p, 517- A. iyd
8e tovtoiS aita6i xaxet tovro elvai ov Hvp<pepopai t de quo loco
supra diximus p. 41. Adde praeterea an- notat. p. 134. — n Iva prj
yk- Ao ota o(p\cD . cfr. Apol. Socr. p. 17. C. ov ydp av di/ itov
Ttpk - 7Toi, cj dvdpeS, tp8e ry uda toSjzep psipaxlaj TtXatTovti A
d- yovS eis vpaS elsdvai , quem locum eo aptiorem hic
censebis, l&tfaa tljteiv xcct’ Ifiatnov, ov itqos rovg v(istigovs
B koyovg, ivu (lij yikattu. ocpfao. oga ovv, cj <X>aidQt , {I
> i qno certius est, Socratem aetate provectiorem
fuisse eo tempore, quo Agatho ItuyIxuk celebravit, h. e. 412. a,
Cfi. P. Ceterum ocpXt o cum quadam ironia in ma- lam partem
dicitur, ut supra p. 183. A, a ei xiS toXpoSrj itotetv aXX oxiovy —
nXrjv tovto, za piyidxa xotpnoiz 9 av oveidrj. Eodem modo
d.7ZQXav£iv verbd Graeci utuntur, cfy* Piat, dc legg. p. 910. B.
xal itada ovtgdS f\ TtoXiS aitoXavxf xgdv adefi&v zpoitov riva
dixcdcof. opa ovv , <u $ai8pe t ei xi xal zotovzov
Xdyov 6iei 7tep\ "Epcox os . Stall- baumius per epexegesin
verba addita censet zdXifSif Xeyopeva dxoveiv , cuius structurae
per- multa exempla reperiuntur. Unum exemplum ut laudem, cfr.
Piat. Phaed. p. 103. A. cap. 51. xal ziS eh te xdov xaporxcov dxov
- 6aS — itpoS Secjv, ovx iv roiS XpodSev r\piv XoyoiS avxo to
ivavxlov xdbv vvvl Xeyouivcov copoXoyeiro y ix xov iXaxxovoS zo
pei2,ov yiyvedSai xal ix xov pdZovoS xo tXaxxov, xal axe- Xv&$
avxTj elvai j/ yivedi? rots ivavxioiS , ix xoov ivavxi&v; —
Ceterum male rerba dispo- sita sunt , quandoquidem comma non post
diei ponendum est, quo loco id posuerunt editores ad unum omnea,
sed post "EpGoroS. Sensus est: Vide agitur, o Phaedre, num
forte tibi etiam huiusmodi Erotis laudatione opua sit, ln e. vera,
non mendaciis cu- iusvis generis referta. ovopadi 81 xal
Sidet firf/idxGov roiavtg. *Ovo- para et fi?jpaxa quo
signifi- catu poni soleant, supra dictum est annotat, p. 221.
Sententiam quod attiuet, duo suut, quae a Socrato in orationibus
couviva- rum vituperantur : sententiarum falsitas, verborum
enuntiationum- que nimius ornatus. Igitur seri' ptura non opus est
uqius codicis Vindob. , quae magnopere placuit Schaefero (ad Dionys.
de compos, verb. p. 28.), ovopadei 81 xal Sidet fcrjpdruv
toiav- XXf* In sequentibus ditola av tiS XVXV iiteXSovda additum
reperitnr in permultis iisque pptl- mae notae codicibus di parti-
cula, quae nullo modo ferri potest. Admissa ea sententia verborum existit haec
: Vere dicta pudire, nominibus autem et positu
enuntiationum tali (b. c. vero) et qua lis cunque forte «eae obtu-
lerit loquentl. Fortuitum b. e. non exquisitum sententiarum verborumque
positam facile probes, verum positum quamquam cum veritate rei
conve- nientem interpretari possis, ta- men minus probabilem h, 1.
in- dices. Igitur di post ditola collocatum, quo efficitur, ut
zot- ctvxy ad praecedentia non ad sequentia verba referatur,
atque ut commemorata posituras veri- tate simplicitatis notio adiunga-
tur verborum atque dictionum,, ex ordine verborum semovimus. Idem
fecerunt Bekkerus, Stall- baumiua, alii. Ficinua verba convertit:
Vide itaque , Phaedre } Xi xal toiovtov Xbyov diti 'Egcotog, Talr^si]
Xi- yufiwu uxovt iv, vvofiaGi 8s xai &i<Ssi gtjfiatav
roiavry, inoia &v ns hul»oS6a. Tbv ovv QaidQov tcprj xai
rov S cckkovg xtkivuv Uyuv, bny aixbg ot 'oi- ro Sstv ilnsLV, rctvry.
"En roivvv, tpavuv, a <I>aldQe, xaQig fiot Aya&mva a/iwg’
arta Igia&ca, tva , «vo- C fioXoynHansvoe ««?’ «vtov ovtag r/St] Uya.
’AU« TUiQiyi-u , tptxvca tov OcuSqov' ulk igata. Msza tavra brj rov
2axgdrg hv Lvd&vSe xoftlv aglaGftca. utrum vobis 'placeat
orationem fiuiusmodi nunc audire , quae de Amore vera duntaxat
enarret, verborum nominumque , utcunque accidit, compositione
procedens. Uri roivvv, tpavai, <a $ai8pe, TtapeS pou
Car ad Phaedrum potissirauih et hoc loco et sapra Socratis eratio
se convertat, si quaeris, vide p. 197* D # iyco 8} rjSioos; pkv
axovat ^SooxparovS 8ia\eyojitvov, dvay- ytaiov 8i poi ImipeXqSijvai
rov iyxcopiov ro5 "Epcon xal amo * SeZadSai nap* bvoS
txutixov vjigdv rov Xoyov. o it q avro? olotro 8 si v elmeiv,
ravty. Commode abesse posset ravtft, quae vox e praecedente on rg
suppleri so- let alias haud raro. Posita no- stro loco est, atque
in fine qui- dem totius enuntiati collocata, ut significantias
Phaedri cetero- rumque convivarum verba red-r de ren tu r, quae
obliqua oratione liunc exhibentor. Dixerunt au- tem illi: omjf
avtoS olei 8tiv Xeyeiv, ravry elnk. ovrcoS rj8 tj Xeyco.
vide annotat, p. 195* Schleiermacheras verba convertit: damit icli
mit ihm eioverstanden a 1 s d n n n welter rede. Recte } displicet
ta* men vocula w ei ter, qua rectius carueris. Nam X£yco t ut
XoyoS in praecedentibus sexcenties de Erotis laude, vide annot. p.
187., de laudatione incipienda intelli- geudum est : Damit ich,
wenn ich mit ihm mich verstandigt habe, alsdaun den Eros au loben
beginne* iv$£v$e Xo%kv. Vide an- notat. p. 15. Stndiose id
agit scriptor, ut lectores seraper ad- moneantur, orationes
convivarum non accurate neque verbo tenus referri , quod quo
consilio fece- rit, in Comment* de Syrapos. Pla- tonis
indicavimus. xa\a>£ poi lt8o%a$'KCC$- TjyijtiatiSai rov
Xoyov, li, e. disputationem exor- sus esse. Deest , quod mea
culpa potius factum puto , quam quod onmino nullum sit, sed deest
mihi exemplum verbi ita usur- pati cum genitivo. Non desunt, ubi
accusativus sequatur, velat Thcaet. p. 200. E. 6 xaSrjyov- ptvos
rov notapSv. Riickert* Verba transitiva haud raro ita adhiberi, ut
non tam actio, quam verbi notio urgeatur , saepius annotavimus, v.
c,p. 22. p» 59. Cap. XXL Kal ftijv, e» (pile 'Aya&av ,
xalwg fios tdofcg xadyyrjtiaB&ai zov Ivyov , Isyav, 3« xqwzov
tt£v 6'tot ccvzov iTaStL^ai vnoiog zig iotiv 6 “Encog , vBzt- qov
Ss tu k'pya avzov. zavzrjv zr;v uQX>i v naw aya- [itu. Xfh ovv uoi
tcsqi "Eqsazog, insidi; xal ralla xa- lag xal peyal07tQS7iu g
6iijl%sg olog ia ti , xal %6i$s D tizi' jcotSQov iau zowvzog
Hoias usa» ut unum tantummodo exemplum laudem, legitur p,
178« C. o ydp xpi? dv^poonoiS?/- yeuSSai navxoS x ov filov
xcdS ptAAovdi xaXwS fiicooetiSai, quod idem valet, atque o ydp
XPV tOtS CtV%pC£> 7 tOlS &mp ffl'EyGOV elvca navxoS x ov
fiiov. Sic no- «tra verba posita sunt pro xa- Ao? fioi £doB,aS
xaSrjyijxtjs el- vat x ov Xoyov. oxt np doro v p\v S
eoi. cfr. Cic v de ofF. I. c, 2. $. 7* Placet igitur , quoniam
omnis dis- putatio de officio futura est y ante definire , quid sit
officium, quod a Panaetio praetermissum esse miror * Omnis enim y
quae a ratione suscipitur de aliqua re institutio , debet a
definitione proficisci , ut in !el ligatur quid sit id t de quo
disputetur * Ad hanc instituendae disputationi» legem Socrates
etiam in Menone respiciens p. 77* E. docet: ante dicendum esse,
quid sit id, quod virtus appelletur, quam possit, utrum doceri
queat necne virtus, diiudicari. tavtrjv trjv apxrjv na-
vv aya pax. y Aya<S$ai verbo utuntur, qui et AMARI et laudari a
se rem aliquam indicaturi aunt. olog eivcd nvog o Egag
cfr. Piat. Protag. p. 935. D.Vl rtal 1 IititoviHOVy ct ptkv Zycoyl
tiov trjv <pi\o6oq>iav ayajiai , axap xal vvv inaivdo xal
cpiXco x. t. A. h. c. quod s em per facio, tuam sapientiam ut amem
laudemque, idem etiam nunc mihi contingit. Minus probem Stallbaumii
annotat, ed. p. 97. Haud cio, inquit, an alicui scribendum videatur
axap vvv xal btaivdr xal tpiXdo, quo clarius appareat ratio
oppositionis. Sed nihil mu- tandum, siquidem xal non cum vvv, sed
cum atdp arcte connectendum, ut significent voculae: quin etiam .
olof etvai ttvoS o "E- pcoS lp oo . Repentur hic ver-
borum ordo apud Bekkerum, Astinm, Stallboumium, qui Bod- leiani
codicis «t Vindobb. doo- rara auctoritatem seguti sunt. Eum
verborum ordinem Riicker- tus frustra impugnat, dicens, mi- nus
bene habere subiectum inter praedicatum et pendentem inde genitivum
insertum. Nam huius structurae artificium et apud Grae- cos et apud
Romanos acriptores aepennmero reperitur. Suspectum autem fit mutatione
sedfe $pa>S nomen j nam vulgo verba inverso ordine exhibentor
oloS 1 m f ovStvog; Ipcota 6’ ovx, tl {v>itq6s rivos
% noxios iou yiloiov yap av th] xo igatrjua , tl "Epias bsxlv
1’gag scapos rj [irjtQos — «AA’ to $jctp &v tl cnko tovto xcatQa
jpdrov, uqu 6 xarijp iaxt xarqp w-
ilvai nvof IpaS 6 "EptsaS, Uodecim codices ipcoS nomen prorsus
omittunt. Verbum omisimus nos, quia sive ante J *Epa)S po- natur,
sive eidem postpouatur, cum sequentibus nullo modo convenire videtur.
Etenim si scripsis- set Plato oloS elvai nvoS ipGoS 6 "EpcoS
s. rivos 6 *EpooS HpoaS, nemini auditori ac ue ipsi qui- dem
Socrati in mentem venire potuisset patris matrisve cogita- tio,
quae verbis sequentibus con- tinetur. Iam cum omisisset SpoaS
nomen, ambiguaque potestate posnisset "EpaoS nomen propriam, ne
interrogatio, ut potuit male intelligi, ita revera male intelli-
geretur, verba statim addidit: ipanco 6 * ovx, el prjrpoS t tro$ 7}
natpos idxtv, yeXoiov yap etrj to\ £ p oj r ?}/i a, Socrates
Erotis nomine ita posito in praeceden- tibus, nt non deum sed dei
vini iutelligi vellet, additoque vituperio eius, qui
interrogationem sio interpretaretur, ut de Erote deo, non de amore
sermonem esse censet, satis acerbe incu-r rium eorum vituperat, qui
dei nomine adhibito tum deum, tuut vira eius expressissent non
indicantes, utra potestate nomen proprium accipi voluerint» Ali-
ter Ruckertua de his verbis in- dicat, cuius verba haec sunt; Id
nihil, inquit, habet ridiculi, ro- gare, Amorne patrem vel matrem
habeat, id quod infra rogat ipse p. SOS, A, At ita rogare, ut
praedicatum ponas ZpcoS, ac deinde genitivi sensum velis esse
lionc, quem negat esse, id vero ridi- culum est. Ridiculum igitur
hoc quoque, si quis, quod recte in- terrogatum sit, ac ne male
accipi possit, addito praedicato ipooS praecautum, tamen ita
accipiat aut accipere simulet. Pertinet igitur hoc ad sophistarum
captio- nes fraudesque deridendas, ba- betque vim hand exiguam ad
firmandum io praecedentibus posi- tum IponS contra libros eos, qui
id omittunt* ei avto tovto itatkpet iJpojtGDV . Imperfectam
cum el particula coniuuctum in hu- jusmodi enuntiatione aliquid
sumi fieri indicat, quod revera nou fiat ; aoristus addita av
particula actionem exprimit, quae sine du- bitatione futura esset,
si fieret illud, quod fieri tantummodo sumitur. Paullo aliter
Stallbaumius ad h. 1. : Imperfectum , inquit, indicat id,
quod nunc fieret, si fieret: aoristus autem signifi- cat rem ita
esse comparatam, ut e vestigio possit perfici et ab- aolvi. Avto
tovto icatipa mi- nus recte Stallbaumius censet idem plane esse,
atque natipct avto tovto, oitep l6tw. Neque recte Schleiermacherus
verba con- vertit: Wie wenn ich nach ei nem Vater selbst fragte.
Schulthes- sius eodem fere modo: wie wenn ich grade vom Vater
ftagte. Avto tovto sequente uomine ar- ticulo tuo destituto
significat, vog, ov; tfaes av 6>'j xov (iot, d IfiovXov xa%w$
axoxQlvaO&at , , oti t&ziv visos ys V dvyccTQo s 6 xatrjQ
ittttrjQ • ij ov ; ITavu ys, tpuvca rov 'Ayafrwvtt. Ovxovv xai rf /tijtijQ
ascevras; OfwkoysiOftut xai E V verbum, quod in superioribus
commemoratum sit, nunc materiali- ter, ut verbo hoc utar, usurpari,
«t conversio audiat : Aber gleich- wie wenn ichdas Wort Ttaxrjp
selbst aufnehmend fragen woll- te cet. Plura exempla si quae- ris
verborum materialiter posito- rum, indicata reperies in Indicibus*
tlitet av Stj itov poi, el iftovXov* Ei ifiovXov po- situm
est b. e. imperfectum tem- pus fiovXe6$cn verbi, quod po- nitur
velle Agathonem respon- dere, sed revera non fieri, ut vo- luntas
illa respondendi se osten- dat proptserea, quod responderi nequit,
ubi interrogatio nulla proposita est. EhceS av rursus eodem modo
positum est, ut paullo supra, significatque, Aga- thonem haud dubie
dicturum esse, si interrogatus a Socrate respondere vellet*
xai 7) pptpp gdS avtGD$ . !i* e. Stallbaumius inquit, ovx-
ovv xai nepl pjjtpos ooSavtaS %X £L ? dubito, nam recte. Nam ut
taceam articuli ante prjxpoS ponendi omissionem, quo carere non
possumus io huiasmodi enun- tiat io ne, expletior oratio audit
potius: ovxovv xai r\ prjrrjp vlioS ye rj SpyarpoS prjtpp.
o poXoy ai6$ai xai tov - ro* Haec tredecim Bekkeri co- dicum
lectio est, mups apud eun- dem opoAoysid&a habet, tinus
&>poAoyai6$ rursum unus oi- yel<$$&
poAoyeidSaz. Editores excepto Riickerto, qui opoXoyetdSai de-
dit, vulgatum opoXoyijdai in ordinem verborum receperunt.
Hiickertus ad h. 1* aut opoXo - yEioScti scribendum esse censet aut
6fioXoyti6$G). Posterius, inquit, propterea improbandum, quia addi
debebat, si hoc Piato dedisset , <pavai vel alius dicendi verbi
infinitivus, vpoAo- yetdSai autem non habet, quod offendat, modo
passivum esse teneas: concessum esse, immo commendationis aliquid ex
eo. habet, quod in sequentibus quo- que praesentis infinitivus
opo- A oysfa- et infra p* 20 1. A* «w- poXoyat imperfectum non
aori- stus legitur, — Dedimus opo- A oyau5%at codicum
auctoritate moti, nou quod praesens tempus magis nobis placeat, quam
aoristicum tempus , neque magno- pere curamus praesentis atque
imperfecti usum in sequentibus, nam et imperfecti et floristi infinitivus
in huiasmodi enuntiatis frequentissimus est. Neque admodum probamus illud
conces- # sum esse, quod haud scio, an cuiquam satis probaturus sit
Rii- ckertus, Alia de caussa in textu posuisse opoAoyatdSai libnit,
vi- delicet quia proxime ad PJatoaia manum accedere videtur,
atque viam aperit genuinam lectionem restituendi* Etenim scripsisse
Pla- tonem arbitramur opoXoyatv nat tovto , quae scriptura quam
fa- tovto. — "En rolvvv, slnslv xov ZaxQ&xrj, dxoxgivca
oUym itltiu, Zvu fiaXXov xaxa/ice&ijg d |SovAof«a. si yuQ ipotftijv,
Ti 6i; ddsbtpbg avxb tovto oxsg %6nv, ioxi xivog a$iX<pog, ij ov; —
Oavai slvai. — Ovxovv aStlyov ij ddsAtpijg; — ' OfioXoysiv. JTugdi Si/,
cpd- vai, xal xbv”Egaxct slnslv. o "Egtog tgag ioxlv ovbsvog
SOO ij xivog ; — Tldw [isv o vv ’i<Sxiv. — Tovxo /ihv xolwv, slnslv
xbv Zu xguxrj, rpvka^ov nagd tiavztp fisg.v>]fitvog cile
potuerit xai, ut fit, incuria scribarum dupliciter posito in
opoXoyeTtiSai mutari, e verbo maiusculis litteris perscripto pa-
tebit, Scriptum nimirum olim exstabat : OMOAOrEINKAI-
KAITOTTOy ex quo factum est OMOA OrElCQAlKAI TO TTO, ei
yap ipoiprjv, ti 8e; d8e\<po $ avtu tovto oitep iZdtiv* Optativo
modo con- inucto cum ei particula iubetur boc loco Agatho sibi
cogitare ea, quae revera fiunt, tanquam si fieri possint. Utuntur
autem hoc dicendi genere ii, qui interro- gare aliquem aliquid
cupiunt, ne- que tamen interrogationem cautione adhibita nulla proferre
au- dent. Nostrates dicere solent: Denke dir einmal, ich
fruge, quibus verbis interrogationem ipsam annectunt. Hinc
vides, ipsa interrogatione posita facil- 4 lime abesse posse
supplementum, quo in huiusmodi dicendi genere opus esse interpretes
passim an- notare solent: ti av tpaitjS ; Ipsi autem
interrogationi, h. e, non suspensae ex aliis verbis, apprime convenit
interrogandi si- gnnm post ti de; Riickertus edi- dit ti dk adeXtpoS
duabus de caussis , quas nullius momenti eise existimo : quod,
postquam de matre dictum sit ovxovv ?/ pi\- trjp cjSavtGoS;' ad ea
commodius adiungi videatur interrogatio ti de a8e\(p6s ; quid porro
frater , quam ti de; d8e\g>oS , . . quid autem ? frater . , «
qua novi quid, non tertium exemplum proferri videatur, deinde, quod
ea distinctio esse videatur librorum omnium. Alterum nobis argu-
mentum, quo probemus ti 86; scripturam, hoc est, quod adeA- (poS
arcte cum insequentibus verbis coniungendumest; nam adeA- <po$ avto
tovto oTtep £($tiv no- bis est: Das Wort a8t\(pu$ in seiner
absolutesten Bedeutung. Hinc ne comma quidem post adeXfpoS posuimus
, quod in iis editionibus comparere videmus, in quibus posito
interrogandi signo, ti de; a sequentibus verbis disiunctnm est. Restat,
at de 8ad vocula dicamus, quae h. 1. et apud Bekkerum et apud
Stallbaumium in di particulae locum substituta est. Aai non
ponitur, nisi ubi maior animi commotio indicanda est, ut ad-
miratio, indignatio, ira ; vide an- notat p. 191* Merito igitur mi-
reris, duumviros criticos eandem retinuisse in tam quieto disputandi
genere, quale hoc loco est manifestissimum, codex Bod- leianus
exhibet aliique libri non otov ' roOovSe Se elice, itoregov 6 v Eg uq ixelvov,
ov $Onv 1’otog, exirtvfiel avrov, rj ov; — Tlavv yt, (pavae. Tlvtegov
iyav avro, ov iiudv/tei re xal iga, elrcc bu&vfiEL re xal iga, rj ovx
lycov; — Ovx iyav, cos- to elx og ye, tpavai. — Uxoitet S>), ebttlv
tov Zaxgar>] t avrl tov elxvrog, el dvayxq ovrag, ro liri&vfiovv
ha- &v(iecv ov ivSeeg lOnv, rj perj eici^vuilv , iav iu ) iv~
deis r]. ifiol fiiv yag &av/ia0 rug dumi, co Idya&av, B
pauci ; non dubitavimus igitur iu ordinem rerborum id recipere*
Idem Riickertus fecit. c pvXagov itotpd davrc 5 fi£ pvrjpiv
oS otov. Ilaec verba hodierni editores plane non distinguunt
interpunctione, iunguntqne Astius certe et Schlei-ermacherns sic :
<pv\a5,ov itapd 0avT(fi nefivrjfiivoS tovto otov *c. itiriv. Sed
in hac interpre- tatione displicet nimis magno intervallo a tovto
pronomine, quocum cohaeret, divulsum otov eo magis , quod , si a
/iSfivTjfie- ro$ seiungendum est, sic nude ac sine ulla vicina
voce, quacum coniungatur, vix ullus bonus scriptor collocaverit*
Addidisset Plato, si ita verba accepisset, idriv. Accedit, quod
tovto h. 1. vix ad sequens aliquid, immo ad praecedentem
concessionem, Amorem alicuius umorem esse, referendum est. Quibus
de caus- sis veterem distinctionem verbo- rum, qua ante
/.leyvipUvof com- ma ponebatur, revocavi. Est igitur sensus : hoc igitnr
apud ani- mum serva ( sc. alicuius esse,) atque cuius sit, memento.
Hanc Riickerti ad h. 1. annotationem integram perscripsi, ut mclins
possent, qui hoc libello ntuntur, de ca iudicaro. Mihi non
persuasit V. D. Optime Platonis verba convertit summus
Schleiermacherus : Dieses nun, habe Socrates gesagt, lialte
nocli bei dir fest in Gedauken, wovou sie (er) Liebe ist.
iit l$V fXEl OtVTOV. Dc pronomine repetito vide annotat* p. 198*
oJs ro' elxoS y £ * Agatho finem Socraticae institutionis at-
que stragem futnram rerum sua- rum odoratus, nt haberet, quo posset
rebus perditis salvus elu-» bi, quae non poterant non concedi, e
verisimilitudine dnntaxat concedenda censuit* Hinc ojS ro sixoS ys
satis astute addit. Sequentibus docemur, quam male ei haec res
cesserit. Nam aVrl tov eIhotoS , Socrates inquit, videamus, eI
avdyxrj ovtcjS x. r. A. Ceterum verba dvx\ T ov sixoToS brevius
quidem dicta sunt, neque tamen obscurius. Sensus est: 2xoJt£i Si)
— av tI tov A iyeiv d>5 ro elxof ys , eI avdyxij ovtco S*.
Conver- tenda verba sunt accentu orationis in dxoitet verbo posito:
Un- tersuche nun lieber, anstatt dass du sagst, «wie es den An-
•chein hat,® ob nothwendiger \Vei&c es sich so verhiilt*
S av/Ltadrdjs 6oxei , cJ 'AyaZtov, wS dvdyxrj tl* «6g
dvdyxt] tlvca. <Jol dt noog; Kdftol , cpavai, doxel. — Kcd ag Xiysig.
ciq’ ovv (iovXoit’ av tig fieyag av fityccg tlvca , ij 1<>%vq6s av
la%VQog ; 'ASvvmov Ix ruv afioXoytjfiivcav. Ov yuQ xov ivdtijg av
th) xovtav o yt av. — 'Alrj&tj Xiyug. — EI yaQ xal lG%VQog av
PovXolto IcJyvQo g tlvca, cpavai t ov ZkoxQuzij, xal xa%vg av za%vg, xal
vyirjg av vyujs — , S yaQ 3v zig tavza oItj&uij xal nuvxa tu
xocavta v Oii, Non sine ironia quadem, et quo gravius se
opponeret Aga- thoni in re apertissima gqS to eI- xoS ys dicenti^
Socrates verbis uti- tor SavpaQtGoS Soxei, goS avdyxtj x. X. A.
Ceterum Stallbaumius ad h. I, Ne quis, inquit, mire- tur, tanto
intervallo ab juaoTcoS remotam, alia huius ge* neris exempla
notavimus Piat. Phned, p. 95. A. Bastius Spec. Crit. p. 139.
$av/iadT<oSi ooS verborum seiunctione a$eo offensus est, ut de loci
veritate dubitaret. Diximus de coS cum aliquo adverbio coniuncti
stru- ctura apnotat, p. 12., cuius stru- cturae originem qui
reputaverit apud se, is mirabitur magis ad- verbii cum ai?
artissimam con- junctionem, quae epud Platonem veteresque
scriptores Graecos sae- pissime reperitur. Unum exem- plum ut
laudem coS ab adverbio suo disiuncti, legitur in Piat. Theaet. p,
157. D. Savpad Tt£( (paiyexai cos fynr Xdyov . ix r&r oa
poXoyrj /livar. Respicit Agatho ad verba ro iiti - Svpovv
iitiSvpelv , 'ov IvdsiS idriVy ij fi?) iittSvyeiv, iav p?) ivdelf
y. Patet igitur, prae- senti tempori dpoXoyovpivoov hio non locum
esse, quod vulgo edebatur.
eI yap xal idxvpos < 3 * fi ov \oit o . Socrates ad eum
iinem tendit, ut Erotem omni ornatu privet, quo eum, qui ante se
locuti essent, donaverint. Et cum iu superioribus esset judica-
tum, Amorem alicuius rei appe- titum esse, cardinem rei nunc in eo
versari vides, ut, neminem id appetere posse, quod possideat, atque
vice versa non possidere, si quis, appetat, quod appetat, probetur.
In qua re ne sophi- stico quodam artificio circumve- niretur,
Agathoque ad indoctio- rum hominum sermonem confu- geret, qui cum
alia male, tum et- iam hoc sibi indulgeant, ut di- cant iycj
vyiaLvoav fiovXopai xal vyiaivEiv, ipsum hoc dicendi genus Socrates
nunc adit , atque quid sibi velit, exponit. Singula verba quod
attinet, anuotftt Rii- ckertus ad h, 1. rectissime: Pro- tasin
ponit auctor, cui deinde parenthesin subiungit, qua ra- tionem
reddat eorum, quae in protasi dicta sunt, atque cur liceat ea
ponere, ostendat. In qua quum plura fuissent dicen- da, ita ut etiam
periodi com- plures existerent, non potuit simpliciter reddere
protasi apo- dosin, sed novam instituit: aAA* Ztav tiS Xiyy } quam
deinde se- quitur apodosis, qua quid tali ho- zovs ovras ta
tolovtovs xai iyovxag ravta rovrov, C ancg $x ov(Sl > tTCL&v^iuv.
iv’ ovv (irj e^axart]d‘d- (uv, rovrov tvtxa Xtya. rovtovq yccQ, w
'Ayaftav, d Ivvodg , £%Uv fiiv exaOrov rovrmv Iv rai naqovri,
avctyxrj , a %ovtftv, lav re fiovXavtai tav re p 17, xai rovrov ye 6 rj
tcov rts av haftvfirjaetsv ; aXX’ orav ng Xiyy, ori ’Eya vyiuLvcov
fiovXouat xai vyialvuv, xai aXov- tav fio vXofiai xai xXo
vreiv, mini respondendam sit , demonstratur. Est autem inter
utramque protasin hoc discrimen, ut» in priore ponatnr aliquis hoc dicere
simpliciter atque sic, ut plane non quaeratur, fiatue id rerera aut
fieri possit, necne, in posteriore autem, postquam demonstratum est,
fieri posse, res pro certa' et vere eveniente perhibeatur.
rovrovS yap, 0 0 'Aya- $gjv, ei kvvoeiS. Haec est vulgata
lectio, quam praeter Riickertum omnes editores improbarunt. Pauci sed ii
optimae notae codices rovtoiS exhibent» Utrumque ferri potest atque
com- modissime explicap , sed magis placet accnsativus casus, ei
iv- YOErS Ruckertus cum nostratium formula comparat: verstehst
du wohl? quae formula cum Graeca nihil commune habet, quam verbi
finiti usum absolutum, ei iv- YoeiS potius est: si sapis, wenn du
verstandig sein willst. .xa\ rovrov y e dij itov r is av litiSv
p.rj6eiev . Sic in omnibus editionibus legitnr, neque quicquam verbis
inest, quo offendaris. Sed quaeritur, an non facillima accentus
mutatione scribendum sit: »al rovrov ye 6 r} nov us av
ixi&vjLt?j(Seiev , quo xai eni9v[ia avriav rovrov,
Scriptura orationis accentus in ijttSvpijtieiev ponitur,
significan- tiusque indicatur, ne cogitari quidem posse, ut
aliquis, quod possideat, id possidere cupiat. Ce- terum
Stallbaumius annotat ad hunc locum : Refertur rovrov ad praegressum
exadrov rovrajv, a ix.ov6tVy ita ut iu universam in- tclligendum
sit o Rectius, opinor, Mxetv suppletur, quo facto luculentior fit insania
eorum, qui et habent atque illud ipsum habere concupiscunt»
iytA vyiaiveiv (iov\o- pai jcal vyiaiveiv. Vulgo Tccci deest
ante vyiaiveiv et ante irXovreiv. Idem Ficinus in conversione non
agnoscit: At ego, sanus dum sum , volo equidem sanus esse , et dives
dum sum, esse dives. In ordinem verborum voculam recepit
Stall- baumius Bodleiani codicis aliorumque non paucorum librorum
auctoritate motus. Frustra Rii- ckertus ad h, 1. : Profecto dubi-
tare, inquit, aliquis possit, an Platonis manus xai particulam
addiderit. Kat enim ut aliquem sensum hoc loco habeat, addendi vim
habere Oportet. Iam quod additur, non potest esse to vyiaiveiv et
ro likovreiv , quis enim ferat dictum; Ego qui sa- a i%a , £xoijisv
av avta, ori Zv> to avdpmxe , n).ov- D tov xtxTTjtuvos 'Ma vytuuv xcd
l(S%vv (iovXu xal ilg rov ibici ra %qovov rubra xexrij<f&cu ' insl
Iv roJ ys VVV XttQOVTl, tltl (iouXu £LTB flT], fjJStg. (SXOXEl OVV,
OTUV tovto Xiytjg, ori Esn&v^ito rixiv naQovrcov, ei ccXXo
n Xiyus V toSe, ori BovXofiai ra vvv xaQovru y.cd tig tov Zituzu
xqovov TtccQtZvai. aXXo n ofioXoyoi av; X vp- tpavai ¥qnj rbv
Aya&ava. Ebttlv 6tj tov 2koxQutt], nos sum, copio etiam sanus
esse? Immo hoc licet: Ego qui «ura sanus, etiam cupio ut sim.
Quod igitur additur, To (iovAt6$ai est. Iam quaeritur, liceatne
sic post illam vocem , cui additur, xai particulam collocare, —
Ad- dita xai particula optime habet hoc loco, quo id agitur, ut
error eorum clarius appareat, qui hu- iusmodi dictione
utantur. aWo ri o/ioAoyol av; o ti cum vi hoc loco ponitur,
cum in praecedentibus iam eo usus sit scriptor Cxotcei ovv — ei
«AAo ti XfyetS rj tovto. Non raro autem Graeci r/ cum suis verbis
omiserunt in interrogationibus brevitatis studiosi atque nolentes, quae
facile ab auditore suppleri possent, eadem disertis verbis
commemorare. Sic nostro loco expletior oratio uudiret: «rAAo ti ?}
tovto d/*o- A oyoi av ; Factum deinde est usu loquendi, ut etiam in
eiusmodi interrogationibus aAAo ti ponerent Graeci, in quibus nihil
cogitari potest, quod cum ?] sup- plendo suppleretur* *w4AAo ti
igitur, recte annotante Matthiaeo Gramm. ampl. 487. 9. p. 914,
interrogativae particulae vices obtinuit, ut cum vi ex* pvimeretur,
rem nou aliter se habere, atque in interrogatione expressa
sit. cfr. Piat. Hipparch. p. 226. E* <rAAo ti ovv oiyi
<piXoxep8iiS <pi\ov6i to xipdoS; Piat. Charmid. p, 167. B.
aAAo ti ovv s tavta Tavra av elrj fiia TiS iitldTlj/irf ; Vide
prae- terea Hensdium Specim. Crit. in Piat. p. 59«, Stallbaumium ad
Eu- thyphr, p. 104, Paullo infra p. 200. E. aAAo ti S&etv 6
"Epcof Itp&TQV p\v TlVCJVf httlTCL TOV - tgdv,
G)v av iv8nct rtapij avtw ; ovxovv tovto y * &6x\v
ixeivov ipav. Vulgo post ovxovv 6 1 / particula additur, quae cum iu
plerisque codicibus non reperiatur, e textu semota est a EeLkero,
Astio, Stallbaumio. Btickertus, ne parum verecundus videretur
librorum auctoritatis, uncis 8 7f includendum curavit, quod nisi
codicum auctoritas ob- staret, in ordinem verborum re- cepturus
fuisset, u o viteo itoijiov avTtjj i6tiv ov8h Sanissi-
mam horum verborum distinctio- nem deleto post Zxett posito
poat &6tiv commate Kiickertus corru- pit. Negat autem V. D. ,
to iis tov hteita xpovov — tu vvv Ttapovra esse posse tovto
pronominis defiuitionem accuratiorem, quod ipav ixeivov non Ovxovv tovto
y’ l6rlv ixelvov Igdv, o ovito eroipov avrei Itiriv ovde S%u y ro elg rov
Situra %gbvov ravra tlvai cwtc 5 Oco^opsva r a vvv itagovra; — Tlaw ye,
cpa- E vai .Kal ovrog aga xal aklog itdg 6 hu&v[uov rov pr]
iroipov liudvfjLSL xal rov [irj itagovrog , xcd o /u?) Syei xal o [it]
Sdriv avzog xal ov tvderjg i<5n y roiavz arra iti tlv cov 7] hnftvpta
rs xal 6 Sgcog Itiri. — Tlaw y , elituv. *Iftt di]\ tpavat rov 2koxgazr]
y dvopoAoyrjtia- respondeat, tat elvai, sed r» fiov \s 6$ a i elvai
ravra av- rc o 6co%6fUva. Fugit autem Rii- ckertum e verbis
praecedentibus fiovXopai ra vvv itapovra xal cis rov Mneita xpovov
xapcivai nostri loci verba petita esse ita, ut, quoniam proxime
praecedat fiovXopat verbum, id ipsum e praecedentibus facillime
supplendum omitteretur. Conversio verborum haec est: Also bedeutet dies
eben, namlich ( vide annot. p. 59.) (dass auch fiir die Zu- kunft
der gegenwartige Besitz crhaltcn werde, das bcgehren, vas cincm
nicht zu Gebote steht und er nicht liat. Ceterum ut apud nostrates,
ita apud Graecos pronomen relativum et subiectum est et oblectum
enuntiatiouis, cuius rei inde petitur excusatio, quod sive
accusativum sive nominativum posueris , forma pronominis eadem manet.
xal ovtoS dpa xal aA- X.oS it a S o* i 7Ci$ v /x at v rov p
t} kzoipov IkiSv pcl x. T. A. Ne loquacitatis Socratem nccoses, qui
commemoratis rov pr) kzoipov verbis insequentes definitiones
reticere debuisset: hoc agit vir providentissimus, ut ancoras
penitus praecideret, quibus peritura Agathonis navis teneri atque servari
possit., Sy, (parat tor Sco* xparrf. Utitur nunc Socrates ad
refutandam Agathonis senten- tiam hac argumentatione: Quae cupimus,
inquit, ea nondum pos- sidemus. Amorem autem cum dixeris
pulcritudinis cupiditate teneri, necesse est, eam ille non habeat.
Alioquiu enim non cuperet. Quum autem pulcrum at- que bonum idem sit,
caret Amor etiam bono. Stallb» av opoXoyijdoops^a ra
clprj pev a h. e. repetamus, quae hucusque dicta sunt ita, ut eodem
modo, at- que hoc factum est paullo supra, de iis inter nos
conveniat. Haud raro Graeci scriptores brevitatis studio verba ita
commutant, ut pro verbo linito cum aliquo adverbio vel adiectivo
coniungendo verbum ponant eiusdem atque adverbium radicis. Sic
paullo infra 202. A. legitur prj roivvv avdytca^e, o pi) xaXov
idtiv, alCxpdv £t- vai x. r. A., ad quem locum vide annotat.
dXXo n l6nv 6 *EpfoS. De trAAo ri significata atque de jj
particula omissa vide annotat, p. 238. iit e ira rovratr* His
ver- bis accuratior continetur defini- fu &a ru dQtjjikia.
iikko n ItStiv 6 'Epos xqotov (ihv SOI TLvdv, Ibuira tovtuv, av av SvStia
rtaQy avta; — Neu, tpavui. — ’Enl Si] tovtoig dvafivrjG&Tjri, Tivav
tcpyO&a iv tiS koya tlvcu rbv ’ 'Egma . d Se fiovkti, iyd Ge
avuiivijGa. oinai yaQ <Se ovrwaL itag dntZv, ou roig &eolg
xatsGxBvuG&r] ra XQuyfiata Si "EQana xakdv’ mlo%Qav yotQ ovx Biy
'Epcog • ov% ovtaxsi mog Hkeytsf — Ehtov yuQ , cpavai rov 'AyaQavcu Kut limixdg ys kiysig, d izaiQB ,
qtuvai tbv ZaxQazr]. xal tl tovto ovxag cikko w 6 "Eq os xalkovg av
tiij tio eornm, qnorom Amor amor i, desiderium est. Sensos est :
Erst- lich ist Eros Liebe eu etwas (vi- de p. 200. A.) uud das ist
zwei- tens das, vroran es ihm gebricht. Ceteram ne mireris, cum ia
supe- rioribus Socrates simplici verbo semper usos esset idtiv in
eius- dem sententiae efformatjone, cur nunc compositum 7tapy
exhi- beat: itapeivai hoc loco non attributum describit, sed
aliquam Erotis conditionem internam, sine qua ille ne cogitari
quidem pos- sit: ein Mangel, der ei ne fiedin- gung ist seines Wesens,
ei dfc povXei* Duplici modo consilii mutatio apud Pla- tonem
indicatur, aut enim pix A- Aok di ponitur, de quo supra dixi- mus
annotat, p* 15., aut ei Sl fiovXei. Multum interest autem, utrum
hac an illa dicendi forma utaris» MixXXov 6i poni solet, abi res e
loquentis iudicio apta est, qui vel ipse se corrigit, vel alium, nt
se corrigat aut aliquid mutet, adhortatur. El dfc fiov- Au autem
non nisi ita usurpa- tum reperies, nt loquens suum iudicium ab re
prorsus secludat, omnem alius voluntati liberrimae
subiiciat» Sic nostro loco Socra- tes, quicquid Agathoni placuerit»
id se facturum profitetur. Con- tra p. 173* r\6av roivvv rota - de*
paXXov di apxtjS vfiiv — itEipa.6op.ai StTfyTjdad^at. Apollodorus
mutato consilic re- ctius se acturum censet, si ab initio rem
narrare studeat. aidxp^y y&P ovx elrj v EpajS, Dixerat
Agatho p, 197- B. oSev 6t) xal xaredxevddSrf tgov $egjv x a
7tpdyjiata ”EpGQ~ roS lyyevofikvov 6rjA.ov ori xaAXovS. aldXEt yap
ovx ht- edriv "EpcoS. Haec Socrates cum minus accurate
repeteret, verba addidit ovteodi TtcoS, Ceterum scriptum
exspectaveris: aldxp&v yap ovx eivai "Epcora* Opta- tivo
posito scriptor aliquid in- dicare voluisse videtur, quod ad^ missa
accusativi cum infinitivo coni aucti struetnxa prorsus pe- riret
atque evanesceret. Hac nimirum structura verborum ni- hil indicat
scriptor, quam sen- tentiam eins, qui priori tempore locutus sit,
nunc referri* Opta- tivo contra, qui praecedenti ac- cusativo cum
iufinitivo conjun- cto annectitur, etiam verba il- ?gag, ai(S%ovg d’ ov;
— 'Slf/Myti. — Ovxovv ofiolu- yijTca, ov tvdcijs t<5u xal Ifca ,
rovtov Iguv; — Nal , ihtilv. 1 'EvSsrjg &Q* xal ovx %%u 6 'Egcog
B xaXXog. — ’Avdyxr}, epuvui. — Ti 8 b; to tvStlg xdX- kov e xal
(iijCufiy xsxTtjfdvov xaXXog aget XiyEig 6v xaXov tlvai ;Ov Sijra. —
"Eu ovv onoXoyd g "Ega- tcc xaXov Eivca, d reditu ovrag — Kal
rbv ’Aya- &ava dittZv, KevSvvevco, to ZXbxQareg, ovdhv sidi -
T t r ~T7~ \ s . . T f T vai ov tore euzov. n.ca prjy
’Ayuftov. alXa tiptxQov lius referri significat , ant si haec
non repetantur revera, tan- quam talia , qualibus ille usus esset,
referri. Ubi autem ipsa verba laudantur, aut tanquam ipsa,
consentaneum esse videtnr eum, qui ita loquatur, illis verbis ma-
lus, quam aliis, pondus tribuere* Jam si reputamus, Socratem id
agere, ut ostendatur, Erotem pol- cro bonoque prorsus carere, eam
potissimum Agathonis sententiam ab eo tangi consentaneum est, qnae
huic consilio maxime offi- ceret: aldxp &Y Y<*P ovx ^7t£6riv
M EpcoS. Verba convertenda sunt: Denn ich meine, dass du ohngefahr
folgender JMaassen sprachst : dass die An- gelegenheiten der Gotter
dnrch den Eros znm Schonen vollkom- xnen in Ordnung gebracht
wor- den waren, denn des Ilass- lichen wiire kein Eros. Eadem
prorsus verborum stru- ctura apud Xenophontem repen- tur Hell. III.
2, 23. dxoxpiva- fjiivcov 6e tc3 v * HMdajy, ori ov 7tovj<Seiar
xotvra • iittXrjtS aS y a. p i xoi&v r a S tiqXeiS* <ppovpav
iqnjvav ol upopoi. Dixerunt autem, ut videtur, Eli- denses:
imXrjidaS yap Uxopev yt umg, <puvcu, o thd • rayccfta ov
udi C x aS 7Co\eiS. Adde Hell. VT*. 5. 36. o 6e itXndroS ijv
XoyoT, cJ? xara xovS upxovS fiorjSriv dioi. ov ydp ddixj/tidvTGyv
6(pd>y ijttdparevotey ol 'Apxadss xal ol ptr * avrcjy xoiS AaxeSaipo-
yiotS • Praeter hos Jocos alios nonnullos Riickertns laudavit an-
motat. ad h. 1., quam vide. ov ivSeijs idri xal pi) Non opus
est, ut ac- cusativum pronominis relativi re- petas e praegresso ov
genitivo; verba enim xal p?j ixei posita sunt usu Graecorum liaud
infrequenti pro wSre p?j Ixziv; p?} IjttV autem absolute positum
est, atque nihil nisi meram verbi ZxttY notionem negat* xal
prjy xaXco $ ye el- 7teS. Annotat Riickertus ad b. ]*: Et tamen
pulcre quidem di- xisti. Laudaverant omnes con- vivae Agathouem, ut
qui pulcre et praeclare dixisset, nec mino- rem, ut videtur, ipse
de se ha- buerat opinionem. Quare quum postremo eo sit deductus, ut
ni- hil se scire confiteatur eorum, quae tum dixerit, haec
subiicit Socrates; quibus quanta sit- iro- nia, qua et ipsius Ag?thooi«
fa- 16 f y.uMi Soy.EL aoi ilvai; — 'E/ioiyt. — EI
ccqci 6 "Eq ® g rcSv xaJhov IvdsrjS ^OTl, tu di ayn&cc xaXu ,
xav tuv riyuftuv ivdltjS sttj. Eyd, (pctvca, oJ EdxQOlig , 6oi ova
av Svvcdfirjv uvrdiynv, ais.’ ovtwg ^trra, dg Gv tiyug. Ov fiiv ovv ty
dhftilu, qjavai, d tpUov/iEvs ’Ayaft av , dvvaGat. civuliyHV Inii
Ecoxqutu yc ou- div %ttkiit6v. stus et amlitornm vani
opplan- sos perstringantur , etsi nemo non debet sentire , tamen
locum plane non intellectum video a Schleiermacliero, qui verterit
: Gur recht m a g s t du daran wohlhaben. Tmrao vertendam :
Und da hast ia doch tchoo ge- sprochen. — Socrates acerrimus haud
raro eorum cavillator, qui fasta maguiloquentiaque vanita- tem suam
obtegere studebant, mitem iis statim sesc ostendere solebat, qui
errores suos confiterentur. Quod cum praeter exspectationem subito fecisset
Aga- tho, homo alioqnin pollens inge- nio, xai fxt}v xa\wS ye
elzeS verba Socrates ita exhibuisse consentaneam est, ut id
remissa omni ironia atque cavillatione fecerit» Rectissime igitur
Scblei- ermacherus verba cepit, ad quem Riickertus recurret, quando
desierit nat fitjv et tamen interpretari. Vide annotat, p. 6» rdya$d ov
xat x aXd x. r. A. Habes syllogismum per inversionem , quo qui
utantur, id agunt, ut alterum membrum enuntiationis , quod priori
loco positum atque in conclusione re- petitum est, prae ceteris
verbis extollatur vique augeatur. Ilem quod attinet, concessa
pulcri bo- nique aequalitate Agatho gravissimam stragem suae orationi
ipse intulit, eiTecitqne, ut ne bonus quidem Eros esse
diceretur. Xam mireris vel inertiam Agathouis, qui noluerit, quod
argumentis non confirmatum sit, id itnpuguare, vel Socratis
negligentiam, qua non argumentis probarit, quod ab Agathone impugnari
posset facillime: bonum idem esse atque pulcrum» Sed monendum est,
Graecos boni pulcrique notionem ita animo conceptam habuisse, ut alteram ab
altero seiuuetum non cogitarent. Quod pulcrum, iisdem et bonum
fuit, neque bonum iudicatum est ab iis, quod nou et pulcritudine gauderet;
Ilinc Socrati uon metuendum erat, ne forte Agatho negaret, bonum idem esse
atque puierum, adeoque argumentis sententiam confirmare
supersedere poterat, ut si addidisset, nimia sedulitate id factum
auditores existimaturi fuissent. i y co — do i ovy< dv 8 v
• vaiyLi}v dvxiXkyziv, U- trumque et non pulcrum et non bonum
Erotem esse, Agatho con- cessit sed diverso modo. Non pulcrum,
sincere et candide, non bonum, adhibitis sophistarum ar- tificiis,
ut non rem ita esse con- cederet, sed suam disputandi im-
becillitatem confiteretur. Igitur accentus orationis in vocalis
€yoo et doi ponendus est, quns *cri~ Cap. XXII. I
Kal fl£ n&v ye tfdrj hx<Sa> • tov 6s Xbyov rov xtfA D tov
"Eqcjtos , ov jcot’ jjxovect yvvcaxbg Mavttvtxrjg zho- tlfiag , ?}
tccvtu te <Socpr) i] v y.al aU.a aro Xla, v.al ’J%qvaloig note
dvaafUvotg arpo rov Xoifiov Stxa foj ptor, quo validius prae ceteris
verbis eminerent, ipso enuotiati initio collocavit» Sensus est: Mea
imbecillitate, non falsitate sententiae meae factum est, ut ego a
te, homine peritissimo disputandi vincerer. Verborum conversio haec
est: Ego, (homo imbecillis), tibi, (peritissimo disputandi) (etiamsi vellero,)
contradicere non possem, sed (vincerer, st contradicerem, igitur) res se
habeat, ut tute dicis. Ad verba ovx ar bwaipjjV sup- plendam est, ut
in conversione indicavimus, ei xal fiovXoifitjri soletque haud raro
in enuntiatis conditionalibus alterum enuntiati membrum omitti;
exemplum hu- ius omissionis si quaeris, vide annotat, p, 201. Pro
aXXa par- ticula aliam exspectaveris , quae non oppositioni, sed
conclusioni indicandae inserviat. Ni fallor, brevitate quadam
dicendi Aga- tho usus edt , quam commotiori eius animo apprime
convenire arbitror. In loci conversione indicavimus, quomodo verba expleri
possint atque a\Xa praepositionis usus excusari. ov ovv tp aXtj$ eip
h. e., Stallbaumius inquit, imo vero cobtra veritatem non potes
disputare: nam con tra Socratem tibi facile est. Ov f.ibr ovv voculis Socrates ita
utitur, ut indicet, recte quidem Agathonem negasse, sed non in re
negationem adhi- buisse, quae revera necanda esset. Exprimunt
igitur ov fikv ovv voculae lenem correctionem h. e. rectiorem
interpretationem prae- gressae sententiae, quae aliquid veri
contineat, sed cum veritate non prorsus conveniat. Das heisst also,
lieberAga- tho, du Jcannst der Wahrheit nichtentgegen spre- chen,
deun dera Socrates ist es keine Schwierig- keit* xai
p£vyei/8y£d~ ($<o. Respicit Socrates ad p. 199. B. Uri xoivvv —
n apeS fioi ’Aya$&iva dpi?cp * artet £p£~ 6$ai X. r. A. > ut
verba nostra significent: Ac te quidem, quem pauca quaedam
in- terroga rp me velle supra indicavi, nunc mittam. ,o
rror* rjxovdaywai- xo S MctvtivixijS. Vulgo pav- ttxr/S legitur;
illud pauci sed op- timae nolae codices commendant. Vulgatae
scripturae originem solertissime indagatus est Stallbaumius: Vocatur, inquit,
Diotima Mavtixi } ut infra p. 211. D., quum proprie deberet
Mavtivif * 16 * avu(ioXr)V Inolrfii rrjg votiov, rj
drj xcd Ifie r a tga- t <x« Ididafcev , — ov ovv Ixtivtj PXtye Xoyov ,
nugaOo- aude factum est opinor, ut grammatici scriberent / lavxixijS.
At enim solent nomina possessiva liaud raro occupare locum nominum
gentilium, de quo loquendi genere vide Davis* ad Max. Tyr. \ p,
588* et Fischerum ad Welle- ri Gramm. T* III. P. I. p. 299* — Non
recte autem addit V. D. : Neque eatis ad rem accom- modatum est ,
quod vu/go lege - batur , f.tctvziH7}. Quae enim Vio - tirna de
amore disputasse nar- ratur , ea non vaticinandi arti debuit y sed
ingenii sui praestantiae ac virtutis. Eodem enim iure cogitare possis
pavxiKt) positum eaee, quo scriptum legitur paulio infra dvaftoXrjv
inolyde tijS vodov, neque necessariam est, ut, cum dicatur
orationis auctor fuisse mulier fatidica, va- ticinandi arte orationem
compo- sitam censeas. Porro mulieri eique peregrinae datam esse
ora- tionem hanc, ut convivae ridean- tur, qui, quum divinioris
amoris vim et naturam plane non ca- perent, tamen in dei
laudibus celebrandis mirifice cxsultareut, Stallbaumio non
credimus. Quem enim pudeat a femina melio- ra doceri , cuius
sapientia prae- claro facinore, h. e. dvaftoXy TtjS vodov probata
sit, et quam ipsius Socratis, sapieutissimi ho- minis, magistram
fuisse, huius lo- ci verba testantur. Num Periclem autipsum
Socratem puduit Aspasiae Milesiae praeceptis edoceri ? Ad- dit
Stallbaumius: Cur Diotimae potissimum has parte* Plato tri- buerit,
neque Aspasiae aut alii chidam nobili feminae illius aetatis , id quidem
exquiri nullo modo potest propterea , qnod a scriptoribus
aequalibus aut snp- paris aetatis de ea nihil memoriae traditum est. Quae
autem seriores scriptores de eadem nar- rant, ea maximam partem ex
hoc ipso loco hausta, aut temere con- ficta-esse , exploratum
habemos. Quae quum ita sint, hoc uuum tenendum putamus, quod , ex
hac oratione discimus , fuisse eam mulierem prudentia et
vaticinandi arte nobilem, quae quum diutias Athenis esset aliquando
commorata, magnam nacta esset sapientiae famam. Diximus de Diotima
Mantineensi in Comment. de Symp. Platonis, ubi, curStall- baumii
iudicio non adstipulemur, indicatum reperies. xal 'AStjv
aioiS 7torh $vdap£voiS repo rov X.o t- r pL o v . Pestis Atticam terram
invasit Peloponnesiaci belli anno secundo h. e. a» 450. Impetum in
eandem fecisse etiam a, 440» ex hoc loco colligi possit; cfr»
Thucydidis L» II. c. 47* p* 214. ed. Haaek. xod ovtoov av- tcjv
(sc. tcov Aaxedcujuovlcor) ov noXXds 7 Cgj rjpepaS iv xy *Axxttc\}
ij vodoS Ttpcoxov ypBfCtxo yevkd^at toiS *A$rjvaioi$ Xe- y o/t ev
ov xa\ icpotE- pov it oWaxo 6'E iyxotra.- d x f/il* a i xal
7tspl Aijpvov nai iv dXXoiS — Pro $v- dajiivoiS H. Stephanus
scriben- dum coniecit Svdapevy , videli- cet ut esset, quo
explicetur ra- tio et modus xrjS avaftoArjS. Frustra, Suspicari
licet , quo l wa vpXv dtfXfttlv l x tav dfioKoyrjfihov Ifioi xctl
'Ayaftcovt , avtog l%* ificcvtov, oncog av dvvofiat. d'ec modo retere*
pestem abigi potaisse crediderint, mutare verba eo minus licet, quo
certius est, .Platonem ipsum xijs avafioArjS modum indicare
noluisse. ov ovv ixeivrj £\eyev . Redorditur abruptum
sermonis filnm ita, ut, quae illustrationis caussa addidit , ca
nunc paucis comprehendat illata particula ovv. Nam omitti poterant
haec: ov ovv ixeivjf £A eye Aoyov. Sta11b. avxoS ix * ijiavx
ov. Vul- go legitur avxoS an* ipavxov ; illud Bastii coniectura
est, quam praeter Riickertum editores omnes iu textum receperunt.
Riicker- tus autem avxoS an* ipavxov ita explicat, ut nolle
Socratem contendat reliqua ex alio elicero per colloquium, sed quae
audie- rit, ex se ipso proferre ano jAVTjfiTjS. Sed aligd est an*
ip- avxov, aliod avroS an* ipav- rov t atque illis verbis concedi-
mus sensum, quemRuckertus ait, inesse posse, verbis contra avxoS
<x7t* ipavxov nihil aliud expri- mitur, atque mea sponte, AvtoS
in* ipavxov legitur io Piat. Alcib. I. p 114. A. el p\v fiovAei,
ipoox&v pe, Ssnep iyco 6 e , ei 61 xal avxoS ini 6av- tov ,
\6ycj 8ie&e A£e, quo loco ex oppositis colligitur, avxoS ini
(jctvxov esse: disputatione remissa, continua ora- tione aliquid
proferre. Probatur haec verborum signifi- catio etiam Piat, Soph,
p. 217. C. itoxepov elcoSaS fjSiov av- roS ini davxov paxpti A
oytp dteSttvai Aeyajv topro , o av iv8ei%a6$al xcp
ftovAjjSpS , rj 6t* ipcjx?f(jeaov , x. r. A. Igitur hoc loco cum
ceteris editoribus avxoS in* ipavxov in ordinem verborum posuimus.
Schleier- maeberns verba convertit: vou dem ausgehend, woriiber ich
mit Agathon iiberein gekommen bin, sonst aber ganz fiir mich
al- lein, s o gut ich eben kanu. Sensas es* potias: N&chdem ich
mit Agathon iibereingekommen bin, werde ich versnchen,
Diotimas Rede in einer zusamraenhangeu- den Darstellung euch
iviederzu- geben. Verba autem ona>S av Svvcduai excusantis sunt
oratio- nem minus elegantem atque in- cultiorem; quae verba,
quoniam Socratis dictio bona est et recta, in eorum orationes
convehun- tur, qnae nimia cura elaboratae sunt atque inutili ornatu
conde- coratae. &snep dv dirjyrjd co . cfr. p. 195.
A. ovrco 6rj z6v"EpGoxa xal ijpds dixaiov inaivedai npdoxov
avxov , olds idxiv, inni- xa xaS doOeiS. Eiepa xotavta
iAeyov. n ExepoS vocis significatio prima- ria est: alter: respicit
igitur ad alterum, qui alteri vel simi- lis est vel dissimilis.
Hinc iit, nt ixepoS diversum denotet, cuius notionis exemplum
est Sp mp. p. 186. B. Zxepov xe xal pcvopoiov i6xiv . Nostro
contra loco, ubi similitudinem inter al- teram et alterum exstare
com- paratio instituta docuit, ixepoS verbum fere idem
siguificat. Recte Stallbaumius verba con- 6>), m 'Ayct&av,
agntg Gv 8iryyi)&» , 8uX%t tv ainbv jB ngatov, xlg iGuv 6 "Egeo
g xal nolo g ng, Inura xa igycc ccvtov. Soxst ovv fioi gnGxov tivai ovrca
ditX- Sftlv , as xtox' kfie rj £,tw) avaxgivovGa Snju. GytSbv yag
xi xal lya ngog avrfjv triga toutvta D.tyov, olccntg vvv ngos (fit
’Ayd9av, as &>1 w *Egas ptyas &toS, ili) 8t zav xaXav.
koyoig, olgntg iya rovtov, vertit : itidem talia. cfV. Gorg.
482. A, vo/iige toiwv xa l nap* ifiov xPV y0( * £xepa rotavta
dxoveiv % Adde Pro- tag. 3^6. A. Interdum compa- ratione admissa
nnlla exepoS no- vae rei accessionem denotat , at in Alcib, II. p,
138. C. tcepot rtpoS xoiS vnapxovdi xaxijpd - ro , h. e„ nova mala
praesentibus addidit precando. Ibid. p. 149. evprjdEiS de xal nap 9
t Opijp<p &c£pa itapanXijdioc xovxoiS el- pr/pfra,
p£yaS SeoS, Sydenharaius dyctSoS $£of scribendum esso
censuit. Nisi fallor, minus est «pitheton, quo omnia continen-
tur,. quae ab Agathone Eroti at- tribuuntur, quam 5eoV substan-
tivum urgendum, Quamquam enim in proximis de epithetorum veritate agitur,
tamen de iisdem iam disputatum est in superioribus, Nunc retractantur
eadem, ut facilius ad sententiam eam aditus pateat, qua deum esse
Erotem Diotima negat. Insequentia verba rectissime Stallbaumius
interpretatus est: KaXcjv, inquit, pendet ex "Epeo? t quod etiam
hio positum est, ut p. Ip6. D. Adde praeterea p. 204. D. l<$n
/ily ydp 6tj Toiovroi nal ovtcoS yeyorwi q "Epca*, $dxt 8k
xooy rjXtyyt di) fit Tourotg rotg ag ovxt xaXog tii )
xatci xaXcSy. cfr. annot. p. 209. Verba convertenda sunt:
Dass Eros ein prosser Gott, und dass er die Liebe des Schdnen
sei. ovx ev deis . Rii- ckertus ad haec verba h. e.
in- quit; bona verba, quaeso. Du- bito, nuru recte. Bona
verba apprime respondet nostratium : Nur gemacli, nicht za liitzig,
iis- que verbis utuntur, qui iratos, minitautes, iuiuste accusantes
il- ludunt. Sic Davns in Andr. Ter. Act. I. Sc, II, v. 33. cum
herus dixisset; ubivis facilius passus sim, quam in hac re, me
delu- dier, Bona verba, quaeso, re- spondit. Cui herus rursum;
In- rides, inquit, nil me fallis. Ev- qxtjpElv verbo respondet
Latino- rum favere linguis, utrum- que autem dicitur, ut sibi
ca- veat aliquis, no mali ominis verba pronuntiet. Sic in Piat, de
rep. I. p. 329. C. f cum aliquis So- phoclem aetate provectiorem
iu- terrogasset Ixt oloS X * el yv- yaixl dvyyiyvedSat,
respondisse ille fertur; LvcpijpEt, qj avSpGD- 1 te. Adde Alcib,
II. p. 143. C. *A\x. Evipiput npoS JioS , gj 2o oxpocfEf,, JS, ot;
xoi roV A i- yovxa , gJ UXxifipadtf , goS ovx dv iS&ots: dot
xavxa TtEnpd.- XSaij Exxprjpeiv det de xeXeveiv, d\Kd pdXX ov noXv
ei xts tei ' . ETMnOEION. 24 ? tov 1/J.ov koyov
ovxs dyu^og. xul iyui, /7ws ktytig, k'(fr]v, a z/tortfta ; cda%Qo g uga 6
’Ega g loxl xcd xa- xog; Kal i/, Ovx tvtpTjyyOtis ; £<PV' V olet,
<" xi av fijj xakbv y, avuyxatov avxo uvul alaygov, — Md-
£oi h&ca ye. — *// xal dv yy <Soq>ov ctyaDig ; y ovx
yO&yOai , on latt n yuxu.lv <Soq>tae xul aua&lag; —
Ti xovxo ; — To 6 q9cc do|«£av xal civiv tov I^hv loyov Sovvai ovx
oi<J&’, irpy, on ovx e hititix aGftui ivavxla Xiyoi' iitel
(67) ov- ' toj doi Soxei (jtpoSpa 8 e iv 6 v elvai r 6 7t p a y
- fM)C f &ST 9 OUfifi f>7fTEOV tlvai ovzcdS
elxij x.x.X. 7 / xal av fxrj docpov df.ia- 3 Astios ij , qucd
vulso legitur, servandom duxit, ut quod ad praecedens tj ^ *•
1,0 tn fortasse censes, referendum sit. Frustra. Illic male
vulgo 7 £ exhibetur, uostro contra loco 7 plena interrogatio est:
Num et- iam censeas . vide annot. p* 10. Ceterum frustra huno locum
vitiosum censuerunt viri docti. Stephanus ori post 1 / inferciendum
censuit , Wolfium ossentientem habuit. Stallbaumio e superioribus
zi repetendum vi- detur. Nos deleto post do(pov commate pleniorem
orationem audire arbitramur: 7) xat av otoio ’/«/ docpov
apaSis ; vide quae dicta sunt p. 10. Probari autem vides , quae
illic de r/ et 7 / dillercntia disputavimus; num 7 / 0 U 1 cum
veritatis specie pro- fertur, quam reddere latine pos- sis
fortasse. Ea veritatis spe- cies, ut mutata particula rema- neret,
ad verbum post 7 supplendum dv additum est. xal dv£v tov ix etv ^o-
yov Sovvai. Stallb. HCCf deleto, quod ab inepto gramma- tico
additura censet, sententiam verborum ait haac esse: llccte indicare
ita ut iudiciitui non possis reddere rationem, nonne putas esse neque
scientiam neque inscientiam? Cum eo Sclileierm. consentit verba
convertens: Weun mau richtig vorstellt, ohue iedoch Ilechenschaft
davon gelren zu lednnen. Stallb. addit praeterea si xal verum
esset, reliqua haud dubie sic se habereut : xai 0*'X £xeiv Xoyov
Sovvai. Multo deterius Huchertus in explicandis his verbis versatus est :
AoB,a2,eiy u/jSa xal dvev tov %x £iv yov Sovvai h. c. : vel ita ,
ut non possit, aucli ohne Reclien- schaft gebeu zu kounen.
Qu« in sententia quum bene habeat part. xai, nolim eam deleri, quae
Stallbaumii coniecturafuit. Num fieri posse censes, ut recte opi-
netur aliquis ita , ut rationem reddere possit? Non credo equi-
dem. Quid igitur sibi vult vel ita, ut non possit ratio- nem
reddere? Aov,a apprime respondet Latinorum opinioni , 8o&a?,eiv
igitur opinari est. Diilert autem opinio a iudicioita x ut hoc cum
ratioue iudicii couiuuctum sit. Qui opinionem habet, nationem reddere uon
potest. $6uv ctioyov yctQ nguyiui nas «v eYij ; ovtt auccxHu'
t o yaQ tov ovxos x vy%uvov nas «v &1 ccfta&lu; taxe 6i 6y nov
xolovxov fj uq&i) 56|a, fiexa^v (pQovrjGtas y.cu duu^dlug.
’A?.7]&fj , xyv 6 ’ eya, Jitytig. B Mtj xoLvw dvdyxage, o fiij xaXov laxiv,
alaygov eheu, False et recte opinari aliquis potest, ut
iudicare eum crederes, si haberet sententiae suao ratio- nem. Fieri
potest autem inter- dum, ut aliquis, qui rationem reddere non
possit, tamen inter- rogatus rationem reddat forte fortuna
repertam, non mente at- que iutelligentia quaesitam. Iam agnosce
Platouis voluntatem, quae clarior fit suppleto ad roy infioitivo
\6yov 6ovvai." Sen- susest: D i e ( zu f a 1 1 i g) ri ch-
tigeMeinung and d i e ( z u- fcillige) Angabe des Gran- des, ohne
eigentlich ei- nen Grund augebeu zu konnen, das weisst du
doch, sagte sie, dassman diese weder wahrhafte Wissenschaft,
nochganz- liche hn wissenheit nen- n en kaun. d\oyov
ydp ^pctypct, h, e. Denuein Gegenstand, derwirk- lich ohne
Hechenschaft ist, (wenn gleich dieselbe aus Zufall einmal gegebeu wird) ,
wie kdnnte der Wissenschaft sein? Nam qui recte opinatur aliquid,
rationem interdum reddere postest, sed quae aliis sufficiat, 1 non
sibi, nt- pote quam mente atque jntelli- gentia non teneat.
ro yap tov ovroi xvy - Xdvov, To ov significat id, quod
revera est} id quoniam opponitur ei,, quod esse videatur tantummodo,
revera noo sit, factum est, ut ro ov absolutam veritatem denotet. Recte
igitur Stallbaumius ad h. ]. ro ov idem esse monet, atqne ro'
aXijSte, atque ne quis de ideis dictam accipiat, caveri iubet. To
tov bvroS r vyxctvov autem non tam eum animi habitam describit,
qui veri compos fiat, quam eius, cui forte fortuua accidat, ut veri
sit compos» £drt 61 8r} irov toiov- tov , Convertit
Schleiermache- rus : Also ist offenhar» Astius exhibet: Est
igitur ni- mirum. Riickcrtus, qui de ad- dendo post ToiovTov o v
par- ticipio cogitat : immo est, qu.um talis sit, vera opi-
nio inter scientiam et inscitiam. — aJ£ particula neque conclusioni
indicandae inservit, neque est 6)j itov immo. Ne- scio , cur
noluerint interpretes verba convertere: Es ist aber doch offeubar
wohl cet. , quae verba ita dicta sunt, ut praecedenti ovts -
i<$Tiv , — ovte — $6riv cum vi quadam opponantur. Ac ne forte,
quod Riickerto acc disse video, t i ante toiovtov additum
deside- res-, toiovtov nude positum ac- curatissime alicuius rei
notionem describit, ut prorsus tale ali- qnid esse dicatur, quale
insequen- tibus verbis esse significatur» Ti addito pronomine
indefinito vis ilia minuitur, neque prorsas talo aliquid esse
indicatur, qua- & (njSs o (irj aya&ov, xaxov'
ixtidi] avros ujiokoyug (irj (itjdiv tl liakXov oYov dsiv rivai,
aXXa n fiera^v , itprj iya , ofioXoyuTal ye ttaQa le sit
aliud, sed ita comparatum, ut fere tale esse aestimetur, cfr* Piat,
de rep. I. p. S40. E, xoiovxov ovv drj 601 xai iph VTCuXafte vvv ye
drtoxpivcttiSai, quo loco falsum foret atque Thrasymachi sententiae
contrarium roiovro»' n. Adde ib. IX. p. 590. E. Jrj\oi de ye, rjv o
iyoo, xai 6 vopos, oxi xoiovxov fiovAexai, tcu 6 i xoiS iv x y no-
A ei KvppaxoS gjv. y,i} xoivvv av ayxaS,e, Supra diximus
annotat, p. 239. de verbis , quae ex adiectivo proprie cum elvat
verbo aut ex adverbio cum dicendi verbo con- iuugendo conformantur.
Mrj xoi- vw avayxage igitur posi- tum est pro prj xoivvv
avay- xalov elvat A eye. Minus apte Schleiermacherus verba
convertit: Folgere also n i c h t , neque recte Astius exhibet: Ne
igitur coutendas. Possis etiam alia ratione avayxa^etv verbum
explicare, quae tamen nobis minime probatur, ut avay - xageiv
cogendi potestate rebus adhibeatur, quae cogi ifequeunt, quasi cogi
possent : Zwinge doch also Dinge nicht, die uicht sclion sind ,
hasslich zu sein. Inverso ordiue Agatho, cum neque tur- pem neque
malum Erotem esse intelligeret , pulcherrimum opti- mumque deum
esse censuit. Ce- terum o prj xaAov i<$ xiv idem fere est, atque
d pij xaA.ov el- vca opoAoyovpev , de quo di- ovtfo da xai
rov "Eqcoto: rfvcu ayaftbv firjSi xaXov, av rov aitJxQov xai
xaxov tovroiv. Kal fiijv, r\v d’ ttccvzav [tsyag &ebs
rivat. cendi genere vide, quae annota- vimus p. 207.
ovxcj dl xai x 6 v "E p gj - X a. Legitur ia nonnullis
libris 6 rf pro de, neque confiteri dubitamus, illud quam hoc nobis
multo magis placere. Sed rectissime ad h. 1. Riickertus ouXoj d?f, in-
quit, per se non male. Nam quum a generali sententia nd certum et
deiiuitum aliquod sub- icctum transimus ita, ut,' <£uod ia
universum valeat, ad hoc quoque pertinere doceamus, col- ligimus
aliquid et concludimus, idqne licet conclusiva particula
significare. At non est hoc ita opus, ut tam exigua librorum au-
ctoritate mutari quid liceat, immo sufhcit etiam addidisse signum
transitus ab una re ad aliam, quod fit de particula» ceAXa xi
pexaB,v, %(prj, xovx oiv . M E<prf si abesset, nemo desideraret.
Cave tamen, id otiosum censeas. Solet enim dicendi verbum verbis
apponi, quae ab eo dicta sunt, cuius oratio refertur. Diximus de
hoc usu dicendi verborum annotat, p. 56. Hinc non mireris di-
cendi verbum duplex positam v. c. in Sympos. 177. A. <PaidpoS
ydp kxddxoxe 7 tpoS pe dyavaxx&v Akyei’ ov deivov, qjffdlv , eo
’Epv£ipaxe, aAAotS plv et quae sequuntur Phaedri ipsa verba. Eodem
modo p. 202. C. legitur xai iyoo ebtov , vcgdS t i Tia v f ii )
eldotoVj »7ravTG)v” Xtyeig /J suet tujv etdv- rcuv; Sv^avrov {liv
ovv. — Kal i) yeAdOafSa, Kcd Ttvog Sv , B(p)j , w IkixQCCTtg ,
vfioXoyoiro {ityccg fteog uvai C TtCCQGC TOVtOV , 01 (pCCOtV CCVTOV
Ovtil &EOV llVCi l \ TL~ Vtg qvtoi; y\v d’ tyfp- Elg (iiv,
t<prj, <Sv , pice d’ iycu. rovro, itptjr , XlysiS j Ac ne forte
, L r (p7 ? cet. verborum inediae oiationi immixtorum sig-
nificatum minus recte a nobis indicatum censeas, si interdiim alicuius
verba non verbotenus repetita auimadverteris, nam liuiusmodi exempla
reperiuntur, tenen- dum est, eum, qui illo genere dicendi utatur,
si revera alicuius verba non repetierit, tamen eo nnimo fuisse, ut
ipsa verba proferre voluerit idque addito di- cendi verbo
indicaverit. TGJV f.nj HSo ZGDV , e<pv, andvroov XeyeiS.
Verba ita disposita sunt, ut ex eorum or- dine facillime possis
Diotimae voluntatem agnoscere. Nimirum ( pm dixisset in proxime
praecedentibus Socrates: maguum deum Erotem vocari 7C apd itdvtGov,
Diotima istud jxdvtaiv , inquit, Citrum de iis intelligenduin est,
qui rei ,non periti sunt, au et- iam de sapientibus. Urgendum igi-
tur pronuntiando est rtavTcov, quod quo fieret facilius, ndvTGJV
«nite A iyeiS positum est. Geni- tivum autem casum Diotima retinuit non
tam propter antece- dentem irapd praepositionem, quam quod
vocabuli, quod aliquis pronuntiando urget, ea forma re- peteuda
est, quam, qui antea locutus est, exhibuit. Uiuc ne iucomtior
existeret oratio haec: rovS fir) clduTOtS y £<ptf 9 TtdvXGDV
XeyetS x. x. A„ xqvS fitj ecduras verba eodem casu posita
habes, quo lictvTCDVt ’ S,v fX7Z d vx w psv ovv . Ovv
particulam in responsione adhibent ii, qui obfirmate ali- quam rem
affirmant, quam sunt iuterrogati. Eius notionis origo haec est,
quod, qui interrogan- tur, ut fortius respondeant gra- viusque
affirment, ita statim se comparant, quasi rem negasset Ss , qui
interroget , atque huiusmodi interrogationem proposuisset; OVH OVV
%V).l7cdvtGDV fibV i Ad haec verba igitur respicien- tes, iisdemque
utentes excepta ne- gatione, non nisi mutato verborum ordiue respondent :
B,vpndv- rcov pdv ovv. Schleiermacherus verba convertit: Von allen
iusgesammt. Sed neque haec couversio Graecis verbis satis
respondet, neque scio, an oroui- no dicendi genus in vernaculo sermone
reperiatur, quo illius via responsionis commode reddatur. x
al ?/ , fi a 6 i cj S £ q> ij. h. e,, Stallbaumius inquit, facile
ac uullo negotio rem tibi explicabo. Aliter uobis de hu- ius
adverbii explicatione statuen- dum videtur. Eo docemur, qua
potestate dicta sint verba 7tdSs rovro A lyeiS. Sbcrates nimi- rum
summopere miratus Dioti- xnae sententiam, qua et ipse Ero- tem
dicatur deum negare, hacc profert: ndtS rovro A iyeiS li. e. Wie k
anu st du das sagen? Vide de hac verborum potestate Kal iyu airov ,
Ilag rovro, Srptjv, liytig; Kal rj, 'Pa- Siag, $<py. Xiye yag fiot ,
ov itavxag ftiovg cpijg tv- Saifiovag tlvca xai xaXovg; y roliiyOaig ccv
uva fiy tpavai xaXuv xs Kal ivtSalaovc: &cuv elvai; Mu xli',
ovx i'yay ’ , 'iyyv. — EvScdfiovug Se Sy Xiyug ov xovg annotat, p. 169.
Ad haec Dio- tiroa: perfacile, inquit, sc. hoc dicere possum.
xaXov te xal ev Saiji o- v a. $e&v elvai, Vulgo le- gitur
3eoV, quae lectio, umle orta sit, neminem latere potest. Nobis
rectissimum videtur SeGoV t quod Bodlcianus exhibet aliique libri
non pauci, Etenim, si Seov probaveris, riva prouoraen in- definitum
mirum quantum displi- ceat : An auderes aliquem ne- gare pulcrum
atque beatum esse? Ssaiv contra a verbo , ad quod pertinet, verbis
interpositis non- nullis disiunctum, quanta vi ponatur, ex annotatione
patebit p. 59. Sensus est: An aude- res aliquem bonum
bea- tumquo negare deorum? Respicit autem Diotima quaestione
hac proposita ad vulgarem de diis opinionem, quos nemo fuit, quin
felicissimos beatissimosque praedicaret. Eius .opiniouis et se ,
antequam cum Diotima disputaverit, Socrates narrat participem fuisse; hinc
graviorem negationem explicabis Ma di , ovm iyoayB» Veritum euim se
ostendit, ne negata re deorum iram odiumque excitaret, ev 5 a
i j.i o v aS 8 8ij Ai- yei$ x. T. A. Annotat Mattii* Gramrn. ampl.
§, 610. 7. p* 1234. Ilaud raro ov negationem in interrogatione verbo
fi- nito postponi atque verbis prae- figi iis, quorum canssa
tota in- terrogatio suscepta sit. Praeter nostrum locum idem laudat
Piat, de rep. IX. p. 590. A. jj 8’ av- SaSeiec xal 8v6xo\ia ovx
urav X d 'A.eovx6o8eS te xclL o(pc(a8ES <xv%7jxai; Caussam huius
strn- cturae Riickertns censet esse, quod incepta sit enuntiatio
ita, ut nulla iuterrogundi voce opus sit. Licuisse enim dicere
evSal- jiovaS 8l 8tj A iyeis rovs — xe- xxyffiEYOvS salvo tenore
senten- tiae. Media autem iu senten- tia loquentem paullulum
substi- tisse, quasi exspectet, ut addat reliqua interlocutor; quod
quum uon fiat statim, perrexisse ov xovS xctyaSa. xal xa\d xexx
?/- fxkvovS ; — Nobis ita statuen- dum videtur. Cum in
praecedentibus id ageret Diotima, ut dii pnlcri beatique esse
concederentur, in sequenti enuntiatio- ne id verbum iuitio posuit,
quod beatitudinis notionem exprimeret, ratiocinantium videlicet ex-
emplum secuta , qui semper ab eo verbo enuntiationem ordiri solent,
de quo iu proxime praecedente enuntiatione ab adver- sario concessum est.
Migravit banc ratiocinandi normam Plato p. 201. C. t quo loco cum
praecederet pulcritudinis notio, Socrates hoc modo perrexit: rnf- ya%a ov
xal xa\u 8oxel 6oi elvai; Illud verbum autem cum plerumque penderet
e finito ver- bo, ut nostro loco Ev8<xiiiovaf D tayafra
xal xa?.ci xextyfiivovg ; — Tlavv ye. — 'A).fo'< /irjv "Egesta ye
wfioloyjjxag St' evSnav ttov ayadcov xal xakav Im&vfitiv avtiov
tovttov , tov tvtier/g iotiv. — ^ijiokoytjxa yag.Ilcog S’ Sv ovv fteog
ety o ye nov xaiav xal aya&wv aftoigog; — OvSafiag, Sg y’
ioixev. — ; 'Ogag ovv , ?<p »; , ori xal Gv "Egcrca ov frtov
vo(it£eig; XkyeiS, non mirum videri potest, si id statim
assumitur negationi praepositum. ov t ov S xdyaSa xal
xaXa. Bodleianus ftalii nonnulli codices xayaSa xal x d xaXa
exhibent, quam scriptaram Bek- kerus et Stallbaumius receperunt in
ordinem verborum. Annotat lliickertus ad h. 1. rectissime : t dya$d
xal xa xaXd res bo- nae sunt et res pulcrae, quae diversae esse
declarnnturj contra r dyaSa xal xaXa res bonae et pulcrae. cfr. p.
202, D. 6i’ £v- Setav zaiv ayaSaiv xal xaX&v et Trois 6 * av
ovv SeoS efy o ye tgov xaXcov xal ayadcov ayoi- poS. p. 203. D,
iniftovXoS idxi xols dyaSoiS xal xoiS xaXoiS x. t. X. Aliam legem
in articu- lo nominibus substantivis prae- figendo Graeci
scriptores secuti sunt, de qua fusius disputavit Engeihardtus ad
Piat. Menex, p. 237. B. $. 6. p. ed. 252. ojyo Xoyr/xd ye.
Assensus Socratici vestigium in praecedentibus reperitur nullum.
Ero- tem earum rerum, quae appete- ret, expertem esse, Agatho con-
cessit p. 201. B. *Ev6er)s ap * £dxl xal ovx k'xet o " EpcsS
xccX- XoS. — 'Avdyxtj , tpavai. Iam cura Socrates eadem fere
Diotimae se dixisse dicat p. 201. B. ( dxedoy yap ti xal iyco
itpoS avtrjv £xepa xotavxa l\t- yov , oldnEp vvv npds £/il
*Ayd$GDV ) quae Agatho sibi di- xerit, verisimile est, Socratem,
eadem Diotimae concessisse, quae Agaibo Socrati. Hinc opoXuyrf- xa
positum explicabis. ov 6 apeo S, &>S y * Eoixtv.
Socrates Erotam deum non esse' ita tantummodo concedit, ut
e Diotimae ratiocinatione id colligi posse dicat. Piuribus dis-
putavimus de verbis (Ss y* £oi- xev a Socrate hic adhibitis in
Comm. de Symp. Platonis. Opds ovv, oxt xal tft) "Epoox a ov $ e
6 v v o pi^eiS; Stallbaumius laudat ad h. 1. Piat. Apol. Socr. p.
24. D. xov 61 6rj fieXxiovS noiovvxa tSi eiitk xal pjjvvdov avxolS
xis idxiv. opiis, oJ MiXexe, ori dtycis xal ovx £x El $ elicelv;
Piat. Menon, p. 80. E. yavSavGo, olovflov- X et Xkyeiv , dt Mtvouv
* 6paS xovxov cos ipidnxov Xoyov xa- xayeiS ; Verissime addit: In
his locis omnibus opaS ita praemitti- tur reliquis verbis, ut
alterum rei praesentis statum et conditionem ipsum iam perspicere
indi- cet, non sine aliqua admirationis vel etiam irrisionis
significatione. x i ovv av, £tprjv, eirj 6 "EpmS . *Av
particula a modo verbi, ad quem pertinet, haud raro seiuncta
reperitur. Scriptum Cap. XXIII. Tt ovv clv , Sq>tjv , drj 6
"Eqcos ; &vt]t6g ; — "HxiOra ys. — 'AXka r l firjv ; —
"Slgneg za xgozega, iuza£v tivrjxov xal d&avazov. — TL ovv, u
Aiotljia ; Aciliiuv (liyag, a Eaxgazig. xal yag itav zb Sai-
autrm exspectaveris ti ovv, Etpyv, ehf dv 6 "Ep&S. Non
perfode est, ntro loco dv particulam po- sueris, neque ti ovv dv ,
£<prjv> ii?f idem prorsus siguificat atque ti ovv, iqnjv,
eXrj av. Iam videamus, quid inter se hae di- ctiones differant. Optativus
modus aliquid fieri posse indicat ita, ut non addita sit vel
probabilitatis vel dubitationis notio, "Av particula adiuncta
efficitur, ut, quod fieri posse fodicatur optativo modo, id certis
quibusdam de caussis fieri posse significetur adhaerente notione verisimilitudinis.
Iam patere opinor, ti ovv eXrj o "EpuS eius esse , qui de
Erotis natura incertissimus ne- sciat prorsus, utrum ait
aliquid necne Eros, fieri tamen posse opinetur, nt sit aliquid,
idque nunc sciscitetur. Contra ti ovv iXt] av 6 "EpwS eius
verba sunt, qui compertum habet, Erotem aliquid esse, idque quid
sit, iam quaerit. Ad nostrum locum ut accedamus , av positum
quidem habes, sed disiuoctum ab optativo modo, quo dicendi genere
scriptor exprimere voluisse videtur aliquid, quod medium esset inter ti
eitf et ti bXtj av . Socra- tes nimirum Diotimac argumeutatione captus
necdum liberatus a popularis superstitionis vinculis huc illuc vergit
plenissimus dubitationis, atque revera aliquid esse Erotem potat et
rnrsnm aliquid esse posse dubitat. Verba convertenda sunt: Wasware
denti nun also wobl, sagte icb , wenti er etwas ware, Eros.
Eodem modo explicandus est locas Piat, de rep. I, p. 333. A. ttpoS
ys vnodrfpdtaiv av, olpai, <paijjS xtijdiv, h. e. (palrjS av, ei
<pair}$. Ibid. IV, p. 438. A. quo loco cave, indicium tuum
impediri patiaris verbo addito 60 x 01 : *I 6 ooS yap dv, Xcprj , 60 x 01
ti Xiyeiv 6 tavta Xtyoov. Adde Protag. p. 312. D. X6co5 dv, i/v 6 *
iyoj, dXrjSij Xtyoipev , ov pivtoi IxavooS ye, Gj? 7
tep ta itpotepa , $<prj. Haec verba convertit Schleiermacherus: Wie
oben , sagte sie, zwischen dem sterblichen and nnsterblichen.
Recte. Sapplendum autem est ex praegresso ti ovv dv eXrj tempus
praesens X. 6 ti, nt verba explicatius perscripta audiant tovto , o
l 6 tiv wSitep ta 7 tpotepa (cfr. p. 202» A. % 6 tt 6) j tcov
toiovtov rj opSr) 6 o£a , pEtagv d/taSiaf xal ppovr/tieoDS )
petant) Svijtov xal dSavatov. xal yap 7tav x 6 6 aipo -
viov ♦ b. e. denn die gesammto Damouenwelt liegt zwischen Gott-
heit and Mensckheit raitten foue* Ad nostram locum multos
fuisse seriores scriptores, qui respice- r E poviov
[isra^v ititi ftsov te xal ftvrj tov. - TLva, rjv 6 i lydt^ dvvccfuv
%%ov; 'Equtjvevov xal 6ia7ioQ%ptvov •O £olg ta xaQ 9 avftQconcov xal
dv&Qciiioig rd Ttccpcc 8ewv , x cov (iiv xag dEifieig xcd ftvtilag,
xdjv 61 xag faixat-Big te xccl d(ioi($ccg xav &v<2l(5v. iv piceo
61 ov rent, Stallbaumius ad h. 1. anno- tat. Addit idera:
Quid quod a Proclo in Parmenid. ap. Rentlei. Epist. ad Millium p.
455. ed. Lips. haec omnia e doctrina Or- phicorum repetita esse
narran- tur ? Quae quidem sententia quum confirmetur quodammodo eo,
quod carminis Orphici fragmentum ap. Clem. Alcxaudr. Strom. V.
p. 724. fere eadem coutiuet, quae Diotima hoc loco Socratem
do- cuisse narratur; eo minus de hu- ius narrationis veritate
dubita- mus, quo certius exploratum ha- bemus, Platpncm non raro
ad Orphicorum doctrinam allusisse et respexisse.
hpfxrjvevov xa\ 8ia*> 7t O p$ /.l£VOV $EOlS tCCTtap*
dvZpaJrtGOV X. r. A. Satis no- tum est, Graecos in formulis, quae
ex articulo et nomine aliquo cum praepositione coniuncto compositae sunt,
praepositionem haud raro mutare atque eam poiiere, quae cum verbo
enuntiati prin- cipe conveniat, cfr. Fischerus ad Platonis Phaed.
c. 22. Stallbau- roius ad Piat. Apol. Socr. p. ed. 63* et 64.
Mattii. Gramm. $. 596. a. b. p, 1193* Engelhardtus ad Piat. Lachet.
p. ed. 23. Hu- iusmodi formulae ubi per se spe- ctantur, plerumque
praepositionem quietem significantem repraesentant, ut nostro loco rd
nap* dv^pconoiS et t d napa Accedente enuntiati principe verbo,
quod motum siguiiicot, illa praepositio aut in praepositionem motura
exprimentem mutatur, aut, ut id factam est nostro loco, cum eo casu
coniungitnr, qui motum exprimat. Non satis recte autem napa
praepositionem cum genitivo coniuuctam putant pro- pter antecedens
SianopSuevov,’ non item propter kppj/vevov, neque satis placet
Schleierma- cheri conversio: zu verdolmet— schen und zu
iiberbringen. Non rectius apudFicinum legitur: in- terpretatur et
traiicit. Non dubium est, duplicem itineris ra- tionem indicari illis
participiis, atque kppTjvsvov quidem , quod cum verbis consociandum
est dv%pG)itoiZ tartapa $Ecby t viam describit, quae a diis ad
homines ducit, diaitopSpevov autem de via dicitur, qua
proficiscitur, quicquid ab hominibus nd deos se confert.
AiaitopSpEvov ni- mirum cum Gharonte cohaeret, qui itopSrfiEvS a
Graecis vocatus est, et qui animas solebat c terra ad sedes deorum
transvehere 5 £p- pifvevor eiusdem est, &tx\ucEppr/S radicis,
qui deorum iussa homi- nibus obnuntiabat, non vice versa ad deos
transferebat, quod ipsi ab hominibus mandatura esset. Significat igitur
Mercurii in- stardeorum iussa obnun- tiare. Iam patere opinor,
non solum propter StanopS/iEvov, sed etiam 'propter
kpprjvtvov cum genitivo coniuuctam esse Kapa praepositionem. Hinc
non d/i<poTsgm’ avfinbjQol , i3gre ro xav avto avrq) £w8s-
SeO&cu. Sici rovtov xal rj fiavuxi] xdau %uqu, xal ?/ rav ieQtuv
xiyyrj rmv re xeni rag ftvaiug xal rag relerag xal rag tnipSag xal rr\v
(tavtelav ndoav xal 203 yorpceiav. &eog Se dvQQaxco ov jxLyvvrui ,
alia Sia placet Stallbaumii annotatio ad h. 1.: J&eoiS' td it
ap* av- S p cJ it cd v . Non dixit it a p* dvSpciitoiS
et ita pa Se- olS : nam alteram constructionem requirebat verbum
SianopS- /f sii ov. CvpitXif poiy (Ztxe ro itdc v x. r.
A, Ficiuus liabet ia conversione : In utroqnc medio constituta (sc.
daemonum natura) totum complet, ut universum se- cum ipso tali
vinculo connectatur. His verbis seduci se passi sunt Keynderslus) qui td
o\ct dVfUtAl/poi scribendum coniecit, et Orellius nd Isocr. p.
331*» ubi (SvpitXripoi ro itdv , dista avto avroj
&vv5c8i<j$ai ma- num Platonis esse suspicatus est. Sed nihil
mutandum est, neque quicquam supplendum. Sensus ?st: indem er aber
in der Mitte sich befindet von beiden , bildet er die Ausfiilluug,
Vermittlung, s. fiillt es aus ; nam nostra quoque lingua transitiva verba
in terdum ita adhiberi patitur, ut non actio, sed notio verborum
urgeatur. Vide de hoc usu verborum transitivorum apud Grae- cos annot. p.
230* xal i) ftavrim } itd6a Xoo p ei. Duplici potestate
haec verba intelligi possunt, ut aut de felici successu, qui
daemoni- bus debeatur, aut de spatio viae, quod eundo superetur,
accipiantur, Ficioas verba convertit: Per hanc (sc. daemonum natu-
ram) vaticinium omne procedit cet., ubi verborum ambiguitatem
servatam habes, neque dubium videtur, quin eandem et Plato de
industria admittere voluerit ea de caussa, ut de felici successa et
de meatu per medium inter coelum et terram locum verba
accipiantur, SeoS 6 e dvSpfoitM ov piyvvr ai x. r. A.
Articulum omissum habes in utroque huius enuntiati nomine, ut
indicetur, sententiam proferri generalem quam vocant. Vide Indices
s. v. Artic. Ceteram daemont medium inter coelum atque terram
locum obtinere dicuntur ita, ut per eos esse atque meare artes
per- hibeantur omnes eae, quae; homines cum diis arctius con-
iungant. Haec coniunctio quo- niam potior est eo, quod ho- mines
deorum iussa exsequuntur, quam quod dii hominum precibus obtemperent, recte
ponitur h. 1. ?} SidXsxtoS SeoiS irpoS dvSpGdrtovS , non item
avSpdmoiS itpoS Seov?, quod Heusdius in verborum ordinem inferciendum
censuit, ut esset, quorsum referrentur verba sequentia xal
lypijyopodt xal xaSevSovtiiv. Annotat Stall- baumius ad h. 1. :
Defendi pot- est lectio vulgata ita, ut verbo- ' rum constructionem
dicamus cou- formatatu esse potius ad sententiam ipsam, quam ad
grammati- « tovvov naOu iativ i } byuliu xal % Sudexrog dsoig
itgog av&QixiKovg, xal lyQijyoQo 61 xal xa&ev 8 ov 6 t. xal
o f ilv xcqI tcc Toiavxu 6 oq>os 8 ca[ibviog avrjQ, b 81 cclXo
tl tiotpog coV rj' jrfpl r(%vug rj %UQ 0 VQyLag uvag , fiavav- 6 og.
ovtoi dr; oi Salfiov eg nokXol xal nurrcoSanot tl 6 iv' slg 81 tovtqv
J<Srl xal 6 "Egag. Iluigog Si, t)v 8 ’ lye>, tivog Itfrl xal
[ir^Qog; Muxqotiqov (iiv, %<pr], d^yr/Oa- cam subtilitatem ac
diligentiam. Quum enim dicatur opiXslv rivi et diaXeyeCSai rivi,
etiam opi- A ia xal didXsxroS rivi recte dici potuit» Et quum antea
non dixisset: 7ta6ct idri SeqI? tj opiXia xal 7 ) didXExro?
avSpcS- 7COi? , sed perspicuitatis caussa usus esset praepositione
TtpoS addito casu accusativo, nunc ad legitimam constructionem
rever- tens, neglecta grammatica dili- gentia, dativum post
accusativam recte inferre potuit. iiuius- xnodi grammaticae
diligentiae ne- gligentia si ullo loco ferri potest, huic loco apprime
convenit, ubi Socratis sermonem non prae- meditatum illam, sed ano
rov tiro paro?, ut Graeci dicunt, ha- bitum refert Apollodorus.
Verum est tamen aliquid in hac verbo- rum explicatione, quod
displi- ceat. Negligentem esse structu- rae grammaticae verborum
licet quidem interdum in sermone fa- miliari, sed ita, ut
verisimilitu- do adsit negligentiae, h. e. ut verba ita remota sint
ab iis, quorum structuram sequi debeant, ut eius revera obliti
esse,, qui loquantnr, videantur. Nostro lo- co verba proxime
adiuncta sunt f verbis, quorum structuram sequi debent, ut saue
intelligi nequeat, cur dativum maluerit, quam ac- cusativum
scriptor exhibere. Cer- tissimum est, aliquid exprimere
voluisse' scriptorem structurae mutatione, quod quid sit, iam
videamus. Si scriptum exstaret iyprjyopipiozaS xal xa$evdov~ ra? t
interpunctio delenda esset, quae post avSpGoitov? in omnibus editionibus
posita reperitur, unoque tenore legendum esset $Eoif rtpof
dvSpwitovS iypTjyo- prjxora? xal xaSsvSovtaS. Dativo admisso participia a
prae- cedentibus verbis seiunguntur ita, ut verba 7 } opiXia xal 7
} SiaXexToS $eoi$ rtpo? avSpaS- Ttov S unam notionem
efficiant, quam cum uno verbo exprimere non posset’, structura
verborum Plato assecutas est. Verba con- vertenda sunt: Gottliches
be- ruhrt das Menschliche nicht, sondern alie gottliche
Offenbarung wird Wa- chenden und Traumen- den vermittelst des
Da- ni on is oh en zu Theil. 7 ) xstpov pyla? riva?,
fiavav6oS . Schol. ad Theae- tetum in Bekkeri Comment. Critt. T.
II. p. 368.: fiavav6ov'‘ ol kdpaloi ZExyirai xal 7(apde fiavvcp, o
ion xapivaj tl £p- yov dianSipEvoi, ol 6 e fiavav- 6 ov rov
anavSp&ndv xal vtce — pr\<pavov. bnoi 61 fiavav6ov XEipds
zijs vfipi6xixij? f) rsxyt - 0%at' 0 /nag 8b Gol Ipw. ote yap lytvtxo 7j
'AtpQoblrr;, ttotiaino oi &£ot , oi ts aXIoi jmm 6 trjg MijtiSos vios
IIoqos. trcEiSrj 6s iSiijivrjGav , XQoqaiTqGovOa, olov iva%La$ ovaris,
mpixeto rj IJtvia xal rjv jiiqI rag dv- Qag. 6 ovv IIoqos fiidvGfrels
r.6v vextuqos — oivog yag ovjto tjv — tls *ov tov Alos xijrtov
dscl&tov (Sepugr]- litvos rjvStv. rj ovv Ihvia iiCi^ovIevovGa dia
ttjv av- StjXoi dk tovS’ x 6l Porixv<x£ xal drjpiovpyovS.
Diotimae mens haec est: virum daemoniam recte appellari eum* qui
cogno- scendi* diis deorumque consiliis operam navet coniuuctionis
illius gnarus, quae inter deos atque homines per daemones
exstet; contra j SavavOov vocari , qui terrestribus rebus intentas
deo- rum consilia minas curet. < o tf ydp iyiveto.
Quae hucusque narrata sunt a Socrate, Erotem cx senteutia Diotimae
e daemonum ordine esse, h. c. medium inter deos atque homines,
atque pulcro carere quidem, sed yehementissimo eius appetita teneri, ea
nunc repetuntur in mytho insequenti , quem vario modo FILOSOFI interpretati
sunt. Hac narratione mythica certissimum est, Diotimam s. Socratem
non confirmare voluisse , sed explicate potius atque illustrare tamquam
imagine sententiam suam. Satis notum est autem, Graeco ram iugeqium ita
comparatum fuisse, ut facilias iutelligerent, cupidius arriperent,
memoria me- lius tenerent, quae mythica ali- qua narratione, quam
quae nuda demonstratione exposita essent. Pluribus de huius mythi
fine diximus in Commeat, de Sympos. Platonis. olv oS ydp
orjTCco 7/ v . Adduntur haec, ut tempus indicetur, quo facta sint, quae
hic narrantur. Vinum antiquissimis temporibus Graecis notum
fuisse, Homerus docet atque Hesiodus. Hinc iudicabis de rei
narratae vetustate. Ad nostrum locum respexit Porphyr. A. A. c.
16. ni? itapd nXdr&vt d TIcpoS tov rhirapoS 7tX?]6$tis • ovnto
ydp olvos ?}v. eis tov tov AioS H7J7COV e lseX^GJ v. Cave
credas me- ta pho ricam significationem h. 1. verba habere A 10 S
xi}7Cov t Horti mentionem Diotima fecit vitae quotidianae usam
imitata. Hortam enim hospitis convivae bene poti adire solebant
atque loca frigidiora sibi eligere, ubi hausti vini calorem
mitigarent animosque concitatiores somno compescerent. Adde
Stallbaumii annotationem verissimam : Quae de hortis, inquit, lovis
hic nar- rantur, non solius ornatas gratia adiecta sunt, sed
properaodum necessario commemorari debue- rant. Qaum eDira Pori
atqae Peniae natura et ingenium tan- topere discreparent, per se
pa- rum verisimile videri debuit, il- lum cum hac potuisse
habere consuetudinem. Itaque quo nar- ratio maiorem nancisceretur
si- militudinem, poeta philosophus 17 C r jjg
txxoQlav stcaSlov xoirjGaGftca Ix toti JJoqov, xata- xXlvEtcd te scccq’
avtcp xcd ixvt]GE % ov "Eqmtcc. Sto Srj xcd ri ~js 'AcpgoSiTijg
'dxoXov&og xcd &EQcc3icov •yeyovcv o 'Egag, yewtfteis iv roig
ixslvqs 'ysff&Xioc g, xcd d(ict tfvOtc iQtt6Ti)g uv jceqI to xuXdVj
xcd r>]s ’A(pQ0SultjS xaXijg ovdrjg. ktb ovv Ilogov xcd Ilevtag viog i
ov 6 *Egag iv roiauzi/ tv%]/ xu&l6xr t xE. tcqutov filv nivtjg
ini sdn, xcd xoX/.ov Sei ol itoXXol oiovTcu , txXXcc
Pornm finxit in convivio illo in Veneris honorem instituto
ebrium factum se in hortum Iovis con- tulisse, ibi vero Peniaxn,
quae ei struxisset insidias, sine arbitris convenisse. Vides, quam
necessaria sit haec fabulae par- ticula: nt profecto miranda sit
operosa industria eorum, qui de istis Iovis hortulis splendida
quaedam commenti sunt mendacia^7 Ci ftovXev ovd a 8ia xyv avxijs ano piav
. ’Eirifiov- Xevelv verbum sequente infinitivo eam potestatem
habet, nt studium significet cum insidiis coniunctum. Prorsus eodem modo
legitnr in Xenoph. Symp, IV. 52. ald^avopai yap rivaS
i7tifiov\£vovtLXS SiaupSelpai av- Tov. Adde Piat, de republ. VIII*
p. 566. B. idv di ddvvaxoi ix- fidWeiv avxov gqoiy t} dito- xxiivai
biafidWoYteS xy rt 6- A ei, fiiaia) 8ij Savaza iitifiov - A evovdtv
areoxtivvvvai A aSpac. Plura huius structurae exempla si quaeris,
adi Stallbanmium ad Piat* Protag. p, 343. C. p. «d. 119*
8ia rr/Y avtrjS areo - pia f'. Indicatur his verbis,
anccXog te xcd xcdog, olov CxXijgog xcd avftiijpog xcd cur
Fenis mater esse cupiens , e Poro potissimam concipere vo- luerit.
Etenim qaoniam ipsa, quod futuro filio daret, non habebat, ut minus olim
sentiret puer maternam egestatem, Porum, deum omnium ditissimum , pa-
trem ei esse voluit. Minus ex- plicate Schulthcssius in conver-
sione Symposii exhibuit; Nun sann Penin ihrem Mangel zn steuetn,
anf die List cet* dio 8 1 ) xal tij S 'A <ppo- SixyS
dxdXovSof . Veneris comes ac minister Eros dicitur, quod est pulcri
amator, et quod Venus pulcra est. Minus clara verba sunt yevvrjSeiS
iv xols ixELvyS yEYE$\ioiSj ad quae verba 8io praecedens spectat
prae- cipue. Nam si quis ipsis alicu- ius natalitiis oritur, non
sequi- tur inde, eundem comitem esse atque ministrum illius.
Videtur autem mens Diotimae haec faisse: Erotem Veneri ortum
de- bere; nam si ad huius natales celebrandos non convenissent
dii, Peniam nunquam e Poro concepturam fuisse. Igitur factura esse
cura pulcri appetita natu- rali, tum pietate, nt Eros se Veneri
adinnxerit. uwxodTjtog xal aoixog, %a[iai7UTrig asl uv xat a6re>m-
D ros, t7cl ftvQaig xal Iv odoig vxai&Qiog xoip.cou.Evog, t ijv
tijg firjTQog <pvOiv £%av , dii Ivdiice. ^vvouog. xara Si av xov
xaxtQu ixlflovXvg late xoig dyu&oig xal xoig xcdoig, avSgdog av xal
Xxtjg xal Ovvxovog, &)f Qiirxijg Suvog, ad xivag xkbxav [ir^avag, xal
cpQoinj- Ciag tm^viirjxtjg , xal xuQtuog , xpiXcGoxpav 6 ut navxog
xov §lov , Suvog yorjg xal (paQpaxivg xal CotpKSxrjg' xal ovxb tbg
a&avaxog nitpvxBV oilte ag Qvtpbg, E axe ovv Ilopov xal
IIs- vlaS vloS. Erotis nator», qoa- iem sibi Socrate* effinxerat,
fa- ctum est, at Porum atque Pe- ni am parentes putaret.
Inverso nunc ordine a parentum iudolo ad blii naturam concludit,
ut, quod in illis conspicias, id con- iunctim in se habeat filius.
Pro- batur igitur et his verbis, et se- quentibus p, 203. ,C. xard
81 av xov naxepa , quod supra an- notavimus p. 257., mythicam
hanc narrationem ideo proferri a Diotima, ut imagine quadam
proposita indoles atque natura Erotis illustretur. In sequenti- bus
Erotis epithetis xal habes quater repetitum, quod, ut molestiam quandam
parat audienti, ita epithetorum indicandae multitudini apprime
inservit. ini SvpaiS xal iv o*- dois’ vn aiSpioS xotpcope- oV
o f. Paullo supra de matro Erotis dicitor, p. 203* P- a<pi- 7MTO
— xal r)v nepl xds paSy quapropter nostris verbis ap-* positum
habes trjv xijs ptjtpoS (pv&lY 'ixatv , quae verba cave
epitheti loco posita ceuseas $ caussam enim indicant praece-
dentium epithetorum. Ceterum pro vitafa pioS , quae optimorum
codicum lectio est, vulgo ede- batur vitateploiS, Male.
av 6 p eioS c ov xal Ixrji . Schol. habet: IxrjS' Hdx&p, ini
- 6X7}jj.c*)Y> <aV ivxai>$a. fla- verat 61 xal ini xov
ixapov xal SpatieaS, Nisi forte aliunde hoc scholion depromtum
est, sane mireris verba oJs’ ivravSa, quae rectissime haberent, si
post verba legerentur: Xapfldvexai xal. Hesychius , 1'ti/S,
inquit, IxajioSy $pa6vS. rj Xtixcop tj initixi/pav . Cum dvSptioS
no- mine couiunctum legitur KtrfS etiam Piat. Protag. p. 349.
E. noxepov xovS dvSpelovS Safi- flaXiovS XiyeiS r\ dXXo xi; —
Kdtl l'xaf ye t Eqnj , Itp* d ol xoXXol qjoflovvxat iivat h. e. xal
ixas ye ini xavxa , l<p’ & x . r. A. Ceterum haud scio, an
non vitii aliquid in his verbis lateat, quod xal ante tivvrovoS
posito removeatur. Nam ut se- quitur STjpevxijs 6etvo>, ita for-
tasse melius habeat xal ItrjS (SvvxovoS , quam xal itifl xal tfvvxovoSi
xal tppovi} 6ecoS iiei$v» firftrj i f xal nopipot. Rii-
ckertus ad h, 1. deleto post iiti * $vpi \xrfi commata: longo ,
ia* 17 * , aU.lt tots ficV Trjs crinrjs ftakXti rs xal
%y, orav ivitOQyOy, tots fis azo&vrjiSxu , itai.iv fis
avapia- CxEtca duc rijv tov itargo $ cpydiv. rd 6s itogigo/ie- vov
a£t vzexqh, c&grs ovre. ccjtoQti ”Eqb>s zots ovt e zlovttl.
Oocpictg te av xal a[ta9lag Iv fuflw idziv. quit, liaec
cumDindorfio in unum, ut haec sententia prodeat: Amo- rem et
cupidum esse pru- dentiae et ad parandam idoneum. — Astius 7
topt/ioS esse censet: opibus et co- piis affluens; Recte
8ni- das Ttopi/ioS, inquit, 6 dvvdiv 7j htivdiav ££<»k. Quae
se- quuntur verba rpi\otio<pGJV 8ia rtavzoS tov fjiov ,
praecedentis epitheti caussam continent, et ipsa epitheti vices
obtinent. Sensus est itopipoS vocabuli: der al- ie s durchsetzt,
iiberall durchkdmmt, dem u11es, vas er uuternimmt, von Statten
geht. d eiv o S y d rj S n a\ q> a p- paxevS xal 6o
(pKSrjj $ . Neminem fugiet, quam pruden- ter philosophus hoc loco
vulga- res de Amore opiniones et fabulas coniunxerit cum suis
ipsius pla- citis. Stallb, a\\ct x 6 1 e. ptv — orav e
vir opi} 6ij h, t. A. Ficinus verba convertit : neque immor- talis
omnino secundum naturam neque mortalis: sed interdum eodem die
pullulat atque vivit, quotiens exuberat, interdum de- ficit cet»
Sic interpretes ad unum omnes Platonis verba ex- plicaverunt, neque
quicquam eos, quod miror, in iis offendit. Pug- nant autem hacc
verba cum iis, quae p. 200. A. seqq. de Erotis natura dicta sunt.
'Docuit illic Socrates s. Diotima: Erotem non esse AMOREM h. e. DESIDERIUM
nisi eius rei, quam ipse nou possideat. Iam quaeritur , qui hoc loco dici
possit 3-aAAn re xal ?,jj , ozav tv7topr}6xf. Nullus dubito, quin
pro orav evitopt}- <$rf Plato scripserit orav aito- prfoTf. Ad
sequentia autem rore dizoSvijtixei e praecedenti- bus supplendum
est '-orav et hro- pytiVf qaod supplementum quum aliquis forte, ut
fit, margini ad- scripsisset, scribarum incuria vel imperitiorum
Platonis interpre- tum industria pro aitopijdp in ordine verborum
tvTtoprjo^f positum est. Id fieri potuit eo fa- cilius, quo magis in hac
re a ceteris daemonibus diisque differt Eros. Solent enim Erote
excepto omnes , quo maiorem rerum suarum evito picer experiantur, eo magis, ut
cum Platone loquar, efflorescere atque vigere. AMOR contra rerum
expetitarum potitus perit , sed paullo post rursum emergit .novarum
rerum, quas possidet pater, DESIDERIO reviviscens. 5 1 a r ifv
tov it a r pos <pv- 6 iv. Ilaec verba quid -sibi ve- lint hoc
loco, a nemine inter- prete explicatum reperio. Scri- ptoris mens
haec esse videtor: Erotem mori , ubi ea sibi com- paraverit, quorum
desiderio an- tea Eros fuerit. Quoniam antem Poros, h, e. deos
divitiarum at- que omnium rerum summae ab- t%u yctQ
aSi. 9u ov ovSeIs tpd.oeotpti ovS’ Soi Coipos ytvtOftcu. tori yaQ.
ov3’ ti rtg aAAog Goipbg, ov <piXoGocpti . ovS’ c.v oi afia&Eig
ipikoOoipovOiv ovb’ lm9v(iov6i Gotpol yevtO&ca • cevro yaQ rovr
6 ion [ lalizov ] „d/itt&ia,” xo ptj bvta xalbv xaya&bv
fnjdi cndantiae finem non habeat regni sui , sed aliis alia
semper addat, rerumque facultates in infinitum augeat, fieri
solere, ut Eros, ubi desiderio expleto perierit, novarum reruta desiderio
tangatur at- que reviviscat* dei vitEKpei. 'VjtExpciv
verbi significatio haec est, ut exprimatur, abire aliquid atque
evanescerfe ita, ut nescias prorsus, quomodo id fiat ant quo abeat.
Apprime respondet Graeco verbo nostratium: es gelit ihm nuter den Hiinden
verloren. Schleiermachcrus verba convertit: Was er sich aber acbafft,
geht ihm immer wieder fort. «uro' yap tovto id ri
IxttXettov] ajuaSta, Haec verba non recte sc habere, iam pridem ab
interpretibus annota- tum est. Sydenhamius a/taSiqt scribendum
coniecit vel «urco Tovtgj ; illud in cod. Veneto reperitur agnosciturque
a Ticino: JJoc enim habet ignorantia pessimum, quando qui nec
pulcher et bonus est neque sapiens , suf- ficienter haec habere se
censet, Attius corrigendum vidit: amo yap tovto idn ^«Acjr ov
d/ut- x ov fit) ovtcl xa\ov naya- $ov pj/de (ppovtpov Soxtiv
au- ro ixavov, Idem etiam fyet verbis Platonis inferciendam
ceu- suit vel scribendum apaSiaS pro apaSla. Annotat
Stallbaumius ad hunc locum: Haec ne cui in posterum
sollicitanda videantur amo tovto absolute positum est, ut idem sit,
quod 5i amo tov- to : quae autem sequuntur: ro pi) bvxa — ixavov,
ea per appositiouem, quam vocant grammatici, addita sunt. — Nec Sydenhamii
neque Astii verborum medelae placent, neque satisfacit verborum
explicatio Stallbau- miana. Concedo quidem, quod permultis locis
probari potest, «uro' tovto ita dici, ut signifi- cet 81 * avro
tovto, nusquam autem ita positum reperias , ut non sequatur
particula finalis. Deinde ne Graece quidem dici videtur: auro tovto
idn ^aAe- Ttdv apaSlot pro amo tovto idn xarAftfoV ?/ dpaSia.
Differt enim subiecti forma a prae- dicato suo ita, ut illud
articulo insignitum sit, hoc articulo ca- reat. Sententiam autem
quod attinet, merito quaeras, cur de difficultate quadam
molestiave rei maluerit Socrates, qcain de ipsa re dicere? Si quid
video, XolXe7Cov inutile est otiosumque scioli alicuius
additamentum, quo enuntiati facilitas admodum im- peditur. Auget
voSiiaS suspi- cionem sedis mutatio , quando- quidem in duobus
codicibus F>ek- keri pro £aA«roV dpaSict legitur dpaSia £« A ejcov et
dpaSitt XaXEnov . Igitur uncis inclusimus x«A ETtov , quod neque
cum verborum structura satis conveniat, neque, dialecticum acumen
<Pq6vi[iov Soxuv avrc : > tlvai txavov. ovx ovv ixudvfiit 8 (iij
oiouevog Ivdpjs tlvcu ov av fiy oirpzae hudttti&eu. Ttvcg ovv, %cptjv
iya, to Acoztfia, o t epiloCoepovvxts, B ll (l/jzs o£ Cocpol /lyre ot
ttfiu&Hg ; Afjlov Srj , fg np, Tovzd y£ fjSij xai jtaiSl, ori o i
fiezal-v zovzav dpi- q)otsq(ov, tov av xal 6 "Eqi ag. l&u yaq
dtp tcov xcd- HCzcov i) Coepta , "Eqcos 8’ Icrlv iprag mgl zo
xakov, agzs avuyxalm "Egaza tpilbaoepov uvae, qnXoGoepov •S
respicis, quo Socrates hic utitur , sententiarum consecutione probatur Sensus
est verborum : Dena das eben ist ia, was vir Amathia nennen (vide
annotat, p* 232.) dass einer, der nicht schdn und gut noch
verstandig ist, •ich selbst geuug zu sein vermeint. 6i/\ov
Stf , Icpyjy rovxo ye 7/677 xat xaidl. Haec prorsus conveniunt cum
nostratium: das kann ja schon eia *Kind einsehen. Utitur autem hac
formula Diotima, non tam, quod res ipsa intellecta facillima ait,
sed quod, qui praecedentia vecte ceperit, is adhibita
analogia possit verum reperire. Hinc additam habes: oov av xa\
6 Epeo?. Saepius enim in praecedentibus praepositis rebus duabus
vera neque altera fuit neque altera , sed tertia quae- dam, media
inter utranique, re- perta est* Anget autem narratae rei
verisimilitudinem Diotimae haec indignatio, quandoquidem et lectores
Socraticam inertiam (quam care non simnlatam habeas) non possunt non
mirari. oov av xal 6 ’Epaf, Vulgo legitur oov av xal
o"E-s poDS ; quod cum nullo pacto hic ferri posset, Brkkerus e
duobus libris dedit av , quod praeter Riickertum editores
recentiores in ordinem verborum receperunt, Biickertus autem
annotat ad h* 1 . ; Ne huic quidem , inquit, particulae satis commodus
videtur locus esse. Qua re suspicatus sum , essetne Jorte neutrum
verbum (av, av) a Platone scriptum, sed av quocunque modo ortum ex oov,
inde autem in ctv mutatum. Quapropter voculam, ut dubiae fidei ,
uncis inclusimus. Frustra. Saepissime av particula ponitur in enuntiatis
iis, qnae minus accurate exposita ad praegressae alicuius
enuntiationis formam effingenda erant. Nostro igitnr loco quoniam
praecedit ori ol ptxa£,v rovrcjv apepo- xipoov, av particula
indicat, av av xal 6 "EpaS proprie sic proferendum fuisse: per
a&,v cuV xal 6 "EpooS idriv. <pi\o 6 o(p ov 6k
ovxct — apaSovC. Sequitur hoc ex iis, quae supra disputata
sunt. Nimirum qui cupit aliquid, is non potest, quod cupit, idem
habe- re. $i\odoq)OS igitur, quoniam est appetens sapientiae ,
sapien- tiam non habet, neque vero ignorantiae addictas est; nam qui
ignorat aliquid, is id ipsum, quod ignorat, non appetit* de
Sirtct (lEtalv elvca docpov Y.cil d K uct&ovg. alrla de avrco xal
tovrov f} ylvedig' iturgog fikv yag docpov Idn xai evxogov , fiyrgbg de
ov docpijg xal dxogov. i\ ftlv ovv (pvdtg r ov daipovog , co (pile 2?o
r/.gcctsg, ccvxi]. ov de 0v wq&qg "Egeor a elvca , a YavpacSzbv
ov - C dev eituft eg. cirjfojg de, cog ifiol doxec texficagofievj/
*£ cov dv leyeig, ro Igcopevov ''Egeor A elvca, ov ro Igcov. dea
renixu doi, o l^ca, Ttuyxcrf.og lepedvexo o alrla 81 avt cJ xal r
ov- r cdv i / y iv e 6 iS . Vide quae supra annotavimus ad verba
p. 203. C, p. ed. 259. ov Se dv cjtj $i]S*Ep ait a
tlvai, Savfiadrov x. r, A. Frustra in horum verborum explicatione
Rtickerti industria ver- sata est censentis , dv pro uti roiovtov
poni non posse; id enim Plato si exprimere voluis- set, non dubium
esse, quin scri- ptum exstet olov Se dv gJt}$7/£. Addit autem
Riickertus: Mihi co- gitationum seriem iutuenti sic res se habere
videtur, quod mi- rum esse negatur^ non esse illud praecedentibus
verbis contentum, sed verbis quidem non expressum, humauitatis
caussa, ex iis autem, quae et dixit Agatho et statirn addit Diotima,
facillimum ad intelligendum sc. ori icdyxaXoS oo i i<podr£To, cuius
erroris caussa prior error est, quod AMOREM cum AMATO confudit. Certo sic
omnia bene videntur cohaerere. Quem autem tu opinatus es AMOREM esse, nhiil
tibi mirum accidit (quod pulcherrimum esse putabas.) Opinatus
autem es — AMATUM AMOREM esse, non AMANS. Ea de caussa videlicet
pulcherrimus tibi AMOR videbatur. (Id autem non est mirum), Nam cet.
Semper meminerint lectores, orationem hanc tanquam vere habitam
co- ram convivis Agathonis hic proponi, ut interdum aliquid etiam
pronuntiationi singulorum verbo- rum tribuendum sit, qua assequuntur haud
raro loquentes, quod verbis positis non indicatum est, "Ov
igitur relativum ubi pro- nuntiando argetur, uti Diotimam hoc
lecisse consentaneum est, tantum abest, ut pronominis relativi potestatem
solam obti- neat, ut ei rei indicandae inserviat, de qua praecipue
agitur. Quam autem tu opinabaris est igitur accentu orationis in
pronomine relativo posito: Quod autem talem tantumque deum esse
ominabaris. Vide de hac relativi pronominis significatione Mattii. Gramm,
arapl. §, 480. 3. p. 899. seqq. Sia x aio x a. doi,
oipai, 7 t dyx aXo ff l<paivero. cfr. p. 201. E. dxeddv yap ri
xal iyco itpoS avtjjv t.ttpa xouxvtoc HXtyov , oldntp vvv rcpbs
iph 9 Ayd$cov , caS etrj 6 "EpcjS pe- yaS J9coV, eiij Se
t&v xaXcov, r 6 rcS ov tt xaXov xal afipov. Mirum est,
Stallbau- Eqcos. xai yccQ Etfw ro IguCtov tb Ta bvtt xa- kov
xal ajigbv xccl ttltov xal . (laxagiGtbv• tro 5s ys igav aU.7jv ISiav
zoiavrtjv £%ov , oiccv lym Svijl&ov, mias inquit, istud dppov,
quod suspicor ia ayaSov esse mutandum. Neque enim DE AMORE nunc
sermo est, sed indicat Diotima in universum, quid illud sit, quod ab
hominibus soleat sum- mo studio expeti ct desiderari, videlicet
ipsum pulcrumpcr se spectatum (ro t<o ovxi xaX ov) ct quod supra
dixerat cum pulcro artissime co ni unctam esse , ipsum per se bonum.
Hinc addit deinceps xal xIXeov xal jxaxapitixdv, Non dubium est, quin
verissi- mum sit appov verbum. Quamquam enim concedi potest, pul-
cro per se spectato melius con- venire propter aute commemo- ratam
cum bono coniunctionem dyaSov nomen, quam appov epitheton : tamen
boc maluit Plato pro illo exhibere, ut clarius indicetur verisimiliusque
videatur, quod p. 201* E. legitur, 6 o cratem idem fere de Erotis
indole atque natura Diotimae dixisse, quod Agatho supra pro-
tulerit. Vidimus autem, poetam mollitiei teneritatisque laudem
{dnaXoXTjxa') Amori attribuisse, ut verisimile «it, Diotimam appov
epitheton ita exhibuisse, ut consensisse olim cum Aga- thone
indicaretur Socrates, si- mulqne Agathonis illa sententia leviter
carperetur. Addit antem Diotima, ne qnis posito dppov nomine de
veri pulcri na- tura dubitaret , commemorarique forte indicaret
aliud quid, quam ipsam illam pulcri ideam, tiXeov et
/laxapitirov. aXXrjv i$£ar x oiavxrjv ix° v sc. i<Sxiv .
Cave dXXoi xoiovxoS confundas cum £r epoS xoiovxoS', de quo
supra diximus annot. p. 245. Sensus est verborum: Contra id, quod AMAT,
aliam naturam habet et i n d,o 1 e m atque talem quidem, qaalem ego
descripsi. ele v 8 i) 9 co xa- AoS? yap XeyeiS^
Diximus de elev verbi potestate annotat. p r 36-, ibiqne
annotavimus, hac voce uti eos , qui facile aliis aliquid concedant,
quo facilius possent illis pacatis , quid ipsi sentiant, aperire.
Non praetermittendum est autem, elev ver- bo adhibito ita seraper
concessionem fieri , ut nesciae prorsus, utrum persuasum sit necne •i,
qui aliquam rem concedit, de ipsius huius rei veritate. Hinc
additum habes nostro loco xaXcoS yap \iyeiS t quibus verbis indi-
catur aperte, Socratem Diotimae sententiam probare. Recte Fictuus verba
convertit: Esto, ut ais, hospes, praeclare enim loqueris. Non
igitur audiendus est Stallbaomius do- cens annotat, ad Piat,
Phaed. p, 117, A. ed. p. 207., caassale enuntiatum , quod post elev
positum reperiatur, non tam ad $lev pertinere , qnam ad inse-
quentia verba, quibus praeposi- tum sit. Specie non caret hoc
% •* Cap. *xrv. Kdt lym sTnov, Elev Srj , «
fa»j’ xcdcog yag Hyeig. toiovtog <Sv 6 "Eqg>s xlvcc xQstav
ijrK xolg praeceptam , si ad verba respi- cis. Piat. Phaed.
p. 117. A., quorum rectiorem explicationem dedimus annot. p. 36. Restat,
ut dicamas de verbis p. 213* E. ineidi) St ■yiaxtnXivTj , ih telv
* Ehv Srj , avSpt$ , Soxeixe yap fioi vrjtpeiv . Rursus enim
etiam in his verbis, ut supra p. 176. A* , supplemento quodam
opus est, quoniam non comparet, quorsum Alcibiadis
assensionem referas, habeat autem necesse est, quiassentitur,
dictum aliquod, cui assentiatur. Neque supplemen- tum illud diu
quaerendum fuit» Consentaneum est enim, couvi- rarum aliquos, cum
consedisset Alcibiades, hominem rogitasse: Nam liabes, qui
hilariores esse possimus te praesente? Ad qnae ille, ehv Srjt
inquit, Soxelts ydp pot vtj<peiv. Possis etiam ita rem tibi
informare, ut statuas, Alcibiadem, cum consedisset, vul- ta
subtristi circumspexisse specumque edidisse eius, qui magno alicuius rei
desiderio teneatur. Quod cum animadvertissent convivae, Alcibiadem
rogarunt : Num quid est, quod minus apud nos tibi placeat? Ad quae
ille, id vero, inquit, sit revera, videmini enim mihi nimium vino
abstinere. t OlOVtOS GJV O *£pGOt' II. Stephanus post
toiovxoS inferciendum censuit 6£ particu- lam, quae res documento
esse potest, eum prorsum eandem verborum interpunctionem habuisse, quam
nos unice probamus. Riickiertus quum ehv Sij nihil nisi transitum
denotare censeret, elev Sr/, xoiovxoS gjv convertit ; Age iam,
hospita, quum talis sit. Nos neque H. Stephaui commentum probamus,
neque Riickerti conversionem verborum laudabilem censemus.
Asyndeton autem quod attiuet, notandus usus est Graece loquentiuto,
quo post €i£V Si), cui caussale enuntiatum additum est, Si particulam
aliamve copulam omiserunt. Neque ratione caret hic usus lo- quendi,
quandoquidem satis constat , asyndeta gravitate quadam augeri. Ei
gravitati autem in- primis locus est ibi, ubi aliquis aliquid
facile concedit, ut ant suam sententiam celerius profer- re possit,
ut pl 213. E., aut ad novam quaestionem studiosius abeat, ut hoc
fit nostro loco, et Piat. Phaed. p, 117. A. ehv, $cprj> &
fttXxitixe , 6i) ydp xovxgov iititixtjjtGJV. ti XPV xoietv. Ce-
terum gjv participium quod at- tinet, supra annotavimus ad p» 174.
D. dp* ovv dyojv p£ ti aTtoXoyijdei , participiis ita in- terdum
scriptores Graecos uti, ut obiectivam veritatem cum sub- jectivo
loqaentis indicio coniun- ctam exprimant. Nostri igitur loci
sententia est; Si talis est, et credo talem esse, qua- lem descrip
si st i , natura Erotis: quam utilitatem affert hominibus?
av&Qcoitoig ; Tovto di] ]itvd rccvt 9 , ?<p;, cJ Z*5x(>a- DTfg,
7tELQ<x<5o}iccL 6s didcc^cu. e6ti (ilv ydg dt) t oiov- rog wxl
ovzcsg ysyovag 6 EQag, %0 xl , oh xav xcd&v, ioc 6v qpyg. ei de ng
'tjixug Iqolxo ' TL rc5v y.cdcov 10 xlv o*Eqg>s 9 w 2Ti oKQdttg re xai
Aiotipcc; c ode dh 0a- yictEQov lga> '0 bq(5v tcov xak&v xi iga ;
— Kcd riva xpelctv Ox £t * cfr. p. 201. IT dei 67 /, cJ
Uyd^ajv, &67tep 6v 8 17] y i)(5gj , 8ie XSeiv \ r av7ov
icp&xov xis ioXIV O*EpG0S ycal noloS xiS, hteixa xd Opyct
itvtov. Quae sequunt u e verba tovto 8t) pexa xavxa x. r. A\,
rernacolo sermone expressa au- diunt: das ist nun der zweite Punct,
den ich dir auseinaoder zn setzen versuclien will. 0 . 6 x 1
pev yap 81 } x,oiov - roS n. X. A. Socratica sciendi aviditas cum
tanta esset, ut per- cepta priori disputationis parte nimio impetu
ad alteram ferretur, id quod asyndeto expressum est : xoiuvxoS qdv o
"EpwS riva Xpciav xols dvSpanoiSj Diotima, ut impetum
illum paul- lisper retardet, ac ne inceptus ordo dispatatiouis
turbetur, ve- retis, verba adhibet: 06xi jxhv ydp 8t} xoiovxoS u.
r, A., qui- bus cum gravitate positis Socra- tes admonetur, ut et
quietius cum Diotima agat, et partes disputationis memoria teneat studiose.
Tecte autem ipsis ' his verbis carpitur Agatho , qui cum in ipso
orationis exordio recte indicasset, quo ordiue Erotis laudatio procedere
debeat, ordinem disputationis male turbavit, 7 (a\ ovxa>$
y ey ov qjS . Dindorfius , Stallbaumius ovxcoi, quam Florentinorum
librorum lectio uem esse accipimus. Sed caussam hic, cur ovxcoS'
scribatur medio in commate et sensu, non videmus. Riickert. Iam
supra annotatum est a nobis, non omnino nobis probari praeceptum
eorum, qui omnibus in locis ov- Tco ante consonam scribi iubeant,
neque ovx&f probent, nisi id verbo cum vocali incipiente praepositum
sit. Satis docemur haud infrequenti consensu codicum meliorum,
Ovxgj? etiam subse- quente consona Graecis in usu fuisse ibi, ubi
aut ipsum ovxcoS not enuntiati particula, in qua ovxcjS’ collocatum
sit, cum vi quadam proferatur. Hoc in nostrum locum cadere nequit
negari, igitur recte ovxoai servasse nobis videmur, cfr. praeterea
Stallbaumius ad Plat. Gorg. p. 516. C. , p. 522* C. ad Protag, p*
351. B. el 80 tiS r}pa$ Opoiro. Omissae apodoseos
exemplum habuimus p. 199. F. el yap ipoiprjv, Ti 80; dBeXcpoS
avxd rovxo oitep l6xiv , 06xi xivoS aSeXtpoS rj ov ; — $dvai el
— vat f ad quae verba vide anno- tat. p. 234. Nobis pari modo
praesertim in familiari sermone loqui licet: Wenn uns aber ie— mand
friige : In wiefern eigentlich ist denn, o Socrates und Diotima, Eros die
Liebe zum Scbduen ? ich will es aber deut- licher so ausdrucken :
Einer, der tyit turov, oti Ftvia^ai avtcji. ’Al\’ in no&u, iyrj,
?; cjroxpwJtg tQCDtt]( J lv toluvSb' TL i&tui txtivcp, <J
ct.v yivtjtai tu xala ; Ov ndw itpijv in i%nv lyco ItQUS tttVTl]V
tljV igattjOlV TCQOXcLQCJS dxOXQlVUCS&Ul. 'AI /i , itp>] ,
bjgxfQ uv ii ng fitzapuldv , dvzl zov xu- E lov zcj dya&cS %Quynvog,
hvviHxvolzo' (frige, a 2.(6- . das Schone liebt, was liebt dena der
eigentlich? ori Fer id $ a i a v reo . Mecum fatebuntur
lectores*, se haud facile responsuros fuisse, si Diotimae illa
quaestio sibi pro- posita esset, quod Socrates re- spondit,
mirarique licet, Socra- tem, cum alias fatuitatem quun- dam
simularet, ut et infantem ca videre posse Diotima censeret, quae
ille non videre se simula- bat p. 204. D. , tam feliciter ac subito
respondisse. Sed quae- stio Diotimae revera facillima est ad
expediendum, si ipav verbi potestatem accurate per- pendas, et si
accentum orationis non in xi ponas , sed in ipet verbo. Diximus p.
69. de ipav et <pi\tiv verborum discrimine, illud viris hoc
feminis atque amasiis attribuimus. Atque ut illic annotavimus ,
(piXelv eorum tantummodo esse, qui capi se ac teneri patiantur, ita
h. 1. adden- dum est, ipav non nisi eos di- ci, qui capere atque
tenere concupiscant. Haud multum igitur differt ipav ab ixiSvpeiv;
tan- tum modo ab eo discrepat, quod, qui ipav dicitur, h, e.
stadio cupiuudae alicuius rei teneri, is virili robore gaudere
cogitatur atque viribus, quarum auxilio possit, quod amet, eo
potiri, cfr. p. 200. E. xal ovro? apa xoii «AA oS itaS o
ixi$vpd>v tov prj ktoipov ini$vpel xal roO pij i rapovroS
xai o pj/ £*« xal 8 )i?) icJnv avcoS xal ov ivdeyS icriv , rotavi*
arra itiriv, cov 7j lxi$ v pia te xal 6 "EpcoS iOziv.
a A A* ixi xo$ei, £(pij. Bodi., Vat., Vindob , Angel. ha-
bent «AA* ixixo$il. ceteri d\X* _ 7 ... i iri XO$ti.
Hoc praestautius illo est. Suspicor tamen , quod et Riickerto in
mentem venit, utram- que lectionem coniungendam esse Platonemque
scripsisse: aAA*^ri ixixo$Ei f praesertim cum lega- tur in Piat.
Protag. p. 329, D. rot>r itirtv , o in ixixo$<» f h. e., das
ist es, was ich noch hinzuwunsche. Paullo infra p» 205. A. xal
ovxin x poSvei ipi<5$ai x. t. A. Ceterum x o- $£iv s. ixixo$Eiv
de rebus in- animatis dicitur, ut i$i\etv 9 fiov\e6$ai , (fiiXeiv,
ut vis quae- dam describatur rebus illis iu- habitans, quae cum
instinctu ani- malium comparatur. Diximus de hoc usa verborum
annotat, p. 144. < oSxep av ei tiSp.£ta- fia Aalv.
llecte Ficinus parti- cipium convertit: mutatis vo- cabulis.
Nimirum cum p. 201. C. concessum esset ab Aguthone, pulcrum idem
esse atque bonum, in pulcri locum substitui iubet Diotima bonum, ut
Socrates, cum viderit, quid futurum sit ei, qui bono potitus sit,
deinceps dicat, i TCQceas, 6 iodv tav dycc&eiv zL
Iqu-, — rtvio&ai, r\v d' iya, aurei. — Kal n ttizcu ixtiveo , « av
yivryzai 05 V nycc&cc; — Tovz’ evzoqcotcqov i]v d’ iyio, 'tya dn
o- y.QivaG&ca , ozi Eudalfim’ tazeu. Kzr/SEi yag, leprj , dya-
&cov oi EvdalfiovEs tvdcdfiovEg. Kai ovxizi ngogdei .tQiG&cu, ‘
"Iva xi di pwltzai svSalficav sivai 6 (iovXu- [ttvog; cilia zU.og do
xtl zyziv r/ dnoxQKSig. — 'Alrftrj liyug, linov lyde. — Tavzijv dij zijv
(iovlijdcv y.cd zov quid ei eventurum sit, qui pul- cri facultate
gaudeat. Ceterum cur hoc loco aofisti participium probrmus, p. 174.
B. nou nisi praeseutis participium admiseri- mus, ratio in
propatulo est. Il- lic enim de actione, quae lutura sit, agitur;
hoc loco conditiouale enuntiatum habes, in quo exem- plum
continetur, quoil noti tan- quam fiat, proponitur, sed quasi factum
revfera Socratis animo inducitur, 2tnx paxeS, q t{>VY rcDY
dy aS ojy . Haec est unius Bekkeriani codicis le- ctio, quam et
Bekkerus et Stall- laumius in textum receperunt; undecim ' codices
apud eundem habent (jcoKpaxtS i pii o ipcov, in uno tiatxpctref ipd
iptor comparet. V ulgo 6conpaxeS ipcj p ipGOY legitur, quod
Rticker- r tus iu textum recepit convertens: Feriude ac si
quis mutatis vocabulis roget ^«ic, age Socrates, dicam, qui amat
cet. Epeo autem ea de caussa non spernendum censet, quod iu
familiari sermone sae- pius dicendi verbum praeter necessitatem
mediis verbis iuscratur. Sed illud praeter necessitatem minime
nobis p lucet ; vide annotat, p. 249 neque ipeo ad dicendi genus revocari
potest , quale est p. 202* C. 7 <ou iy<o funoY , n&S rovto
, i<ptjv , \iyetS ; quae sententia Ruckerti est. Nara ut ne
commemorem quidem, quod Ipeiv nusquam inseritor hoc modo, sed
(pdvai verbo scriptores semper utuntur, etiam prima persona ipeS
verbi, quae in tertiam mutanda erat, Riickerti sententiae officit.
Postremo ridiculum fo- ret , inserto dicendi verbo ipsa alicuius
rerba indicare eo Joco , ubi praecedentibus oaSlttp av ei verbis
satis demonstratur, certi alicuius hominis verba non afferri.
Restat, ut dicamus, qui factum sit, ut in tara multos codices ipeo verbum
irrepserit. Scribarum aliquis cum iutelligeret, bono in pulcri locum
sub- stituto eandem quaestionum se- riem nunc repeti, quam iu
prae- cedentibus Diotima Socrati pro- posuisset , atque verba o
ipcov jcov ayaScov xi ipd apprime respoudere praecedentibus o’
ipdjv Tcoy xaXcov xi ipd , factum est, cum alteram quaestionem
cum altera compararet, atque illic ipoj praepositum reperiret, nt
id verbum vel negligentia vel im- perita quadam sedulitate iu
no- strum locum transferret. HXtjdei yap oi
evdai- iQttta TOVTOV 3t&t£Q« XOLVOV tXtt tlVtXl ItUVTOV
(IV- ftQcbitav, xal ltavzag t aya%u flou/.eOftca avroig arca Kfi ,
ij nag liyug ; — Ovtag, rjv 8’ tyto' xoivov ilvai navTCJV.TL 8rj ovv,
Scpr/, ai ZkbxQateg, ov ndvtag egav (pttfilv, si 'juq ye itavTf g twv
avrav £qg>Oi xal B ubi, «Ua nvag (pauev egav, tovg d' ov; — 0avfiaia
i, f t v 8’ lyd>, xal avrog. ’yJ/.ka fit] &av(iat;’, Stptj’
cttpe- Xovxeg yaQ ccqu tov fparog tv eidos 6vo(ii£o[iev xo
lioveS . Haec Terba ita conformata sunt, at Etprj non addi- to ea
facillime putare possis uon Diotimae sed Socrati aduume- rauda
esse. Neque opus est, ut affirmandi vocabulum supplen- dum censeas,
ad quod yap re- referatur. Diotimae verba ar- ctius cum praecedentibus
coniungenda sunt, ut perinde esse indicetur, quis dicat, Socratesue an
Diutima, modo veritas dicendo eruatur. Iluiusmbdi dicendi ge- neris
permulta exempla aperiuntur. cfr. p. 200. B. dp’ ovV fJovXotz* dv x is
pfyas cdv jti- ya? elvai, ij idxvpoS wv idxy- poS ; f A8vvaxoy ht xcdv cJ- s poXoyjpuvojv.
— Ov yap z ov ivSei)? dv eiij tovtaov o ye &v. Piat. Gorg. p.
492. E. 2?. ovx dpa opSoHS Xtyovtai ol pi]8e- voS deopevoi
evSaipove? elvai . K. ol A i$oi yap dv ovtao ye TiOLi ol v ex pol
evSaipovidxaxoi elev . xv a x i de (i ovAet ai. Di-
citur ira xi ilermauno annotaute ad Viger. p. 849. per ellipsin.
Plene, inquit, in constructione praesentis temporis iva xl yivrj-
xai , in constructione praeteriti Hva xi yivoixo. Sclileierma-
macherus verba convertit: Und hier bedarf es nun keiner wei- tern
Frago mehr , w e s ha1b docli der gliiclcselig sein will,
der es virili. Haud facile verna- culam dictionem reperias , quae
Uva xi verbis respondeat. Cete- rum ut recte huius Idci senten-
tiam percipias, (iov\E6$at et hic, et paallo infra ftovXl]6i5 nomen
ad significandam eum vim, quae hominibus innata est atque cum oatu- ra
eorum couiunctu, adhibetur : der Trieb. Vide qnae <1&
fiovAeOSai verbi potestate, atque quomodo id differat ab iSeAeiv ,
diximus p. 44. Igitur xo fiovke6$at tvdal/tayv ELvai caussam
primariam describit studii beatitudinis, ultra quam caussam progredi
ne- mo possit. xi 6l) ovV. Sententia liaec est: Si omnes
homines eiusdem rei, h. e. beatitudinis sempiternae AMATORES sunt,
mirum videri potest , cur alios amare dicamus, alios non dicamus. Sed
expli- cator hoc eo, quod a notione xov ipdv seiungimus partem
ali- quam, qua pariendi et generandi studium exprimitur, idque
xov ipdv atque xov "EpcoxoS verbis insignimus , aliis
nominibus ad ceteras tov ipdv partes de- scribendas utimur.
xiv ds q> apev — xov? 8* ov. Scriptura exspectaveris xov?
) uev — xov? 6 ov . Positum tov
oXov htitiXtivng ovo/ia rpcorce , ta Ss &XXa aX- Xots xaTayguixs^a
ovofiaGiv.''SlgxEQ rt; ijv d’ lya. — "SlgittQ tads. oiO^ oti
itolrjOig iori n TtoXv. ?; yag ZOL EX TOV fit] OVTOg ctg TU OV
loVTl OTlpOVV ahtU XatStt iGtl jioir\Gig , «gr£ xal cd vno xaScag rafg
rlyyai g C igyaoiai xoujtiu g tlol xal o i tovtcjv SrjtuovQyoi
itav- Tig itoitjzaL 'AXiftij
Xeyeig. AXX’ o[ia g, j; d’ ij, olo&’ autem habes pro TovS
jiev, qui- bus verbis uequa conditio prio- ris atque posterioris
membri in- dicatur, TivuS, ut lector monea- tur, pauciores esse,
qui amato- res et amare nominentur, inulto plures, qui et ipsi
amato- res sint, aliis nomiuibus in- signiri. dtp e\oyt
e £ ydp d p a. In permultis codicibus dpa omit- titur , velut' in
Bodleiuuo, Vati- cano uno, Vindob., aliis. Rectis- sime Riickertus
ad b. 1. : Aeger- rime, inquit, caream dpa parti- cula, qua id
efficitur, ut senten- tia haec non . pro certa et ex- plorata
ponatur sic simpliciter, sed colligi tantum ex aliis vi- deatur
hunc fere in sensum: si recte ego observavi, noiqGis s6ri r i
7toXv h. e. scis id, quod itotydiv voce- mus , latioris
significationis esse notionem ( ein weitschichtiger Begriff).
Quicquid euim, cura nihil fuerit antea, post ita mo- vetur, ut sit
aliquid, huic caussam ortus fuisse dicimus noit}6iv. Apte laudant
interpretes ad h„ ]. Piat. Soph. p. 219- B. ritiv dreep dv prj
npoTepdv TiS uv vtizfpov ds oixuiav dyy, tov /ikv dyovxa noielv , t
6 dyo- jaevov 7toiei6$ ai tcov tpapev . Rodem modo, quae latissimi
signi- ficatus verba sunt, adhibentur a nobis ita, ut certum
quondam, eamque artioribus finibus circum- septam -actionem
exprimant. Sic dichten de arte poetica, w i r- ken de textoria,
handeln de mercatura usurpari quem fugiat? it oirjtiiS ydp
tovto po- yoy. Ad tovto repetendum est e superiroibus ro 7(Ep\ r
ijv jnovdl - W/v xai td fihpa. In sequen- tibus exovteS tovto eodem
sup- plemento opus est, quod ne mi- nus convenire censeas cum £ xoy
- rtfparticipio — poetae enim non habent id, quod dicitur ro'
7tepi tjjv f. iov6iw)v H. r. A., sed eius periti sunt ita, ut in
carminibus paogeudis eo utantur, — tenen- dum est: Ix&v verbum
haud raro idem significare atque cogni- tum habere, ea de
caussa, quod qui aliquid animo percepit atque ita mente tenet, ut
eo recte uti possit, idem id etiam habere dici possit
commodis- sime. ovtgj Toivvv Tiai rtepl Tov £p G>xa.
Haec brevios sunt dicta, non item obscurius. Diotimae mens haec
est: Quod de poesi modo dictum est, idem in amorem cadit. Poesis
pro- prie de omnium rerum caussa efficiente dicitur, sed usu
loquendi factam est, ut pQcseos nomen ou ov xcdavvTM n oirjrctl,
alia alia tyovGiv ovo fiam aito 6s TtnarjS xijg itoirjGsag %v (toQiov
ucpoQia&iv rb jrfpi rtjv fiovGix tjv xal xa fiixQci x ra xov oAov
bvbaaxi xCQogayoQtvixca. noi^Gig yag tovxo (tovov xaltixca, xal o t
k'%ovx£g xov to x b uoqlov xljg noitjGtag noirycai. — kiyug, ttpijv.Oura
xolvvv xal niQi xov Squtk ' xo jitv wtpuktubv £<J« nuGa rj rcov
aya- D noii niii ad eam poi-seoa parti- culum describendum
adhibeatur, quae in re musica et metrica versetur. Iam ad verba
acceda- mus to fihv xEtpaXaiov — ipoaS Ttctvziy quae ad hunc usque
diem interpretum studia misere eluse* runt. Stallbaumius
expungenda censuit verba o piyidTof te xal 'HoXepoS SponS
itavxi. Riickertus contra se ita semper sensisse annotat, quoties
vel secum hunc locum tractaverit, vel cum aliis, miro eum ornatu
spoliatum iri, si vel una hic litterula sublata aut mutata foret.
Recte igitur Lticiauus ait epigr. V, v. 3. An- tholog. Iacobsii T.
III. p. 22. * ovdlv iv ctv^pGDrtoiui SiaxpiSov idn
voTjfia, aAA * o dv $avj.id%EiS, rovt kxepoidt yiXaS,
Ratio verba tractandi, quae Stallbaumio placet, ut audacior, ita
miuus commendabilis est. Riickertus autem totius loci sententiam plane non
perspexisse videtur: Ut particulam tantummodo eorum hic repetam,
quae in eius annotat, ad h. 1. p. ed. 169. leguntur: Quod vos de
ve- stro soletis Amore praedicaro , maximum deum esse et
callidissimum, qui neminem non deci- piat y id multo valet magis de
beatae vitae cupiditate, qua omnes omnino homines velint nolint
plane irretiti sunt du -* cunturque naturali quadam ne- cessitate
non aliter , ac si magi- cis artibus sint delimti. Quo sensu ipse supra
p. 203- -D. $£tvof yoyS xal tpappaxEvS xal do- q>idTtj$ audit. —
Diolimae volun- tas haec est; Loquendi usum ut in poesi, ita in
amore nomine insigniendo versatura esse, atque amorem et amare et
nomen amatorum iis tantummodo tri- buisse, qui amoris particulam
unam sequantur. Summam autem amoris omnem bonorum cupidinem
esse, atque beatitudinis quidem cupidi- nem esse maximum doXcpoy)
amorem (iravtl). Vides igitur, to /xk v xEtpaXaiov et tov sv-
baipovtiv sc. T tjv &itl$vp'iav sub- lecta enuntiati e$e. To
XEcpd- Xaiov autem primariam alienius rei notionem describit ut in
Piat. Gorg. p. 453. A, hiystS , otl izeiSovS drj/uovpyoS Idxiv
?/ fnfxopixi } y xal 7 } 7tpaypaxdot avxijS aitada xal to
xecpdAai- ov eIS tovxo TEXevxa h. e. Stalh- baaraio interprete :
dicis rheto- ricam esse persuadendi opificem omnemque eius operam
atque summam ad hos tanquam ad finem suum referri, ut aliis per-
suadere possimus, quod volumus. Iam nostra verba convertenda sunt:
Der Grundbegriff &av hiitivula xal tov tvSaipovsiv , 6 lilyctitog
re xal SoIiqos %qg>s navtL • <x)J.’ ot fiiv ciXbj
rgexofiivoi. ltoX}.a%rj in’ avtov , rj xaxcc xgr^auGfiov tj xaxcc
qii- }.oyvava6rLav ij xaxcc cpti.oGocpiav , ovt’ igav xaXovv- T at,
ovt IgaGtai , oi de xaxcc tv n elSog tinnis rs xai IcSnovSaxoTig ro tov
oXov livocia ia%ov<Uv , agaxd re xai iQuv xal igccGzaL — KcvSvvevus
dh]&rj Xiyuv, hcpijV lya. — Kal Xiyetai fiiv ye ug, icprj, Xoyos,
co$ der Liebe ist iedes Stre- ben nach dem Guten, and
das Strebcn nacli dem liochstcn Gute, d. i. nach Gliickseligkeit,
ist die grosstc Liebe. Restat, ut dicamus de verbis xal
doAepoS — TtOLVXly quae nou dubium est, quin corrupta sint.
Antiquitus scri- ptum fuisse suspicor: KAIKOI- KOCEPflCTIANTI, in
qua scriptura tripliciter peccatum est a librariis. KOI enim, quod
haud fere multum discrepat a KAI , omissum videtur ab cq esse,
qui xai dupliciter posituin putaret. Hinc enata est, cum forte,
ut fit (vide annot, p* 170.) J$F£IC duplicaretur, haec scripturae
for- ma: KAI NOCE mCErflC ITAN- TI i ex qua dictum est, una
li- neola in littera N deleta, ut non nisi A figura remaneret:
xal Sodtpt HpGDf Tiartl. Ex hoc autem sciibam aliquem, qui
callidum Erotem sciret, fecisse verisimile est xal doXepof ipoot
itavxi. Ut autem couiecturam nostram xal Xoivds^EptoS itavxi ipsi
probemus > praecedentibus verbis efficitur p. 205. A. rort;- t
7jv Sl Tt}v ftovXvdtv xal tov i p cata tovtov itotepa xoiyoy oi n .
etvai izdvrayv dv^pcjitcov xal navtaS xayaSa fiovAeoSai avtolS
tivai adi, ?)' tzcjS Ae- yeiS ; OvtcoS , jjv d * iyco et
quae sequuutur, quibus verbis accurate examinatis doceberis, nostro
loco xoivvS nomen vix abesse posse. In Schleierma- cheri
conversione legitur: Soauch vas die Liebe betrifft, ist im
allgemeinen iedes Begehren des Guten and der Gliickseligkeit die
grossle und heftigste (?) Liebe fiir ieden. Iu Schnlthessii conversione
edita ab Orellip p. 123. exstat: Im Allgemeinen niimlich ist
iegliches Yerlangen nach dem Guten und nach Gliickseligkeit fur
iedeu die grbsste, ihn bestrickende Liebe* Ficinus verba
convertit^ Nam summatim quidem omuis bonorum felicitatisque
appetitio, maximus et insidiator amor est cuique. aXX*
ol p\v ot-Wy x. x. A. UAXd particula adhibita, a rei
commemoratione, qualis revera est, ad loquendi usum traositur, quo non
res integra suo nomine vocatur, sed rei alicui parti in- integrae
rei nomen attribuitur, cfr. p. 204. A. £n. rl 8if ovv, gJ ^GonpaTtS
, ov izdvxaS ipdv (paptYy eh zep ye itavxeS xcav avtaiv ipcAoi xal
ael } dXXa xivaS epapev ipdv, xovS 6 * ov; Tpenopevoi de indole
atque naturali quodam instinctu dici— ot av to SfoutSv iumav
fyjTuGiv , ovroi IqucSiv ' 6 6’ E ifiog koyos ovxs ^fiiaeog <pt]6iv
ilvcu tov £q(otcc cirts olov, eav fit] xvy%ctv]] yi xov, m Itcciqe,
ayaQov ov' ix fi avrav ye xal xodag xal x^Qctg tfttlovOiv axo- t
tftveiS&ca ot «v&qcjxoi , iciv avtoig doxjj r a iavtav XovtjQa
efoai. ov yaQ ro iavtcSv, otfuu, txaGtoi aona- £ovtai, tl fit] i'i ng to
fiiv aya&ov olxtiov xaXil mi eavtov, to 61 xaxov akkotQiov. ag ovdiv
ys aUo tor, at p. 191. E. udat Si tdcrv yvrauaSy ywaixoS d-
(5iv y ov Ttavv ctvxai xols av~ Spa6i tov vovv TtpoSexovdiv,
d\Axx pctWov itpoS xaS yvval - xaS xexpajupivai eidlv. — Pro ol ptv
a\Ay vulgo legitur non male oi ptv aWoi f quae scriptura quoniam
codicum opti- morum auctoritate improbatur, e verborum ordine
expellenda est. Minus nos movet Ruckerti ar- gumentum dicentis, ol
piv et ol Si sibi opposita esse. Quem enim fugiat, praesertim cum
ae- qualitate quadam careaot, oppo- sitionis membra interdum
ver- borum numero et conditione non apprime sibi respondere.
xal Xeyexai jxiv ye, Miv ye particularum cognove- ris vim et
potestatem, qnando xal Xiyexat ykv et xal Xiyexai ye seorsim
utrumque posueris. Altera particula efficitur, ut Dio- timne sententia
hominum quo- rundam opinioni opponatur, qnam Aristophanes protulit,
al- tera vis oppositionis augetur at- que extollitur.
ovxot ipaititv. Saepias iam diximus de transitivorum verborum
usu absoluto, cuius ea natura est, ut casu adiuncto nul- lo non
actio quaedam, sed no- tio prematur verbi. Positum igitur
hoc loco habes ovxot ipadiv pro ovxot IpcovxiS \tidiY, Ceterum
Wolfius anno- tat ad h. l.j Was Aristopha- nes liber die Trennung
derMen- schen sagte , wendet Socrates hier zu einer ernsteren
Absicht an. Alles , was iener vorge- bracht hatte, beruhte anf einem
falschen Gebrauch eines Aus- drucks, der damals beinaho
spriichwortlich gewesen za seia scheint, dass Liebhaber ihre aa-
deren Ilalften aufsuchen. &itel avxcvr ye xal no- SaS xal
xelpaS x. r. A. Do iitil potestate vocabuli supra di- ctum est
annotat, p. 151. Ce- terum adhibito pedum manuum- que exemplo, qnas
sibi abscin- di iubeant, qni illas non bonas esse cognoverint,
Aristophanicao orationis argumentum concidit* Fieri enim nequit, ut
dissecti homines tanto ardore, qnantom Aristophanes descripsit,
alteram sui partem expetant, cnm et ex altera, cuius ipsis potestas
sit, exscindi patiantur, quaecunque vel mala sint,, h. e.
morbosa et doloribus afiecta, vel ad usum parum idonea.
ei / 11 } ei rtf. De ii par- ticula post ei jujj repetita
M&t- 18 206 i&tlv ov igoldiv av$Q€Oitoi r) tov
aynftov. rj dol 80- xovdr, — Ma At ovx &iiovy£, yv 6* lyeo. — *Ag
ovv> y S’ ijy ovtcog aizlovv It Iri Xeyeiv, ori ot av&QGMot
tov i fcc&ov igcSac; — 2 Val, Zcprjv. — TL de; ov
XQog&et&ov, iqrrji ori xai eivai 1 6 dya&o v avtotg egco6i ;
— IJpog- &8TSOV. — r Ag ovVy %<p*h xcu ov (tovov eivai ,
akka ual dei uvcu\ *— Kcd tovxo itQogftexiov» "Edtiv
thiaens egit in Graram. ampl. $. 617. d. p. 1249. , obi laudan- tur
Thucydides I. 17. inpa- %Sjf di z* ctvteHv ov6\v ipyoY dZioAoyov ,
ei fit} ei xi npdt tteptoiHovS tovS avtdSv kxd- OtoiS. Piat, de
rop. IX. p. 581. 1 ). tl ftt/ ei nS ckvtqSy dpyv- piov Ttoiei.
Prorsus eodem modo Latinis id usu est nisi si. Ditfert autem el fit
} ab ei fit/ el Ita, ut el fn} nihil denotet, nisi exceptionem,
quae ad id refertur, quod sequentibus verbis expres- sum est; el
fit} el autem, exceptionem per se poni indicam videtur ciqne conditionem
quandam subiuugi, ut si nliquid fiat aut non fiat , exceptionem re-
vera adesse docearis. ov Ipcodiv avSpcjirot, jj tov dyaSov. Aliquot
li- bri ol dv^pamoi, Sed non opus articulo, cuius omissio
admodum usitata est in eiusmodi vocabu- lis, qualia snnt dvt/p ,
d8eA(pot f yvvtj t yij , alia, quum de genere posita sunt. Stallb.
De genitivo, qui in verbis continetur ?/ tov aya&OV Mnttbiaeus
dis- seruit in Gramm. ampl. $. G31» 2. p. 1299., ibiqnc ?/ r ov
acya *' 3ou positum esse monet pro t) tq ayaSov. —
Nominativum incepta verborum structura exi- git quidem, sed cave,
tov aya- $ov minos recte habere censcaa aut loqueudi usui
parum accom- modatum. Nam verba, quorum ter- minatio ad
praecedentium verborum structuram conformanda sunt, loquendi usus iubet ,
ubi duplex structura in praecedentibus re- peritur, ad eorum
verborum stru- cturam accommodari , quae vi quadam praecipue
emineaut. Cum gravitate nutem h. 1. dictum est ipaidiv ,
quandoquidem nou de actione verbum accipiendum est, sed de
efficacia notionis , quae verbo finito expressa est. Vi- de de liac
verborum transitivorum potestate annotat, p. 59. Positum igitur est ov
ip&idv arSpooTtoi pro ov ipadrai el- 6iy ar^pooicoi. Ad
geuitivum autem relativi pronominis, cum deberet proprie ad verba
d)S ov~ 6iy ye dXXo Idxiv referri , re- latum censent interpretes
i/ tov Ctya^ov. Recte, Possis fortasse t/ cum genitivo etiam ad id
di- ceudi genus referre, quo ponitor haud raro praecedente
aliquo comparativo ?/ cum genitivo, cfr. Mattii. Gramm, ampl. §.
450. 2. p. 844. t ) 6 vi 6 oxovdiv sc.dAAov TtvoS
ipadtai eivai i/ rovxov. Tf vulgo edebatur olim , quod primns fuit
Astios, qui in y mu- tandum censeret. aga fcuZAyjldi/v , fqyij, 6
1'gog rov to ayccdov avxw elvai de L 'Jhj&etixaxa, ErpijV 4yw ,
liyet-g. Cap. XXV. "Oxe d>j rovxov 6 Eqoj g
eOxlv, rj 6’ i}, ruv riva, xqo- B xov duoxovtav avxo xal Iv xLvi xgdfei
tj Cxovdrj xcd ap 9 ovVy rj 8* 7/ 1 ovroaS anXovv, Vulgo
legebatur i/6rj pro 7} 8* rjt quod Bekkero debetur. Illud potest
ferri quidem, sed hoc non dubium est, quin sit rectius atque
verius. OvtooS ditkovv est: non addita accuratiore definitione, tam
simpli- citer» Non perinde est autem, utrum praeponatur an
postpona- tnr ov^goS vocabulum verbo, ad quod pertinet. Ubi
postpositum est eidem, ovtooS ad praeceden- tia verba respicit
signiilcatque .* hac, qua diximus, ratio- ne; contra suo verbo
praeposi- tum , quamquam illum signifi- catum non amittit, tamen
notio- nem aliquam adiungit, quam du- bitativam interpretari
possis» Eo nimirum animo est, qui ver- bis ovtgdS aitXovv utitur,
ut qui aibi rem non plane probari indicet. Hinc mireris simplicem
Socratis assensum val, £<p7jv 9 qui documento est, Socratem fa-
tuitatem quandam simulare, de qua supra diximus annotat, p.
262 . xal ov jiovov elvai t exXXd xal ael elvai. Vulgo
ctXXdc oiel elvai legebatur omisso Hod vocabulo, quod hb iis dele-
tam est, qui putarent, xal iam in praecedentibus positura esse xal ov
povov elvai. Frias istud nui autem non du- bium est, quin ad
totam enun- tiationem pertineat, additumque sit, ut significetur,
aliquid, quod in praecedentibus contineatur, hoo loco repetendum
esse, ut exple- tior oratio audiat: ap’ ovv, Hqrtf ov xal
7tpo6Seriov a ov povov elvai y aXXa xal dei elvai .* Di-ximus supra
annotat, p» 74. de ov povov — dXXa xal et oi * povov aXXa.
Hectissime autem Stallbaumius ad li, 1. ov po- yov — aXXdj^ inquit,
omisso xal Tion nisi iis dicitur locisy quibus alterum orationis
mem- brum tantam habet vim et gra- vitatem, ut quod in priore
mem- bro dictum erat , id corrigatur et quasi prorsus tollatur
. ore dr) rovrov o $pv)S idriv. Additur vulgo dei post
ititiv , quam voculam suspicor eidem deberi, qni p. 204- E. scripsit $epe,
cJ ZSoZxparef, ipdo, Toiy dyaScov rl ipa. Vide annotat, p 268.
Explicabilem tamen voculam censuit atque iu ordinem verborum
recepit Riickertus, qui et vulgatum rovro, quod Bastio praccunte
editores fere omnes' iu rovrov immuta- runt, probavit annotans ad
h. 1. Dejendi librorum structura posse videtur . Quamquam enim
quid vulgari in usu rebusque humanis amor vocetur , nondum
est probatum , tamen quid esset , 18 * jj Cvvradiq egas Sv
xctXoito ; tl tovto tvy%dvu ov r o £gyov;' £%hs tlxiZv ; Ov plvz *&v
<5s, Bgnjv iya , ut AwtlffM, tfrav[iaf:uv tnl (Sotpia xal tcpokav
tcuqu ai avta tuvra iia&rjaofievog. ’slXX’ lyco tfot, h<p>J,
iQu>- lati yciQ tovto tonos *v xaXa xal naxa to Odifitt xal
xctta tt/v ipv%7jv. Mavtilus , tjv 8’ iyco, SsCtat o tl affatim
docuere, quae praecedunt. Si igitur statuamus huiusmo di hic Jieri
• transitum: quandoquidem AMOR hoc est sernper (bonorum sc.
sempiternae possessionis appetitio), age iam quid vulgo AMOR appellatur ?
quis est , qui reprehendat? At hunc ipsum sensum verba fundunt , si tovto
legitur ♦ Becte tovto lUickertus retinuisse videtur, quamquam minus
recte enuntiationis totius sententiam explicavit. Non enim
comme- morata erotis natura quaeritur, quid vulgo amor appelletur,
sed a theoria, quam vocant, erotis ad praxia transitur ita , ut
cui studio Erotis et cuius rei appetjtui erotis nomen conveniat,
Diotima sciscitetur. Ceterum perinde est, utrum dicoxov- toov avto
scripseris , an 8icd- xovtcov ccvtov y adest enim in
praecedentibus, quorsum utrumque referri possit. Vulgatum hoc est, illud
codices optimi praebent, idque a nobis in verborum ordinem receptum est,
quod sane Sigjxeiv commodius ctyn re aliqua, quam quis
persequitur, quam cum Erotis nomiue con- sociatur. rt tovto
tvyxaY&i <> v ro tpyov ; txeiS elrcelr; Post tpyov
interposui signum interrogandi, quo maiorem habe- ret oratio
vigorem et alacrita- tem, Qna in re secutus sum au- ctoritatem
Heindorfii ad Piat. Charmid. p.l62.B. nbi haec leguntur : tl ovv dv elt)
nort td rd tav- rov npdrteiv; txetS dnetv ; In- fra p. 207. B. rd
Sc Sijpla r/S ahia ovrutS iputnxutS SiariSe- 6$ai ; A tyciv ; S t a
1 1 b. ov pevr’ dv di, tcppv lycd, ut dioripa, iSav-
pa^ov irci dotplqi. De al- tero conditionnlis enuntiatiouis membro
omisso vide quae supra annotavimus annotat, p. 242. Ceterum Graeci
accuratiores quam nos Savpapeiv riva irci rivi dixerunt pro
Savpd&iv tl n- voS. Illius structurae exemplum est Tlat. Menon,
p. 70. B. co Mtvutv, rtpd tov ptv fltrraXol evSdxipoi rjeav iv rois
KAA 77 - Qi xal iHavpdSovio iip’ In- mxy re xal nXovrut, vvv St,
cos i pol Soxei, xal ini doqtiqc. tPoitdv verbum frequentati- vum
est, atque ire et redire significat, cfr. Plat. Critou. p. 43- A.
SvvifiqS t/Sij pol idrty, ut 2utxpateS, Sia rd no XX a - XIS Sevpo
qtoitdr. Hinc solenne est de discipuli» scho- lam frequentantibus.
Iam expendas Socraticae modestiae acumen , quo ille etiam alias haud raro
utebatur, ut sententias alio- rum facilius eliceret. Diotima autem
missis ceteris verbis, quae ad rem non pertinerent, quasi nihil
aliud, quam ovx olSa iyat- ye Socrates dixisset, trAA iyut iput
respondit. xors Xlyeis, xal ov fiav&ava. — 'AIX' lya, y 8’ i}, Oatpi-
C Crepor £pta. xvovCi yccQ, Ecptj, w Xaxqcxxes, narres av&qaxoi
xal xara ro (Sapa xal xara rrjr xtyw/fl» , xal baiSccr Er rivi j/Atxta
ytvcavxca , rlxreiv badvpsi rpiav rj < jniGig . xixxtiv d"s iv
fuv alc%Q<p ov Hin) cacti, Iv 6h rcy xaltS. xal ov par Sarto.
Inter- dum Graeci, quae per caussalem particulam proferenda erant,
co- pula adhibita cum praecedenti- bus coniunxerunt. Sic hoc
loco pro xai ov pavSava) , quibus verbis caussa continetur, cur
di- cat Socrates pavxsiaS delxat, o ti 7tote XlyeiS, ex nostra
certo Latiiiorumque dicendi consuetudine scriptum exspectaveris: ov
yap fjiavSttVGd. Exempla non rara sunt huius dicendi osus. Unum ut
aderam, in quo vis illa xal vocabuli praecedentis verbi significatu
tectiore panllisper ob- scurata est, legitur in Plat. Lachete p. 194. c.
22. 2. jjxovtias, do AapjS ; A.*Ey<oye* xal ov (jtpodpa ye
pavSdvcj D Xfyei, quae verba rectissime explicata suut a Ribbekkio
, quem Engel- hardtus laudat ad Lachct. p. ed. 60. Annectitur , ille
inquit, ov yavSavcj ver iis fycoye axtjxoa non ut oppositum, sed ut
effectus, Minus id quidem sentitur, quia negativum enuntiatum sequitur
, sed inest ei affirmativum • Sav- paZoo (ov ydp pavSdvGo o
ti Tfyti) Sic nos optime diceremus: Ia ich habs gehort und
wundre inich , wie er so etwas sagen kann. Displicet in hac
verbo- rum explicatione uuum hoc, quod affirmativum verbum
negativo enuntiato inessc dicitur. Illud 3 « vfictdjiiv inest potius
iji Socratica interi ogatioue i/HOvdaS', co Aaxqti quae verba
8ocratfcm protulisse consentaneum est vultu summam Critiae
admirationem exprimente: Eodemne, quo ego, o Laches, stnporo
atque hominis admira- tione verba haec audisti? Cui ille, audivi,
inquit, nam haud aeque, quid sibi ve- lit, i ntelligo.
tjpdov rj tpvdif, Cum prae- cedat itdvxeS avSpaoitoi, scri-
ptum exspectabas avxcov rj <pv- <5iS. Nihil ad hunc locum annotatum
reperio ab interpretibus, ut mirer, neminem in verbis rjpdtv 7 )
tpvdiS offendisse. Schlcierma- cherus verba convertit : Alie Menschen
namlich, o Socrates, sprach sie, sind fruchtbar sowol dem Lei- be
ais der Seele nach, und wenn sie zu einem gewissen Alter gelangt
sind, so strebt unsero Natur zu erzeugen. Mitigata est Platonicae
dictionis durities Ficini couversione hac: Omnium, o Socrates, hominum
praegnans et gravidum corpus est, praegnans et anima; et cum primum
ad certam aetatem per venerimus (ysvcjy- XOLi ), parere 'nostra natura
cupit, Illam duritiem, quae mitigata est, ut dixi, Ficini conversione, non item
excusata, quo- modo ego excusem , non habeo, nisi fortasse in
6crmone familiari , qualis hoc loco refertur, dicendi quamlam licentiam
at- 'r 'H yag avSgog xal
yvvruxbg Svvovala roxog idrlv, ?<m da tovto &uov to ngdyy,a , xal
tovto Iv &vrjrc3 ovn tc 5 %com afravarov Ivtativ , t/ xvrjdtg xal rj
yiv- vrj<5ig. ravra 8’ iv ta avaguoStm ddvvarov yevtci&ai.
D avdguoOrov 8’ fOrt to alo^gov navrl rta ftdip , ro di xalbv
dgjiovcov. Moiga ovv xal ElXtl&via rj xakXovi} quo negligentiam
concessam esse credideris. ?/ ydp avtipdf xal yv- vaiHoS 6vv
ovdia xoxof Itiriv. His verbis adeo offensi sunt Astius et
Ruckertus, ut de- lenda censueriut. Hiickertnm audi annotantem ad
h. 1« : Verba haec qui legat, nec ceteram Platonis rationem perspectam
ha- beat, non potest is aliter existi- mare, quam unicum Platoni
eum amorem esse, qui utriusque sexus mutua consuetudine contineatur
, Neque enim aut praeter cetera hunc quoque significat
partum esse , requireretur tum xal semel vel bis positum, aut
primum se hunc amorem tangere velle indicat, ac deinde de ceteris
generibus, immo in sequen- tibus de universo amore agit ita, ut
nihil in praecedentibus de singulari quodam eius genere dixisse videatur.
Atque Plato tan- tum abest, ut solum illud com- mercium amorem
putet esse , ut in hoc ipso congruat vel maxime eius Tatio cum
ceterorum Grae- corum ratione , quod nec solum existimat , nec
potissimum hunc amorem immo ad vilius hominum genus eum putat
pertinere. Haec verba licet habeant aliquam speciem veritatis , tamen non
ita nobis persuasit V. D. , ut cum eodem verba delenda
censeamus. Neque probumus, quae Stallbau- inio placuit, verborum
'explica- tionemhanc: Nam nt primum dicam de viri
mulierisque coitu, is nihil aliud est nisi ToxoS, In quo protecto
cernitur divina quaedam vis, ut hominum genus propagetur atque
nanciscatur im- mortalitatem. Diotimae mentem verba declarant xvovdi
ydp itdvreS avSpcoitoi xal xara ro deupa xal xard tt)v
iftvxVYy quibus aperte indica- tur, disputationem de partu in duas
partes divisum iri, atque in altera parte de corporis, in altera de
animi partu sermonem futurum esse. Ac de corporis quidem partu
disserens aliud ex- emplum laudare non potuit, quam viri
mulierisque conjunctionem, neque opus erat additis quibns- dam
voculis indicare , etiam al- terum genus esse toxov , quod haec
indicatio satis manifesta facta est verbis xal xatd njv
fvxqv. xal tovto er SvTjTa orriTu{uffi dSavazov Ir
edriv h. e. xal o Iv $v7/r<jS orti roJ Zcitp d 3 ri- xar ov
{veOtiv, tovto iOT iv, 7} XVT/Sif xal ij y tvY7]<Sl5, Sententiam
quod attinet, cfr. Piat, de legg. IV, p. 721. C. yap&v SI —
Sia- r 0 T/S>cvTa, a )S iOrir, y to dr- SpooTtivov ycvoS qiv6et
Ttrl ptxdhjiptv dSavadiaS • ov xal trttpvxey ImSvpiav idxzry
ttuCar. 46 ydp yevcOZtai xAti itft* rj/ yevldsi. 6ux taura ototv [tiv
xaXeS jr&o&ie- ia$y xo xvovVj ilscov x s yiyvsxai xal
evq>Qaiv6fUvov dutis Itat xal tlxxu ts xal yiwa * otav ds
cdOxQMy tixv&Qaaov ts xal Xvnovfisvov CvtinuQaxca xal ano-
tQhtsxat xal avelXXsxai xal ov yswa, «AA* Xti%ov xo xvytia xalenws qp£$£t.
d&ev 6 i] zcp xvouvxi xs xal vdv , xal jxp dvdovvnoY
xeidSai ter eAevtjjxdxa , xov xoiovxov idrlv imSvyfa. yivoS
ovv dv^pdmaov itiri • xi %vft<pvh& x ov navtoS xpovov t o
8ia te - AovS aura) dvvenetat xal 6w- erpetcti, xovtw xo5 x poncp
d$a- vaxov ov' xoo xaidaS naiSoDV xaxaXiitopevov, xavtdv xal
%r ov dei yevetiei, rijs aSavadlaS 4 iexetXytpevca. xovrov 8rj
ano- eSxepelv bcdvxa kavtov , ovSe- nore odior. ix npovoiaS
8* dxodtepel oS* dv naldcov xal yvvatxds dpeXy. Adde ibid.
,VI.^p. 774. A. xal 8r/ xal 3 rd, fynpodSev tovtcdv fnjSlvxa, ds
Xpy Xfjt deiyevvovS (pvdsajS dvxtxxGScti, rci5 TtaldaS jratS&iv
xaxaAeiitovxi dei r<f> Stco vn- t/ pexaS JvS’ avtov napadi-
8orai. Motpa ovv xal ElXei - 3 vt a ?} xaAAovj} x. x.
A. Quia dv8poS xal yvvai- xd S dvv ov 6 i a est divi- nam
quiddam, divinum autem non nisi cum pu1cto habet couionctionem;
proptcrca pui erit udo est qnasi qnaedam obstetrix et conservatrix
(?) vitae. Stallb. Non mirum, Moipocv una cum Ilithyia hic
commemorari. Nam ut apud Homerum sexcenties cum Morte coniuncta
repentur, tTl numen significetur, quod fiocm vitae adduxerit, ita
eadem h. 1. propter iuitium vi- tao laudatur. Convertit
verba Schleierraacherus: Eine einfiihrende und geburtshelfende Gdt-
tin also ist die 8chbnhcit der Erxeugwng. iAeojv te yiy
vexat. Re- pentur post xe particulam vulgo 8ij additum, quod sane
habet, quo se lectori commendet; verura qao- niam in codicibus
plurimis opti- misque non comparet, ex or- dino verborum expellendum
fuit. 8iax^lxai verbum, quod paullo infra legitur, summam animi
liilaritatcm indicat, qua prueepr- dia quodammodo explicantur at ~
qno dilVunduntur. 8ut][ii(j$at verbo nostratium aus gelassen sein
apprime respondet. E coii; trario vernaculum Angst ab angusto
Romanorum derivatum eam animi conditionem describit, qua praecordia
contra huntur atque nimio sanguinis confluxit premuntur. Hinc
ex- plicabis dvdneipdxai verbum, •quod paullo infra occurrit,
et quod Scbol. explicat: dvdn Elpti- xai • tfvdtpetpexat. xal
dvelAAtrai. Summa exstat apud Grammaticos discre- pantia in
scribendis verbi ftMfct* A td$ai formis. Nostram scripturam, quae et apud
Bekke- rum et Stallbnumium reperi- tor, Bodkianus exhibet,
adde Vimlobb. tres , Florentinos duos •liosque non paucos. Vido
lltrfui- kenium «d Tim. L» V, Piat. p. E fjdrj Citapywvn
itoXlrj rj Ttrotydig ylyovs nsgl xo xa- Xov dia xo psydXijg codivog
dnoXvtw xov Inorna. Idti •yccQ, cJ ZaxQares, ignj, ov zov xaXov 6 tpcog,
tSg dv oXh. — *AXXa rl iirjv; — Tijg yswijdBGig xal tov roxov Iv r«
xaXa. — Elsv> v\v d’ kyej. — JIaw plv ovv , &pi]. — Tl drj ovv
tijg yswqasag; — "Ort dsiyBvig Idzt xal d&avazov cog &v7jza
rj yewrjdig. dftavaoiag 207 dh dvayxalov itudvjuZv (iszd dyaftov Ix zav
«S /toAo- 69. In uno Bekkeri codice aV- iXXexai legitur,
quod Atticum esse censet Astius ad h. 1. Apud Phrynichum exstat :
dvetXeiv fit- fiKior 81 * IroS X xaxidzov «AAa 8ia r qjy duo
avdXXEir, ad quem locum vido annotat. Jjobeckii p. 29* «AA*
tdxov zd xvypa X& Xs7C gjS '<pep£i . Notabis Jioc loco
Graecae linguae idio- tismum, quo verbum finitum est, quod
participio Expressum esse oportuit, participio expressum est, quod
verbum finitum esse nostra dicendi consuetudo exigit. Pro- prie
igitur verba scribenda erant: <*AA ?<?£« z o xvypa xaX£7tu>S
tpipov. Vido Indices» o&by 8 y t<jj xvovvxt T 8 Hal
y8y dTtapycjYTii ap- yuvxt quid significet, schol. ad li. !.
explicavit: oppcoYXt , op- yoovxi , zapaxxopivoD , y av~ Sovyzi.
XapfldvEroci 81 xal in i zgjy padS&iv TCinXypoapk- yody
ydXaxtoS. Timaeus habet: dnapvcSda • zapatxofikvy vito 2A
iif>£G)S xal 8eopivy Ixxpi- Ctooi tiyoS. Coniuncta partici- pia
habes za5 xvovvxt zs xal fj8y dnapytavxt ita, ut posterius prioris
notionem contineat qui- dem, sed eandem impense au- geat. Describit
autem dnap - yacv verbum ad philosophiam translatum eius hominis
conditionem , qui ardenti cupiditate sciendi ductas haud procul a
sciendo se abesse sentit, idque iam ia eo est, ut consequatur* Iu
sequentibus vulgo legitur itoXXt) y itolydiS , quae scriptura nullo
modo ferri potest. Feli- cissime Abreschius io Dilucid. Thucyd. p.
420. scribendum esso vidit itoXky ?} ictolydiS. Jlxoly- 6 iS animi
commotionem exprimit, qua efficitur, ut aliquis impos sui reddatur.
Hacc nominis notio quam bene cum dnapyntv verbo conveniat, neminem
non videro arbitror, 8 ia zd peyaXyS — foV IXOYza h. c.
quod sciant ma- gnis doloribus se liberatum iri, si phlcro
potiantur. Repeten- dum igitur est ad Ixovxa parti- cipium
avzo. doS dv oIei. cfr. p, 201. E. dx^dv yap zi xal iyoo
npoS avxyv izspa zoiavxa. iXeyoY, car efy d "EpooS piyaS
SeoC, ely 81 zcoy xaX&Y. Paullo ante ne mireris i<py
additum esse in enuntiato, cui oou praecedant alius personae, sed
Diotimao verba, vide annotat, p. 249. Verba nostra convertenda •uot
: Es iit nam licii, oSo- $ ytjiiivav, dbtSQ rov raya&ov
£ correo tivat as i 5 sgas iozlv. dvccyxaiov 8fj Ix zovrov rov ioyov xal
zijg u&a- vaoiag rov Spara slvat. Cap. XXVI. Tavta ts ovv
navta IdlSaOxs fis , bnvts ftegl riov tgauxcav Xfryovg jrotoiro, xal aors
ijgsro' TL oi'st , u crate», waren IhreWorte, die Liebe
nicht das Stre- ben nacb dem Schdnen. Quibas auditis Socrates
sciendi motus aviditate, quo celerius, cuius rei Eros esset,
edoceretur, verbo eo usus est , quod Dioti- mam proprie adhibere
oportuit: dWdc, Stallbaumius post ri pyv supplendum esse censet
aAAo, de cuius verbi haud infrequenti post T i omissione supra
diximus an- notat, p. 21. Nostro loco mi- nus hanc aXko verbi
omissionem probaverim j accentus orationis nou in ri, sed in prjv
ponendus est ; respondent autem Socratis haec verba apprime
nostratium: •ondern was d e n n f Elert yy 8 9 iyco. Lineolam
posuimus post iyoS, qna in- dicetur, Socratem nimis impa- tientem
disputationis tardius pro- cedentis, coucessisse quae audis- set,
inconsiderantius, ut celerius cetera perciperet. Sed prius- quam
novam suam quaestionem institueret, Diotima gravitate rem . rursum
affirmavit quasi admonitione hac usa; Hem accuratius perpende , neque
quod non aatis perceperis, concedere noli. Di- ximus de fikv ovv
voculis anno- tat. p. 250. rt 8y ovv tyt ytvrr} 6eoof; Haud
dubium est, quia aliam quandam quaestionem in mente habuerit
Socrates, cum elev responderet. Admonitus autem 9t Diotima, ut consultius
rem exa- minaret, rl St) ovv TtjS yevvy- goS dixit. Nihil auteih ad
xrfi ysvvjjdeooS genitivum supplen- dum est. Petitum enim r
yS ytvyjjOscoS verbum esuperioribua est ita, ut indicetur, hoc
potis- simum in Diotimae enuntiato praecedente accuratiore
expli- catione indigere. Ceterum 5?/ ovv et ovv 8y ita diilerre
ait Stallbaumius annotat, ad Piat* Critonem p. ed. 128., ut
dif- ferant vernacula also nun et n[un also. wf Svyto)
h. e. quantum eius fieri potest in eo, quod per se spectatum morti
obno- xium est. Recte igitur Riicker- tus ad hunc locum,
verbis $vf]T(k) limitationem quandam inesse censuit. cfr. Matth.
Gramm. ampl. §. S88. a. p. 710*, ubi Sophoclis laudatur Oed. C.
v. 2Q. jxctxpdv yap , oot yipovxi t npov6rd\yi o8ov . Piat.
Soph. p. 226. C. r ax&ocv, coS ipoi , tixhpiv
licixdxxzis, elitEp rov rdyaSov kcrvza) elvai asl d
HpatS i 6 X i v . Sic Bekkerus et Stall- 2koxQcct£s, vtTttov tlvat
xovxov tov iourog xai xijg tiudu- fiiag; y ovx alo&dru tog dsivwg
diaxt&sxai navxa xa &y- qLu, Insidar yswav im9vity6jj , xai xa
ns£a xai xa B nxyyu, voSovvrd rs navxa *ori igauxws diaxi9i(iBva
tanmius locum emendarunt, qui vario modo depravatus
repentur* Vulgo legitur elitep tov ctya- $ou. In Vindob, ono
rayaSov comparet, hinc emendationis il- lius praestautiam expendas.
Sed etiam, Biickertus inquit, vulgata lectio, quam plurimi libri
tuen- tur, proba est. Construe : ehtep Toi) dyaSov EpaS idtiv,
quibus iZyyTftiXGoS addita sunt verba iavtco tlvat dei. In quibus
sup- plendum est subiectum 6 EpcoS, quod adest EpcoS ,
praedicatum est, nisi forte mavis cum Bekkero, Dindorfio, Astio,
Stallbau- mio inserere 'sine libris articu- lum, quo fiat, ut
subiectum ad- ait, praedicatum supplendum re- linquatur.
OltOZS Tt£p\ ZGJ n ipGDtl- xtxdUv \6yovS noiolxo*
Saepius igitur Diotima de rebus eroticis cum Socrate disputabat, id
quod etiam colligere licet e verbis p. 206- B.* ov pAvx* dv dfe —
iSavpafiov iic\ docpu* xal iipoircov irapd de aind ravra
paSr/dopevoS. Ceterum ne forte scribendum censeas esse xovS XoyovS
Ttoiotro , vide quae an- notavimus p. 12. Fingit autem Socrates hoc loco,
factum esse aliquando, ut , cum iu ero- ticas res disputatio
incidisset, Diotima et alia , et hoc quaesivisset: xl ohi altiov eivat
zov- tov TOV EpCJZoS hol tijS liti- 3t yilaS ; - , v f
V ovH.aidSacvei cu s det- rc &S x. t. A. Non statim
patet, qui fiat, ut Diotima animalium mentionem faciat hoc loco*
Com- memorat ea ideo, opinor, ne for- tasse A oyidpov caussam eroti
a Socrates dicat Paullo infra habes : z ovS pkv ydp av^pamovS oXoiz
* dv ziS bt Xoyidpov zav- xa Ttoielv xa 61 Sjjpia z ii ahia qvxgdS
iputixoaS 6 tariS e- 6$ai; quae verba lmic quaestio- ni
praemisisset Diotima haud dubie, si accuratius loqui voluisset*. Sed et
haeo cogitationum series ferri potest iu sermone familiari* 8eivgoS
explicatur inse- queutibus vodovvzd re -jcdvxoc xai ip&TixcoS
SiaziSe/ieva. lit- cnim magno dolore afficiuntur, ut indicatum est
supra p* 206. E.» omues, qui procreare gestiunt* Optime
Schleiermacherus verba convertit: in ivelchem gewaltsamen Zustande sich
die Thifero befinden* Ceterum vodeiv ver- bum rectissime annotante
Stall- baumio ad Piat. Phacdr. p. 228. B. aTtavTvda? rrJ rodovm
7Ctp\ Aoycoy axoi/v , ut Latinorum aegrotare dc vehementiori- bns cupiditatibus
poni solet, quao homines vclut morbo quodam afficiunt.
xat Et oi pd idziv vnl-fy r o v T a> v . Cave post 7tai o
superioribus cjS particulam repetendam censeas, quae etsi possit
suppleri, tamen, qui Graeci in- genii volubilitatem compertam hubet
, structuram verborum hoc itQtotov filv 71 fq\ ro | vftfuyfjvai dlhjXoig,
httira n tgl ttj v rgorprjv to£f ycvofihov, xal ixoifia tdtiv vn I q
tovtov xal du<(iux£(}&ott, tu da&ivsercna zoig
l<J%vQOTceTOig xal vxepanodvfoxsiv, xal ama roi Xiiiio xciQuzuvuatva
[<3sr’J loco motatam non aegre feret. Neque sine caussa huiusmodi
mu- tationes structurao a scriptori- bus admittuntur. ."Negari
enim nequit, suspensam orationem, quae longiuscula sit, languidi
quid ha- bere atque molesti , quod muta- ta structura felicissime
remove- tor. Deinde inesse senties ipsis ocrbis, quae ab incepta
structura recedant, gravitatem, quae nostro loco apprime convenit,
ubi amoris vis atque potestas describitur. Exempla huiusmodi structurae
muta- tionis ubivis obvia sunt. cfr. p. 208. C. Zv$v/nrjSel5 cJs*
SeiyojS SiaxEivtai Spaoti tov ovojiadtol ytvkd^ai xal xXkoS eis tov
irceita Xpovov aSdvatov xata&kdSat xal vn\p tovtov xivdvvovf
te xivdvveveir Ztoi/ioi eidi x. r. A. Nos eodem modo loqui
pos- sumus: Oder weisst du etwa nicht , in welchem
gewaltsameu Zustande sich alie Thiere betin- den, wenn sie zu
erzengen stre- ben, sowohl die ungefliigelten uls die gelliigelten
, nud wie sie sammtlich krank und von Schn- suclit geplagt sind
zuerst in Be- ciehung auf die Begattung, dann wegen der Nahrung des
Er- zeugten, und sie sind bercit, fur diese zu kampfen, die
Schwa- cheren mit den Starkereu, und fur sie zti sterben. Ceterum
ne (^nem oilendat pluralis numeras viil.p rovtaov praecedente
sin- gulari tov ytropkvov , 1 6 ytvo- ftevov e genere est
collectivorum | quae post se positum singularem numerum rarius admittunt.
xal avta t o5 Xipcj ita- pateivo pexa [cJsV] ixei- va ixt
pkcpeiv. Haec verbA non dubium esse arbitror, quin labem contraxerint.
Namque qui totius loci structuram accuifftius examinaverit, eum non
fugiet, opinor, verba xal avtci rc5 Az- p<j> 7tapateiv6peva
x. r. A. b praecedente xal Ztoipa Zdtir pendere. Huius structurae
non intelligentes grammatici, ut loco mederentur , <juem
depravatam censebant, ufcr textui intulerunt, quod vocabulum nostro
quidem arbitratu inutilissimum est. Fi- cinus verba convertit j et
j>ro illis occumbere parata sunt , ac fame dejicere , modo
filios nu- triant , et aliud quodlibet audacter aggrediuntur. In
Schleiermacheri couversione exstat : u m nur ienes zu ernabren. Sed
coSte particula nunquam ita adhibetur, ut consilii notionem
exprimat, quin potius necessita- tem consequcutiae describit et
alicuius rei couditiouem eam, quae alia propter ante comme- morata
esse nequeat. Hiuc vides, quam male habeat praece- dente xal avta tep
Xipd* na- pateivofieva verba gjS t Zxel- va Zxtphpetv. Ridiculum
enim est: animalia Fame ita ex- tenuari, ut liberos nu-
triant atque educaut. Fer- ri toSte posr.et hoc loco, si scri- ptum
exstaret (ySt * kxfiva ix Ixuva IxtQitpuv , xccl aU.o nav noiovvzct ;
rovg f ihi yag uii&Qchjcovg , ecptj , oeoiz’ av rig ix AoyiGfiov
ravra C noetiv • t« de &rj()ia ri g ahia ornas tgarexag Suxti- o&£tf&eu
; *3C £1 S Aeyecv; JSfai iyd av D.tyov , ou ovx bIScltjv. "II 8’
dite " Aiavoil ovv 8uvog Xotc yivrfiz- C&cu, ra iQauxa, lav
rccvrce f ir/ tvvoijg ; — ’AXXa 8 ea rccvTtt m, <b Aeozi(iu, oxeg vvv
Srj tlt iov, nagee <Je fjxa, ' J Tpi<pe6$at,
quamquam etiam verbis in hanc modum conforma- tis inesse senties, quod
admo- dui# displiceat. Hinc factam est, at &SX£ insiticium
censerem, idque uncis includerem, ne, si ex ordine verborum
reiecissem, au- dacias egisse censear. Sensas est : et parata s d*n
t ipsa fame paene enecta illa nutrire et educare. Quae
sequuntur verba: holi aXXo nav •noiovvxoL , artius ea cum verbis
avx d tgj Xifi. c3 itapaxetvopeva coniungenda nihil habent in se
offensionis, tgS Xipd i. Supra p. 191. B. legitur:
ank5v7\6xov vito Xipov xal xfjS olXXtj? apyiaS x. x. A., ad quae
verba Stalibaumius, in- epte', inquit, vulgo vito xov Xi/iov ,
Quaeritur, cur illic damnaverit articulum, hoc loco ne verbo quidem
tetigerit? Mallem etiam hoc loco articulas ab- esset,- quem certissimnm
est a nemine desideratum iri, si reve- ra non compareret. o
vxgoS i p goxixgoG . Ov- TcuS h. 1. significat, eo modo,* quo in
superioribus indicatum sit, nmore affectum esse. Vide uuuot. p. 58.
De interrogationis genere tis alxla , UxeiS ti- Ttslv ; supra diximus
annotat, p. 276. xal iyoo av ZXeyov. Vulgo legitur av pro av ; hoc
Bekkerus et Stalibaumius ex optimis codicibus receperunt. Merito
Ruckertum mireris , qui , cum constet , av et av saepissime commutata
esse in libris , tamen av iu textu posuit. Ut bene, inquit, haberet
av, si sae- pius sibi exposita narraret Socrates, ut respondere saepius
posset se nescire, ita, quum semel tantum haec disputata perhibeat, av
ineptum videtur, av vero eo aptius, quod in priori- bus iam suam ignoran-
tiam confessus est* At superest tamen, ut mi- nus iiic dicas
Platonem curasse, quod semel tan- tum haec dicta fingeret,
indeque av posuisse negligentius quam verius» Qua de caussa
probatis licet av nihil tamen mu- tare volui. Hoc argumentum fateor
mihi prorsus videri nullum. Est autem, cur rur- sum se nou habuisse
Socrates confiteatur, quod responderet» Simulat enim, ut saepius iam
an- notavimus, fatuitatem quatidam animi, qua facilius atque
tu- tius aliorum seuteutias elicere possit. yvovg, oxi
SiScaSxdXav 6eo pai. ccXla (ioi Xlyt xal xov- rav xfjv cdtiav xal xav
ctf.lav xi5v xegl xa igcoxixa. EI xol vvv, %xpi], iu<5xtvug Ixtivov tlvai
cpv6ti xov tgaru , ov xoXkdxig «SftoA oytjxafitv, fiy &av(ia&.
tv- xav&u yag xov avxbv txuva Xoyov y ftvytrj qjvtiig D fyftti
xaxa xo Svvaxov ad xs tlvai xal d&avatog. dvvaxai 81 xavxy (ibvov xrj
yivtGti, ou dtl xaxaXti- Siavoet ovv 8eivo? ito- te. Haud raro apud
Graecos et Latinos continuandi alinsque potestatis particulae ita
adhiben- tur in interrogatione, ut indi- gnationem quaudam
interrogantis exprimant. Mutata interrogatione in quietius dicendi
genus verba audirent: Lass dir nur nicht ein- fallen, irgend
Erotischer Dilige kundig zu werdeu, wenn du des- sen dir nicht
bewusst bist. Sic tlta. reperitur in Piat, Critone p, 43» B. , quo
loco Socrates postquam iam diu Critonem in carcerem intrasse
audivit, elta, inquit, n&S ovx evSvS inijyei- paS pe. Haec verba
recte intelligent, qui cum indignatione dicta arbitrabuntur: Wie kommt
es denn nur nun, dass du mich nicht sogleich wecktest, ciWd
8id tavTct. Elli- ptica et hoc loco, ut plerumque in responsionibus
oratio ita supplenda est, ut addas cogitando: non puto, aute aWct, quod
est immo convertendum. Videtur au- tem hoc, quod de
responsiouibus dixi, repetendum esse a summa Graeci ingenii
alacritate et in cogitando celeritate, qua fiebat, ut cum mens
longe praecurreret linguam, in dicendo etiam, quae ullo modo
possent , omitterent vel in unam contraherent, Riickert . Oitep vvv 8t)
etirov • cfr. p. 206. 11. ov / tivt ’ av iqnjv iya> , <y
Aioxiya , i$av— jiaZov ini Coepio. xal icpolx gjv itapd avrd xavra
paSTjtio- pevoS. el roi vvv, £<py, itt- dteveiS x.
t. A. In omnibus editionibus legitur xoivvv pro toz vvv , quod
nobis placet. Apud Ficinum verba conversa sunt: Si credis, illius
natura amorem esse, cuius saepe iam diximus, ne mireris,
Schleiermacherus exhibet: Wenn du also glaubst, sprachsie, dass die
Liebe von Natur auf das gehe, worii- ber wir uns oft schon
eiuver— standen haben , so wundre dich nur nicht. Socrates rem ,
quae in superioribus saepius tractata est, memoria non teneBs ,
eandem rogatus a Diotima, obmutuit non habens, quod responderet, Eadem res
igitur, quoniam hic repetitur, Diotima hominis memoriae, ut
videtur, illudens, Noli mirari, inquit, si nunc firmiter tenes
memoria, caussam naturalem AMORIS esse eandem, de qua supra saepius
inter nos convenit, r) Svtjti} epvCiS Zytti xatd r o
8vv atov. Vide annotat, ad verba p. 206, E» net eicQov vaov dvzl zov italaiov' htu xal Iv
to tv sxaarov rav £iocw £ijv xaXslzat xal tlvca zo avzo, olov Ix
naiSaglov 6 avzug llytzai eas «v xgeofiuzrjg ori aayevis l6xi xal
aSava- zov tus 2vijrc3 r) yivvr)6iS. ravzx! yovov x-jj
yevi- 6ci. Caminate post yovov po- sito Riickertus sensum
verborum esse ait: liac sola ratione, per procreationem. —
Du- bito, num recte interpunctionem adhiberi liceat ibi, ubi
scriptor advocata generis assimulatione arctiorem demonstrativi pronominis cum
insequente nomino sub- stantivo coniunctionem admi- sit, Hoc certum
est, verba proprie audire: tovtoo novor, ty yevidei, sed ab
huiusmodi dicendi genere utpote incomtiore, excultior Graecorum
actas abhorruisse videtur. Assimilutionis exemplum est p. 190. E,
noti dweXxGov 7tavraxo5ev zo 6ep- fiet ini r?jv yadzipa vvv
xaXov pivTfv , ad quae verba vide annotat, p, 163, Nemini, autem
Riickertus persuadebit, tavxy h. 1. adverbii vices obtinere, quo ratio
describatur, qua quid possit, quod mortale sit, immortalitatem
adipisci. inel xal iv gj Sr ix actitor ZGOV %GO GJV X. T. A,
Nam etiam eo tempore, quo unumquodque animal vulga* i opinione
vivit atque seraper idem est, nullam que experiri muta-
tionem partium suarum putatur, veluti quum quis, inde a pueritia
usque ad senectutem idem semper esae dicitor, tantum ab- est,
Qtiumper unum idemque maneat, nt aliis par- tibus quasi de nuo
iuver- nescat, aliis privetur et orbetur. Verborum sententiam
per se minime obscuram paullulum impeditam reddit structurae insolentia .
Quum enim pusi TCpedfivTTjf yivtjrai subiici deberent haec: ojigoS
ovdinote zd avzd ix El & avrcJ , a\Xd td pkv dei vior yiyvtzat,
zd anoAAvdiv , quae referrentur ad primariam sententiae partem:
ab inchoato orationis tenore sic deflexit, ut reliqua omnia ad eam
accommodaret particulam enuntiati , quae continet exempli rei clarius
illustrandae gratia inter- positi commemorationem. Itaque nihil mutandum
censemus Stallb, Haec Stallbaumii explicatio et a difficultate structurae nobis
improbatur et a sententiae incommoditate. Exemplo nimirum Socrates
explicaturus est, quo sensu ael elvai dicatur atque dsdvatzov elvai T7}V
Svi/xr/v <pvdiv , ut non ve- risimile sit, exordium huius
enuntiati esse posse: inel xal iv g5 ev Sxadzov zgjv P.oocjv S, i}v
xakzLxea xal elvai zo av- ro . Astius huius rei iutelligens,
scribendum coniecit: iv cj tv Zxadzov tgov Zcjgdv xa\ei- zai
xal elvai zd avzd , quam scripturam ipse post improba- vit. Nobis
scribendum videtur inel xal iv d> ' ev txaoxov xd)v Zidcjv $f/v
xaXtlzai, xa- A etzai xal elvai fd avzo . Neque audaciorera
censemus hanc coniectux&m iudicatum iri , cum yknjtai ' ovrog
(ibroi ov&tnots, zu ccvra tyav Iv iav- to), ofwog 6 ttvzos xaXilrat,
akla vio g ad yiyrofitrog, xot bs ai roUvg, -/«l scaia rag ep^trg jtal
Capxa «c«l satis constet, Verba dupliciter po- sita haud
raro librariorum incuria simpliciter exhibita esse, et vice versa
dupliciter interdum posita esse , quae simpliciter a scriptore
posita essent. Exem- pla si quaeris huius rei, vide quae
annotavimus p. 171* et p. 254. Qoac sequuntur verba otov ix
izcuSaplov 6 avxoS Xe- ykxeti ( sc. tIs" ) x % r. X. optime
cum nostra praecedentium ver- borum scriptura conveniunt.
ovxoS pkvxoi ovSkxo- x 8 xa. avxtf $X a,v «v- tcj x. x. A. In
Ficini conversione legitor: JZnimvcro eo ipso in tempore , quo animalium
unum- quodque vivere dicitur , idemque esse , (ut a pueritia ad
senectu- tem) quamvis idem dicatur , nunquam tamen in se ipso eaedem
contine t , sed novum semper efficitur et vetera exuit. Sic etiam
ceteri interpretes ovSbtoxs negationem ad verba trahunt ta avxct
V.xoov iv lav- toj f quae verboroui struendorum ratio propter
insequens aXXot vtoS asl ytyvopevoS minimo nobis none probatur.
Inepto enim loco positum habebis hoc, ai illam explicandi rationem
pro- baveris. Neque defueruut , qui de verborum transpositione
cogitarent hoc loco. Facilior ver- borum struendorum ratio haec
est, ut ovSiitoxE negatio a'd pri- marium enuutiati verbum xatei-
xai referatur. Verba autem boc modo scribenda censemus: ov- x oS
pkvxoi ovd£7roxc , rcr cxvxa iioav iv avia? , u/ici?5 6 avioS
xaXslxai, aXXa vkoS aeY yvyva- / ievoS x. x. A. Sensus est : D i
e- s e r iedoch wird nietnals, w e i 1 er ein unddasselbe au
uitd in’ sich hatto, gleichermaassen derselbo geuannt, sondern (er
wird in dem Sinue dersclbe genaunt,) wreil er sicli immer ver
— iiingt, iudera er das Ver- altete abwirft. Ut boc lo- co,
ita etiam in Piat. Euthyphr. p. B. c. 2. opooS in o/idoS mu- tandum
est: xcu ipov yotp xot, oxocv xi Xkytm iv xy ixxXr/6ict 7tEp\ xcov
SeIgov, itpoXeyGor au- XotS xti pkXXovra , xixxaytAdo- <xiv gdS’
jiaivoitEvov* xai xot ov8lv o xi qvh aXrj^es sVpiptet GOV
7tpOEl7COV. aXX* dpooS (p$o— vovfov 7/piv Ttdoi xdis xoiov - xuiS.
Minus aptum est, quod vulgo edi solet, opwZ : Nihil nisi vera dixi,
tamen nobis omnibus vera dicentibus invident. Qain potius
commemorans Euthyphro, quid ipse perpeti soleat, cum vera dicat,
Socratis exemplo praemisso, communi vera dicentium iufortuuio sc
consolator. Iam ut Diotimae sententia melius perspiciatnr, rem
breviter repetam ; Quod supra de hominum AMORE dictum est, idem in
animalia cadit et in omnem naturam rerum Vult nimirum natura, quoad eius heri
possit, semper vigere» atque immoTlalis esse idque generatione
assequitur. Neque hoc ita inteljigeudnm est, ac si singula quaeque res
immortalis esse dicatur: sed ut homo aliquis a pueritia usque ad
se- E 6q za xal al[ia xal %u[ixav zo GiJfia. xal (iij ori xara to
(Scotia , aAA a xal xarcc rrjv ‘tyvxftv ot zqoxoi, za tj, dofci,
htcdvjilai, rjdovai, Xvxai , tpufioi, rovtav exutSta ovdexoze za avra
xuQeaziv sxaGzcp, «AAa za (itv ylyvszai, za de axdilvzai. xoiv de
xovrnv azoxdzegov In , on xal at extOzfjiiui (i>) ori at
208 ftw' ylyvovxai , at de axolXvvrai yiiiv, xal ovdexoze of avzoi
icS/iev ov de xara rus kxiGztjtias, a AAa xal f ita txuGrrj ziov
eXLGzrjiudv zavzov nu6%u. o yag xa- i.eizai (leltzav , u>s l^wvOris
heri zrjg exiGxrjfirjs' tiftrj ydg exiGrr^firjs ifcodos, fieXirij Ss
xui.LV xaivtjv t/x- nectatem idem Tocatnr, non nt qui habeat in se
setnper easdem corporis partes, sed quod eas mutando , inveteratas
abiiciendo quasi novus semper existit, ita etiam animalium genus rerumque
natura partium renovatione immortalitatem conse- quuntur. rd
6h drtoWvS. His ver- bis, quibus non praecederet rd p.iv , multi
interpretes offensi aunt. Wolfius rd plv nposXajj,- fidvoDV vel
simile quid adden- dum censuit , Bastius ad ra de addi iubet
itaXaia. Alii alio inodo locum, -in quo librariorum peccatum reperisse
sibi viderentur, sanare studuerunt. Stalibaumius aWa vkoS de\ yi~
yvofievoS idem valere censet quod aX\d rd pkv vkoS ael yiyvojievoS.
Maluerim ita statuere, ut Graecis licuisse contendam quotidianae vitae sermone
utentibus interdum omittere, quae e sequentibus facillime suppleri
possint, eque ra fiiv supplendum esse videtur, sed ra /ikv
aAAa. xal ptij ori — aXXd xaL Ne forte ante oAAa' xal
requi- ras prj povov, efficitur povov omisso sententia haec:
At quo ut mittam ea, quae ad corpus pertinent, etiam quae
animi sunt, consuetudines, mores, opiniones, cupidines, gaudia, tristitiae,
metus, haec omnia nemini eadem manent, sed alia oriuntur, alia
depereunt. Ceterum apposite ad h. 1. Riickertus : Noli, inquit, ex
his colligere aliisve similibus iu iis, quae sequantur, Platonem sibi non
con- stare , quod, quum alibi natura ‘ sua immortalem animum
dicat humanum, hic eatenus duntaxat ei immortalitatem tribuat,
qua- tenus et ipse , quas sui partes amiserit, assamtis aliis
suppleat. Non ipsum enim animum, naturam divinam, hic iu mente ha-
bet, sed ea tantum in animo, qualis in hisce terris est, quae ex
coniunctione cum corpore enata cum eodem intereunt. Ex quo genere
omnia sunt , quae deinceps recensentur. Quas enim mox liti(Sripxa£
affert, earum vel unus pluralis numerus satis est argumento, non
loqui Platonem tioiovtia dv rl xrjg diuovGxjs (ivrjfiyv (Scissi x yv
Irn- CtrjiiTjv, SgtE xyV avxyv Soxelv elvca. xovta yag xc> XQoitcp
xtav x 6 dvytov ov x<5 TtavxdrtaGi xo avxo dzi elvat , , SgxtEQ
xo fteiov, dM.cc xc) xo ditirbv xal xaAaiovfievov bxeqov vtov lyxata-
b Mbtuv y olov avxo yy. xavxy xy ffl%ctv y , co 2Jc6 - XQctteg ,
Zcpy , %vyxbv d&avaolag (iEze%eiy xal Gcopa wa xaM.a itdvxa ,
aftavaxov Se &M.y. yy ovv &av- pafey el xo avxov ditofyXaGtyya
rpvtiei ndv xi\La' d&a- vatilag yuQ %ccqiv ttavzi avxy y Gzovdy xal 6
tgcog 67csxau de ipsa scientia, quae nna est eademque
semper, quamqoe non potuit animo informare nisi perennem et
immortalem, quin ipse sui oblivisceretur. Immo notitiae sunt rerum
in sensus cadentium, quae nec affuerunt animo prius , quam vitam hanc in-
grederetur, neque ultra eius ter- miuos apud eum permanebunt.
itoXv xovxcjv aro - itaSxEpov Irt. Pro £tt, quae Bodleiani
aliorumque paucorum codicum lectio est , vulgo i6xiv legitur. Illud
Bekkerus et Stall- baumius in ordinem verborum receperunt, hoc
tuetur Rii- ckertus. * Eri , inquit, ut vulgato melius esse
concedam , attamen tam paucorum fide recipere eo minus ausim, quod
quam saepe liae voces intfr se permutentur haud sum ignarus. — Utor
his Riickerti verbis, quibus £ti recte habere probem. Nam si
melius est sententiaeque convenientius, quod in melioribus
codicibus re- peritur , id verum est haud du- bie. In ceteros autem
pluri- m osque libros irrepsit id, quod facillime cum illo
permutatur. 6 ydp xaXeltai pe\e- rav cof i ZiovtirjS
id t\ xyS ixidxy /iy $ . Vide de hoc pla- cito Piat. Phaed. p. 72.
E. xal prjv , iqyq o KiftyS VTtoXafidrv , xal xax* ixelvov ye x ov
Ao'- yov , cJ SwxpaXEff , si dXy^yS itixiv, ov 6v ettoSaS
$a/ia MyeiVy on ypiv r\ paSydiS ovx a\Xo XI 7j dvapvr]6iS x
vy- Xctvet ov6ot , xal xata xovrov avayxy itov rjfiaS iv
xpoxipaj xivl xpovw pEpaSrjxivat a vvv dvapipvytixopeSct x. t .
A. vSiCEp xo Ssiov, Auctor Definitionum p. 411. A. J
GteoV, 2,ajov dsdvaxoVf ctvxctpxsS npoS EvSaiuoriav, ov6ia dtSio?.
’At- 8iov , xo xctxa ndvxa. xpovov xal TtporEpov ov xal vvv
prf 6iE(p$otpp£vov. a$ avatov dfc ct\Ay, Displicent
haec Verba ideo po- tissimum, quod modo indicatum est, quomodo id,
quod immor- tale est, h. e. ro Seiov, immor- talitate gaudeat. Hinc
factum est, ut Creuzerus Lect. Piat. p. 528. scribendam couiiceret:
aSv vaxov aAA#. Recte , ut videtur, Riickertus existimat Platonem, si hoc
exprimere voluis- 19 Cap. xxvn. Rui iya uxovaag rov
tiryov Iftavuuacc re xal ihtov' Ehv , rfi’ 8’ lydi , a Ooqxxnatr]
Aiotlfiu ' ruvra C Sg db]&w$ ovuog l%u ; Rui ij, cSgnsQ ot xtktoi
tfo- set, haud dubie tzAAp 81 dd v- vaxov scripsisse. Sed de
veri- tate verborum aSdvazov 81 «A- A r} nobis non convenit curo
eodem. Stallbaumius od liunc locum annotat: Haec, inquit, ad- dita
videntor propter verba ex- trema xal TaAAa itavxa, quae ne falso
intelligerentur, sane ca- vendum fuit. Num credibile censes, quemquam esse
posse, qui cum verba legeret xal 6(n/ta t in sequentia xal TaXAa
ndvxa male intelligeret atque ro Stiov admisceret, quo de paullo
ante dictum est? Sed pone fieri posse, ut aliquis verba illa falso
iutelligat: num recte sibi opponi hoc loco censes Svrjxoy et a$dra-
zov , ubi Svjjxoy adiectivi vices habet, atque cum insequenti xal
dco/ia xal xctXAa rtavxa arctius couiungitur? Huc accedit, quod ne
ipsum quidem aSavarov, pro quo Selor scriptum exspectaveris, satis recte
habere videtur. Scribendum est , si quid video, $dr ax ov 81 afAA#,
qnae coniectura et a corruptiouis verisimilitudine, cum praecedens
verbum in a desinat, et a sententiae veritate sese commendat. Ceterum ne
mireris accusativum casum, cum praecedat aSavadlaS fxtX ix ei:
solent interdum Graeci e praecedentibus, in quibus compositum verbum
contiuetor, noa compositum repetere, sed simplex. Diximus de lioc
loquendi ysu «uuotat. p. 89. eItxov EleVf tjv 6 * lydi. De dicendi
verbo in huiusmodi enuntiatis dupliciter posito vide quae
annotavimus p. 249. Ehv verbum quod attiuet, vide annotat. p. 86. et p.
264. liisequetis interrogatio xavxa d>S aAr/SdiS ovxqdS lx ei
> fatuitatis indicium esse arbitramur, quam Socrates cum Diotima
de Erote disputaus constanter simulat. Nimirum quum, adhibito thv
vocabulo quasi ad alia quaedam quaerenda abiturus, confestim
concessisset, quae a Diotima dicta essent, rursum ad eadem redit
quaerens : num revera haec ita sese habeant? gSstjt ep ol zlAeoi
6o<pi- d xal. Stallbaumius minus re- cte: Ridet, inquit,
sophistas, de quibuslibet rebus ita disputantes, ut videri vellent
earum verita- tem prorsus habere perspectam atque exploratam. Neque
Wol- fianae ed. explicationem proba- mus Lips. 1828. p. 97 : die
bei ihreu philosophischen Vortriigen nicht ia dem zweifelnden
Tone des Socrates sprachen , sondern in dem entscheidrtiden Tone
des Orakels ihre Meinungen fur un- uinstdssliche Wahrheiten
ausgaben. Eadem sententia etiam Schleiermachero probatur , ut ex
eius conversione huius loci vi- dere licet: Und sie, wiedie rech-
ten Meister im Wissen pflegen, sprach, Das sei nuu versicliert, o Socrates.
Quid Socrates ad- <pi6Tal , Ev IWt, H<pi], cj EdxQtttes' IntL
ye xttl zav uvdQioitav ei i&eAeig tig ttjv <pdon(ilav (i/.i-
ipcu, &av[ia£oig av rrjs uXoyiag hiqi a lya eipryxa, tl (irj Ivvoeig
Iv&vfiij&elg ag deivag Euxxuvtai %otc rov ovofiaOTol
yevee&ai. bibitis illis verbis efficere volue- rit,
optime e Protagorae loco cognoscitur p. 328. E. seqq. ’«ft xai
AjtoWoSoopov , a 's xaptv tioi ix&\ uti tcpovxpeifrd? pe tvSe
agtixkdSau noXXov ydp 7i oiovpai axyxokrai a dxijxoa TIpGDTayopov'
iyoj pkvydp kvxco ZfiTcpooStv xpoveo yyovpyy ovx elvai dy^pconlyjjv
iizipiXetav, y ol ayctSoi ayaSoi yiyvovtoa, vvv 8\ itiicet6jicn.
nXyv 6pi- xpov ri poi kpizoSdbv, o 8ijXov t oti Tlpojxayopa?
fiaSlcj? heex- 8i8dB,u , inei8y xai xd noXXa xavxa iutdidafe. xai
ydp el pkv xi? nepi avx&v xovxgjv dvyykvoixo oxeoovy xaov
8ypy- yopcov , xax* ay xai xoiovxov? Xoyov? dxov6£iev y
IJepixXkov? 7} dXXov xivoi Tcjy Ixavcov el- iteiv * ei 8 e
inavlpoixo xivd xi t S?7tep fiipXla ovdiv ixovdiv ovx e
altoxpiva6$ai ovx e avxo i ipitSSrai, a XX* lav xi? xai Cptxpov
lite p coxi)6y (vide annotat, p. 82.) xi xaoy prj- $£vxgoy, d)?XEp
xd x a X- xela nXyy kvx a paxpdv yx £ * xai a 7t 0 x eiv e 1 ,
kav jiy i rtiXa fiy x ai xi ? , xai ol pyrope? ovxcj dpixpa i
p coxi] 5 kvx e? 80X1x0 v xa - •z ax e tv ovdi xov Xoyov, Ipse autem
orationis longitudini Socrates illudit, quod facere so- lent, qui
alicuius vitii alienam, reprehensionem evitaturi sunt. ei
iSkXeiS — Savpd- £01? av • II . Stephanus, ut verba usitatiori
generi loquendi adaptaret, iSkXoi? scribendum coniecit. Frustra. El
iSkXei? CxkipaL idem fere est atque el Cxk^aiS , differt tantummodo
ab illa dicendi forma optativus modus, quod hic cogitati alicuins
possibilitatem, quam vocant, exprimit, quae et ipsa cogitata est, non
ducta e veritate rei. Illa contra aliquid fieri posse indicat, iit
prorsus ex alius arbitrio psn- deat, utrum fiat revera necne.
Exempla haud rara sunt el particulae coniunctae cum praesente tempore
iSkXeir s. fiovXe6$aL verbi , cui adiectus est infinitivus cum optativo
et «v. Legitur paullo infra p. 221. E. el ydp kSkXet xi? r gjy
ZZ&xpd* xov ? axoveiv Xoycov , 1 pdyuev dv 7tdvv yeXoloi xo
Ttp&xov. Cum hoc dicendi genere care commutes exempla ea , quae
el particulam cum praesente alicu- ius verbi tempore
coniunctam exhibent et optativum av parti- cula adhaerente $ cfr. A
pol. Socr, p. 25. B. TtoXXr) ydp dv xiS ev8aipovla efy 7tepi xov?
vkov? y el el? pkv povo? avtov? 6 1 a - <p 3 elp et . Adde Piat.
Symp. p, 176» C. *Eppaiov av efrj yptv — el vpel? — vvv dnei-
pyxate , ad quem locum vide annotat, p. 38. Ceterum x&v
dvBpcj7ca>y in alieno loco positum videtur, quem ne mireris atque ut
Platonis voluntatem perspicias, Riickertam audi anno- 19
* nai xAioS eis tov ae\ xpovov aSavatov xaraS&SSiu, xai vniQ
rovrov wvdvvovg ts > uvSwevuv ttoifiol dii xdvras En iiallov jj vntQ
ruv xcdSav, xai tantem ad h. 1. i Qnod hic TGoy avSpGJrtaw addidit,
idque loco posuit illustrissimo omnium, pro- pterea factum, quod ia
praece- dentibus de bestiis non minus, immo magis fere, quam de
hominibus disputatum est , quanta cura esset sobolis tuendae con-
servandaeque. Quae euim de humano corpore animoque disputata sunt,
nonnisi probandae sententiae inserviebant, non esse alinm
immortalitatis adipiscundae rationem naturae mortali , quam per
propagationem. Itaque iam de solis hominibus locuturus recte lioius
rei indicem in fronte posuit. $ av paZoiS dv xrjt aXo- yiaS
Ttepl x. x. A. Verba FICINO convertit: Etenim si gloriae stadium', quod
hominibus inest, considerare volueris, admiraberis ruditatem tuam,
quod ea, quae dixi, non satis comprehenderis. Hoc sane mirum.
Schleiermacherus exhibet; Denn wenn du auf die Ehrliebe der Menschen sehen
willst, «o miisstest du dich ia uber die Unvernunft wundern in dem,
was ich schon angefiihrt, wenn du nicht bedenkst cet. Schulthessios
verba reddidit : denn fassest du nur der Menschen ehrsiichtiges Bestreben ins
Auge, so kannst du ihre Unvernunft in Beziehung auf das von mir
angedeutete durchaus nicht begrei- fen, wenn du nicht erwagst cet. Negari
nequit, paullo impeditio- rem verborum structuram esse atque
gravitate quadam inepta affectam, qua usus esse sophistas consentaneum
est, qui ad ante dictorum explicationem atque enarrationem transirent.
Sic tg oy dv$ poATtcoy , principe enun- tiationis loco positum, de
quo Riickcrti indicium modo retuli- mus, quid aliud est, rem si
ac- curate perpendens, quam vanae gravitatis indicium? Adde
el iSiXeiS verba, wenn du dich entschliessen, es iiber dich
bringen kaunst (vide annotat, p. 44.) et parnm defi- nitura illud :
xepl d iyoi eTpij- xa y nonne haec plena suut so- phisticae artis?
Proprie verba hoc modo dispouenda suut : eu — Ixel ye xa \ , el
£$i- XeiS el£ x rc oy av^peonoov gnXoxiplav pX iipai,
Savpdgoi? dr x ijs aXoylaS ( b. e. Savpd Ce av ix ot rt J s
dXoyiat') xov- xcdv, d iyoj elprjxa. Sensus est: Da gieb recht acht,
o Socrates ; denn auch, wenn du dea Ehrgeiz der Menschen ins Auge
za fassen gesonnen bist, koou— test du dich wohl iiber die Un-
grtindlichkeit dessen wundern, woriiber ich gesprochen habe, wenn
du dir nicht vergegenwar— tigest, indem du cet. (»s detvooi
Sidxtivr ai % Haec et sequentia ad eandem dicen- di normam
conformata snnt, qua verba legnnter p. 207. A. r/ ovx aiCSdveiy aoS
SeivdoS Sia- xlSexai Ttctvta xd Sijpia x. r. A., ut adeo idem
valeat de structura verborum xal viup xovrov — (tara
dvccXfoxsiv ml itovovg xovuv ovgnvagovv xai D v7tEQcacoftvt]<Sx£Lv *
ijtel o Xu 'Adprpov ajto&avEcv ccv, ij
vitEpcntoSvrjdxEiv, quod de ver- bis monuimus p. 207. B. xai
Ftoipa idtiv VTtkp xovxov XUL vTCEpaieoSvrftixeiY x. r. A. Ac de
industria quidem iisdem paene verbis Diotima usa est eadem- que
mutatione structurae, quo facilius et illius loci auditor re-
cordaretur, et clarius videret, de eodem et illo et hoc loco Erote
sermonefti esse. xai x\ io 9 elS tov d e l — xat a$ £d$ ai h,
e. Immortalem gloriam posteritatis memoriae tradere conservandam. Nam
xaxa- ti$Ed$at est deponere custodiendum s. servandum tradere, vide
Valcken. ad Herodot. VI. 73. Stailb. Ceterum neminem latet, hexametrum
versum esse verba xai xXloS — xataSedSai , quae a praecedentibus
atque insequenti- bus verbis seiungenda curavimus. Unde hic versus
petitos sit, nescire confitemur, hoc tantummodo comperti habemus,
depromtum eum ex carmine esso alicuius poetae, ad cuius aucto-
ritatem atque testimonium Diotima auditores ablegavit, xai vitip
tovtov xivdv- y ovS xivdvvEveiv. Dicendi formulae, in quibus nomen
aliquod cum verbo eiusdem radicis coniunctnm reperitur, ita plerumque
ad- hiberi solent, utrem, de qua sermo est , quam heri possit
maxime, angeant atque extollant. Jwy- 6vvovS xiy&vyeveiv est
igitur summa atque gravissima 6v , AkxtjOriv vitlg
'Ayilkia IJarQoxkto tnaito- pericula a^Hire, Igitur cum
Riickerto pro 7 tavta? 9 quod Bek- kerus et Stallbauraius in
ordine verborum posuerunt, codicum meliorum auctoritatem secuti,
vul- gatum nuvttS recepimus. Nam TtavtaS xivdvvovS xixSv-
yeveiv inutile additamentum con- tinet, quo non augeri sed minui
senties rei augendae potestatem, TldvtES autem etiam eo nomir ne
nobis probatur, quod omnes haud dubie a Diotirha significantur
laudis atque gloriae studio te- neri cfr. p. 205. D. xd plv xe-
tpakaioY idxi xtada 7 } xcjv dyaScox l?tiSvpia xai tov tv-
daifioveiv 6 /.liyidxds te xai xoivoS HpoyS Ttavti. Adde p. 208. D.
du IA*, olpat, vntp dpsxi/S aSaxcttov xai xoiav - xij$ do&rjS
evxAsovS 7t dxxeS itdvta itoiovdtx . Nostrae ver- borum
explicationi Schleierma - cheri conversio favet : u n d d ie-
serhalb sind alie bereit, die grdssten Gefaiiren zu b este lien. In
sequentibus xdxovS itovEiv ovSXixaSovv est : labores suscipere quam
velis gra- vissimos, ubi ovStivaSovx non nisi de iis laboribus
intclligen- dum est, qui snnt gravissimi. Contra minus probem Plot.
Apol, Socr. p. 22. A. &ec &if vpix xtjv ipijy nXxxvijv
ixiSel&ai Gjsrttp itdvovS xixds noiovvroS, quo loco pro xixaS
scribendum esse videtur tixds. "AXxiidxiv vnip *. 'A6p
?/• tov x.x.X. Exhibentur eadem, quibus Phaedrus usus est,
exem- 4 8 avtiv, TCQoaxo&avuv rov vfisreQov Kodgov vxlg
rijs (i aci 1 Atiu$ rov ncddav, (irj olofiivovg aSavcctov pvypTjv
apertis «£ qI avtav Etisadcu , yv vvv tjfius J'j£0{t£v; IIolAov
yt dtt, Stprj , uAA’ , olycca, vittg ctQttfjg a&avazov y.al
roi- twtt ] g So^rjs evxAsovs navus itccwtt xoiovOiv, 0 Oa Sv E
afitivovs tofo, xocSovrcp (idAAov * rov yag d&avdrov pla ; ut respici
indicetur etiam ad eas orationes , quae ante Socra- tis atque
Agathonis orationes habitae essent. Sed quoniam Diotima loquens
inducitur , quae orationes in Agathonis convivio habitas non
audivit , ut casu vi-, cieatur exemplis illis usa esse, tertium
adiungitur, Codri regis interfectio. Audi Scholiastam, qui de Codro
haec tradit t — oS nal V7t\p xijS narpidoS attiSave t porca)
roupde. voXepov roiS JcopievdiY qyxoS itpoS 3 J5tj- yaiovS ,
ixpt}6ev 6 $eo$ totS JatpievfSiY aiprj6eiv xds ’A5ij* vaSy ei
Ko8pov rov fta6iXia / it} q>ovev6(M>6f yvovS 8k xovxo 6
Jjfodpo? 6xeiXaS kctvxdv evreXei tixevy coS ZvXidtTjv xal Spe-
rtavoY XafioaVj izl rov xdpctxa rdov 7toXepicjY icpoyei, 8vo Sk
averi d7tctYxy6dvxcdv 7 toXepicoy tov pkv &va 7tardB,aS
xarifta^ Xev, V7td 81 rov hxepov dyvotf - SeiS, otixiS 7 /y t *
Xtjyc\S dvi- $avc , yaraXivcoY Xtjy dpxtfY Medovxt xri
vpetifivxipoa xgoy T taidcoY v. x. X . Hutus facinoris memoria
superbiise Athenienses videntur, ut si quis peregrinus ipsis
adulari vellet, rov v pe- te pov Kodpov diceret. Male vulgo rov
yphepov legitur, quae lectio prorsus aliena ab hoc loco est, ubi
Diotima , mulier peregrina, loquitur* vvlp apextjS aSctYcc-
tov . Haec verba cum non sa- tis apta reperiret Diotima ad mentem
suam exprimendam, alia addidit, quibus haec explicarentur. Kai igitur explicativum
est, cuius exempla laudata ha- bes in Judicibus. Verba conver-
tenda sunt: der unsterbli- chen Tugend balber d. h* wegen des
herrlichen Ruhms der Tugend. Nou licere igitur opinor aperi} S
no- men hoc loco virtutis laudem interpretari, quae Riickerti
sententia est, qui frustra annotat: Non magnum discrimen esso inter
dpexijS d^avaxov et 60 - Ep]S EpxXeovS , sed aliquod ta- men ,
quodque maius etiam vi- deri potuisset Platoni propter al- terius
vocabuli sensum latio- rem* d$dv axov pvypr\Y ape-
TtjS. Haec verba, hexametri versus fragmentum a ceteris ver- bis
seiungenda curavimus» . Hv vvy rpieiS t x°P €v i ta dictum est, ut
aliquid supplendum sit, quod his verbis opponatur; futuro tempore
posteriores ha- bebunt» Paullo iufra etiam verba eis rov iiteixa
XP°vov a prosa oratione secludenda curavimus, quod quo iure
fecerimus, io pro- patulo est» IquSiv. ot fiiv ovv lyxvfiovtg,
stata Ouficaa ovtcg XQog tag yvvalr.ag pallov tQinovzai xui
tavtg tQomy.oi d<Si, Sia stuiSoyoviag u%uvu6lav scca pvrj(iT]y
suci tvdai[iovlav , wg oiovtca, avtoig iis x oV bcetta xpovov
xcivta xogi^ofiivoi' ol Se scuta tyv ^vfl\v — tloi yaQ £09 ovv,
'£<pri, di iv xaig il>v%aig scvovtiiv eu ftaAAov scal ev 8
axfioviar , c is olovtai . Cornarius pro coS oloviat scribendum
esse censuit coS olov xe t quam coniecturara Iliickcrtus, quamquam
in textu coS olovxat posuit, probare vi- detur. Nobis non dubium
est, quin Plato co? olovxai scripserit, quo adhibito Uiotima indicatura
fuit: eroticos, qui liberis procreandis immortalitatem sibi
comparare studeant et felicitatem aeternam , falli posse saepenumero. Non
iniuria. Nam moriuntur interdum patribus super- stitibus liberi, interdum
impie- tate parentes laedunt, ut illi pro immortalitate
exoptatissima magnum malum sibi acquisivisse videantur. eidi
ydp ovv, rdp ovv particularum eadem paene signi- ficatio est atque
ydp apa par- ticulis , quae exempli caussa p. 205. B. reperiuntur:
dq>eXovxtS ydp apa xov ipcotds x i eldoS oYopd^of.iEY x 6
rot> oXav iirizi- $ivxeS ovopct Spooxa. Non promiscue autem his
particulis Graeci scriptores usi sunt. Ubi demonstratum aliquid est
exemplo , ydp dpa poni solet ; ubi non nisi indicatum est, yap ovy
particulis locns datur. Nostro loco simpliciter commemorator in
praecedentibus : esse, quixaxa ipvxijv procreare cupiant, contra B,
poeseos exemplum af- fertur, ad quod, quae deinceps dicuntur,
diriguntur. €eterum quae post eidi yap ovy leguntur, inceptam verborum
structu- ram nou mutaut, sed prorsus destruunt. Nibil enim reperitur
in sequentibus, quod cum illis ver- bis consociari possit.
Iucepta sententia verbis absolvitur; x ou* xoav 6’ av oxaY xiS
h.x.A., quae verba cum illis nullo modo couiungi possunt. Sunt
autem huiusmodi figurae dicendi, gratae uegligeutiae indicia, praecipue
in familiari sermone haud infrequentes. o? lv iai$ ipvxaiS
xvov- 6 iv. KvovdiV valgo legitur; aliquot Bekkeri codices
xvavdiv Labent , quod ipsi Bekkero pro- batur et Dindorfio et
Riickerto. Illud Stallbaumius aliique in textu posuerunt. Buttmanni
indicium in Gramm. arapl. p. 177., quod ct Stallbaumius probandum
censuit, ( lioc est: Den Gebraucli festzu- setzen von hvcj und
xveco ist scliwer, da es in den hauligst vorkommeudcn Forinen nnr
eino Accentverschiedenheit ist, tvie xvei , xvil u. s. w, Bei
Flato indessen, wo der Accent sonst in allen Handsclmfteu schwankt
nud Tbeaet, p. 151. B. auch dic Schreibart xvoYta und Hvqvy- TJ Iv
Tols Gt0[ic(6iv, a Ipv%ij XQOgrjxa xai xvijGai xai xveiv. zl ovv XQogrjxu
; qQovrjdiv %e xai rf/v cekbjv u qeztjv' dv S>j eidi xai oi jcoiijzai
xavtes yewf/votpes xai zav StjfuovQycjv 0601 Xtyovzai bvqezixoI
tlvai. nolit de (leyiGzjj , eqirj, xai xaV.iGzt] trjs tpQovytieas
f\ %a, itt an folganden Stellen in allen Handschriften
Theaet. p. 210. A. xvovftev Symp. p. 206. E. xvovvxij p. 209. C.
ixvei , wodarch , wie mir scheiut , fiir diesea Schriftsteller dei:
Aus- scMag gegebeo wird. itpo Zyxet xai xvijdai
xai xveiv . Ficinas verba convertit : Hi sane concipiant ea, quae
animae et concepisse et concipere convenit. In Schleiermacheri
conversione legitur: was der Seele ziemt z u er-» zeugen and erzengen
za w o 1 1 e n , Schulthessius yerba reddidit: dena fiirwahr, es
giebt solche, die raelir mit dem Geiste ais dem Deibe zeugen
und erapfangen, Haud dignoscas ex bis verborum conversionibus,
quo iare boc loco et aoristi et praesentis temporis infinitivi ponantur
eiusdem verbi. Aoristus autem non nisi notionem exprimit actionis
in universum spectatae j praesens tempus actionem cum efficaciae
notione coniunctam describit. Sensus est verborum: quorum procreationem
animus et cupere debet et revera efficere. ti ovy itflQfjjxet; De
interrogationibus medio sermoni interpositis, quibus ad rem attentiores
auditores redderentur, supra diximus annotat, p. 60. xq\v' 51
peyiGtr] — xai yaWiixr) Xv s q>povrj- GegjS. Haec e
Graecismo quodam dicta sunt, ut adiectivo praemisso sequatur
substantivum nomen com illo proprie per nominativum casum coniungendum, casu
genitivo. Vis huius structurae haec est, ut adiectivnm extollatur atque
potestate augeatur, , Verba convertenda sunt: Die grosste und
schonste Erscheinnng der YVeis- beit, diaxotfpifdeif.
Vulgo 6ia- Xodfirjdi^, quod ab eo profectum yidetur atque in textum
illatam esse, qui insequens pronomen relativum ad praecedens
nomen pertinere censeret. tovrcov 6 ’ av qxav rts Xx t.
Magna est difficultas horum verborum, quae vario mo- do a viris
docti» sollicitata sunt. Quaeritur %£iq£ cov verba atrum cum
praecedente %l}v ipvxqv con- iungi oporteat necne, deinde ipsum
jllud SeioS miram quantam displiceat. Quod se- quitur xai t
eo melius carere- mus. Primus H, Stephanus n)v Ipvxtfv $eio$ &v
coniungendum Censuit. Contra Stallbamniq* monet , tyxvficpY rrjy
Tpvxrjv hic dici oppositionis ergo, cum eorum i& superioribus
mentio fa- cta sit, qui corporis auxilio im- mortales fieri
studeant, SeioS V>v rrjy i/ivxijv nos etiam eo pomine
improbamus, quod SeioS Jtfpl rag Tav itoltav te xal olxy&Eav
diaxoa/iyUsig, y Stj ovoua lott, CatfQodvvy te xal dixatoOvvrj.
tov- r cov 6’ ai orav ug Ix vtov lyxifiarv y TijV ilwpjv, B ftuog
<3v xal yxov6tjg rijg yfoxiag xixtuv te xal yEvvav ySy Itcl&vueL
famil Sn , oi[ica , xal ovrog uspudv to tvv to dcopa ne cogitari
quidem possit. Heusdius scribendum cen- suit Tovtcov 8* ctv orctv r
iG ix riov iyxvpcov y rr}v ipvxyv, tr/v <pv6iv j&cZoS’ qjy
x, r. A., quibus verbis verborum difficul- tas non removetur. Kai
ante 7/xovdr/S positum Stallbaumio videtur non copulandi, sed
inten- dendi potestatem habere, neque ad participium tantummodo,
sed ad totam enuntiationem perti- nere. Sensum ait totius
loci esse: Horum fgitur si quis a puero praegnans est ad
animum, quippe divinus, etiam appropinquante ae- tate, quae
'pariendo et generando idonea est, parere gestit atque ge-
nerare. Alia via II. Stepha- nus xai explicandum censuit scribens
iitiSvpy* qua coniectu- ra efficitur , ut apodosis non a tovtgjv 8
av terbis incipiat, sed ab insequrnte enuntiatione; etyTEi 8i/ x.
r. A* Probatur haec explicandi ratio Astio et Rii- ckerto. Ficinus
verba reddidit: Quisquis ergo virtutum huiusmo- di natura plenus et
gravidus est ideoque divinus , aetate de- bita imminente parere iam
ge- nerareque affectat. In Schleierroacheri conversione legitur :
fFer 7 iun diese ais ein gottlicher schon von lugend an in seiner
Seele trdgt , der wird auch , wenn die Zeit heran kommt , Lust
haben zu befruchten und zu erzeugen. Nobis xai indicium est
, ante ijxovdr/S aliquid excidisse, quod quid sit, facilius
indicatur, quam qui factum sit, ut exciderit, cfr. p. 208. E. ol
jtkv ovv iyxvfioveS, icpr/ f xaid 6 capax a ovteS npoS taS yvy
alxaS pdXXov xpk- Ttovrai xal ravty ipcotixol tldiv , quibus verbis
edocearis, quid sit id, quod nostro loco .exciderit. Dicuntur enim,
qui ad corpus praeguantes sunt, ii- dem ad femineum sexum na-
tura ferri, atque corporis au- xilio immortalitatem sibi quae-
rere. Qui ad animum praegnan- tes sunt, num verisimile est, eos
aetate appropinquante tam nude dici et pariendi et geoeraudi cupidissimos
esse. Nonne dictum oportuit; eos etiam ad ani- mam ferri atque
animi auxilio immortalitatem sibi quaere- re? Scribendum igitur
conii- cio : tovtcoy 8 av oxav tiS ix vtov iyxvpcov y tt/y
‘ibvxrjv, g ov, xal xara rt/v tf)v - xf}Y yxovdi/S r jjs yXixLaS
tixrciv TE xal yEvvdv i/8 ?] ixi^v/tEl, Sensus est: horum,
inquam, si quis est a puero prae- gnans ad animum, is, quippe
divinus, etiam animo, si aetas advene- rit, pariendi atque
gene- randi c upidus est. Verba autem xara ipvxtfY nou
intelle- xerunt, qui xai copulandi pote- state positum censerent.
Hinc ea expunxerunt. 298 HA A TS1N02
xcdov iv tp uv ytvvtjautv’ Iv t<p yuQ aiGxQtp ovSi-^ XOTE
ylwijOH. tu TE ovv 6 wuuta tu xuXu (luV.OV Ij tu cd6xQu uexut,txai ats
xvav, xul luv Ivtvxy 4'vxij xuXy xul ytvvulu xul ivrpvH, nuvv Sy
uSTta&tui tb fcwtXUtpotlQOV , xul 3CQ0S tovtov tov aV&Q(07t0V
EV&V? tvxoQU Xbyav Mgl uQttfjs xal jciqI olov xQ’l ^ val
C tov uvSqu tov ayu&ov xul XuiSeveiv. amo/ievo g yug,
P,rftit St) — to xuAov, Iv m x. T. A. Primo obtutu sciiptum
exspectarem Spjrei 6// xaAuv ti, Iv oj av yevvijdeiev. Sed optimo
habet TO xa\bv % Sensus est: Quaerit igitur etiam hic (ut alius,
qui ad corpus praegnans est) multo cnm studio pulcrum illud,
quod aptum esset, in quo procreare at^ue generare possit,
it a v v 8 rj d 6 Tt d% et cti. Tum rero plane utrumque, et corpus
et animum pulcrum amplectitur. Ne- que enim 87 } in his est scilicet,
nempe, ut putabat Astius, sed positum est nt in formulis iv$a 8 r),
ivravSa 87 /, rore 8 rf, atque refertur ad praegressa illa £dv
hvtvjft ipvx y 7ta\y* 8 tali b . xal Ttepl olov XPV vat
tov av 8 pa. H. Stepha- nus vitii aliquid in his verbis odoratus
scribendum esse cen- suit xal nepl tov olov XPV vat x. T. A.
Bekkerns praepositionem nucis inclnsit, Astius etiam xai vocula adeo
odendit, ut eii- ciendam censeret. Stallbauraius olov non
masculinum, sed neu- trum genus esse contendens ver- u BTUtqdsvHV,
na i hti%UQ& oi[iat,, tov mlov nal opi- /horum sensum
hunc esse ait: quale sit, in quo tractan- do versari debeat is,
qui boni viri nomen et digni- tatem ohtinere velit.
Riickertus improbata hac explican- di ratione Bekkeri exemplum secutns
itepi praepositionem uncis inclasit. Nostro arbitratu neque delendum aliquid
est neque addendum. Articulum solent qui- dem haud raro scriptores
in hulusmodi enuntiatis addere, sed necessitas additionis nostro
loco nulla est* Proprie Diotima dictura erat: Ttepl apeti/S xal
olov xfiV tlvai x. r. A., quibus verbis nihil inest, quo offendaris.
Sed noluit ea hoc modo exhibere, ne parum explicatam sit, utrum de
uno an de duplici disputationis argumento nunc agatur. Praepositionem
igitur repetiit, liberiore dicendi genero usa, quod in familiari sermone
excnsabile censebis. In hoc nimirum dicendi genere aliquyl tribuen- dum
est pronuntiationi verbo- rum, quatenus consentaneum est, Diotimam
prolatis verbis Ttepl dpetijS xal Ttepl linguam paul- lulum repressisse,
post verba olov xprj elvai tov av8pct x. r. A. ita pronuntiasse, ut
auditor intelligeret, eflicere ea unum ar- gumentato disputationis,
et qaasi luiv ctvttp, a italai Ixvei, r Ixtei xal yewa, xal itagcbv
xal dxdv (isfivypivog, xal r 6 yswTjfrsv tivvtxTQttpzi xoi~ vrj fiet’
Ixeivovy Sgre tcoXv xowmrlav tfjg rc5v Ttaidcov rtQog ccAkrjAovg ol
xoiovxoi ifjxovtii xal cpiHav fofiaLOTeQav, dts xakhovcov xal
d^avatatigcov ncd- dov XBxoLvavrjxotBg. xal ndg dv depacto iavtq) r
oiov- tovg itaidag paXlov yeyovevai rj tovg av&Qanlvovg , xal D
$lg "0(itjQOV ccTtofitiipag, xal 'Htiiodov xal xovg al- unam
notionem ut praecedens dperfjs. xal 7tapa>v xal
aitcjY /i Epvij /x£roS . Neminem fu- giet, alterum participium,
napcov, superfluum esse. Cave id prorsus otiosum censeas. Etenim
au-? gendo orationis vigori inservit. Satis notum est Latinorum
nolens, volens; quo iure, qua iniuria, simii. Paullo infra legitur,
p. 215. C. T a ovY ixelvov idv re dyaOroS av\ Ti)s avXy. iav te
tpavXr) avArj- tpif , pova xatkxE6%ai noiEi xal SijAol x. r. A.
Huius dictionis vim nou assecutus est Astios, qui xal expungendum
censet, quod in duobus codicibus ante to yEvvijSiv omittitur.
Eidem ' Kiickertus adstipolatur. Quid enim, inquit, sibi vult
pul- cri invenis recordatio dum praesens est? At procreati in
eius pectore fetus, recte mentionem faciat, cuius facile potest
fieri ut obliviscatur, certe si voluptati magis quam virtuti sit
deditus. trfi T dSv naiScov sc. xoi- vcoviaS. Frustra Bastius
scribendum ceusuit tg&v naiSovS - vgov vel 7 Cai 8 o 67 c 6 paov.
Stall- bauraius xoivcoviav tqjy rtaldoov esse censet
coniunctionem ex liberorum procreatione oriundam, Respici
consentaneum est ad maris femiuacque coniunctionem , quam saepias Diotima
tetigit in praecedentibus, v. c. p. 208. E. ol plv ovv iyxvpovEf,
£<prj, xard dcopara ovte* icpoS taS yvval - xaS fiaAXov
rphtovrai x. t. A., ut h. 1. consentaueura sit coniunctiouem commemorari,
quae procreandorum liberorum caussa inita post, procreatis liberis,
au- ctior atque firmior evadit. ola Ixy ov a havtdjv
xa~ r aA$iit ovdir. Olo ? et 060 S haud rjjiro pro on T oiovtoS,
oti T odovtoS poni, exemplis demon- stravit Mattii. Gramm. ampl.
$. 480. 3. P* 899. Pronomeu relativum o S in sermone familiari eadem
potestate adhiberi interdum, supra annotavimus p. 263. xal eis
“Opijpov djco - /3 A hf)aS — ZijAujv. Parti- cipia interdum
exhiberi copula addita nulla, sapra indicavimus annotat, p. 94.
Ibidem, qua po-^ testate participia ddvrSETcHit po- nantur,
explicatum ieperios. Ea potestas quoniam hoc loco non exprimitur,
admodum nobis dis- plicet participiorum ratio. Ne- que tamen Astii
medelam ver- Xovg itoirpcag Tovg aya&ov g fyXiUv , ola ixyova iav-
tljv xataXiMvrSiv, a ixtivoiq a&uvaxov xXiog xal fivijfujv 'Xttfjiyira.i
ama roiamu orna' el 81 flovXsi, icpij , olovg Avxoiifyog n alSag
xarsXixsTO Iv Akxe- Saifiovi. OaxiiQag trjg AaxeSa!(iovog xal , ag Img.
d- 7 tdv, Trjg 'ElkaSog. ti/«os 8s tcccq’ vyiiv xctl EoXcov E Sia
rtjv Tuv vo(i(OV yivvrjOiv, xal aXkoi aXXo%i xoX- f.axov uv&Qtg, xal
iv "EXXrjOi. xal iv (iag^agoig , %oX- Xa. xal xaXa axorpyvauevoi
iQya, yevvrjtSavrsg Xav- %qiav aQitrjv' (Jjv xal uqci icoXXu rjSi] yiyovB
Sia tovg Eorum probamus , qui Sr/Xolr) pro S,r)X(Sv
soribendum couiecit. Stallbaumius verborum structu- jram ait esse:
TtaS av SiUaiTO t avtd j xoiovtovS itai8aS jj.cc A- Jtoy
ytyoyivoLii r t rovs avSpa)- nivov* Zrjk&Y xal r ' Ofirjpoy xal
' Hi>io8oy xal x ovS aAAo.v? 7totrj - T uS xovS ayaSovS, eIs
ixelvovS (tizofiXaipaS , ola Ixyoya kav- Tgjy xata\Eiitov<$iY'
Nemo ne- gabit, haec Yerba optime se ha- bere } sed nura eo ordine,
quo PlntQ ea exhibuit, eum sensura habere possint, quem
StalJ- buumius putat, alia quaestio est, quam certe addubitare
li- cet. Ruckertus commate post 'JitilodoY posito prius
membrum enuntiati esse censet xal elS "Ojityjov
d7tofi\h{>aS xal 'Hoto- 8ov , alterum xal xovS dXXovS 1
taij]T<}s tqvS dyaSov? Z?jXd>v. Quamquam haec explicandi
ratio admodum nobis placet, tameu esse aliquid censemus, quod
me- rito vituperetur. Non recte enim dici arbitramur xal eIs"
O pijpov ct7tof3XixJxaS xal 'Htiiodoy pro xal Eis "Ojirjpov
ccTtoftMipaS xal .tls 'HtiioSov* Igitur post aito~ (3A.£lJ>a$
comma ponendum cura- vimu« , quo efficitur, ut cum admiratione
aliquis dicatur ad Homerum respicere, atque Hesiodum ceteros-
que poetas bonos cum in- vidia quadam prosequi» ei 8 e
fiovXei, Hcprj,o?- ovS Avxov pyoS . Brevius hic locuta est Diotima
quippe supplenda auditoribus relinquens, quae facillime suppleri
poterant: ei 8 ftovXei, ZjjXtkiy Avxovp - yov, otovS nalSaS x. r.
A. Ce- terum assimilatiouem generis, dc qua supra dictum est
annotat, p» 286., hoc loco admissam arbi- tror. Primitus neutrum
genus relativi Flato in mente habuit, cui TcalSaS odiungeret
appositio- nem. Post elegantiae studio ge- nus relativi mutavit ,
idque ad sequentis nominis genus direxit» — Pro xaxeXbzexo vulgo
xate~ fehzEzo legitur. Recte illud re- centiores editores e codicum
au- ctoritate in verborum ordinem receperunt. &y
xal lepd TtoWd. cfr» Wachsmuths Hellen. Altertbumsk» II. 2.
p. 155. xavxa p\v ovv — xdv 6 v pvTj $ elrjS h. e. quae
hucnsqne dicta sunt de roiovtovs nalSaq , Sia de rovs uv%Qani^ovg
ovSe* vog na. Cap. XXVIII. Tavra (ilv ovv ru iganxa
”<Saq , m Xaxgarig, xav Ou fivtj&ihjs ' tu da relta xai Inontixa,
av tve* 210 xct xai Tavra lonv , luv rig og&us fisruj, ovX oid
\ tl olo s t’ av tfys- iga fiiv ovv, £<pr ) , iyiS x al ngo*
Qvfiiag ovdcv unoldipa' nuga SI txiaftca , av o!o$ ta ys- dat yag, rov
og&ag lovra ini tovro Erote, cornm tu quoque mysta iactus es
fortasse* Iam iis, quae Diotima protulit, t d reXsa xai izontixd
oppo- nuntur, ut facillime intelligatur, quid sub verbo Tavra
intelli- gendum sit. Nimirum cum illa verba ipsa arcana
significent, ad quae spectanda, qui mystae esse cupiant, non
admittuntur, nisi ante quinquennali purifica- tione, quam xaSapCiv
Graeci vocant s. xaSappov , ad rem idonei facti sint , tavra
ipsam illam xaSapdiv denotare con- sentaueum est. Qninque
autem fuerunt, ut Theo Smyrnaeus nar- rat Mathem. p, 18.
initiationis gradus, quorum primus xaBap~ f.ioS vocatus est,
secundus tJ rijS teXerr/S napaSoCiS, tertius ino- nreia , quartus
avaSetiif xai Crappareov btiSsCiS, quintus ro' SaocpiXls xai Seotf
Cw8iairoS evSaipovla. Harum graduum verisimile est singulum
quemque annum unum sibi exegisse, ovx ol8* s el olo St*
av eItjS. Hic quoque e mysteriis similitudo petita est. Haud
ra- ro enim, qui mystae fieri cupe- rent atque arcana spectare,
^priusquam quinquennium praeterla- psum esset , impatientes morae
consilium mutabant atque a pro- posito abhorrebant, cfr. Piat*
Phaed. p, 69. C. eIcI ydp 6tfr <padv ol Ttepl rat r eXard? y
vap- %rjxoq>6poi plv izoXXol , pax- Xoi Se re rcavpou Ut
autem melius intelligas , quo iure do- ctrinam de Erote Diotima
cum mysteriis comparet, pergit So- crates 1. c. : ovroi 8 ’ elcl
Xard t tjv i/iTjv 6u£av ovx dXXoi ij ol 7tE<piXo6o(pyxoTES
Op3(ZS. gjv 6jj xai Sycaye xara ya ro dvvaruv ovSlv dniXinov
iv rui pico , dXXa itavrl t porceo npovSvpijSiiY yevtCSat. eL 6
e opSdiS TTpov^vpij^tfV xai rl 7fvv6a/i?fv , IxeICe IXSovteZ
ro Caepi S aldupaSa, idv SiuS ISe- Xy , oXiyov vdrapov, coS i
pol donat. Comparat igitur Diotima rei iosequentis difficultatem
cum quiuqueunii illius molestia, atque, ut mystae impatientes mo-
rae , ita ne Socrates difficultate rei ab audiendo deterreatur, vereri se
indicat. TCEip GJ 8\ E7C SC$ ctl. "&71E- CSat
verbum saepissime adhibet Plato , ubi auditores excitari si-
guifieaturus est, ut attentius au- rb xgayfia %q%e6&iu (ilv vsov ovra
levui 1x1 x « xala CtoftarK, xal XQatov y.iv, luv oq&ws fjy^rai
6 xjyov/isvog, ivog avxbv Cioftarog igav xcel ivzuvda diant
accuratiosquo , quae doceantur, percipiant. Petitum autem hoc verbum est e
mysteriis, ubi ducentibus ad arcana spe- ctanda iis, qui itept t aS
te\e- r aS erant, mystae sequi iube- bautur. p\v v e ov
oV“ ra. Hecte Ficiuns verba red- didit: Oportet eum , qui ad
hoc recto sit tramite progressuras, statim ab adolescentia
pulcra corpora contemplari, et primum quidem, si modo recte
ducatur, unum corpus amare. Ceterum Sy- denhamius, quem Wollius
laudat, optime annotat: Der Grund hiervon ist der, weil das
innere Auge sich zur E m- pfindung der Schonheit eben so offnet,
ais zur Erkenntniss der Natur. Unsere Seele fangt im- m-er bei
einem einzelnen sinnlichen Gegen stande an, geht da nn zu
einem andern fort, vergleicht beide, und siehtiniedem das,
was beidegemein ha- ben, So fiihrt sie fort, sammelt und
vergleicht mehrere andere Indivi- duen dieser Gattung, bis
sie in allen diesen Indi- viduen einerleildee, eine und
ebendieselbe Natur wahrniinmt, So gelangt sie endlich zu einem vo11standigen
Begriffe dieser sowohl de ii Arten ais der Gattung selbst gemein
schaf tlichen Natur, iener ewigen und un veriinder- lichen Idee, die
eine und ebendieselbe in allen ist. Inseqnentibus singuli gradus
per- censentur, quibus initiari debeat is, qui ceteram pulcri
ideam concepturus sit. Itaque Diotima, Stallbaumius inquit annotat,
ad b. 1. , primum ait initiationis illius gradum esse, quo ad
unum nos applicemus corpus pulcritu- diiie insigne, ex eoque
virtutem et bonorum sermonum fructum procreare studeamus.
Secundum esse hunc, ut non unum aliquod corpus amemns, sed omnia,
quae emineant pulcritudine , corpora amore complectamur. Tum
pro- grediendum esse ad consectandam animi pulcritudincm , prae
qua corporis forma omnino conte- mnenda sit atque id agendum,
ut, quod iu moribus, legibus, insti- tutis pulcrum sit, id
animadver- tatur atque diligatur. Denique perveniri ad sapientiae
atque philosophiae studium et amorem, quo qui incensi sint, eos
demum ait intueri pulcritudinis verae, constantis atque aeternae
divi- nam formam atque imagiuem. hv 6 S avtOV dcbpLCtTOS
ipav. Bekkerus e quinque co- dicibus edidit b>o$ avt&v
yiaroS Ipav , quae scriptura , nt Stallbaumius atque Ruckertus iam
monuerunt, nullo modo ferri potest. Pronominis repetitio pri- mo
obtutu molesti quid habere videtur in verbis iittiTCt ou- roV x. T.
A., re accuratius per- pensa repetitam videbis, quo va- ycwav
Xoyovg xcdovg' Exuta 6tl avtov xotavoijaui, ori to v.aXXog zo ixl ougovv
Gci/ian ra> Ixl triga B 0Bfiau aStXqjov lari, xcd tl bu dicoxuv to
Ix’ lidias graduum enumeratio emi- neret, alterque ab aitero
signi- ficantius discerneretur. Et quum in huiusmodi singularum
rerum, quarum altera ab altera accurate seiungcnda est, usitata
prope sit verbi finiti repetitio non dubita- vimus praeclaram
Stallbaumii con- jecturam , quae et a facilitate commendatur, in
ordinem verborum recipere, atque dei pro de exhibere: ineita dei
avtov Xatavoijdai. Verba autem quod attiuet: kvoS avtov
CcdpazoS £pav, quoniam praecedentibus adiuuguntur, nontanquam novi
gra- dus significatio iisdem opponun- tur, avtov pronomen nobis
quo- que admodum displicet, ut Bek- kero displicuit, ex cuius
scriptura eruimus, quod unice verum esse videtur: kvoS av toiv
dcopazoov ipav. Av particula, ut supra indicavimus annotat, p. 209.
, e superioribus aliquid supplendum esse docet, ut expletior
oratio audiat: rtpajtov /Av dei rov op- $qqS lovta ini tovto td
npdy- pa ivoS zcdv (jojpdtcjv ipdv. ori t d y d XX o S — ad e
A- (p 6 v i6tt. AdeXqjov rarius cum dativo casu coniunctura
re- peritur, quam cum genitivo ; in caussa hoc esse arbitror,
quod rarius tropico, quem vocant, quam proprio sensu exhibetur.
Substitutum h, 1. est ddeXqjov nomen in opioiov s. d/ioiotazov
verbi locum ideoque eius casum ad- scivit. / to in
eldei xaXov. Wyt- teubachius ad Eunap, Yol, II, p. 247* h.
1. dicit to in* eT8ei xa- A ov dialectice dici pulcrum in specie,
quae generi oppona- tur. Gai assentitur Stallbaumius. Male, si quid
video. Est enim pulcritudo, quae in forma est atque sensibus
perci- pitur» Hinc etiam ei dei dicSxeiv dictum vnoSezixdiS.
Ruckert. Schleiermacherus verba reddidit : und es also, wenn er dem
in der Idee schdnen nachgehen soli, grosser Uuverstand wiire cet,
Schulthessius ; uud weil doch das Schdne der Gesummtgattung an-
gestrebt werden miissecet. Recte Wyttenbachius et Stallbaumius
verba ceperunt. Ficinus habet : Et si sequi decet, quod in
spe- cie pulcrum, absurdum est cet, yai eI det diGJXEiv X a
AA o S . His verbis tertius gradus continetur, ut quinque etiam
eroticae initationis gradus nominentur. Vide annotat, p, 3f)l* Sed
haec verba tauquam alicuius gradus significationem Flato non
attulit, ne nimia, opi- nor, singulorum membrorum si- militudine
oratio laboraret. Pro- prie scribendum erat; eneixa dei avtov Zv te
xai tavtov ?}yei- 6$ at to ini niidi toiS dot/tadi xaXXoS xai
dicjxeiv avto ov in* eldei xaXov. Sed quoniam hoc gerius dicendi
praecedeut| - enuntiato simillimum est, verens scriptor, ne nulla
varietas esset orationis , condilionali particula addita id genus
dicendi exhibuit, qi/od in libris comparet. Quae uutem sequuntur
> tovto 6* £v~ 1 tiSst xalov, x oXlf/ avo icc (irj ov% tv re
xal r avrov cjyeiG&ai ro Icci ctaGi roig GiojiaGt xalAog • rovro 8
’ IvVoijGccvrcc xaraOtfjvai ctavtav rav xaiwv Gafiarcov iQaOrrjv ,
hos 8 e ro GqjoSga rovro %a)JcGai xaracpgo- vrjGavra xal G/uxgov
tjytjGafiBvov ' ftsra da ravta ro Iv raig pv%ais xaAlog ti/ucattgov
rjyyGaG&ai rov iv tfii Gajiau, agre xal, av btcuxrjg cov rqv us
VOtjdavttt xara6ri]Vai rursuni ad verborum praecedentium bt et- ra
det avrov xarctvoij6ai ex- emplar conformata sunt, quar- tum gradum
eroticae initiationis exprimentia, ut expletior oratio audiat :
httira 6ei avrov ivvorj-> Cavra xara6ri]Vai x. t. A. bvos
db ro dtpodpa rov- ro. 'EvoG sc. xaXov tiooparoG. Sensus est:
nimium autem illum unius corporis amo- rem, (quo de supra dictum
est p. 210. A. xal TZpcorov pbv — IvoG av r cov 6copdxcov
ipctV et quem qaotidie videre licet,) cum contemtu remittere
oportet. Minus apte Rucker- tus annotat ad b. 1.: quod au- tem
rovro posuit , eo factum f quia cum > Socrate loquitur Dio -
tima f est enim eadem ilpoove.iA t quam ubique Socrates usurpat
Platonicus j ut ad amorem pue- rorum propensiorem se esse si-
mulet. Tantum enim abest, ut propensiorem Socrates se ostendat Diotimae
bis verbis laudatis ad puerorum amorem , ut potius cur non sit, et
esse nolit, eius rei rationem indicatam habeas. Prorsus autem rei
intelligeutiam Riickertus pervertit, de puerorom fimore hic cogitans,
*EvoG ro 15<po - Spa rovro potius ad utrumque sexum pertinet, atque
sive femina sit sive puer qui ametur, unius amor (die
ausschliessliche Liebe ei nes Gegenstandes) vituperatur c Ii Sr e xal dv —
xal 6 pi- xpd v avSoG i XV’ Vulgo iav additor ante Cpixpov.
Annotat Stallbaumius ad h* 1* : Horum verborum constructio quam
valde laboret, etiamsi non observave- rint interpretes, tamen vel
mediocri animi attentione neminem potest latere. Quum enim doGre
Xai referendam sit ad igapxetv avrqj , apparet eorum verborum, quae
interiecta sunt, rationem iav bis illato mirifice perturba- ti.
Neque tamen medicina longe petenda est. Deleto enim altero iav omnia
sarta tecta erunt. Nam ita xal tipixpoV positum, ut Piat. Criton, c. V.
extr. et n xal 6pixpov ypcoV ocpeXoS 7/v et sexcentis aliis locis.
Idem de hoc loco nnper visum esse Astio non sine animi laetitia
video, Sententia igitur haec est: si quis proba sit animi indole et
vel tantillum pulcritudine corporis floreat, Multo probabilior et
,verisimilior haec coniectura est, quam Sommeri commentum, qui cov
participium in y immutan- dum censuit. Pro iav , quod ante
irtietxjjG positum reperitur inultis in codicibus, vulgo txv
legitur, quod Bekkerus iu oidi— nem verborum recepit, quem
xnl [lav] 6juxQov av&og lyy , eiagy.nv avrco xal tgttv C xal
xijdiaitca xal xlxxuv koyovg r oiovrovg xcd t^ryriiv, omveg jtoiijaovOi
fiO.rlovg rovg veovg , Uva avayxaod fi av &taoua&ui ro iv rolg
ixirrjdevfiatii xal rolg vofioig xakoi' , xal zovto ISnv , ort jcav ai no
avu5 fcvyytvig tduv , tva to siegl ro Ouaa xa/.ov tiiuxguv n
%yrfii]- rai uvca ' (tstic 6« ta tTti,xr t Sivy.ara Isti rccg
ixiOrrjfias secuti sumus, nt esset, cnr acri- bae uon
intelligentes huius vim particulae ante tijuxpov idv
inseruerint. xal t Ixxeiv \6y ovS t oi - OvzovS x al ?,7/z
etv. Verba xal ZtjzeIv Astius ineptnm glos- sema habet, neque
quiequam post rixxsiv \6yovs xoiovtovS locum habere arbitratur,
quam xat ix - T pl<pEir, Quod verbum si com- pareret in libris,
a nemine non probaretur; sed habet etiam # 7- teiv , quo sese
lectori commen- det. Stalibaumius ctTjxsiv verbi patrocinium
suscipiens, Diotima, inquit, hoc dicit: talem amato- rem uon modo
ipsum parere quasi et ex se procreare , sed etiam aliunde quaerere
et investigare eiusmodi sermones , qui iuvenes reddant meliores.
Quibus ver- bis significatur maxima hominis contentio et stndium, qni
niteri omnibus rpodis prodesse cupiat. Recte. oltiVES
It Oli} dovtfl. Iland raro Graeci scriptores futuro tem- pore
utuntur, quo significent, aliquid haud dubie futurum esse atque
fere necessaria de caussa : welche die Iiingliuge besser rna- clien
m ii s s e n . tva dvayxa.6$i/ — ivct x 6 n spl x. x. A.
"iva particulae repetitio hoc loco sutis molesta est. Huiosmodi
repetitiones admittuntur quidem a scri- ptoribus, sed eo fiue, qui a
no- stro loco alienissimus est. Ni- mirum quando cum gravitate
singulae alicuius rei actionisve partes enumerandae sunt, haud raio
scriptores voculis npdoxov pkv — insita s. insita 64 utuntur. Hae
partes, ubi per Runles particulas inferuntur, haud raro etiam illae
voculae omit- tuntur, atque particula finalis re- petitur. Vide
lud. s. v. Repetitio. Quam aliena haec dicendi ratio a nostro loco
sit, sponte intelli- gitur. Hinc Astio assentimur, ivct posterius
expungenti, quod quomodo ia ordinem verboium irrepserit, facillime potest
indicari* J*rnecedit enim idti, quod»' itpsA- xioxixov dnte
interpunctionem assumsit, cuius vocabuli syllaba huulis iucuria
scribarum dupli- cata ansam dedit corruptioni. Totum Jocum Astius
sic scribi iubet: iva avayxa6$EiS av SsacSaCSai to iv tois
Inixr}- Qsvpatii xal rois vopoiS xa- Xov xal xovt* i6slv , oxt
ndv avxo avxcp ZvyysvsS i6xi, ro mpl to 6 copa xaXov 6/Jtxpov
. xi tjyjjorjxai slvau Neque probamus Stallbauraianum argumentum , quo dicitur
admissa con- jectura Astii totius sententiae ratio perversa esse.
Quippe ita, Stati - 20 t t ,
uyayuv , f 'vct TSy av ixusrtjfuSv xaiUos , xal fifJxav D XQos nohv
fjdrj r. 6 xaKov , (irjxtri ro xuq evi , montq olxttrjs, uyaxwv ,
xutduyiov jkUAos V uv&qwxov uv os banmius inquit , ea par*
enuntiati , quae continet rei longe gravissimae significationem ,
par- ticipio indicatur, altera , quae rem minoris momenti denotat
, per verbum finitum exprimitur. De hoc verborum structura vide
ludiccs 8 . v. Participium, pera 8i x a kn iXTf Ssv - para —
ay ay eiv, Hic ut taceam tot verbis interpositis denuo novam periodum ab
illo detV in principio posito suspensam, nonnihil offensionis
habere , illud vix excusare possum , quod sub- lectum etiam mutavit
Plato , atque ab eo, qui ducitur, transiliit ad eum , qui ducis et magistri
personam agit. Est enim plena sententia: Ssi Xov 7/yov- p£vov
dyayeiv avxov x. r. X. Hoc Riickerti iudicium est, quod esse
suspicor qui probaturi sint. Nobis neque 8« verbi omissio incommoda
est, neque vero sob- iecti mutatio excusatione indigere videtur. Suut
enim verba magis ad sententiam , quam ad grammaticam subtilitatem
conformata, Atque mirari non possumus, hoc loco pro eo, qui ini- tiandus
sit, eum commemorari, cui iuvenilium animorum initiation sit commissa,
cum idem etiam in praecedentibus commemoretur* cfr. p 210. A. 8ei
yap , £<prj, xov opSdfc lovxa btl rovro ro irpaypa apxtdSai piv
veov ovra levat irci ra xaXa 6(d- pata r xal npcorov piv ,
iav opScoS 7\yr}tai 6 r\yox>- pevof , kvoS av x. x. A.
prjxixt xo 7tap * ivido S- f tep oixirrfS dyandov. His verbis
inesse quod minus bene habeat, statim lectores inteliigent. Bastius
SovXevgov ineptum glos- sema habet , quod oixkxTjS verbi explicandi
caussa margini olitn adseriptum post in ordinem ver- borum
irrepserit. In aliquot co- dicibus pfo ptpte xt xo legitur pyjxit*
ha), uude Bekkerus at- que Schleiermacherus scribendum ceusuerunt
pTjxezi rw. Astius scribendum couiecit: prjxexi xo 7 tap* ivi, QoSnep
olxixifS, dya- rtGov xaXXof, y avSptanov xi- voS 7? ijtitTjdsvpaxo
$ IvoS, x, r. A. Vulgo verba hoc modo interpunguntur : 7£poS noXi)
ijSjj ro xaXuv, prptkxi xo nap - ivi, ddsnep oIxext}? ayandov
naiba- piovy xdXXoS, t} dv$pGD7tov x 1 YOS X. X. A. Stullbaumius ad
h. 1. Nihil, inquit, mutandum videtur praeter interpunctionem, quam
nbi emendaveris in hanc modum: xal (iXincov npds noXv 7/drj xo
xaXdv, pTjxizt xo nap’ ivi , doSitep oixixTjS , ay vendor
itaibapiov xaXXoS x . r. A., haud scio au omnia satis expedita fu-
tura sint. Nara ad ro nap* ivi , quod connectendum est cum
dyaitdov, rursum intelligas xa- Xov, Apto vero additur c Zsnep
oixknfiy quoniam, qui unius tantum admiratur polcritudinem, is ei tanquam
servus quasi emancipatus videtur. Porro nihil habent offensionis, quae
deinceps sequantur: naiSapiov XaXXoS — iittXTfSEvpaxo » ivoS, quae
nemo est, quin videat , apposita esse *o \
y imTTjdlvfiaros {vug, dovktvmv (pavXog y xal 0 /jixqq- koyog ,
cAA’ tal ro nokv nikayog xecQamiivog rov xa- koii xcd &taQdov xolkovg
xcl uaXovg ivyovg uai (it- praecedenti ro nap* kvl explica-
tionis gratia, ita ut pro to xa- X uv nunc dicatur nuiverse xaA-
AoS\ Denique nec participiorum cumnlatio quidquam habet, quod ab loquendi
consuetudine alienum sit. Nam fiXbroDV npoS noXv ro xaXov arcte
cohaeret eam pipiETi ro nap * kvl dya- nckiv f atque indicat modum
et rationem, qua fiat, ut amator non amplius unius tantnm
admiretur pulcritudiuem, 4ov\evgjv autem reiereudum est ad
q>avXo$ y xal 6p . , ita ut idem sit , quod dia Tu BovXeveiv*
Quocirca sententiam verborum sic fere red- diderim: post studia illa
ad scientiae genera ad- ducendus est, ut sapien- tiae
intueatur pulcritu- dioem, atque eo, quod latissimum puteri
campum spectat, non i a m unius, sicuti servns, admiretur
pnlcritudinem eaque servitute vilis existat et pusillus, sed ad
immen- sum pulcritudinis.mare conversus etc. Iloec
egregia verborum explicatio est, qua et codicum lectionem servatam
fet Platonis ingenio haud indignam gententiam repertam habes. Unum
tantummodo est , quod in hac verborum explicatione minus nobis placeat,
oixBTt}? nomen. Sa- tis apertam esse reor, Platonem, si servilem
conditionem eius describere voluerit, qui unios hominis vel rei
udmiratidne atque AMORE captos teneatur, 6 o d- \oS non oixittjS nomen
ad- hibiturum fuisse. Sic infra p. 219. E.
xctTatdefiovXayiEro? re DfCO TOV CtV$(XO7t0V G)S OvStlf V7t
ovSeyqS d\Xov icfpiya . k, T. X., cui innumeros alios locos
addere possemus, quibus probure- tur, ad servilem conditionem de-
scribendam Platonem nusquam o f- xkxyjS vocabulo nsum esse. Scri- bendum
est autem pro oixixtjS nomine 6 IxitrfSy quae vocabula passim
confusa esse Iacobsins monuit annotat, ad Meleagri epigr. XXXII. v.
2. De Initr/S vocabulo amatorem unius hominis describente, vide
Excurs. &it\ to noXv niXayoS tet pappivoS rov xaXov
. Picinus verba convertit: verum in profundum pulchritudinis
se pelagus mergat. Stallbaumius exhibet: sed ad immensum pulcritudinis
mare conversas. Videtur nemo ioterpretum verbis offensus esse to noXv
niXayoS, qoae sane, praesertim cura praecedat xal ftXbtcov xpuS
noXv ydij to xaXov t nimis ponderose prolata snnt. Satis erat
dixisse ini to niXayoS rov xaXov vel ini ro noXv r ov xaXov
Utrumque verbum h* 1. adhibe- tur prorsus eodem modo, quo aX - AofT
cum nomine aliquo coniun- gitur. Ceterum apte conferri iu- bet>
Stallbaumius Plut. Quaest, Piat. p. 1001. E. ro piyi- 6rov y ccdtoS
iv Svpnodtco Si- datixoov , rttoS 6si toIs ipoari- xoir xpydZaij
perdyovra rrjv i>vyt)v ano tcov afoSyrcov xa- Xdjv ini ra
votjrd, napeyyvd pijrs CooparoS tivoff pyz’ im- 20 • ‘yaXoitQtxtig rixrij xccl duevotjfuna tv
rpiioGotplct atpfto- vto , eag av ivrav&a QGXS&alg xal
avfy&fls xattSij tiva bu&truirp (ilav Toiavrrjv, fj loti xaXov
toiovSt. E IlHQa 6s ftot, hffj , tov vovv XQogt%uv tSg olov r
t (laXitita. Cap. XXIX. "Og yuQ av (lifflt
ivruv&a XQog t « iQatixa xaiSaya- tijSev/icttoS fitjr’
btttirijftriSxaX- Aft fiids v7totErdx$cn xal 8ov~ A eveiv, aXX*
dnoOtdvxa xij$ itepl xavta pixpoAoylaS ini xo noAv tov xaAov
itiAayoS xpi- 7te<$$ai. $e&)pG)v * — rixrxj xal
8 tay 01 } p at a x. t, A. ricina* exhibet ia conversione : abi
ipso iutaita multas praeclaras atque magnificas rationes
intelligen- tiasque in philosophia abunde pariat. Attius, dqiSovGQ
verbo oifeusas | acpSova scribendam eoniecit. Nobis
transpositione verborum opus esse videtur pro- pterea, quod
praecedens 3en>- pcjy participium sequente ac- cusativo, qui ad
id non per- tineat, satis inepto loco positam videtor. Supplendum
cen- sent ad $£(u)p(k)V interpretes av- zo , sed supplemento illo
ordo verborum ^eoopGjy noAAovS xal xaAovS A oyovS xal peyaAo-
npeneiS haud excusabilior reddi- tur. Scribendum igitur videtur
esse: aAA* btl td noAv neka- yoS ZExpappeyoS rov xaAov xal SEwpobv
zoAAovS xal xa- Aovs AdyovS xal 8iocvoi}pata xixxy iy
<piAo6ocpia dq>$ovaa. Seusus est: sed ut conrsr- s o s a d
'im m e n sam pulcritudiui.s copiam atque intuens pulcrorum
atque praeclarorum lermonnm immensam materiem (vide annotat, p.
333.) pariens sit in philosophia ditissima. De verborum
transitivorum absoluto usu , quo nostro loco xi~ XTQ dicitur pro tixxoDV
y , saepius iara diximus. Vide Indices. tiva initixrfprfv piav x
oiavtrjv h. c. scientiam eam, quae est ideae pulcritndinis, ad quam
cognoscendam Socratem Diotima adhortatur ut animo attento essa studeat.
Ceterum xazidy miuus apte Schleiermacherus reddidit: bis er
erblicke; xaxiSel-y est potius: mit dem Blicke erfassen,
agnoscendique notionem videndi notioni addit. Sic p. 172. A.
legitur roJv ovv yycopipooy r/J oxiCSe xatidcSy pe xdfipcj- &ty
ixoAede x. x. A. h. e. : einer meiner Bekanntcn, der mich von
hiuten sali and erkannte. Paullo infra p. 210. E npds riAuS ySff
icoy t&jy ipasTixcdy i^aitpyr/S xaxdip ex ai xi SctvjiaCxov x.
x. A. piypi iytav£a. Sic libri meliores omnes pro vulgato
//i- XptS, Quod enim Phrynichtu p. 6., Herodian. Philet. p.
451., alii grummatici veteres, pdxp* el axfn tanquam Atticam
probant, fttG>ntvo$ i<pt*fjs ts xal oq9& s ra xaXa , srpog
riAog fjdy iwv zuv igauxiJv t^alcpvyg xazvipizui n ftav- (iciGzov tijv
tpvGiv xaXov , tovto txiivo , a £ioxQccceg, ov 8rj tvcxEv xal o£
ZfixQoo&iv zcavzig novot zjaccv, ngarov (tiv ccei ov xal ovts
yiyvofisvov ovts utzoX!.v(1£- 211 vov, ovts av^avofisvov ovts qp&ivov,
ezcaza ov zy (ilv tcaAuv, zy 8’ alOxQov, ovds rora [ilv, rora 6 ' ov’,
ovds arpog (ilv ro xcdov, sgog da rd uIoxqov, ovd' Ev&a
filxpiS antem et axpiS improbant, id verissime dictum esso testantur
Platonis codices meliores omnes, qui tanto consensa tuntaque constantia
ea de ro consentiunt, ut vix sex septemvo apud Platonem loci'
reperiantur, obi altera forma communi fir- metur librorum
consensione. Nam quae Heindorfius ad Piat. Gorg. p. 137. collegit,
ea nunc omnia ex codicibus emendata suat. Stallb.
Secj/isv o$ i<pe£ijs re pcal opS-d)? h. e. die Grado des
Schdnen in seiner 1'olgp und Richtigkeit. De tl pronomine
indefinito, adiectivis nominibus vel praefixo vel postposito, Mat-
thiaeus disseruit Gramm. ampl. §.487. 4. p.911., ubi et no- ster
locus laudatus est. iCpoS tiXoS y$tf ioov. TIpoZ tiXoS ikvcti
dicebantur ii, qui superatis gradibus tandem ad spectanda arcana
admittebantur. Hinc factam esse videtor, ut ipsa illa arcana,
quorum caussa multi labores suscipiendi erant, TfiSv teXcov nomine
insignirentur. Rectissime Wachsmuthius Hellen. Alterthomsk. I, 1. p. $24.
an- notat: Die Grnndbedeutnng des vielsagenden VVortes tiXoS
ist niclit die des Endes , ais der eintretenden Nichtigkeit voo
et- vas Vorhandenera, des Eintritts einer Leere statt der friiheren
Fiille, sondern vielmehr, kraft der Ableitung von tiXXca (zum
Dasein kommen, hervorwachsen, reifen) der Bcgriff, dass etwas •ich
verwirkliche, eu dem Stande der Reife kumme, sein Ziel erreiche, seinen
Zweck crfuUe, rouro ixeivo sc, idrlr. Diotima nunc de pulcri
idea locutura, cuius caussa tota oratio suscepta est, rouro
pronomine demonstativo recte utitur. Exei- vo addit, ut significet,
eiusdem pulcri ideae iam prius mentio- nem factam esse. Hinc
rjdav explicatur, imperfectum tempus. Significat enim : cuius caussa
esse diximus labores omnes. Ut Graeci tovto Ixeivo, ita
Latini hoc illud adhibent hand raro, atque interdum satis cum
acri- monia; cfr. Terent. Andr. A. I. sc. 1. v. 97.
Quae sit, rogo. Sororem aiunt esse Chrysidis. Percussit
illico animum. Atat hoc illud est , Haec illae lacryinae,
haec il- last misericordia. it pdotov ael ov xat o
t’tfi x. X. X. Satis notum est, atque eti«uu vernaculi sermonis
(ilv xcdov, iv9a 8s alcSynov , <5g rtfil (ilv ov xcekcv,
ual Se alexQoV ovS’ av q>avxa09^<Stvai avxo [16 xalov] olov
TtQoganov tt ovfis jjfipfj ovfis alio ovStv ov (Swfia [itte%sL, o vd£ xtg
koyog oi)6a xtg btasximij, ovSi jtov ov ev iteQa nvl, olov Iv £w<a rj
Iv yjj rj Iv B ovgava > jj l'v xtp aXXtp , alia avxo avxo
fit& ttinov (iOVOuSeg a et ov, r a fia alia navra xala
Ixei- vov (texixovxa xqoxov uva xotovxov, olov ytyvofievav te xov
allav wtl dzollv(dvav p/Siv exetvo (ii/xe te probatur exemplis,
duas res, qua- rum altera alterius explicatio sit, copula adhibita
haud raro arcta couiungi. Huius usus exempla si quaeris, ludices adi
8. r. xat explicativum. Sententiam quod attinet, cfr. Cic. Orat, c.
8* Has rerum formas appellat ideas Plato, easque gigni negat, et
ait •emper esse, ac ratione et intelligeutia coutiueri, cetera
nasci, occidere, fluere, labi, nec diutius esse uno et eodem
statu. ovdfc npoS plv T 6 xa - \6v. Haec verba ut vulgo ex-
*” bibentur, articulo gravi iusignito, aliquid iucommodi habent} quis est
enim , qui non censeat, si ro nocXoy exhibitum est, ar- ticulum cum
nomine subsequente coniungendum esse? Idem cadit in verba to
aidxpov, quae paullo infra leguntur. Gravem igitur ia acutum
immutavimus, quem etiam exigit pausa, quae, si recte baeo verba
recitaveris, post ovSfe TtpoS plv ro comparebit. Ceterum TtpoS plr
to , npoS TO duplicem rationem indicant, qua res terre* strea
spectari licet, ideam pulcrl spectari non licet, ot>d* av
<p avta<$$7j de *• tat avxo [r o xaXov]. Bek- kcius, quem
Dindorfiu* et Riickertus secuti supt, e codicibus, ut videtur, avT(fi pro
avxo edi- dit, Hoc avTcJ, Stsllbaumius inquit, probare uoli.
Idtelligitur enim ipsa puteri species et for- ma. — Recte; sed
mious nobis placet To xaXov, quod, quam fa- cile potuerit ab eo ,
qui avro recte iutelligeret, in ordinem ver- borum inferri, statim
apparet. Avxo nutem prorsus eodem modo positum esse videtur, ut p.
210, E. TOVTO IXEIVO , OV 6f) £VEHEV xat ol tyjcpo6$Ev
TtavTES no - voi rfiiav. Uncis igitur inclusi- mus verba ro' xaXov
, a XX' avxo xu$* avxo peS* avtov. Apte Schleier-
macherus verba reddidit : sondern an und fur sich und in sicb liberali
dasselbe seiend. t a Sb aXXa narra 7cadx et y ptfdiv*
Dicuntur emuia, quae in terris pulcra vo- cantur, sensibusque
subiecta sunt, non ipsa ideam esse pulcri , sed cum ea cohaerere
tautum- modo, ut cum haec oriantur at- que intereant, illa neque
augea- tur, neque minuatur, neque ulli ' mutationi obuoxia sit.
Haec pi- zijf ideaS quomodo in- telligenda sit, a Stallbaumio ex-
plicatum habes annotat, ad h. i.; 4 nXiov (irjtt (Xctrrov yiyveidai
(it]d's natixuv (itjdtv. orav bt/ rts ano rmvSe dia r 6 oq&us
naiScgaoniv Inaviav Insivo to xaXov aQ%i}un xaQoQciv , 0%eSbv civ
ti antoiro tov reXovg. tovto ' yrcQ Sr) ian ro bgftug c ini ra iganxa
livai $ vn aXXov uyso&a i, ciqxoiibvov ano ravds tav xaXwv ixeivov
tvixa tov xaXov clil inavdvai , togneg tnavafia&ftolg XQwficvov , uno
tvog ini 6vo, xal uno dviiv Ini narra ra xaXa edficcra, xal ano tav
xalav Oafidzav Ini ra ' xaXa InmjSsv- Quae bona, pulcra , honesta
sunt , ea putabat Plato bona , pulcra, honesta facta esse eo , quod
re- ferrentur ad ipsam bonitatis , pulcriludinis atque
honestatis speciem, eiusque quasi partem aliquam in se
continerent. olor yiyvopevoov re tcov aXXoov x. r. X. Dc
olor sequente infinitivo vide Matth. Gramm. atnpl. $. 535.
Laudat Btallbaumius Piat. Apol. Socr c. 18. iyoo rvyxtxfc* tov
toiovtoS , oloS vTto tov Seov r y itbXei 8e8o6$ai. Adde Piat.
Protag. 1 >. 330. C. Msttv apa toiovtov t} SixaioOvvy olov
Sixaiov li- rat. Ibid. n. 330. D TCoTtpov tibvtovto avto ro itpdypd
(pa- te toiovtov tCKpvxlvat olov avodiov elvat y olov ouiov ;
ibid. p. 831. A. ovx apa icSzlv odtorrj $ olov Sixaiov elvat
rcpaypa , ad quem locum Stall- baumius rectissime, li. c inquit,
toiovtov Ttpdypa , olov dixatov elvat, — Pro ixtlVOf quae opti-
morum .codicum lectio est, vulgo exeivoo legitur , quod et Ficinus
tuetur: cetera vero omnia , quae pulcra sunt , illius
participatione pulcra , ea scilicet conditione , ut nascentibus et
intereuntibus alus nihil subtrahatur "illi aut addatur
y neque passionem ul- lam incurrat . Beue dativus ha- beret ixeivoo
y ai verba abessent py8h nadxetv pySiv , quibus additis pleonasmus
oriretur hoc loco non ferendus. Igitur Ixeivo Unice probandum
ducimus. ozav 8y ziS asto zdovSe Vulgo legitur ozav 61 St} nf
, quod Biickertus retinuit, quia defendi posse videatur» Illud
Bodleiani Codicis lectio, Vatie, unios, Vin- dobonens. unius, quam
Bekkerus, Stallbaumius , alii intextum receperunt. Rem hic tangit Diotima,
quae iam in superioribus commemorata est, cfr. p 210. E., ut nullo
modo ferri possit Se particula. *dteo tcdvSe autem ad praecedentia
respicit yiyvopk - voov ze tcov aXXcov xal ctnoX Xvpsvosv , resque
describit, qua- rum natura mortalis cum im- mortali idea pulcri
aliquam com- munionem habet. tovto yap 8 y itinv. His
et sequeutibus verbi* ratio agendi summa lim repetitur, qua uti
«debeat, qui verus AMATOR esse velit. Eam agendi rationem cum scala
comparat Diotima, qna ab imis ad suprema ascenditur. Hinc enaviivat
verbum positum et draPaH poiS nomen. Iu Flo- (itera, scal ano x av
xaXiov Inixtjdev/idxatv in l ta scala (ia&y(iccta , igr’ av ano xav
(ta9t](idxav ts t ixtivo x 6 (idditfia xtievxytfy , o laziv ovx
dlXov y avxov ixelvov xov scaloti (id&tyia , scal yvoi auro xeXevxmv
o D Voti, scalas/, tvtav&a xov (iiov, a qitte Zcoxgarfg, itptj
rj Muvuvixr) | ivij , el' n I q jcov aXXoth , 0mo xov ctv- &Q<ancp
, 9eco(itv(p auro xo • scaldv. a tdv stors ’ftys, rentinis
aliisque libris non pau- cis avafiad/iOiS reperitur, quam
scripturam etiam Phrynichi iu- dicio probatam habes , qui p. 824.
fiaSfxoS , inquit, ' IotKov 8ict *ov 5, 8td xov 6 *Axtixov. Sed ut
vulgatum retinuerimus , Lobeckii annotatione factum ad !• c. Prorsus
igitur asseutimur S tali— baumio et Biickerto, qui ava - fiaS/xoiS
in textu posuerunt. Ce- terum ne parum accurate et ini- tium, a quo
exordium facere, et finem, ad quem teudere debeat verua amator, descriptum
atque explicatum indices : numeri di- versitate verborum aico
xoav6e tg ov xaXcov ixtivov i vena xov XaXov efficitur , ut de
Diotiroae voluntate vix dubitare possis. Quae enim in terris pulcra
habentur, quoniam multa sunt, plu- rali numero, contra, quoniam una
est eademque semper, idea pulcri singulari numero descripta est.
$$t’ av — rtXsvTt/dp» Primus Stallbaumius monuit, no- strum
locum si exceperis, nullam esse Platonis, iu qno &V* av reperiatar
Hinc sane oritor aliqua voStiaS suspicio, quae codicum nonnullorum
auctoritate augeri videtur. Etenim Rodlciatitts, Florentini, aliique
libri m»u pauci pro £ft av habent xai, quam voculam u« propter
sequentia minus aptam iudices, pro teXevxiJujf in aliquot codicibus
TtXtvxiftSei legitur. Hinc Stall- baumius scribendum esse suspi-
catur, xal ano xc5v fiiaSijud- xoov in * ixetro xo jiaSrjua xt-
Xtvxrjdtt. Sed cum hac scriptu- ra prorsus nou convenire viden-
tur, quae sequuntur: xal yvoS avxo xtAtvxdUv o l6xi xaXov , quae si
velis in xal yvoSdtxat avxo x, o l6xi xaXov immuta- re,, monendus
es, ne iu uno quidem codice aliquam yvo o scri- ptnrae varietatem
reperiri. Verba convertit Stallbaumius: atquo ad extremum
cognoscat ipsam pul critudinis id e - av, quod praecedente xal
— xtXtvrijdei qui probare potuerit, non video. Licet igitur ist*
av praeter nostrum locum nusquam apud Platonem reperiatur,
tamen iu textum recipiendum est. KaL autim, qaod pro iSx* av in
ali- quot codicibus comparet , ab iis profectum esse putandum est
y qui ist* av alias apud Platonem non reperiri intellexissent.
Ut nostro loco £sx* av, ita p. 191. E. T ioof relative usurpatum
ha- bet, quo offendat; neutrum ex- ceptis Jouis illis 'apud
Platonem reperitur, utrumque autem ser- vandum est. quo magis a
Plato- nica dictione alienum < st , co studiosius. Ceterum
xtXevtuv ov xtrccc %qv6iov te xal ia&rjrct xal tovg xakovg xal-
6dg te xal veavicSxovg 56 |ei eoi tlvai , ovg vvv vgav ixxixfojgca , xal
eroiuog el xal 6v xal aU oi xoUol, ogcovteg ta xacdud xal twovreg ael
avtoig, tf ncag oiov t’ r/V, (itjte ia&ieiv [irjte xlveiv, aU.a
fHdo&at fiuvov xal jiweivac. xl drjra , Irprj , ' olo(it9a , el
tat ytvoLto avto xo xakov ISe Iv elhxQiveg , xa&agov, E <
'.ni tt enatam est tx Epxc<S3ai tcXtvruvia ini Tt, quod contra-
ctionis genus apud Graecos scriptores irequeiitissimum, SeGopivaj
avto xo xa- Xov. Recte haec verba a prae- cedentibus addita
interpunctione seiunguntur, continent enim ac- curatiorem ivravSa x
ov /5iov verborum explicationem. Sensus est : Si usquam alias
vita vitalis. eat homini, tum est, quum ipsum illud pol* erum
in tuetur. ov naxa XP vtiiov h. e. non ad aurum,
vestimen- tum, al. comparandum illud iudicabis. Nam nata
praepositio ia talibus similitudinem indicat. Vide Piat. Apol. Socr,
init. opoXoyohjv av ty <*• ye ov nata xovxovS elvai (bj-
ta>p. Stallb. Diximus supra de hoc nata praepositionis si-
gnificatu annotat, p. 4l. Ceterum memorabilis locus est propter verba
TtaiSaS xe nai veavidxovf. TIaidcov enim no- men Attico usu
loquendi suffi- ciebat ad pueros iuvenesque significandos. Nemo autem
mira- bitur , veaviCnovS etiam commemorari, qui reputaverit , Diotimam,
feminam peregrinam, hic loqui. Eadem quaeri potest cur x di yvvalnai
taS naXaS non commemoraverit. Ot)f VVV O p GJ V ix7t£- Verba
eflectum animi judicantia aoristo tempore ple- rumque ponuntur, de
quo usu vide annotationem p. 221. Alia tempora admittuntur tum ,
quum non de re vere facta sermo est, sed animi commotio inmma
ita tautummodo commemoratur, ut fieri posse vel solere indicetur. Hoc in
nostrum locum cadit, ubi praecedente oparv participio conditio expressa est:
quos ut nunc res* se habet, si vides, animo percelleris atque
paratus es et to et alii multi, amasios sem- per videre semperque
cum iis esse, si unquam id fieri possit, neque edentes ne-
que bibentes cet. Vides igitur, participia infinitivorum loco,
infinitivos participiorum loco po- sitos esse, cuius dicendi usus.
ex- empla indicata reperies in Indi- cibus s. v. Participium.
a\\a $ ea 6 Sai fiovo t nai B>w eiv ai. Haec verba
grammaticam verborum juncturam ai spectas, e praecedente na\%tot- •
po$ el nai dv nai aXXoi sroA- A oi apta sunt; quibuscum, si ad sententiam
respicis, minus ea cotiveoire senties. Non enim amatores parati
promtique sunt tolo amasiorum adspectu atque eorum societate
delectari , Sed ¥ 314
I1AAT&N02 afuxrov , «/Urc (irj tivanlmv «JorpxiSi» re
avftQaittvtav xal % Qcofidrcov xcd aXk.rjg Ttoklijg tpXvaQlas rjg,
ukk’ avto ro &ciov xukov dvvairo (xovoudis xazideiv;
aatis est ipsis amasiorum so- cietas et adspectas. Igitur libe-
riorem verborum stracturam Plato hic admisit, quam et alias ia familiari
sermone haud raro re- perias. Eius originem putare possis
participiorum usum opaov- teS xal HwoyxeS, de quo mo- do diximus.
Nam cum dictum esset xal ixoipoS el xal 6v xal aAAoi 7 C 0 XX 0 I —
opdSvxtS — xal B,vv6vxe5 — M 7 h £ i-GSieiv pi/XE itivEtv f illaque
participia pro opdv ct Zvveivai posita es- sent, facillime scriptor
infinitivis uti potuit SeadSai et B,wiivai in dictione, quae
praecedentibus infinitivis itiSUiv et itivEiv op- ponitur. Ceterum
de illorum verborum absoluto usu vide Iu- dices. d\\a
py dv ttitXzwY . Astius aWa abesse cupit. Con- tentus esset,
opinor, ai xal ptj scriptum esset. At Graeci , ubi nos dicimus and
uiclit, ita ut praedicatum praedicato opponatur, pariter xal ovh et
aAA* ovh usurpant. Riickert. cfr. Piat. Protag. p. 841. D. 7 roAAod
ye 6 eI, £<py, ovxcoS $x Blv ' & IJpo- Sixe. aXX iyoa ev 016
dxi xal 2 ipovi 8 ijS xo *«A«roV E\e- yev onep ypiit ol dWot ,
ov to xaxov, aXX o dv py jbdSiov y, d\\d 8ia zoAXcov icpaypa
-• Tvv yiyvyxai. xal dWyS noWijs q>\v- cr p laS 3 v
tj x i} S’. I 11 Piat. Phaedone, quem Stallbaumius lau- dat
annotat, ad h. 1. p. 66. C. legitur: ipojxoov xal £ict2v-
picov xal epoftcor xal eA8ooXgov itavxoSaizMV xal q>AvapiaS ip-
ninXyCtv rjp&S jroAAt/f, ubi O- lympiodorns : cpXvaplaSxa- A el
6 TJAdxcov nav to it£pixxdv t ov povov xo iv \6yois , aA Ad xal xo
iv IpyoiS. Convertit Schleiermacherus (pAvapiaS no- men: nnd andern
sterblichen FJit- terkrames. Aliter nobis de huius vocabuli
significatione statuen- dum videtur. Schol. ad Apoll. Rhod. 1. 275.
habet: cpAv ?,E iv xvplcDS xovS Aifirjxds cpaptv xaiopivovS
avafidAAsiv xo v- dop. Duplici igitur significatu tpAvapla , quod
cuui illo verbo cohaeret, videtur a scriptoribus adhibitum esse, ut
aut rem si- gnificet, quam aliquis, qui com- motiore animo est vel
vesanus pvofert , aut nugas denotet res- que expertes veritatis,
quae stre- pitu vel splendore quodam in- signitae sint. Priore
significatu ipsum (pAv&iv usurpatum habes iu Meleagri epigr.
119. 5. iroAAd 5 ’ 0 TtixpoS aloxpd xaS 9 ypExipyS
i<pAvde nap^EviyS 'ApxtXoxoZ. Adde Piat. Apol.
Socr. p. 19. C. xavxa ydp tapdxe xal avxol iv t?J *Api6xo(pavovS
xcopcpdto ; 9 2 cjxpdxy xivd ixtl itEpzpepo- pevov (pcxdxovxd te
dipafia- xeiv xal dAAyv 7to\ Ayv q>Ava- piav q>\vapovvxa ,
quo loco non nugae commemorantur , sed vesaui hominis deliramenta.
Al- tem significatu positum habes £q’ oTst, tcprj, tpavXov ptov
ylyvt6&itl Ixtids (Ittxov- 212 x o$ avdQtoxov xal ixuvo Srj
fteafievov xal £vvov- xog avta ; ij/ ovx Iv&vfisi , icprj , ou
ivxav&a aura Piat, de rep. IX. p. 581. D. h
ctTtvoY xal (pXvapiav. d AA* auro xo Setov xa- A d v 6v v air
o pov o eidis H. X. A. Abesse posseut sine a! Ia sententiae
mutatione verba fitVairo et xariSetv, quia prae- cedit cf rw
yivotxo ISeiv, Posita autem sunt haud dubie, atque si ita dicere
licet, e prae- cedentibus repetita, quod prae- cedentia a nostris
verbis interposita aliqua enuntiatione nimis remota sunt. Sed mireris, si
par- ticulam non item repetitam esse, cuius abseutiam nemo
interpres aliqua excusatione indigere ceu- suit. El Platonem revera
omi- sisse certissimum est. Iluiusmo- di autem omissiones in
sermone familiari haud infrequentes sunt, ubi et pronuntiatione
verborum et habitu loquentis excusantur. Ceterum Sydenhamius
annotat ad h. 1. laudatus a Wolfio : So lange der Mensch in dieser
Welt lebt, und noch die Fesselu des Korpers an sich tragt , ist
er selbst nach Platons Ideen uicht fahig, sich zu einem so
erha- benen Anblick in die Geisterwelt erapor zu
schwiugen. xal ix e tvo 8 f} $ e GD/iev ov. Vulgo legitur xal ixeivo
u 6ei $£QOpkvQV i quae lectio, quam- quam non prorsus inepta est
— possis eoim de necessitate dictam interpretari, qua, qui via a
Diotima monstrata incedat, divi- num pulcrum non possit non videre,
— tamen admodum languet frigetqae. In codice Bodle- t
ia no pro o Sei reperitur oj Sei; hinc Astius, quem
Stallbaumius secutus est, oj 6ei scribendum coniecit. Speciosissima
fit haeo coniectura verbis intra positis opaUvti gj opaxov: sed ut
gj dei scribatur, qnoniam opajvxi oj opaxov paullo infra legitur,
necessitas nulla est. Vulgatum autem o , quam facile oriri potuerit
syllaba finali ixeivo vocabuli forte, ut fit, duplicata, facile
iutelligitor. Id in cj im- mutavit, qui iutelligeret , o ad- modum
frigere ; correxit fortasse etiam, quod in sequentibus le- git
opdovxi oj opaxov . Iam pro Sei in tribus codicibus , Paris.,
Vatie. , Palat. Vat. , legitur fit/, quae formae sexcenties commutatae
reperiuntur. Hinc Schleier- macherus scribendum coniecit xal ixuvo
Srj $£GJ/i£vov, verbaquo convertit: Me in st duwohl, dass das ein
schlechtes Lcben sei, wenn einer dorthin sieht und ienes
erblickt und damit um- geht? Haec coniefctura Bek- kero adeo
placuit, ut in ordi- nem verborum reciperet. Id et nos fecimus eius
exemplum secuti. In Ficini conversione legitur: Jtfum vitant
huiusmodi parui fa- cis ? hominis videlicet ipsius t qui illuc
suspicit , qui tam prae- clarum spectaculum contuetur , qui illi
cohaeret . Ex quibus verbis colligi, potest , Picinum quoque 6rj t
non Sei, legisse. ( f iova%ov ytvtjOtTiu , Sqcjvti a
6q<xtov to xuXov, zlxzuv ovx tiSala agetijs , ars ovx tiSm^ov
hpaxzofiivco, akV dky&rj , & re zov dfoftovs iqiamoftiva ,
zexovzi £s dgcTtjV ahftij xai Qg^a^iiva vitaQ%ii %£ 0 <pi?.ti
ye- vto9tu xai , eixeg toj di.ho av&Qunav, d&avazn xai
Ixelva ; B Tavzu Srj, <J Oax&gi zs xai ol dXloi, Hcprj
(tiv Aiozifia , 3 linueuat, d’ iyu' Tttnuaatvog di iteiga- fica xai
rovs aXJ.ov s ittiftEiv, ozi -zovzov zov xzqfiazos are ovx
eiSeSXov Itpa- srtopev co x. r. A. Prorsus eo- dem modo Pausanias
p. 183- E. xai ydp ov6h povipoS i6tiv y axe ovdh porlpov ipcov
npdy- fiatoS. — 6 rov t/SovS Xprj6Tov dvroS ipatiti}*
dia fiiov pivei, are povipoa 6vv ta- xeis. Ceteram colligere licet
e nostri loci verbis, quomodo Dio- tima vel Socrates Orphei
my- tilum sibi explicaverit, cui ex Orco redeunti <pa6pa
ostende- rant dii. cfr. p, 179. D. aAA’ d\rj$ij t Saepias
iam monuimus in superioribus, repe- tendum esse haud raro e
praece- dentibus verbis , in quibas com- positum verbum
contineatur, non compositam , sed simplex. Vide annotat, p. 89. et
p. 290» Eadem dicendi norm^ etiam in no- minibus interdum admittitur
ea lege , ut ex praegresso nomine, quod rei notionem cam epitheti
alicuius notione coninnctam re- praesentet , sola notio rei repe-
tatur. Cave igitur eldoaXa et ttXrfSi} sibi opponi censeas hoc
loco, ut somniis falsisque imaginationibus, quae uno verbo cldoo- Xcov
comprehenduntur, verae sc» imaginationes opponantur. Hinc
explicabis pluralem numerum aXrj^ij verbi , quem Plato nou fuisset
admissurus , si illam di- cendi normam adhibere coluisset. Sed alia etiam
explicaudi ratio adest, qua ccA. 77 .Sj 7 singula- ris numeri
accusativum interpre- tari possis atque e praegressi» apettjv
supplere; futuros esse iam praevideo, qui illam expli- candi
rationem inclumaturi , ne- que oisi faciliorem hanc proba- turi
sint. Utraque explicandi ratio nostro arbitratu vera est; utra
verior sit, dijudicari nequit. Res ex accentu orationis judicanda est,
quo singula verba Diotima exornavit. Si pronuntiando £i'8cj\a extollitur,
prior explicandi ratio verior est hand dubie; con- tra posterior
rectior erit, si accentum orationis ita posueris, ut et eid&Xa et
apetrjS prae cete- ris verbis emineant. — Quam- quam sequitur infra
apetrjv aXrj- $ 1 7 , tamen inconsultius cave indi- ces atque
praepostera cara alte- rum genas explicationis alteri
praeferas. tiitep rc 0 dXXoj arSpo')- 7(0) v. Ex huinsmodi
locis satia docemur , Graecos accuratissimos fuisse verborum
pronuntiandorum, - t'
rf/ uvftganda <pv<su ewcgybv cciidva "Egenos ovx av rCg
gaSUag lafioi. Sib Si/ ?yays (prjfii ygijvai narra avSga rov "Eguxa
npav , xal avrog rigui ra tgatixcc xal Siaftgovtag aOxto , xal roig
«AAotg xagaxilivo- fiaiy xal rvv rs xal a*l iyxcofiulta tijv Svvag.iv
xal dvSgdav rov *Egenog xafr’ odor olog t’ tlfil. Tovrov ovv
rov Xoyov , «J 0cuSgt, tl (ilv jiovXu, 0 ibg lyxcofuov tlg Egena vofiioov
tlgrjo&ai , d 61, 3 rt xal oxi j x a ‘Q £L G bvofiatav , rovro
ovofiafe. quandoquidem toj a A Aoo et roo ctAAcp pronuntiando
discreta esse certissimum est, Pro aVS-ptJ- Ttoov, quae omnium fere
librorum lectio est, vulgo dvSptdiu * > ede- batur. Falso. Nara
sententiae gravitati gravior verbi fornia convenit magis. Ceterum
haud raro huiusmodi enuntiationes, qualis est Einsp rea aAAea
dv- Sfjcjxcov , Graeci scriptores ad- hibere solebant, quibus
senten- tiarum prolatarum vim augerent atque quodammodo
amplificarent. Sic supra reperitar p. 211. D. ivrotvSct rov
/UoVf ElTttp itov aAXoSi, fiioarov avSpcanea x. r. A.
lq>r) jt\v — n in ei6 jiai 6 * i y eu' h. c. utilia dixit.
Ita ego credo. Quae se- quuntur ite7iei<5p&.voS 6 l neipco -
jxai xal tovS dAAovS nei^Eiv cum Aristophanis verbis couve- niunt
p. 189. D. iyo» ovv 7tEi~ pdoojiai vjj.lv ElSr/y/fGa<S$ai n}v
.Svvajuv avrov , vjleIs 61 rdiv aAAaor 6i6a6xaA.oi ioEtiSe.
ry av$ p con eiot q>v6ei. Saepius iam annotatum est in
superioribus, <pv6iS cum adiecti- vo aliquo couiunctum nominis
periphrasin efficere, quod eius- dem est atque adjectivum
radi- cis, Ty dv^peansia tpv6n igitur idem fere sigmificat atque
xoiS avSpeoitoiS. Ceterum cuna gravitate dictum existima ty
avSpaamlx q>v6si , ut huma- nue naturae debilitas, noa solum
humana natura, periphrasi illa significantius
indicari significetur. ei ‘61, o rt xal oity £a/- petS.
Consuetius dicendi genus praecedente sl jiiv est eI 61 jirj, Quod
cave hoc loco ponendum censeas ; neque perinde est, utrum eI 6e an
eI jtrj legatur. Ex- hibetur autem ei 6i h. 1. ita, ut utrum
Phaedrus facturus sit, hoo Socrates sibi placiturum esse promittat, quasi
diceret: sive pro laudatione Erotica orationem meam acceperis, sive
non acceperis, perinde est. Si accipis, laudationem eam nomina , si
noa accipis, quo libuerit nomine appella. Ceterum conferenda cum nostro
loco verba sunt Piat* Protag. p. 358. A. site yap yjSO elre
rspTtvuv AiyeiS sire %ap- tov, e ite oitoSsv xal oxgoS X°d~ psiS ra
rotavta ovopa^oav — rovro jiot jcpoS d (1 ovAojioa dxoxptrixu
t . - Cap. XXX. Elxiytog 5h zavta xov Ecaxgatovg rovg
fisv txac- vtlv , zov dh 'AQuJxocpavTj J.iyuv ri hu%uguv , on
rovS fi\v drttitretr. Haeo et sequentia rursus obliqua ora- tione
proferantur , quod ab Ari- stodemo relata finguntur. Sup- plendum
est igitur etpij 'Apidxd- 677 / 10 ?. t ov 61 *Api6xo<pdvrj
x. r. A. Cum Socrates Aristopha- nicum mythum tetigisset vel
«o- tasset potius verbis p. 205 E. ,xa\ Xiyercct pev ye rtf,
£<pij, XoyoS, cJ? ot dv x 6 fjjttdv tctv- zpjv Zrfxu>6tv ,
ovxot iftoodiv x. T. A., nihil certius est, quam Aristopliauem
aliquid contra mo- nere voluisse , quo vel suam de Erote sententiam
tueretur , vel Socraticae orationis veritatem impugnaret. Quo .
consilio quid proferre* -potuerit aut voluerit, prorsas nescimus ;
neque ipse scriptor habuisse videtur, quo loquentem Aristopliauem
indu- ceret, Cur igitur illam Aristo- phanis voluntatem
commemora- vit? In huiusmodi locis Platonis artem scenicam admirari
licet, qua hic efficitur, ut tpvrjS verbi notio non solum verbo
posito indicetur, sed re ipsa vividissime exprimatur. Vi- des enim,
Aristophanem iam indicasse externis quibusdam si- gnis,, se aliquid
contra Socratem ,djctqrum esse ; ium paratos convivarum animos j^abes ad
eius rverba percipienda: cum subito .pulsatae fores sonitum
ederent, tibicinae clangor audiretur, tu- jnultus strepitusque
quasi comis- saturum oriretur. trjv avXeiov Svpav.
j Harpocr. s. v. avXeioS — 7 dito xijS 060 v npuixrj
Svpa xijS oixtaS , ad qnem locum Valesii annot. laudat Bremius ad
Lysiam p. 9.; avXeioS $vpa sunt fores vestibuli, quae aulam clauduut
versus viam; aulam autem si quis permea rat , veuiebat ad pixavXov
Svpav , per quam ex aula introitus erat in ipsam domum. Qu; igitur domo
exibat, ei primum erat per /xixavXov Svpav transeundum, tum
per aulam et per avXeiov Svpav la viam. Svpav xpox ov
pivtj , Haec vulgata lectio «st, quam codicum lectioni Svpav xpovo
- plvjjv potiorem ducimus. Schol. ad Aristoph. Nubb. v. 133.
xis €($$’ 6 xoipaS xrjv Svpav ; do- cet : ini jikv xcov ££a)Sev
xpov - ovx gov xonxeiv Xiyovdiv^ ei 6 fc idc o$ev (sc. xpovovdiv )
tyo- <peiv. Ex his verbis patere opi- nor , xpoveiv xijv Svpav
de utroque pulsandi genere obva- luisse, Niiiil igitur habet,
quo displiceat hoc loco xpoveiv ver- bum. Sed num ideo rectius
sit et verius, quain xpotetv , quod h. 1 . vulgo legi supra
indicavimus, alia quaestio est. Quid, si verbo insolentiori ( xpoveiv )
pulsandi insolentiam qualis est comissatorum, scriptor indicare
voluit ? cfr. Meleagri Epigr. CXXV. v.3. apti yap idnepioi
vvptpaS ini dixXidtv dxew Aturo!, xal SaXd/AGov inXa-
tayevvxo Svpa t 31 « avrov kiyuv 6
2,'<axp«rj?s xeqI tov loyov, xcci t$cti(pv>js rrjV kvXelov Qvqov
XQOrovpivyV itoXvv fo (pov ■xacMtildv «as xafucCuiv, uv. tov
ovv 'slyu&uva, ad qnem locum Iacobsius anno- tat Comment.
Vol, 1. P. 1. p. 140. ixXatayevvto de saltan- tium ad fores
strepitu accipien- dum , qui proprie xpoxoS. He- sychitis nXaraytiv
idem esse do- cet, atque xporelv. Igitur nostro loco tantum abest,
ut xpoTovpivyv minus aptum censeamus, ut po- tius' verissimum
iudicemus atque rei descriptae apprime conve- niens. Sensus est
verborum I Pldtzlich sei an die Thiir angedonnert worden, und
sie habe gedrdhnt, ais wenn nach11ich e Schwar mer davor waren.
Ceterum Stallbaumio praceunte post ita- pa6x&y comma delevimus,
quod Bekkerus in textu posuit. Illo annotat ad h*. 1. a»?
xcopa- 6 1 <3 v connccteudum est cum itoXvv ifjocpov napa
- hoc sensu; vesti- buli ianuam pulsatam ingentem fecisse
strepitum quasi comissatorum n. e. quasi comissatores eum
excitarent. Recte. Prorsus conveuit etiam cum h. 1. Schol*
Aristophanis ad Plut. v. 1097. ed. Bekk. Vol. II. p. 256.: xontEiv;
■jpotpely xal xXavouir ri}v $v- pav 6ia<pip£i‘ xortteiv plvyap
Xsyerai , oxav eistiroct ris pi\- Xy yta\ njv Bvpav iB>( j$ev
nXytxy cos* rit i6$’ 6 xd^aS xijv Svpotv ; ifMxpeir or- rav
iZtpxontv 6s nf au* x t}r vicaroiyoi xal yx<>v % ira oltc o
xeXy. o rotov- x os yap VX oS iJj 6 <pos nancti avlytgidog cpcovyv
axov- deg> qtccvuL, ov (Sxeiptti&s ; D Xeixai, Zxctv
81 vx' dvir uov xirijxai portj xal ?}*oi' riva, ix rovrov artor
eXi) , o roiovtoS i /xoS i} r pitipuS xXav- Oiav A eyexau
xal avXyx pl 8oS tpcovifv dxov £iv . cfr. Melcagr. Epigr.
LXIV. v. 1. w A6xpot xal r) q>i\£poo6i xaXdv (palvovda
SeXtfvy xal NvB , , xal xodpcoy 6vp- nXavov dpydviov , . . .
ad quem locum Iacobsius: Sivo tibiam, iuquit, sive facem
iutelligit. IIoc proba- bilius,, Lectis nostri loci ver- bis itate
animatum seutias, ut de tibia poetam cogitasse cen- seas. Ceterum
recte Stullbau- mius eos vituperat, qui <ptay?ir hoc loco de
tibicinae voce iuter- p retarentur. Certissimum est enim, tibicinam
tibiae souos edi- disse, quibus se* commendaret intus sedentibns.
Ceterum miro modo 7tapa<$x£v praecedente, quod subiecto suq non
caret, positum sine subiecto legitur axoVElV- Facit autem subiecti
omissio ad describendas turbas, quas, qui ante fores vestibuli
starent, excitant ut. Neque r tr£s supplendum est, uam omnes sonitum
tibino audierunt, neque itetvzaS satis aptum videtur, qno hic
supple- mento utaris. Sed indefinite di- citur dxQveiv ita, ut
Latinorum respondeat auditum esse, ov (SxiipadSei
Aoristum, quem iu dictione r/ OW O v ytjOco vidimus p» 173»
R» ut non xal lav ptv rtg rav Intrrfidav y , xalelrs • el (ir/ t
ktysTE, on ov tcivouev , a).lu dvanavofit&a ySrj. Kal OV Jtoltl
VOTEQOV ’AXxifluxdoV X>jV tp(OVt]V dxovuv Iv xy avly OtpodQU
lU&vovxog xal fiiya fioavzos [ £(wo- admittendam , ita non
omni ex parte spernendum ducit Rticker- tus. De aoristo cum
negatione coniuncto in interrogationibus su- pra diximus annotat, p
11., ibique eius usum a nostro loco alie- nissimum indicavimus. Male
igi- tur in aliquot codicibus ov 6xi- if;a6SE ; Vario autem modo
fu- turo tempore veteres in inter- rogatione usi sunt, ut
indignationem, iram, clementiam expri- merent. Vide annotat, p. 26.
Hoc loco quo sensu verba di- cantur ov <5xeif>e6$E f dictu
haud difficile est. Agatho enim audita ante fores turba ut illico
Irent, videreut, vocarent vel remitterent, servis mandat. Verba igitor
convertenda sunt: seht sogleich nach. xal iav plv —
xaXeixe. KaXsixs hoc loco absolute posi- tum est nt p. 175. A.
xctpov xaXovvxoS ovx iSeXei tlsikvai. Exstat autem hoc et illo loco
ali- quid discriminis inter xaXaiv et xaXalv. Nam in verbis
xa/iov xaXovrxoS verbum illud nihil aliud significat, quam quod
nos dicimus rufen : ond ais ich rief. Nostro loco xaXalv invitandi
notionem habet, de qua vide an- notat. p. 17. ad verba axXrfXoS ini
Ssinvov. De iav — eI prj vide annotat, p. 128. ct 124. Verba
convertenda sunt: Und solite es etwa einer der Erennde sein, so
ladet ein, wo nicht, so sprecht, dass wir nicht trinken cet.
xal ov noXv vdxe pov-. Servi Agathonis dicto obedien- tes
statim ubiisse cogitandi snnt, atcjue aula superata xrjv avXttOY
Svpav aperuisse. Quo facto illico clamor Alcibiadis audie-
batur. xal pkya fio&vxo?, [ ip <w r gjv rof]. Vulgo
legi- tur piya (iodjvzoS xal ipGzxajv- r oS. Copulam e melioribus
co- dicihus interpretes fere omnes expunxerunt. Sed hac ratione
non ab omni labe hunc lorum liberatum putaverim. *Epa>xd5v- X OS
enim participium, quomodo probem, non habeo; quin magna suspicio
adest depravationis , si- quidem facillime fieri potuit, ut
aliquis, quo fioGovxoS ver- bum paullo insolentius a Pla- tone
positum explicaret, IpGd- XgjvxoS margini adseriberet, quod deinde
nimia scribarum seduli- tate in ordinem verborum receptum est. Haud raro
fioav vi- no gravatis ita attribuitur, nt addito quodam eorum dicto
di- cendi vel iuterrogandi verbum non praemittatur. Sic legitur
in Asclcpidae Epigr. XIX. v. 5. xy 6s xo0ovx’ ifioijtia fiefipey-
* pivoS' axpi xivoS , Z ev ; Z sv tpiXs , 0iyrj6ov , xavxoS
Ipav ijiaSEf. quo fidelicet loco non potnit metri caussa
aliquid inferciri, quod ip6r}6a verbi significatum illustraret. Ad
nostrum locum ut revertar, sunt alii quoqne vel faerunt potius,
quibus ipurtcov- ZTMI10ZI0N. 321 tavxog ] , oitov
‘Ayd&av, xcd xe&evovtog dyuv nag ’Ayafrava. dyuv ovv avxov netoa
<5<pdg rijv ts a vXtj- tglSa vitoXafiovtiav xal aklovg tivcig rav
axolovfttov, xal tmazfjvcu bil rag. dvyccg iotupavcj/xtvoV avxov rot
participium displiceret. Certe dao (iotnvxoS , ipcjtcjvro^ par-
ticipia iuxta posita displicuere iis, qui xal, quod vulgo legitur,
in- terponendum censuerunt. Quomi- nus ipcDXGJvxoS participium
prorsus expungeremus , recentiorum editorum auctoritas impedimento
fuit, quorum ne uni quidem de- pravationis suspicio in mentem
venit. Igitur uncis verbum inclusimus. oxov 'AyaSav > xal
x&- Xevo vx o S dy e iv n a p* A - yaStnra, De industria
hoo loco Agathonis nomen repetitum est. Scia’ quam ob caussam?
In- fantes, quod concupiscunt, id unum solent variis
membrorum gestibus appetere, neque hilo unquam ab eo abstrahi»
Infanti- bus ebrii cum aliis nominibus, tum etiam eo similes, quod
rem, quam desiderant, vario modo proloqui solent, neque ab ea
nominanda prius absistere, quam ipsam sint consecuti. Itaque
Alcibiades vino plenus, magno clamore, heus, inquit, ubi est
Agatho, du- cite ad Agathonem. Cete- rum cave xeXevovxoS arctius
cum sequente ayhV infinitivo con- iungendum censeas. Plato
enim rem ita proponit, ut quasi ipsa Alcibiadis verba tradere
videatur.* oxov *Ayoi S gdV; ayEiV (h. e. ayere) xap* 'AydSoova.
Ke- XevoVtoG StyEiv igitur non con- vertendum est :
ducliussitad Agathonem, sed servis im- peravit! u dncite «d
Aga- thonem** l
vn o Xaftovda y, vxoXa/i- pdveiv est sublevare, bra- chio
supposito sustentare cfr. Piat, de rep. V. p. 453. D* ubi e
codicibus hodie legitur: ovxovv xal ijtiiv vevGxeov xal XEipatior
dGjgetiSai ix rov XoyoVf lftoi dsXqjivd xlv * &- xi^ovxai 7}paS
vxoXapsly ar oi) xtva aXXrjy dxopoy <Storiy piav. Ruckort.
xal litt6trjy at ixl raS SvpaS, Haec verba convertit
Schalthessius J und stellten ihn eu ihnen vor die Saalthiir hin.
Minus apte. Fores enim, quae hic commemorantur, fiiravXoS $vpa sunt,
qua de re supra dictum est adnotat. p» 318. Io Schleiermacheri
conversione legitur: Er sei aber in der Thtir stehen geblieben. Ut
accuratius reddatur Platonicum ; ix l ra$ SvpaC, verba convertenda
sunt i er habe sich aber ia (s. an) die Thiir gestellt. Sic haud
raro rectiore verborum conversione praepositionum casuumque
cum illis coniunctorum structura commodissime explicatur. Pari
modd Grammatici Latini praecipiunt, ponendi collodandique verba
in praepositionem cum ablativo coniungendam assumere, cetera verba
motum io aliquem locum significantia in praepositionem et accusativum casum
requirere* Prioris illius praecepti neque ipsi tradunt , necjue lectores
iutelli- gont rasionem. Ea optime o recta collocandi ponendiqne
ver- borum conversione perspicitur. E xmov x i xtvi Gtirpava) dadst
xai fmv , xai taivlag rovxa ini rijs xcqiaXrjs naw noklas , xai tinuv •
“Av- fiofg , jraiptrs ' fie&vov ra tivSQct adw Otpodga
dt&adt Ovyndxjjv , tj dn.iay.tv dvadtjOavxtg yovov
‘Aya&ava, Ponere enim et collocare non significat, quod nos
vocamus : setzen, stcllen, logeo ; ridicula enim foret, si hacc ipsis
significatio esset, i n praepositio- nis atque ablativi casus
couiun- ctio ; sed denotant: fest ste1len, fcstsetzen, befesti* g e
n. Quae significationes ubi discipulorum animis inhaerebunt, haud
verendum erit , nc 'quis nuquam in ponendi collocandi ve verbis in
praepositio- nem cum accusativo casu con- iungal, xai
raiviat %x° yr01 * Timaeus s. V. r aiviaS avaSov- pivoi * toiS
vixijtiadi ara - Srjtiat ratvlaS. Annotat Stallbaumius nd h. 1, : Mos
erat, incinit , capita hominum vel publice bene meritorum, veluti victorum, vel
amicorum et familiarium laetis diebus ac solcmuitatibus coronis, vittis, taeniis
re- dimiendi et ornandi, vide Ruhn- kenium ad Tim. Gloss. p. 246
seqq. "ArdpsS, xaiptte. Alio loco de hac salutandi
formula dicturi sumus. Huiusmodi for- mulae ex quotidiana vita
petitae si accuratius spectantur, mirum quantum faciant ad populi,
qui iis utitur vel usus est, ingenium, mores, naturam oranemque
habitum cognoscendum. Eodem modo praecipue de bis formulis Goethios
egit io Opp. Tom. 27* p. 125. Guto Nncht! So konnen vrir Nordlamler
zu jeder Stunde sagen, wenn wir im Finstcrn seheiden: der Italianer
sagt : fe- licissima notte! nur einmal, und ewar, wenn das Licht in
das Zimmer gcbracht wird > indem Tag und Nacht sich seheiden
$ und da heisst es denn ganz etwas auderes : So uniibersetzlich
siud die Eigenheiten jeder Sprache: denn vom hochsten bis eum tiefsten
Wort bezieht sich ulles auf Eigentluimlichkeiten der Na- tion , es
sei nuu in Charakter, Gesinnung oder Zuslauden. biSiEdSt 6v
J.i7t utrjv. Ilaea Bodleinui codicis lectio est aliorumque paucorum
librorum. Vul- go 8£Za6$E legitur posito post 7}\$OfXEV puncto pro
v. signo in- terrogandi. Illud recentiores edi- tores ad unum omnes
probant. Quod ne male se habere censea- tur: sententia est: Einen
Mann, der schon getiunken hat , miisst ihr, wenn er mit euch
triuken soli, recht freundlich aufneh- men, oder cr gcht wieder
fort, wenn er nur den Agathon bc- krauzt hat, wozu er
gekommen ist. ardpa haud raro poni pro pronomine personali ipi ,
tragi- corum potissimum poetarum le- ctoribus notissimum.
Tragicis avrjp ote, avSpoS tovSe x. t. A. pro iyo&i ipov
admodum usita- tum est. iyco yctp roi. Cum nemo re-
sponderet Alcibiadi, neque ipsum, ut accederet accubaretque,
vocaret, omnesque tacide hominis erro- niav admirarentur, illo
adven- tum suum excusaturus loqui per- }rp’ oitSQ “il9ojitv ;
lya yczQ roi , (pdvca , jjQts (i'ew ov% olvg t’ lytvoatjv
dq>tXB6&cu, vvv da yxm tnl ty xecpaly lyav rclg xcavlag , iva thto
rljg fuiys xtfpalijg tt]v tov Gocpardrov xai xa/.Udzov xitpaXyv —
iav git. Heri vocato sibi ab Agn- thotie, quominus veniret,
certa quaedam impedimenta fuisse. Ve- nisse se nuuc Agathouem
taeniis ornaturum. Ilisu exorto consi- vnrum Alcibiades
excusationem suntn quasi fictam derideri pu- tans vera se loqui
affirmat. Post interrogatione illa satis impatien- ter atque
inclementer repetita abitum paraturus erat, ni omnes convivae
consurrexissent, atque ut maneret, ipsum rogassoat. . iav
ei7tco ovt u>dl. Ilaec non dubito , quin corrrupta sint ab
imperitis librariis. Nam quod Wolfius ea dixit significare ut ita
dicere liceat, itu ut Al- cibiades putandus sit ceterorum
convivarum invidiam his verbis amoliri voluisse, eam interpre-
tatiouem non fert loquendi con- suetudo, quae postulabat ovtgd6\
tlneiv. Itaque Astius scriben- dum ccnsuit : TtetpaXTfv dvadijdcj.
dpa , iav £LitcJ ovioj6i t naxa- yeXcttietiSE pov n. x, A., qua tamen
coniectura vereor, ut omnes tollantur difficultates. Certe qui- dem
transpositionis audaciam ne- mo probaverit, qui meminerit, di- vam
criticen ferrum et ignem odisse. Quid mihi de hoc loco videatur,
iam satis declarare opi- nor uncos illos, quibus hacc verba u
reliquis seclusimus. Nam quum grammaticus aliquis ca in mar- gine
aut inter versus adseripsis- set, quo explicaret proxima illa : dpa
HaxceyE\d6E6$E ueSvoy- TOS ; postea temere in conteitadi
orationem recepta, et, ut fit, alieno loco interposita sunt, 8 t p
11 b a u m. Rene quidem Vir doctissimus de aliorum, quos lau- dat,
vel interpretatione vel emen- datione egit, sed quam ipse iniit
sanandorum verborum rationem, ea milii quidem prorsos displicet.
Perscripsi nutem totam eius annotationem,, ut facilius lecto- res
de ea iudicare possent. In libris nulla varietas est lectionis
praeter quod Vindob, et Plorent, unus inverso ordine verba ex-
hibent: ovxcd6l n&pcikxjv avet- 6 t}6gj, qua mutatione doceare
sa- tis , ctiara librarios iuhisce ver- bis offendisse , eaque
transposi- tione adhibita aliquo modo ex- plicare studuisse.
Risisse convi- vas verbis indicatur apa naxa- ye\dtfe(j5i pov cJf
f.te$vovxoS j quam risus caussam Alcibiades sibi finxerit, supra
diximus et verbis indicatur fiov cJff //ej&tfor- ToS , h. e.
quasi ego ebrie- tatis caussa meras nugas narrem. Hinc addit iycJ
Sij Ttdv v/fEtS yeXdxE , ojivti ev ot8 *, oxi trA?/3j/ X6y&>
Veram risus caussam nemo interpretum aperuit. Videamus primum
huius loci conversiones. Ficinns habet : Heri quidem interesse
nequivi J hodie veni vittas ferens , ut a meo capite sapientissimi
pulcher- rimique caput, si ita praedixero, circumligarem, an me
quasi ebri- um deridebitis ? In Schulthessii conversione exstat:
Denn gestem koimte icit micli nicht einl/ndcn J jetzt aber bin ich
da 30 mit Bin- 21 * ' E tinca — ourool dvadycJa. ctQtt
xcttaytAdcSed&i jiov d>s 213 (is&vovrosi lydi de, xdv v/tag
yeldte, oucag ev o'S\ on dAijfty Xeyca. dU.a f coi Uytxt ccvrotiev, h tl
<5>;tofg tisico , y M j <J vy.itlt6&£, y ov ; — Hamas ovv
dva&ogv- pycSca xcd xiitvuv tlsdvai xcd v.uxaxXiveciitat, , xal
xdv 'Aydftava xciXuv ctvtov. xcd xCv levat dyofisvov vnn xdv
dv&QCJTtGiv , xal j tegiaiQOVfisvov ana tus *«»- via s tog
uvaSydotna, InhtQod&tv x m> drp&cdficav exorna dcn
nmwnnden, damlt icli voti meinem Haupte her daa Ilaopt " des
nllerweisesten uml schonsten — wenn ich so sagen darf — bekrauze.
Lacht ihr etwa mei- ncr, weil ich tranken bin ? Me- cum iutelligaut
lectores, nihil in laudatis Fucini Schulthessiique verbis contineri,
quo, cur convi- vae riserint, explicetur. Neque apud
Schleiermacherum explicatam illam caussam reperies : Denn gestern , habe
er hinzugefiigt, war es mir nicht moglich za kommen ; jetzt aber
bin ich da, aul' dem Haupte die Rander, um von meinem Haupte das
Huopt dieses weisesten und schonsten Mnnncs, wenn ich so sagen
darf, eu uimvinden* Wollt ihr mich auslachen ais truuken?
Caussam putare possis, quod Alcibiades bene potus ab bibendum
veniat, sobriosque ebrius ad vinum hauriendum excitet. Uoc sane est
aliquid, neque tamen nobis nuno sufficit. Ridiculum latet iu ver-
bis iav eIltcco ovroodt, quae miro modo depravata sunt. Verba hoo
modo scribenda sunt : iav elnov , ovtcjOI ayad/fdco. Quae cor-
rectio ne audacior censeatur, prO iav facillima accentus mutatione
acriba aliquis edidit iav, quod cura alius deinceps legeret iav elrcov
ovroaol avadtjdco, cor- ruptura habuit rectissime, sed
vitium in verbo sauissimo de- prehendisse sibi visus, tinov in
ebeoo mutavit* Nimirum cum ad iostar ebriorum Alcibiades, quod
facturum se esse ostendit, id ge- stibus expressurus esset, susten-
tari se a tibicina servisque no- luit, qoo facilius, quod veJIet,
faceret* Igitur iav Etnov dixit hoc sensu: Dixi iam sae-
pius, mitti me velle libe- rum a vestris manibus* Servi autem
dicto audientes, cnm herum misissent , qui itn vino plenus erat ,
<Zste pjfdl toiS idioiS itodiv idxadSai (vide Athen. IV. p. 1 80
) lactum est, ut verba proferens ovtcodl ava- Stfdcj vel concideret
vel titubando ridiculos gestus ederet. aXXa poi A kytxE av-
toSey. De his verbis iam supra dictum est annotat, p. 3^3* AvtuSev
autem dupliciter adhi- beri solet , partim de loco, partim de tempore, ac
de tempore quidem, quoniam loci temporisque ratio haud raro
commutatur* Recte igitur h* I. interpretes avro^Ev stati m, illico
significare annotant* ini fitjrolf. Spectant haec verba ad p.
212. R. pB^vovrd dvdfja tcavv 6<po$pa 6a- i ov xanSuv rw
SaxQiat], cfvUa xa&l&a&cu nuQti tov Ayd&covu Iv pioio
Suxqutovs ts xal Ixilvov • itaQu- XaQificu yuQ tov ZaxQaxri c5g IxeZvov
xu9ifciv. nctQa- B xa&e^ofuvov 6 s ccvruv denatea&at te tov
'Aytxftcova. xui dvaSclv. ilnuv ovv tov 'Ayuftava ‘ 'TnoAutre,
aaidtg , 'AUxiftiddijv, Zva ix tqitcov xaraxttjrai. Jlaw yt, (hceZv tov
’AXxi(iuZ8t]v' d.Xkd xtg i)(tiv oSs tqitos pvpjiozus ; t£ai app
fUTuatQEtpditivov avTov ogav tov SedSt 6v finoTTiv, tj ait
icar ptv H, X. A. Siguificaut enim: Sed illico mihi
respondete: Vul- ti • n e mciutroiro sub con- ditione supra
indicata, an non? Atque no quis se male intelligat conditionis
illius haud memor, statim addit : <jv/i7rl£6%B y ov ; Male
Ruckeitus ad h. 1. Reddunt , inquit, sub ea con- ditione , quam
dixi, At nullam dixit adhuc \ videtur que omnino hoc dicendi genus
ita usurpari , ut sequatur conditio , non ut praecedat , quae h. 1
. incst interrogationi subiectae Ovji- 7[U(j2e y ov ; tj;ro‘
xdov avSpGJTtGDY. Intelliguutur servi, a quibus sustentatus Alcibiades ad
Agathouein venit. Miro modo autem horum verborum pluralis numerus
convenit cum nostratium loquendi; usu, quo dicimus: die Lcute,
ministros atque ancillas signifi- cantes, ov x axid eiv tov
Sco- xpaxy, Vide de xaxiSeiv verbi significato annotat, p.
308. Aute oculos habuit ct vidit Socratem , sed eum non agnovit. vjcoXvaxr
— fvct&nxpi- x cov xaxaxkyt at. cfr.p. 175. A. xal E plv F.(py
dnoviZEiv xov nou6a , tva naxaxloixo. lilio xo inoXvitv ,
hoc loco r 6 anoriPyeiv omissum est, neque videntur ullo loco
scriptores utrumqua verbum ndbibuis&e. Unum enim ad utramque
uctiouem indicandam satis erat. Ceterum non nisi ea de caussa ira ix
xpiTGor commemorasse vide- tur Agutho, quam ut Alcibiades statim
eum agnosceret, qui iusta ipsum tertius sederet. Sed alia etiam
caussa est illius dicti. Ve- teres euitn non sedebant ad rneu- sam
, sed eidem occumbebant. Ubi duo convivae mensae accumbebant, illa
calceorum solvendo- rum pedumque lavandorum cura minus necessaria
erat. Poterant enim ita duo convivae mensae accnmbere, ut neuter
neutrum pedibus tangeret. Tertio acce- dente conviva, qui, quorsum
pe- des protenderet, versus unum convivarum non potuit non
pro tendere , uecessaria erat, ut cal- cei solverentur pedesque
lavaren- tur, ne forte aliquis convivarum macularetur.
aAAti xis ypiv xpltoS u 8 fi. Haec vulgata lectio, quam in
ordinem vcrboium recipere non dubitavimus ideo, quod Alcibia- des
praecedente Agaliionis iliclo atqnu praecipuo verbis ix Xpi- roov
commonefactus r p ix o £ JOaxQnrr ] , ISuvta avaXTjdfjGai xa\ thtilv' '£l
r Hqa- xA«g, zovzl zl rjv ; 2ZaxQccTt]s ovzog lAi lo^tov av fis
<? Ivzav&a xaztxtiGo , tZgxtQ thl/ftus i^alcpvt] g avatpal-
vtG&ai qtcov tyd (pfirjv ijxusza Ge HotG&ca. xal rvv tL Tjxsig ;
xal ti av ivzav&a xaztyJ.lv/js , <og ov na qd nomen priori
loco collocare de- diiti. De ovroS pronomine in buit: tertius iste, quem
allocutione liaud infrequente viile commemoras, qnia est? annotat,
p. 4. Quae sequuntur In Bodleiano codice aliisqne per- verba : (Zsnsp
eltoSeif i£ai(prJ/S paucis legitur vpuv ude xpixoS, quem
verborum ordinem Bekkc- rus, Stallbaumius, alii probarunt. *- *i2
*H p a x\e i S , xovxlri ? /v. Alcibiades averro vultu do eo,
quod modo oculis concepe- rat et quod non videt umplius, quid vidi
? exclamat. Huius di- ctionis vim atque imperfecti qui- dem
potestatem non expressit in conversione Scldeicrmacherns 2 W as ist
nun das? quibus verbis prorsas deleri senties excla- mationis illius
vigorem omnem. Cur Herculem nominet Alci- biades Socratis adspcctu
quasi attooitns, haud facile nesciri pot- est. Veteres enim eum
deum semper nominare solebunt, cuius auxilio maxinie indigerent.
Herculem scimus fortitudinis atque roboris deum esse $ robore autem
ac virtute ei opus est maxime, Cuius animus inopinato subitoque
adspecta percellitur. Ceterum sex codices Bekkeriani pro xovxl xi tjy
exhibent xovr ehteir, quod moneo, ut intelligatur, interdum etiam
complurium codicqm consensu, quae falsissima sunt, tueri. -2Sgj xpatijS
ovroS tAAo- X&v otv — xare xeitio. Magna cum acerbitate
participium praeponitur verbo finito in allo- cutione; Nempe rursus
mi- hi iuaidiatus hio c 0 n t, e - dva<palv£6$cct x. r. A. satis
docent, iu praecedentibus ivxavSa vocem orationis accentu insigni-
endum esse. Schleiermacherna adhibito interrogandi signo post £6£<5$a.i
verba convertit : Da Socrates, liegst du mir auch hier schon
wieder auf der I.nuer, wia du immer pflegst plotzlich zu er-
scheinen , wo ich atn weuigsten glaube, dass du sein wirst ? Sed
minusplacet propter interroga- tiones insequentes imec ratio ex-
plicandi, Alcibiades enim cum non sine acerbitate Socratis studia
illa convivis aperuisset, non tan- quam rerum suarum incertus sequentes
interrogationes profert, sed ut vera se dixisse Socratis responso
convivae docerentur. Igitur VVY in verbis xal vvV xi f/XtiS eam vim
habet, ut quaestio explicatior audiat:. At- que nunc responde,
quid veneris? Av vocula, qiintri saepius iam annotavimus
supple- menti alicuius iudicium esse, (vi- de Indices,) hunc sensum
fundit: Et nunc confitere, Uie quid consederis cet, ov
itctp a *Api0x o - (parti. Stallbaumius ad h. 1. inquit, est quippe,
nam, ut mox in verbis cJs' » ipol o xov- rov HpoaS ov (pavXov itpdy
- pa yeyovtv , et <&S lyco x i/v 'AgiOtotpuvH obi5 ' h ug «AAog ytXoiog Fort
re xai fiovAttai ; akka dicfitjxavtjau , ojrog nayu tm xcdXlOup
ttov Hvdov xaraxelaci. Ku\ rw ZaxQaxti , '& 'Aycc- n>MV, cpavui ,
oQct, fi' (ioi bcapvvtls' ug fjuoi 6 xovxov fpug roi5 af&gusrw ou
tpccv Aov HQccyfia yeyovev. an tovrov parcar — 1 ufifiooSao. No-
bis iuterrogaudi signo, quod post TtarexXirTjS legitur ,
transposito post (iovAerat verba hoc modo convertenda esso videntur
: Uhd nuu sage, warum setztest du dicli grado dahin , ais zum
Bci- spiei nicht nebeu Aristophanes, aocli niclit nebeu irgend
eineu undern, der uitzig ist and witzig au scio Lust liat ? Ad
fiovAerat supplendum est yeAdioS tlvai. Vide annotat, p. 200.
Ceterum J Miror t Riickertus inquit, /i. /. yf.Aol.ov et H(xAAi6tov
tibi op- poni. Attamen vereor, ne sit audacias , de Aristophanis
forma inde aliquid colligere. Nihil hia verbis oppositionis iuest.
Miratur autem et indignatur Alcibiades, quod non apnd alium
Socrates consederit, v. c, apud Aristophanem, hominem plenum
festivitatum, sed dedita opera ex pulchris pulcherrimo se adiunxerit.
a A Ad biapT}X ay V^ 'JAAit vocabulo magna est vis ironiae; id
cave cum praecedente ov negatione cohaerere censeas. Per se enim
positum est , atque veram rei statum describit. 4tap?}x<xvd(S5ai
ver- bum fortunae notioni oppo- nitur, qua quis vel hunc vel
illum socium biaosciscitur. Sensus est : Aber naturlich, da hat deiue
Schlauigkeit es so einznleiten gcwusst , dass da nebeu den Schonsten von
allen, die Lier siud, dicli setzcn masstest. opa, ei poi
fatapw Valgo opa , tf pot inapvvetS le- gitur; quod quamquam non
fal- sum est a t-rnen band scio, au «ion rectius sit atque verius,
quod reuentiores editores , si Riickertum exceperis, de H. Stephani
confectura dederunt ihtapvveiS. Probatur idem Ficini conversione; vide,
ai quo pacto mihi succurrere potes. Riickertus autem concedit quidem,
ia huiusmodi dicendi genere fatu- ram tempus usitatum fuisse
Graecis , neque omnino negat, Platonem id tempus h. 1. adhibuisse : verum
necessarium non esse ex- istimat; cur enim, inquit, non possit praesens
tempus adhiberi, frustra quaerimus. Latini : vide, an me defendas.
Nos : Sieh zu, ob du micl) vertlieidigst. Lecta hac V. D.
annotatione mireris, ipsum apvvetS in texta posaisse tamen. Nobis
autem praesens tempus in hoc dicendi genere ita a futuro videtur
dillerre, ut illo adhibito de voluntate agatur eius, qui alicui
opitulari rogatur, futuro tempore ad eventum illius actionis respiciatur.
Vides igitur, futurum longe gravius esse in illa dictione, quam
praesens tempus. Illud est: Vide, an mihi opitulari velis.
IIoc est: Vido, an possis mihi opitnlirri, h, c. omni vi-
rium contentione mihi o p i t n 1 a r o. ov (pctvAov
itp&ypa. txilvov yctQ xov %qovov , dtp' ov xovxov ^qdo^t/v,
oi5x- D In lt,iOxl (loi’ ovxs TtgosftJ-Eipca ovxe diatez&ijvai
xcif.iS ovSivl , i) ovxool fcr^.oxvTtdiv fts xal tp&ovuv
&av(ia0xa tgyd&zcti xal koitjoguxal x( xal xd %hqb ( toyig axi%t
uti. oQa ovv, ut/ tl xal vvv ipydot/xai, ctXXu diaXXa |ov tj/iag, tj, idv
lm%EZQy fhtx&G&cu, htd~ pwE, <x>s lyd xr/V \qvzqv /laviav
tj xal q>UEQaoxiav Ficinui: Amor quippe hoiuj ho~ mini* haud iove
quiddam mihi exsistit, Schleicrmaeherus : Deno dieses Menscheu
Liebe hat mir tchoo zu gar uicht wenigem Ver** druss gereicht.
Schulihessius ; Demi die Liebe dieses Meoschea ist fur mich kein
kleines Leideo. De hac notione npaypa verbi etiam in aliis
dictionibus vide lodices s. v. jtp&ypa, r) Q$%o6\ grj
\QTV7t(k) v s Prorsus eodem modo nos Joqui solemus. Recte
Stallbaumins H. e., inquit, aut, si id facio, prae aemulatione et i
n t Y idi&cet. Conferri iubet Rii- ckcrtns annotat, ad h. i.
Piat, Theaet. p f 173. E. xov%6 ye 6 <po6pa v? ntiyveixo
leavzGov 8ia- q>£peiv avxoS. 2. Nt) dia, gj • rj ovdsfa y * av
<xvx<3 &ietey$xo r tijr xovtQv paviar re fca\
<pi\$ patitiav. Schleier- tnacherus ; denn seine Tollheit ' nnd
veriiebtes Wesen , soloeca pro und sein v. Wesen. De tpifapatfxlaS
significatu vide an- notat, p, 174, Mavlay antem eius esse 1, , qui
nimius sit in amando, annotatio docet ver- bis subiecta p. 173* D.
xal ohq * $ev itoxl xavxtjv trjv tnwv- piav iXafttf , ro pavtxoi
na- leuSSai r, A, p, U, Ceteram vix o'pns est, qt moneamus,
fiid- Ze6%ai verbuin, quod in supe- rioribus legitur, absolute
posi- tum esse, ut significet; vim adhibere, >. jr
dw O fi fi 60 6 o3, Ex schol, Aristoph, ad Plut. v, 122, liate
depromam: o fi fico 8 do itdvv , ofifioodd) Xeyexai xo
<pofiovpai £x pexaqjopaS xo ov Zgogoy xgov 8td x ijS ovpaS
detxvvvxcov x d deoS, efoSe yap xavxa <pofirj- Sevxa 6wayttv %
rjv ovpdv tv- X oS xcov pijpcov. Ridiculum au- tem ac ne verum
quidem est, quod sequitur: 1 / oxi rc5y <poftov-> pivcov
efaSev d dfifios TtpcoxoX l6po\)v. Aliis iudicandum relin- quo, nam
verum sit, quod apud eundem scholiastam legitur: xal xvpicoS pkv
i#l xov rdiY a\o- ycoy dfovS, d\A* ovx l6xiv. Cogitan-
dum est, Agathonem ad resisten- dum se parasse; qood cum anim-
adverteret Alcibiades memor for- tasse proverbii, quo ne Her- cules
quidem duobus aptus esso dicitur, futuro tempore, ubi rur- sum
peccaverit, etiam buius criminis poenas Socratem Initurum Osse
profitetur. trjv x q v % o v xavtrjvl T7jv. Iteratio hacc articuli
non caret idonea ratione. Nam verba aio connectenda sunt; Xtjv xov
- mxvv <5<5(5raflw. 'Ali’ ovx ton , (f avea rav 'AlxiflidStjv,
Ijiol xal Coi diallayrj. cilia zovvojv fiiv elgav^tg as nfioQC/aofiai'
vvv di fioi, 'Ayd&av, cpdvat , [istuSog tcov zaiiH mv , iva avad ifia
Steel rrjv rovrov ravrtjvl E TTjv &av(iaatijv x«palr)v , xal fuj /tot
[d[i<piytai , ore ea /isv avidrjOa , avtdv ds vlxiovtu iv loyoig
mxvzaq av- Vgazovs, ov fidvov ZQuajv , agztQ Ov, «Aii’ «ai, Inuxa
tov xetpaljjv Sav/iadrrjy. cfr, Mattii, Gramm. $.278,
Stallb, Flora huius structurae exempla StallbaUroius collegit ad
Piat. Gerg. p. 502. B. : rl 81 7$ tiepvr) avt)f xal %avpa6xr\
1 } t i}S rpaya)8LaS nolrjtiiS. Hero- dot. VII. 196. o' vavxixds 6
xcov papfiapoov (SxpaxoS. Thucyd. I. 25. xal 7 } ovx X}xi6xa
fi\a- ipaocr 7j AoipGo67]£ vdtioS, Piat, de rep. V1JI. p. 565. D.
xo iv 'ApxaSia xo x ov dwS xov Av- xalov lepor. Hoc autem 11011
praetermittendum est, edici hoo geuere dicendi, ut quicquid ver-
bis contineatur, id gravitate qua- dam augeatur. Atque nostro qui-
dem loco articuli repetitione sum- mus Alcibiadis araor indicatur
ita, ut verba cum Latinorum com- j arari queant; te volo, tc ipsum,
vir admirabilia, coronare. avxoy dfc vix&vt a i v
jidyotf. Libri Florentini aliique avxoy t quod in textum re- cepit
Ruckertus, crvXQV hic non log- eum habere contendens. Frustra.
Illud Bekkerus atque Stallbaumius exhibent. Ac Stallbaumius qui-
dem Non dixit, inquit, aw- tov , sed avxoy propter oppositionis
rationem. Nobis ita videtur statueudum esse, nt indicium Alcibiadis
de Socrate etiam tauquam em ipsa Socratis mente proferri
dicamus, qui ita rem cogitare posse fin- gitur : ixeivov pbr
dviStfCy&v, i ite dfc riKavxa — ovx dvi- 8rf6ev. Quam
sententiam Alci- biades si e Socratis tantummodo animo proferre
voluisset, dixis- set opinor: xal fnj poi pifitptf- tat , oxi tfk
piv dvad?}6iupi t avxov 8h vixcorxa iv Tioyois icuvxaS avSpGOTtovS
— ovx ava8ij6aipi. Si ex sua tautum- tnodo sententia eandem rem
idem edicturus fuisset, non avtov, sed avxov exhibere debuit.
Habes igitur hoc loco coufusionem stru- cturarum duarum, quae
quantum habeat in se venustatis, eos non fugiet, qui hunc locum
satis ac- curate examinaverint. Ineixa ovx av e8i]6 a
• Eiteixa in hainsmodi dictionibus semper ad praecedens
participium refertur, atque proprie praemittitur ei, quod
/actiouein, quae participio continetur, sequi debeat. Usu loquendi
deinde factum est, ut satis cum ironia consequentiae notio cum
contra- rio, h. e, cum eo, quod actio- riem participii nou sequi
de- beat, coniuugeretur. Et cum la- tior sit participiorum
significa- tio, fieri potest, nt e, c, vt - xcovxa sit postquam
vicit ac vincit; possis igitur inttta tamen convertere.
330 nAATaNO£ ovx avcdijOa. Kai ccya avtov
laftwna x tav tcaviwv avadeiv xuv 2J(oy.Qatrj xctl xttTuxkivEG&cu.
InuSq di xa- xtxkivt] , ibcilv. Cap. XXXI. Eltv
Srj , 6v$Qeg ' dozftrs y&Q po* rijgxiv o ovx btiTQtnxlov vtiiv,
ct/Aci ntrtiov ' (5poA<5)fijTai ycip xav&’ iiy.lv. clcQ%ovza viiy
(xltjovym xjfo jtoGeag, iug $v vytis ef er 61 /, avSpeS, So~ xeixe
ydp. Hiximas de hoc loco annotat, p. 265., quam ride. Verba quod
attinet GjpoXdyTfxat ydp x av$' ijpiv, cfr. p. 215. A. a\ Aa poi A
iyere ccvxoSet , ini fiyxotS eIsIgo, tj jiTj ; , 6 v/i 7 tls 6 $E t
?/ qv ; navxaS ovv dvaSopvfli}-* Oai xat xeXeveiv eIsieycci x. T.
A. In aequeutibus post ovx intxpEnxiov vulgo legitur ovv . Recte id
ex optimorum codicum auctoritate delerunt Bekkerns, Staltbaumius ,
alii. Eo addito sententiae vigorem admodum refrigescere senties atque
propemodum evanescere. d pxovta ovv alpovpai tifS n 6 6 E ga
S. Vide annotat, p. 43. Adde Wachsmulhs Hel- len. Alterthumsk. II.
2. p. 28. et p. 29.» ubi Christius laudatur de magisteriis veterum
in pocu- lis. 1745. Non elegerunt autem, Stallbuumius inquit, antea
convivae regem, qui bibendi leges ediceret, sed constituerant, ut
suo quisque genio, quantum vellet, iudulgeret. aXXd <pipE t nat,
(pavat, xdv ipvxxij pet ixEiv ov ^ Schol. ad h. L $vxxi}p,
inquit, OxevoS' IvSac diavlctovtii xci noti} pia , i)
noxrjpiov eiSoS, g*s E vpinidrjS TrjXiqxa. Timaeus ed. Ruhukenii p.
278. habet ipvxxrfp • noxT/pwr fiiya xai nXaxv e Is
rjjvxportotiiotv rtapE- OxevaOpivov , Laudat praeterea Ruhnkenias
Gramm. Ms. : xxijp* OxevoS , iv (o xdv olvor Hipvxov t x 6 xoiygjS
XeyofiEvov .upvcoxijpiov. . Vides, TpVHXTfpec vas nominatum fuisse,
quod usui convivarum non ita destinatum erat, ut ex eo vinum
haurirent. Hinc non mireris , Athenaeum huius loci respectu habito
IV. 27. dixisse: napd rc3 nXaxcovt xovxgov ovSlv iifijiExpov ,
aXXd ttivovdt p\v xodovxov , coSxe fi7/8k xols IdimS noOlv
l6xct6$ai. dpa ydp — *//A xifitdSrjv o>? dOxtfpovEi , ol 61 «AA
oi xdv dxxaxdxvXov rf> vxxijpa nivovOt npocpaOEGoS XafiofiEvoi,
in tine p avxovS npoEiXxvOsv UXxtfiui- 6i/S. l8ovxa
avxov nXiov i} X. x. A. Alcibiades Agasonem rogat, ut maius poculum
atterrr iubeat, post, conspecto aliquo vasi, quod refrigerando vino
inservie- bat, magnitudine eius delectatus sententiam suam mutat,
idque afferri iubet. Ad verbum xo- xvXaS Schol. anuotut :
rplzov faavco g jchjzi , l(i«vzdv. dkka qtgiza ’Ayd9av , ff zi
lOziv (xxu(iu [itya , iiakkov 81 ovSiv Sei, aAAa q>£gt, nai, tpavcti,
zdv tlivxzijQa IxiZvov, ISovza avzdv xkpov 214 ij dxza xozvkag yaqovvza.
zovzov l(ixkr]6d(iEvov zcgazov filv avzdv Ixititlv , licaza za EaxgatEi
xeXevelv lyyfiv, xal aua eiittiv ITqos [Uv Saxgdzq , cS avdgeg , zo
C.6q>i6(td (ioi ovSiv ' bitoGov ydg av zikevg zig, zoGov- zov IxTtimv
ovStv fiakkov (iij jrors (iidvG&rj. Tdv (ilv ovv ZoxQurrj iy^tavzog
rov ttcudog xLvuv ' zov 6’ ‘Eqv- fiepoS 7/ xoxvXrj trjS
xoivwoS. Yido Wachsmuths Hell. Alter- thum.sk. II. 1. p. 78.
Annotasse liic suilicit, immensa muguitu- diue ifkVXTrjpa
fuisse. i pnX7/ 6 d per ov. FICINUS: Cum vas implevisset.
Astius : implevisse. Immo implendum curasse. Quae vis est medii;
neque verisimile, ipsum fecisse Alcibiadem, quod statim post, ut
Socrati fiat , imperantem audimus. Riickert. Tu 6 6 q>i6 n a jiot ovd
iv. h. c. in Socrate ars mea inutilis. Ludit Alcibiades ia
dofpidpa nominis cum if}7j<pidpa t ut videtur, similitudine. Hoc
enim dicturus est : Bibendi magister frustra se exercebit, ut Socratem
ceteris convjvis similem reddat h. e. ebrium atque Baccho plenum.
Quantum ipsi aliquis imperet, tantum bibens non metuendum, ne unquam
magis ebrius factus sit. Pro xeXsvfl , quoil Bekkcrus et
Stnllbauinius in textum receperunt Bodleiani codicis oliorumque pauciorum
auctoritatem secuti , vulgo xeXevtiy le- gitur, quod Riickertus
edidit. Utraque lectio bona est sentontium si spectas, quam
Alcibiades prolaturos erat. Certe non dispiciendum est , cur dicere
non potuerit : quantum ipsi ali- quis imperaverit cet. Dif-
ficillimum igitur ad diiudicundum, quid Plato scripserit. Sed tnnta
tamen nobis, qnanta debet, Rodle- iaui codicis auctoritas fuit, ut
non dubitaremus, praesertim cnmVV. DD. , Bekkero et
Stallbanmio placuerit, xeXevtj in coutextam orationem recipere.
Sententiam' quod attinet, cfr. p. 220. A. iv r* av xaif EvGoxUn?
puro* anoXaveiv oloS t * 7jv , x d x* aXXa xal iclveiv ovx
i$£Xmr, 6 nox 9 dvayxa6%ei7j , ndvtaS ixpaxei xal o navzGDV
3av- padxoxaxov , ^cjxpdxr/ v- ovxa ovdelS nojitoxe ieopaxev
dv$poo7ta)v. x ov 6 * 'EpvZipaxor t II(£s ovv — noiov/iEv.
Cur Eryximachos potissimum hic pro- deat, statim intelliget, qui
loci meminerit p. 177. B. C. atque inprimis ibid. D. i/iol yap
dt) tovto ys olpat xcctd8tjXov ye- yovkvai ix xijS latpixijS,
ori XaXenov xotSdvSp&noiS t) pc- $rj itizi* xal ovxe ctvxoS
iSc- Xrjdaipt dv itielv , ovxe dX X<p CvpfiovXEvdatpi, dXXcjS te
xai m jfyiOKOVj Ilag ovv , g?<ma, cS 9 AAxc{$ux6r]
, noiovfiev. B ofrrog ovr$ rt Aeyopev htl xy xvkixi ovr* Inadops v;
&IA' &xe%vag c3 gneg ol diipcovTBg Ttiout&a j Tov ovv ’AA oapiudtjv
elnelv , *&l 'EQV^tfiaxB , /3 HxlGtb fieXxlOxov na- xgog xal
(SacpQOVBOtatov , %cdpe. Ketl yap 6v , <pdvai zdv 1 EQV%iyM%ov * cUAa
r£ noicopev ,* — w cv <5i) itjxpoS ydp avijp xoXXojv avxd£io$
dWoov. Intreme ovv o tt- fiov/Ly, — yfxovdov §rj, dntiv xbv
xpctntaXdvxa Ixi ix xijs rtpo- xepaictS. Do verbi* Eryximachi
medici h. i. laudatis : tigoS ovv , tpdvai, cj 'AXxifiiddtj , xoiov
- ptv uon recto Stallbaumius : JSt quis , inquit ,
coniunctivum requirat , qui est deliberantis: eodem modo nos : IV i
e nun thun wir, habe Eryx ima - c/ius gesagt?
Eryximachut cum bibendi molestam necessitatem feliciter evitasset p.
176. B. , ne nuuc ad bibendum coge- retur, et Alcibiadis
immodera- tione indignatus, quam omnino pestiferam hominibus supra
ceu- suit, Quid nunc facimus verba ita profert, ut explicatius
andiant: qua insania nuuc agimur, tantumque abest Eryximachu»,
ut, quid faciendum sit, roget, ut po- tius praesentia satis acriter
re- prehendat, Quod qno facilius appareat, interrogaudi
signum in puuetum immutavimus. ovtoS ovxe ti Xiyopev ixi xy xv
X ixi, OvxgjS , at in praecedeutibus redis, plenum indignationis
atque acrimoniae. Sensus est: liac igitur ratione, b. e. hac igitur
insania allectis neque sermo ullus . neque cantus iuler pocula
erit? Ceterum ixd- 6optv ia textu posuimus , quae Bodleiani codicis
lectio est. Val- go ovte xi adojMY. xov ovv — yaipE.
Alci- b i a(|ls Eryximaclii admonitione tactus cum statim, quod
respon- deret, uon haberet, ut non nega- ret id, cui contradicere
non pos- set, neque probaret, quod pro- bare nollet, Eryximuche,
inquit, optime fili optimi patris atque sapientissimi, salve. Sed
non delinitus hac re Eryximachus, salve tu quoque, respondit,
nam et iu te cadunt omnia ea , quae super me modo dixisti, sed
quid vis faciamus ? His auditis Alcibiades satis gratiosus omnem
rem ex Eryximachi arbitrio iudican- dam propinat,
IrfXpoS ydp ctvr} p. Ver- sas Homericus est petitus ex II, A.
De scriptura insequentium verborum ini di£>id , vide an-
notationem p. 50. Vulgo enim etiam li. 1. et paullo infra im-
SiB,ia legitur. Structuram au- tem quod attinet verbornin xctl
XQVIQV xal OOTGO TOVS dX- A jOvS , Stallbaumii indicio sub-
scribendam est annotanti V: Ac- cusativus ponitur, ac si praeces-
sisset dixaiov i<Snv, huquc 'EqvUimxov yfitv y jiQtv ah dgtlfitiv,
Wo|« XQ^cu Ini ds|t« exaGtov iv ftion koyov sicgl "Erjazog tlnsiv
rag c dvvraro xdkkiGTOv , xal lyy.au.wGai. ol fitv ovv cckkot
xarzts VfitTs thppwfuv ' Gv 8’ ixsiSij ovx eiQrjxct; xal mximaxag ,
8ixaiog tl tlnuv, tlnav 8’ imrce^ai ZaxQatu o tl av (iovhj xal Tovtov ro
Ini 5t£ut, xal ovr a rot)g akkovg. 'Akkd, tpuvai, u ’EQV$ifict%e , rdv
'AktupidStjv, xakug fitv kiyuq , (ttOvovt a 8h uvSqcc } tagcl
vytpovtav kuyovs izaQctftdkkuv fit) ovx 1% Igov y. xal afia, a verba
sic interpreteris : nai tov- tov dixaiov itfnv intrdUat T(b
ini 6 e£,kx. Structurae va- riatio nec per se ingrata est> et
per sententiae rationem pro— pemodum necessaria. ol p\v ovv aXXoi.
Apol- lodorus , nt ipsius verbis doce- mur p. 180. C» quoruudam hominum
orationes, quas memoria non teneret, non retulit. Hoo moneo, ne
quis miretur, non nisi sex orationibus relatis Ery- ximuchum nunc
loqnentem in- duci : ol piv ovv dXXoi nav TeS elpijxapev,
aXXd, gravat, ca *Epv%l- pax e , t 6 v ! 'AXHifiiadrjv ,
Vefba aXXd — oJ *EpvB,ipax& — xaX6oS piv XiyeiS dubitan- ter
Unguntur ab Alcibiade pronun- tiata esse, qui verebatur, ne hominis
ebrii oratio sobriis au- ditoribus satis displiceret vel etiam
ridicula censeretur. Indi- cium est huius rei verborum dispositio,
quae ita comparata est, nt intermixtis gravat et tdv AXxipidSrjv
verbis orationis initium co modo distraheretur, quo ab Alcibiade
pronuntiatum est. Simile huius artificii exemplum reperitu» p. 175.
E. vftpt- dT7j€el, tgnj, eJ 2 coxp aTEt, 6 AyaScov, quae verba
Agatho- Uem ita pronuntiasse consenta- neum est, ut illudi sibi
magno cura pudore sentiat eumqne pudorem atque confusionem
animi iuterrupta voce prodat, AeSvovTa 6i dvdpa na- p d
vrjgrovTtov X 6 y o v S. Vario modo sanissimum hunc locum viri
docti couiectnris tentarunt. Eas hic repetere longum. Astitis
verborum sensum esse contendit: Aequum non fuerit homineme— bnum
cogere, ut inter sobriorum hominum sermones habita oratione fiat
ridiculus y quam verborum conversionem nemo pro- babit, Stallbaumius verba
hoc modo interpretatur: Ebrium virorum componere cum
sobriorum orationibus haud sane aequum , (quod breviter dictum est
pro) ebrium virum provocare , ut ae- muletur sobriorum orationes,
haud aequum fuerit. Sed ne haec qui- dem interpretatio satis nobis
nunc placet. Notum est Homericum il- lud xopai Xapitsddiv
opoiai, quae dicendi brevitas haud rara apud veteres scriptores.
Exemplo noster locus est, ubi pro pe- &vovros dvdpos Xoyov
dicitur D fiauuQis, xtt&e i xl 6» Zcixquttis u>v vQtt ilitzv ;
?} oitsQa, oxi xovvavxlov Igt'i itciv i) o iisyev ourog ydg, hxv
riva lyw InaivLaco xovxov jtagovxog q &sov ij dv- &Qcoxcov dU.ov
rj xovxov, ovx utptiixai fiov xio %£iqe,^ Ovx evtpijtiijoiig ; (pava t toti
Eoxgdxrj. Mu xdv IIo- ouda, dntlv xdv 'Akxifiiddijv , (iqdht liys xgdq
xavxa, / tcSvovxa avSpa. Sensu» esi: Aber die H e d e ei nes
trnn- kcnen M an nes in e i no R e i h e mit den Reden
niichterner Manner zu stetlen, mochte wohl nicht nns dem glcichen
h. e. nicht passe nd se in. Iliickertus eo- dem fere modo: vereor,
no parum sit aequa conditio, si homo ebrius cum ora* tione
sua sobriorum cum orationibus componatur. Ceteram cum hoc loco
conferri potest Piat. Gorg. p. 455. E. oltiSat ydp 8rf nov, ori ra
yego~ pia ravra xai ra reixy rddv f A^7]vaicDV xai t} rdov
Xiyevcov xaradxev?) bc r rjS Oepidro- xXeovS dvpfiovXrjS yeyove ,
ra d’ ix rijS TlepixXiovS, d X X* ov x ix r g5v 8r) yiovpy 6ov
y quo loco consentiens vox esc co- dicum omnium in verbis ix
rdov dijpiovpydov. Buttmannus et Hein- dorfias scribendum
coniecerunt ix tijS djjpiovpydov 5 Schaeferus ed Apoll. Rhod. Tom.
II. p. 141. ix rrjs rdov 8rjpiovpyd/v maluit. Sed nihil opus esse
mutatione, instituta cam Symposii loco com- paratio docebit. Adde,
quae verbo infra legantur p. 217. D. dve - navero ov v iv ry
ixopevy ipov xXivy h. e. in lecto, qui meo lecto proximus
erat. xal aua, cJ paxapts, xelSet ri di x. r. X.
Alcibia- des verbis prolatis xat dfut pro- prie dicturns erat : Et
simul ne possem quidem, etiamsi vellem, Erotem laudaro Socrate
praesente. Sed mutr.to consilio ita perrexit: Num tibi quid quam eorum,
quae modo locutus est, Socrates per- suasit? Sensit enim homo
sa- gacissimus , verbis contra Socra- tem directis fidem prorsus
defu- turam esse, nisi illius dictum aute oppugnatum sit, atque
in mendacii suspicionem vocatam. Recte igitur Stnllbaamius
anno- tat. ad b. 1. Alcibiadis interro- gationem ita interpretator,
nt sensum eius este dicat: Noli quid quam eorum credere, quae
modo dixit Socra- tes: nam plane contra- riam verum est. Ceterum
ad verba hic respici consentaneam est p. 213- C. T jfa 'AyotS cov, dpa,
el poi iitapvvEiS. cos i/ioi d rovrov ipcoS rov dvSpoonov ov
<pavXov npaypa yeyovev. an* ixeivov yap rov xpdvov , aq> ov
rovrov ijpddSyv, ovx- exi i&edti poi ovre npoSfjXe- ipat ovre
SiaXexSffvai xaXdi ovSevi , i} ovrodl ZrjXorvrtdoy //£ xai tpSovGov
Sav/iadra ip- ya<$erai jcal X oidopeltai re xai reo x&f J£
jidyiS anlxEtai x. r. A. Satis lepide autem iisdem fere verbis hic
utitur Alcibiades, tog lyio ovd’ c'v svn ulhav fauuvt<Sruju Oov
JtaQuvtog. owrca ao In, gravat rov ’EQv£lpa%ov , el fiovlei'
Ecoxqcixt] InaLvtOov. litos Atyttg { dxtiv rov ‘AXxt- (iuxdijv' doxei
XQ*i vttl > ® 'Egv^ifiaxt ; ijci&cofiai rei E kvSqi xal
Tt[iugT]6to[iai vfiav Ivavtlov ; Ovtog , tpuvcu zov EcoxQa.tr] , 1 1
h> va £%h$ ; Ini tu yiXoiotEQti fit quae Socrates 1.1.
exhibuit, <*o- epi&eral pov tca X^P £ - ovx ei) epij
ptj det$ $ Nega- tio cum futuro tempore couittn- cta quam
potestatem habeat, supra dictum est annotat, p. 26. Eveprjpetv
verbi significa- tum quod attinet, explicatum re- peries annotat,
p. 246. taS’ iyco 0v5* av iva a A- Xov h. e. nam dc me
ita cogitato, ut qui te praesente prorsas neminem alium laudaturus
sim. tctoS XiyetSj doxel Xpr/rat , oJ *Ep v^ipax^i
Supra p. 21B. D. Alcibiades im- pediebatur, quominus iniuriam, quam
a Socrate sibi illatam pu- tabat, ulscisceretur j nunc data
ultionis occasione magna cum animi laetitia atque huius rei nec-
opinatam opportunitatem mira- tus, Quid ais? inquit, cen- sen’ me
etiam debere hoc facere? Accentus oratiouis in Xpijyca verbo
ponendus est, quo facto, quod antea, ut faceret, non licuerit
Alcibiadi, id nune idem etiam d e b e re facere ju- dicatur.
iit i rei yeXo tore pa pe i Ttcx.iv id eiS ; Duplici modo
Rtickertus putat yeXoiotepa compafativuiti explicafi posse, tfel ut
admissa dicendi brevitate di- ctas sit pro za yeXowzepa 7 }
aXi/SedzepeZj vel ut significet: ita laudare, nt quo sint quae- que
magis ridicula, ro laudanda sumas studiosius. Neutra com- parativi
explicatio probari pot- est. Stallbaumius ad h. 1, , ifi talibus ,
inquit , quae sit vis et significatio comparativi, neminem, opinor , fugiet.
Neque sane difficile est indicatu, quid significer. Primum loci
meminisse iurat p. 189. B„ ubi Aristopha- nes haec profert: coS'
iyco epo - pov pexi Ttepl tgov /teXXdvzaov firjSj/dedSext ov n ,
p?) yeXolot eiitea) , rovzo p\v yexp av xip - 60S eii} xal zijs rj
perspexi Mov - OrjS ijtixodptov , «AAa pi) xa~ rayiXadza. Ad quem
lo- cum cum annotatum sit p. 149. > yeXoia ea significare, quae
risum moveant, xazayiXadza contra fatuitatem denotare eius ,
cui xaxexyiXexdta convenire dican- tur, dubitari nequit, quin
no- stro loco comparativus yeXoiov vocabuli nihil aliud
exprimat, quam quod illo loco xazayk - Xadta vocetur. Ceterum
Bek- kerus edidit: ini rit yeXoio - X£p(t pe iitctiv&det
, quuo scri- ptura ex errore euata est olim disseminato : iitaivelv
verbi fa- turum tempus noa iitaivedco sed iitaivedopcei
audire. tmavidng ; rj x l jron}<Jj(-g ; — TuXrj&rj Igm. aXX’
5p«, tl magiris. — ’AXXu fitvroi , qxtvca , x& ye aXrj&rj n
ag- fajfU x«l xeXeva Xlyuv. Ovx Sv ip&avoifu , tlnslv rov
'AXxi^iddryv. xal fitmoL ovxaol molt]6ov‘ idv tt fu) dXrj&es Xkyar ,
/.ata^v h tiXafiov , av fiovXtj , xal 215 tlju , uri zovto tl’Svdofiai.
extnv yag tlvai ovbtv fev- eofiau idv (itvroi dva(u[iv>]0x6iuv os dXXo
lilXofttV ov yag tl §ud iov xryv Otjv xaXrjSij
ipc J, Vide de his Verbis Comment. de Platonis Sym- posio. Quae
sequuntur verba, aXX' opa, el izapb/f , ludibrii caussa addita
suut, quasi rogari oporteat virum eum , qui per omnem vitam
veritatis amorem profitebatur, utrum vera dici ve- lit necue.
Monemur autem hoc loco de verbis Piat. Apol. Socr. p. 17* C. ; xal
piv tot nat rtavv y G) avdpes *A^i]vaiot > xovro vpc ov diopai
xal napie - pai. Phavorinus napisoBai rov - to , inquit, Soxel rov
napai - xtldSai dvvapiv £*«*'. Timaeus L. V. Pl. p. 207. napisiACti'
napaitovpai , ad quem locum Ruhokenius: Huius rarissimae, inquit,
notionis ratio nondum, quod aciam, explicata pendet ex indole
mediorum. Ut irjpi et itphjpt est mitto, %Epat et itpiepat mitti
mihi volo, i. e. cu- pio, peto, sic napirjpi ad- mitto, napiepat ad
me ad- mitti volo significat, h. e, precor, deprecor. Speciosa
quidem est, sed, quoniam usu ioquendi non probatur, neutiquam probabilis
rtapiepat verbi explicatio. Neque Socratis in- genio , qui , ut
virum sapientem decet, fortiter atque viriliter iu- dicibus'
respondit, rogandi ver- bum duplex positum satis Con- venire
videtur. Significant po- tias verba xovto vpcov diopeti nat
xapiepat : hoc vos rogo mihique indulgeo. ovx av q>5.dv
oipu De signo interrogandi post haec ver- ba non admittendo, atque
de huius dictionis significatu supra diximus annotat, p, 125.
Quae sequuntur verba, xal pivxoi ov - TOJdl noir/dov, aliquid vitii
con- traxerant, quod miror a nemi- ne interprete deprehensam
esse. Schleiermacherus verba conver- tit: nnd da thue so,
quod ita dicitur, ut, dum Alcibia- des dicat, si qaid forte
minus recte dixisset, Socrates iubeatur id corrigere, lloc modo
etiam ceteri interpretes verba acceperunt. Sed duo sunt, quae displi-
ceant. MSVXOI CUm OVTGOdl noirfdov vix videtur commode ooniungi
posse. Deinde 6v pro- nomine haud careas in enuntia- tione, qua
quid Socrati faciendam sit, praecipitur. Facillime unius litterae
mutatione locus sanatur. Scribendum est xal pivxoi ot$- x cedi
noitjddov idv x i pij aXrj- Xiyco , pera%v iniXaftov x. x. A.
Sensus est: Et si hac, qua dixi, ratione acturas, falsi quid forte
dixero, interpellu, si placet, 1 o- rlromav ud’ ?yovu tvnogag y.al
Itpt^fjg xccraQt9(iyaat. — ZcoxQuxy 6’ iyu htcuvtiv , oj ardqtg, oiitag
iTtiyu- qt]dco , 8t’ dxov av. ovxog jiev ovv ’i6ag olyasxcu tirl
rcc ytXotaxtQa , taxat, 8’ y tlxcov xov aAi;&ovg tvty.a , ov xov
ytkolov. Cap. XXXII. yaq 8rj ofiototcnov avxov tlvat
xotg UstJLijvotg qoentem atque falsa nar- rantem redargue.
kxav y<*p elvoti, Dc in- finitivo in huiusmodi dictionibus
vide annotat, p. 40. Sensus est: quantum ex me pendet, mendacium
non dicam. ov yap xi j) adiov. Cave pronomen indelinitum cum
fa(i- dzov aTCte counecteudum cen- seas. Pertinet id ad
negationem atque ov tt apprime respondet nostratium: denn es ist
gar nicht etwa leicht. Quae se- quuntur verba cjd* ix^YXi du-
plici modo explicari possunt. Aut enim ad Socratem referuntur aut
ad Alcibiadem» Ad Socratem relata Alcibiadem ita animatum ostendunt, ut
qui diflicillimum esse putet, Socratici ingenii mi- ras virtutes
coram Socrate so- brio expedite atque ordine quasi in digitis
enumprare. Jl 18 ' %x ov ~ roS", quod fortasse sunt, qui desiderent,
prorsas alium sensum funderet, atqoe axonictS Socraticae inserviret
veritati describendae ; esset enim idem cj 8 $x ov ~ XoS atque xtjv 6i}v
axoniav gqS £££ 1 ?. Sed possunt etiam coS 1-XOYXi verba ad
Alcibiadem re- ferri,' ut homini ebrio Alcibia- des dilficillimum
esse censeat Socratis axoTtlav expedite atque ordine referre. Quamquam
eadem via est sententiae, hoc an illud explicandi genus magis
proba- veris, tamen cum recentiorihus interpretibus de Alcibiade
verba coS" Ixoyxi dicta accipiam. ovx gdS — St* £ 1x6 v
cov. Addita verba habes 61 * elxovoDVy quibus quod praecedit ovxcdS
vo- cabulum accuratius defluitur. Vide annotat, p. 43. , ubi et hic
locas laudatus est. Ad sequentia oltjdexat iizl x a yeXoioxepa
Stailbaumius supplendum censet: me ipsum laudaturum esse. Non
recte. Meliora docent sequentia verba H6xai 8* 1} e XOJV XOV aXl]^OVS
LVETiCL X. x. A. , ut igitur ad illa verba suppleudum sit: 81*
eixov cov pe imxEip&Y htaweiY. For- tasse etiam plaue nihil
supplen- dum est , siquidem cogitari pot- est, Alcibiadem iici xa
yeXoio- xepet verba quodammodo ex sen- tentia Socratis repetiisse.
Verba igitur convertere possis: Er wird wahrschcinlich bei sicli
denken )t inl xa ye\owxepa lc : des Bild- lichen bediene ich roich
indess nur der Wahrheit wegen , nicht um zu verhdhnen.
xoiS 2 ei\l]v olS rou- xoiS xots iY x 01S k p /t o -
y\v<peioiS xaSTjpeYoiS. Schol. nd h. 1 . 2i\tjvo\ Jio- 22
B tovtoiq tolg Iv tolg tQUoylvcftiotg xadypivotg y ovg rtvag
lgyut,ovtca ot drjfu&vQyol Ovgiyyag y avkovg l%ovtag'’ di ftgadfi
dtOL%&tvr£g tpaivovtat tvdofrtv vtyak- vvdov xopfvral napa ro
rftA- Aofivttv y u l6xt 6xojitxeiv Atyopevoi [jtapd xovS
TtotovS]. Adde Schol. ad Aristoph. Nobb. v. 223. xi pe xaAeiS , g)
'<p>}~ pepe. — gj avSpcDire. iXiyeto 6i d Stoxpdrr/ff xrjv
uifuv 2et- Arjvcp itapeptpodveiv. 6 1 po S xs y dtp tux \ (paAaxpd
$ i)V. xe- pieSyxev ovv ctvxcp olov xov napo. JJtvddpop SetXtfvov
cpco- v)}Yx. x. A. Patet autem o uostro loco, nam nusquam
«lias rem commemoratam reperias statuarios capsulas, quibus artificia
reconderent , ad Sileno- lum formam effinxisse, eorumque sedentium
quidem, nt latius intus spatium artificiorum recon- dendorum
daretur. Hae capsulae felicissime cum Socrate compa- rantur etiam
eo , quod externo cultu minus conspicuae erant at- que negligentius
elaboratae Athe- naeus L. I. c. 15. C. statuam Thebis exstitisse
narrans Cleo- nis cantoris haec addit : vito xovxov xov
dvSptavxa, oxe AAiZardpoS x cis QtjfiaS xaxe- (Sxanxsy <ptfC\ noAeparv,
<pev- yovxa xtva xpv6iov eis x 6 ipa- xiov xotXov ov ivSitiSai •
xal 6vvoixt2,oplvr}? xffS itoAeaS ixa- veASorxa evpeiv ro' xP v<
*i° v pexa hy Xpiaxovxa. Sed nihil habet haec narratio, qnod
aliquo modo possit cum nostri loci verbis comparari. Hoc tantummodo
ex ea discimus , magna religione illis temporibus homines artium
operibus pepercisse. o? 6ixa8e 8ioix$£y*£f. H. Stephauus
6ixa6e verbo offen- sus , quod nusquam alias apud Platouera
reperiatur, 8ix<* scribendum couiecit, quae correctio fuerunt quibus
admodum placeret. Recte receiitiores editore! 8ixa8e reposuerunt. Verba
converterant Ficinas : qui si bifa- riam dividantur y reperiuntur
in- tus imaginem habere deorum. Schleiermacherus; ia dei, en
man uber, wenn man die eine Halfte wegnimmt , Bildsaulen von
Gdt- tern erblickt. Schulthessius ;. Schiebt man sie auseinander,
so erblickt man inwendig Gotterbilder. Rem intellecta facilli- mam
fecerunt interpretes difficiliorem. Res sic se habet: In contrariis
Silenorum lateribus duo- bus duo foramina erant, quae epistomio
quodam claudi pote- rant. Iam si qnis artificia intus j^econdita
spectare vellet, non opus erat, ut singulae partes Sileui
solverentur. Ex altero enim Sileni latere, ex utro ali- quis
vellet, per alterum foramen spectatio erat , ex altero lateris
parte per alteram, quod in cg erat, foramen lux incidebat. Sen- sus
est verborum: Di ese zei- gen, da sie auf beiden Seiten nach deu
Durch- schnittspuncten hin OefT- nungen haben, in ibrem Innem
die Gestalten von Oottern. Ceterum non sino magna vi ultimo
enuntiati loco positum hahes $£G)v ‘nomen , nt significantius
indicetur, res summae gravitatis vili atque pae- ne ridiculo
tegumento h. e. So- cratici cojpoiis turpitudine ob- \i
I ftam fyovtes ftecov. v.a.1 cprjfii av loitdvai ccvtov
rtp 2.'ax vQip, ra Magaba. ou fiiv ovv xo ye eidos fifioiog tl
tovtois, a Ewxqox fg , ovd’ avrog dij xov d(upLCj}ri- vnlutas esse.
Nostrum locum imitatus est Iulianus Orat. VI. p. 184. A., sed
memoriter atque mitius accurate, ut carendum sit, no quis ad eius
exemplar Platonis verba emendare studeat: <pypl yap dy njr
xwtxrjv <piAooo<piav opoioxdxyv eivai xolS 2 eiAtjyoiS xolS
iv xolS EppoyAvqjeioiS naSypEVoiZ, ovS- xivaS ipyaZovxai ol
dypiovp- yoi 6vpivyaS rj ariAoris Exov- xas , o? 61? dioix^Evxes
Evdov tpaivovxai dydApaxa ExovxeS SecZv. xai tptfpt —
xcri 2 ar ri- pa) , tcj Map6vot. MapcriaS, Schol. inqnit, otriArjtl
/ff, ’OAvp- itov vloS, oS xoris ariAoris *A$y- vaS /jnpddt/S dia xd
iva6xy- povEiv avxoiS drtAoptvoS rjpt - (Siv 3 AitoAAcovt itspl
pov6txijS t xal y xxy$y , xal itoivyv di- dcoxe x 6 dlppa dapetS.
Docemur hac Schol. narratione, Marsyam formam faciei minus curas- se,
utpote qui tibiis canendo ex- celluerit , quas , quoniam faciem
deturpant , repudiavit Minerva, cfr. Appulei. Florid. I. 8. Eo
(Hyagni) Marsyas cnm in arti- ficio patrissaret tibicinii , Phryx
cetera et barbaros, vultu ferino, trux, h spidus, illutibarbus,
spi- nis et pilis obsitus fertur pro nefas cum Apolline certavisse.
Thersites cum decoro , agrestis cum erudito, bellua cnm deo. Ceterum
quid Marsyae mytho ve- teres exprimere voluerint, statim
intelligitor. Musica nimirum orte hominum ferocitas deliuilu morumque
asperitas- deposita est, sicut pellis Mursyae spinis atquo pilis
obsita, quam Musarum in- dicio Satyrus deposuit, orid 9 ari
ro ? dy itov dp- <pt6fiijxi/dais. Ilaec est le- ctio vulgata ,
quum duorum au- ctoritate codicum- in dpqjiCfty- Tr/tiElS
immutarant interpretes» Ac potuit quidem Plato' ita scri- bere, non
scripsit revera. Ete- nim quae certissimu sunt atque 11 * luce
clariora Alcibiadi, ea idem quasi dubia ex Socratis mento aptat,
non ut incertus esse rei, sed ut simulare tantummodo videatur irooiae
caussa aliquam dubitationem. Unius optativi ex- emplum , quo satis
acerbe ali- quis aliquid, quod compertam habet atque perspectum,
tamquam dubium ex alius mente aptat, apud Meleagrum reperitur
Epigr. LXIII. "Eyv&v, ori p* EA a$£S. r i
Seori?-, ori yap pe AeA yBaS. "Eyv&v * prjxixt vvv
opvw irdvx* EpaSov. Tavx yv, xavx iitiopxe ; povy 6v
itaAiv, povy vitvoiS t oApyf xal vvv, Vvv Ext tpydl povy.
Aliud exeipplum a Reisigio lau- datum reperies in Commentat.
de vi et usu av particulae p. 131. * Theocr. Idyll. XVII. v.
60. <prjs poi navxa douev * xax& 6 * v6x epov orid *
dAa doiyS> quae verba a puella pronuntiari Reisigius
censet, quae amatori 22 o 1 3-WI
T^dBig • uig de xal ralla Eoixt/g , fina rovzo axovs. 'rfiguirr/s
et ' ’>] ov ; irtv yccQ f uj oito loyjjg, (iitQrvottg nKQtto[icn. all’
ovx Kvh]rrjSi noli) ye Sw/ttttftcorfpog C Ixtivov ' o fitv ye dt ogycivav
exijlu rov g av^ganors tij r< jio zoy CTofiazos dvvujiei, xai En vvvl
og ccv r a Dinlta pollicito hyperb<pl i cum fere aliquid
et incredi- bile imputare lepide confiteatur. Ilis verbis , Reisigius
in- quit, si uv vel xe adderes y vah , quantum periret Veneris .
Lasciva puella , quod ipsa minime cre- dit , loquitur , nec vult
videri serio se credere , sed tentat dis- simulare tanfum : qua
ironia eo fit amabilior , et auget amoris flammam. Tale fere
quiddam est in nostratium more , ubi di- cimus; am Ende : v eluti ,
am Ende giebst du mir gar nidus. SimiMus Reisigianum exemplum
Platonis verbis est, quam quod supra laudavimus exemplum Meleagri ,
quamquam id accura- tius examinatum eadem dicendi ratione gaudero
iutelliges. v fip 1 6 r y S ei' y o v ; Haec verba
Schleiermaclierus reddidit : . Rist du ubermiithig, oder
niclit? Sed magnopere displicet, quam V, D. secutus est, verborum
in- terpunctio , neque verisimile est, eum, qui testes adhibere
possit, quibus rei prolatae veritatem probet, sic locutum esse:
vfipi- 6ti)S el y y ov ; Sententiam ver- borum quod attiuet,
prorsus eodem modo Socrates vfipuStyS vo- catur ab Agathone p. 175.
E.: TppitiztjS el, £<py , gj Scjxpa- teS 9 d *Ayd$(ov.
'TfipiOx&v autem nomine omnes insigniuntur, qui aliquam rem ita
tor- quent atque volvunt, ut aliam vel speciem vel notionem
potestatemque repraesentet, eatnque quidem contrariam ei, quae pri-
mitus ipsi inest. Sic et vfipi- S,eiv verbum de Homerica pio-
verbii corruptione adhibitum le- gitur p. 174. B. "OpypoS jttv
yap mvSvvevEi ov puvov Sta - <p$ttpO(.iy d\\a xai v fi pluat
f.ls ravryv tyv napoiplav, ad quae verba vide annotat, p. 19. Ut
autem Sileni in artificum oirici- nis sedentes aliud in se habmt,
aliud externa forma ostendunt, quod illi maxime contrarium est, ita
Socrates haud raro cogita- tiones suas obtegens aliud quid, quam
quod sentiret, verbis -ex- primere solebat. Hinc institu- tae
comparationis et, Socratis ct Silenorum expendas veritatem. i
av yd p fii } o poXoyy Tdp particulae potestatem recte intclligcut
, qui interrogationis praecedentis significatum cogno- verint. * II
ov ; enim verba ita proteruntur ab Alcibiade, nt rem a Socrate
negari posse negaret quasi diceret: Rem negare non potes.
Paullo aliter Stall- baumius de yap particula disse- ruit annotat,
ad h. 1. : Particula yap t inquit , referenda est ad sententiam ex
reliqua oratione facile supplendam : el fikv ovv. — Utra rectior
sit atque na- turae Joci accommodatior expli- catio , lectores ipsi
videant. crAA* ovx avXyzy S- t Re- Ixtlvov ttvXjj. a
yag "OXvfixog ij vXei, MuqOvov liyco, rtivtov didcct-avTos. r a ovi)
ixtlvov , iav re dya&og avXtjrrjs ciiiky , edv re qiavXrj avXtjrglg,
( wva xccci- j reti&at itoLSL, xal Sijloi rovs tcov &ecov te xal
reXeroJv dtofiivo v$ 6 ut to &tla etvau oi> d’ ixtlvov
roOovrov ctissime H. Stephanus , quod ia editt. valg.
omittitur, post av- Xvrtjs signum interrogandi po- suit. AAAa autem
e licto So- cratis responso repetitum est, qui vfipi6xijv quidem se
esse con- fiteatur, avAtftfjv se esse non concedat : vfiptuTJ/S y*
tipl, Oj IA* ovx avAtjxrfc, xal ixi vvvl oS ctv x
u ixtlvov avAy. Docemur his verbis, Olympi harmonias etiam
Platonis aetate superfuisse, qui- bus tantum veneris attribuitur,
ut sane pulcherrimas fuisse inde couiicias. Phrygias harmonias
fuisse ivSovdiafyiov procrean- tes Boeckhius docet ad Piat, Minocm
p. 26. M apCvov Mycoj xov- i ov 8 i5a£, av x uS. Consentit
Schol, «d Aristoph. Eqq. v. 9. &vvavAux. ZwavAla xaXtixai ,
otav 6vo avXi/Tixl to avro Ai-. ycjdtv. 6 ” OXvpTtoS povCi-
xoS Tfv , Mapdvov pa$7)rifi. iypcnjxt Sk avXrjrtxovS xal
$p?/vyxixovf vopovS. Yopoi 8e 7 ( 0 tXovvxat oi tis $toi>S vpvot
x. x. A. iav te aya$uS — aJ- A i/rpis. Etiam tibicinarum
cur hic mentionem faciat Alcibiades, si quis quaerat , nihil ab
inter- pretibus annotatum reperict. lloc certissimum , neminem
olferisu- rum esse iu verbis iav xt uya- 5uS avXt/xj/S avAf/y iav
te ipav- Ao?. Ut nunc verba se habent, de artis dexteritate
dicta acci- pere possis , ut non nisi viri in arte tibiciuaria boni
dicantur, mulieres autem artis expertes ti- bicinariae non nisi
mediocritatem quandam teuere. Sed hanc non fuisse scriptoris
voluntatem, no- bis quidem persuasissimum est. Alcibiades proprie
dicturus erat : iav xs avAr/r ?/? , iav re av - A ijxpiS y iav re
ayaSuZ ns, iav xt tpavAoS , sed brevitatis studio oppositionem ita
instituit, ut non substantiva solam sed etiam adiectiva sibi oppo-
nantur. Ceterum vide annotat, p. 299. ubi huuc locum landa-
virnus. pova xaxexz6S at xal d ij Aoi. Frustra haec verba
emendare studuit Orellius ad Isocratem p. 333* Scribendum enim
coniccit puvovS xarix^d^c ri 7ruit2 xal xtfAtt. Haec correctio cum
alia de caussa, tum co nomine nobis improbatur, quod harmoniarum
Phrygiarum vim admirabilem minuit atque urctioribus finibus iucludit.
JMovvt plane eiusdem potestatis est at- que (tvxd , eamque illarum
har- moniarum praestantiam descri- bit, quae sua vi emergit ,
neque ullo artiiicum adminiculo indi- get , quo emineat magis
elfica- ciorque evadat. Recte inde col- ligas, simplicissimas illas
har- monias luisse. (torov SittcpiQt ig, on avsv 6 gyccvav, ipdotg
loyoig rav- D tov rovro noieig. r/fiug yovv orav fitv rov ullov
dxovco- I uev Ityovrog xcd itavv dya&ov grjtOQog cA kovg
Xoyovg, ovdlv ftfAft , ag £'xog tlxtlv , ovoivl' inuSuv 5e fiov avev
6 py a v ody , rptXol? Xoyoi?, Comma posuimus post opyaycoYt quo tautologia
verbo- rum facillime vitatur* IFiAol Xoyoi enim h. 1. ajipositum
est, ut clarius indicetur, quid significent veitoa : avev dpydvoav
TavTuv rovro notel?. Ceterum notandum est, alteram etiam
significationem Alcibiadem tecte indidisse verbis iJnXoi? X oyoi?,
WiXoi? enim idem fere sonat atque diXXoi? , ut satis lepido ad
Socraticam illam ironiam al- ludatur, qua virum sapientissi- mum
usum esse acerbissima nemo nescit. ov 6% v jiiXei 9 oa? in
o? eineiv , ovSevl. De vario ordine, quo Graeci gJs - ino?
el~ Ttnv verbis usi sunt, vide annotat. p. 127. Significatum quod
attinet huius dicendi figurae, an- notationem adi p. 63- Latiore
autem significutu serioribus tem- poribus, ut videtur, hanc formu-
lam adhibebant Graeci, angu- stiore, quem ipsa verba expri- munt,
antiquioribus. Nam si quis autiquitus verbo aliquo usus es- set,
quod rei describendae minus convenire intelligeret, ut id intelligere
videietur, verbique ve- niam peteret, illam diceudi figuram adhibuit.
Perinde autem erat, utrum Q)? ino? eineiv di- ceret, an &S
eineiv Itio?, Utro- que enim verborum ordine uti licuit in dictione
, quae nihil aliud significabat, quam quod ipsa verba exprimebant.
Serioribos temporibus loquendi usu factum est, ut scriptores
eadem dicendi formula adhibita veniam peterent uou unius verbi
minus accurate usurpati, sed complurium, ueque verborum solum, sed
etiam seu- tentiarum. Iam quo magis np- tio , quam usus loquendi
alicui formulae indidit, a proprio verborum significatu recedit, eo
debiliora verba fiant necesse est, nt quasi torpore quodam tenean-
tur, qui ordinis mutationem non facile admittat. Exemplo pro-
verbia snnt, quorum verba sin- gula eodem ordine plernmque re-
citantur, Exemplo etiam formula est d>? Ino? ehteiv, quae simul-
atque latiore significatu adhi- beri coepit , liberiore verborum
ordine gaudere desiit. xdv navv q>avXo? %f o A eycov.
Potuisset etiam h. 1,, si oppositionem adhibere voluis- set,
Alcibiades dicere xdv ndw aya$o? o} xav ndvv <pavXo? 6 Xiycov ,
de quo dicendi ge- nere supra diximus annotat, p. 299., et cuius
exemplum paullo sapra legitur, p. 215. C. Idv re dyaSo? avXrjr?}?
avXy , idv re (pcwXrj avXrjTpi?. Quod moneo, ut recte varba explicata
credas 209. C. dnropevo? yap, oipai, rev xaXov xal opiX&v av
roJ, d ndXat ixvei, rixrei nui ysv- Vijc, xal n aped v xal anco
v pejivjfpivo?, xal r 6 x, r. A, idv re yvvrj — - xare-
XopeSa. Omnes Socraticis dictis percelli ait Alcibiades at- que
teneri quasi vinculis sive fe- ug axovfj fj zb5v GiSv k&y av, akkov
kiyovzog, xav tzuvv q>avkog y 6 ktyav, la v te ywtj dy.ovtj lav tt
arrjff i dv t» ftuijaxuw , lx7Ujtkrjy(itvoi i<5fihv xal xaTE%6(i.Eda.
lyety ovv, <x> avdffEg, ti p} Sfukkov xofuSy du£uv (u&velv,
eimina sit, quae ea audiat) sive vir, sive adolescens. Haec dicta quoniam
comparantor cum Olympi harmoniis , quae addito artificio nullo ,
ipsa per se animos audientiam capiant, merito verba mireris illic addita:
xal SrjXot xovS xcov Sedov te xal xeXcxcjv beopivovS 8ui x 6 2 Eia
elvai . Neque placet, quod Riickertus annotat ad haec verba :
Non omnes hac harmonia ad divinum furorem excitati sunt; qui
autem essent, cos ad divina mysteria percipienda factos esse
hoc ipsum declarat* Nolo pluribus huius sententiae axoniav y quae
manifestissima est, perstringere ; persuasum autem habeo, verba
Platonica vitio ali- quo laborare. Pro 8i]Xoi xovS xt ov $egjv
scribendum esse vi- detor: SrjXoi SvijtovS xav Segov, quae
scriptura quam apte hoic loco conveniat, statim intelligitur. Quid enim
aptius est, quam mortales una commemorari, ubi sermo est de arctiore cum
diis per initiationes coniunctione? Neque carent verba corruptionis
verisimilitudine. Primae enim ONHTOTC vocis litterae quam facile in
OI mutari potuerint, apparet. Cum autem 8ijXot verbum, quod proxime
praecedit, in OI exeat, fieri facillime potuit, ut ulterunl OI
absorberet alteram. H autem expunctum ab iis est , qui Platonem scripsisse
arbitrati sunt, quod hodie in omnibus editioni- bus legitur: 6?jXoi
r ovS. Eyooy' ovv, cJ av6peS. Iiaec vulgata lectio est. Iu
tri- bus Bekkeri codicibus paucisqur aliis iyco yovv comparet,
quod haud scio, an non probandum sit. Nam si io priore
alicuius enuntiationis parte aliqui commemorantur, quibus, qui ia
posteriore enuntiationis membro loquens inducitur, non est adiun- ctus ,
iyoj 6* ovv vel lywy' ovv poui solet, utrumque pio oppositionis vel
exceptionis ra- tione, quam scriptor indicare vo- luit. Contra ubi
in priore par- ticula enuntiationis alicuius ali- qui commemorati
suat , quibus adiunctus est, qui ia altera par- ticula loquitur,
uou lycoy ovv sed ly<6 yovv locum habet. Iloc Bekkerus probat
Comment. Cril. in Piat. p. 357. , idem A&tio placuit atque
Riickerto. Stallbaumins in altera Symposii edi- tione lycoy* ovv
reposuit. el /i)} HpeXXov xopi8y 66 B, E tv. Schol. ad h. 1.
wo- pi8q , inquit, xvplooS pev xo impeXuS, o$ev xal opEoxopoS
xal yEpovxoxopoS * i 6 o 8 v v a- jx ei Sfc xal x c3 6 <p 6 8 p
a xal xeX£a)S t xopi8y dpixpd 6(po8pa 6pixpa. Ceterum sensus
est verborum huius loci: Ego certe, o viri, nisi viderer prae nimia
ebrie- tate meras nugas narrare, dicerem vobis loramento
interposito, quae mala in me ab huius orationibus pervenerunt et
quae rtov vftocag av vfilv
olcc Srj nticov&a avzog vito zmv zov- tov J.vyav xal ndayco Ixi xal
vvvl. ozav ydg axovo), itokv E fioi (idllov tj tcov xoQvfiavzicovrav ij
tb xagdla irtjda xal ddxgva lx%tizai vi tb zav l.oyuv zav zovzov.
oga de xal akkovg ita/utoXXovg zcc avza itdayovzag. Ilegi- xbeovg
de axovcov xal akbcov uya&cov grjzoQav ev fiev tjyovfirjv beyeiv ,
zoiovzov d ’ ovdev ixaGyov , ovdi zt- tiogvfiryzb fiov % t^vyrj ovd’
rjyavaxzei ag dvdgano- perveniant etiam nunc. Annotat
Riickertas: Non dicerem tantum, uti nunc dico , sed iusiurandum adderem. Satis
nobis liaec explicatio displicet. Quasi si quia mira narret ebrias,
addito iuramento ebrior esse, indicetur. E hcov ojjodaS av
nihil aliud siguificat quam: dicerem dictu mque iura- naento
interposito confirmarem, Ut autem rectius Alcibiadis verba intelligas r
homo ebrius, quae perpessus sit, ea ita mira esse sentit, ut a
ne- mine facile credantur* Igitur ne vino prorsus immersus
indicetur, ai illa retulisset atque eorum Veritatem affirmasset , rem
silentio praeterire apud se constituit. Post autem non tam mutato
consilio, sed quod res ita ferebat atque loquacitatis, quam vini
vis indidit, libidine ductus, quicqui^l perpessus sit, aperuit
tamen. V * &v no pv fi av x i oov~ tcov. Annotat Schol.
ad h. l.j iv$Ol)6lG)VXGt)V ?/ riva opX7}6iv ippctv)}' opxovpivcov ,
ano tgoy K opvfidvxcov , oi xal x potpeiS xcu (pvXccxsS xal
8i8ddxaXoi xov 4ioS eivat pv$oXoyovvTai, TiveS 8 e rovS avxovs roiS
Kov - ptjtiiv etvai tpadiv. elvai 8e xal x ijf ‘PeaS vnadovZ ,
ano xgjv xov JioS Saxpvcov yeys~ vrjpEvovS’ ojv apiSpov ol ptv
3*, ol 81 i Xkyovdiv. Timaeus habet xopvfiavxtav' 7tapepj.iai-
v£6$at xal ivSovtiiadxiHuS xi~ YEtdSai. IldSoS autem rcov xo -
pvfiavticovxcov vocabatur xopv- fiavriadfioS, Quo morbo qui correpti
erant, tibiarum cantum audire sibi videbantur ad salta- tionem
excitantem, neque tem- perare sibi poterant, quin salta- rent.
Vides igitur, quam apta hoc loco sit xciov xopvfiavxicjv- xcov
commemoratio , cum Socrates cum Marsya tibiis canendi peritissime
comparetur, cfr. Piat. ‘Crit. p. 54. D, xavta, ai (piX& ttaipE
[ Kpixcov ] , ev ?b3z, oxi iyco Saxei) axovEiv , &)Szep ol
xopvfiayriGivTES tcov avX&v <$o~ xovdiv axovEiv. Adde Piat.
Phaedr. p.227. B. dzavtijdas 8h rd v o 6o v vx i zspl Xoycov
dxorfv, iScov phv, 18 odv 7/<537/, ori eB,ei xov
dvyxopvfiavxicovTa x. x. X. ev jtlv xjyovfirfv Ac-
yetv. Piaeterito tempore Alci- biades bic utitur, quod Pericles eo
tempore iam obmortuus erat, quo Agathonis ixivixia cele- brata
sunt. Ceterum ipsa verba docent ev pbv rjyovpijv Xeyeiv, quam
necessaria lormala coS EizoS 'irillgteed /\r «•'
• Sadwg dtaxEiplvov. cxXX’ vito tovtovX rov
MciqOvov stoXXaxig drj ovta Ster idrjv 9 Sgrs poc do^ca prj fiica-
212 rov elvat l%ovn log 1%©. xal ravtcc , o Uiaxga reg, oix Iqels
cSg ovx aAq&ij. xal Eu ye vvv £vvoid 9 Ipav- rq> , ori , ei l%i).
oipv TtaQeyew tu ara , ovx av xaQ- tSQTj<faipi> cMa tuita av
itdG%oipt . dvayxd&i yaQ pe opoXoysiv , ori vtoXkov tvde^s av avtdg
En Ipavtov fikv dpeXc5 > tu 6 9 'Afojvuiav itQaztco. fila ovv,
agitEQ elneiv verbis sit p. 215, D. ijpeis yovv otav pev rov
aA- Xov dxovtopev Xiyovzos xal navv ayaSov /)7fzopoS aAAouS’
A 6yovS t ov8ev pe\ei — ovSevl. — De pov pronomine nomini sao
praelixo , quo dativi com- modi , quem vocant, vel incom- modi
notio exprimitur, vide Qutt- manni annotat, in Indic, ad Piat,
Dial, IV. BeroI, 1822. •$X oyrt Satis usitata haec
dicendi ratio tragicis poetis , quam rov evtprjpelv ergo adhibebant
miserrimam vi- tae conditionem indicaturi. Sen- sus est: Ut mihi
miserrime viventi vita non amplias vitalis videretnr.
ovh ar xapr epij C atpi. Conscios mihi sum, Alcibiades ait,
me etiam nnnc, si vellem aures praebere illi , eius illece- bris
non restiturum esse , sed eadem, quae antea, experturum h. e.
dySpano8co8d)S diaxEi- CeCSat. dvayxd^ei yap pe opo- A
o y eiv x. r. A. Argumentum his verbis expressum habes eius libelli
, qui Alcibiades primos inscribitur. Eum libellum ne- gant hodie
viri docti a Platone conscriptum esse. Ac lieri po- tuit facillime,
ut aliquis Plato- nis amator, qui haec verba le- gisset, de
hoc argumento ad Platonicorum dialogorum exemplar dialogum conscribere
apud so constitueret. Quae autem verba in- fra leguntur p. 216. B.
?}rrrfpiva> ti)S npijs rijs vito ,rojv jroA- Xgjv, comparari
possunt cum Al- cibiade I. p. 1S5. fin. ftovXol - prjv dv Ce xal
8iaxeX/:Cai' o’/3- ficjScj 6l, ov n xyj 6ij cpvCet ani- CrcSv ,
aAAa rr}v rfjs no\ ecoS fiuprjv, pi) ipov re xal Cov xpan/Cy.
fiiot ovv , cosnep ano z&v Setpijvcav x. r. A. Abreschius
Lect. Aristaen. p. 147. cum fiict commode explicari posse
diffideret, fivcov scribendum con- iecit : (Uvoav ovv dsnep ano
r&v Seipijvoov iniCxopevot ra tora oixopat tpEvycov . Recte Stallbaumius
hauc correctionem improbat etiam ea de canssa, quod illa odmissa
verborum iun- ctura existeret legibus elegautiae orationis
coutraria. Quis enim, Stallbaumius iuquit, ferat ita lo- quentem :
Obstruens aures, tanquam ab Sirenum canta cohibens aures, fugio
virnra. — hia cum olxopai tpevycov Stallbaumius coniungen- dum
censuit, quae verborum iun- ctnra nullo modo probari potest. ano uSv
Uuprjvav, tni<3%o(itvo$ rct iura , ofyofiat qjtv- •yav, iva (irj
axrtov xa&ijyivog napa rovuo xaraytjQa- B Oa. ntnov&a ds ngog
rovrov fiovov av&gconav , o ovx av rig oiot.ro Iv Ipol Ivtlvat , ro
alojfvveo&ai ovnv- ovv. iya da rovrov /rovov alo^vvoficu. | vvoiAa
yttQ Satis notum est exemplisque per* multis probatur,
oixopat tpev - ycov eam fugiendi rationem de- scribere, quae
celerrima sit at- que subitanea. Iam cum hac il- lius dicendi
formulae notione quomodo (5i(t conciliari possit, equidem non
video* Nam quae fihp aliquis facit, h. e. ut apud Homerum legitur
btriv aexovzl ye is cunctanter agit at- que animo minus
obfirmato. Du- bitari nequit, quin / Via ad liti - CxoptVoS
referendam sit, ut Al- cibiades vix ac ne vix quidem a Socrate
quasi a Sirenum cantu dicatur aures cohibere posse , eo facto autem
in celerrimam fugam ee couiicere. Ceterum' ad Hom. Odyss. hoo loco
respicitur M. v. 59. et sqq. iva ni) avxov xa$rj ut-
ros itapa tov rw xazayri- pdooj. Summam laudem hia et
praecedentibus verbis conti- neri Socraticae facundiae, nemo non
videt. Eam enim Socrati- cae orationis vim esse Alcibia- des
contendit, ut omnes ea au- dita per omne vitae tempus eius
auditores esse cupiant. Eius laudis eo maior vis est, quod ab ho- mine
proficiscebatur, de quo Ne- pos in Vita Alcib. haec tradit: disertus
(fuit), ut in pri- mis dicendo valeret, quod tanta erat
commendatio oris atque orationis, ut nemo ei posset
dicendo resistere. His, adde verba illa, quibus Pericle
Socrates dicitur plus in dicendo valuisse. Periclem autem peritissimum
di- cendi fuisse accipimus, cfr* Cio, de Orut. III. , 54* In
eius labris veteres comici, etiam cum illi maledice- rent,
leporem habitasse dixerunt, tantamque in eo vim fnisse, ut iu
eo- rum mentibus, qui audis- sent, quasi aculeos quos- dam
relinqueret. o ovx av xi$ otoixo iv Ipol iveivoti. Probatam
ha- bes bis verbis levitatem Alcibia- dis supeibiainque eam, quam
scri- ptores Veteres passim tradunt* Ceterum cave eodem
significatu dici censeas iv rivi ivttvai et elvai Zivi. Conferri
possunt hae dicendi formulae cum Latinorum : alicui inesse vel in
aliquo inesse et esse ali- cui. Ut elvai zivi ita Latino- rum esse
alicui adhiberi solet, cuhi alicui aliquid esse dici- tur non addita,
quae inter possi- dentem et rem, quae possidea- tur, intercedat,
ratione. Evtivat contra iv rivi et Latinorum in aliquo inesse de eo
plerum- que dicitur, cui aliquid est, quod cum ipsius naturu ,
ingenio , in- dole artissime sit coniunctom. Platonis verba
Schleiermacherus reddidit : w os einer nickt in mir suchen solite.
Haec nostratium dicendi formula apprime respon- tfiuvTtp avullyuv fih>
ov Svvafilvcp, mg ov Bel noaiv u ovtog xsXevh , £xh8ccv 8's
&sc£l& cj , tijg Tifiijs t% vtio zav tzqVjSv. dQajzsrsva
ovv avtov xal qisvya , xal ozav Z8a , alGyyvouai za wfiokoytj^iva.
xal itoXXay.Lg fiiv IjfSiag av i'dotiu avtov uij ovza Iv C det Platoni*
sententiae, sed verbi ivetvat iv tivi nativam vim non exprimit. Ea
ut emineat magis, verba sic reddiderim: Was einer wohl nicht leicht
meinem Wesea eigentliiimlich glauben mochte. xij 5 ttftijs
xrj s v it 6 xgjv 7t o X Xco v. Nequis forte scribendum censeat trjS aito
xeov 7toX~ A cor, ut honor signiiicctur, qui a populo proliciscatur
: amant Graeci substantivorum passivam, quam vocaut, notionem ab
activa discernere atque, ut exemplo utar XifiijS vocabulo, accurate
disiuu- gere honorem , qui ab aliquo in uliquein confertur, ab
honore, quo aliquis aliquem dignatur. Ti/S xi- ji)}S igitur idem
significare atque tov XifiadSat addita vjto praepositione indicatur. Sed
liberior etiam huius praepositiouis usus est. Haud raro enim cum
verbia neutris coniungitur, quae verba possuut aliquo modo,
quoniam per se spectata neque actionem indicant , neque itaSoS
aliquod exprimunt, cum nominum ambiguitate comparari. Haec nomina enim
utrumque significare possunt et actionem et itaSoS, ut recte
dicautur per se spectata neque hanc neque illam uificarc. Sed ita
ditfert vn 6 praepositiouis usus in nominibus substantivis et in
neutris verbis, ut illis addita notionem, quae ipsis inest, extollat,
cum his coniuncta notionem novam quasi pa- riat, quae notio no utris
verbis proprie non inest. cfr, Hora, II. p. 319. iv$a
xtv avxe TpdoeS dpifi- (piXoov vtc *Ax<xtG>v " IXiov
eiSavEfiTjticcv avaXxei- Xfit Sajievxs? Adde II. p. S36. cridooS
pkv vvv ySe y dp?ft- qjiXoav vn *Axai(vv "IXiov eteavafiijvoa,
avaXxei- y6i SafievxaS. His locis , quibus alia addi
pos- sunt innumerabilia, edoceare, li- beriore vno praepositionis
usu elfici dicendi brevitatem , quae sane gratissima est et venustis-
sima. Ad nostrum locum ut revertar, statim intelligitur, quid
Alcibiades confiteri cogatur a So- crate, et cuius rei pudor illum
hoc conspecto subeat. Nimirum qui rtoXXov ivdei/S convinci- tur
esse (vide p. 216. A.), is se percolere debet, non admi- nistrare
civitatem , quod fecit Alcibiades populi aura dele- ctatus.
ij 8 £o)S dv i8 oipt h. e. rfSoifi7\v dv avtov ISqjv. Vides
igitur, magis ad adverbium, quam ad optativum modum IStiv ver- bi
av particulam pertinere. Id probatur etiam eo, quod omisso adverbio
dictio existeret pror- sns non ferenda: xal izoXXaxiS ptv
i&oifi dv avtov pp ovxa avftQQMtois' tl 6* av rovto yivoito, sv old\
on itokv fiel^ov clv «%9olgif]v , cj^tb ovx b%g) S xi XQrjGttpa t
Tovtcp r (3 dvftQcina. xcd vito piv di] xav ccvArjfidtav itat lyco occa
dAAoi itoXAot xoiavxa it BTtov&aOiv vnu tov 8 b rov 2
<xxvqov. iv dvSpcditoiS. Nulla enim ad- est caussarum
cohaerentia , per quam fieri possit , ut Alcibiades Socratem inter
vivos non vide- ret. Adest, ubi gavisurum se esse Alcibiades dicit,
si non vi- deret Socratem inter vivos. Ita- que quid de Platonicis
verbis rfdicjS UV VSoifii statuendum sit, iam vide. Brevitatis
studio t/SkcoS i8oif.it ita positum est, ut duo liaec verba unam
notionem efiiciant, quacum av particula com- mode consocietur. Simul
sup- plendum aliquid relinquitur, quod quid sit, ex ipsis
jjSkcDS av iSojfii verbis elicitur. Oratio enim expletior audit r
tjSkcoS dv i'8oiftlj tl idotfit. Similis ver- borum structura in
Piat. Lachete occurrit p. 182. c. V. fin. Aa- XtjtoS 8’, tl n napa
xavxct Akyei, ndv avxoS ijdkool cotov- CaifUy quae verba
explicatius enarrata audiunt : ndv avxol ?}- 6kcoS dnovdatju , tl
dxovuaifii AaxrjxoS, tl r i Ttapd Tama Af- yti. Satis autem docet
haec enar- ratio verborum, quae tl duplici- ter atque diversa
potestate (wcnn, ob) posito satis ingrata est, quantum orationi admiss?
illa verbo- rum structura suavissimae brevi- tatis accedat.
no Ai) pti2,ov dv dx$oi* fiijv. Pro fitigov scriptum ex- spectaveris
fiacAAov. Iliickertus nd h. 1. : ut piyotj inquit, verbis iuuctum
est valde, v. c, Hom. II. /i. 2u. A.oS 81 roi ayytXol
et/u oS avtvSev £aj v, fit}' a 7tjj6ezai 7] 8* lAtaipu
et v. 333. gjS icpccc. *Apytioi 81 ftty iaxov K t r. A.
sic etiam fiei^ov magis, ve- hementius. Dictum pro fiti- Zov
dv &x$oS txoifu , — Fru- stra rationem quaeras, cur a- pud
Homerum fikya verbis iunctum valde significet, et cur nostro loco fitigov
dv dx$oi- ftrjv non tam positum sit pro fitigov dv dx^oifiijVy quam
po- tius idem atque illud significet. In caussa hoc esse reor,
quod Graeci haud raro verba co signi- ficatu adhibebant, quem satis
in- epto nomine, vocant Grammatici praegnantem. MkyaK w)-
8txea igitur non tam est : v ai 1 d o providet saluti tuae, quam
magnam tui curnm agit. Eodem modo 9 Apyttot fiky Iaxov explicandum
est : Sie schrieen gross h. e. sie erboben grosses Geschrei.
Plura huius usus exempla laudata reperies anuotat. p. 87,
coite ovx ott XPV - dcofiai. Pro xPVoMfiai libri omnes
XplfeOfLat exhibent, quam lectionem lluchertus, nimis rcli^ giose,
ut solet, in textum recepit. Sed quid facias in contexta oratione scriptura,
quam ipse, qui eam recepit, explica- Cap. XXXIII. "AXkct
de epov axovGccre, tyto aixatiu avrov , xal ryv oSg 3 (loiog
re tCziv otg dvvcc[uv io s %avpc(Oiav bilem atqne rei
describendae ac- commodatam negat ? Certum quidem est, scriptores haud
raro formula dicendi nsos esse gjSts ovh Hxv oti xPV^o^ioctj
cuius exempla Stallbaumius laudavit ad Piat. Gorg* p. edit. 85 ( .
, sed haud perinde est, coniunctivo an futuro utaris. Ac nostro
quidem loco si xPV<S°M<xi scribitur, ne- scire se praesenti
hora Alcibiades confitetur» quid cum Socrate faciat, facturum
autem aliquid sese esse uua promittit* Quae sententia quam inepta
sit atque ab huius loci .sensu aliena, nemo non videt. Contra
con- iunctivo adhibito penitus nesciri ab Alcibiade, quid in universum
dc Socrate consilii capiendam sit, quaeve eligenda ratio homi- nem
tractandi, exprimitur. Quae sententia, quoniam aptissima est huic
loco , quid xpfo&M&i vel contra omnium auctoritatem codicibn non
recipiatur, XPV^°M°^ autem ineptae sententiae lectio non
reiiciatur, caussam equidem non reperio. neti vito j.tlr 8 y
tcov av- \y p dz w — V7C 6 tot j Se tov Sazv pov. Av Xypaxa
Socraticos sermones significare, Satyrum Socratem, nemo mirabitur , qui
Socratis cum Marsya comparationem legerit. Ordinem verborum quod
attinet, proprie dicendum erat xai V7cd ply Si } tgov otvArjpdrcov
tov tov tov 2£aTi>pov. Sed de industria Al- cibiades hacc verba
verbis com- pluribus interpositis seiunxit, ut maiore vi
afficiantur verba rovSe tov Scnvpov . Vide de hac seiunctione
verborum annotat, p. 59., p. 129. , al. Ceterum imo praepositionem
non sine vi re- petitam habes. Nam cnm ea eius potestas sit,
nt cum Ttd - $ovS notione plerumque couiun- gatur, ideoque ipsa
quasi colore imbuta sit notionis illius: dupliciter posita haec
praepositio non quidem 7td$oS duplex ex- primit, sed ndSov ST
vehementiam,- qualis descripta est p. 215* E. noXv pot paXkov y td>v
xo- pvfiavTicdyrcjv y re xapSia ny- Sqi xal Sdxpva ixxeltat.
aWa 5 & i pov ctxov- 6 at e. Vulgo aAAa Sy legitur; praeterea
codices nou pauci pov pro ipov exhibent. Riickertns inde di pov
edidit annotaus ad h. 1. Nobis, inquit, nulla in pronomine vis esse
visa est , propter quam codicum lectionem mutaremus. Itaque Si pov
dedimus : — Miror, Biickcrtum ita iudicare potuisse. Etenim qnao
hucusque narrata sunt ab Alcibiade, ea, siquidem homini fi- des habenda
est, et aliis acciderunt* Ea igitur satu nota esse Alcibiades contendit,
adeoqne ni- hil facere ad Socratis indolem accurate cognoscendam,
nt prae- i%H. tv yag la ts, ori ovdilg vficov r ovtov yiyvaOy.u' D
dXXu tyco drjZadn , tjielxsQ vgaxs yag, on ter Re neminem censeat
ipsam cognitam perspectamque habere. Quod igitur none Alcibiades
probaturus est, id se tautummodo expertum' docet atque se esse unum,
ex quo audiri possit vera Socraticae indolis atque naturae
descriptio. Nihil igitur certius est, quam ipov scribendum esse,
non fiov. Et quoniam mala mo- do commemorata etiam alii per- pessi
sunt, haud dubiam est, quin nova quaedam relaturus Al- cibiades
dXXct dixerit, non aX.- Xci ; ea autem mala, quoniam malis supra
commemoratis oppo- nuntur necessario, etiam di recte habet, non
8t}, Nobis quidem de scripturae veritate aXXa 6k ipov y vel aXAct
8* ipov, quod Bekkerus habet, ita persuasum est, ut etiamsi omnium
codicum de- esset auctoritas, verissimam censeremus. Sed adminiculo suo
non eget scriptura illa. Florentiui enim codices aliique libri
pauci quidem sed non mulae notae eam repraesentant. ev
yap idxe. Qui ad ver- ha p. 208. C. xal r/, u>S7tep ol xeXeoi
dotpidxcA , Ey tdSi , iqrrj sophisticum orationis colorem, quem
Plato verbis cu Sittp ol do- <pidxctl indigitavit , in verbis ev
id$i deprehensisse sibi visi sunt, Wolfius, Astius, Schleiermache-
rus , ii in verbis ev Idxe nihil, quo Sophisticam artem odoratos
esse coniicias, annotarunt. Con- cedimus quidem, heri potuisse, ut
sophistae 1 insto saepius illa dicendi formula uterentur, sed non
ideo sophista sit vel sophi- sticam artem imitetur, qui
hanc formulam exhibet in oratione, praesertim cum id facit, ut
fecit Diotima . semel, d XXd iyta dyXcodco , $- neinep
ij p&a prjv. Cum em- phasi verba pronuntianda sunt dXXa iycj
8yXGD6co sc. oloS id nv atque inprirais iyoS pronomen, quod ue exhibuisset
quidem Plato, si in praecedentibus scripsisset aXXa de pov axov-
daxe , Ceterum supra annotavimus ad verba p. 2 15. D. iycj yovv , co
ctvdpeS , ei p>) ipeX- Xov xopidy 8o£,eiv peSvetv, ei- Ttov
opodaS d v vpiv olat 8?) jciitovScL X. T. A* , Alcibiadem noluisse
primum, quid ipse per- pessus sit atque adhuc patiatur Socrate
auctore malorum, enarrare, post consilium mutasse loquendi lubidine abreptum.
Ea consilii mutatio ne forte artiheiosior videatur atque minus ex humanae
naturae indole petita: omnium rerum difficillimum esse solet initium. Eo
superato gaudium cor subit, quia superareris atque ani- mus olterius
progrediendi. Post ne infectum relinquatur, iu quo aliquid operae
consumseris, totum opus perficiendum suscipitur. Subit animum dulcissima
memoria versuum e Goethii Fausto peti- torum , quos cnm Platonis
ver- bis iiteiitep ijpBtdprjv comparare possis : Das
Mogliche soli der Ent- schluss Beherzt sogleicb am
Schopfe fasseu Er will cs dann nicht fahren lasse n
Und wirket w ei ter, tveil er must. HaxQatyjs (gauxtog
diaxtirai rav xctXi 5v xai «eI x&ql rovrovg EOzl xai butiickipam. ,
xai av ayvotl mxUz a xai i/jmrixojf Sidxeirat roov xa\djv.
Annotat Rucker- tos ad h. 1.: Genitivus tgdv xa- \65v pendet ex
ipooTtxdjS e more Graecorum vocibus derivatis eundent casum addendi ,
quem ver- bum secum habet . Eodem modo de hoc structurae genere
Mat- thiaeus disseruit Gramm. ampl. 540- p. 648. Possis
etiam ita tibi rem explicare, ut ipeo- xixvS SidxEttiSai unam
notio- nem if^xv verbi efficere censeas atque eius structuram
assumere. Ceterum nemo non videt, ipeo- TixcoS StaxEitiSai multo
gra- viore significatu esse, quam ipav verbum. Apprime enim
Latinorum perdite amare respondet, qua formula dicendi inprimis
comici Latini usi sunt. Mirari autem licet Graecae illius et huius
formulae diversitatem. Nam quod Latini adverbio, Graeci verbo
expresse- runt, quod Graecis adverbio, La- tinis verbo indicatum
est, xai av ayvoel itavxa xai ovdhv o 16 e v , coS 1 6
uXVM a a vx o v. Vulgo haec verba ita edebantur, ut nulla post avrov
interpunctione po- sita verba r 6 6xi)f*ct avrov ad
subsequentia traherentur. Qui- buscum ut aliquo modo conve- nirent,
H. Stephaniis scribendum coniecit : ci? x 6 <$X*/M a avrov ov
deiXffYGoSeS, Haec scriptura Fischero probata est et Bastio et
Wolfio; recentioribus interpretibus merito ea displicuit» Longum est,
omnes ingenii coniectnras repetere, quibus hunc locum docti viri
sollicitaruut. Stallbaumius omnes loci difficul- tates sublatas
putat recepta, quam Bekkerus et Schleiermache rus post avrov posuerunt,
interpunctione. Videlicet, vir doctissimus ait, csf xo <$XVl l0C
carro v significat; quemadmodum eius forma et habitus est h. e,
queoadmodum ipsa eius forma et habitus prodit. Eadem Riickerti
sententia est, quae cur nobis non placeat, paullo infra dicetur.
Priusquam enim singula verba adeamus , totius loci sententia paullo
accuratius examinanda est. Omnis Alcibiadis oratio in duas partes
dividitur: altera res continet convivis satis notas, sed quae ad
cognoscendum Socratis ingenium haud mul- tum faciunt, in altera
commemorantor, quae ex Alcibiade so- lum audiri possunt fefr. p.
216. C. «?AA a 81 ipov axovdars) e® quibus solis ad Socratici
inge- nii indolem cognoscendam audi- tores ducuntur. Ac de poste-
riore illa orationis parte infra dicetur ; prioris initium verba
sunt opaxe yap. Quae verba praecedentibus opponuntur ; tv yap fdtE,
oxt ov8e\s vpdov rov- x ov y ty y ai 6x Et. Tangi igi- tur videtur
opdxE verbo incogi- tantia convivarum, qui, quod oculis cernant, id
credant, cum non debuissent credere, contra quod debuissent, nou
videaut. Iam ad particula, quae in ver- bis repentur xai av
ayvoEiy indicatur et haec et subsequen- tia verba eadem conditione,
quam praecedentia, poni, ut expletior oratio audiat: xai o par e ,
oxt ayvoE i x. r. A. de qua vi av particulae vide annotat. Nura cum
hac orationis confm- (XvSlv ocdsv , log to (>XW a ocvtov. tovto ov
Gcifoivcj* 6sg; Gqjodga ye. tovto yag ovrog negLpapAyTcxi,
cogiteg 6 tykvppivos 2J6ifa]v6$' kvdo&ev 6s avorfitig n otiijg
, ofetfte , ysuti , iJ ccvdgtg <5 v[ix6tcu , aacpgodi J- mationc satis
convenire censes verba cjS to <SXVl ia clvtov , quemadmodum ipsa
eius forma et habitas prodit? Sed hoc ut mittam , turpi vultu
protervoque Socratem fuisse acci- pimus , fatuo a nemine scriptore
traditum est. Neque cura turpi- tudine atque protervitate vultus
fatuitatem coniunctam esse necesse est. Recte autem inspectis Platonicis
locis , ubi inscientium Socrates et vero etiam fatuitatem quandam
animi ostendit ( cfr. annotat, p. 290.)» doceberis, ver- bis atque
libera rei confessione, non forma et habitu vultus cor- porisque id
fieri. Nemo igitur oculis cernere potnit , sed auri- bus tactum
percipere inscitiam Socratis, ut male xal av (opd- Tf)gd$ to 6XVM a
ccvtov verba coniungi censeas. Verba autem ayvoei TCavia xal
ovSev oldev etsi aliquo modo defendi possunt, tameu habere, quod
of- fendat, prudeus lector intelliget* Deleta autem litterula una
et tautologia nobis quidem ingra- tissima removetur, et
commodiore sensu coS To 6xtyM a ocvtov verba afficiuntur.
'Scribendum nimirum esse censeo : xal av ayvoei navTa xal
ovSh oldev , cJs" to ( 5XVM a ocvtov. Iam sensus est totius
loci: Oculis vestris videte (atque credite), Socratem iuvenes
pu1cros perdite amare semperque iis se adiungere eorumque summa
admiratione teneri, et rursas omuia nescire, ac ne scire quidem,
qui ipsi sit habitus externus h, e. ne curare quidem corporis cultum et
vestitum. Olim coS to 6XW& avrov convertendum censebam: wie cr
sich das Ansehen^giebt, quae conversio optime conveniret cum opdre
verbo. Sed Alcibiades hoc loco narraturus, qqge in Socrate oculis
cernantur, cum pulcrorum iuvenum studium comme- morasset, quod revera
simulabat Socrates, et inscitiam, quam interdum vel gloriabatur,
incuriam corporis, quapi immunditiem vocare possis, nullo modo
silentio transire potuit. Satis notum enim fuit, Socratem raro
lavasse, rarius capillos compsisse atque omniuo ceteram corporis
curam adeo neglexisse, ut v. c. Aristodemus cum lotum conspexisset
atque calceatum Socratem, insolentiam rei meratus ex eo
quaereret: quonam iret ovteo xaXoS ye- yevrj pivoS . Vide
Sympos. p. 174. A. Ceterum dxt/poc vocabulum de cultu corporis atquo
de vestitu significando Graecis in usu fuisse, satis docere pos-
sunt Plauti verba Amphitr. Prol. V* 116.: Nunc ne hunc ornatum
vos xneum admiremiui Quod ego huc processi sic cum servili
djjqpa Veterem atque antiquam rem novam ad vos perferam:
Propterea ornatus in novum in- cessi modum. v>;g; iGxe , oxi ovx’ , tl
rtg xaAos loxi, jitXti avxaJ ovSev, kU.u xatacpgovtZ xoOovxov , o6ov ovd’
av tlg olrj&tit], e ovx’ tl xi s irkovOLog, ovx’ tl alXr\v xivd
xijirjv iyav xuv vito itkrfiovg jxux.uQitoy.ivav. ijyuxat 8i itdvxa
Sequentia verba rovto ov (Sei- Xtjvc38eS ambigua potestate
di- cuntur, ut iis ad alteram partem orationis paratum aditum
habeas, qua verum de Socratis ingenio iudicium continetur.
^SsiXrfVco- 8eS enim de externa figura ita dicitur, ut Socratis
vultum indicet similem fuisse Silenis; et ad cetera, quae praecedunt,
verba tractum Socratem similem Silo— norum perhibeat. Iam
iudicare possis de verbis (Sqpodpa ye, quibus titramque 6ei\ijvaoe5
voca- buli relationem Alcibiades sibi probari indicat. Sed
alteram tantummodo verbis sequentibus exprimit hoc agens, opinor,
ut subita novae rei commemoratione, ud quam rem audiendam
animi convivarum minime parati essent, acutissimi iudicii admirationem
et gloriam certius atque celerius assequeretur. rovto ydp —
7tepifl&- pXijrat, rdp particula du- plici relatione hoc loco
posita est , ut et ad rovto GeiXtjvg)- 8eS pertineat et, ad
notaudum convivarum errorem, qui Socratem talem esse putaverint, qualem
oculis viderint, ad verba referatur p. 216. C. ev yap fore, Zri ov8elS
v/uav rovtov yi- yvojtixeu Sensus est: Namque miram hanc
Silenorumque protervitati atque im- munditiei consimilem for-
mam ille induit Sileno- rum instar, in artificum officinis
sedentium, qui intus reconditas statuas deorum pelle x sua
conte- gunt. 7to6rj^ f oVe6$e t ye/tei. Haud raro
mediis interrogationibus verborum interponuntur secundae personae singularis
atque pluralis numeri, quibus provocantur, qui rogantor, ut ipsi
uua rem interrogatam iudicent, atque quid ipsis videatur, aperiant.
Hic dicendi usus Graecis haud infrequens, neqae a nostratium more
alienus est. Duo autem snnt, quae verbis hoc modo interpositis
efficiuntur: gravitas au- getur interrogatae rei, et alacritas
interrogationis amplificatur. Compluria huius structurae ex- empla apud
Graecos scriptores Stallbaumius attulit ad h. 1., Ruckertus ad
Piat. Symp. p. 202. B. d A. A a nat aqxpovEi oX. r. A.
Haec proYsus conve- niant cum Diotiinae praecepto laudato a Socrate
p. 210. B. &vo? ro CcpoSpa rovto^ar- Xdtjoti xauxppuvijdavra
xa\ tfptxpov 1 /yTfddj.iErov. Quae insequuntur verba ovd av tiS
scribae alicuius imperitia in ot;- dfl? dv mutata sunt, quam
lectio- nem unus exhibet codex Bek- keri. Alibi notavimus ovSs
tls significare prorsus nomo, de quo significatu sub v. ou6£ ei?. Haec verba etiam ibi
exhibere amant scripto- res, ubi allectatam orationis gra- vitatem
rejvacsenUut. Possis ea 23 ravrcc t d xzyfiaza ovtisvdg «|t«
xal qpag ovdlv tlvat, tlgavEvi^uvog Se xal icai^av nonna w filov itQog
tovg av&ganovg duratei. tSxovSaOavzog de avzov xal avo i-
Z&tvzog ovx olda, fi ug e ai pax e tu ivzog dyalfiaza' a te' lyto
ijdi] noz’ tldov, xal fioi 1'do^ev ovza titia xal SI 7 jjpvtfa
«&>» xal ndyxala xal tiavfiudza , Sgzt nouy h. 1. convertere:
nemo gen- tium. Verba convertit Stall- baumius: quantopere
nemo quis quam crediderit. xal i/fiaS ovSlr elvat,
Ileusdins Spec. Crit. pro r/puS scribendum censuit XlpaS. Non recte
t neque placet verborum conversio Stallbaumiana : atque nos, qui
talia appetamus» nullo in numero haben- dos censet. Verba
convertenda sunt potius : atque nos, qui talia possideamus,
flocci pendit. Loquitur enim Alcibiades , homo ditissimos atque o-
xnoium rerum honore, quas mul- titudo admiratur, abundans. Qui cum
se contemtum a Socrate vidisset (cfr. p. 219. A. seqq.), insuetae
rei experientia motus verba proTert xal rjpaS ovSkv elvat. Sed ne
ingenuitatem Al-, cibiadis forte non agnoscas, ani- mique
nobilitatem, TjpaS ovdlv tlvcn verborum magis etiam, quam nos
fecimus supra , lenienda est interpretatione asperitas. Signi-
ficare igitur contendimus: omnes, qui talia possideamus iisque gloriemur,
floc- ci pendit. tlpovevopevoS Si xal 7t algor, cfr.
Cic. de Orat. 2. Urbana etiam dissimulatio est, cum aliter sentias
ac loquaris. In hoc genere Fannius in annalibus suis hunc Aemiliaoum
fuisse et cum Graeco verbo appel- lat eYpojya , sed uti ferunt, qui
melius haec norunt, Socratem opinor in hac tlpoveia dissi-
mulautiaque longe lepore et hu- manitate omnibus praestitisse. Adde
Cic. de off, I. c. SO : de Grae- cis autem dulcem et facetum fe-
stivique sermonis atque io omni oratione simulatorem, quem rf-
poora Graeci nominaverunt, Socratem accepimus, v ta £vt of
dyaXpata. Respicit Alcibiades ad Silenos in artificum officinis
sedentes, quos idem dixit p. 215. B. 8tj (aSe 8totx$ivraS ostendere
ayaXpa- xa J&ecav. Hinc explicatur fa- cillime, qui fiat, ut
cum drtov- Sctuai verbo avoix$yvai verbum coniungatur. Sileni eaim
cum aperiuntur, fraus detecta est Silenique nihil nisi capsulae
esse reperiuntur rerum divinarum. Recte Ruhnkenitis ad. Timaei
L. V. Pl. ayaXpa proprie dici mo- net quodeunque grata sui
specie oculos delectet. Recte igitur Stallbanmins anno- tat : ra
ivtoS ay aXfiat a intelligi species illas vir- tutis in animo
Socratis conspicuas. Praeter alios, qui Platonis locum imitati
siut, scriptores, idem Ciceronem laudat Legg. I. 22. Qui se ipse
norit, aliquid se sentiet habere divinum mgenium- xiov elvai
Iv Pqcc%bl o n xelsvoi EaxgdtrjS- yyov[itvos de avrov ionovSaxivai iit l
r y Ifiy aga Sgficuov yyy- adfnjv tlvai xtu £vTv%Tffia Ifiov
&avfiaUTov, cjg vxdg- %ov [tot %ttQiaa[iiv<j Etoxgdrct nave’
ccxovGai, oGa- n cg ovrog fjdct. itpgovovv yccg drj ini ty i aga
&av- (idoiov ocJoi/. zavxa ovv diavoy&als, ngo tov ovx
que i n N s e sunm sicut si- mulacrum aliquod dedi- catum
putabit. nai jioi ido£ev. In aliquot codicibus pro pol
legitur Ipoi, quod Bekkerus in ordinem ver- borum recepit* Iniuria
, ut vi- detur. Ey g> pronomen in prae- cedeutibus verbis
necessaria de caussa positum esse, videlicet ut aliis, qui forte
dyaXpaxat io Socrate latentia spectaverint, Al- cibiades se
opponeret, extra du- bitationem positum est. Sed ideo non
necessarium est , ut et in sequentibus verbis pari
gravitate pronomen exornetur. Plane alio verbo accentus orationis
ponen- dus est , quem si tenaciter in pronomine posueris atque
ipoi scripseris, vide, ne sensus effi- ciatur ab huius loci natura
alie- nissimus. Diceret enim Alcibia- des holi ipoi i6o&£Y non
alio sensu, ac si opinaretur, esse posse illorum dyaXpdxoov
spectatores, quibus ea non divina, aurea, pulcherrima et summa
admiratione digna videantur. <2sta itoirjr kov — o
tt xaXevoi 2ajxpdtrjS h. e., ut illico Socrati me eman-
cipatum censerem, neque quid ego, sed quid ille vellet, faciendum
puta- rem. Pro xehevot vulgo xe- tevst legitur. Illud ex
optimis codicibus recentiorum editorum consensa receptam est.
Zppaior fiyrjtfd prjv el- V au De Zppdtov vocis signi- ficatu vide
annotat. p. 88. Ce- terum Schol. Bodl. , quem Kuk- kertus laudat,
haec habet : ip- paiov ru dnposdowfxor nipdoS ano xcov ir xalS oSoi
X anap- X&r t aS ol odoinopot xare- 65lov6i t 7ta\ yap iv xaiS
odols ZSoS ijv ISpvoSai tov * Eppijv , itap o xa\ ivodioS
\iyexai. Quod sequentia attinet noti evrv - Xrjpct ipov SavpadTov,
ud haec verba Riickertas, Duplicem , in- quit, video pronominis
expli- candi rationem y vel ut in ipov vim inesse dicas , quod
Alcibiades sibi hoc, non aliis contigisse gaudeat j Socratis ut amorem
ex- citaret: eximiam meam fortunam; vel ut pronomen possessivum pro
dativo usurpatum interpreteris : eximia mihi hoc fortuna contigisse .
Qua- rum utram praeferam , nescio. Neutra nobis placet. EvTV£ipACt
ipov eodem modo dictum est, quo nos dicere solemus: meiu gutes
Gluck. v itppov ovr yap St/. Pro Sij vulgo r/drj
legebatur. Illud fiekkero debetur, qui id ex optimis codicibus restituit.
De ironica 6rj particulae potestate vide Indices sub v. 6i/. Rem
quod attinet, iuprimis conferendus est locus Piat. Alcib. 1, p.
104. A. xa yap vndpxovxd tSoi peyaAxt 23 * EiaQcog ccvtv axol.ovftov
fiovog fisz’ avtov ylyvEG&ai, tote dzozk^zav tov axbkovftov fibvog
(SwEytyvof tyv. B Ssi yap zgog vpag zuma r afai&ij eItcelv.
alia ZQog- e%ete tov vovv' neti tl ipEvSofiai, ZwxQccTEg ,
l£tisy%s- CWEyLyvo^rjv yap, avdgtg, pbvog povco , xal (pjirjV
avTLxet diakli;E<f&at, avtov poi, cczeq dv Igatityg zai- ducolg iv
igrjpla diaXz%%Elri , xcd tyaiQOV. tovtov 6’ oi3 pdl.cc lylyvETo ovdiv ,
alti uszeq zlvjftzi , Scate- ri vai , gq$T£ jiijSevoS
SettiSaif ano tov dcopazos dp&apsva xs- Aevtgovtci eis xrjv
iftvxrfy ' olei ydp 8 i/ elvat npootov per xaX- kitixoS te xal
pkyi6xoi* xal xovxo fic v 8 ?} navxl drjXov iSalv, uxi ov
ipevSy. 07 *x eImSgoS dv ev cixo- XovSov povos per* aw-
xov y. Haec verba ne falso in- terpreteris) Alcibiudemqae forte
statuas solum Socratem ita convenisse, nt semper tertius adesset: Athenienses
ditiores domo non exibant, quin servam sccum ducerent, qui, si quid
opus esset in via, id curaret. Hinc factum est, ut Alcibiades
quoque tum ad alios, tum ad Socratem nunquam solus accederet , sed
semper pedisseqnunt una adduceret. ansp.dv — SiaXsxS
Opinabatur Alcibiades , Socratem talia sibi dicturum esse, qualia
soleat , ubi solus sit cum amasio, umator dicere, atque vehe- menter
gaudebat. Gaudii caussam expressam habes verbis p, 217. A. 6 j? vndpxov
poi x<*pi- tiapkvco 2coxpdz£i it dive axov - dat, udanep ovxoS
y8et. Sole- bant enim amasii amatoribus gratificaturi obsequii praemia
sibi expetere, neque se dare, nisi, quicqnid expetiexint,
consecuti t essent. Cfr. Piat. Menon, p. 76. B.
, ubi haec leguntur: M. aXX f insi8dv uot <Sv tovt 9
tinyS, oo 2rixpa- teS , ipdS 6oi. 2. xdv xaxaxExaXvppkvoS
nS yvotr/, oJ Mevgjv, StaXeyo - pkvov 6ov , oti xaXoS ei, xal
ipadxal 6oi hi eldiv . M. tl 8?} ; 2. oti ovdlv aXX* rj
inirar- teiS iv roiS XoyoiS' unsp noiovdiv ol t pv<p<5vTES,
UTE tvpavvEvuviES , ccdS dv iv g opa &)6iv. aXX* c
SfnEp eIgjSei, 8ia- \£X$£ } iS [av] poi — ctm- c ov. Annotat
Stallbaumins ad h. 1. : Pertinet, inquit, dv particula ad universam
sententiam ideoque connectenda est cora verbo prin- cipe enuntiati
coxeto , ita ut in- dicet actionem saepius repetitam: solebat
identidem disce- dere, de quo loquendi genere optime disseruit
Rostius Gramm. 120. 5. c. p. 460. Itaque non est quod cum
Astio corrigamus arra poi , aut cum uno cod. Yiudob. dv
deleamus. — Perscripsi integram viri do- ctissimi annotationem
studioseque legendam Symposii lectori- bus commendo. Nobis quid
do sr. 35? jrfolg [ av ] fwi 6vvt]{iiQtv<Sag
(yycro (\xiav. (itra ruvra GvyyvfivafcGdcu trgovxaj.ov/ujv avzov xai G
wt- c yi>y,va£6[t>]v , Sg x t ivrav&a mouvcov.
Gvvcyv(ivatcro ovv (io i xai XQogimi/.aic itoXlaxis ovSsvog
nuQovzog. xca tl Su kiyuv ; ovSev yccQ /tot itltov ijv. InuSi/ dh
ovSccfiij ravTij tjvvtov , ido^i /tot tzi&txiov eivctt rei ctr6pt
xaza ro xagzeQov xca ovx avtttov, lnu6i)xtQ iy/.iyiiQr[xr}, akka iaziov
IjSt] , ti ian ro 7CQayua. tcqo o hoc loco videatur, si quaeris, hoc est:
Contra Alcibiadis vo- luntatem contendimus esse istud : solebat
identidem disce- dere, quem haud verisimile est, cum, quod
speraret, saepius non evenisset , quoties cura Socrate
congrederetur, toties exspectasse avtixa SiaXeZedSai avrov x. t. A.
Etenim quem saepius spes frustrata est , is sensim sensimque ei diffidere
solet atque lae- tissimam , quam antea habuit, exspectationem ex
animo removere. Igitur si saepius rem il- lam factam accipias, vereor,
ut etiam xai ixaipov verba satis bene habeant. Verborum ordi-
nem quod attinet, dv particulam eo loco positum habes, quo mi- nime
exspectaveris, Iam cum necessarium non sit, ut res ab Al- cibiade narrata
saepius facta esse cogitetur, eius autem repetitio cum singulis ALCEBIADE
verbis no conveniat quidem satis, nihil ve- riti codicum
auctoritatem, quos in falsissimis interdum consen- tire vidimus, av
particulam un- cinis includendam curavimus. tivyyvfivacledS
at itpo v- HaXov pijv avrov . Vide quae annotavimus ad verba
xai 7 } ye <ptXo 6 o q> ia ed.p. 101’. Rem quod attinet,
semel fastam esse contendimus. Nam quod paullo infra legitnr
TtpoZfitu.- A ais ito7(\axiS ovdevoS napov- roS , ita intelligendum
est, ut, dum GYMNASTICA cxerceicnt So- crates atque Alcibiades,
saepius non aff uisse docearis, qui una se exercerent aut luctantes
specta- rent. xai ti deiXiyBiv, IJac formula dicendi
uti solent, qui sunt animo commotiore, remque sibi injucundissimam
quam fieri potest paucissimis verbis enarrare cupiunt. Accentus
autem orationis in Xkysiv verbo po- nendus est, quod praegnanti
si- gnificatu positum idem fere de- notat atque doXtxov xataxtl -
VBiv tdv A oyov. Quae sequun- tur verba ovdlv yap poi : nXiov rjy ,
recte Stallbaumius interpre- tatur: nihil enim pro ficicbam.
xa\ ovx — iit e tSijit e p lyx£X&ipVxy. Haec prorsus
conveniunt cum verbis supra le- ctis p. 216 0 aAXa iym 6y- XadcJ,
izeinep i/pbdptjr, ad quae verba vide auuotut. p. S50. aXXd
idt iov IjSrj ti idti to itpayya. Solent haud raro Graeci
scriptores commemorato eo , quod faciendum sit, addito- que, quod
non faciendum sit, 358 nAATSINOS
xcriLovfiai Stj ccvtov ftQog zo GvvSukvhv , dzc^yag tog- itCQ ipadzrjg
itaidixoig ImflovtevQV. xat fioi ovSe D zovzo za%v vnfjxovGtv , ofiag S ’
ovv %Qova indaftrj. ixudrj da atplxtzo to xquzov , Semv/jGag andvai
Ifiavltzo. xal tote fiav ai6xvv6iuvog dcprjxa avzov. av&ig da ijctflovAtvGctg
, httiSt] idcdiixvyxu , SisXsyo- fitjv 7 to(i$o) ztZv vvxzav , xcii
IzEiStj tfiovhEzo ajrta- quasi , quid faciendum sit , non
commemoraverint, id verbis paul- lisper immutatis atque aXXa par-
ticula adhibita oppositionis augendae gratia repetere. Idem igitur significant
verba £8o£ii pot iniSexkoy elvai rw avdpl xat a to xapzepoy et
IdxkoY i)8tj t L idn to itpaypa, Exemplum est huius structurae p.
210. O. pexa Sk toL imrrfdsvpocxa hei xaS iiet6xt}paS ayayeiv , %ya
i6y ctv imdTrjpcjy xaXXoS xai fiXkncov itpos txoXv i/Stj to
xaXdv pijxkrt to nap M Qtyanory — d A A.* liti to txoXtj itkXayoS
xexpap- pkvoS x. T, X . Wyttenbachius Bibi. Crit. V. I. P. I.p.
50. scribendum coniccit aXX Itiov hti to itpaypa, quafc scri-
ptura eo nomine nobis improba- tur, quod cuiu praecedentibus
verbis, quibuscum convenire de- bet, poi iitiSerkoy eirat rcJ
dvdpl xaxa rd xaprepov , multo minus, quam aXXa IdxkoY t/St}, tI
idn to itpdypa f conso- ciutur. Idtkoy verbum quod at- tinet, ub
Idtiv derivatum esseceo- seut iulcrpretes , ut seusus sit; videndum
est, exploran- dum est. Vide Butttnuiini Grarnm. ampl. T. II. p.
116* Nobis «b tidkycn semper deri- vandum cs»e videtur, neque
tamen sciendum e * t recte converti. sed faciendum est, nt
sciam. Vide annotat, p. 207«, p. 169. al. vSitep
ipadxijS 7 t aid txojs kitiPovXevcov. cfr. p. 213. C. xal xov
2co- xpaTTjj do 'Aya^cov, cpavai , opa, et pot InapwiiS' ce? ipdl
o TOVT0V ipcoS xov av^pooitov ov (pavXoy Ttpaypct ykyover x.
T. X. t quae verba nostris expii- cautur. Xpoyco , quod sequitur
est: multo tempore prae- terlapso. rd TTpdoxov,
dsinvifdaS. Olim posita ante T o TtpdxTOY di- stinctione haec verba
cum se- quentibus iungebantur . Quod ita recte fieret , si semel
venisset Socrates atque tum initio quidem abire post coenam
voluisset , post- ea vero a proposito destitisset . Quum autem tum
revera disces- serit , fuit utique ita distinguen- dum, ut Jactum
est inde a Bek- kero, llitckert. It 6 (i f> 00 TQOV Y v X
T 00 V h. C. in multum usque noctem* cfr. Piat. Protag. p. 310. C.
xai Ixi per iyextlprjda evSvS napd dh levat, 'intixd poi Xiav
nop- facd £8o£e zdoy vvxxuv elvai, ad quem locum Stallbuumius
lau- dat p, ed. 24.1 Aeschinem adv. Ctcsiph. $. 122. for} 6h
7tO{5()u rijS r)pkpa$ ovdrjS* Ceterum ne vcu, <Sxt]m6(iEvos , ou
otiis tirj, XQOSTjv&yxaGa avtov fiiveiv. avtnavtro ovv iv rjj
ixo/iivy ijiov xMvy , iv yitfQ IStinvu , xai ovSslg iv ta olxrjfiau
tiklog xa9- tjijSsv rj ijfis ig. ^XQ 1 ovv Sij Ssvqo tov bbyov E
xaXas ccv %ot xai tcgog ovuvovv Xtytiv tb 8 ’ iv- ttv&ev ovx av
nov rjxovGcns Ityovxog, tl (ir/ xqwtov ( iiv , tb Xsyofievov , otvog avsv
ts acudcov xai fisxa pluralem numerum mireris, vv- hteS non
noctes sunt, sed horae nocturnae, de quo significatu vvxxeS yocis vide
Stullbaumii annotat, ad Piat. Phileb. p. 158. Quod sequitur xai
inEtdi) ifiov- Xexo dnikvat, eodem modo, ut praecedens amkvai
ifiovkEto non convertendum est: abire vo- lebat, sed velle se
abire dixit. Vide annotat, p. 169. et p. 207. , * t
dxrjnx optv of , ori eXrj. Timaeus habet L. V. Pl.
^MjittOfiEvoS. npoq>adi^6pevoS. Kecte. Etenim qui ipse non habet
in se, quo aliquid probet aut ex- cuset , eum niti oportet in re
extrinsecus petita , h. e, npo- tpadet rivi- iv ty lx» /tcvy
l)iOv xXivjf. De horum verboram significata supra dictum est
an- notatione p. 838. ct 334. Prae- ter locos illic commemoratos
con- fer etiam R. Kubnerum ad CICERONE, TUSC. DISP., ubi laudantur Pind.
Olymp. I. init. prjd' 'OXvpniaS aya- ya (pkpxepov avdddopev
ibique Boeckhii annotat, p. 104. , Cic. T. D. I. 1. $. 2. : quae
tam ex- cellens in omni genere virtus In ullis fuit, ut sit cum
maiori- bus nostris comparanda ? xaXtiS aif A kyetv. Scriptum
exspecta- veris primo obtutu naXdjS av Hx<n ojSte npoS
ovuvovv Ac- xxkov elvai, Kai pro gjSxb po- sito vario modo verba
explicari possunt. Facillima explicandi ra- tio videtur ea , qua
post xai , Eivat verbi optativus subintelli- gitur. Optativum autem
sty recte omitti posse contendimus tura, quum antecedit, ut hoc
loco, alius verbi optativus modus , ex quo ille facillime eruitur.
Explica- tius igitur enarrata verba au- dinnt: pkxpt pev ovv 8r)
Ssvpo tov Xuyov xaXdtS dv %x ot C° iX eyov) xai eltj npoS
ovxtvovv Xkyeiv . itp&xov filv, — olvoi avev x £
naid&v xai pexa ital8a)V r/v «A tj $ r}$. Vetus proverbium :
olvoS xai aXjfSeia, ad quod hic respicit Alcibiades, Cfr. Athenaeus
II. p. 37. E, $i\6xopo$ 8k tprjdLV, oxi ol ni- yovxeS ov pdvov
havxovS kpipa- vlB,ov6tv ol xivkS eldiv , aXXa xai xgjv dXXoav
txadxov dva- xaXvitxovdi, na/ifiqdiav ayov- xes. oSev Oivof xai
d\?}$eia Xkyexai . Idem II. p. 38. B. Anr tiphanis versus laudat
hos: Kpvtyai, $eidia, anavxa xaXXd xiS dvvatx* dv,
nX?}v Svoiv olvov xe nivoav eis ipoora t* kpitEdQJV. 1
itaiSav jv dXy&js, imita &<pa V l<Sai ZaxQutovs %ov
vKQfoavov el s imuvov U&ovza &6ix6v fiot tpalvezui. apcporspa
fiTjvvEi ydp dito tc2v (3\EUpd.TGDV 7ca\ to5v A oyaov
rav$\ g)$te tovs dpvovpivovS fia\l($TGL roVTOVS XatCKpaVEiS
avrovs iroieiv . Schoh praeter notissimum oivo S Tioci aXrjSsia,
quod dici ait £n\ t<uy iv fteSj/ x t}v ciXt/Seiav Ac- yovrcov,
alterum proverbium lau- dat : ro £v ry xapSine rov v?j- q>ovroS
ini ry yXd>66y rov pt- &VOYTOS, Illud proverbium nostro loco ita
laudatur, ut verba addita sint dvtv re naldcov xal pexa Ttotidooy ,
quod additamen- tum vera crux fuit interpretum omnium, Ficinus
habet: Vinum «t cum pueritia et sine pueritia est veridicum. In
conversione Schleiermacheri legitur : Bis hier- her nnn kdnnte man
die Sacho noch unbedeiiklich iedermann er- sahlen ; das folgeude
aber wiir— det ihr wohl nicht von mir Jioren, tvcnn nicht zuerst
nach dem Spriichwort der Wein mit o d e r ohoe Kinder die
Wahrheit redete. Prorsus eo- dem modo Schulthessius verba reddidit
hoc tantum a Schleier- tnacheri discrepans conversione, quod
naidoov nomen Knaben convertit. Stallbauniius verbo- rum sensura
esse ait: vinum efficit, ut verum dicatur, sive PUERI epuli s
intersint, sive noa intersint; h. e, virium non pueros tan- tum,
sed alios omnes n d verum proloquendum s u- C1 tnt. Aliter nobis
videtur de limus loci explicatione statueu- dum'esse. Accurate
tenendum quae hio narret Alcibiades, ea ita proferri f ut errores
exponantur auditoribus, in quos ille olim inciderit, et quibus
prae- senti tempore non amplius ob- noxius sit; Colligitur hoc
cum ex «diis locis, tum e verbis p, 217. A. yyovpevoS 8'e av
rov £<jnov8axivai fnl ry £py d/pa Bppaiov ?}yrj6dp?/v elvat x.
r. A. fieri autem solet haud raro, ut aliquis, quem dirus error
olim vexabat, ubi ab eo 'liberatum se sentit, ipse in errorem illum
quo- dammodo illudat. Neque pugnat hoc cum aestimatione ea, quam,
qui nunc vivant, significantius quam rectius, egoismum vocant.
Nam qui erravit, errorem autem agnovit atque correxit, is magna
cura hilaritate animi alium, atque fuerit antea, se nunc esse intelligit.
In errorem igitar illudens aliquis, cui olim obnoxius fuit, non tara in
se illudit, quippe ab errore liberato, quam alteri illi, qni errore
devinctus fuerit atque qaasi ob- caecatus. Non mireris igitur,
Alcibiadem ipsum sibi illudentem induci verbis p. 217. A. Itppo-
voyv yap 8 rj ini ry copae 5av- padtov u6ov y neque mirum, eundem etiam
verbis olvoS av ev re 7t ai 8 cov x al pera itai - 8 cjv tjv
uXrjSpS gravius in se invehere. Respicit enim ad er- rorem illum
Alcibiades, quo ex- istimabat, fore, ut servo remisso, quem secum
habere solebat, So- crates opportunitate loci gavisus ad AMATORUM
modum secum col- loqueretur. cfr. p. 217. A. ravra ovv SiavojjSets,
xpd rov ovx eIgjS&S avtv axoXox>$ov pavos pet avrov
yiyvEdSai , tore unant pnw %av dxoXovSov po- ht bl to rov
8q%&tvtog vito rov cos sea9og v&\£i t%u. (patii yaQ itov rcvcc
rovzo itu&ovza vix iftiktw voS Cweyiyv6f.n]v. — tivveyi-
yvoprjv yap , — jiovoS juovWfXal difirpr avxlxa StaAl^euSai av- xov
ficn aizEp ctv ipatinjt nai- dixoiS iv iprjpia diaXexSeirj, nat
Hxaipov. Ad hanc igitur rem respicieus, cumque errorem tatis lepide
taugeus, Nunquam, inquit, hoc ex mc audituri essetis (j&v —
vxovtiart) si proverbio illo vinum, quod neque praesentiam
neque absentiam servorum curat, non esset veridicam. litEixa a<p
av l6ui — epalv erat. Cum praecedat eI pi} Trpwzov pev — r\v ,
scriptum exspectaveris btElxa — aStxov /tot itpaivero. Cavendum est
autem, ue quis loquentis scribentisvc uegligentiae imputet, quod augendi
sententiae yigoris caussa commissum est, ut incepta verborum
structura re- linqueretur. IlpGJTov plv — iVrcz- xcl hoc loco Lat.
vim habet: c u m — tum potissimum, istud potissimum autem
mutatione structurae efficitur. Ceterum dtpavidai verbum minus
«apte 8ch)eiermacheras reddidit: ver- bergen, neque rectius
Scholt- hessius: verhehlen. Aliud quid Alcibiades atpavidoti verbo
expressurus erat. Facinus illud nemini nisi Alcibiadi atque So-
crati notum, neque verisimile erat, Socratem quidem cuiqnnm eius
narrationem facturum esse. Intolligit igituf Alcibiades, rei
memoriam prorsus perituram esse, nisi ipse eam divulget. Iam
dcpavtunn verbum quid significet, inteliiges. Est enim , quod nos
dicimus, etwas der Kenntniss der Welt giiuzlich s entziehen. Ad
V7CEprj(potvov Uuckcrtus ; vnepij- <pctvov , inquit, voci h* 1.
grata quaedam ambiguitas est ab ea- que persona , quam hic
Alcibia- des agit, minime aliena. Homo enim , qui sentiret quidem
veri- tatis vim, quae ad morum honestatem spectat, at uon agno-
sceret, ne se cogeretur accusare, nonne Socratis hoc facinus po-
terat pro superbissimo habere? immo debebat, qui tantam suam
pulcritadinem tam foede contemaisset. Ne multis hanc sen- tentiam
perstringam, quae meo quidem iadicio falsissima est, ct qua prorsus
pervertitur scripto- ris consilium, verba laudare suf- ficit p.
217. A. i<pp6vovy ydp tir) ini xjj &poL Savjiddwv
odov. iri 6'e r 6 rov drjxSir- XoS x. x. A. Triplex
caussa est, cur Alcibiades cum convivis impertiendum censet, quibus
modis Socrati sit insidiatus. Vini hausti vim veridicam iu supe-
rioribus commemoratam habes atque augendae Socraticae laudis studium.
Tertio loco viperae morsus commemoratur, quo ct sd laborasse
Alcibiades narrat. Nescimus quidem , quid facere soleant atque loqui , quos
Vipera momordit. Non dubium est au- tem, quin Alcibiades eos iusuniu
quadam corripi significet, qua circumacti et agant et loquantur,
quod sanis hominibus non possit non mirum videri. Et qneniam ipsum
se gravioris viperae morsu 218 Uyuv olov r\v itXrjv roig SiSr^y^ivoig , wg
f. tovois yva- Oofitvo Jg ze xal OvyyvatSoutvois , el itixv izoXfia
&quv rs xul Xiyuv vito rijs odvvtje • ly® ovv Stdtjyu,tvos ts
vito ttXyuvoziqov xcii ro aXyuvozczzov wv av ttg Sij%9sli] — z rjv
xaqdtav yug r; ipv^tjv tj o zt Sei avzo vvouaOta xXtjyels zs xal
S>ix&tls vad zmv Iv (fiXoColaesuro indicat, vehementiore in- sania
se circumactum describit, qua fecerit atque locutus sit, quod
paullo infra exposituro ha- bes. Morbo igitur, cui obnoxius fuerit,
facta et dicta excusatum iri sperat convivis, quippe qui eosdem
illius morbi dolores per- pessi sint. Qui si non perpessi essent,
nunquam se commissurum fuisse, ut ipsis illorum narrationem exponeret,
iyoS ovv SeSijy pivoS" x. r. X. Stallbaumium audi
egregie de horum verborum structura disserentem : Anacoluthia,
inquit, prorsus egregia et rei ipsi accommodato, quippe quae loquentia
impetum animique commotionem , qua de illo dolore loqui- tur, plane
exprimat et veluti imagine aliqua repraesentet. vxo dXyetvor
ipov xal ro dXystror arov, Suspecta nobis est xai vocula, quae
quam- quam explicari potest, tamen, quod vehemeutissimae orationis
impe- tum paullo impeditiorem reddit, huic loco minus convenire
iudicamus. Amant autem veteres commotius loquendi genus edituri
copula addita nulla verba iuxta ponere, qualia sunt vno aXyei -
vozepov ro dXyeivozazoY. In- terposuit, si quid video, >caL, qui
desiderabat, quorsum praecedens re referret. Dicturus autem Al-
cibiades erat: iya o&v 6e6rfy- pevos re xal nenXtiyplroS
vno dXyeivozepov ro dXyeiYOtazov X. r. X.j sed mutata inter
lo- quendum voluntate xal nenXijy- pevoS vetba reticuit, atque
iis sequentibus exhibuit nXrjyeis re xal An fortasse rectio-
rem verborum juncturam censes esse : iyco ovv bedrjypevoS re
— xal — nXi/yeis re xal 8rjx$ets ? Non crfdo equidem, ideoque,
ut quid rectius esset, interpunctione rectiore legeutium oculis
indica- tum sit, post ovopadai comma ponendum curavimus,
* xi] y xapdiav y a p — - ovo patiat. Sensus est: Die Worte
des Socrates erregen ei- nen unerklarbaren , heftigen Schmcrz : man
weiss nicht, ob mati korperlich oder geistig oder wie sonst leidet:
gewiss ist nur das Geftihl der Verletzung und der
Zerrissenheit, o*l ^ovrat x. r. X.*Exov- rat verbum ne
careret casu suo, Rostius V. D. comma delendum censuit post
dyptcozepov , idque post aqwovS ponendum curavit. Quo facto vide,
ne orav XdfiooY- tat verba' admodum frigeant. Neque necessarium
esse contendimus, ut Ex £( 5$ at verbum, ubi firmiter inhaerere
signifi- cat, rem , cui inhaerere aliquid dicitur, semper adiunctam
ha- beat. Graeci eodem modo at- que nos : Welcheschreck- (pia
Uyav, o'l fyovm i%i8vt]s aygiditEgov , vlov Iwyjs (ii] acpvov s oxav
Adfiavtcu, xal itoioiiai i)gdv te xal Hyuv ortovv — xal ogcSv av
QcdSgovs, ’Jya9covas, ’EQv£iud%ovg , JlavGavlas , 'jQiazodrjuov? te xal
’Aqi- u crocpuvag' EaxQar rj fil avrov r t SeI xal Xiyuv, xal oooi
aAAoi ; xavces yag XEXOWavqxcnS xrjg qwloOocpov lichcr ais Nattern
haften, w e d n sie einmal orst an einem iugendlichen Her- z
e n Anhalt gefunden ha- be n . xaVApidxoqxxv aS. Vulgo
'ApidxotpdvEtS legitur. Illud cod. Bodl. habet, idque cum Gramma-
tici praecepto convenit in Bek- heri Anecdot. III. p. 1131^1 81 xal
xovxo yirudxEiy, Zti ol \ Axxixol iiti xd)V Eis 7/? , eis ovs i*oVr
cor x ?}v yEvixrjy , xal iic\ xqdv xcqjct x 6 E$oS 8ia x ov a icoiovdi
tfjr alxia- Tixrjv xooy nXrj^vyxixcoy , olor 6 Ar\yLOd^brt\S , x ov
drjpod^i- vovS , xovS drjpiodSiyaS , o ’Aptdxo<pdvrfS , xov
*Apidxotpa - yot;? , xovS *Aptdxo<pdvaS .Nomina propria prorsus
eodem modo plurali numero poni cen- set Engelhardtus ad Piat.
Menes', p. ed. 204., quo nostrates haud raro de singulis viris
loquentes plurali numero utantur. Hoc recto quidem annotatum ,
sed inde nou iuteliigitur , qui fa- ctum sit , ut et Graeci et
no- strates singulorum hominum no- mina plurali numero
exhibeant. Neque tamen diu quaerenda est huius dicendi usus caussa.
Brevitatis enim studio ut Graeci, ita nos pro: indem ich Manuar
sehe, wie Agathon , Eryximachu» cet. dicimus omisso verbo, quod
plurali numero positum est, atque ipso illo uumero ad nomina propria
translato : indem Ich Aga- thone, cet., sehe, Scoxpdxrj 8%
avtovXiysiY. Ne mireris, cur So- cratem hic commemoret Alcibia-
des, nbi non nisi eorum mentio erat facienda , qui eodem modo atque
Alcibiades Socratici ser- monis aculeis laesi sunt : Alci- biades
hoc agit, ut ostendat, se nou nisi cum iis mala, quae perpessus sit,
impertire, qui ipsi iis obnoxii fuerint. Iam cum re- censeret
omnes, quos sibi socios putaret morbi illius , Socratem forte
conspiciens, quid istunc, inquit, commemorem, morbi auctorem? Ceterum
versus laudare iuvat petitos ex epigrammate Meleagri, quibus Diopysii
alicuius amator non nisi eos alloquitur, qui ipsi amoris flammam
sense- rint ; Meleagr. Epigr, XVIII, "WvXpOTtOtai
6vSEpCOXES , vdoi <p\oya x r/y cpik6%ai8a of3are, xov
mxpov yevda- . flEVOl flijLlXOS , Ipvxpoy vdcop yiipaif
ifryxpoy , xaxoS t ctpxi xccxEidrjS lx zioroS xy ‘MV aepl
xpaSiy . Quibas auditis omnes, qui non auiant, hominis
insaniam ride- bunt videlicet frigidam sibi circa praecordia
circumfundi iubentia. tijS <pi\o6oipov pavias XE xal
ftaxxdaS. Haec verba fiavlag te mu (iety.ydag' Sio ftdvtES uxov6e<S9e.
avy- yvioOEO&E yaQ Toig rs tote tcqc<x9eIoi xat roig vvv
Xeyo[tivoig. ot da olxircu , xcil il' r tg «AAos toti /ti-fiq- P.og te )
icti dyQoixog , avlag nuvv fisyteXag roig wtfiv fatl&tif&t.
Cap. XXXIV. 'EheiSi] yaQ ovv , io kvSqeq, o ts kvyv og
C xei , xal oi nalSsg a|(u rfiav, ?do|s' ftoi XQtjvai fit/div xomU.Eiv
noog avzov , akV tAao^aowg eixeiv d f wi praecedentibus
explicantur p. 218. A. nXrfyeis re xal fo/jfSeis' vito rav iv
<pi\o6o(pioL Xoycov, ol SI ohikx cli x. r. A. Cum in
superioribos dixisset Alcibia- des p. 217. E , vinum veridicum esse
sive servi narrationi inter- sint , sive non intersint, nunc rursum
servos iubet aures occludere, ut ne verbuqi quidem audiant, Num forte sibi
contradicere censes hominem ebrium ? Non credo , # quamquam
contradictionem verbis inesse non negamus. Notum euitn fuit Alcibiadi quoque,
quod Ovidius ait: Nitimur in vetitum semper cu- pimusque
negata, atque ut magis pateat, vinum etiam servis praesentibus
veridi- cum esse, servos, quos tibi finge arrectis auribus
adstitisse cupidissimos audiendi, ne audire velint iubendo, ad audiendnm
alacriores reddit atque paratiores. IIoc efficitur etiam eo, quod
ad versum Orphicum Alcibiades re- spexit : cpSeyZopai ols
SifiiS fori • S vpotS S* iitiSetiSt (tiftrj- Aoi, qua re
animadversa quan- tam omvuiuin ctuses luis .e ex-
spectationem futurae narratio- nis ? yijSlv TtOtxiXXElY
itpoS avtov. Vide annotat, p. 99., tibi de icoixiXoS nominis
significatu dictum est. Possis itotxiX- A elv li. 1, explicare : non
ob- scure, quod Stallbaumio pro- bator, sed ambigue loqui,
quaudoquidem varii coloris oratio ita comparata est, ut quem colorem
habeat, nescias, et quou- iam huiusmodi oratio comploret colores, qui cum
significa- tionibus comparantur, repraesen- tat, complures
significationes ha- bere h. e. ambiguam esse recte dixeris. Facile
autem iotelligi potest, qui colorem cum Significatione orationis veteres
com- paraverint. Ad consuetudinem enim respexerunt AMANTIUM,
qui floribus arte consertis sibique invicem missis exprimere
solebant,' quod claris verbis indicar* me- tus prohibuit aut pudor.
Non obscure anlem floribus missis, sed ambigue, quid vellent,
ex- primebant, vel nihil omnino, ut videtur, exprimebant, sed e
mo- do atque ratione, qua, cui mise- runt, is flores exciperet,
missos- 'm idoxn. xal
UTtcrv xivyGag avzov. UtixQaz tg, xcc% tv- dn$ ; — Ov drjza, ?; d’ os- —
Olo&cc ovv a (101 6 tSo- Kica ; — Ti (laluSza ; i'ipy. — £v ijiol
doxus , >}v d’ iyto , ifiov igaOrris a^tog ytyovivai (lovog , . xal
(ioi (palvu oxvstv /avt;(>&t]vtu xqos fic. lyd> 81 ovxaoi
i/to' mxvv dvoryzov yyov(iai tlval 601 fiij ou xal zovzo
XaglfcO&ai xal tl' xi alio fj xtjg ovGiag xrjs tuijs dtoto y xav
(pllav xav Ifiav. ifiol (ilv yccg ovdtv lou, xge- D GjivxeQov xov a>s
oxi fiilx usxov ifis yivLo&ai, zovxov 8 ’ olfiul (io 1 OvllrjitzoQa 0
vSivu xvquozcqov ilvui Gov. iya 8y xolqvuo avdgl itolv (idllov dv (iy
%uql£6[ie- qae interpretaretur , voluntatem eius explorare
solebant» xal einov xivf/das av- xov. De xiveiv verbi
sicnifi- cata vide annotat, p. 29. , ubi etiam hic locus laudatus est.
xi paXidx a ; Itpr/. Ma - Xtdxa interrogationi additum ef-
ficit, ut is, qui interroget, cu- riositatem prodat sciendi, quid
sit id, quod modo audive- rit , aut quo sensu dicatur, cfr. riat,
Menon, p. 80. D. 2. 7tcf vovpyoS e 1 , cS Mlvcjv t xal 6- X iyov
iZTjTtdxrjtiaS pe. M. xi pdXidxa , c3 2ooxpaxt5 ; xai poi
tpaivei oxvelv pvT/dSijv ai icpds pe. cfr* Alcibiad. I. init. 2.
nai KXei - viovy olpaL <Se SavpaZeiv , oxi 7rp(Zxo's ipadx?js
dov yevope~ voG y xcjy aAAcov nexccvplvcDVy povoS ovx ctnaXXdxxopai
, xal oxi ol plv dXXot 8t o^Aot» iye- vovxo 6ot SiaXeyopevoi ,
iyaa xodovuov ixcov ov8l irpoZ~ einov. iy co 81
ovxcodl 7t:dvv avo?/ xov . Praeclare Stallbaumius ad h. I. : Quae
inserviunt, inquit, explicandis verbis ovxcodl &X 60 j ea de more
advvSixcoS adduntur. Quam loquendi rationem , quum nou te- nerent
grammatici , pro scripserunt , quod in vett. editt.
migravit. 6v8iv Idxt xpedfl vxe- p ov . Mihi nihil antiquius
est, proprie : nihil, cui malim primi loci honorem concedere, quam
huic. Vide annotat, p. 128. xovxov 8’ olpal pot
dvXXi/itxopa x. x. X. Sensus est : neminem esse rcor, qui mihi
integrae huius reiadiutor te sit potior. In oinuibus fere codicibus
pov legitur pro poi , quod Stallbaumio unice probatur
propter structuram dvXXtxpfiavEiv verbi* Coniongitur enitn plerumque
cum genitivo rei atque cum dativo personae. Hiickertus dativum
pronomidis cum elvai verbo cohaerere censet. Dativus pronominis commodi potius,
quem vocant, dativas est, atque recte ad totum verborum complexum
re- fertur. Apposite Stallbaumius vog al6yvvotfirjv tovg (pgovipovg
, rj %agi^6pBvog tovg tb itoXXovg xal acpgovag. Kal ovtog axovdag
pdXcc tlgovtxmg xal Gcpodga lama slco&otag IXb^bv * f Sl {pile
’AXxifhadr] 9 xivdvvivug ta ovrt ov (pavXog dvai 9 E bixeq abj&ij
tvy%avsc qvxcl a A iysig xegi epov, xal t ig i(tv* iv ipol dvvaptg ,
<5V qg dv dv ytvoio dfislvav, dfirjxccvov tb xaXXog ogarjg dv Iv Ipo i
xal vijg xaga dol BvpLOQ(plctg itapnoXv dcafpegov. il dfj xa&ogriiv
avto xoivaGadftai %b poi im%eigeig xal aXXd£aGftai xaXXog dvxl
xiXXovg y ovx oXiycp pov xXbovbxvbiv diavoeZ , iXX laadat Xenoph.
Memor. II. 2. 12* ira — ctyaSov doi yiyvrjxca dvAXt/nz&p*
i dprjxavov te xdWoC o- p gStjS a y . Locus admodum
salebrosus, quem sine novorum codicum accessione nunquam ita
restitutum iri puto, ut, quid Plato scripserit, legere tibi videare.
Ia Bodleiano cod. aliisque perpaucis pro re legitur roi, Aid. Bas.
alii non pauci rl exhibent, quod Bek- kerus recepit colo post a/uivGov
posito. Aliam rationem Schleier- macherus iniit, qui dpijxavdv te
cet. verba cum praecedenti- bus 8i’ rjS dv dv ykvoio ajxei- vgdv
connectenda censet hoc sen- su: — wenn das wahr ist, was da von mir
sagst , und es eine Eigenschaft in mir giebt, durch welche da
besser werdea konn- test, und dann eine gar aonderbare Schonheit an mir
erblick- test, die deine Wohlgestalt um gar vieles ubertrifft.
Stallbau- mius veterem lectionem, h. e. zl 9 retinendam ceoset
eamque distinctionem singularum orationis par- tium edidit, ut verba
dpTjxavov te cet. e praegresso ehtep aptentur. Sententiam verborum
hanc esse ait: videris profecto non contemnendas esse, si
quidem vera sunt, quae dicis de me, hoc est, si in me vis quaedam
inest, quae te reddat meliorem atque cernere in me potes et
conspicere immensam p ul cr i C ud i ne m tuaque formositate multo
praestantiorem. Recta Stali- bauraium via incedere mihi qui- dem
persuasissimum est, sed est tamen, quod me male habeat; av
particula cum ei potest quidem coniungi , uti docueruut , quos
/itallbaumius laudat, Schae- ferus Melett. Critt. p. 50., Ap-
parat. ad Demosth. III. p. 155., Schneiderus in Addoud. ad Xe-
noph. Politic. p. 472., Heindor- fius ad Protag. p. 535., Herman-
nus ad Vig. p. 830., sed admo- dum dubitari potest, num ea hoc loco
Plato usus sit, ubi verba praecedunt 6i' tfS dv dv yi- voio
apeivov. Quis enim non videt, av particulam, quae in his verbis comparet,
facillime ad no- stra verba transferri potuisse ? avtl 6 6 $tjS
aXr}$ eiav HtzXcovh. e., Stallbaumius in- avr\ tioJ-rjg aAqfteiccv
xuAcov xx aoftai iiti%siQBig , xal 210 tg) ovrt %qv 6sa xaAxetav
dia{ts[ps6ftca voslg. &AA’ , cS fiaXCiQLE , ttflBLVOV tiXOTCEL,
(ITJ 6 £ AavftaVG) Ov 6 iv G)V. ij rot rrjg diavoiag oipig aq%ttai
o£i fiAixsiv, oxav tj tixiv dppaziQV tijg dx^iijg Aqyuv liuxsLQy* <5v
di xov- rav Hxi Jto$QCO. Kayco axo v<Sag> Tct fiiv tcccq*
Ipov, i(prjv, tttvz 9 Itixlv, ©i; ot5(5«> aAAag Bifnjxai tj cog
dia- voovfuxi ' 6v di avxog ovxgj (IovAevov , o n OoL xs
&qi(5xov xal ifiol rjyBt. *Ak A f y £cprj y xovxo ys sv AiyEig.
Iv yCCQ TG) IsUOVU ZQOVCp POVAEVOIIEVOL TCQa^OyLBV o Sv
qnit, arx\ xaAdav, a 8oxd xa * A a elvai , xxadSai imxeipels xa -
A*r, a l6xiv aJs aArfScoS. In proximis alludit ad Ilom. II, «?. t.
234. m Ev$r* avte FXavxcj KpoviSjjS (ppira* i&iAexo
ZevS ds npoS Tvdeidtfv 4i o/u/Sea xevx** upsifie Xpvdea
x a Axei&v 9 hxaxopfiot ivveapoicov. r\xot x ijs dtavoiaS
oif>iS X» X. A. Errant interpretes, qni potant, verbum reperiri
verna- culum, quod xoi vocabulo re- spondeat. Neque probem ,
quae Stailbanmii sententia est, ailir- mandi vim et significationem
ha- bere xoi vocabulum in sententiis communibus. Significat
potius, sententiam, cni additum sit, communem esse, eamque ideo et alias
et nunc valere. Rectissime Schleiermacherus spretis vocabulis, quae
xoi particulae respondere arbi- trati sunt interpretes , j a , j a
doch, aliis, verba reddidit: Das Auge des Geistes f ii n g t erst
an scharf zu sehen, wenn das leibliche von seiner Schiirfe schon v
e r- lieren willj minus apte, quae sequuntur, hoc modo
annectit: und davon tiist du noch welt entfernt. Fines enim
sententiae communis hoc additamento sub- latos habes atqne omnem
seuten- tiam cum reliqua oratione male commixtam. Recte in
contexte oratione colo praemisso scribitur 6v 81 xovxaov hi
xoffyao. Re- stat, ut verbo commemorem Rtik- kerti opinionem
censentis , xoi h. 1, argumentationi inservire, cuius loco etiam
ydp particulam poni licuerit. Qua ratione Rtikjcertns vehementer errat,
si Pro- methei verba in Aesch. Prom* Vinct. r. 700. explicanda
censet, A iy\ ixdidadxs' xois vodovdl xoi yAvxv ( ro'
Aotuov akyoS npovZeni- (SradSat xopcoS. cZ>v ovdlv a AA«?
efpq- xa ix. X . A. cfr, p. 218. C. :UdoiU yoi xpijvat itoi-
xiAAeir xpos avxov, aAA' iAev- SipcoS eindv a poi idonei. Sensus
est: Dixi, quae dixi, neque quicquam eorum aliter, atque
sentio, edi- ctum est. 6v 8 i avxoS ovtoo ftov - Aevov.
Verba convertit Fici-* B tpalvrjxai vav xcsqL ts xovtcov xal xeqi xdv
aU.uv uqlGzov. ’Eya (ilv 8t] xavtcc axovOas re x«l tlmav, y.al
dtpilg Sgnsg ficXt] xizgaG&at avxov Ojirjv. xal dvciGxdg ye , ovdh
Ixizgtipas rovtio tintiv ovdtv Ixi, K[icpd<Sas xo iy.dxLOV xo ipavxov
xovxo — xal yug ijv nus : tu autem ita dei i b e- ra, ut et
tibi et mihi m e- lius fore censes. AvxoS vocabulum reddere omisit,
iu qua positus est acceutns orationis. Alcibiades enim cum
dixisset, quid sibi videretur, ne ulterius progrederetur atque
nimiae auda- ciae crimeu fugiens : tu autem, inquit, quasi meam
senten- tiam non aperuissem, ad meam voluntatem pror- sus non
respiciens, ipse te cum delibera. axov6aS re xal e Iit id
v. Exspectaveris fortasse inversum ordinem participiorum, quem
re- vera in conversione exhibuit Schleiermacherus ; Nach
dieser E ede und Antwort. Felicius rem expediit Schulthessius; Das
war die Antwort auf meiue Ucde. xal atpels &S7tep
fiiXy, ' Inteilige x ovS Xoyovf. Solent enim ^ verba
Stallbaumii sunt, quae vel acute vel acerbe in ali- quem dicuntur,
cum telis com- parari. Similiter Latini dicunt verba iacnlari,
vibrare, torquere. — cfr. Piat. Pro- tag. p. 34-2. E. ei ydp
iScXei xiS Aaxedaipovi&v tc.l cpavXo- rccTcp tivyyevEtiSai, x d
y\v no\- Arr iv xols XoyoiS evprjdEi av- rov (paivvptvov , terra:,
oitov av rvxv tdSr A eyojiircoV, kvk- fiaXe pijfia dt,iov Xoyov
fipaxu xal dvvedxpappkvo v ooSizep 8ei- voS axortusi/js ; Similis
Grae- corum Latinorumque dicendi usui formula est, qua
nostrates ntnn- tur de bullis paparum: deuBann- strahl schleudern.
Ceterum pauciorum codicum lectio est pkXij, vulgo fitXet legitur, quod
emen- dandum esse Abreschius Lect. Aristaen. p. 207. primus
vidit. d p <pti 6 aS rd Ipdxiov xo i p avxov xovxo.
Libro- rum plurimorum lectio est X ov- xov j vulgo xovxo, quod et
Fi- ciuus habet iu conversione: sur- gensque ue verbum quidetn
ulte- rius loqui permisi: et hunc amictum, quem videtis,
circumdans (erat enim liiems ) snb strato huius pallio veteri recubui.
Vulgatam lectiouem reieccrunt editores, quod non veri- simile esset,
Alcibiadem eodem pallio usum esse, quod aliquot annis ante
gestasset. Sed vide, ue praepostera haec sit xovxo vocabuli
interpretatio. De eo- dem quidem pallio verba acci- pienda sunt
Piat. Protag. p. 335. D. xal Itpa xavxa elncov avi- 6xdpt)v cd?
dniGQY. xal poo dvioxapivov iTuXapfitxvixai 6 KaXXiaS xi}S
x&ipoS xy 6et,nx t xy 6’ dpidztpa dvzeXd/jtzo zuv zplficovoS zovzovl,
xal thcev w verba nostri loci non item. Tovio enim nihil aliud significare
vi- detur, qunm Alcibiadem tum trni- poiris simili pallio indutum
lu- isse, atque quo nunc utatur. Quiil igitur proh.bet,
quominus yU/lUV — VICO TOV TQtfiaVK XOUCjtklViig TOV TOVTOvt,
TCiQijicdiov rta %£iQ£ tovup tu dcafiovico wg txb/9ag xai
&av(ia<STtp , xartxdfuiv tijv vv/.vce okt/v. sml ov&s C ravta
w Zoixgareg , Igdg ori lpivSofiai. 7 iou)okv- rog de brj Tuvtce i/iov
ovrog toGovtov TCtgityLvtTo^ censeamus, pallio suo, quali
hibertio tempore uti consuesceret, iudutum Alcibiadem Socraticum te-
gumentum subiisse? Tov- tov autem lectionem ideo improbamus, quod
dubitari nequit, quin alius verbi participio usu- rus fuisset
Alcibiades, si expri- mere voluisset, se Socrati in lectulo iacenti
pallium superim- posuisse, Sin forte statuas, Al- cibiadem eodem
pallio, quo ipse esset indutus, etiam Socratem involvisse,
repugnantem ordinem verborum habebis, quatenus qui- dem scriptum
esse deberet: vito tov Tpiftoova xaraxXivels tov rovrovt, a/uputia?
r o ipatiov ro ipavzov tovzov x. r. A. vito tov Tpifiaova.
Schol. ad h. 1. Tplficjv , inquit, idrl (StoXij TiS foveto Grpitla
cj$ ypajiijiuzior Tpificovtov 81 l/td- tiov itaXatov xai
zezpip/iivov. Hoc scholion iam Fischerus im- pugnavit annotat, ad
h. 1. rectissime, Non est autem dubium, quin recta sit Stallbaumiana
rpi- fSoov vocabuli interpretatio: pal- lium longo usu
detritum, quale solebant gestare philosophi. Hinc iocum expeudus
Aristophanicum in Nubb. v. 175. ed. Reisig. atque risum auditorum ,
qui cum audissent, Socratem nocturno tempore lunae vias atque
cursum ore hiante spe- ctantem a stellione maculatum esse, iiuuc
etiytra pallio illo detrito privatum docerentur, quod ille in- ter
docendam deposuerat. Ver- sus Aristopliauici adhuc non sa- tis
emendati, ut videtur, ab in- terpretibus hoc modo scribendi snnt
: M. ix$eS 6£ y* tjph> 8a7itvov ovx tjv hCntpaZ .
2. elev • zl qvv npos xa\<piz inaXapydaTO ; M.
xaxd xijs rpait&tyS xara- nadaS Xenxijv t ecppctv xdutftaS
ofteXidxov , eira diafitfirjv XafSoovZx tiS itaXaidrpas Solpa- tiov
vipdXezo. Quoniam autem sentit Strepsia- * des, a discipulo
aliquo pallium ablatum esse, pa^TjTUVy inquit, h. e. discipulus
esse cupio So- craticus, ut eodem modo aliquid furari discam,
xa\ o v 8 £ T a.v x a, do 2 co- xpctx£& Bekkerus post
zavza posuit au, quam voculam vulgo edi solitam Stallbaumius ex
plu- rimorum codicum ' auctoritate ta- cite expunxit. Eam reposuit
in texta Ruckertus. Iuiuria. Nam si scriptum exstaret : xai
ovx ipels av , gJ 2boxpaxa $ , ozi zavza ifievSopat, illa
particula vix csrcre possemus. Oude zavza autem cum legatur, ov6i
voca- bulum illam particulam in vicinia poni nullo modo patitur.
todovtov itepieyiv et o. Ia his rodoviov dictum est
8ai- xzixuS et per quandam exclama- 24 ts xa\
xaTS<pQ 0 VT]as xid xaxtyikaae xijg l(t!jg agas xu\ vfigioe' xaljteg
ixsivo ye $(ir]v xi elvat , a SvSqis Sr/MOtai' dixocaxal yag laxe xrjg
Eaxgaxovg vxsgr t - tpavictg. tv yag Xaxe, (id 9eovg , fid &eag ,
ovSlv £ xtgixxoxegov ‘ xaradedagdxjxdg uvtaxqv fiexd Eaxga- xovg ij
tl (iexcc nsngbg xa&?jvdov ij &8ek<pov xgecsflv- regov.
tionem , ut sigpificet: mirum quantum me vicit. S t a 1 1 b.
Dubito, nura huias structurae ex- empla reperiantur apud scripto-
res. Ut nobis videtur, aliam verborum structuram camque le- gitimam
quidem Alcibiades in mente habuit, qua altera quaedam enuntiati pars per
«oSfce par- ticulam praecedentibus annexa ef- fectam tov iCeptysvid^at
de- scriberet. Fortasse ita dicturas erat : noiydavxoS 8 'k x avtct
ipot 1 ovxoS rodovrov leepieylvexo , <3 sxe xal xaxatppovydai
xal xa- xaytXdoai xrjS if.njs &paS xal % 'fipidai. Amat autem
interdum oratio concitatior legitimae ora- tionis vincula spernere,
atque prout in buccam venerint, verba verbis adiungere, id quod
no- stro loco factum est. xalitep ixeivo <ppyv n
ttvai. cfr. p. 217. A. ig>pd- vovv yap 8rj ixl xy upa $av-
paOtov odor, quibus verbis opti- me expositam babes , quid sit,
quod nostro loco adhibitum est rl slvai . Discas autem ex huius loci
sententia repetita, quanti olim Alcibiades formosi- tatem suam
uestimaverit, Cete- Tum ne mireris , Ixetvo vocis neutrum genus
positum esse, non femininum : exeivyr nihil aliud denotaret, quam
xyv cjpav> ixei- vo coptra paullo latioris signi- ficatas
est atque cum emphasi ad verba refertur : # ipy wpat. f)v8lr
itepixt ot£pov, Colon ponendum curavimus post itepixxdxepov, quo
vigorem ora- tiouis incredibiliter augeri sen- ties, atque quoniam
fortiora sunt, quae sunt breviora, sententiae vim maguo opere
corroborari. Scitote etiim, Alcibiades inquit, nihil praeterea.
Quae sequuntur verba, praecedentibus verbis explicationis caussa
addita, de more adwdtXGjS an- nectuntur. y el pexa icatpoS.
Ne- pos ad hunc locum respiciens, Vit. Alcibiad. c. 2, In e
ante, iuquit, adolescentia amatus est a multis more Graecorum, in eis a
Socrate, de quo mentionem facit Flato in Symposio. Nsm- que
eum induxit comme- morantem, se pernoctasse cum Socrate, neque
ali- ter ab eo sarrexisse, ac filicfs a parente debuerit. y
aSeXipov it ped fivri- pov. Ne mireris, hoc loco ira- trem natu
maiorem commemo- rari, cum possit sola fratris no- tio ad rem
sufficiens videri : npedftvxipov non ideo additum est, ut significetur,
quod de fra- Cap. XXXV. To St] (lixa rovr o riva o&is&e fie
Siavoiav £%uv, ^yovfuvov fiiv otjrifuxo&ai dyct/ievov de xi)v
rovrov tptioiv re xai eocpQoOwijV xai avdQilav, lvrtxv%riitbzct
dv&Qejncf) roLOVtu , oZ » eyw ovx av afirjv note Iv- rv%elv tlg
<pqom]0lv xai elg xaQrtQMV ; wg re ovff’ oza>g tre natu
maiore valeat, id non item de fratre natu minore va- lere , sed ad
Socratis aetatem Alcibiades respiciens , cum cum patre atque fatre
natu maiore comparat. riva ofedS- £ jie 6ia-
voiav De interroga- tionibus mediae orationi inter-
positis saepius iara diximus. Vide annotat, p. 60. Paullo supra eo-
dem modo p. 216. D. legitur SvSoSev 8k aroLxStkk TCoOrjS ot- e6$e
ykfiEi f a avtfJES Ovpno- tat, 6<*)<ppo6vv?]S ; Efficitur autem his
dicendi formulis, ut at- tentiores ad rem auditores red- dantur,
aut, quod in nostrum locum cadit , ut rei narratae vis
amplificetur. xrjv xovtov (pvdiv. Verba convertit
Schleiermaclierus : und doch aucb an des Manues Natur — mich
erfreute. Dubito, num vernaculum nomen Graeco nomini satis
respondeat. Solent Graeci commemorato nomine aliquo, quod totam
aliquam rem in se conti- neret, per xi — Ticd — nat eas eius partes
annectere, quae in- primis extollendae sint atque ur- gendae.
Igitur verba convertenda censuerim : da icb mich verachtet glaubte, und
doch des JY1 annes ganzem Wesen besonders seiuer besouuenheit und
Charakterfestigkeit mit aller Liebe zu- gethan bin. olo) i
yco ovh av gj p r) v nox\ iv xvxeiy. Proprie verba hoc ordine proferenda
erant: olco iyco cjprjv ovh av nox E ivxvXElV , quod moneo, ut
facilius iutclligas, quorsum av par- ticula referenda sit. Amant
au- tem Graeci verbum dinitum , o quo alia quaedam verba
apta sunt, mediis illis verbis inter- ponere haud raro, quo
ordine verborum vis enuntiati magnopere augetur. Ceterum ut
eximiam laudem Socratis, ita non parvam aequalium vituperationem
his verbis contineri senties. on&S ovv 6 pyiZoiprjv. Prorsus
eodem modo ovv in su- spensa oratione reperitur in PJat, Protag. p.
322. G. ipeara ovv *EpyfjS Aia, xlva ovv xponov doitf SbtTfv nal
aioc 5 av$pco~ 7l0iS. Noli, Stallbaumius inquit annotat, ad b. 1.,
Ovv sollicitare, quod Stephanus vacare iudicabat. Indicat enim ratiocinationem
lo- quentis, qui quasi secum con- silia pectore agitans inducitur.
Quippe ea est virtus linguae Grae- cae, ut multa, quae alii populi
nonnisi oratione recta possunt enuntiare, ea etiam oratione ob-
liqua exprimere valeat. Quod quid sibi velit, hoc uno exem- 24
* m ouv vQyt£ol(i>jV Ei%ov xai uaoan(jTjd'th]V Ttjg
tovrov <Swov6tug, ov$’ o Tty trQogttyayolftr/V avrov tvxvgow.
E tv yt':Q ySij, ori XQt//icc6i re Tto/.ii (tullov rcrparog i]v
Mivtuxij rj CidijQCJ 6 Aiug , «a te difiijv avrov fluvio
ixAcotiEO&cu, SiankpEvyi fit. tjnoQovv &>], xaraSiSov^a- (dvos
ts vito tov dv^gunov us ovSels vn' ovdsvog p!o satia patet. Recta
enim ora- tione dici aic debebat ; irroS ovv opylgGjjjai nat
ctnuOzrpTj^co rijS rovrav dvvovtiaS ; quomodo igitur ei irascar ei
usque consuetudine mc absti- neam? Quae convertens Alci-
biades in suspensam orationem eleganter retinet voculam igi- tur,
quae animi consilia agitan- tis gravius indicium facit, ov6’
ony itpoSayctyol- fl 7J V ac V TOV Evito p ovv . TlpoSctyeiv riva
sensim sensimqne aliquem sibi assuefacere, lente aliquem sibi conciliare
praeten- tis quibnsdam illecebris significat. Hinc iudicabis
de <x7C0(Srepri^Eii]v verbi significatu, quod illi oppositum
est» Ceterum opyiZoifiTjv verbum primo obtutu habet, quo ollendaris,
quandoquidem haud verisimile est, Alcibiadem ob repulsam a So-
crate acceptam eidem non iratum fuisse. Fortas sq o pyrgo iprjv xa\
dno6rep7f$eirjv positum accipere possis pro dpyiZoptvos ano-
dzepijSelrjv y nt sensus sit totius loci : »o dass ich weder weiss,
wie ich mich in hochster Auf- wallung seiuer ganz erledigen, noch
wie ich mich seiner allge- mach bemaclitigen soli. His adde, quae
supra leguntnr p. 216. B. ^paicEttvco ovv avrov xal <psv- yco et
quae sequuntur. ev ydp ori xpy)pa- di re. Vulgo ye legitur
pro re, quod e septem codicum aucto- ritate, quorum in numero
Bod- leianus est, Bekkerns, Stallbau- xnius, alii iu ordinem
vetborum receperunt. Riickertus ye vul- gatum reposuit annotans :
Non haec est sententia: Et pecunia eum capi non posse
mlellige - banij et quo solo cet., iramo po- tius haec: quomodo eum
mihi conciliarem , non videbam , Probe enim sciebam , pecunia
quidem eum nullo jpodo capi posse ; quoque solo eum captum iri pu-
taveram , id ejju gerat . Vereor equidem, ut praecedente Xpr/padi ye non
w re o opyv ponendum fuerit, sed qj di, cuius scripturae nullum iu
codicibus vestigium comparet. arpGoroS rjv navraxy 7f
dldlfpa) 6 AlaS . Aiacern Telamonis lilium invulnerabilem fuisse ,
compluribus locis narra- tur. Vide Nitsch. mythol. YVor- terb.
Ortam puto inde fabulam, quod in Iliade Aiux non vulne- ratur;
pugu&Ds licet fortissime cum fortiss.inis. Riickert. Ad re-
ctiorem verborum interpretatio- nem navraxy verbum spoute du- cere
videtur, quo) verbo de scuto immenso monemur, quod gerens Aiax ab
omni telo tutus erat, 8 tau i<p evy i //£. Haec paucorum
librorum lectio est , i r iun 0110 a t . 373
rj.kov iteouja. 1 rartd rt ydg /toi ctncivta Ttgovytyovu, xnl f utcI
T.rtvTu (Irganiu tj/iiv dg JlotiSaiav lyivvto Xvivrj } cal
(JvvtffiTovfisv txd. Ugcoxov /ih' ouv xou; itovoig ov fiorov fuoiT
ittQtijv, tlkf.d stal tav iiXkav ujidvtav. ojcote yovv avayxcc-
O&dqftev axokeup&tvtes stov, ola 8tj dtQaxBtctg,
2Jo '« quam editores immerito reiecisse videntur. Plurimi
8iene<pevyei pe exhibent, quod Stallbaumius, unus Siatetpevyei
pe , quod Bekkerua iu textam recepit. Nolo, quod dedi, tanqaam
certum atque ex- tra omnem dubitationem positum lectoribus
commendare , dedi tamen, quod Alcibiadis animo ap- prime convenire videbatur.
Ille enim rem actam neque quicquam spei sibi relictum esse
docens haec ait: Experientia do- ctas sum, eam pecunia
inalto minas commoveri posse, quum Aiacem, scuto immenso tectam
i‘erro vulnerari, et qua re sola eum capi putabam, eam
eludeus elapsus est, tavtd te ydp poi. Nemo interpretum de
ydp particula quicquam annotavit, quae quo iure h. I, posita sit ,
non statim intclligitur. Schleiermacliems in conversione eam
prorsus non reddidit: Dies nun war alles frii- licr gesebehen cet.
Dubitari au- tem nequit, qnin verbis, ad quae relationem habet ,
praemissa sit, de quo usu loquendi vide Indices s. v. ydp. Consuetior
ver-*- horum ordo foret, opinor: Jial pera tavta — tavtd te ydp
poi uTtavta npovyeyovai — <5tpa- teia ijfiiv eis Tloridaiav
iyi- veto n. r, A. Potidaeam urbem quod attinet fttqno bellum,
quem contra incolas eius gesserunt Atheniensis, andi
Riickertum an- notantem ad hunc locum: Potidaea Corinthiorum colonia in
Pal- lene paeninsula ad sinum Ther- maeum postquam
Atheuiensiuin dominationem pertulit cum cete- ris illius orae
civitatibus ali- quamdiu, defecit 01. 86. 2. a* Chr, 435. belloque
pressa per quiuqueiHiiuni iterum in ditionem venit 01. 37. 3- a
Clir, 430. In horum igitur aliquem amiuin incidunt, quae hic
ab Alcibiade narrantur. o jr <5 r e yovv ar ay xct •
6 3 e i?j per. Rursum locum ha- bes, in quo edendo novorum codicum
auxilium maxime desideratur. Quam edidi, Stallbaumianae editionis lectio est,
quae me- liorum codicum auctoritate nititur. Sed cum vulgo legatur
ondtav yovv avayxatiSefo/pev, quis audeat, praesertim cum exempla
reperiantur apud bouos scriptores onotav cum optativo coniuncti, vide
Mattii. Giamm. ampl, $. 521. Aun. I. p. 1007., quis aipl eat,
inquam , utra lectio verior sit, cum aliqua certe veritatis specie
dijudicare ? Tovv in codicibus melioribus, quorum auctoritate
nititur 6 itote lectio, omittitur. Quod, quoniam vix abesse potest
, si receperis , co ipso oitote lectionis auctoritatem infringes.
Optime autem yovv ciSiTBiv, ovdtv ijeav o£ (ikkoL n gdg tu xagregeiv. tv
r av r uls tvcoyfaig (i6vog dnokaveiv ottig r’ rjv , td % akl.a ,
xcd nlvtiv ovx t&tkav , unor’ avuyxuGfrtlti, n dv- rag IxQ&t ei,
xal i 6’ ndvtav dav/xatirutarov, 2kaxgart] (itfrvovra ovSslg noinot’
icogaxtv civftQoiJtav. rovrov fitv ovv it oi doxei xcu avrlxa 6 %ksy%og
i'<fe<S&ai. ngog 6 i av rdg rov %iL(iuvog xagregijGsig — 0uvol
ydg av- Stallbnmnius explicat: Confir- mat yovv ,
inquit, ut Latinorum i certe quideui, antecedentia cum aliqua
restrictione, hoc est ita, ut indicet, hoc certe, quod nunc
commemoretur, veritatem s eorum, quae antea dicta sint, sa- tis
testari ; sed nlia etiam posse afferri^ quae tamen nunc reti- cenda
esse videantur. dn o\ e i cp % k v x sS 7tOV, Astius
drtoArfipSiifxeS scribendum coniecit, quod hodie ab editoribus omnibus ia
ordinem verborum receptum est. Sed codices miro consensu
ditoAEi<p$ivxE$ exhibent, quod, quoniam explicari posse arbitramur, in
textu retinuimus. Rectum quid esset, Heusdius vidit, qui
scribendum coniecit dnoAsup^ivxES Cixov ; sed mutatione nulla opus
estj e sequente enim afStxetv infinitivo 6ltov genitivus facillime
ad dito- AtupSiv T£$ suppletur, FICINO habet ; et si quo in
loco, ut accideresolet i u bello, ccfro meatus deficeret*
iv r* av tais ev G>xiaiS. Ad haec quoque verba recte referuntur,
quae praecedunt; ola 6q ini dxpaxeiats, h. e. pro varia fortuna belli.
Militum enim ea fortuna, ut nunc omnium rerum felicissima copia
abundent, nunc no habeant quidem, quae ad sustentandam vitam
necessa- ria suat. Huiu? rei fortunam nemo Socrate melius
perferre potuit. navxaS in patet. Rarior structora est
npatEiv verbi cum quarto casu ea de caussa , quod Graeci hoc verbum
saepius prae- gnanti, quem vocant, quam pro- prio significatu
adhibere sole- bant, Kpaxelv ttvoS enim idem fere est atque
npaxovvxa elvai XtvoS, victorem esse ali- cuius, de quo significata
vide annotat, p. 87. KpcciEiv xivd contra proprio significatu
adhi- bitum prorsus dicitur ut LATINORVM vincere ali que ni.
ov 8 eIs nd nox e hd pa- ne v. Codicum auctoritate motus , in
quorum numero Bodleiauus est, Bekkerus kapdxei in textum recepit, quae
lectio item Riickerto probatur. Non placet. Non enim haec est mens
Alci- biadis , Socratem tum temporis a nemine 'visum esse vino
gra- vatum , sed nunquam gravari vi- no dicitur in universum ,
eius- que rei luculentissimum indicium mox convivas habituros esse
Al- cibiades promittit, Seivot yap avxoSi x ei ~ p
dives. XEipwveS articulo suo privatum latiore significatu acci-
piendum est, ut verba, couver- <S zo&>
yup&veg — ftav padia elgydteto xtx te $ AAa , xai fs itote ovtog
Tiayov oTov Suvmutov , xal xavtav y ovx 1'iiivtov EvSo&ev, >] , d
tis ittoi , i)p<piEOpivav xe &av(icc6xa Sij ooct xal vxoSsSepivGni
xai IvEikiypEvcov xovg xoSag Eig xikovg xal uQvaxlSag , ovtog 6 Iv
xovtoig 11] jei lyav [pclt iov ptv totovrov, olov xeq xal XQortQOV
eIoj&ei <poQUv , awnoSrycog Se Sia tov xqv- tcnda sint :
denn W i n t e r in dortigcr Gegeud sind fiirchter- lich.
ra te aXXa, xai itote. Haec dicendi brevitas etiam paul- lo
supra in verbis conspicitur tu re dXX a, xal itlveiv ovx Xgov, quae
explicatius audire Stallbaumius docet annotat. ad lu 1. t a re
aXXa, xal 8t} xab rovto , ori nireir — itavta S ixpdtei. Alias
breviloquentiae exemplum in sequentibus verbis continetur xai itote
ovtoS na- yov olov 8 eiv ot dt ov , ubi. explicatius verba enarrata
sonant: *xai note ortos itayov toiov- roUy oluS biti 8eivbtatoS ,
de quo loquendi genere vide Mattii. •Oranira. ampl. §. 473- Ann.
2. p. 885. Ceterum vulgo legitur ortoS tov nayov. Bodlciani
cod, aliorumque paucorum auctorita- tem secuti Bckkerus ,
Stallbau- inius alii articulum e textu re- iecerunt. Utramque
lectionem commode explicari posse , nemo dubitabit, atque
sententiam si spectas, perinde tere esse cense- mus , utrum addatur
an omitta- tur articulus. In huiusmodi locis codicum auctoritas cum ma-
xime valere debet. Igitur et nos articulum omisimus, quem Rii- ckertus
in textu reposuerat. t) ovx l Bti 6 v to)v £ v 6 o -$ev «c. e
tabernaculis, quorum notio facillimo mento suppletur. "Ev8oSev
Scliieicrmache- rus convertit hinaus. Recte quidem e nostra
loquendi consuetudine; aliam Graecorum fuis- se, H.v8o$ev vocabuli notio
do- cet, Etenim Graeci quicquid scripserunt dixeruntve , eius quasi
imagiaem quandam ante oculos habuerunt prius, quam scribe- rent
loquerenturve. Dicturus igi- tur Alcibiades : neminem militum e
tabernaculis exiisse , rdm ita proponit, ut imaginem ante oculos habuisse
coniicias militum o tabernaculis exeuntium. Hinc HvSoSev vocabulum
Explicabis, Convenit cum nostro loquendi usu, quod legitur p. 174.
E. ol y\v ydp evSvS n<n8d uva IV- 8o$ev dnavti\6avta dytiv
x. r. X. Innumerabiles autem loci opud scriptores Graecos
reperiuntur , quibus illa ingenii indoles probatur. Cfr. praeterea an
->notat, ad verba TLxpr\ ydp ofc ScoxpatTf . p. 16. , eis
niXovS xal apru- ni 8 a S. Schol. ad h. 1. nlXoS Ipdtior IB» ipiov
ntXrjdecoS yi- voperoVy eis vetav xal *«/*<»“ VGor afxwav .
dpvccxideS 8e apvGov HotSia. Suidas, apva- xlS t inquit, ro' tov
apvoS xqd- 8tov , to pefd xvv ipicov 8eppa r. dra/.AOv quov
Ijcoqbvsxo tj ol akkoi vitoSstisfiivoL oi dl tiTQCCTUJTCCl
VTttfikeitOV CCVtOV UQ XCCZCC(pQaVOVVTCC c (Stpiuv. xai ravta plv
drj tccvzcc. Cap. XXXVI. Olov A’ av tu 8 ’ ipeUs xal
ixX r/ xapTEpoS avi/p Nostrum locum frustra, ut vide- tur,
Valckenarius ad Herod. III» p. 199. 95. Musonium imitatum esse
censuit apud Stob. I. p. 17. 51., cuius verba laudare invat tamen :
ov8a/icuS xaXov ovte iuS/fusdi noAXai? xaTadxinEiv TO dGOpa ovts
TOLlviaiS XOCXEl- Xeiv ovre x f tpttS te xal no8aZ nepiSidEt niXoov
rj v<padpaTGyv tivgjv paXaxvvsiv. Quod sequitur, ovtos 8* LATINORVM
respon- det: hic, inquam, quo verbo pronomini addito, ut 8i
particula, vis augetur pronominis et filum orationis verbis
interpositis compluribus dissectum rediutegratur. V7Z £ fi\E7t OV
CtVTOV (Di xotr atp pov ovyt a d<pav . Limis oculis eum
intuebafitur, quum eos suae ipsorum mollitiei pude- ret, odeo que
Socratis p a- tieutiam et fortitudinem moleste ferrent,
quippe quem ipsos despicere opi- narentur. Ceterum Socratem
algoris ct caloris fuisse patientissimum testatur etiam Xenophon Memorab. I. 2.
1. ct I. 6. 2. al. Stallb* Conferri Rii- ckertus iubet annotatione
ad h. 1» Piat. Criton. p. 53< B. xal odoi - 7CEp XljdoVTOLl TtoV
aVTGDV TCU- Xeoov f vuopkbfrovTai Ce 8 ia~ tpSopta yyov/uvoi r uv
vegov, olov 8* a v 1 6 8 3 l’ p £ £ e X. t. A. Versus
Homericus est, culus initium Alcibiades immutavit, ut versus cum cetera
ora- tione melius consociaretur. Legi- tur autem in Odyss, IV. v.
245. dk A* olov to 8 * lpz£,E xal irXrf xapTEpoS dvrjp
SrjftGj ivi TpoSaov , uBi nu- &X € T£ nt/par ’ Axaioi .
ixei ini drpar e laS, Solent Graeci, quando cum gra- vitate
aliquam actionem descri- pturi sunt, huic praemittere vo- cabulum,
quod actionis rationem in universam indicaret, post actionem ipsam
accuratius defi- nitam exhibere. Sic legitur p» 177. E. ndyrcfS
/tt/ 8id piSr/S nou/dad^ai Ti/v iv tgj napdvn dvvovdlav . dXX
ovra>, nivov- taS TtpoS ?}6ov)jv, ad quae ver- ba vide annotat,
p. 43. Idem valet de locis, quorum mentio- nem graviorem ita
faciunt scri- ptores, ut praemisso verbo, quod iu universum locum
aliquem si- gnificat, accuratiorem loci de- scriptionem exhibeant.
Sic igitnr hoc loco ixsl — ini drpaTtiaS legitur, quo docearis, ad
Poti- dneam gestum esse, quod nuuc Alcibiades narraturus sit.
£vvv 07 } d ctS — e\6t )/ xci 2,7/TCk jv, Socrates aliquid
cum animo suo reputans a primo maue narratur meditabundus
constitisse, atque re non feliciter pro- ccdeute , quasi
defatigationem exe! norh Eithjt (StQcctslag , fil-iov axovdca' £wvcy<5ag
yccQ avtofh Sa&bv n e[6x)]xei 6xojtcov , xai insi- di} ov xqov%(6qsi
avtcS , oyx aviti , (Md efotijxti %7)t&v . xai rjdy f\v iiEtirjuPQla
, xai av&QCMiot, ycfta- vovtOy xai &av^d^ovtsg aXXog dkXco tksyEV
, oti Zco- xganjg iafhvov (fgovrltcov ti eOrrjTce . teXsvTMvzEg corporis sentiret
nullam, in stataria meditatione perstitisse. Huius consuetudinis mentunem
fa- cit etiam Apollodorus , qui cum Agatho servos iussisset
Socratem vocare p. 175. B. laxe avxov, inquit, £3of yap n xovx*
£*«. ivloxe aitodxcis o7roi dv xvxv %6 xmiev. Quae addit verba
ijtiei 81 ccvxlxa , &s iycjpat, non ita# accipienda sunt, quasi
Apollodorus revera opinatus esset, Socratem mox venturum esse. Qui enim
Heri potuisset, ut compertum habuisset Apollodorus, quo tempore Socrates
meditationum Unem reperturus sit ? Neque ne- sciebat, quippe doctus
experien- tia, Socratem, si constitisset semel meditabundus, iuterdum
multum temporis meditando consu- mere. Nihil igitur aliud voluit
ij£,ei 8i avxixcc , ck* iycfypae ver- bis efficere, quam Socraticae
meditationi consulere, ne forte servorum acclamatione turbaretur.
icccl i} 8 r\ — y6$ av ovxo. Non verterim cum Stallhoumio:
und schon war es Miltug , ais mau es er st merkte ; corrumpitur enim, ut
ego existimo, vera sententia addita voce erst, quae in Graecis non
repentur; iromo »*nd schon war es Mittag, und die Leute fingens on
zu merken (malim: und den Leuten fiel es auf ); non enim quautum
tem- poris ante praeterierit , quam sentirent homines, Alcibiades
significat, sed quam diu steterit, et quid acciderit, quod partim
loco movere Socratem debuerit, partim rei augeat miraculum. Idem
verba significant, ac si narret Alcibiades: Iam meridies erat; attamen
perseverabat; iam sentiebant homines; at non discessit. Hanc
Riickerti annotationem, cum idem indicare intellexissem, atque quod ipse
seraper de huius loci explicatione statuendam censerem, viri doctissimi
assensu gavisus , integram recepi. Zajxp axi]? l&> IgdSiv
ov q> p ov x l % a v xi $ d x tj x e . Haec tanquam ipsa verba
laudari censemus hominum Socratis axo- Tclctv mirantium. Hoc
colligere possis e structura verborum, quum si forte ad firmaudam
sententiam nostram facere negas, ei certe non repugnare concedes.
Hoc sa- tis nunc nobis. Suhest enim gravius aliquod argumentum ,
quo ipsa hominum illorum verba laudari probemus, tppovxi^GJV par-
ticipium. De quo quoniam pau!- lo fusius dicendum est , longio- rem
autem explicationem plagellae huius angustiae non capiunt, in Comment. de
Piat. Symposio disseremus. xeXe vx g 3 vxeS 8k xtves Xt
ov 'i&YGor. Consentaneum est, non Athenienses, quibus mas
«78 6i uves «w 'Javtav , htuSt) ttiniga Suxvrfiavtts, D nal
yctQ &{qo s rore yi rjv , yctutvvia i£evtyxu[itvoi tlfia (itv iv Z(p
i)v%Ei uct&ijvSov , a(ia 8s ItpviatTov avzov, st xal njv vvxza
t<5r>;|o4. 6 <5a e ianjy.cc fitXQi eas lytvixo xal tjkioe
dvioxtv hiutu c>xtz ’ amdv ille Socraticus notissimus
erat, nunc observatum ivisse e taber- naculis atque sub dio
lectulos stravisse; sed Ionum, qui una cum Atheniensibus Potidaeam
obsidebant, aliqui narrantur, cum ex Atticis militibus de more illo
audissent, nt oculis viderent, quod fando audissent, sub dio
pernoctasse. xal ydp SipoS tote y$ T/r. Annotatione p. SI*
indicavimus, solere haud raro scriptores Graecos partem orationis eam,
quae caussam alicuius rei conti- neat, parti orationis rem ipsam
describente praefigere. Exemplum est huius loquendi usus p. 175* C.
xov ovv 'AyaSojya, rvyxd- veir ydp £6x aToy .xaxaHtipe- vov , jiovov
* devp , £<pt/ (pa- rat, 2fcjxpattS x . r. A. Sed huuc locum cum
nostri loci con- formatione non recte conferri, vel obiter
instituta comparatio docebit. Quaeritur, quo pacto xal ydp StpoS
tote ye i}v explicandum sit. Tacent interpre- tes, quo silentio non nihil
uni- mus commovetur mens. Num verba tam plaua sunt, ut explicatione
non indigeaut? Schleier- macherus in conversione exhibet; Eudlich
ais es Abend war und n an gespeiset hatte , trngeii einige Ionier,
denn da- ma Is war es Sommer, ihre Schla fdecken hinaus,
theils um im Kulilen zu schlafen cet., qua couversione mitigatam
habes mutato verborum ordine difficultatem loci, non item
explicatam, SchuUhessius vertendo; es war eben Sommer, explicaudi
genus admisit, quod sane levissimum est. Dillicultatem enim vdp
particu- lae ita, ut ydp reddere omittas, noa expediveris. Scriptum
autem exspectabamus : 6ei7ivr t 6av teS xal, SepoS ydp tote
ye ip', 4Xapevvia i^evEyxdpEvoi. Sed cave non rectum ceuseas
verbo- rum ordioem, quem libri exhi- bent. Participia §EWVi]($avT£Z
, l&tYEyxdpEVOi, de more advv- 6 etcjS posita suut, in verbis
au- tem xal ydp StpoS tote y£ ?/v, caussae indicium prae ceteris
verbis scriptor, eminere voluit, idqirt) ideo in principe loco
enuntiati posuit, h. e. in initio. Cuius lo- ci quoniam suapte vi
non potest caussalis particula sustinere gravitatem, xal explicativum
prae- positum est, quo illa eodem modo susteutatur atque
Latino- rum enim, addito e t (etenim) fortius iit, atque principi
enuu- tiati loco idoneum. Vide de xal expletivo annotat p. 6. cfr.
prae- terea p. 219. B. ap<pt?<SaS ro IpecTiov ro ipavtov
tovto xal ydp 7/v x £l M ( & v r » A . Contra ubi verbum aliquod
in enuiitiatione parcuthetica conti- netur, quod significatus
gravitate ceteris verbis autecedit, id prin- cipe loco poni solet.
Sic legitur p. 220. A.Seivoi ydp av TuSt — rtQogEvldtnvos rw yllco. tl SI (iovktfi&e
Iv retis f*«- %aig ' tovto yceg Sij Sixcuov yt avrc5 dxoSovvat. ort
yctQ i) ftfczv 'h v i VS f/td xal zagiOreict 'iSoiSav oi evQomjyot,
ovSbIs aklog ifii laaow dv&gmxcav y ovrog, rs tgafuvov ovx i&tkav
azohntlv , a).ku GwSdauGe E eiSiffov \s<S$s iv ratS /udxttiS.
Bene Stallbmiroius orationem hoc modo explendam censet j ei 61'
(3ovA.e6$e axov- Cai , oloS iv x ais puxaii V v % ifjui xal x ov$*
vpiv. Nollem tamen per aposiopesiu verba ex- plicanda esse
dixisset. Certum esse reor , tl particulam aposio- pesin nunquam
admittere» con- ditionalis enim enuntiatio ex ordi e temperatiorum
dictionum est» quae cum aposiopeseos vehemen- tia non conveniunt.
Possis etiam verba ad praecedentia referre p. 220. C. xal xavxa plv
Si/xavccr oiov 6 ’ av x 68* £pt£,e xal izXrj XQtptepoS dvrjp ixel
noxa iitl OTpaxtiaS , aB,iov attovdai. Quae verba cum Alcibiades
hoc modo edixisse sibi videretnr: ei (iov- A e6$e dxoveiv , olor 8*
av xo8 * UpeB,e xal £rA?/ xapxepos avtjp 9 nunc ita perrexit: ei
6fe fiov XetiSe (sc. dxoveiv , olov 6* av x 68 * Bpe&e xal
ix\rj xapxe - opo$ cevrjp ixel xoxh) iv xal? paxaiS, (sc. ipa xal
tov$’ vplv. y oxe yap fj fiaxv V v - Hia pugna. Ponit
euim rem pro certa otnnibusque nota. Narrat, quorum hic meminit
Alcibiades, Plutarclt. Alcib. p 194. C. F., sed ita , ut aut omnem
materiem ex hoc loco hauriat, aut studiose cum in narrando
respiciat. Riickert, i B, ys i po i xal xdp i- 6 X e ia. Ex
praepositio hoc loco temporali potestate posita est, quod moneo
contra Riickertum, qui annotat ad h. 1. : Secundum quam. Caussam
euim pugna praebuit, cor darentur Alcibiadi virtutis praemia. — Sed
bene monitos lectores velim, ne ix quovis loco temporali potestate
poni posse opinentur. Ponitur tum tantummodo, quum tempo- ris
indicio simul adhaeret notio quaedam, quae ix praepositioni propria
est. Minus accurate Schlciermacherus : hei welchem ( Gefecht
) mir die Heerftihrer deu Preis zuerkanuten ; non rectius Schulthessius :
dena in der Schlacht, wo mir cet.Restat ut de xal vocula dicamus,
quam u nemine interprete explicatam video. Supplemento aliquo
opus est, quo advocato, quid xal si- gnificet, statim intelligetur:
ure yap i/ paxv rjv , y avry, i£ r/S i/ioi xal xdpuS^ua
ISoOav. denn ais ieue Schlacht wnr, die- sclbe, ais die, nach
wclcher die Heerfuhrer mir deo Preis zuer- kannten. x
ex pat fiiv ov ovx i$i- A cdv. Vulgo haec verba inverso ordiue
exhibentur) codices plu- rimi atque optimi texpcofiivov ovx
iSiXtov. Vehementer errant, qui uter verboi*um ordo rectior sit, e
sententiae ratione dignosci posse arbitrantur. Nam uterque, quo se
commendet lectori, habet. Sola igitur meliorum codicum au n a at a no
r xai T a ZnXa xai avtov l[it. xai tyul /xh’ , w £(6xgrt-
Tfg, xai T('m Ixtktvov Coi didovac zagtOzt ia tovg Ozgazrjyovs , xai
zovzo ys (ioi oiizt [itfiipH oiks igsig (In t luvSojiai ' dkXd ydg tmv
tizgazr/ywv xgog z<> i/wv iit ioifia dzojV.ixuvzeJv xai
(iov/.vulvcjv ifiol dtdovca ctoritas respicienda est, quorara
lectionem Bekkrrus, Stallbaumius alii in textam receperunt. a A Ad
tivv 8 ikC a> Ce xai t it onAa xai avTov i fi i. Priori loco xd
oicAa commemorautur ea dc caussa , quam ex- positam habes annotat, p.
63. De verbrs cum 8ia praepositione confundit annotat, adip. 7*
Verba converterim; und er braclite WaflVn und Menschen, beides,
retteod hiudurch. Ceterum iucst aliquid his verbis, quod si ab-
esset, omnes uno ore Graecis- mum laudarent atque locis ex Homero
inprimis petitis confir- marent. Nullum in codicibus vestigium
depravationis, nihil igi- tur mutandum, praesertim cum negari
nequeat, non minus Graece dici, quod nunc legitur, quam quod milii
in mentem venit dAAa CvvSikCcoCe xai xd uxAct xai avtov.
xai rore. Annotat Stallbaumius ad h. 1. Ne quis, inquit, in his
haereat, xai «d universam sententiam, non ad solum xoxe referendum
est, at respondeat proximo xai in verbis xai tovxd ys pot ovte
fitjjipei. Verita- tem huitu sententiae Ruckertus agnoscit; nobis
aliter de expli- candis ual tore verbis statuen- dum videtur. Meus
Alcibiadis haec « st . Non solam praesenti tempore se ita iudicare,
ut Socratem dignissimum censeat ptaemiorum Hlornm, sed etiam tum temporis
ita se censuisse atque tussisse quidem, nt duces Socratem pruefniis illis
dignentur. Quae sequuntur verba pepibei at- que ovn ipet* ijxi
Tpf.v6opai nostrum explicationem confirmant. Mkptpei enim ad
praesens Alci- biadis iudicium referendam est, qno Socrate negatur
praemio- rum illorum aliquis dignior esse, verba autem ovx ipEiS
oxi ijjEv- Sopai recte ad verba retuleris ixkAevov Coi SiSovat
rapior eia x ovS CrpaujyovS. itpoS T 6 ipov dZi&pa.
cfr. PJat. Alcib. I. p. 104* B. Ineixa (sc. (p?}s elvai') veavi-
xcDtdxov yivovS Iv xy Ceovtov itoAei ovCy pcyiCty xaSv 'EA^-
ArfvidcDV' xai ivxavSa itpoS narpoS xk Coi (piAovS xai B,vy- yeveis
tcAeICxovS elvai xai dpi - 6x ov£, ot , et xi 8kot, vmjpexoiev av
Coi . xovtoov 81 Totif xpoS fitfxpoS ov8\v xdpovS ot56* iAax- rovS
' Zvpitdvxarv 81 mv elnov ptiZoi) otei Coi Svvapiv vitap- TlepixAka
xov AavShtnov, or 6 Ttaxrjp iitixponov xaxkAmk Coi, oS ov povov iv
xy8e xy icoAei dvvaxai itpaxxeiv o n av fiovArjxaiy aA A* iv naCy
xy 'EAAddi, xai tqjv fjctpfidp&v iv noAAolS xai peyaAoiS
ykveCiv, Mutre nsus est Alcibiades Dino- mache, Megaclis filia
celeberrima, patre Clinia, cuius virtus in pugaa ad Artemisium pugnata
zTMnozroN. 881 xdgtGxHa, avxo g
noo&vtioxiQog lyhttv xwv 0TQCtrr t y{Zv tui /.ajitiv jj GavTuv. Ixi
xoivw , <J avdgtg , cchov 9/i' tituGaGftca ZaxQclxtj , oxe ano /JgMov
qnyf/ ave- £21 Xoigei xo OxQCtronedov. £xv%ov yag nagaytvofievog innov
. l'zarv , ovtog <5 a onAa. dvtyoigu ovv iaxtdaouivav f
inclaruit. Non sine caussa igitur Socrates in Piat. Alcibi&d. I.
init. Alcibiadem allnquens dicit: ' 11 7tcti KXetriov, Vide, quae
de dicendi formulis rtaxpoSev et nal? xivo? docet Wachsinnthiua in
libro: Hellen. Alteithumsk. L I. p. 320. Beil. 10. i ph Xafielv
i} tiavxov. Nihil certius est, quam Platonem aveo?
scripsisse vel ovx av- ToS , uUi oppositionis rationem habiturus
fuisset, quae quanto- pere angeatur tiCtVTo? scriptura nemo est,
quiu videat. Alio loco de hac structura oppositionis augen- dae
caussa admissa locuti sumus. Vide Indices s. v, Accus. prou.
- uf£ ano J //Aio v tpvyy ct r exGjpei. *Avaxeepeiy proprie
est : in locum altiorem se con- ferre, iuprimisque de piscatori-
bus obvuluit, qui undis ora su- perantibus celerrimu iiiga altiora
loca petierunt. Hinc ad rem militarem tranr.lutum verbum lugam militum
describit, qui e peregrina terra, tanquam undas mare, hostes evomente
quasi iu altio- rem atque tutiorem locum, in patriam terram fugif^es se
confe- runt. Deinde, quMnam, qui na- ves relinqniiut atque mare,
cum patriam terram petituri sunt, al- tiores regiones petuut,
factum est , ut redeundi verba plerumque cum ara praepositione con-
iungercutur. — Schol. s. v. drj- Xtov • x Q opLov xjjS LouaxiaS,
Athenienses ad Delium urbem a Thebanis^prorfio victos Thncyd.
\ narrat IV. 76 seqq. Proelium scimus fuisse Ol. , 1. Idem proelium u
Lachete comme- morilnr in Piat. Lach. p. 181.B. xui ptjv, go Avtiipaxi ,
p?} atpUoo ye- xavSpoS' gjS iyos &XX oSl ye avxov
iStacdptji' ov povov tov naxlpa dXXd xal xi)v Tzaxptda’ opSovvxa.
iv ydp xf/ and Jr/Xiov <f>vyy pix ipov cvvavexcjpiti xayaZ
<5ot Xiyco, oxi , ei ol aXXoi iJSeXov rotovxot tlveti , dp$j) av
ijpwv 7 } TtoXi? r,r xal ovx av initia tote xo xoiovxov nxdopa.
De re ipsa Engelhurdtus ad h. I. ed. p. 14 : Cum Boeotorum,
inquit, nonnulli imperium Lacedaemo- niorum aegre ferentes ope
Athe- niensium democr&tiam in Boeo- tiae civitatibus instituere
ctipe- rent, inter eos atque Atheiiieu- sium duces Demosthenem et
Hip- pocratem convenit, ut ipsi Atheniemibus urbes Siphas ad sinum
Ciisuenm, et Cbaeroncam prope Orchomenum Minycum traderent,
Athenienses nutem eodem «lio Delium Apollinis sacrum iu finibus Boeotiae
et Atticae vernus Euboeam situm vi occuparent. Sed ct
Demostheni ad Siphas oc- cupandas profecto res Boeotis iam prodita
infeliciter cessit, et Hippocrates, qui serius, quam convenerat,
Delium pervenit, postquam vallo praemunire atque praeauliu
instruere contigit, Boeo- *t a 4 ijdrj tcov
av&Q(07tG)v ovtos n apa xal Aaxrjg * Xfti 2yw 7 teQitvy%dv & ,
xal Ida tv ex>ftvg vtagaxefavopuL rs avTolv ftaQQeiv xal SXsyov , art
oi5x djtotefyco avzoj. Ivzavfta St} xal xdkXiov l&EaOuprjv EttXQazrj
?; JTozidala • avrog yap ^trtn/ Iv gro/xo 7} dia ro Ig^’ ' wnrou
£itm* jrpwrov juv otfov ntQiijv Aaxrjzog za B HpxpQCov sivat * Sjtsiza
Zpoiye idoxsi , oJ *AQi6zocpavsg — to tfov 6'ij rovto — xal .&cct
diajtoQ£v£<S&ai (Sgzeg xal tis fere omnibus interca ad De-
lium collectis, turpi clade in fu- gam conversus est. Quos autem
Delii relinquerat Athenienses, castello die post proelium XVII. yi
expugnato, partim interfecti, partim capti sunt exceptis iis, qui
ad naves pervenerunt. xal iyco ns pixvy xdv p» Nota praesens
historicum , quo incredibiliter orationis vigor augetur. Exempla huius
dicendi usus Matthiaeus collegit Oram ni. ampl. $. 504« 1. p, 955.
Eo tempore Alcibiades etiam p. 2 17. C. utitur: npoxaXovpai 8t)
av- tov 7tpuS x 6 dvvdeizveiv, dxe~ Xv&S ooSTCEp ipa6xt/S
nai8ixoii inifiovXevGov Hoc tempore utuntur, qui narrant aliquid, non
nt rem de industria tanquam praesentem auditoribus exponant, sed
narratoribus rei memoria abreptis res tanquam praesens obversatur,
tanquam praesentem igitur ex- ponunt. Sed inter loquendum saepe ad
se rursum redeunt et ad auditores, atque temporis rationem agnoscunt, quo
lacto ad praeterita tempora verborum su- bito recurrunt, ut hoc fit
loco nostro: xal idcov ev$vS napa- xeXEvopai te avxolv
Sapptiv xal £A syov. insita ipoiys idoxez — ro* <Sov 6 7 }
tovxo — . Verba ro 6or 81 f xovto lineolia adhibitis a praecedentium
et nb insequentium verborum iunctura seclusimus , no quis forte
haco Verba ex i8oxei apta censeat. Ad iSoxst enim o
JSa?xpdr?/f supplendum est ; Xo 6ov 81} Tov- X O autem absolute
positum est prorsus nt ro' Af yopevov et aliao huiusmodi figurae
dicendi. Ver- sus, ad quem respicit Alcibiades in Nubibus
Aristophanicis fcou- tinetur 561. oxi fipEvSvEi x iv xaitiiv
080IS xal XM<p$a\pGo napapaXAEiS, ad quae verba Schol.
annotat: fipevSvEt * anotispvvvEiS 6eav- xov iv ro3 6xppaxi xal
xav- pij8ov opaS. xopitdBftiS xal yjtEpoizxixuS fiaSifyiS. Idem
ad Aristoph. Pac. v. 25. xovxo 8* vito <ppovi]paxo£ ftpsv-
SvEtai xe xal <payEiv ovx a£,ioi annotat: ro fipsvSvEXai
avii xov pkya (ppovEi. ol pb* ano (IpivSovS rosi cpvxov , ol
6f, (iique ialsisflpi quidem, ut pa- tere opinor ex annotat, p.4.
et 5.) pvpov E1S0S , c5 xpi ° v a 1 ywaixES xal in 9 avxcp
piya <ppovov6iv. Timaeus L. V. Pi. fipevSvopevoS •
yavpovpivoS xal uyxvXopsvoS pexa fidpovS. Recte igitur Stalibaumis
f ipev- Ivftads , Poev&viifitvog xal t(3q>9ak(id> xaQafidlkov
, ygifia jrapafJjtojrcw xal tovg '<plkov g xal tovg xoki/ifovg,
Sijlog <dv ttavt l xal 3taw it6$ga&ev, ort, «l Tig atpetai xovtov
rov dvdgog, ftdXa i^gauivag apvvti tai. dio xal doqiaXag dstysi xal ovrog
xal 6 etegog. a%t8bv ydg ti tav ovxa Siaxufttvav Iv tm ttoUfia ovdi
axroy- tai , dkbx tovg itQoigaxddyv ysvyovta g Siuxovo:. C xokld
(uv otw L > tig xal cikkcc typi Ecjxgaty Izm~ SveCBcn est,
inquit, superbire maguoque cara fastu i u » cedere. Minus recte, at
vide- tur, tcotp^aXfito napaftdX\oov esse ait torvo vultu
oculos huc et illuo coniiciens, Recte Scliol. x avpT/dov
dpti?. Bobus torvum vultum esse nemo concedet, qui huius animalis
oculos accuratius inspexerit. Tavpqdov autem Scliol. dixit, ut
esset, quocum tranquillitas vultus compararetur rov fipivSov. Exprimitur autem
illa tranquillitas cum incessu superbo, tum oculis iu obliquum
conversis, quales iu ci- coniis persaepe auimad vertimus. Sententiae
nostrae verba favent t/pEpa TtapatixoTzeiov, quibus ma- nifesta
continetur proxime praecedentium explicatio. Miror au- tem, etiam
Stallbaumiura probusso coniecturara Bekkeri , 7t epitixo- irdjv
scribentis, quae, si quid video, e Fichii conversioue hausta est ; deinde
mihi visus est> o Aristophanes, quod et ipse ais, ibi non aliter
quam hic incedere superbus , et o cpl is. quiete omnia
circumlustrans , cauteque examinans singula. Qui cir- cumspicit, non
providentiam solum prodit, quae ipsa apud pro- bos scriptores
circumspectio audit, sed etiam timiditatem quandam animi quippe
undecunque do periculo vitae metneif. Ceterum xal dupliciter posito in
comparutione: xal Ixel duxno peveOSai
wSnep xal £v$a8t, nihil frequentius apud scriptores Graecos.
xal rov? tpiXov? xal xov? ito\£ fiiovS. Eadem re- ligio, qua
scribae propter inso- • quens 7to\Efjlov? scripsere qn- Mov?,
recentioribus impedimento fuit, quominus, quod vulgo le- gitur,
tpL\oi>? iu ordinem ver- borum recipereut. Yide annotat, p.
13. 8f/Xo? cjv — itavv n J/3- fia^Er, Similiter
Apollodorus» qui Socratis incessura imitatus est xgjv ovv yvGopljx
oov xi?, inquit, OKl6$E xaxid GJV p,E 710 P(J G0- Sev ixaXs6Er, x.
r. A. it por p ondbrjv . Annotat Schol. ad h I. npoxpoitdSijv
• TtpoSvflGD?, dpEXadXpETtti , /lEXtZ nporponij? r/ eI?
xovpnpooHiY. Ficiuus verba convertit : Fer. ne enim qui ita
incedunt, nemo eos iuvadit , sed eos , qui efl isa fuga deferuntur.
Tt pronomen indefinitum ad perli- nens, neque Latino neque
vernaculo sermone reddi potest satas commode. Efficitur autem eo,
ut ov verbi potestas paol- lisper imoiinuatur. Sensus est viocci xal
davfiatiia • akXa t Crv fdv aXXtov iitmjStv- Hurav t u% uv ug xal itigl
ciXlov rouzvra rfjtoi' ro de (itjStvl civ&Qu>ituv ofioiov tivai ,
(itjte uxrv uta- X.ttlMV UljTB TCOV VVV OVTCuV , TOVTO CC^LOV ftttV TOg
&aV- ficcrog. ciog yciQ ’A%iXlivg totius enuntiati ; Denn
es ge- schieht ia wohl , dass auf die, welche sich so im Kriege
be- nehmen , fast nicht einmal ein Angrili' gemncht wird ,
soudern nur die werdeu verfolgt , welche ia wilder Hast
iliehen. TtoXXa fi\v ov v av xiS xal d XX a. E nostra loquendi
consuetudine Alcibiadis verba au- dirent: noXXci a\Xa Savpdtita'.
Vieles audere wunderbare. II c- ctius Graeci xal vocula adhibita
disiunxere verba , qua re edici- tur, ut singulum quodque verbum
suum pondus habeat propriamque potestatem accipiat. Persaepe
Luiosmodi dictionis exempla reperiuntur; interdum tamen etiam, «]uue cum
nostro usu loquendi couveniant, reperias. cfr, Symp, p. 195. B,
iyoa 81 <Pai8poj xoX- Xd a A Xa opoXoy&v xovxo ovx bjzoXoydi
x . t. A., quo loco rovzo pronominis vis nou passa est, opinor, ut
xai addito 7toXkct «AA a verba validius emineant. Jb. p. 201. D. y
xavxa te 6o<py yv xal dXXa 7toXXd. Cfr. praeterea Matth. Gramm,
ampl. 444. 4. p. 830. 22a>xpdxy inaiv e6 at.
"Vulgatae lectioni 2(*>xpdxouS praeferendum ducimus
meliorum librorum scripturam) exquisita **uirn dictio est neque
multo usu protrita inaivetv xivd xi, quam recte comparavit Astiu3
cum formula A dyuv xiva xi. Etiam io-tyivtxo , (i7C£ixcc(S£UV av tl$
fra p. 222. A. e melioribus li- bris recepimus a iyta
2<axpdxy InaivGj. S t a 1 1 b. «AAa xdov p.\y aXXcov
littxydev p ctXGDV. Genitivus cum sequente xoiavxa cohaeret; quod
quo sensu dicatur ut iotel- ligas celerius : expletior oratio
audit : aXXa x&v plv aXXcov Imxybevpdxwv a EAeyov, xdx
civ xiS xal 7tF.pl aXXov xoiavxa efjroi. Huius genitivi absoluti
qui quidem argumentum indicet sequentium verborum, multa ex- empla
Matth. collegit Grapnm. ampl. §. 342. 3. p. 650., quae quidem omnia
ita comparata esso videntur, ut e verbis facillime supplendis
aptentur. Dubitari igitur licet, num Graeci genitivo casu ita usi sint,
ut eo po- sito expresserint, quod Latinis ia asu est: quod spectat
ad, quod pertinet ad, cet. roiro d£ibv 7cavroS
SavfxaxoS. Ficiuus vei ba red- didit : Verum illa praecipua io isto, per
quae nemini aliorum hominum neque antiquo- rum neque novorum esse
similis reperitur. Quam conversionem si recte intelligo, Ficinus
sensum verborum esse ait hunc: Praeter ea, quae in Socrate , esse
Alcibia- des dixerit, alia nova esse, quae cum nemine comparari
possint. Sed proreus aliud quid Alcibia- dem dicere arbitror. Agit
nimi- rum de integritate hominis, quam Di t>-
889 «ai Bga6l8ccv xal aXXovg, xal otog av tlegixXijg, xai
NiiSxoga xal 'Avxrjvoga , dal 81 xal txtgot, • xai x&vg d aXXovg xara
ravx’ av ug djtBLxdfyi ' olog 8e ovxodl ytyovt. xrjv uxoidav
av&gamog, xai avxog xal ot Xoyoi avxov , ov8’ iyyvg av tvgoi ug
ir/xuv , ovxs xuv individualitatem vocant recentio- res»
Singala quidem ait , quae in Socrate sint, passim apud alios quoque
reperiri, integrum homi- nem autem si spectes, neminem esse, quocum
Socratem compa- rare possis» Bp adiS av, Brasidas rir Juvenis
fortissimus , dux Lacedaemoniorum, praematura morte ex- stinctus in pugna
ad Amphipolin 01. LXXXIX. 3. H. e. a. Ch. 422- Ceterum nota
iuversum no- minum ordinem, quo in altero enuntiati membro Achilles
priori loco positus est, in altero poste- riori Nestor et Antenor,
quo no- minum ordine hoc, opinor, indi- catur I Antiquitas viros
habet, qui cura nostrorum temporum hominibus quibusdam comparari
pos- sunt, rursum nostris temporibus sunt et fuertfnt, qui
antiquitatis viris similes esse reperiuntur. oloS ovrodl
ykyove xrjv dtonlav av$ pGoitoS, Ovxo 6 i paullo infra
accuratius definitur verbis avxoS" xccl ol Xoyoi avxov ,
quibus verbis ad- ditis Alcibiades aditum paraturos est ad ea
commemoranda, quae in superioribus commemorare omisit» Sic paullo infra
eodem modo legitur : avxov , — avxov xal XovS XoyovS. Laudat
Stallbaumius apposite Piat. Criton. p. 50. E. ovxl rpikxipoS rjtiSa
$ot>- Aof, avxos te xal ol 601 izpo- yoroi; Soph» Oed. Coi, v,
452* iita&oS p\v OlSlitovf xa- xoixtldai
avxoS xe naidks $r* aib*. et v. 864. xoiyap 6l ,
xocvtov xal yk - "vo? ro 6ov Becov d txavxa A evddojV
"HXtos doitj filov xoiovxov . In hoc genere
dicendi quoniam copulam bis posuisse videantar veteres, Riickerti
industria etiam nostro loco dupliciter poni iubet, atque revera
edidit avxov xe xal xovS A oyovSf quae scriptura in aliquot
codicibus comparet» Potuisse Platonem copulam bis ponere nemo
negabit, qui ex- empla supra laudata legerit $ sed cur non item
dicere licuerit Grae- cis avxov xal xov* A 6yovS> frustra rationem
quaeras. OVTE XGJV VVV OVXB X CQ V TCaXai gj v. Suspicionem moverit
haec verba depravationis, quae fieri potuit facillime, ut e
praecedentibus verbis p. 221. C. r 6 ptjdEvl avSpoditGov opotov
elvai pijtE xdrv itaXocuav fnjiE Xgdv vvv ovxojp, huc
transfer- rentur. Suspiciosa autem verba sunt, non, quod cum rls
pronomine indefinito coniungi debeant, tjuo facto sane sententia
existe- tet neUtiquam probabilis, neque, quod nimis remotum sit
iyyvs iromen, ex quo genitivi illi pen- dent, — tantam autem vim
habet kyyvf principe enuntiati loco po- litum, ut huiuamodi
structurae vvv ovte tm> a ahxiuv, fl /w/ uga olg ly o Xeya>
txxei- xagoi rtg ttvxw , av^ganav fiiv /ir/devl, toij da 2,'ec-
Xrjvolg xal EatvQoig, avtov xal tov$ Xoyovg. Cap. XXX VII.
ICal yag ovv xal rovto iv roig XQoitoig nagtiutov. pondus
facile sustineat, — sed Platonem scripsisse arbitror, si verba
addidisset ovte rc ov vvv ovte r&v tcaXaidctv : ovdiva ovd
lyyvS dv evpoixiS ZtfXGor. Ficinus exhibet in conversione: Sed qua-
lis Socratis est qoalisque eius mira dicendi ratio, nemo prope ad
eius similitudinem accedet ne- que veterum neque eorum , qui nunc
sunt. el ptr) dpa. Post dpa cod. Bodleianos aliique pauci ei
ha- bent, quod Bekkerus et Stall- baumius in ordinem verborum
re- ceperunt. Atque hic quidem ad ei firj apa e praecedentibus
repetendum censet: evpoi xi$. Ad- modum dubito, num cuiquam lentorum
placere possit, quod hoc supplemento edicitur, dicendi genus
impeditissimum. Riickertus alterum hoc ei e textu semovit. Recte,
ut videtur. xal yap ovv xal. Duplex xal ne quem offendat hoc
loco : xal yap ovv xal ex eo dicendi genere esse contendimus, de
quo supra dictum est annotat, p. 5. et 6. Recte autem nobis
vide- mur ibi annotavisse, prius xal in liuiusmodi dicendi formulis
ex- pletivum esse, atque particula- rum quarundam levitatem ita
ag- gravare, ut principis in enuntia- tioue sedis gravitatem
sustinere possint. In harum particularum numero etiam particula
caussalia est , quam veteres nunquam in enuntiationis alicuius
initio posuere. Alteram xal diximus gravitate quadam verbum, cui praepositum
sit, ornar j , quae cum aflirmatione sit coniuncta. Iatr» cum supra
Alcibiades dixisset p. 215. A. iav pivxoi dvaut - fivjjdxopevoS aWo
a\\o$ev A i- ycj, pTjStv Savpadyf, verisimile est, eundem nunc ad
ea respe- xisse, atque exemplo malam me- moriam comprobasse. Kal
yap ovv xal verborum paullo dilfi- cilior vernacula conversio est.
In Schleiermacheri conversione legi- tur l Und dies habe ich
gleich zuerst noch ubergaogen , quod cum Graecis verbis minus
con- venire arbitror. Mens Alcibiadis respicientis, quod accurate
tenendum est, ad verba p. 215. A. , haec est : Denn da ist ja nun
der Beweis, dieses habe ich zn Anfang ausgelassen. T oiS dioiy
ojiev oi$. Sae- pius iam de usu verborum annota- vimus, quo
omittuntur alia quae- dam verba, quorum additamen- tum, secundum
nostram loquendi consuetudinem si rem iudicas, ad rem necessarium
est. Ut exem- plo utar, dioiyexai dicitur pro 8iolye65ai Svvaxai,
dioiyojii- vovS pro StoiyeGSai dvvapti- vovSy quibus exemplis statim
edo- cearis , qua conditione hujusce- modi omissiones Graeci
scripto- res admiserint. Fusius (ie hoc dicendi genere supra
diximus an- notat. p. 169., p. 207. , al. ei yap t5e\ei zt$.
Haec ion xal ot loyoi avxov otiowxaxot tlst xolg SuXrjvoTg xolg
dwiyofiivoig. tl yag IfthXet, xig ' xav Eaxgdxovg e uxoveiv Xoycov,
qiavEitv av itaw ytkoloi x 6 xcgmov’ xoiavxa xal ovufiaxa xal gijfiaxa
^a&ev rtegia/ixe- %ovxui Zcetvgov av uva vfigiGtov dogav. ovovg
yag plurimorum atque optimorum co- dicum lectio est, prae
qua multo deterius est, quod vulgo edeba- tur ISlkoi, Diximus de ei
par- ticula cum indicativo coniuncta, praecedente vel subsequente
opta- tivo et av 'annotat, p. 38. ibi- que potestatem huius
structurae explicavimus. Supra Alcibiades dixit p. 216. A. xal In
ye'rvv Hvvoid' ipavzoo , ozi, ei i$6- Xoifit itapexwv za atra, ovx
av xapZ7fp//(Saipi x. r. A. et panllo infra filat ovv oa?nep ano
zdav 2 'eipjjvcov , inidxopevo? za arae oFxojuai tpevyoov x. z. A.
, quae verba ideo laudo, ut melius per- spicias, qui fiat, ut
Alcibiades potissimum dicat ei yap iSehei T i? x. z. A, h, e, denn
wenn ei- ner wirklich das Ilerz hat , die Reden des Socrates zu
veroeh- roen. Quivis alius, qui non ex- pertus esset, quae sibi
accidisse Alcibiades narrat, non dixisset ei yap i$£\et zi? x, z.
A, 2azvpov av xivavfipt- 6tov 6opav, h. e., Stall-
baumius inquit, ol A oyoi avxov totavza ovopaza xal firjpaza
ixovtiiv &snep av ei SZwSev 7tepiapn^x otyTO 2azvpov ziva
vfipidxov dopav : sermones eius talibus nominibus et verbis
compositi sunt, quasi Satyri quadam irrisoris pelle extrinsecus
amicti sigt. Porro ne quis av particulam suspectum habeat, verbo
omisso in oppositione po- sita, sententiam hoc modo explicandam
censet : oia av efrf Sazvpov zi? ijfipitfzov 6opa .Ceterum quo
magis pateat, propriam dictionem cum tropica per elegantem quandara
breviloquen- tiam conflatam esse, interpunctio- nem post
nepiapnlxovzai vulgo positam delevit* Riickertus im- probata hac
omissione interpunctionis comparationis significa- tionem in ziva'
pronomine in- definito deprehendisse sibi vide- tur verbaque
convertenda censet 1 talibus nominibus et ver- bis extrinsecus
involuti sunt, quasi Satyri quadam pelle» Ficinus habet in
conversione; Nomina quippe et verba exteriori aspectu Satyri
cuiusdam contumeliosi habitum prae se ferunt. Satis nobis displi-
cet ziva pronomen indefinitum, neque, quomodo interpretibus satisfacere
potuerit istud: Satyri quadam pelle , intelligimus ; Ficini pronomine
offensi liberior conversio: Satyri cuiusdam pelle; sed ne hoc
quidem , si in Graecis legeretur XiVot , setia bene habere videtur.
Respicitur enim ad Marsyam , cuius men- tionem supra fecit
Alcibiades. Av autem particula admodum du- bito , num recte
explicari possit* Pone recte a Stallbaumio explicatam esse: o£nf av eXrj
2a-> rvpov xi? vfipidtov &opd : hoc certissimum est,
enuntiationem addita hac av particulae notione frigidiorem fieri
atque langui- njATaNOs I xav&rjXiwe Afy» xal uvag xal
dxvroropoug xal (IvQGodtipae , xai au dia dSorem.
Itaqne non dnbium eat nobis, quia verba dv ttva depra- vata
sint. Scribendum est: tot- avtct xal 6v6f.ta.ta. xal faijfiatct HZaoSev
7t£piafi7texovtai f 2arv- pov avtixa vftptdtov 8opav . Quam facile
avtixa , cuius vo- cabuli usum non intelligereat librarii, in av tiva
mutari po- tuerit, ipse, lector, vides. Adhi- buere autem illud
vocabulum scriptores ia exemplis argumentisque afferendis atque in
comparatione haud raro. cfr. incerti auctoris Alcib. II. p. 138. C,
tSsnep tov OiSinovv avtixa <pa6\v evB»a~ 6$ai SieXidZat ta na
- tpoHa tovS vlelS x . t. X. Ibid. p. 189. B. navtaS ovv av
<pdv - reS , oj AXxifiidSrj, rovS a<ppo - vaS ftaivedSat, opSwS
av (pai- tjpev. avtixa tc ov ddov 77 A 1 - xtootcov et tiveS tvyxdvovdtv
acppovLS ovteS, &Snep eidi, xal tgjv iti npedftvtipoov. Ibid.
p. 144. C. ovxovv ol firjtopes a y- rixa, ytoi eldotes
&vftfiovXev- etv rj obfSevteS eldivai x. t. A. Piat. Protag. p.
359. E. aXXd fikvtoi , i<prf, co 2c6xpateS, ntiv ye tovvavttov
idtlv ini a ol te deiXol ipxovtai , xal ol av - 6peioi. avtixa eis
tov noXe- ftov ol fiev iSeXovdiv levat, ol 0 61 ovx iSiXovdtv.
Piat. Gorg. p. 472. D. avtixa npcotov,nepl ov vvv 6 Xoyos idrl, dv
?}yet olov te eivai, elvat ftaxapiov avdpa adixovvta te xal
d6t- xov , etnep x. r. X. fii loci ac- curate inspecti satis
docent, per avtixa vocabulum exempla af- ferri talia, qualia
loquentia animo illico offeran- tur. Quoniam autem exempla, tov
avtav ta avtct <pai- quae loquentis animo inter lo- quendum
offeruntor, non sem- per aptissima sunt neque omnium optima , quae
afferri potuissent : avtixa vocabulum indicat, alia exempla
reperiri posse fortasse, quae rectius nunc laudentur, sed
loquentem, quod primum ipsi se obtulisset, id exhibuisse, Inest
simul caussae indicium , cur ex- emplum laudatum scriptoris ani-
mum primum subierit. Sic io Alcib. II. p. 139* B. quoniam cum
Alcibiade loquitur So-crates, rjXixidotai Alcibiadis per avtixa vocabulum
exempli caussa laudantur. In Piat. Prot. p. 559. E. SelXqjv et
avSpeicov nomina ultro ad bellum laudandum loqoen- tem duxerunt.
Rem extra dubitationem ponit , ut alios locos praetermittam , Piat. Gorg.
p. 472. D. avtixa npdotov , nepl ov vvv 6 XoyoS idtiv. Neque
mirum , Socraticos sermones cum Satyri pelle addito avtixa vocabulo
comparari , cum ipse. So- crates paullo ante cum Marsya comparatus
sit. Iam nostro loco avtixa pro dv ttva ubi posue- ris, verba
vertenda sunt: So1che (b. e. so litcherliche) Worte und Satze
haogen auswen- dig durum heram, eben eine wahresSatyrfell.
Ce- terum quod Stallbaumius censet nOn opus fuisse in hac
compa- ratione 00 S particula : coS 2atv~ pov dv ttva vftptdtov
dopav, quoniam et Graeci, et Latini scriptores haud raro eam
appo- sitioni vim tribuerent, ut habe- ret simul comparatiqpis
signifi- cationem : coS particulam nostro loco ne ferri quidem
posse con- veta* leyuv, agrs SltEigog «ai dv<njTog Sv9qox og
zdg &v tuv f.6yav xcaayeXdaus. duuyopivwg 81 Id av av 222
Undtmn>. 'ili 2atvpan> Sopav foret : quasi Satyri peJle
amicti sint; 2axvpov Sopav autem similitudinem ita auget, ut Satyri
pelle r er er a amicti dicantur* Recte igitur a nobis in conver-
sione additam nomen : wahr. Eodem modo loci explicandi sont,
quos Stallbaumius laudat annotat, ed h. 1.: Aristopb. Aw. y. 169.
et Plat. v. SI 4. dv 6* *ApidxvX- XoS vitoxddxcov ipeiS t ad quae
yerba frustra Scliol. X sinet 81, Inquit, to coS 6 *ApidxvXXoS ai-
CxpovpyiaiS nexr}vo6s. Tibuli. I. 1. 7» ipse seram vites rusticus,
quo loco illud ipse aeram quasi rusticus ad- modum ieiunum foret.
Horat. 6erm. I. 1. 99. hunc liberta • ecuri divisit medium
for- tissima Tyndaridarum. ovovS yap xavSTjXlovS
Scliol. s. v. navSrjXiovS * xovS fipaSeiS , inquit, voijdai r) a -
<pvels ano navSavoS, oS idxiv tvoS, elprjpkvoi , oS naXiv ano to
ov xav^njXiGov , xcjv inixiSe- fikvcov avtqS inindpnxcev B,v- Xa)v
, xovxidxi daypdxoov, ovo - paP t Exai ovxcoS. Idem sub T,
fivpdo8kif>aS* tovS xas fivpdaS ipyapopkvovS nal paXazxov - taS,
Socraticum hunc morem, res vilissimas atque tritissimas cum aummis
miscendi multi loci Pla- tonis repraesentant. Sic io Piat.
Euthyphr. p, 13. legitur: 2. nal naXdiS yk poi, cJ EvSvtppov,
<paiY£i Xkyeiv. aXXa dpixpov rivoS ht Mei/S elpi. xrjv yap $epaneiav
(sc. rc5v Seobv) oviccd G vritlfit rjvxiva ovopapaS. ov yap itov
Xkyeif ye , oleti nep nal ai nepl za aXX* Sepanetai eidi, toiavxrjv
nal nepl xovs SeovS. Xkyopev yap itov , olor (papev , innovS ov naS
inidxaxat Scpaneveiv , aXX’ d inmxoS. r\ yap; E. navv ye, 2. r\ yap
itov Innixi} Inncov Sepaneia; E. vai. 2. ov8k ye nvvaS naS
inidxaxat Sepanev- €iy , aXX* d xwipyenxds. E. ovxgos. 2. ij yap
nov nvvrjye- xim } xvvgoy Sepaneia; E vai. 2. t\ 8k ye fiorjXaxim/}
^ocov ; E. navv ye. 2. rj 81 6 q odtoxnS re xal evdkfieia Segov c o
Ev- Svtppov ; ovxooS XkyeiS \ E. i- ycoye. nal dnvxoro
fiovS cfr. Piat. Gorg. p. 490. E. rov dxv- toxdpov IdcoS pkyidxa
Sei vno - Sijpaxa xal nXetdxa vnoStSe - pivov nepinaxeiv. K. nola
vno- Sipiaxa tpXvapeiS ix cor; quae Callidis verba optime
transtulit Stallbaumius annotat, ad h. 1. p. ed. 157. Was liast du
nur, dass du doch immer von Schuhen achwazzest. Quae seqnuntur ver-
ba xal dei 8id xcov avtcevxd avxa (paivezai Xkyeiv optimo probantur
Callidis verbis in Piat. Gorg. p. 490. E. cos dei xavxa XkyeiS , gj
2cdxpaxeS. 2. ov po~ vov ye, cJ KaXXixXetS , aXXa nal nepl xdev
avzaov. K. vi} rovS Seovf, dxexy&s ye ael tinvxkaS xs nal
nvatpkaS nal payeipovS Xkycev nal ipcxpovS ov8lv navet coS nepl
xovxcoy rpiiv dvxa xov Xoyov. StotyopkyovS dhiScev av
xiS. Bekkerua pro av, quae omnium librorum lectio est, av in
ordinem verborum recepit. Eum secuti sunt Astius et Din- dorhus.
Recte Riickertus videtor ttg xccl fvrog «vrinv yiyvv/isvog ngcorov pev
vovv fyorrag l'vdov (iwovg tv(n]au rav koycov, inuta ftu- otdtovg
xal nktloxa, ccycdjjiccta ugerrjg iv ctvrolg E%ovcag zcd Ini TtktiOtov
ttlvovcag, (idXlov di Ini jtav, oGov ngogr/xu GxonBcv tc 3 [liXXovu,
xcdco xayadqi iOECidcu. Tavt’ istiv , « avdgeg , a lya Evxgdr-q
incava’ pcv particulam etiam eo nomi- ne improbare, quod, si
eam exhibuisset scriptor, alio loco po- puisset : 8iozyo/.iivovs av
idejy. Male autem {Scov av ex- plicat : idv TiS I8y: si quis
forte viderit. Nihil enim certius est, quam IScjv dv idem
significare atque el fdot dv, quam dicendi formulam frustra negantur
scriptores Graecos interdum adhibuisse, Alio tempore explicatius de idv
TiS fd#, eI tiS I801 dv, Similibus dicendi formulis discemus, nunc hoc
tantummodo an- notare iuvat , eI particulam cum optativo et ay
coniungi, ubi heri aliquid pouitur, quod vix heri possit, et quod
si fiat, ex insperato accidisse putatio dum sit. h# 1
irroS ccvzgjv yi- yvopEvoS. Haec verba Schlei- ermacherus
convertit: Wenn sie aber eiuer geoflhet sieht u n d
inwendighineintritt. Hecte quidem verba Graeca conversa sunt, sed haec ipsa
vehementer dubito, num bene se habeant. diotyojxevovS participium satis docet,
Alcibiadem ad Silenos respicere in artificum officinis collocatos, Iam si
quis (jtydXjiaux in illis recondita volebat intueri, epistomio ab
utrius- que lateris foramine remoto ad alterum foramen propius
acce- debat, non in concavum Silenum descendebat ;
scribendum Igitur videtur esse: xa\ iyyvS Ctvtcoy yiyvojievoS. De
ivtoS , iyyvS , al. saepissima in libris commatatione vide aunotat. p.
122, fiOYOVS evpjjaci TGOV X6ya)v. MuvovS Statlbaumius
eodem modo dici censet, atque p. 215. C, pova HaTExzGSoti ItoiEi ,
h. e. eximie. Sed vide annotat, ad haec verba p. 341. Hoc potius
Alcibiades dixisse censendus est: Solum Socratis sermonem in se habere, quod
vodv h. e. iutelligentiam fere divinam prodat. Quod ita dici ab
Alcibiade nemo mirabitur, qui quidem legerit, quae p. 215. D. et E»
de Socratico seiraone dicuntur. Ey8ov Ruckertus ad- ditum censet propter
oppositio- nem sophistarum, quorum ora- tiones extrinsecus quidem
splen- deant , magnamque veri speciem prae se ferant, intus autem,
si quis accuratius exploraverit, omni veritate careant. Dubito,
num hac ratione ivdov vocabuli po- testatem satis recte
explicatura habeas, "Ev8ov potius additum, Ut lector moneatur
significantius, sermones Socraticos cum Silenis comparari, qui in
artificum of- ficinis sedentes intus in se simu- lacra recondita
habeant deorum. pdXXov 8 e . MdXXoy 8e eius est, qui
arctioribus finibus circamscrih^t, quae proxime prae- i
by'Cyo<j[c zrMnosioN . 'acu ccv, 8 (lificpofifu <Svf
lul^ccg, vfiiv ilitov a fis vj}gi6e. xal (dvtoi ovx Itis fiovov ratha
nsxolrjxev , alia xa i XccQfildtjv rov riavxuvos xal EvftvSr]fiov rov a
ho - xltOvg xal allovg naw xollovg, ovg ovrog l^axarov c5g sgaGTrjs
xaiSixa fiallov avzbg xu&iozutcu, dvz’ Iqu6tov. a 6rj xal Ool Isya, a
’Jyd&cn>, fitj locata- cedentibus minus accurate
erant atque latius patentia enarrata. Vide annotat, p. 15.
tavx* £dtlv y qj avdpeS — v (5 pld ev* Vulgo iuterpun— ctio
comparet post pipqiopai, quam BekJcerus iu textum rece- pit,
Stallbaumius delevit, Riicker- tus post dvppi£>aS transponen-
dam curavit. Nos et post dvp» pl&<xS et post av 3 quod cum
in- aequente eluor arctius coniun- geudum est , comma
ponendum curavimus. Sensus est: Haeo sunt, o viri, quae mihi
iu Socrate laude uda videntur et rursum dixi vobis, laudationi
vitupcrium adjungendo, quanta superbia necum egerit. Quam Wolfins foci
interpunctionem pro- bavit : a iycj 2ooxpdxrf iitaivQa t xal av a
pkpcpopai. tivppl&ctf vfiiv eItxov , a pe vfipidav , ea ne
rectam quidem sententiam fandi t. X a ppiSijv rov r\av
- xcdvoS. J)e Gharmidc. Glauco** uis lilio, vide Plat. Charmidem
p. 154. seqq. , p. 157. seqq., Xenopb. Memor, III. 7., Sympos. III.
9-> IV. 29. coli. Wytten- Lach. ad Select. Princip. Ilistor, p.
411. Iuvenis fuit et genere nobilissimo Gritiarum oriundus et
praeclara animi indole praeditus. Enthydemus intelligitur Dio- clis
filius j idem est , qui cum Socrate colloquens inducitor
apud Xenoph, Mera. IV. 2. 40* Male eum Wolfius confudit cum
Eu- thydemo Sophista, cuius nomine Platonis dialogus Euthydemus
in- scriptus est. Stallb. itaiSixa fiaXXov avr of.
Socrates hominibus pulcris ita insidiari solebat, ut eorum amore
captum se simulans ipsis vehementissimum amorem iniiceret sui. Respicitur
ad hanc rem iu Piat. Alcib. I. fin. A. xal itpoS tovxoiS psvxoi
toSe XeyG i, oxi XivdwEvdopEV fiExafiaXtiv xo 6]pjltu % g3
2<nxpocteS , ro plv dor £y<v , dv Sk xovpov . ov yap Idxiv
oncoS ov itaidaya)- yijdco ds ano xijsde trjS rjpi- paS, dv 6* vit
* ipov itaiSa- yayrjdEi. 2. yevvale , ice- Xapyov apa 6 ipoS ipnoS
ov- 6lv dioidei 9 si itapa dol £v- VEaxxtvdaS tpeoxa
vitoitXEpov vito tovtov Ttakiv $Epa7tEV- dsrau / a 8?j
— pr) £Za7tata- d$ai vico tovtov. Bodle- ianus codex, in quo
interdum manifesta indicia correctoris nou indocti reperiuutur ,
ttiaitaxa,- dSe exhibet , quod quamquam aptum est et bonum ,
tamen recte postponitur lectioni vulgatae. Per epexegesin enim pt }
iZartaxadSeii verba praecedenti relativo pronomini apposita sunt,
idque genus dicendi , quoniam i jiaathnoz raO&cn
vito tovxov, ali' dxo rov fjpexiQav Tca&yfiu- xav yvovtct
tvXaptj&yvai , xal (itj xotzd vqv 71uqoiuluv, SgitEQ injTCiov,
xu&bvrci yvuSvat. Cap. XXXVIII. C Ehtbvtog Srj xccvvu xov 'Alxifhudov
, yikma ys- vlaftcu Ini xy na^Qyisla ccvxov , on idoxei in Igco-
xixws i%uv xov Suxquxovs. xov ovv Eaxqccxij, Ntj- suum quoddam
pondus habet, Graecia adamatam est magno opere. Eius ut unam
exemplum alleram, legitur io Sophocl. An- *ig. v. 446.
8v 8’ tini poi pfj pijxoS j aAAd dvvxopa ySyS xd xrjpvx^ivxa
, prj npatfaetr r a8e ; Ceterum quod relativum prono*,
mea attinet, quod ad praecedens tia semper refertur secundum
praecepta grammaticorum, prae- clare Stallbaumius annotat, ad b. 1.
Plene, inquit, Alcibiades dicere poterat sicj ex quibus quae
consequuntur, ea etium te moneo, videli- cet ue ah hoc
decipiaris, oxctxd rtjy TC a p oiplpr. Respicit Alcibiades ad Hom,
'11, XYIJ. v. 32. et XX. 198. aXKd d’ iytuy dvaxooptj*
davxa xe\eva> IS nXr/^vv liycu , pt/8’ mV- xioS
tdxad’ i/tuo nplr xi xaxdv naSietv- fie- X$tr di xe yi/nios
lyra, $cho]. nd Ii. 1. annotat; fiexShr Si Xf. vyttiQf iyvay
ini reo r peia xu naSelr dvviivxajy xd apaptrjpa. figd xd avxd
txipu papoipia' d «Atetifr n Ay- yeis y ovy ipvdft. qxxGt
ydp aXiia ayxidxpevorxa, inei~ Sdy dnddtp xo 5 A Ivoo xov
ix$vv, xtf x n Pl npotayaydvxa xaxi- Xeir , ira prj <pvyg .
xvvxo 61 dvrtjSatS noiovyxa vno dxop- xtiov icXr/yrjvat' xal tine onXti-
yels yovv cpvdetS, xal pr\- yixt npoSayeiy ig ixetvov xtjv Xtipa. —
"E<Sxi xal xpixrj opalo- idv prj naSyS, ov prj p a- Sr/S.
iXix^t/ 61 ini Tipatrof Xov ptdavSptdnov ptjxhi npoS- tepirov x ovi
xoXaxaS, Apud Hesiodum legitur, quod propius etiam videtur ad
Platonis verba accedere Opp, 216. naStdy Si Xt vr/moS lyvat,
ini xy nafi/tr/dlce av- xov. Ipse Alcibiades p. 217, E. xd 8'
ivxtvSttv , inquit, ovx av pov tjxovdaxe XiyovxoS, el ptj npdxor
pb> xd A eydpeyov ol- yoS avev xe nalScov xal pexa naiSatv r/v
dXt/Btjs, quibus verbis napfttjdiay excusari mani- festum est.
xdy ovv 2<» xpdrijt Mira arte , quae sequuntur, excogitata
sunt atque praecedentibus an- nexa- Etenim cum orationem Alcibiades
finiisset^ quae ingen- tem cautineret Socratis laudem, fieri non
potuit, quin Socrates aliquid responderet. Exspectabas urio fer«
quid responsurum esse, %
m q>t tv (ioi tipxs Ig, tpavai , <o ‘AhufiiaSri’ ov
yctg Sv nors ovza xouipcSg oxvxXty X£QifiaU.6[isvog utpavloai
ivt%siQu; ov evexa zavza navza dgtjxag, xal cSg tv uaQtQycp drj Uyov ixl
zetevpjs avxo Edjjxag, tog ov navza zovzov tvtxa elfnjxag, zov £(i'e xai
h fya&ava tiucpaXluv , olofitvog deiv tfii (itv Cov Iqav xal fitjSs-
o vog allov , 'Aya%ava 6'i vxo Oov iguodai xal ftijd’ i(p' tvog
aU.ov. alX’ ovx tXadtg , akla zo UazvQixov quale, qui laudantur,
edere so- lent, modestiae documentum. Id si Socratem proferentem
indu- xisset scriptor, verendum 6aue erat, ne rerum ab Alcibiade
ex- positarum fides imminueretur vel vis atque vigor
infringeretur. Contra si nihil respondeutem fe- cisset ad laudes
illas , neminem esse arbitror, qui Socraticum si- lentium non
superbiam et arro- gantiam sit interpretaturus. Ne igitur ad laudes
Socrates respon- deat atque ne superbire videatur, finem
Alcibiadeae orationis ag- gredientem Piato fingit, atque a
laudatione animos auditorum fe- liciter deflectentem. Qua ratio- ne
id fiat, exponere nolo} ipsi lectores verba examinent, stu- diose
singula expendant, Plato- nisque artificium, quod ipsi de-
prehenderint perse nserintque, ad- mirentur. ovx a xopip 00 ^
h. Stall- baumius inquit, tam scite artificiose. Idem
xo/iqfrev- e6$ca rectissime annotat. ad Piat, de rep, IV, p. 4 36.
D. de ora- tione festiva , arguta et ad ca- piendos auimos auditorum
apta interpretatur Timaei laudans L, V. Pl. p, 154. seqq. Verba
*«- kAo>7 nepifiacXXopevoS esse docet multis orationis
ambagi- bus usus. Fortasse ad Alcibiadis verba Socrates respicit p,
215. A. iav fUvxoi dvajJtipvTj- tixopxvoS aWo aWoSev XSyco, fiTjdlv
SavpdtiyS' ov yap xi fipSiov xrjv (??jv axoxiav gj< 5 * ftovn
evnopooS xai itpeZrjS xa- xapi%pij6au De a<pavi6ai ver- bi
potestate supra dictum est an- notat. p. 561. x.al cJ s iv
itaptpyop tdi} particulae ironicam significationem. de qua vide Indices
s. v. 6rj, etiam ex hoc loco cogno- scere possis. Sensus est ver-
borum : Et scilicet quasi praeter propositum at* que consilium
tuum, r ov ipl xal 'AydSoora § iap aWeiv . cfr. Piat.
de. rep. VI. p, 498. C. firj 6ia- fiaX\e, jjv 6* lyw, i/ih xal
Spa- Qvpayov apxi (plXovX yeyovo- xaf, Qvdfc Ttpq % ov
i%$pov$ ortas, oiofteros 6elr tfil. D. (Uiv verbi
potestate supra dictum est annotat, p, 12. Non sino acerbitate hoc
loco positam est, simulque vanitas opinandi Alci- biadea
perstringitur: indera du dir einbildest, ich miisse uuura- giinglich
cet, Prorsus eodem tpodo Alcibiades paullo infra p. 222- E, oiexai
pov 6elv nav- raxi KBpuwccu \ .* I Oov dQC!(ia tovto xal
OeiXrjvixbv xataStjkov lyivEto. ' bAA’ , tJ <plle 'Ayaftuv , fitjdlv
‘nUov avttp ytvrjtai, «AAa naoa<S>isva£ov , oxag ifih xal al
[lydels 6ia(id At; Tov ovv Ayd&uva. tlmlv , Kal firjV, i b ZdxQatEq ,
xiv- dwt vug cckrj&rj i.tyuv ’ rtxfiatnouai, 5s xal «a g xate-
E xltvrj Iv pii 1(o sftou rs xal tSo v , Zva %aq\q jj/iag 6iu- JLufiy.
ovdsv ovv xkiov avtcS Sotai, «AA’ lyd xagd dAAa ro Sarvpixdv
6ov 8 p a p a tovto xal SeiXtjvixoy . Recte intelli- pet haec verba
qui meminerit, non nisi ante actis fabulis tragicis Spapaxa 2atvpixa
edita esse. Duo autem sunt, quae iis commemoratis Socrates
reprehen- dit. Alterum, quod in fine orationis Alcibiades posuerit
ea, quae primarium locum obtinere debuissent, si apertius sensa
sua ille depromere voluisset. Alterum , quod Satyri Silenorumque
comparatio ea taatum de caussa instituta sit, ut orationis finis
Alcibiadisque consilium facilius tegi possit atque velari. Satyricum
illam poesin quod attinet, apud Zenob. legitur: tqvS Sazv-
povSv6TEp6v 28o%tv ccvToiS npQ- EtsdyEiv, foce jit) 8ox&Giy
liti- \avSavE(5Sai t od $eov. Probat hanc sententiam
Wachsmuthius in libro: Hellen. Alterthumslr. II.2. p. 412. : Ais die
Tragocdie des urspriinglichen voti Dionysos haudelnden Inhalts sich
entdussert hatte, und wie eia freigewahltes und au den Dio-
liysosfesten nur ausserlich hinzu- gefiigtes Kuustgcbilde erschien, vrurdp,
man mogte sogen aus ei- ucr Art von religiosem Bedenken tmd zur
Eriuneiung an die an*- fftnglichc Beschafienheit des Chors das
satyrische Drama eingefiihrt, das freilich rait seineu StolTeu
auch nicht nuf den Kreia dio- nysischer Mythen beschrankt,
und dessen iunerer Ton und Haltung tveder von dem tragischen
Ernste noch dem komischen Scherze streng gesondert war, dessen
ei- genthiimliches Weseu daher wohl nnr in der Wiedereinfiihrung
des ehemaligen Satyrchors zu suchen sein mochte. pTjdlv
itXkor avTQj yk - vrjxai , h. e , Stallbaumius in- quit, opa, pt)
te TcKtov avTGj ykvijrai. Dubito, nui n hao ratione veiba recte
explicata sint. Scriptum certe exspectaveris : pt/- 8lv tc\Lqy
atheo ykm/rai, xal xapadxF.vdctov , oizgdS ipk xat Ce pt/SsiS
8iafid\y. Non recte enim in eadem enuntiatione consociari videntur opa —
d A.A. d itapaCxeva£ov> Mj/81y — yk- vr/xai in eum potius cadere
videtur, qui suarum rerum certissimus eloquitur, quod non sit futurum:
Oewinn soli er da von tilcht huben, \ Zvct x&pl* vpds 8ia-
Xdfty, Dictum hoc eleganter cum amphibolia qqadam, ut et de spatio
possit cogitari et do animorum disiunctione, Stallb. a\X’ ei
pt/ ti dAAo, g5 $ avpaCiE, Alcibiades cum Socratem se potiorexn
esse anim- adverteret in capiendis homi- num animi;, oj SavpdCu
op- ztmiiozion fi! iX&wv xccTaxhvfoofiai. Tlavv yi ,
<pavcu rov Ha- XQattj , Sivqo vnoxata ifiov xataxlivov. 'SI Xtv ,
cl~ mlv rov ’AXxi(iiadt]v , ola av na<S% co vxo rov
uv&q<6- jcov. o’uzai fiov Sslv xavzayfi «SQiBtvca * aXX’ tl
(itj n aXXo , o) &avuc((hE , Iv pioco rj(i<av tu
'Ayu&avcc xataxslo&ca. 'A XX’ aSvvazov , (pavae, rov
JkaxQanj. <Sv filv yccQ lui httjVEGas , 8b t fi’ i(i's av rov
Ixc dt^ta pellatione usus est, cnias po- testatem aut non
explicarunt in- terpretes , aut non satis recte* Gav/iageiv verbum
haud raro ita adhibetur, ut rem magicam significari indicetur. Sio
in Ari- stoph. Nubb. v. 180. ri 6t/t* ixetvov rov QaXrjr
Sav/HxZojxev 5 De Thalete praestigiatore sermo est, quem
axpov pr\xavix6v vocat Schol. ad hunc locum. Gav- fiaxa praestigiae sunt.
cfr. Plat. de rep. VII.p. 514. B. xap* 7jv (sc. 060 ^)
TEtxlov ita - poDxodoppjnirov y coSTtep xolG $CtVpaTQ7tOlOlS
7CpO XCk)V CLV- $pGD7tG)v ifpoxeixai xd napa - 1 ppaypaxa , vitlp
gov t a 2av- paxa SewvvaGiv. Sic etiam, opinor, SavpadioS hoc loco
ita ab Alcibiade adhibetur, 'ut prae- stigiatorem significet
Socratem, quippe qui mira arte hominum animos deliniat atque vel
nolen** tes ad se trahat. figi 5* ij.th av rov iit\ 8
b£,zol. Vulgo avxov legitur pro av xoY, quod de Bekkeri coniectura
hodie omnibus probatur. Patet autem, a principio ita consedisse Agathonem
atque Socratem, ut hic ad Agathonis dextrum latus cubaret.
Alcibiade accedente, quem medium inter utrumque consedisse
rrperimus, ordo hic erat : Ad dextrum Alcibiadis latus consedit
Socrates, ad sinistrum Agatho. Iam cum laudasset Alcibiades
Socratem, et hic quidem Agathonem iuxta con- sidere iussisset,
patere opinor, ad dextrum latus ipsum considere iussisse quippe
hominem lauda- tione ornaturus. Iam iutelligitur, «juid verba
significent iv p&6a» 7JJ.IUV, Rogat enim Alcibiades, ut Agatho
ad sinistrum latns Socratis considat, quo facto ille medius
inter Alcibiadem atque Socratem consideret. Ilaic Socrates: Vellera
quidem, inquit, tibi obse- cundare, si possem; sed non possum ego.
Etenim me laudando tu, qui es magister bibendi, legem
edidisti, secundum quam dextrorsus alter alterum laudare debet.
Necessitatem igitur milii impo- sitam vides Agathonem laudandi.
Iam.si medius inter nos Agatho consideret, me laudandi provincia ad eum
abiret. Sed non sperandum est, qui modo a te laudatus sit,
eum alteram laudationem ex Agathone auditurum esse. Sine igitur,
Aga- tho ad dextram iuxta me considat, eiusque lauda- tioni
ne invideas. QV 6?} 7tov i fih za\iv iitatv i (Sex at. Supra
diximus *\ (o ixaivuv. tav ovv ino <Joi xaraxhvy 'Ayaftav ,
ov 6rj nov ifih Ttctiw Incuvidtrox , nglv in’ tfiov (iaU.ov
inaivt&ijvau aM.’ EaOov , d datfi6vis , xal [l t) <p&o- S33
vrjdys *<? fiBigaxlco in’ ifiov Ixaws&rjvaL • xal yag naw
iniAtvudi avtov lyxafuaGeu. 'Iov Iov , cpavat rov ‘Jya&ava,
'AXxifiuxSrj , ovx Ead’ onag av Iv&ade (tilvaifu, akka neturos
(ia?.lov fiiravaetTjOofiat , Zva ino JEaxgaxov g Inaivs&a. Tath’
bulva , (pavae rov 'AAxipucdrpv , ta elaftoza ' Zaxgarovg na.gov tog
rem da 67}7C0V Tocolarnm «ignifica- dis fortunam commiseratos
dltione annotat, p, 98. Provocat xisae videri possit: Wchc, vrehe, entem
plerumque ad alterius iu- armer Alcibiades, ich kann hier dicium, qni his
voculis utitur, nicht blciben, soodern muss um ita, ut rem extra
dubitationem alles den Platz wachseln , damit positam esse una significet.
Jif Socrates mich lobt. Diilicile est eutem voculae irouica potestas ad
diiudicandum , utra explicatio satis manifesta est converti con- rectior
sit. Hoc unum certum tra eum, qui forte, quod certis* est, contra
Alcibiadem haec omola simum sit, addubitare audeat vel dirigi, qui si
commiseratione manegare. MdXXov ante incagis commoveri censebitur, quam
veSijvat positum cohaeret cum laetitia Agathonis , non dubium dicendi
formula ^idXXov 8£, quam erit, quin iov iov hoc loco sit eius esse, qui
ipse se corrigat, 6x*xXia6xtxdv inifjfiTjfia, xavxct ixeiva — ra
tlao- Sora, Diximus de xavxa i - XEiva verbis annotat,
p.309., ixeiva autem dicitur, quia ad aliquid plerumque, quod
prius est cum acerbitate respicitur, curavimus licet commate
sequente; ea enim vis est syllabae finalis , quae accentus
vigorem paullisper infringi non patiatur. , % , IOV iov
Mfifana est eorum, Mn xovxo xo xaxov, quorum animus subito com- 0 ^
cctzoXqoXexev . inoretur, laetitiamque non mi- Sed perrara sunt
xovxo duplici- nus , quam tristitiam exprimit. ter positi exetppla.
Aliqua eaque Interpretes laetitiam iov iov vo- perpauca exempla
Matthiaeus lan- culis Agathonem prodidisse nrbi- dat Gramm. anipl. §o471.
11. trantur, neque nos huius expli- p, 874. Ceterum non diu quae-
catiouis veritatem negamus : hoc renda fuit vernacula dictio, qua-
tautummodo contendimus , etiam cum Graeca verba comparare posde contraria animi
commotione sis : Da haben wir das alte Lied. boo loco voculas accipi
posse, Satis trita haec hominum iuferio- quatenus quidem Agutho Alcibia-
rem ordinum locutio , cui eadem l Ad praesentem rem
respicient Strepsiades in Aristoph. Nubb. v. 26, ait ; supra
annotavimus p. 15. Couvertenda igitur verba sunt: ante quam a me potius
(rectius) lau- datus sit. ' iov iov t tpdvai x 6 v
'AydSaova, *lov scribendum xaldiv petaXafciv dSvvcnov Skhp. xai vvv
, tj? evao- qo£ xal niAtavwi loyov evpev , ogTB n cap uwr<p
voviovi xaraxeuS&aa. Cap. XXXIX. Tov (ilv ovv ‘Jya&ava tog
xtctaxuOoptvov stupa b ta HcoxQatei avhSrcca&ai' 'li-aifpvrjg 6s
xapcttitag ryxuv scap.stoD.ovg ixl rag fhjgag , xal ixixvyfivtuq
avtaypi- vaig, kfciovtog uvog tig to uvtcxpvq, scoQtveti&at
scapi atque Graecis verbis ironia ple- rumque admixta
est. ojS evitopcj$ xal itt vov Xoyov . Duo suut, quae
miratur Alcibiades , unum , quod tam facile rationem invenit, alte-
rum, quod tam probabilem et ad persnadendum aptam. Riickert.
Tov plv ovv — i£al- <pvrjf. Supra iam diximus anno- tat.
p. 318. de artificio, quo ad- hibito scriptor noster, quae su- bito
gesta esse narrantur, noa solum igacicpvTiS vocabuli usu exprimere,
sed actionum felicis- sima iuuctura legentium oculis quodammodo
exponere soleat atque vividissime describere. Sio cap. XXX. initio
legitur: e/- novxoS 61 ? ravta tov 2ojxpcc- rovS tovS jxlv
inaivetVf tov 6& *Api6To<pavrf Xkyeiv tl liztxet- pelv , oti
ipvtj6^Tf avrov \£- yoDV 6 2ooHpd T7/S izepi tov Ao- yov , xal
iZaitpvTjS %. r. A. Eodem modo hic lB,cd<pvr\S vo- cabulo
actionis alicuius narratio praemissa est, cuius exitum eodem studio
, atque illic Aristophanica verba, lectores prosequuntur: cum
subito factum esse commemora- tur, quod illius actionis tenorem
illico interruperit. xoifiatitdf Ijxeiv TCajjt -
froAAovf. Grex comissatorum nemine vocanto poetae
cabicaluin ingressus incredibiles turbas excitat ordinemque omnem
convivii pervertit. Noli mirari, quod ali- qui ipsi se iuvitasse
narrantur atque non vocati multo cum strepitu in Agathonis domicilium'
!r* rupisse. Lenaeis enim Dionysio sacris vino solebant largius
se invitare homiues , ebriique per plateas vagari atque intrare,
ubicunque fores adopertas reperi- reut, Neque erat, qui liuius rei
miraretur insolentiam. Viui enim hausti virtus haec est, ut homiucs cum
hominibus arctius coniungat, omnesque sibi amicissimos reddat. Adde Agathonis
liberalitatem, quam qui norunt, eo minus dubitarunt invocati eius
domicilium adire. £B,ioytoS tivoS xo &v nxpvs, ico p ave
6$ at. Cum aliquis eorum, qui apud Agathonem essent, exire
vellet, pessulo re- tracto fores aperiebat, atque per ens iam
exiturus erat, cum continuo turba comissatorum intro se coniecit.
Dubitant interpretes, utrum ad sequentia an tui praecedentia
referenda sint verba eis to avTtxpvS. Sohleier- machcrus exhibet in
conversione: iodem einer hinaosgegaogen ih- 6(pag xal xataxXivtG%ai , «ai dogvflov ficata
aavza elvai, «ai mixtu Iv xuGaco ovdcvl avayxa&G&ai. nl-
vuv Ttafinolvv olvov. rbv fitv ovv , EgvlLy.ayov xal tov OaldQov xal
aU.ovg uvas %<pt] 6 'jQiatoSrjfios oi%eG&ui aiubvraq , 2 <5 e
vtcvov lafieiv, xal xataSag-. C ©e iv navv xoXv , ats fiaxguv uov wxtuv
ovabav, l^tygeG^ai 61 tcqos i/fiigav fidi] aXixxgvbvav aSov- tav
l&ygbfitvos de ISciv rovs fiiv aXXovg xa&evdov- nen entgegen, waren sie einge- drungen.
Apud Ficinum legitur: nam pauIlo ante quis coutra exierat. Stnllbaumius
contra elS z 6 dvnxpvS cum TtopeveCSai con- jungens verborum sensum
esse ait: recta ad ipsos accessisse, quod explicandi genus minime
probamus, neque placet, quod exhibuerunt, qui paullo supra laudati
sunt. ’EZi6vroS nvoS eis to avzixpvS imaginem proponit
comissatorum, contra ni- tente eo, qui iam exiturus erat, aditum vi
expugnantium» Comma igitur, quod Riickertus post i%idvzoS TivoS
ponendum curavit, recte expunxisse nobis videmur. dvayxd2e6$ ai
ziveiv na pitoXvv olvov. Frustra subiectum quaeras, quod ad
d~ vayxaZeGSai referas ; quare Rii- ckertus auuotat. ad h. 1.
explicandum esse censit: Se et reliquos cogi coeptos esse. In recta,
inquit, oratione avay - 9ide}£6$ai foret rJvayxaZopsSa, Non se enim
solum intelligere Aristodemum videmus ex eo, quod aliorum statim
mentio fit ita, ut lioc quoque ad eos pertinuisse appareat; de solo
coepto accipi- endum esse item docent sequentia, ubi, quibus quisque viis
necessitatem aut eviturit aut pertulerit, edocemur. Rectior loci explicatio haec est:
avayxa- &6Sai verbum absolute positam est, ut idem fere
significet atque dvdyxyv elvai. Haec bibendi nova lex quibus
displicebat, ii clanculum abierunt, quod moneo, ne quis forte
Ruckerti sententiam probet censentis : de solo coepto dvayxd$e6$ai
verbnm accipi- endum esse. rov p\v ovv 'Epvgipa- XOV .
Eryximaehum et Phaedram recte scriptor abeuntes fecit. Conf. verba p.
176. D. /pol plv yap 8rj zovzd ye olpai xaza- SyXov yeyovivai ix zijs
latpi- xijS , ori r oiS av^poS- icoiS y piSy i6rl' xal ovte
av- zoS Ixcjv elvai noppaa iSeXy- 6ctif.n dv itieiv , ovte dWoo
6vp- ($ov\ev6aij.n, d/.XcjS ze xal xpai- TtaXaivza Izi ix zrjs
nporepalaS . 9 JXXd pyv, £<py cpavai vno\a - fiovza $aZ8pov rov
Mvfifiivov- 6iov , iytayi 6oi etoSa nei- $e6Sai ze xal azt r
av ftepl iatpixijs XlyyS. dttiovz at , 5? dfc
vtcvov Xafieiv, Vulgo legitur uitidv - zas oUxaSe vtcvov Xaftelv,
Opti- mi codices illud habent. Ut iuter se conciliaret utramqne
lectionem, Comarius scribendam coniecit: aniovzaS oixade , ,2
vtcvov Xafleiv. Sed verisimillimum vi- detur, olxa8e glossema esse,
quod ras xal ol%ofitvovg , 'Ayaftava 8s xal 'Agiotoipavti xai
2-axQdtrj In fiovovg iygrjyoQtvai , xal nuvtiv ex qnulrjg [leyubjg ini
da| ia. rov ovv Hay.Qazrj aviolg HialeyeG&cu. xal ra ixiv ulla 6
AgLGroSrjfiog ovx iqyq (isfivi}6&at. rcov loycov ovre yag t| ag^ijg
nagayevi- tfOttt , vnovvGta^tiv re ’ x 6 {itvroi xeqxilaiov Etpij,
0 mgogavayxa&iv rov Zkoxgattj 8(ioloyelv avtoiig, rov tcvrov
avdgog elvca xofiipSiav xal tgaycpSiav ini- sciolus olim margini ad
scripserit, videlicet ut intelligerent lectores, Eryximachum atque
Phaedrum •ivisse domum. axe paxpcov rcor rv- xxoor
ovdair. cfr. Schol. ad Aristoph. Nubb. v. 2, au Zev ftadi\e
v, x 6 XPW a TGJY VVXTQdV 06OY. Aiorvdtaxov yap ortos xov 6
pa- pctxoS dvredtaA^ai xaS rvxraS avayxrj 6ux to xoiovxv
xcnpcS xmoniitteir xd Aiorvdta. t/Stj dXexx pvo va>r
ddor- xcor. Haec ut recte intelligantur, tenendum est, incolas
terra- rum versus Orientem sitarum ante solis ortum exsuscitari solere,
qui gallorum gallinaceorum cantu iudicatur. cfr. Aristoph. Nubb. v.
4. xal pr\r TtaXai y dXexxpvo - ros jjxovd ’ iyoj' ol 6
olxixai fiiyxovtiiy Igitur tardius se surrexisse Ari- stodemus
narrat, utpote qui, cum galli gallinacei iam cecinissent diesqne
illuxisset, somnum expulerit. iZeypoperos di idelr. De
nominativo participii vide an- notat. p. 22., qua explicatum reperies,
cur participii structura non ad praecedens £ pronomen directa sit.
Positum autem illud prono- men est, quod obiectum est, non
aubiectum enuntiationis» xa^evSovtaS xal olxo- filr ovS.
Fipinus, quem receu- tiores interpretes omnes secuti sunt, verba
convertit: Somno ex- citum invenisse, quod alii quidem partim dormiebant
partim discesserant. — Qui sciunt, quum saepe xai et ?j in libris
commutata re- periantur propter scripturae com- pendium, quo
alterum vocabulum ab altero interdum vix dignoscitur, nimiae audaciae eum
non accusabunt, qui forte scribendum censuerit : xaSevdorxaS rj
ofro- jxevovS. Cogitari potest etiam xai prima xaSevSorxaS
participii syllaba Absorptum esse, ut integra verba audiant: xal
xa$ev8or- xaS xal olXouirovS . Sed nihil mutandum videtur.
Praecedente euim personarum distinctione, Graeci quippe orationis
leniter ac leviter procedentis studiosi actio- num distinctionem
non admise- runt. Quam si addideris, vah, qnautum morae verbis
inferes! *Ay a5 cor a xai ' 'Api - 6 x.o <p a rrj
xal 2. Egregie haec Socratis temperantiam , moderationem et constantiam
de- clarant , qui quum per totam no- ctem cum hominibus
epularum amant issimis bibisset, tamen sobrius neque vino vigiliisque
con- fectus a convivio discessit. Ne talia quidem negligenda sunt
iis, qui de dialogorum Platonicorum <Sxa6dai stoieTv, xal xov
xtyyr) XQayuSonoiov ovxct xai KU/iuSonoiov tlvut, xavxa dq
dvayxa£ofievovs ccvrov$ xal ot5 <S<po8Qa faopivov$ wOt xal hqcoxov
ftev xaxadaQ&eiv xov ’AQi6roq>avri, ^8r/ 81 Tjiiegag yiyvo-
(jLtvt]g xov 'Ayddcava. xov ovv ZaxQaxt] xcczaxoLfirj- davx’ ixetvovg,
avaiSxdvta aicdvai , xal avtog & gittQ eludet, foetidat , xal eXdovxa
elg Avxetov , axoviipa- ftevov, ugmQ dlkoxt xrjv akX-qv 7](ieQav
diaTQifhtv, xal o vra StaxQhpavta elg ttixigav olxoi avanavetidau
argumento et consilio prudenter iudicare volunt. S t a 1 1
b. xa> ptp Siar xal xpaytp- Siar initixatiSai
noielv. Facillime intelligitur, qui factum sit, ut de hac materie
Socrates disputarit. Ipsa Lenaea aasam dederunt de poesi ac de
variis eius generibus disserendi, et quum Socrates cum Aristophane
disse- reret, comico poeta suae aetatis celeberrimo, et cum
Agathone, qui tragoediarum granditate nobilem se fecit, colloquium
quasi ultro eo delatum est, ut inprimis de tragoedia atque de
comoedia quae- stiones instituerentur. Ceterum frustra Stallbaumius
eorum sen- tentiam impugnat, qui e Schol. ad Aristoph. Ran. v. 84.
aliisque locis colligunt, Agathouem non solum tragoedias sed
etiam comoedias scripsisse. Nam quod etiam Agatho hoc loco
narratur Socrati oblocutus esse censenti, et comoedias et
tragoedias posse ab uno eodemque poeta scribi, id Iride , ne parum
validum rei argumentum sit. Quid, si Agatho comoedias scripsit revera,
quas ipse tragoediis a se scriptis multo deteriores esse
intelligeret, nonne fortius potuit quippe experientia doctus
Socraticam illam senten- tiam impugnare ? x p ay gj$ oit oiov
ovxa xal x a pu>8on oior elvau Vulgo TpayGoSionoiov et
xgo/zco- SzoffotoV, quae formae ab At- ticorum usu alienissimae
sunt. Moeris habet : xoDpcodoitoioS' ! 'Atxixg xcoptpdiojzoioS'
'ivi- \7fVlX(k>S> xal avxoS , toiitep slco-
Sei, exedSat. cfr. p. 173- B. xapayeyorei 6* iv xjj tivrov - 6 i(f
2a)xpdTovS ipa6xj]^ dSv iv toti /uxAtdta xdov xoxe, gJ S ipol
6oxet. xal ovxa eli Av - Xtiov. DE LYCEO, GYMNASIO extra
urbem sito vide Wucbs- muthii librum ; Hellen. Alterthumsk. II, 2. p. 56.
Ibi Socra- tem versatum Stallbaumius an- notat propterea , quod
sophistae in eo scholas habebant, quorum inscitiam solebat
couviucere , et quod plurimos illic adolescentes nansciscebatur,
quibuscum sermo- nes instituere posset. EXCURSUS Scribendam
confecimus p. 179. C. : xa\ xovx* ipyatictpivTj r<> ipyov ovxcj
xaXov £8o£er ipyadatiSai ov povov dr^pcaxoiC, a XX a kolL Scois , goSxe
noXXdav itoX Xa -noti xaXa ipyadctplvwv evapiSyr/xoiS 81} xi6iv ZSotiav
xovxo yipaS ol 3eol, IB, AiSov nctXiv dvikvat n)v ipvxyv, aXXa xijv
ixeiyrjs ctveitiav avay~ xad$krx e £ tgo Ipyco. Ad haec verba
Scholiastes annotat : *AXxrjdxiS 7 } IleXiov Sv- ycexrjp vnopcLvatiot
vn\p tov l8iov av8poS XEXsvxydoct 'HpaxXkovS lni8r]pi)davroS iv ry
©ExxaXin. Stadco^sxai fiiadapkvov xovS *5o- viovS SeovS xal dcpeXofiEVOv
xrjv yvvaixa. Hic mythus veras esse videtur; quod Phaedrus dedit, mythi
artificiosa interpretatio est. Vix intellexit autem Scholiastes , quam
utilis ille mythus faturus esset explicationi verborum supra laudatorum.
Confirmat enim fiiadapkvov participium avayxad^kvxES scripturam, Herculem
au- tem quod attiuet , doceri possis herois mentione , quomodo olim
populi mythos genus hominum eruditius interpretatum sit. Recte nobis
annotatione p. 71. indicasse videmur: Phaedrum hunc mythum pro consilii
sui ratione ita interpretatum esse, ut Alcestidis virtutem cum Herculea
virtute compararet, alteramque Alteri substitueret. Quo cla- rior
res fiat atque ut simul iutelligas, artifices in artis operibns haud raro
eruditorum , quam populi iudicium secutos esse magis, AMORIS imaginem gemmae
incisam infra addendam curavimus sub Nr. I, Petita haec imago est e
Winckelmanni libro: Monumens inedits de l’antxquite Tom. I. Paris. Pellis
leonina, qna Amor indutns est, et clava, quam gerit, Herculis insignia
sunt. Claves quid sibi velint, iam videamus, Winckelmannus I. 1. p. 200.
haec habet : L’Amour portait ces cies ou pourouvrir qtfer- mer a
son gre 1’appartement de Venus, ou pour de- signer les plaisirs, dont il
etait le dispensateur, On peut-dtre aussi pour faire al Iasion aux cies
portes» par les pr£tres et les pr£ tresses. Horum nihil in nostram
26 f ' X *o t ~ . imaginem cadif, qnn«
audaciam, constantiam, duritiem, non dnlce* risn» Cupidinis prodit.
Rectius igitur « laves gerere AMOREM censeas et clavam et leoninam
pullem, quod Herculea vi inferos deos cogendo Orci p u r t n s
recludit. De altera, quam apposuimus. Imagine Winckelmannus sio fodicat :
Cette pierre gravie reprisente un petit amour avec un Jiam - beau allumi,
hatant sa marche pour embrasser un jeune homme extriment afflige , et
dunt on aperpoit lea efforts pour fuir . Cette al ligor ie peut
assur ement a' interpreter de diverses mani eres , et prepare des torturcs a
Vcaprit des savans , Pour moi 9 j'y vois tout simplement l'
expression de la passion de V amour dont le disespoir est temperi par un
rayon d' csperance* La jeune homme, abandonni par l’objet de ses tendres
affectione cherche d mettre fin d ses peines. Le monte au , dont il s ’
enveloppe, annonce la froide humuditi de la nuit. L ’ attitude de son
corps plii en avant etait , selon Aristophane Lysistr. r. 1002, propre d
ceux qui, marclrant la nuit , portaient une lanterne , et tachaient d ’
empecher le vent d J en eteindre la lumiere, Le rocher, qu'on
aperpoit, devient le symbole de V expedient 9 qiCil a choisi pour se
donner la mort. Loraque le jeune homme veut se livrer d son desespoir , L’Amour
en arrete /* ejfet sinistre en faisant briller Vcspirance d ses yeux ;
son Jlambeau allumi de- vient le symbole du coeur de sa maf tresse, qui ,
blessee par V Amour, va brtcler pour lui du mime feu, dont il brhle pour
elle. Les deux passions contraires de V espirance et du desespoir sont
designees dans ce jeune homme , d*un cote, par V attitude de son bras ,
qu*il tient iloigne de son visage , et de l ’ aut re coti , par son
second bras , qui embrasse V Amour. Habet haec huius imaginis
explicatio, quo admodum sese com- mendet. Quaeritur tamen, num
infertilissima illa rupes non etiam de vilitate unius rei amoris
intelligi possit; fax certe elata et me- dia in imagiue posita non spei
solius symbolum est, sed etiam my- steriorum, Iam cfr. p. 209, E. Tama
p\v oZv x a. Ipooxixa tdaP, gj oxpaxeS, xav 6x> pvrjSdt}?, xa xlXea
xai litonrixd, cov evena xcri xavxa Zdxiv , Iav xiS opSaiS per ovx 016’
el oloS r* av eVtjS. A Et yap xov op^GoS lovxa liti xovxo xo itpdypa
apx^d^ai pkv vlov ovra levat lit\ xa xaXa dedpaxa, xal itpco - xov phv,
iav opS goS ijyijxat d ijyovpevoS , kvo£ av xgov Oaopa- xojv ipav xal
ivravSa yevvdv XoyovP xaAovS , liteixa Sei avxov xaxavorjdat , oxi xo
xctXAoS xo liti oxgoovv dcdpaxi xgj liti Ixipo) dofpaxi abeXtpov Idxi x.
r. X. Etenim non sine caussa duo Amores ab artifice exhibiti sunt, alter
laterna, alter face insignes. Necessitas autem illa nimium unius corporis
amorem remittendi quantos dolores amatoris animo afferat, amatoris effigie
vividissime 26 * i expressam habes» Iam ipse, lector* vide,
atram imago tibi pro- posita aliquid lacis e Platonis verbis laudatis
accipiat* necne. Nos unam boc addendum liabemas, Magna virium contentiouc
opus est, •i quis primum initiationis gradum superare cupit. Quem ubi
supe- raverit * laetius, liberius * circumspectius incedet , id * quod
alte- rius Amoris figura repraesentatum est» Flamma autem facis*
ven- tis circumagitata, mox nimium effulgens, mox paene exstincta,
supe- rato primo initiationis gradu laternae inclusa temperatius
quidem? sed aequabilius fulget. Legitur p. 193. A. xal itpo x ov t
wSitep \£ym , ev 7/pty * wvl 8& Sta xrjy dSixiay SicpxiC^ifpey vito
xov Seov , xctSditep 'ApxadeS vito AaxedatpovicDy. Hoc loco utuntur
interpretes ad definiendum tempus, quo Symposium Plato conscripserit. Alii post
01. XCVIII. 4. conscriptum censent, quo tempore scimus Mantineam a
Lacedaemoniis eversam esse, alii ante hoc tempus compositum potant, sed
denuo editum post 01» XCVIII. 4. Concidet haec temporis definitio
simulatque est demonstratum, verba depravata esse, ad quae illa defiuitio
directa est» Age igitur primum de anachronismo videamus verborum xa
Saitep *Apxa8eS vito AaxedaipoyiGOV 9 quid statuendum sit. Anachronismos passim
admisit Plato, de qua ro vide Engelhardti doctissimi annotationem ad Plat.
Menex. p. 236. Eos cur admiserit, daplex caussa cogitari potest. Aut
negligentia fecit atque per obli- vionem, aut de industria et assequendi
alicuius finis studiosus» Atque iu Meuexeno quidem Socratem de re
loquentem inducens, quae post huius mortem facta est, anachronismum
admisit, acer- bissimi ludibrii commodissimum vehiculum. Etenim in
oratores invehitor, scriptores laudationum locis communibus refertarum quibus
data occasione facili negotio atque satis leviter rei adaptatis
ntercutor. Ipsa audi Platonis verba cap. II. init,: xot\ fiijv, <a Me-
y{£eve, itoXXaxV xiySvvevei xaXuy elrai r 6 tv noXi.fiw dito- SrijtSxeiv.
xal yap racpi/S xaXijS re xal peyaXoxpexovs rvyxa- vn, xal iay xivtjS riS
cov reXevrt/ey, xal inaiyov av Ervx* xal iav ipavXoS y vx’ dvSpcov
6oq>oiv re xal ovx elxy ijtaivovvreor, aXXa Ix iroXXov xpoyov
XoyovS xapedxev a<5 pev cor , o? ooro xaXmS inaivo v 6 1 v,
tSste — xal ta hpoSoyra xal t a pij — s tepl txa'6rov XlyovteS, xaXXuSr d
xai toti ovopou >t xoixlXXov- TtS, yoqt evovdtr 1 } p <2v taS
t/ivxaS x. t. X. Iam cam dixisset Menexenus, oratoris electionem subito
fieri, quo facto orator non possit non subitaria oratione uti, Socrates omnibus
oratoribas orationes, napepya otiosi temporis, recondita facere conten-
dit, atque ipse huiusmodi orationem, h. e , sententiis communibus
refertam profert, quam, quo acerbius vituperiura sonet, ab Aspasia sibi
traditam narrat. Intelliges , opinor, anachronismi acumen. Ad nostrum
locum ut revertar, nihil reperitur, quo anachronismum excusare possis. Huc
accedit, quod omnem verisimilitudinem Platonicae narrationis ita pervertit, ut
et habitum revera sjmposinm docearis et non habitum. Negligentiane igitur
anachronismum adhibitam censeamus atque maculam artificio praestantissimo
additam? Credant, qui velint, nobis nunquam persuadebitur. Sed
mittamus anachronismum , comparatio per verba xaSanep 'ApxaSeS vno
AaxESaipoviatY instituta quid sibi velit, videamus. Nolo ApxadtS nomen
nimiam premere j fieri enim potuit, ut avijp *A^rjvaloS de Mantineae
eversione illa loquens pro MavtireiS diceret ApxaSsS, sed, si eodem modo
propter iniuriam homines dissecti esfce narrantur a deo, quo modo Mantineenses
in varios pagos distributi sint a Lacedaemoniis, merito tertiam, quod vocatur,
comparationis quaeras. Caussam dissectionis si spectas: hominibus dissectis
iniuria, qua ipsi utebantur, perniciei fuit, Mantineen.sibus iniuria
Lacedaemoniorum; diremtum ipsum quod attinet, homines bifariam divisi
sunt, Mantineenses Xenophonte teste Hell. V. 2. 7. TETpaxi/ > auctores
diremtus his dii, illis Lacedaemonii fuere, divisi hic sunt omnes homines,
illic Mantineenses. Una restat dis- secandi dirimendique ratio. Utrique
et humanum genus et Manti- neenses vi et ferro dissecti sunt. 8ed num
verisimile est, eius rei describendae gratia, quam ia praegressis
expositam habes, et quae ipsa per se intelligitur, allatam esse Mantineae
eversionem a Lacedaemoniis patratam? Ut paucis rem absolvam, scripsisse Plato
videtur: yvvl 8 £ 8ia tijv adtxiav 8ia>xi6^7]pEv vno tov Seov, xa-
Sdnep 'ApxabeS aito Aaxe8aipov}<aY . Arcadiam inter et Lace-
daemonctn scimus montes altissimos sitos esse, quibus utriusque terrae
arctior coniunctio prohibetur. Proverbialis autem dictio fuisse videtur
xaSansp *Apxd8eS ano Aaxa8aipovia)Y f quo utebantur, qui naturalem
firmitatem alicuius fissurae describebant atque impossibilitatem , (venia sit
verbo,) restituendae integritatis. Annotatione p. 806 et 807. Platonis
verba, quae leguntur, hoc modo scribenda censuimus: pera 81 r a
iititrj8&vpara iit i ra( imCnjfiaS dycty&v , 7va {8y av
bn&cijp&v xaAAo?, xa\ fiXiitcov npoS itoXv ydrf tu xaXuv ,
pi\xkxi tu irap ' lv \ , wsnep 0 ixiryfi ctyaitcSv itaiSaptov
xaXXoS ij av^pamov rivo 5 rj iitt- rrjdev/xaxoS hrof, SovXevarv qiavXoS y
xai opixpoXuyoS x. r. X. Constans omnium librorum lectio est c ZsitEp
olxkxT/S, quod Stall- baumius ceteroqnin optime de huius loci
explicatione meritas hoc modo explicandum censet, ut apte additum dicat,
quod, qui unius tantum rei admiretur pulcritudiuem , is ei tanquam servus
emancipatus rideatur. Sed scripsisset, opinor, Plato, si hoc exprimere
voluis- set, ooSTttp dudXoS. JovXoS enim nomen proprium est de
contu- meliosa servitute, quam hoo loco requirimus, et quae explicatius
descripta est a Pausania p. 183. A. ei ydp — iSlXoi rtoieir olaxep
01 ipa6xecl itpoS x a iraidixd, ixexeiaS te xat dvxipoXi/tiEis: iv
tolis 6et/(5£(ji Ttoiovpevoiy xal opxovS opvvvxeS xal xoifiijCEif iit\
SvpanS, xal iSkXovxaS SovXeiaS 8ov Xeveiv, oiaS ov8 av 8ov- Aof otldeif
x. T. A. Olxixijf autem nomen apte cura Latinorum familiaris confertur,
de quo Macrob. Satum, I. 9.: nam et maiores, inquit, nostri omnem dominis
invidiam, omnem 6ervis contumeliam detrahentes dominum patrem familias,
servos familiares appellaverunt. Non ignoramus quidem, hoc nominum discrimen
hand raro Graecos scriptores neglexisse, atque multis io locis olxixrjS
posuisse, ubi douAo? nomen exspectaveris. Sed hoc fecerunt de servis
lo- quentes, non fecerunt io comparatione, qualis hoc loco
reperitur. Quoniam igitur oix&TijS nomini hic nou locus est, ultro ad
o lxk~ Tt/S scripturam ducti sumus, quae et a corruptionis
verisimilitudine maxime commendatur ( vide Iacobsii Comment. ad Antbolog.
Gr. Melcagr. Epigr. XXXII, ) et ad significatum si respicis, ita
apta reperitur, ut haud sciam, an aliud verbum, quod magis ad rem quadret,
excogitari possit. Nota vis est amo- ris, Ea amatorum animi ita
percellantur turbanturqae , ut vitam non vitalem putent atque da salute
desperent, si forte repnlsam tulerint. Quidvis igitur faciunt, fingunt,
inveniant, at eius ani- mum sibi concilient, qnem amant, neque, ut
propitium sibi reddant, a precibns abstinent et a suppliciis, Quid
multis? Huiusmodi ama- torem simillimum esse reperimus homini, qni in summa
vitae versans discrimine ad deorum aras confugit, auxilium rogans, et
vitam et salutem j apte igitur bdtTjy vocari censemus. Loci desunt, quibus
de AMATORE AMASIUM perdite AMANTE Ixforjv nomen melioris «etatis
scriptoribus in usu fnisse probemus, J Apud seriores saepis- sime
reperitur, v, c, apud Meleagrum Epigr. IV. v 9 6., Aathol, Gr. lacobsii
T. I. p. 4., quod epigramma, quoniam falsissime a Iacobsio explicatum
est, de rectiore carminis explicatione et emendatione age, iam videamus. Versus
hoc modo apud Iacobsium leguntur; npoSoxai tfrvxv*> tcoo^qov xrJvef, ailv £v
££$3 KvnpidoS otpSaXpol /JA ippaxa xptoptyoi, Tfpnadax 1
aAAov "Epoox , apves Xvxor, ola xopoovrj dxopnloy, cJs - r kfppy nvp
vnoSocXnopeyoy. 6pa$' o xi nat fiovXedSe. r i poi ver oxtd pira
Sdxpva , itpos 6* Inkxijy avxopoXelcs taxos; onxadS Iv xctXXet,
xv<ped$‘ vnoxaiopiyox vvv, axpoS Inu ipvxyS idxl payeipoS
"EpwS. Argumentum epigrammatis Iacobsius ait esse hoc! Poeta in
oculos invehitur, novi semper amoris novique cruciatus auctores.
Rectius dixeris argumeutum epigrammatis esse; Invehi in oculos
poetam, qui, cum antea semper amasios petierint, uonc mutata
consuetudiuo amatoris animnm pellexerint. Probatur hoc inprimis disticho
secundo, quod huc modo scribendum est; i}pna0av 9 aXXoy
"Epoax* t apyes A vxov, ola xopo&rrj dxopnloy, c Js xktppij nvp
vnoSaXn operor. Non recte Iacobsius, apud quem x itppq legitur, sensum
verborum esse ceuset uovura AMOREM
rapuistis et excitastis veluti ignem sub cinere latentem; quae explicatio
cum praecedente disticho, in quo naidcjy nomen xorcodir habet, prorsus non
convenit. Quid euim sibi vult hoc: Oculi, qui semper pulejis pueris
insidiari soletis, novum amasium rapuistis ; nonne frigero sentis atque
languere ? AXXoS "EpooS haud dubium est, quin genus amandi mutatum
indicet, ut, qui antea amator fuerit puerorum, is nunc subito amasius
factus esse perhibeatur. Gopferri possis Aeliani Var. Hist. II, 12. xal x
<£> y p\r hxaip&y dnkdXTj (sc. 6 &epidxoxXijs ) , r/pa 61
ipGoxa Sxepor , roV xijs noXixeiaS xcov A^rfraiaur. Insequentia exempla
nostram interpretationem comprobant. *! ApveS Xvxor enim nihil aliud
siguiEcut, quam amasium pellexisse amatorem. Saepissime cum lupis amatores
comparantur, cum ovibus amasii. Vido Stallbaumium ad Piat. Phaedr. p. 241
V., Iacobsium ad Anthol. Gr. Ad luporum atque ovium comparationem, quae in
proverbium abiisse videtur, ceten^ exempla directa sunt ola xopoovtj
dxopniov et ooS xk<pprj nvp vnoSaXno/ievov. Vides enim, quod debilius
natura est, atque natu miuus, fortius e Y. x nata maius dlcl
superasse. Nihil aptius est his exemplis ad describendam infirmitatem eius,
qui, ot opud Platonem legitur, ro itap iv\ fiXbcoov contumeliosam
servitutem In se suscepit. Sequens disticlion Brunckius ex Bouherii coniectura
sio scribendum esse putat: 6pd5' ott xev fiov\jj<5$8. tl p .01
vevoti6peva xdxe daxpva, npoS 8* i\pxxr\v avxopoXelxe rdxce.
censetque, suos poetam alloqui oculos, quorum in amore ditXTjdxiay et
itoXvfiavlav incuset. Ingeniosa emendatio, Iacobsius inquit, et fortasse
vera; quamvis et sic aliquid relinquitor, quod palatum paullo morosius
offendat, cum e}px xi/S in hoc imaginum contextu vix satis apte mentio
fiat. Recte Iacobsius xey et sequentem coniunctivum improbat, non recte
pro ixlxrj v fortasse scribendum esse lipxiTjy putat. IxhrjS enim amator
est, ad quem, poiita frustra reluctante, oculi quam celerrime sese convertunt.
Iam intelligetur, quid sequens disticlion significet, quod sic scribendum
est: Gj7ttd65 *Iv xaXXei, tv<pe6^ t vnoxoLioptvoi rvv t axpoS ii
nl ipvxijs idx t pdyeipoS "EpcaS. Olim vobis ilammam attulit puerorum
, quibus insidiamini, pulcritudo, nunc fumum et lacrymas excitat admota flamma
eius, qui vobis insidiatur, nam sive amator sive amasius sis, animam Eros
mi- sere coqait. Pausania, do not multiply loves beyond necessity –
l’ambiguita di ‘amore’ – L’Afrodita celeste no participa della natura femmina,
solo della natura ‘maschile’. Pausania parla solo a maschi, ai maschi virili,
al maschio virile. L’amante o amatore e maschio virile, l’amato o l’innamorato
e maschio virile. L’amore celeste (ouranios) participa solo della natura
maschile. Criterio d’amabilita, l’amabile. Giuseppe Colombo. Keywords: idealismo
Toscano, atto, attualismo, actualism, actum, senzo, sensus, sense, morale
communitaria, pietra angolare, Chiesa d’Inghilterra, Cratilo, origine del
linguaggio, glossogenia, glossotesi, gossogenetic, semio-genesi, il soteriologico,
immanente/trascendente, aporia dell’amore platonico, eikesia, ‘Daddy wouldn’t
buy be a wow wow’ true iff Daddy wouldn’t buy me a bow wow – correctness of
iconicity of ‘daddy’ and ‘bow wow’ --. Heteroerotismo
– Il discorso di Alcibiade – analisi del simposio, l’elogio dell’eros. Il
discorso di Pausania. Ero demone,
Ficino, il convito, convivium, Pausania, Alicibiade, puerile, uomo
puerile, Socrate, Agatone, Aristofane, il mito, il maschio, il vocabolario
dell’amore: amore, amare, amans, amante, amator, amatore, amatum, amicus,
amasium, amore mutuo. Desiderio, il vocabolario latino, il vocabolario
transliterato, erote, il vocabolario translato, il vocabolario in Toscano. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Colombo” – The Swimming-Pool Library. Colombo.
Grice e Colonna: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. There is already an entry for this; in Italian it is ‘Egidio Colonna’ -- giles di roma, Rome, original name, a member of the order of the Hermits of St. Augustine, he studied arts at Augustinian house and theology at the varsity in Paris but was censured by the theology faculty and denied a license to teach as tutor. Owing to the intervention of Pope Honorius IV, he later returned from Italy to Paris to teach theology, was appointed general of his order, and became archbishop of Bourges. Colonna both defends and criticizes views of Aquinas. He held that essence and existence are really distinct in creatures, but described them as “things”; that prime matter cannot exist without some substantial form; and, early in his career, that an eternally created world is possible. He defended only one substantial form in composites, including man. Grice adds: “Colonna supported Pope Boniface VIII in his quarrel with Philip IV of Franc eand that was a bad choice.” The Latin is EGIDIVS COLUMNA. The “Corriere” has an article as his book being a bestseller of the Low Middle Ages!” Cosnisder the claims here: ‘essence and existence are really distinct in creatures – and each is a thing – prime matter
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