Grice e Colonna: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. There is already an entry for this;
in Italian it is ‘Egidio Colonna’ --
giles di roma, Rome, original name, a member of the order of the Hermits
of St. Augustine, he studied arts at Augustinian house and theology at the
varsity in Paris but was censured by the theology faculty and denied a license
to teach as tutor. Owing to the intervention of Pope Honorius IV, he later
returned from Italy to Paris to teach theology, was appointed general of his
order, and became archbishop of Bourges. Colonna both defends and criticizes
views of Aquinas. He held that essence and existence are really distinct in
creatures, but described them as “things”; that prime matter cannot exist
without some substantial form; and, early in his career, that an eternally
created world is possible. He defended only one substantial form in composites,
including man. Grice adds: “Colonna supported Pope Boniface VIII in his quarrel
with Philip IV of Franc eand that was a bad choice.” The Latin is EGIDIVS
COLUMNA. The “Corriere” has an article as his book being a bestseller of the
Low Middle Ages!” Cosnisder the claims here: ‘essence and existence are really
distinct in creatures – and each is a thing – prime matter cannot exist without
substantial forml – eternal and created world is not a contradiction – there is
only ONE substantial form in compostes, including man. Grice: “Must say I LOVE Colonna, or
COLVMNA as the printing goes – of course the “Corriere della Sera” hastens to
add that he wassn’t one! In any case, my favourite of his tracts is of course
the one on Aristotle!”. Egidio Romano,
O.E.S.A. arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano
e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Incarichi ricopertiArcivescovo
di Bourges Nato Roma Nominato arcivescovo Roma. Manuale Egidio
Romano, latinizzato come Ægidius Romanus. Dopo la sua morte, gli furono
tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps.
Discepolo d'Aquino. Insegna filosofia. Fu inoltre il tutore di Filippo il Bello
al quale dedica il saggio “De regimine principum”, sostenendo l'efficacia della
monarchia come forma di governo. Considerato tra i più autorevoli filosofi di
ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un
contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche
sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Generalmente
ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo
nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam di Papa Bonifacio VIII e per
il ruolo significativo che assunse il Maestro degli Eremitani di Sant'Agostino
quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e
autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In Colonna rileviamo subito
una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico. Infatti è
possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il “De regimine principum”,
saggio dedicato a Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente
alla naturalità dello stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel “De
Ecclesiastica potestate”, invece, afferma la superiorità del “sacerdotium” rispetto
al “rex” o “regnum”, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia
papale. In seguito alle condanne di Tempier, difende la tesi d’Aquino, per
la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse,
viene sospeso dall'insegnamento. Gli avversari del papato trovano in Aristotele
gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta in discussione la
sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente
speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale,
di compenetrazione fra stato e chiesa, all'interno del quale Agostino viene a
giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo “De
Civitate Dei” conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della “Civitas
Dei Caelestis” e il piano temporale della vita terrena che è “Civitas Peregrina”),
che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del
sacerdotium rispetto al rex e regnum, costituendo un vero e proprio “partito
del Papa”. Rivendica la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva
dell'auctoritas del Papa in quanto “homo spiritualis”. Sostituisce al concetto
agostiniano di “ecclesia” quello di “regnum” al fine di estendere gli ambiti
del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico, il Papa, dove
esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire
l'ordine mediante una forma di “dominium” che coincide con la sua stessa
missione spirituale. Atre opere: L'edizione critica dell'opera omnia è
stata intrapresa, per Olschki (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus
Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), da Punta. “Quaestio de gradibus
formarum” Ottaviano Scoto, Boneto Locatello. “In secundum librum sententiarum
quaestiones” Francesco Ziletti); Opere, Antonio Blado; “In libros De physico
auditu Aristotelis commentaria”; Ottaviano Scoto; Boneto Locatello, “De materia
coeli” Girolamo Duranti, “Quodlibeta”. Silvia
Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano, “Le opere
prima”; “I commenti aristotelici”, "Documenti e studi sulla tradizione
filosofica medievale", Dizionario biografico degli italiani. DEL GOVERNO
DI SÈ. Del sommo bene. Quale è la maniera di parlare nella scienza de're e de'
principi. Quale è l'ordinanza delle cose che si debbono dire in questo libro. Come
grande utilitate ei re e' principi ånno in udire e in intendere e in sapere
questo libro. Quante maniere sono di vivare e come l'uomo die méttare il
sovrano bene di questa mortal vita in queste maniere di vivere. Com'è grande
utilità e a' re ed ai principi che ellino conoscano il loro fine e'l loro
sovrano bene di questa vita mortale. I re ne i principi, non debbano mettere il
loro sovrano bene in diletto corporale. I re ne i principi non debbono mettere il loro
sovrano bene in avere ricchezze. I re ne
i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere onori. I re ne i
principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere gloria o gran rinomo
di bontà. Nè i re né i principi non debbono méttare il loro sovrano bene in avere
forza di gente. I re ne i principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle
uopere della prudenzia cioé del senno. Come ei re e' principi debbono méttare
el loro sovrano bene nelle opere della prudenza e del. Il prezzo e'l guidardone
dei re e dei principi bene governanti il loro popolo, secondo legge e ragione,
è molto grande. senno. Della virtù. Quante potenze à l’anima e in quali potenze
e la virtù di una buona opera. Come la virtù di una buona opera e divisa nella
volontà e nell’intendimento dell'uomo. Quante virtù di buone opere sono, come
l'uomo die préndare il numero di esse. Delle buone disposizioni che l'uomo à,
alcune sono virtů, alcune sono più degne che virtù, alcune altre sono
apparigliate a virtù. Alcune virtú sono più degne d'alcune altre e più principali.
Che cosa è la virtù dell’uomo ch'è chiamato senno, over prudenza, over sapere.
Ai re ed ai prenzi conviene es sere savi. Quanto e quali cose conviene ai re e
ai prenzi avere acciò che ellino siano savi. Come și re e i prenzi possano fare
loro medesimi savi. Quante maniere sono di drittura ed in che cosa è drittura e
come drittura è divisata dalie altre virtú. Senza drittura e senza iustizia ei
reami non possono durare, nè nulla signoria di città. I re e i prenzi debbono
intendere diligentemente acciò che essi siano dirilturieri e che drittura sia
guardata nelle loro terre. La forza di coraggio e. e quali cose ella die essere,
e come ei re e i prenzi le. possono avere. Quante maniere sono di forza e secondo
la quale ei re e i prenzi debbono essere forti. Che cosa è la virtù che l'uomo
chiama temperanza e in quali cose quella virtù die essere, quante parti a la
temperanza, come noi la potemo acquistare. Ched elli é più disconvenevole cosa
che l’uomo sia distemperato in seguire LI DILETTI DEL CORPO che in essere
paurioso. Il principe debbe essere temperato nel diletto di suo corpo. La virtù
che l'uomo chiama larghezza e'n quale cose cotale virtù de' essere, e come noi
la potemo acquistare. Che a pena può essere el re o'l prenze folle largo e come
è troppo sconvenevole' cosa che essi sieno avari e ch'ellino debbono essere
larghi e liberali. Che cosa è una virtù che l’uomo cjiama magnificenzia e'n
quali cose quella virtù die essere, e come noi potemo avere quella virtù. Come
è cosa isconvenevole che i re e i prenzi sieno di piccola dispesa e di poco
affare, e che maggiormente s'avviene a loro essere di grande spese e di grande
affare. Che condizioni à l'uomo che è di grande spesa e di grande affare, e che
conviene maggior mente averle ai re ed ai prenzi. Che cosa è una virtù che
l'uomo chiama magnanimità, cioè a dire virtù di grand'animo e in quali cose
quella virtù di essere e come noi potemo essere di gran cuore. Quante
condizioni à l'uomo che è di gran cuore, e che maggiormente si conviene ai
prenzi d'averle. Come ei re e i prenzi debbono amare onore, o quale è la virtù
che l'uomo chiama virtù d'amare opore. 68 Cap. XXV. Ca insegna che amare onore
ed èssare umile possono essere insieme e che quelli che è di gran cuore e di
grande animo non può essere senza umiltà. Che cosa é umiltà de la quale il
filosafo parla e in quali cose ella die essere e che maggiormente conviene ai re
ed ai prenzi essere umili. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama dibuonairetà,
ed in che cose la buonairetà die essere e che conviene ai re ed a i prenzi
essere dibonarie. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama piacevolezza, cioè di
sapere CONVERSARE PIACEVOLMENTE e in che cose la detta virtù die essere e che
si conviene che i re e i preozi sieno piacevoli. Che cosa è verità e in che
cosa ella die essere usata e come si conviene al principe ch'esse sia veritiero
o sincero. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama sollazzevole, quasi dica di
sapere sollazzare, e di essere allegro e gioioso, là ' ve si conviene, e per la
quale' l'uomo si sa avvenevolmente rallegrare nei sollazzi, come ei re e i
prenzi debbono essere allegri e sollazze voli. Conviene al principe avere tutte
le virtù, perciò che perfettamente l’uomo non ne può avere una senza le altre.
Quante maniere sono di buoni e adi malvagi uomini e quale maniera di bontà ei
re e i prenzi debbono avere. Delle passione. Quanti movimenti d'animo sono e
donde essi vengono. Quali movimenti d'animo sono principali che gli altri e
come essi sono ordinate. Come il principe debbe amare e quali cose debbe amare.
Come il principle debbe desiderare e che cosa debbe desiderare. Come ei re e i
prenzi si debbono portare ayvenevolmente in isperare e in disperare. Come
avvenevolmente ei re si debbono portare in avere ardimento. Che differenza elli
à intra corruccio e odio, e come ei te e i prenzi si debbono avvene volmente
contenere nei corrucci e ne le di bonarietà. Come ei re e i prenzi si deb bono
ayvenevolmente avere nei diletti. Come alcuni movimenti d'animo sono mantenuti
e ritornano ad alcuni altri movimenti. Ched ei movimenti dell'animo alcuni sono
da biasmare ed alcuni sono da lodare e come ei re e i prenzi si debbono
conferire nei movimenti detti dinanzi. Della costume. Quale costume e quale
maniere de giovani uomini fanno da lodare, e come il principe debbe avere essa
costume ed essa maniera. Quali costumi e quali maniere dei giovani uomini fanno
da biasmare, e come ei.re e i prenzi debbono ischiſare cotali maniere e cotali
co stumi. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da biasmare, come ei
re e i prenzi ei debbono ischifare. Quali costumi e quali maniere dei uomini
fanno da lodare. Che costume e che maniera ha il gentile uomo, e come il
principe debbe avere. Che costumi e che maniere anno l’uomo ricco e come ei re
e i prenzi ei debbono. Che modi e che maniere ánno coloro che sono possenti ed
anno signorie, e come li re e li principi si debbono avere in verso la gente
convenevolmente. Avere. DEL GOVERNO DELLA FAMIGLIA. Della moglie. L'uomo die
naturalmente vivare in compagnia, e che i re i prenzi il debbono sapere. Che,
acciò che la casa sia perfetta, si vi conviene avere quattro maniere di
persone, e come e' conviene questo secondo libro divisare in tre parti. Quella
casa è perfetta ove v'à assembramento di un uomo e di una femmina, un
figliuolo, e servi. L'uomo naturalmente si die ammogliare e che quelli che non
vogliono vivare in matrimonio, o elli posono bestia, o ellino sono migliori che
l’uomo. Ciascuno uomo e ciascuna femmina, e medesimamente ei re e i prenzi che
sono ammogliati, si debbono tenere in matrimonio senza partirsi o senza
divídarsi. A ciascun uomo die bastare una femmina, e che i re e i prenzi e
ciascun altro uomo si die tenere appagato a una femmina. Un uomo die bastare a
una femmina, e che una femmina si die chiamare contenta d'un uomo. L’uomo non
die prendare moglie la quale sia troppo presso a lui di parentato o di
lignaggio. Come le moglie dei re e dei prenzi e di ciascuno altro uomo debbono
avere abbondanza di beni temporali. Come nè i re né i prenzi, nė cia scuno
altro uomo non debbe chiėdare solamente ei beni temporali delle loro mogli ma
anco ei beni del CORPO e quelli dell'anima, e ciò e il bello e il casto. L’uomo
non die governare nė tenere la moglie nella maniera ch'elli die tenere e
governare il suo figliuolo. L’uomo non die tenere nė governare la moglie nella
manera che l'uomo die tenere e governare e fanti. Che elli non si conviene nė
ai re nè ai prenzi ned a nessuno altro uomo, ch'ellino usino il matrimonio in
troppo giovano tempo. L’uomo die piuttosto fare l'opera del matrimonio nel
verno che nella state. Come alcune cose sono nelle femmine che sono da
biasmare. Come ei re e i prenzi e ciascuno altro uomo die avvenevolmente
governare e addrizzare la moglie. Come gli uomini si debbono portare con le loro
mogli. Come la femmina maritata deb bono convenevolmente adornare il loro
corpo. Né I re ne i prenzi, nė li altri uomini, non debbano essere troppo
gelosi delle loro mogli. Che cosa è ' l consiglio della femmina, e che 'l suo
consiglio l'uomo non die credere se non in alcun tempo. Com’l’uomo non debbe
dire il suo secreto alla sua moglie. Dei figli. Il padre die essere curioso di
guardare il suo figliuolo. Che ciò s'avviene maggiormente ai re ed ai prenzi,
cioè ch'ellino sieno guardatori e curiosi dei loro figliuoli. Il padre governa
il suo figliuolo per L’AMORE ch'elli à in lui. L’AMORE NATURALE il quale die
essere da padre a figliuolo prova sufficientemente che il padre debbe governare
i suo figliuolo e il figliuolo debbe ubbidire il padre. Nel quale dice che i re
e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare la fede ai
loro figliuoli. I re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine
insegnare ed appréndare ei buoni costumi e le buone maniere ai loro figliuoli.
Il figliuolo del gentile uomo debbe apprendere le scienze della chericia, ciò
sono, morali, naturali e matematice. Quale arte il figliuolo di un gentile
uomini debbe apprendere. Quale die ėssare il tutore del figliuolo di un gentile
uomo. Il padre die insegnare al suo fanciullo a parlare e a vedere ed a udire. In
quante maniere l'uomo puó peccare in mangiare e come il garzone si debbe
contenere. Come il padre die insegnare al suo fanciullo acciò che si sappiano
portar avvenevolmente nel bere e ne' diletto della femmina. Come il garzone si
debbe contenere nel diletto del corpo. Come in giovanezza l'uomo die schifare
le malvagie compagnie. Che guardia l’uomo die avere de' figliuoli da che sono
nati, insino a’ sette anni. Che guardia l'uomo die avere de' fanciulli da sette
anni fino a quattordici. Che guardia l'uomo die avere del figliuolo da
quattordici anni innanzi. Che il padre non die insegnare al figliuolo uno
medesimo travaglio di corpo. Della casa e dei servi. L'uomo die diterminare e
parlare delle cose donde la vita umana può esser sostenuta, volendo governare
la sua famiglia e la sua casa. Il casino della villa del’uomo, die esser fatto
sottilmente ed in buon áire. Il casamento dei re e dei prenzi, e di ciascuno
altro uomo, die esser fatto in luogo dove abbia abbondanza di buona acqua e di
chiara. Naturalmente l’uomo die avere possessione in alcun modo e che quellino
che rifiutano le possessioni, non vivono come uomini, anzi sono migliori che
uomo. Elli è grande utilità alla vita umana, che l'uomo possa vivare della sua
propria ricchezza. Come l'uomo die usare dei beni temporali, e quale maniera di
vivare è buona e onesta. Nel quale dice che ciascuno uomo, e medesimamente ei
re ei prenzi, non debbono desiderare troppo grande abbondanza di ricchezze ne
di possessioni. Quante maniere elli sono di vendere e di comperare e perchè ei
denari fuoro prima mente fatti e trovati. L'usura è generalmente malvagia, e
ch'ei re ed i prenzi la debbono difendare ch’ella non sia fatta nella loro
terra. Nel quale dice ch’ei sono diverse maniere di guadagnare denari e che
alcuna di queste maniere è avve nevole ai re ed ai prenzi. Alcuna gente è serva
per natura e ch'elli è loro utilità ch'ellino sieno suggetti ad altrui. Nel
quale dice che alcune genti che sono servi per natura e per legge. Nel quale
dice ch’ellino sono alcune genti le quali sono serve per prezzo ed alcuna gente
che servono per l’amore ch’elli ánno ai suo signore. L'uomo die dare gli ufici
ai suoi fanti nelle case dei re e dei prenzi. Come ei re e i prenzi debbono
provvedere ai loro sergenti robe e vestimento. Che cosa é cortesia e ched e'
conviene ai fanti dei re e dei prenzi ched ellino sia cortese Nel quale dice
come ei re e i prenzi si debbono contenere inverso ei loro sergenti. Che quelli
che servono e quelli che mangiano alla tavola dei re e dei prenzi, e
generalmente che il gentile uomo non debbe molto favellare. DEL GOVERNO CIVILE.
Detti dei filosofi nel governamento delle città. Nel quale dice che la villa e
ordinata e stabilita per alcuno bene. Fu grande utilità alla vita umana che
colla comunità della villa e delle città, li uomini ordinassero la comunità del
reame. Nel quale dice ceme Platone e Socrate dissero che l’uomo dovea ordinare
e governare le città. Nel quale insegna che i re e i prenzi debbono sapere che
tutte le cose non debbono essere COMUNE siccome Platone e Socrate dissero. Nel
quale dice quanti mali avverrebbero se il figliouolo fusse comune. Nel quale
dice come la possessione debbe essere proprie, e come debbono essere comuni,
secondo l'utilità delle ville e delle città. I re ei prenzi non debbono
sofferire che una medesima gente duri sempre in una medesima signoria. Nel
quale dice che l'uomo non die cosi ordinare la città come Socrate disse, che
dovieno essere ordinate. Come l'uomo può trarre a buono intendimento le parole
che Socrate disse, al governa mento delle città. Come un filósafo, ch'ebbe nome
Fal lea, disse, che l'uomo dovea ordinare le città. Le possessioni non debbono
essere eguali, siccome disse Fallea. Come quelli che signoreggia alcuna città,
elli die più principalmente intendare a cessare le malvagie volontà e i malvagi
desideri e convoitigine, ched elli non die intendere a cessare la
disuguaglianza delle possessiono. Nel quale dice, come un filósafo ch'ebbe nome
Ippodamo, disse che l’uomo dovea ordinare le città. Nel quale dice quali cose
sono da riprendare in quello che Ippodamo disse del governamento della
comunità. Della migliore maniera di governare le città. Il quale insegna come
l’uomo die governare le città in tempo di pace, e quante cose l’uomo die guardare
in cotale governamento. Quante maniere sono di signorie e quali sono buone e
quali sono rie. Ched o' val meglio che le città e ' rea mi sieno governati e
retti per un solo uomo che per molti e che quest' è la migliore signoria che
sia quando un solo uomo signoreggia ed elli intende il bene comune. Nel quale
dice per quali ragioni alcuna gente volsero provare ched e’ valeva meglio che
le terre e le città fossero governale per molti uomini che per un solo e dice
in questo capitolo ciò che si die rispóndare a cotali ragioni. Ched e' val
meglio che le terre e le signorie e' reami vadano per redità per successione
DEL FIGLIOUOLO che per elezione. Nel quale dice quali sono le cose ne le quali
il re die sormontare gli altri, e che diversità elli à intra'l re 'e'l tiranno.
Nel quale dice che la signoria del tiranno è la peggiore signoria che sia e che
i re ei prenzi si debbono molto guardare ch'ellino non sieno tiranni. Quale dia
esser l'ufficio dei re e dei prenzi, e com’essi si debbono contenere in
governare le loro città e i loro reami. Quali sono le cose che’ l buono re die
fare, le quali il tiranno mostra di fare ma non le fa nèmica. Nel quale dice
per quante cautele il tiranno si sforza di guardare sė ne la sua signoria. Ched
elli è molto isconvenevole cosa ai re ed ai prenzi ched ellino sieno tiranni,
perciò che tutte le malizie che sono nell’altre malvagie signorie, sono ne là
signoria del tiranno. Nel quale dice che i re e i prenzi debbono molto ischifare
la compagnia del tiranno, perciò che per molte cose ei soggetti aguaitano ed
assaliscono il loro signore quand’elli é tiranno. Nel quale dice quali cose
guardano e salvano la signoria del re e ched e'conviene fare al re sed e' si
vuole guardare ne la sua signoria e nel suo reame. Quali cose fanno a
consigliare e di quali l'uomo die avere consiglio. Nel quale dice che cosa è
consiglio, e come l'uomo die fare ei consigli. Nel quale dice che consiglieri
ei re e i preozi debbono avere ai loro consigli. Nel quale dice quante cose
conviene sapere a quellino che consigliano ei re e i prenzi e in quali cose l’uomo
die préndare consiglio. Nel quale dice che tutte le cose donde l’uomo giudica, l'uomo
die giudicare secondo le leggi e che l’uomo die fare pochi giudicamenti e dare
poche sentenze per arbitrio o per credenza. Nel quale dice come l’uomo dic fare
ei giudicamenti: e ch’e giudici debbono vetare che li uomini che piateggiano
non dicano parole dinanzi al giudice che’l possa muovere ad amore nè ad odio
contra ad alcuna de le parti. Nel quale dice quante cose conviene avere
a’giudicatori a ciò ch’ellino giudichino bene e drittamente. Nel quale dice quante
e quali cose conviene riguardare al giudice, acciò ch’elli perdoni e sia più di
buonarie che crudele. Nel quale dice ched e’ sono diverse maniere di leggi e
diverse maniere di giustizia e che al dritto natu rale ed al diritto iscritto
tutti gli altri dritti sono ridotti e ramenali. Quali debbono esser le leggi
umane e ched elli fu grande utilità ai reami ed a le città a fare cotali leggi.
Nel quale dice che ciascuno non die némica istabilire nė ordinare le leggi; e
ched e' conviene che le leggi sieno publicate é fạtte sapere acciò
ch’ell’abbiano forza d’obbligare le genti. Quante opere e quali le leggi ch'ei
re e i prenzi istabiliscono ed ordinano, debbono contenere. Nel quale dice
quale vale meglio o che le città o i reami sieno governati per un buono re o
per una buona legge. Nel quale dice che co la legge naturale e co la legge
iscritta e' conviene che l’uomo abbia la legge di Dio e la legge del Vangelo. Come
l’uomo può, si die guardare le leggi del paese e ch'elli non è utile ch'elle si
rimutino ispesso. Nel quale dice che cosa è città e che cosa è reame e chénte
die essere il popolo ch’è ne le città e ne' reami. Nel quale dice che allora è
la città e’l reame trasbuono e 'l popolo trasbuono, quand’elli v’à molte di mezzane
persone. Nel quale dice ched elli é grande utilità al popolo di portare grande riverenza
al prenze ed al signore e ched ellino guardino diligentemente le leggi che i re
e i prenzi ánno ordinate. Come il popolo e generalmente tutti quelli che
dimorano nel reame, si debbono mante nere saviamente, acciò che’l re o’l prenze
non abbia corruccio nė odio contra loro. Come ei re ei prenzi si deb bono
mantenere, acciò ch'ellino sieno amati e temuti dal lor popolo. Ed insegna
questo capitolo che tutto debbiano ei re ei prenzi esser amati e temuti dal lor
popolo, ellino debbono maggiormente volere essere amati che temuti. Del governo
in tempo di guerra. Che cosa è cavalleria e da ch'ella é ordinate. Nel quale
insegna in quale terra sono e’migliori combattieri e quali l’uomo die iscegliere
per combattere dell’uomini che debbono andare a la battaglia. In quale tempo
l'uomo die acco stumare il fanciullo all' opere dela battaglia e per quali
segni l'uomo può conosciare ei migliori battaglieri. Nel quale insegna quante
cose e quali e' conviene avere a' buoni battaglieri, acciò ch'ellino si
combattano bene e giustamente. Nel quale insegna quali sono migliori
battaglieri o i gentili uomini, oi villani, o quellino che nel campo dimorano,
ciò sono ei lavoratori. Nel quale insegna ch’elli è grande utilità ai baltaglieri
chedellino sieno bene esercitati all'arme; e che l’uomo die ei battallieri
apprendare a correre ed a saltare ed andare ordinatamente. Nel quate insegna
ched e’si conviene appréndare ai battaglieri molte altre cose che quelle che
sono dette, cioè a córrare ed assaltare ed andare ordinatamente. Nel quale insegna
che l’uomo die fare nell’oste fossati e castelli. Ed insegna questo capitolo
come l’uomo die fare ei castelli e quante cose l’uomo die guardare in farli. Nel
quale dice quante cose l’uomo die guardare quand’elli vuole o die imprèndare battaglia
comune. Nel quale dice ch’elli è grande utilità ne le battaglie di portare
bandiere e gonfaloni: e che l’uomo die ordinare capitano e maggiore a ciascuna
ischiera. E so - nemici migliantemente questo capitolo insegna quali debbono
essere e banderari e i capitani di quelli a piè e di quelli a cavallo. Nel
quale dice che avvedimenti die avere e che die fare il signore dell’oste acciò
che la sua gente non possa essere gravata dai nemici per la via. Nelquale dice
come l’uomo die ordinare le schiere e le battaglie, quando l’uomo si die
combattere contra I Nel quale insegna che l'uomo die ferire il suo nemico nello
battaglia di puntone e non di ramata. Nel quale dice quante cose fanno gli avversari
più forte che quelli dell’oste é come l’uomo die assalire ei suoi nemici. Nel
quale insegna come ei battallieri si debbono tenere quando vogliono ferire ei
loro nemici, e com’ellino ei debbono inchinare e come l'uomo si die trarre in
drieto quando la battaglia non porta utilità. Nel quale insegna quante maniere
ei sono di battaglie; e in quanti modi l’uomo può prendare le città e le
castella ed in che tempo l’uomo le die assediare. Come quelli dell'oste si
debbono fornire e come l'uomo può vénciare le castella per cava. Come per l’ingegni
del legno che l'uomo può menare al muro del castello, l’uomo lo può prendare. Come
l’uomo può e die edificare le castella acciò ch'elle non sieno leggermente
prese ně come l'uomo può e die guérnire le castella acciò ch'elle non possano
esser prese. Nel quale dice come quelli che sono nel castello assiso possono e
debbonsi difendersi da la cava e dai tra bocchi e dalli altri ingegni che
quellino dell'oste vi fanno. Come l'uomo die fare le navi, e come l'uomo si die
combattere nell'acqua o nel mare, da che cosa tutte le battaglie debbono essere
ordinate assediate. Che cosa è una virtù che l’uomo chia ma piacevolezza, cioè
di sapere CONVERSARE piacevolmente con le genti, e in che cose la detta virtù
die essere, e che si conviene che i re e i prenzi sieno piacevoli. Appresso ciò
che noi avemo detto che cosa è debonarietà, noi diremo d’un'altra virtù, che
l’uomo chiama piacevolezza. E dovemo sapere che le opere e le parole dell'uomo
sono ordinate a tre cose, si come ad avere piacevolezza e verità, ed avere
diletti e giuochi nei solazzi e nelle allegrezze. LA PRIMA RAGIONE: E la
piacevolezza si è, in SAPERE BENE CONVERSARE, unde quelli che sa onorare e
riverire gli uomini convene volmente e secondo ragione, si à la virtù della
piacevolezza. La SECONDA ragione si è, che le opere e le parole dell’uomo sono
ordinate sie a verità che, per le opere e per le parole dell'uomo può l'altro uomo
conosciare chi egli è (“Conversation maketh the man”). Donde, verità non è
altro se non che l'uomo non sia vantatore e che nè per parole nè per fatti elli
non dimostri maggior cosa in lui che vi sia, nè che l'uomo non si faccia
ispiacevole nè per parole nè per fatti oltre quello che ragione insegna, perchè
elli sia gabbato ne dispregiato. La TERZA RAGIONE a che l'opere e le parole
dell'uomo sono ordinate, si è, acciò che l'uomo sia sollazzevole
convenevolmente, e si sappia bene portare nei giochi, e nelle allegrezze e nei
sollazzi. Donde, se l'uomo vuole CONVENEVOMENTE CONVERSARE e' die essere giochevole
e piace vole e veritiere. E di queste tre virtù noi diremo partitamente, ma
prima diremo della piacevolezza. E dovemo sapere che, NEL CONVERSARE, alcuni si
mostrano troppo piacevoli, si come sono e lusinghieri, e quelli che’n ogne cosa
vogliono piacere altrui, che acciò che piacciano altrui, si lo dano tutti ei
fatti è tutti ei detti di ciascuno uomo. E alcuni sono, che anno troppo gran
difalta NEL CONVERSARE co le genti, si come sono ei malvagi e quellino che sono
battaglieri, e tenzonieri; e questi fanno contra a ragione. Chè neuno die
volere essere si piacevole nè si compagnevole, ch’elli ne do venti o ne sia
lusinghieri, e piacere a tutti gli uomini, nė neuno die essere si pieno di
contenzione e di noia, che li con venga cessare della compagnia delli uomini, ma
quelli è da lodare che si sa mezzanamente portare e secondo ragione, nel
CONVERSARE. Donde la virtù che l’uomo chiama piacevolezza cessa la contenzione
dell'uomo e tempera il lusingare, e quello per lo quale l'uomo vuole a tutti
gli uomini piacere. E perciò che l'uomo è per natura compagnevole, si come dice
il filosafo, si conviene dare una virtù per la quale ne le parole e nei fatti
sappia CONVERSARE COOPERATIVAMENTE E convenevolmente e secondo ragione. E
questa virtù che l'uomo chiama piacevolezza, tutto sie cosa che, tutti quelli
che vogliono essere piacevoli e vivare in cooperazione, compagnia ed in
comunità con l’altro, conviene ch'elli abbiano, acciò che siamo cortesi e
piacevoli, non perciò debbiamo essere si cortesi ne si piacevoli ad uno come un
altro: chè la dritta ragione insegna, che, secondo la diversità dei due
conversatori, l'uomo si die portare in maniera appropriata con l’altro. E
perciò che troppa amistà e troppa gran compagnia mostrare ad ogni uomo fa
l’uomo ispiacevole e vile; il gentile uomo si debbe più alteramente contenere
che l’altro, acció che l'uomo lor porti più onore e più reverenza, e che la dignità
de la loro grandezza non sia abbassata nè avvilata. Donde il filosafo dice che
i re e i prenzi debbono mostrare ch’ellino sieno persone degne d’onore e di
reverenza. Chè si come noi vedemo che alcuna vianda fuôra soperchio a uno
infermo che non basterebbe ad uno sano, cosi è nell'essere piacevole e cortese,
che alcuna piacevolezza s’aviene a’re secondo ragione, che non s’aviene cosi ad
un’altra persona comune. L’Enciclopedia italiana cura l’edizione critica del
“Il regime del principe”, testimoniato
da nove manoscritti, tra cui il codice della Biblioteca di Firenze (sig, che si
distingue sia per motivi cronologici (nell’explicit reca la data) sia per la
veste linguistica, in prevalenza senese, verosimilmente molto vicina a quella
dell’originale, ciò che lo rende un documento di lingua privilegiato rispetto
alle coeve attestazioni di varietà toscane non fiorentine tra fine Due- e
inizio Trecento. L’opera discende dal “Il regime del principe”, composto da
Colonna filosofo tra i più autorevoli della sua epoca, nato a Roma. Dedicato a
un principe, di cui Colonna fu tutore e ispirato alla Retorica, la Etica, e la
Politica di Aristotele, esuddiviso in tre libri concernenti la “morale», ossia
l’etica (disciplina dell’individuo), l’oeconomia (della casa), e la politica
(della città o reame o villa) - è il più corposo trattato basso-medievale sul
regime del ‘gentile uomo’ ed ebbe non solo una straordinaria fortuna in Italia
fino a tutto il XV secolo come elogio della cavalleria. Esercita una notevole
influenza sul Convivio, sul “De vulgari eloquentia” e sulla “Monarchia” di
Alighieri. “E lasciando lo figurato che di questo diverso processo dell’etadi
tiene Virgilio nello Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita [il
filosofo appartenne all’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino ne dice nella
prima parte dello Regime del Gentile Uomo. L’ampia Introduzione, oltre a
tracciare il profilo biografico di Egidio illustrando contenuto, fonti e storia
della ricezione del suo capolavoro, esamina nei dettagli il debito di Alighieri,
la fortuna figurative o iconografica del trattato (l’affresco giottesco della
Cappella degli Scrovegni di Padova, precisamente nella Virtù; l’Allegoria ed Effetti
del Buono Governo realizzata da Lorenzetti a Siena, specie nella particolare
raffigurazione della giustizia commutativa e la giustizia distributiva alla
sinistra dell’affresco -- i rapporti tra il De regime e il Livre dou
gouvernement (una drastica riduzione non sempre perspicua, di cui sono noti
trentasei manoscritti) e tra questo e il Livro del governamento, la prima
traduzione, pur parziale, di opere che solo successivamente furono volgarizzate
nella loro interezza, ad opera di un anonimo senese, come avevano già
ipotizzato, tra gli altri, Segre e Castellani. Inoltre si auspica - e intanto
s’imposta in modo acuto e pregnante - un commento dedicato alle fonti del
“Regime”, ormai indispensabile alla luce della ri-valutazione della filosofia
nel vernacolare tra Medioevo e Rinascimento portata avanti dalla bibliografia
più recente. Grazie infatti agli studi degli ultimi due decenni, siamo oggi più
informati sui modi in cui la cultura vernacolare interagì con quella antica,
bolognese, tradizionalmente ritenuta ‘più alta’, e sul diverso pubblico,
dichiarato o reale, cui si indirizzava la trattatistica filosofica dei secoli
dal XIII-XIV in avanti. Infine, si passano in rassegna le altre versioni del De
regimine (quella senese è bensì la più antica, ma non l’unica: se ne conoscono
almeno altre cinque). Nella parte prima della Nota al testo si dà conto
della tradizione manoscritta dei testimoni completi e dei testimoni parziali
(descrizione esterna, descrizione interna, bibliografia), offrendo dati
preziosi sulla tradizione a stampa del De regimine e sulle edizioni del
Governamento. Nella parte seconda si indicano i criterî di edizione e gli usi
del copista. L’appendice prima alla Nota al testo raccoglie le aggiunte
inter-lineari e marginali al Governamento del manoscrito fiorentino, mentre in
una seconda appendice si riportano alcune annotazioni sulle relazioni fra i
testimoni del Governamento. La prima e fondamentale caratteristica della tradizione
è che tutti i mss. paiono al tempo stesso testimoni molto vicini tra loro tanto
che è dimostrabile la presenza di un archetipo a monte della tradizione, ma non
per questo facilmente classificabili nei loro rapporti reciproci, principalmente
perché spesso contaminati dal ricorso alla versione nella lingua antica. Il
secondo volume è interamente dedicato allo spoglio linguistico sistematico
sull’intero testo, tendente per quanto possibile «all’esaustività delle
allegazioni per ciascuna forma»: grafia, fonetica, morfologia, sintassi.
Chiudono il volume un ricco repertorio bibliografico e gl’indici onomastico,
toponomastico, dei nomi e dei manoscritti. Grice:
“Poor Ockham is known as Ockham – god knows, but he is not telling, what his
surname was, if any! On the other hand, the rather pompous Romans have Egidio
as a ‘Colonna,’ even if, as the Treccani
notes, ‘the links with the Roman family are unclear’!” -- Romano: Egidio
Romano, arcivescovo della Chiesa
cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di
un codice medievale). Template-Archbishop.svg Incarichi
ricopertiArcivescovo di Bourges Roma Nominato arcivescovo25 aprile 1295
Deceduto22 dicembre 1316, Roma. Egidio Romano, latinizzato come Ægidius Romanus,
indicato anche come Egidio Colonna (Roma), filosofo. Generale dell'Ordine di
Sant'Agostino. Dopo la sua morte, gli furono tributati i titoli onorifici di
Doctor fundatissimus e Theologorum princeps. Fu discepolo di San
Tommaso d'Aquino all'Parigi, dove più tardi insegnò, prima di diventare
generale degli agostiniani e arcivescovo di Bourges (1295). Fu inoltre il
precettore di Filippo il Bello per il quale scrisse il trattato De regimine
principum, sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo.
-- è considerato tra i più autorevoli
teologi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e
politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed
aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale e potere
spirituale. Questo filosofo è generalmente ricordato, insieme al prediletto
allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre
bolla Unam Sanctam del 1302 di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo
che assunse il Maestro degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De
Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e autorevole della
plenitudo potestatis pontificia. In Egidio Romano rileviamo subito una
compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico; infatti è
possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il De regimine principum, opera
scritta per Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente
alla naturalità dello Stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel
De Ecclesiastica potestate, invece, Egidio Romano afferma la superiorità del
sacerdotium rispetto al regnum, distinguendosi quale rappresentante della
teocrazia papale. La riscoperta di Aristotele e l'agostinismo politico In
seguito alle condanne di Étienne Tempier. Colonna difende la tesi di Tommaso,
per la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle
condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento. In quegli anni, gli avversari
del papato trovano nel pensiero di Aristotele gli strumenti per svolgere
un'analisi politica che metta in discussione la sacralità del potere.
Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa
dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale, di
compenetrazione fra Stato e Chiesa, all'interno del quale Agostino viene a
giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo De
Civitate Dei conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della
Civitas Dei Caelestis e il piano temporale della vita terrena che è Civitas
Peregrina), che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la
superiorità del sacerdotium rispetto al regnum, costituendo un vero e proprio
“partito del Papa”. Egidio rivendica la Plenitudo potestatis come proprietà
costitutiva dell'auctoritas del Papa in quanto homo spiritualis. Egidio
sostituisce al concetto agostiniano di ecclesia, quello di regnum al fine di
estendere gli ambiti del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano
ecclesiastico (il Papa) dovrebbe esercitare la sua sovranità anche sul potere
temporale al fine di garantire l'ordine mediante una forma di dominium che
coincida con la sua stessa missione spirituale. Opere:Frontespizio delle
In secundum librum sententiarum quaestiones L'edizione critica dell'opera omnia
è stata intrapresa, per Leo S. Olschki, (Aegidii Romani opera omnia, collana
Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), dal gruppo di ricerca di
Francesco Del Punta. Quaestio de gradibus formarum, Ottaviano Scoto
(eredi), Boneto Locatello, In secundum librum sententiarum quaestiones, 1, Francesco Ziletti. In secundum librum
sententiarum quaestiones, 2, Francesco
Ziletti, Opere, Antonio Blado, In libros De physico auditu Aristotelis
commentaria, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, 1502. De materia coeli, Girolamo Duranti,
Quodlibeta, Domenico de Lapi. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta,
Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and
Information (CSLI), Stanford,. Charles
F. Briggs e Peter S. Eardley, A Companion to Giles of Rome, Leiden, Brill,.
Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano: I. Le
opere prima: I commenti aristotelici. "Documenti e studi sulla tradizione
filosofica medievale", Gian Carlo Garfagnini, Egidio Romano, in Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. Francesco Del Punta-S. Donati-C. Luna, Egidio
Romano, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Filippo Cancelli, Egidio Romano, in Enciclopedia
dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Papa Bonifacio VIII Teocrazia C.
su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ugo Mariani, Egidio Romano, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio Romano, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. su ALCUIN, Ratisbona. Opere di Egidio Romano, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. su Egidio Romano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.
Egidio Romano, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. David M.
Cheney, Egidio Romano, in Catholic Hierarchy. Roberto Lambertini, Giles of
Rome, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the
Study of Language and Information (CSLI), Stanford. Biografia a cura
dell'associazione storico-culturale S. Agostino, su cassiciaco. Predecessore
Arcivescovo metropolita di BourgesSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Simone
di Beaulie Raynaud de La Porte. NUMISMATIC NOTES AND MONOGRAPHS. ITALIAN
ORDERS OF CHIVALRY AND MEDALS OF HONOUR By HARROLD E.
GILLINGHAM THE NUMISMATIC SOCIETY Wonr nl
PUBLICATIONS TheJournal of Numismatics. With many plates,
illustrations, maps and tables. Less than a dozen complete sets of
the Journal remain on hand. Prices on application. The numbers necessary
to complete broken sets may in most cases be obtained. An index to
the first fifty volumes has been issued as part of Volume LI. It may also
be purchased separately for $3.00. The American Numismatic
Society. Catalogue of the International Exhibition of Contemporary
Medals. March, 1910. New and revised edition. New York. The American
Numismatic Society. Exhibi¬ tion of United States and Colonial
Coins. NUMISMATIC NOTES & MONOGRAPHS
Numismatic Notes and Monographs is devoted to essays and treatises on
sub¬ jects relating to coins, paper money, medals and decorations,
and is uniform with Hispanic Notes and Monographs published by The
Hispanic Society of America, and with Indian Notes and Monographs
issued by the Museum of the American Indian—Heye Foundation.
Publication Committee Agnes Baldwin Brett, Chairman Henry
Russell Drowne John Reilly, Jr. Editorial Staff
Sydney Philip Noe, Editor Howland Wood, Associate Editor V.
E. Earle, Assistant . Italy (savoy) Order of the Most Sacred
Annunciation Plaque ITALIAN ORDERS OF CHIVALRY
AND MEDALS OF HONOUR. GILLINGHAM. THE NUMISMATIC SOCIETY
BROADWAY AT I56TH STREET NEW YORK GrS THE NUMISMATIC
SOCIETY Press of The Lent & Graff Co., New York ITALIAN
ORDERS OF CHIVALRY AND MEDALS OF HONOUR By Harrold E.
Gillingham Students have always found the coinage of Italy of
more than passing interest, and the country of the early Romans is still
a far from exhausted field of numismatic research. Few sections of Europe
have had such a varied history. Few have been more fought over.
Greeks, Romans, Vandals, Goths, Franks, Germans, Normans, Span¬
iards, Austrians and the Papal Authorities have had a hand in the
mismanagement of the country’s affairs, and all have left traces of
their influence, but nowhere more defi¬ nitely than in the field of
numismatics. The changing coinage has always been interesting, and
the publication of the Corpus Nummorum Italicorum, undertaken by His
Majesty, Victor Emmanuel III, is a magnifi¬ cent demonstration of the
value of numis¬ matic research. In the time of Augustus,
“Italia” was divided into eleven sections. In the feudal period
many of these had been governed for centuries by members of the same
family. It was a normal condition for these clans to wage war one
upon the other, and this state of affairs existed almost uninterruptedly
until the middle of the Nineteenth Century. “The destinies of Italy were
decided in the cabinets and on the battle-fields of Northern
Europe—a Bourbon at Versailles, a Haps- burg at Vienna or a thick-lipped
Lorrainer, with the stroke of his pen, wrote off province against
province, regarding not the popula¬ tion who had bled for him or thrown
them¬ selves upon his mercy.” Through it all, the Papacy has
exerted a powerful influence. In the early period such a shifting of
control was not to the best interests of the inhabitants. The
Kingdom of Italy, as we know it today, did not exist, of course, until
1870. With the fall of the French Empire under Napoleon III, the
assistance of France was no longer available, and Rome came under
the dominion of Victor Emmanuel. All of that gieat mountainous peninsula
was united and free. For over seventy years the country has been
governed by a Prince of the House of Savoy. Its population has
pros¬ pered more during that period than for many preceding
centuries. These changing conditions were not with¬ out
effect upon the organisations which we class as Orders of Knighthood.
Many of the Orders of Chivalry founded by the Ducal or Princely
rulers of Italy were named for their patron saints. It has seemed
expedient in this article to treat of the Orders and Decora¬ tions
of all of these changing principalities separately. Insofar as is
possible, any repetition which this course involves has been
avoided. Lucca, the most northern province of Tuscany, lies between
the Apennines and the Mediterranean Sea. Its principal city, Lucca,
on the River Sarchio, is famous for a remarkable bridge which is said to
have been built about 1000 A.D. From the time of the Narses, in the
Sixth Century, Lucca was an important city. Here and at Pisa, the
earliest Italian school of painting flourished in the Twelfth and
Thirteenth Centuries. Lucca became an autonomous commune from the
death of Matilda (1115). In 1314 Uguccione della Faggiola seized the
reins of Government, but later he was superseded by the powerful
Castruccio Castracani. Louis of Bavaria, after having occupied it
by his troops, sold it to a Genoese banker, Gherardo Spinola; it was
seized by John, King of Bohemia, pawned by him to the Rossi of
Parma, sold to Florence, relin¬ quished to Pisa, nominally liberated
by Charles IV (Emperor of Germany, 1346- 1^78) and governed by his
vicar. Lucca, MEDALS OF HONOUR 5 subjected to
endless vicissitudes, managed first as a democracy and after 1628 as
an oligarchy, to maintain its independence, alongside of Venice and
Genoa, and painted the word “Libertas” on its banner until the
French Revolution. In 1805, Napoleon I gave Lucca to his sister Eliza, who
had married Bacciochi. It was occupied by the Neapolitans in 1814,
and from 1816 to 1847 it was the Duchy of Maria Louisa of Parma
(who married her cousin, Charles IV of Spain), and was ruled by her son,
Charles Louis. It later formed one of the provinces of Tuscany.
Under the rule of the Lombard Dukes, Lucca possessed a coinage of its
own. MILITARY ORDER OF SAINT GEORGE OF LUCCA. Duke Charles
Louis Ferdi¬ nand, a Spanish Bourbon, founded this Order on June 1,
1833. It was called Or dine di San Giorgio per il Merito Militare,
and was awarded for military services to the Duchy. It was also
issued to officers and privates whose service exceeded three years.
The Decoration is a Maltese cross, enam¬ elled white. It is edged
with gold for the first class, with silver for the second, while for
the third class it is silver without the enamel. In the centre is a white
medallion, upon which there is a gold figure of St. George slaying
the dragon, surrounded by the words AL MERITO MI LI TARE on a green
band. The reverse shows the initials of the founder, C.L., crowned, and
the date 183J. The ribbon is bright red with a white stripe.
ORDER OF SAINT LOUIS. Founded on December 22, 1836, by Duke Charles
Louis, and awarded for civil merit. It was reorganized in 1849 by his
son, Charles III, Duke of Parma, a Bourbon, for Civil and Military
service; it is, therefore, classed with the Orders of Parma also. See
page 19. The badge of the first class is a white- enamelled
cross, with heavy gold lines and with a large fleur-de-lis at the tip of
each cross-arm. The obverse bears a shield upon which is an effigy
of Saint Louis in golden armour; the reverse has a shield bearing
the Bourbon crest of three lilies. The second class cross is of
silver and white enamel, NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. 1 Parma Order of
Saint Louis while the third is all silver but without the crown.
The ribbon is blue with a yellow stripe on either side. MEDAL
FOR MILITARY SERVICE. Created on June i, 1833, for officers who had
served over thirty years, and called the Medaglia di Anzianita. The
obverse bears a gilt Maltese cross with the initials C.L. and a
crown above; on the reverse are the Roman figures XXX, denoting the years
of service. The ribbon is blue, with yellow stripes— four of the
former and three of the latter. CIVIL MEDAL OF MERIT. This
Dec¬ oration was also instituted by Duke Charles Louis. It is of
silver and bronze. The initials of the founder, C.L. intertwined,
ap¬ pear on the obverse, and the reverse has inscribed thereon the
words, AI BEN EME¬ RITI DELLA SALUTE PUBBLICA. NUMISMATIC
NOTES MEDALS OF HONOUR. Mutina, as Modena was then called, was a
Roman colony. For more than twelve centuries there were constantly
changing rulers. In 1288 A.D. Obizzo II (1240-1293), of the princely
house of Este, received the lordship of Modena. The Este family was
one of the oldest of North¬ ern Italy, dating back to about 917
A.D. Through the marriage of an heiress of the house of Welf, of
Bavaria, with a younger son of the house of Este, this family
became connected with the houses of Brunswick and Hanover, from
which are descended the Sovereigns of England, through the house of
Guelph. At various periods, the Estensi received the sovereignties of
Ferrara, Modena and Reggio. The male branch of the family lost the
duchies of Modena and Reggio on the death of Hercules Rinaldo, who died
in 1803. His only daughter, Maria, married Ferdinand of Austria,
son of Francis I and Maria Theresa. Their son, Francis IV, in 1816
became the first Hapsburg duke of AND MONOGRAPHS
IO ITALIAN ORDERS Modena. He died
in 1846, and when his son Francis V died in 1875, the male line of
the Austrian Estensi became extinct and the title passed to Francis, son
of Archduke Charles Louis. Members of the Este family and their
descendants had held the Duchy of Modena almost continuously from
1288 until i860. In that year the territory by a plebescite was
declared part of the King¬ dom of Italy. ORDER OF THE EAGLE
OF ESTE. Founded by Francis V on December 27, 1855, and awarded for
military and civil merit. The number of the members of the Order
was limited to 20 for the Grand Cross, 40 for the Commander Class and 120
for the Class of the Knights. The decoration was surrendered on the
death of the Knight. The insignia is a gold Maltese cross with gold
knobs at the points, white-enamelled and edged with blue. Between the
arms of the cross are gold scrolls, and the letters E.S.T.E. are
distributed in the angles. On the blue medallion is the
white-crowned eagle of the house of Este, surrounded by a
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS
Pl. J L Modena Order of the Eagle of
Este white-enamelled band, inscribed PROXIMA SOLI MDCCCLV.
The reverse centre of white enamel bears the figure of Saint Con-
tardo holding a cross. It is surrounded by a blue-enamelled band bearing
three stars and inscribed S. CON TARDUS ATESTI - NUS. The ribbon is
white, edged with blue stripes. When awarded for military merit,
the cross is surmounted by a trophy of arms; for civil merit, by an oak
wreath. MILITARY MEDAL FOR LOYALTY. Francis IV, the first
Hapsburg duke of Mo¬ dena (1816-1846), caused a medal to be struck
and awarded to those of his troops who re mained faithful during the riot
of February 4, 1831. This disturbance was organized by Ciro
Menotti, and forced Francis IV to flee from his capital. It was thought
by some that the Duke was in league with Menotti, but as the Duke
caused Menotti to be put to death when the Revolution was
suppressed, this is doubtful. The silver medal given to his supporting
troops bears the inscription FIDELI MILIT 1 MDCCCXXXI. Within a
wreath of laurel, NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 1 3 and below are two crossed
swords. The reverse is inscribed FRA NCI SC US IV DUX MUTINAE. The
ribbon has three stripes, equal in width; the middle one white, the
side ones blue. CROSS FOR SERVICE. Authorized by Francis V,
May 16, 1852. This medal was awarded to officers who had served 25
years under the banner of the house of Este. It is a silver cross
with a gilt edge. In the centre is the white eagle of Este,
surmounted by a crown and the letters F. V. The reverse bears the
Roma n figures XX V. The cross is surmounted by the ducal crown, and
the ribbon is white, edged with blue. MILITARY MEDAL OF
MERIT. This decoration was created in 1852 for the junior officers
and privates. It is silver. On the obverse appears a bust of the duke
facing left, and the legend FRANCESCO V DUCA Dl MODENA EC. EC.
ARCIDUCA D’AUS¬ TRIA ESTE EC. EC. On the reverse, within a laurel
wreath, PEL MERITO MI LI TARE. The ribbon is blue, edged with
white. AND MONOGRAPHS MEDAL OF FIDELITY. Francis V ap¬
pears to have been in a struggle with his subjects during most of the
thirteen years of his reign. He was compelled to seek refuge in
Austria in 1849, but he returned to Modena after the battle of Novara on
March 24th of the same year. Ten years later he was again forced to
flee. In i860 Modena became part of United Italy. To reward those
of his subjects who had remained faithful to him during his exile, he
created the Medal of Fidelity in 1863. It is bronze, 32mm. in diameter.
On the obverse it bears the effigy of the duke and the inscription
FRANCESCO V AUST. ATESTENUS DUX MUT 1 NAE ; on the reverse, the
words FI DELI TATI ET CONSTANTIAE IN ADVERSIS MDCCCLXIIL surrounded
by a wreath of oak leaves. The ribbon is of blue and white horizontal
stripes, edged with blue and white. PARMA. Parma
was the Eastern section of Gallia Cispadane at the time of Constantine.
It lies in the Lombard plain, north of the Apennines, south of the
River Po and west of Modena. For the first fifteen centuries of the
Christian era, the many rulers of Parma were of various nationalities.
The duchy came into the possession of the Far- nese family during
the early part of the Six¬ teenth Century. Eight dukes of that
family ruled over the destinies of its people. From Antonio, who
died childless in 1731, the duchy passed to Charles of Bourbon (Don
Carlos), Infante of Spain, who became King of Naples in 1735. Both
Austria and Spain governed it at various times. At the Con¬ gress
of Vienna in 1815, the duchy was granted to Marie-Louise (daughter of
Fran¬ cis I of Austria), second wife of Napoleon I. She died in
1847. Spanish and Austrian rulers again came into possession.
Charles III, a Bourbon and the grandson of Victor Emmanuel I of
Sardinia, reigned until his assassination. During the regency of his son
Robert, Parma was incorporated in the Kingdom of Italy. ORDER
OF CONSTANTINE. Authori¬ ties differ with regard to the date of the
insti¬ tution of this Order. It has been said that it was founded
by Constantine the Great about the year 313 A.D. Others give credit
to thle Byzantine Emperor Isaac II (Isaac Angelus Comnenus), and fix the
year as 1190. This seems the more probable date. The Order is also
called the Order of Saint Angelus, the Order of the Golden
Chevaliers, and the Military Order of Constantine of Saint George,
it being under the patronage of that Saint and Martyr. Late in the
Seventeenth Century its control appears to have been sold to Francis I
(Francis of Farnese), Duke of Parma, who became the Grand Master.
The Order came into high repute because of the rules he observed in
its distribution, and also because of the large domains he
conferred upon it, including the church of the Madonna della Steccata at
Par¬ ma. Clark attributes its revival to Charles V. In 1734
or 1735, after the extinction of the male line of the Farnese family, the
heir to the Duchy of Parma, Infante Don Carlos (son of Philip V of
Spain and Elizabeth Far¬ nese), became the Grand Master. He trans¬
ferred the Order to Naples when he ascended that throne. It was abolished
in Naples by Joseph Bonaparte in 1806 but continued in Sicily.
Revived in 1814, it remained in existence until the unification of
Italy. Owing to its transfer to Sicily, it is fre¬ quently classed
among the Orders of the Two Sicilies. The members of the Order
consist of Senators, Commanders, Knights, Serving- brothers and
Squires. On August 8, 1922, the Count d’Caserta of the
Austrian line of Bourbons, and a dis¬ tant cousin of the King of Italy
through the female line, honoured one Michael Cangiano, the
official Interpreter of the Superior Court of Cambridge, Massachusetts.
Signor Can¬ giano was made a Knight of the Order of Constantine of
Saint George of Parma and of Sicily. This indicates that the Order
has been continued as a Family Order by the old rulers of those Duchies
Pl. Ill Parma Order of Constantine
MEDALS OF HONOUR 19 The insignia is a
red-enamelled gold cross, fleurv. On the arms are the letters I.H.S.
V. (In hoc signo vinces). In the centre is the Labarum, or
Standard. Greek letters X and P crossed,and A (Alpha) and &
(Omega). Harold Bayley, in his book entitled Lost Language of
Symbolism, London, 1913, writes,—“The Latin P has the same form as
the Greek letter named Rho. One of the most famous emblems of early
Christianity— known as the Labarum, the seal of Con¬ stantine, or the
Chi-Rho monogram—is the letter X surmounted by a P. The two letters
Chi and Rho are assumed to read Chr, a contraction for the name Christ,
but the symbol was in use long ages prior to Chris¬ tianity.” The
first class members of the Order wear a gold figure of Saint George
slaying the dragon, suspended from the cross. The ribbon is light blue
moire. ORDER OF SAINT L OUIS. Charles III, Duke of Parma,
revived this order at Parma, August 11, 1849, as an award of merit.
His father Charles Louis (or Charles II) had originated the order
in Lucca in 1836. There are five classes and the insignia is a
cross, composed of four fleurs-de-lis, bound together by their
leaves. On the centre of the obverse in a blue-enamelled shield are
three gold lilies. On the reverse is a figure of St. Louis,
surrounded by the motto DEUS ET DIES (God and light). The Grand
Cross and that for Commanders and Cava¬ liers of the first class have a
gold figure of St. Louis surmounted by a gold crown. The cross for
the second class Cavaliers has a silver figure with a silver crown, and
the fifth class is of enamelled silver without a crown. The ribbon
is light blue and yellow. MEDAL OF MERIT. Founded during the
reign of Marie Louise. Marie Louise was the mother of the Little
King of Rome who, fortunately for Italy, never reigned. The medal
is silver, 20 mm., and bears on the obverse, AI BENEMER- ENTI DEL
PRINCIPE E DELLO STATO. On the reverse is the head of Marie Louise
and the inscription, M. LOUIS ARCID. D. D. AUSTRIA DUCA DI PARMA PIAZ.
E. GUAST. The ribbon is light blue and light red. NUMISMATIC
NOTES MEDALS OF HONOUR #
21 SAN MARINO. When Marinus, the Dalmatian
monk, and his companions settled in the Eastern Apennines, in the
third century, they little thought they were establishing a
community with such a future. For a long time San Marino was
something like a buffer state, between hostile Italian dynasties in
that vicinity. In 1631, the Independence of San Marino was
acknowledged by the States of the Church. Napoleon I preserved its
sep¬ arate existence in 1797, and Napoleon III protected it from
the designs of Pope Pius IX in 1854. At the unification of Italy,
1859-1860, San Marino was still allowed its independence, and today it is
the smallest Republic in Europe. ORDER OF CHIVALRY OF SAN
MA¬ RINO. Sometimes called the Equestrian Order of San Marino,
created on August 13, 1859, by the Council of the Republic, in
commemoration of the fifteenth century of its foundation. The purpose of
its founda- AND MONOGRAPHS ITALIAN
DECORATIONS f Pl. IV San Marino
Order of Chivalry of San Marino MEDALS OF
HONOUR 23 tion was to reward those who were
promi¬ nent in the welfare of the country and its people. There are
five grades: Grand Crosses, Grand Officers, Commanders, Offi¬ cers
and Chevaliers. The badge or cross, which is surmounted by a gold crown,
is a gold-edged, white-enamelled cross moline with a gold ball at
the end of each arm. Be¬ tween the arms are four gold towers. The
obverse centre bears the effigy of Saint Marino to left, surrounded by a
blue band, inscribed SAN MARINO PROTETTORE. The reverse bears on a
gold shield, in the cen¬ tre, the arms of the country—the three
towers. The shield is surrounded by a blue band bearing the words MERITO
CIVILE E MI LI TARE. The ribbon is of seven equal stripes, four of
blue and three of white. The writer has four specimens of this
cross. Two have full-faced busts of San Marino, with white hair and
beard. One has a younger face to the left, with black beard and
hair, while the fourth has a bust in gold, facing to the left, but on a
white-enamelled field. Two of the specimens bear on the reverse
MERITO CIVILE. Elvin and AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS
AND Lawrence-Archer give the inscription as “Merito
Militare,” while the Catalogue Musee de VArmte has it “Merito
Civile.” Cappelletti and Puca, the Italian authori¬ ties, give the
former wording, and the figure of San Marino facing to the left; and
this, no doubt, is correct. MEDAL OF MERIT. Instituted
on March 22, i860. This is octagonal in form and of gold, silver
and bronze, according to the importance of its award. In the centre
of the obverse is the Arms of the Republic, the three towers, within an
oak and laurel wreath, below which is the word LIBERT AS; around
this is, REPUBBLICA Dl SAN MARINO. On the reverse, within an oak
wreath, is the word ANZIANITA if the pur¬ pose of the reward is military,
or MERITO , if for civil award. The ribbon is light blue, edged with
red. NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR 25 SARDINIA, SAVOY AND THE KINGDOM OF
ITALY. Sardinia, one of the islands of the King¬ dom of
Italy, is known to have been settled by the Carthaginians in 512 B.C.
Thence¬ forward Romans, Vandals, Goths, Saracens, and the Genoese
ruled the island. In the year 1325 A.D, the king of Aragon took
pos¬ session. From that time until 1403 Sardinia was an Aragonese
province. After the union of Aragon and Castile, it became Spanish
and so remained until 1713, when it was ceded to Austria by the treaty of
Utrecht. In 1720 it w r as given to Victor Amadeus II (1666-1732),
Duke of Savoy, in exchange for the island of Sicily, and he became King
of Sardinia; the title of King of Savoy was con¬ ferred upon him
the same year. This title of King of Sardinia and Savoy continued
until the unification of Italy in 1859-1860. MEDAL OF VALOUR.
Created in 1793 by Victor Amadeus III (1727-1796), King of
Sardinia. It is of gold and silver, 38 mm. AND MONOGRAPHS
26 ITALIAN ORDERS in
diameter, and bears on the obverse a bust of the king facing to right and
VITTO¬ RIO-AM ADEJJS III. The reverse has a wreath of oak leaves,
within which is a tro¬ phy of arms and flags, and the words AL V A
LORE. The ribbon is dark blue. About 1404 Amadeus VIII, (the first
Duke of Savoy), extended his provinces. The teriitory over which he
later reigned extend¬ ed from the Lake of Geneva to the Mediter¬
ranean Sea, and from the River Saone (in France) to ,the River Sesia in
Italy. The Duchy of Savoy also included Nice. This section
remained almost continually in the possession of the house of Savoy until
i860. It is said that Napoleon III had a secret treaty with
Count Cavour, the Italian states¬ man, before the French army went to
assist the Sardinians to drive the Austrians from Northern Italy.
At the Peace table, Savoy, the cradle of the house of that name, as
well as Nice, was given to France. Of this set¬ tlement, Garibaldi
is reported to have said, “That man (Cavour) has made me a
foreigner in my own house.” Inasmuch as the Kingdom of Italy
has NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR 27 been ruled by princes of the house of
Savoy, it seems proper to describe, in the subsequent pages, the
decorations generally known as Italian Orders of Chivalry and Medals
of Distinction. ORDER OF THE MOST SACRED ANNUNCIATION.
This Order is the high¬ est in rank and most important of all the
Italian Decorations. It ranks with the Golden Fleece of Spain and the
Garter of England. Authorities differ as to its origin, though many
of them give the year 1362 as the date of its foundation. In that
year, the Order of the Neck Chain 01 Order of the Collar of Savoy
was founded by Amadeus VI, Count Verde of Savoy. His grandfather,
Amadeus V, called the Great, assisted the Knights of the Order of
Saint John of Jerusalem at Rhodes, and compelled the Turks, under
Mahomet II, to abandon their siege of that island in 1310 or, as
some state, in 1315. For this service Amadeus V was presented with
a collar, bearing the let¬ ters F.E.R.T. Fortitudo ejus Rhodum
tenuit (By his bravery Rhodes was held). He was also granted for his
Arms, the use of the white cross of the Crusaders, which later
became the Cross of Savoy (H. W. Finch- am’s “Order of St. John of
Jerusalem in England”). Although authorities differ as to the exact
meaning of these letters F.E.R.T., the above is the more generally
accepted explanation, and is that given by Bernardo Giustinian, the
Italian authority, in 1692. In 1518, new statutes were formu¬ lated
for the Order by Charles III, Count of Savoy. At that time the name was
changed to the Order of the Most Sacred Annuncia¬ tion. Several
changes in the Order have been made by various Counts of Savoy
since that time, among whom were Victor Emman¬ uel II in 1869 and
Humbert I in 1889. There is but one class of Members—Chevaliers or
Knights, whose number, exclusive of the Sovereign and Church Dignitaries
and Princes, is limited. They must also be of the Roman Catholic
faith. The insignia consists of a gold medallion on which is a
representation of the Annunciation, above which is a dove, symbolising
the Holy Spirit. This is surrounded by a group of symbolic
NUMISMATIC NOTES «£ ITALIAN
DECORATIONS Pl. V Italy (savoy)
Order of the Most Sacred Annunciation 30 ITALIAN
ORDERS knots of ribbon (lacs d’amour), on which are numerous
roses, a possible reference to the Mystic Rose. The whole is suspended
from a gold chain, composed of alternate knots of ribbon and roses,
with the letters F.E.R.T. interwoven. The plaque, or star, is
similar to the badge, surrounded by eight rays of flame, with the
letters F.E.R.T. on the sides. The ribbon is blue moire.
(Frontispiece.) ORDER OF SAINT MAURICE AND SAINT LAZARUS. The
Order of St. Mau¬ rice was instituted in 1434, at Ripaille, near
the lake of Geneva, by Amadeus VIII (13^3-1450), Count and first Duke of
Savoy. The Order took its name from the patron saint of Savoy.
Amadeus VIII conferred this Order on ten of his courtiers when they
accompanied him to his retreat at the priory of Ripaille. He was elected
Pope in 1439, taking the name of Felix V, but he resigned in 1448
and retired to the solitude of Ripaille, where he died in 1450. He is
buried at Lausanne. Shortly after his death, the Or¬ der became
dormant. It was revived in NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. VI Italy
(savoy) Order of St. Maurice and St. Lazarus
1572 by Duke Emmanuel Philibert of Savoy, to encourage the
Catholics to resist the Cal- vinistic reforms attempted in Savoy.
The Dukes of Savoy were Grand Masters. The Order of Saint
Lazarus was gen¬ erally supposed to have been founded about the
year 1060, during the earlier crusades, although there was a Fraternity
of Ecclesias¬ tical Knights who as early as 366 A.D. founded a
hospital at Jerusalem to care for the lepers. These were known as
the Knights of St. Lazarus. Elias Ashmole, in his “History of the
most noble Order of the Garter,” London, 1715, writes—“At length,
through the incursion of the Barba¬ rians, and Injury of Time, it (the
order) lay extinguished, but was revived when the Latin Princes
joyned in a Holy League to recover the Holy Land. . . . For in that
Time the Monks of this Order added Martial Discipline to their Skill in
Physick; and for their Services against the Infidels, begat a great
Esteem from Baldwin II, King of Jerusalem, and some of his
Successors.” The Order was inactive for a long period.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
33 In 1490 it was united with the Hospitallers of St.
John at Rhodes, but in 1565 Pope Pius IV restored it and granted
additional privi¬ leges. In September, 1572, Pope Gregory XIII, at
the request of Emmanuel Philibert, Duke of Savoy, restored the Order of
Saint Maurice and united it with that of St. Laz¬ arus, under the
title of the ORDER OF SAINT MAURICE AND SAINT LAZARUS. Pope Gregory
XIII also appointed the Dukes of Savoy Hereditaries and Masters, and
as Ashmole writes—“oblig’d them to furnish out two Gallies for the
Service of the Papal See, to be employ’d against Pyrates.”
There have been many changes in the Or¬ der by the various
sovereigns, but at present there are five grades: Knights of the
Grand Cross, Grand Officers, Commanders, Officers and Chevaliers.
The number of the last grade is unlimited. Many foreigners have
been decorated with this grade. The pres¬ ent form of decoration was
established by Duke Charles Emmanuel I (1562-1630). The badge
consists of a white-enamelled cross, treflee, of St. Maurice, conjoined
at the * AND angles with the green Maltese cross of St.
Lazarus, which is ball-tipped at the points. The badges of the four
higher grades are sur¬ mounted by a Royal crown, the size of the
cross and of the crown indicating the par¬ ticular grade. It is suspended
by a bright green watered ribbon. The eight-rayed star of the Order
is silver. In the centre is a reproduction of the badge or cross,
without the crown. MEDAL OF SAINT MAURICE. Insti¬ tuted
for Military services by King Charles Albert, 1 King of Sardinia, on July
19, 1839. It was intended as further recognition of those officials
who had received the cross of the Order of St. Maurice and St.
Lazarus, and who had served under the flag 11 per la durati di died
lustri” (lustri meaning a five year enlistment, and died lustri ,
therefore, fifty years). The Medal is gold, bearing on the obverse
the equestrian figure of the pa¬ tron saint of Savoy, St. Maurice,
holding the flag of the Order in his right hand. Around this are
the words S. MAURIZIO PRO- NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 35 TETTORE DELLE
NOSTRE ARMI. The reverse is inscribed as below, AL C A V A LI
ERE MAU RIZIA NO PER DIECI LUSTRI NELLA
CARRIERA MI LI TARE BENEM ERITO space being
reserved for the name of the recipient. There are two sizes of the
medal. The larger, 55 mm. in diameter, is for Gen¬ erals or
Admirals who had received the higher decoration of the Order of St.
Maurice and St. Lazarus, and the smaller, 39 mm., for officers who
had received the lower grades of the same Order. The ribbon is green,
the same as for the Order. ROYAL MILITARY ORDER OF
SAVOY. Founded at Genoa, on August 14, 1815, by Victor Emmanuel I
(1759-1824). Its pur¬ pose was to reward acts of valour and
magnanimity. The Order was modified on September 28, 1855, by Victor
Emmanuel II, later king of Italy, who also changed the
decoration to the present form. There are five classes: Knights of the
Grand Cross, Grand Officers, Commanders, Officers and Chevaliers.
The cross, which is white- enamelled with curvilinear tips, is edged
with gold. It rests upon a wreath of laurel leaves. On the red
background of the medal¬ lion is the white cross of Savoy, around
which on a circular band are the words AL M ER 1 TO MI LI T A RE. The reverse
medal¬ lion of red enamel has two crossed swords, points up, above
which is the date 1855, and on either side, the initials V. E. The
cross of the first three classes is surmounted by a Royal crown,
that of the fourth class by a trophy of flags and arms, while the fifth
class cross has but the suspension ring. The ribbon is blue moire,
with a red band in the centre. The star, which is of silver, has
eight rays; in the centre is a duplication of the obverse of the
decoration, without the crown. Prior to 1855, the star or plaque bore the
motto AL MERITO ED AL VALORE. CIVIL ORDER OF SAVOY. Founded
at Turin, on October 29, 1831, by Charles Pl. VII
Italy (savoy) Military Order of Savoy 38
ITALIAN ORDERS Albert (1798-1849), King of Sardinia
and Savoy. During most of his reign of eighteen years, he was at
war with Austria. Follow¬ ing the revolution of 1848 in France, he
began war for the Independence of Italy but was compelled to abdicate in
1849 after his defeat by the Austrians at Novara. The object of the
Order was to rewaid ‘those of other professions, not less useful than
that of the army, who have become through long and profound study
the ornaments of the State to which they have rendered important
service.’ There is but one class to the Order, known as
Knights, and it is seldom conferred on foreigners. The decoration is a
light blue Savoy cross edged with gold. The medallion on the
obverse is white with a gold rim; in the centre are the intials of the founder,
C. A. The reverse has AL MERITO CIVILE 1831 , in gold lettering on
a white field, on the centre medallion. The moire ribbon is of
three equal stripes—light blue with white either side. ORDER
OF THE CROWN OF ITALY. Created on February 20, 1868, by Victor
Pl. VIII Italy (savoy) Civil Order of
Savoy 40
ITALIAN ORDERS Emmanuel II (1820-1878), the first King
of United Italy, to commemorate the annexa¬ tion of Venice to that
kingdom. This is sometimes called the Order of the Iron Crown.
Doubtless the origin of the name arose from the fact that at the
coronation of Agilif, King of the Lombards (592-615), a crown was
used, composed of gold and precious stones, inset with a band of
iron which was said to have been forged from a nail of the true Cross.
Tradition says that this crown was kept in the Cathedral of Monza
and removed to Mantua in 1859. When Napoleon I became King of Italy
in 1805, it is said he was crowned with this crown. The Order of
the Iron Crown of Italy, founded by Napoleon I in 1805, was
abolished in 1814, although revived in Austria in 1816 by Francis I as
the Austrian Order of the Iron Crown. The first distribution
of the Order of the Crown of Italy, as founded by King Victor
Emmanuel II, occurred on April 22, 1868, when the heir-apparent,
Humbert, married Princess Marguerite of Savoy. There are five
classes of the Order—Grand Pl. IX Italy
Order of the Crown of Italy Cordons, Grand
Officers, Commanders, Officers and Knights. The grade of Knight or
Chevalier is frequently conferred on foreigners. The insignia is a
white-enam¬ elled cross-pattee edged with gold, and convex, with
knots of gold cord connecting the arms. In the blue-enamelled
medallion is a gold crown. On the reverse medallion is the crowned
eagle of Savoy. On its breast is a red shield, bearing the white
cross of Savoy. The ribbon is of red with a white stripe in the
centre. The star of the order, for the highest grade, is of eight silver
rays, on the centre of which is a gold crown on blue field, encircled
by a white band, in¬ scribed VICTORIUS EMMANUEL II REX I TALI A E
MDCCCLXVI. This device is surmounted by a crowned eagle bearing the
Arms of Savoy on its breast. The star of the Grand Officer is an
eight-pointed silver star, on which is a reproduction of the Cross.
ORDER OF INDUSTRY. By a decree of May 9, 1901, Victor Emmanuel III
created a Decoration called the “Cavalieri del Lavoro” (Knights of
Industry). It is awarded to those prominent or proficient in
the Industrial, Commercial or Agricultural work of the Kingdom or of its
Colonies. The decoration consists of a green-enamelled Savoy cross,
edged with gold. On the obverse is a white medallion, bearing the
words AL MERITO/DEL/LAVORO/1901 The reverse medallion bears the initials
of the founder, V. E., in gold on a white field. The rib¬ bon is
dark green with a red stripe in the cen¬ tre. There is but one class to
this order, and its award carries with it no particular privileges.
COLONIAL ORDER OF THE STAR OF ITALY. Founded in 1911 by King
Victor Emmanuel III. Its purpose was to reward those deserving of
especial recognition who were prominent in the work of the
Colonies. There are five classes to the Order: Knights of the Grand
Cross, Grand Officers, Com¬ manders, Officers and Chevaliers. The
decoration consists of a white-enamelled star of five points, edged with
gold and ball- tipped. On the obverse medallion of red, is the gold
monogram (V. E.) of the founder, with crown above. A green-enamelled
circle AND MONOGRAPHS 44
ITALIAN ORDERS has at the bottom of it 1911. On the
reverse red medallion are the words AL/ ; MERI TO /COLO NI ALE in gold
letters. The ribbon is red, with narrow white and green bands on
either side. All grades of the star have a crown above, except that
of Chevalier, which is plain. The plaque, j which is worn by the
first and second classes only, consists of thirty-five silver rays,
on which is the uncrowned star described above. MILITARY
CROSS FOR SERVICE. On November 8, 1900, Victor Emmanuel III
authorized a cross for long and faithful service, called the “Croce per
anzianita di servizio Militare.” It is of gold for Officers, and of
silver for the troops. The decoration is a Maltese cross; on the obverse,
a medallion bearing the Royal cipher V E crowned, and on the
reverse Roman characters, denoting years of service —XXV for the Officers
and XVI for the troops. If the officers have served forty years and
the troops twenty-five years, the Roman characters vary
accordingly, and the cross has a crown above. The ribbon is green,
with a wide white stripe in the centre. NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS
Pl. X Italy Colonial Order of the Star of
Italy 46 ITALIAN ORDERS MILITARY MEDAL OF
VALOUR. As early as 1793, during the war between Pied¬ mont and
France, Victor Amadeus III, King of Sardinia (1727-1796), created a
Medal of Valour. This was awarded for individual acts of bravery, and was
struck in gold and in silver. Victor Emmanuel I revived the award
in 1815, at the time of the downfall of Napoleon I, but abolished it
in August of that year when he created the Military Order of Savoy.
When Charles Albert was King of Sardinia and Savoy, he reinstituted
the medal in 1833, for acts of valour not sufficiently important to
war¬ rant the M ilitary Order of Savoy. From the time of its
inception to 1887, it was always awarded in gold or silver, but in that
year Humbert I decreed that a bronze medal should be given for acts
of valour of a lesser degree. This medal ranks in Italy almost as
highly as does the Victoria Cross in Great Britain or the Medal of Honour
in this country. It is frequently called the Sar¬ dinian Medal of
Valour. The earliest model was 38 mm. in diameter, having on the
obverse the bust of the king facing to the NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XI
Italy (savoy) Military Medal of Valour
48 IT A LI A N ORDERS AND
right and the words VITTORIO AMADEUS III. The reverse had a wreath of oak
leaves, within this is a trophy of arms and flags and the
words AL V A LORE. About the time of the Crimean war, the design was
changed. The size was reduced to 33 mm. The obverse has the Arms of
Savoy, surmounted by a crown in an oval. Below are a palm and
laurel branch, tied at base with a ribbon; and around the whole,
the words AL V A LO¬ RE MI LI TARE. The reverse has two laurel
branches tied with a ribbon, with a space in the centre for the recipient’s
name. The name of his campaign is placed on the outer edge. The
ribbon has always been a dark blue moire. Victor Emmanuel II caused
a number of these medals, in both gold and silver, to be given to
the British and French troops who took part in the Crimean war. Two
of these are in my collection, and have been awarded to Frenchmen. The
reverse has the name and title of the recipient en¬ graved at the
centre, while around the outer edge of one are the words SPEDIZIONE
D’ORIENTE 1855-1856, in relief. The second specimen has the same words
en- NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 49 graved.
The Musee de VArm'ee of Paris has a medal with the recipient’s name
engraved and GUERRE DTTALIE 1859 in relief. This was for the war
with Austria. Another has in relief CAMP A GNA DELLA BASS A ITALIA
1860-1861 . Mr. C. S. Gifford, of Boston, has in his collection a variant
of this Medal of Valour. It is but 25 mm. in diameter. The reverse
has around the edge, outside the wreath, in relief , the words
GUERRA CONTRA VIMPERO D’AUS¬ TRIA. Many of these medals have
been awarded to the men of other countries who have assisted Italy
in her campaigns. It was a Military Medal of Valour, of gold, which
General Diaz placed upon the grave of the un¬ known American soldier at
Arlington on Nov¬ ember 11,1921, by order of the King of Italy.
CIVIL MEDAL OF VALOUR. Au¬ thorized by King Victor Emmanuel II
on April 3, 1851. It was given in gold, silver and bronze. Under a
decree of April 29, 1888, Humbert I authorized a bronze medal also.
These are awarded to civilians for per- AND MONOGRAPHS
50 ITALIAN ORDERS AND
sonal acts of courage and valour, such as rescues at fires and at sea.
The medal is 34 mm. in diameter, bearing on the obverse the Arms of
Savoy in an escutcheon, with a Royal crown above. Around this at
the top are the words AL VALORE CIVILE. The r everse has a
wreath of oak leaves, with space in the centre for the recipient’s
name. The writer’s medal is engraved D’ONOFRIO GIO. ANTONIO
CERVINARA (AVEL- LINO) 22 XBRE. 1868. The ribbon for this medal is
of the Italian National colours. Three equal stripes—red, white and
green. NAVAL MEDAL OF VALOUR. Insti¬ tuted in March, 1836;
modified in 1847, and again by Victor Emmanuel II in i860, to
reward the men of the Navy for heroism. In 1888, Humbert I established
three grades, gold, silver and bronze, according to the character
of the award. The obverse bears the Arms of Savoy on a shield, with a
crown above, and encircled by a palm and laurel branch tied at the
bottom; and round the outer edge is the motto AL VALORE DI MARINA.
On the reverse is an oak NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR wreath (less full than that of the
Military medal of Valour) with a reserve in the centre for the name
of recipient and mention of the act for which the medal is awarded.
The ribbon is dark blue moire, with one wide and one narrow white stripe
at each side. MEDAL OF MERIT FOR PUBLIC SAFETY. This
decoration was first insti¬ tuted on September 13, 1854, by Victor
Emmanuel II and was called “La Medaglia di Benemerenza per i Benemeriti
della salute pubblica” Its purpose was to reward the services of
volunteers in epidemics of contagious diseases and those who took
part in other ways beneficial to the health and safety of the
public. It is given in gold, silver and bronze. On the
obverse is a bust of the King to left, around which is inscribed UMBERTO
I RE D'IT ALIA. On the reverse are oak and laurel branches,
surrounded by the words SALUTIS PUBLICAE BENEMERENTI- BUS. A
reserve at the centre is left for the name of the recipient. On the
earlier models the bust and title of Victor Emmanuel AND
MONOGRAPHS II appeared on the obverse,
and the reverse motto read AI BEN EMERITI DELLA SALUTE PUBBLICA .
The ribbon is light blue, edged with black. MEDAL FOR
VETERANS GUARDING THE TOMB OF THE KINGS. This medal was authorized
on July 14, 1879, and altered on January 1, 1880. It was established
to honour the veterans of the war of 1848-1849 who guarded the tomb
of Victor Emmanuel II. It is 30 mm. in diameter and of silver. The
ribbon is blue with a white stripe in the centre, with one edge green and
the other red. The first model has on the obverse a wreath of
laurel with a superimposed, five- pointed star bearing at the centre the
bust of the King and the words UMBERTO 1° RE D’lTALIA; on the
reverse, VETERAN! 1848-49 / GUARDI A D’ONORE / ALLA TOMB A DEL RE /
VITTORIO EMA- NUELEII. After the death of Humbert I, Victor
Emmanuel III altered the medal. The obverse bore his own bust and title,
and the reverse read / AI/VETERA Nl 1848-1870 /GUARDIA D’ONORE /
ALLE TOMBE NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XII Italy Veteran
Guard of the Tomb of the Kings 54 ITALIAN
ORDERS DI RE / VIT TO RIO EM AN UELE II / E UMBERTO I. A
specimen of this design is in my collection. LIFE SAVING
MEDAL. Authorized by Royal Decree on March 8 , 1888 . This
decoration is awarded to those, not in the Navy, who have risked their
lives to save others from drowning, or shipwreck, or for other
forms ot personal valour at sea. It is issued by the Ministry of the
Marine. The medal is in silver and in bronze only and is not to be
worn on the person. The obverse bears the effigy of the King, facing
left, and the inscription VITTORIO EMANUELE III RE D J IT ALIA. The
reverse has two circles, one within the other; in the outer circle
occur the words MIN1STERO DELLA MARIN A, while the inner one is left
blank for the name of the recipient, the date and the statement
regarding the occasion of the award. MEDAL OF MERIT.
Authorized by a Decree of May 6, 1909. This medal was awarded to
all persons, including many NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XIII
Italy Medal of Merit 56 ITALIAN ORDERS AND
foreigners, who from philanthropic or charitable motives went to
the relief of the inhabitants of Sicily and Southern Calabria at
the time of the earthquake of December 28, 1908. It is 34 mm. in
diameter, and was issued in gold, silver and bronze. The obverse
bears the effigy of the King, facing left, and the words VITTORIO
EMA- NUELE III. On the reverse, the inscription TERREMOTO / 28
DICEMBRE 1908 /IN CALABRIA / E IN SICILIA, sur¬ rounded by a wreath
of oak leaves. The ribbon is green with a white stripe on either
side. A variation of this medal was issued, bearing on the obverse the
bust of the king surrounded by the inscription VITTORIO EMANUELE
III RE D’I TALI A. The reverse reads MEDAGLIA/COMMEMO- RA TI V A /
TERREMOTO / C ALABRO SICULO/28 DICEMBRE /1908. The ribbon for this
has 5 stripes, alternately white and green. The writer
possesses an interesting medal, for the official issuance of which no
authority has been found. It is of silver, 33 mm. in diameter. The
obverse bears the head of NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 57 the King of Sardinia and
Savoy, facing left, with A CARLO ALBERTO at the sides. Under the
bust, the letters S.J. (probably standing for Stephano Johnson).
The reverse reads I VETERANI/ITALIANI /IN/PELLEGRINAGGIO /ALLA
SUA TOMB A /A SUP ERG A . The ribbon is dark blue with a yellow
stripe each side. It is believed that these medals were given to
the veteran soldiers of Charles Albert who made the pilgrimage to
his last resting place. The Abbey of Superga was founded by Victor
Amadeus III near Turin. In its church rest the remains of the Princes of
Savoy. Charles Albert (1789-1849) died at Oporto in 1849. His body
was buried on the heights of Superga. Italy later recognized his
devotion, and pilgrims still journey to his tomb. CRI MEAN M
EDAL. Italy was not back¬ ward in awarding what are commonly known
as Campaign or Service Medals but which the Italian authorities style
“Medaglie Commemorative.” That for the Crimean war was the first.
It was authorized on October 22, 1856, and was issued to the
Piedmont AND MONOGRAPHS ITALIAN ORDERS AND
troops serving during that campaign under General La Marmora. The medal
is of silver, 35 mm. in diameter. On the obverse appears the effigy
of the King, facing left, and the inscription VITTORIO EM AN U ELE
II. The reverse has in large letters, in relief, CRIMEA/1855-1856. The
ribbon is light blue with a narrow gold edge. Some authorities
assign a ribbon of the Italian National colours—red, white and
green. MEDAL FOR THE LIBERATION OF SICILY. This medal was
issued to com¬ memorate the dethronement of Ferdinand II and the
union of the ancient Kingdom of Sicily with the Kingdom of Italy. As
a result of that insurrection, Garibaldi with his thousand troops
landed at Marsala, and in three weeks was master of Messina. The
medal (30 mm.) is of silver and bronze. On the obverse is the bust of the
king and the words VITTORIO EM AN U ELE; below the bust, the
initials S.J., probably standing for Stephano Johnson, the maker. The
re¬ verse is inscribed IT ALIA / E CASA DI SA VOIA / LIBERAZIONE DI
/ SICILIA NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 59 1860. The ribbon is red,
with one white and one green edge. STAR OF THE THOUSAND. Here
might appropriately be mentioned a unique dec¬ oration. On January
9, 1861, General Turr went to the island of Caprera to carry to
that great Italian patriot, General Giuseppe Garibaldi (1807-1882), the
Star of Honour which his famous thousand companions had offered
him. It is a gold star of seven points, loosely set with diamonds. In the
centre on a blue-enamelled field in letters of gold is ARTURO (a
star which is said to protect any one with an ideal). On this is
super¬ imposed a gold Trinacria, the emblem of Sicily. This is
surrounded by an enamelled band of white, green and red, inscribed
in letters of gold I MILLE AL LORO DUCE (The thousand to their
chief). This was the only decoration which that great General
consented to wear; and after his death at Caprera on June 2, 1882, the
star was given by his sons to the Quirinal Museum in Rome where it
may now be seen. AND MONOGRAPHS
6o ITALIAN ORDERS MEDAL OF THE THOUSAND,
or MARSALA MEDAL. Issued by the city of Palermo, and authorized by the
Italian government in 1865. It was presented to the troops of
Garibaldi who entered the City in i860, and is called LA MEDAGLIA
DEI MILLE. The obverse has in the centre an eagle with raised
wings, standing on a fillet inscribed S. P. Q. R. Around this are
the words AI PRODI CUI FU DUCE GARI¬ BALDI (To the brave men who were
led by Garibaldi). On the reverse within a wreath of laurel is IL
MUNICIPIO/PALERMI- TANO / RI VENDICA TO / MDCCCLX. Around this,
outside the wreath are the words MARSALA CALATAFIMI PALERMO. The
medal was issued in silver and in bronze. The ribbon is bright red, with
a gold stripe each side, and on the face of the ribbon is fastened
a silver Trinacria , the emblem of Sicily. MEDAL OF ITALIAN
INDEPENDENCE. This decoration was authorized in 1862. It is of
silver, and 32 mm. in diameter. On the obverse is the head of the king,
to left, NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XIV Italy Medal of
the Thousand 62 ITALIAN ORDERS around
which are the words VITTORIO EMANUELE II RE D’I TALI A The reverse
depicts a standing female figure, symbolizing Italy, holding in her right
hand a spear, and in the left, a shield with the Arms of Savoy.
Around the whole is in¬ scribed GUERRE PER LTNDIPENDENZA E V UNIT A
D’IT ALIA. The ribbon is composed of six narrow stripes of the
National colours—green, white and red. Bars or barrets are issued in
silver to be attached to the ribbon, as follows: 1848- 1849 (war
with Austria), 1855-1856 (Cri¬ mean War), 1859 (war with Austria),
1860- 1861 (Garibaldi’s expedition in Sicily and the Campaign in
central Italy), 1866 (war with Austria), 1867 (Campaign against
Rome), and 1870 (Capture of Rome). MEDAL FOR UNITED ITALY.
This medal was authorized in 1883. It is 32 mm. in size, and of
silver and bronze. On the obverse is the effigy of the King and the
words UMBERTO I RE D’lTALIA. On the reverse, within a laurel wreath the
in¬ scription UNITA/D’ITALI A/1848-1870. NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. XV
Italy Medal of Italian Independence
ITALIAN DECORATIONS Pl. XVI Italy
Medal for United Italy MEDALS OF
HONOUR 65 The ribbon has a broad green stripe with
a white and a red stripe on both sides. Unlike the British
campaign medals, few of the Italian medals are inscribed on the
edges. The writer has a group of three medals, inscribed PHILIP
FIGYELMESY COM ANDANTE USSERI UNGHERESI. These are for the Campaign
of United Italy, Liberation of Sicily, and for Italian Inde¬
pendence. MEDAL FOR AFRICA. Created on November 3, 1894;
sometimes called the “Medal for Abyssinia.” It was awarded to the
forces of the Army and Navy which took part in the operations in
Abyssinia, especially in that portion bordering on the Red Sea,
called Eritrea. This included the campaign of 1887-1897 against Menelik
II, who was the Negus of Abyssinia. The medal was issued in bronze,
32 mm., and bears on the obverse the crowned head of King Humbert
I, facing right. On the reverse, within a laurel wreath, are the words
CAMPAGNE D } AFRICA. The ribbon is red with blue borders. Silver
bars, suitably inscribed, AND MONOGRAPHS
66 ITALIAN ORDERS were issued to the
troops taking part in the following expeditions, viz: Campagna
1887- 1888, Saati, Dogali Saganeiti, Keren, Asmara, Adua, Agordat
(1890), Halat, Serobeti, Agordat (1893), Kassala, Halai, Coatit,
Campagna 1895-1896 and Cam¬ pagna 1897. MEDAL FOR THE FAR
EAST. Au¬ thorized on June 23, 1901, and also known as the “Medal
for China/’ or the “Medal for the Boxer Uprising.” At the time of
that unfortunate affair, when so many of the Nations went to the relief
of their lega¬ tions at Pekin, Italy was among the first. To all
those taking part in this expedition, and to those who remained as
guardians of the territory until the end of the year 1901, this
medal was given. It is of bronze, 32 mm., and bears on the obverse the
effigy of the King facing left and the words VIT- TORIO EMANUELE
III RE D’lTALIA; on the reverse, within a wreath of laurel, CINA
1900 - 1901 . The ribbon is yellow, with four dark blue stripes. Another
medal for China is exactly like the above, excepting
NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XVII Italy Medal
for Africa 68 ITALIAN ORDERS
that the reverse bears the word CINA only. This was given to the
troops and sailors who served in China from December 31, 1901 to
April 1, 1908. The ribbon is similar. MEDAL FOR THE TURKISH
WAR OF 1911 - 1912 . But a few years ago Italy and Turkey were
fighting desperately for the control of Tripoli, a section of
Northern Africa which had been under Turkish rule for several
centuries. It was at this time that Germany all but precipitated a Euro¬
pean war by insisting upon certain methods of settlement. Fortunately
conflict was averted by the treaty of Lausanne. To commemorate the
triumph over Turkey and to honor those engaged there, a silver
medal of 32 mm. was authorized on November 21, 1912. The medal was
issued to all men of the Army and Navy who took part in the
operations against the Ottoman Empire, whether in Africa or in Turkish
territory. On the obverse of the medal is the head of the King,
facing right, and the inscription, VITTORIO EM A N V ELE. III. RE
NUMISMATIC NOTES Pl. XVI 11
Italy War Cross 70 ITALIAN
ORDERS D* I TALI A. On the reverse, within a wreath of
laurel, the words GUERRA / ITALO-TURCA,/ 1911 - 1912 . The ribbon
is of six narrow blue and five narrow red stripes of equal
width. MEDAL FOR THE WAR IN LIBYA. The treaty of Lausanne did
not stop all war operations on the part of Italy. The tribes of the
newly acquired Colonial possessions continued to make trouble. To reward
the troops taking part in such campaigns, a silver medal of 32 mm.
was authorized on September 6, 1913. This was identical with the
Turkish war medal, except that the re¬ verse bears the words GUERRA/IN
LIBIA. The ribbon is of the same design and colour. WAR CROSS
OF ITALY. Authorized in 1918. It was awarded to those worthy of
official recognition during the World War, but whose service was not of
sufficient im¬ portance to warrant the Medal of Military Valour.
The Decoration is of bronze, 38 mm., in the form of the Savoy Cross.
On the obverse is inscribed MER 1 T 0 Dl NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS
Pl. XIX Italy Medal for the World
War 72 ITALIAN ORDERS GUERRA , above
which is the King’s crowned monogram, V. E. and III. On the lower
arm of the cross is an upright sword entwined with a branch of oak.
The reverse has a. star in the centre surrounded by rays. The
ribbon is dark blue with two white stripes. MEDAL FOR THE
WORLD WAR. Created on July 29, 1920 and made from captured Austrian
cannon. It is bronze, 32 mm. On the obverse appears the hel- meted
bust of the King, encircled by the inscription, GUERRA PER V UNIT A
D' I TALI A 1915-1918 and three branches of oak leaves. The reverse has
an allegorical figure of Victory, standing on a support borne by
two helmeted soldiers, and the inscription CONIT A NEL BRONZE N E-
MICO (Coined from enemy bronze). The ribbon has eighteen narrow stripes
of green, white and red—six of each colour. Bars were issued to be
worn on the ribbon to designate the years of service in the war.
These bear the dates of 1915 , 1916,1917 and 1918 . NUMIS M
ATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS
Pl. XX Italy Medal of National Gratitude
74 ITALIAN ORDERS VICTORY MEDAL.
Created on De¬ cember 16, 1920, but not issued until 1922. The
medal is bronze, 36 mm. As with the Victory medals of the other allies,
the winged Victory is the dominant feature. This figure stands
facing on a triumphal chariot drawn by four lions. The reverse shows
a tripod above which two doves of peace are to be seen. At top the
inscription GRANDE- G VERRA-PER-LA-Cl VILTA . In field, at each
side of tripod MCMXIV-MCMXVIII, below, in two lines, AI COMBATTENTI
BELLE NAZIONI/ALLEA TE ED ASSO¬ CIATE. The badge is suspended by
the rainbow ribbon as are all the Victory medals. MEDAL
OF NATIONAL GRATITUDE. This medal is awarded to mothers who lost
sons in the World War. The obverse shows an allegorical figure presenting
a wreath to a fallen warrior. Standing alongside is another female
in an attitude of grief. The reverse has an inscription in eight
lines IL FIGLIO / CHE TI NACQUE / DAL DOLORE / TI RINASCE “0 BEAT
A” / NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XXI Italy
Victory Medal 7 6 ITALIAN ORDERS
AND NELLA GLORIA / E IL VIVO EROE / “PIENA DI GRAZIA” / E
PECO. The ribbon is grey with center composed of narrow green,
white and red stripes. MEDAL FOR WAR ORPHANS. This medal has
also been authorized but no information has been received concerning
it. ITALIAN UNITY MEDAL. This medal has not as yet been
distributed and details concerning it are lacking. It is to be sold
and the money received is to go to the widows and mothers of those killed
in the war. MEDAL FOR WAR VOLUNTEERS, Notice has been
received that a medal will be issued shortly to those who
volunteered in the World War. CROWN OF MERIT. At this
writing, and before any confirmation could be secured, advices have
come that the Councils of Ministers have proposed a decoration to
be awarded to clerks and workingmen who have remained faithful to
their employers for NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 77 twenty-five years or more.
Presumably this medal is intended to stimulate a spirit of co¬
operation between the employed and em¬ ployer. No decision as to the
design has been announced. Several of the municipalities of
Northern Italy issued medals to honor those who aided in the
efforts to free that country during the strenuous days of 1848-1849. None
of these medals of the cities are official medals, and consequently
few if any of the authori¬ ties mention them. They are inserted
here in order that the numismatist may have some facts relating to
them. Como had a medal inscribed on the ob¬ verse, COMO
LIBERATA NELLE GLORI- OSE GIORNATE 18-22 MARZO 1848 . The reverse
bears the Arms of the city and the words AL VALORE DEL CITTADINO.
Bologna issued a medal inscribed VIT¬ TORIO BOLOGNA 8 ./ 8 . 1848 .
On the re¬ verse, QUANDA IL POPOLO SI DESTA DIO SI PONE ALLA SUA
TESTA. Livorno’s medal bears on the obverse AI V A LOROSI
DIFENSORI DI LIVORNO 10 E 11/5 18 49. The reverse bears the
AND MONOGRAPHS 78 ITALIAN ORDERS
AND Arms of the State and the words MUNICI- PIO DI LIVORNO.
The ribbons for the above medals are red and white. Milano
likewise had a medal to show her appreciation of the efforts of her
citizens for freedom. It bears on the obverse a figure of Victory
and the dome of the Cathedral. The reverse has the Arms of the State
and the inscription COMMUNE DI MILANO. The ribbon is red and
yellow. Cadore, Vicenza and Brescia are also said to have
issued medals, but a dependable description has not been
obtainable. During the war of 1848-1849 against Austria, and
the several Principalities of which Italy is now composed, Rome,
too, became involved. At the time of the Insurrection of 1848, Pope
Pius IX fled to Gaeta, where he remained until 1850. On February 9,
1849, Rome was declared a Republic. To those who took part in the
Insurrection, and who aided in the formation of the short-lived Republic,
as well as for connection with subsequent events, Rome awarded
several medals. As with the others, authentic information is difficult to
obtain. NUMISMATIC NOTES MEDALS
OF HONOUR 79 MEDAL OF MERIT. Issued for the
battle of Vicenza on June io, 1848. This medal was of both silver and
bronze, and 30 mm. in diameter. On the obverse within a wreath of
oak leaves, the Arms of the city of Rome—a crowned shield, bearing
the letters S. P. Q. R. (Senatus Populus que jRoman us —The Senate
and the people of Rome). Around this device is the inscription
ALMAE VRBIS COSS BENEMERENTI. On a plain reverse is the motto, P VGNA
STRENVE / AD VICETIAM/PVGNA TA / IV.EIDVS VINIAS / M.DCCC. XL VIII.
The ribbon is of equal stripes of magenta and yellow—the colours of
Rome. MEDAL OF MERIT (Rome). Issued in silver and bronze. The
obverse has in the centre, the she-wolf with Romulus and Remus.
Around this is BENEMERITO DELLA PATRIA, with an oak and olive
branch beneath. The reverse has in the centre a group of flags and a
trophy of arms, surrounded by the inscription INDIPEN- DENZA
ITALIAN A 1848 . The ribbon is similar to the preceding. AND
MONOGRAPHS 8o ITALIAN ORDERS
MEDAL OF MERIT. Struck in silver and bronze, and is said to have
been issued by the Republic of Rome to those who dis¬ tinguished
themselves during the Insurrec¬ tion of 1848. It is 30 mm., and has on
the obverse the she-wolf with Romulus and Remus, standing on a
pedestal, bearing the letteisS. P. Q. R . The reverse reads AL
MERITO, surrounded by an oak wreath. The ribbon is magenta and
yellow. Another medal is described by one au¬ thority as a
reward to the combatants of 1848. It is 23 mm., bronze, and bears
on the obverse an allegorical female figure, holding a spear in her
right hand and a cornucopia in her left. At her feet is a globe surmounted
by an eagle. Above is a rayed .star. On the edge is inscribed
REPUBLIC A ROM AN A. On the reverse is the motto ALLA VIRTU
CITTADINA within an oak wreath. This is surrounded by the
inscription LA P ATRIA RICONO- SCENTE. No ribbon is described.
According to Padiglione still another Medal of Merit was issued in
commemora¬ tion of September 20, 1870, when Rome was
NUMISMATIC NOTES ITALIAN DECORATIONS
Pl. XXII Rome. Battle of Vicenza Rome. Medal of
Merit 82 ITALIAN ORDERS AND admitted
into the Kingdom of Italy. Scul- fort, a French writer, says this medal
was given to commemorate the proclamation of the Republic of Rome
in 1848; although preference is here given to the Italian
authority’s version. The medal was issued in silver and bronze, 30 mm. in
diameter. On the obverse is a shield bearing the Arms of the City,
surmounted by the she-wolf with Romulus and Remus. This device
rests upon two crossed battle axes and an oak wreath. The reverse bears
within an oak wreath ROMA /RIVENDICA TA ,/AI SUOI/LIBERATORI,
surmounted by a star. The ribbon has narrow alternating stripes of
magenta and yellow. Some rib¬ bons have nineteen stripes; others
have eleven. NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 83 THE TWO
SICILIES Even more so than with Italy proper, Sicily has been
a battle-ground from the earliest times. And this condition, as is
usually the case, has made the numismatics of Sicily of great importance.
Before the period of coinage, the Sikels dwelt in the land. Later
the Carthaginians disputed with the Greeks for its control, both
yielding ultimately to the Romans. In addition to the struggles
between the Normans and the Spaniards for its possession, it had to
with¬ stand the onslaught of the Saracens. Sicily, especially
in the mediaeval period, has shared the fate of the kingdom of
Naples, or, as they came to be known, the Kingdom of the two Sicilies—a
title which in itself is a commentary of the relative importance of
Naples. After the Lombard rule in the nth century, the Normans,under
Count Roger, brought about a consolidation of Naples and Sicily. The
conquest dates from 1130 A.D., when he assumed the title AND
MONOGRAPHS 8 4 ITALIAN ORDERS
AND of King of Naples and Sicily. There were two periods of
separation—1282 to 1442 and 1458 to 1504, but after the last-named
year the two kingdoms remained under one crown until the unification of
Italy in 1861. It is unnecessary here to dwell upon the
constantly changing rule for the two king¬ doms more than to mention the
conflict between the House of Anjou and of Aragon through the 14th
and 15th centuries. Under Charles VIII (from 1494), the French
ruled, while between 1504 and 1707 the Spanish were in control.
They were followed by the Austrians (until 1720). After that date
Spanish Bourbons held possession. The Napoleonic rule on the
mainland dates from 1805, while Ferdinand IV con¬ trolled the
island of Sicily. The downfall of Napoleon at Waterloo saw the two
kingdoms again united under the Bourbons. The wars for the independence
of Italy, and the efforts of Garibaldi in 1859 and i860, finally
brought both sections into the Kingdom of Italy and under the rule of
the house of Savoy. NUMISMATIC NOTES
M EDALS OF HONOUR 85 ORDER OF THE SHIP. In 1269,
St. Louis founded in France the Order of the Ship or of the Double
Crescent. Upon his death in 1270, his brother, Charles d’Anjou,
established this order in the Kingdom of Naples. Owing to the design of
the collar, this order is sometimes given a third name— The Order
of the Sea Shell. The insignia was a gold collar of scallop shells,
alternating with double crescents. From this was suspended a medal
with a ship as its design. The motto is NON CREDO TEMPORI. Clark, an
Eng¬ lish writer, describes an order founded in 1382 by Charles
III, King of Naples, called the “Order of St. Nicholas,” while Elias
Ashmole styles it “The Order of the Argonauts of St. Nicholas.”
Both give the motto as NON CREDO TEMPORE Apparently, therefore, this
is a survival or a later form of the Order of the Double Crescent.
ORDER OF THE CRESCENT. Favine states that this order was founded in
An- giers, France, in 1464, by Rene, Duke of Anjou, King of
Jerusalem and Sicily. Ashmole quotes St. Marthes as giving 1448
AND MONOGRAPHS 86 ITALIAN
ORDERS AND as the date for its foundation. Rene was unable
to hold his island kingdom very long. The order was not popular, and
those honoured with it were afraid to wear the badge. The insignia
consisted of three gold chains from which is suspended a gold
crescent, bearing three letters in red, L.O.Z., which signify, according
to Favine, L’oz en croissant (Praise by increasing). To the
crescent were attached gold tags indicating the battles and feats of
honour in which the knights had been engaged. 2 Aragon
controlled the Island Kingdom of Sicily from 1282 to 1442. In 1351 Louis
I, King of Sicily, founded the ORDER OF THE STAR to replace that of
the CRESCENT MOON. This insignia was a Maltese cross, in the centre
of which is an eight- pointed star. This Order seems to have been
discontinued in 1394. Giustinian, the Italian writer in 1692, gives a
list of eighteen Grand Masters of the Order of the Crescent Moon
and of the Star from 1268 to 1667. This would seem to indicate that the
Orders described above were connected or continued by the several
rulers under different titles. NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR OO ^4
ORDER OF THE SPUR. Founded in 1266 by Charles d’Anjou, King of
Naples and Sicily, to commemorate his triumph over Manfred near
Benevento. The insignia is a white-enamelled cross, each of the
arms having double points. A spur is attached at the base. The
Order was shortlived. ORDER OF THE KNOT OF NAPLES. Created
in 1351 by Louis of Taranto when he married the Queen of Naples. This
was also termed the “Order of the Holy Spirit of the Right Desire.”
It ceased to exist after the death of the founder. The insignia is
a knot of cord entwined with i gold thread. ORDER OF THE
REEL AND LIONESS (Naples). This Order, of short duration, was
instituted by partisans of the house of Anjou, during the troubles of
1386-1390. The insignia is a yarn reel and a lioness, the
significance of which is difficult to learn. Clark, writing in 1784,
states that the followers of Louis II, Duke of Anjou, were divided
into two factions, one of which wore AND MONOGRAPHS
88 ITALIAN ORDERS AND
on its arms an embroidered reel as a sign of contempt for Queen
Margaret, widow of Charles III, who desired to hold the reins of
government. This faction took the name of “Knights of the Reel.” The
other, the Knights of the Lioness, wore on its breast the figure of
a lioness with feet tied, indi¬ cating that it looked upon Queen
Margaret as one tied by the leg. ORDER OF THE ERMINE
(Naples). Founded in 1463, by Ferdinand I (1423- 1494) Aragon, King
of Naples, at the end of the war which he had been waging against
John of Anjou, Duke of Calabria. He was led into this war by his
brother-in-law, Marinus Marcianus, Duke of Sesso, who conspired to
murder Ferdinand. Marinus Was not only pardoned for his treachery
but was admitted into this Order. The motto was MALO MORI QUAM
FOEDARI (Death is preferable to dishonor), and the patron was St.
Basil. The badge is a gold ermine suspended from a gold chain. Au¬
thorities differ as to the exact date of both the creating and
discontinuance of this Order. NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 89 ORDER OF
THE GRIFFIN (Naples). Attributed to Alphonse by Perrot and by De
Genouillac. The date of its founding is given as 1489. As Alphonse died
in 1458 and was succeeded by his son, Ferdinand I, who reigned
until 1494, it may, therefore, have been instituted by Ferdinand. No
descrip¬ tion of the insignia can be found. ORDER OF SAINT
MICHAEL (Naples). This Order is likewise attributed to Ferdi¬ nand
I, and the insignia is described by Ashmole as an oval, bearing the
word DECORUM . No other record has been found. ORDER OF
SAINT JANUARIUS (of the Two Sicilies). Founded on July 6, 1738, by
King Charles of Sicily (1716-1788), to cele¬ brate his marriage with
Princess Amelia, daughter of Augustus III of Poland. Charles was of
the Spanish Bourbons, and second son of Philip V. His army had
conquered Sicily, and he became its King in 1735 at the age of
eighteen, having previously borne the titles of Duke of Parma and
Grand-Duke AND MONOGRAPHS
90 ITALIAN ORDERS of Tuscany. In 1759 he became
Charles III of Spain, at which time he resigned his Neapolitan and
Sicilian Kingdom in favor of his son, Ferdinand. Charles formed the
Noble Order of the Immaculate Conception of the Virgin Mary, often also
called “The Order of Charles III of Spain.” It was he who, as King
of Spain, joined France in sending assistance to the American
Colonies in their war of Independence. At the Peace Treaty
following that conflict, he recovered Florida for Spain from England, to
whom it had been ceded in 1763. Saint Januarius (San Genaro),
for whom this Order is named, was the Patron Saint of Naples.
Relics of this Saint, to whom miraculous cures are attributed, are
pre¬ served in the cathedral named for him in that city. When the
French invaded Naples in 1806, the Order was abolished in that
country, though it continued in Sicily, whither Ferdinand had fled. It
was revived after 1814. At the present time it is classed among the
non-active Orders of Italy. There are two classes: Knights and
Honor¬ ary Knights. The badge of the Order is a NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl.
XXIII Two Sicilies Order of Saint Januarius
ITALIAN ORDERS AND gold Maltese cross, enamelled red
with white edges; gold Bourbon lilies in the angles. The obverse
centre has a figure of the patron saint, San Genaro, clad in a red
robe and hat, with an open book in the left hand. The reverse shows an
open book and two receptacles partly filled with the mirac¬ ulous
blood of this martyr. The ribbon is bright red. The plaque is of silver,
the same design as the cross, and bears the words IN SANGUINE
FOEDUS (the Covenant in Blood). ROYAL MILITARY ORDER OF
SAINT CHARLES. Instituted by Royal Decree of October 22, 1738, by
King Charles, its purpose was to reward citizens and members of the
army and navy who had shown exceptional zeal and fidelity to the
crown. This Order supposedly never received the Apostolic
confirmation of the Pope, and according to an Italian writer, Ruo,
was shortlived, all record of its existence having been lost when
Charles, its founder, assumed the throne of Spain in 1759.
The decoration is a fou r-armed cross, each NUMISMATIC
NOTES MEDALS OF
HONOUR 93 arm terminating in the form of a lily,
and the whole surmounted by a royal crown. The centre medallion
bears the image of Saint Charles. No description of the reverse is
given. The ribbon is violet. ORDER OF SAINT FERDINAND and OF
MERIT. Founded on April i, 1800 by Ferdinand IV, King of Naples (also
Ferdi¬ nand III of Sicily and I of the Two Sicilies). It was
instituted in commemoration of his having been restored to his Kingdom
after the defeat of the French by the united forces of England,
Austria, Russia and I Turkey. The object of the Order was to
reward the Neapolitans who had remained faithful to the King and his
monarchy. Lord Nelson, Duke of Bronte, was one of the first
foreigners to have this Order bestowed upon him. He was made a
Knight of the Grand Cross. Like the Order of Saint Januarius, this was
suppressed in Naples when the French under Joseph Bonaparte
controlled that country. It was continued in Sicily until 1814 but is
said to have been definitely abolished in i860. AND
MONOGRAPHS 94
ITALIAN ORDERS There were three classes: Knights of
the Grand Cross, Commanders and Chevaliers. The cross of this Order
is a gold star of six branches, in the form of rays. In the angles
are Bourbon lilies. The whole is surmounted by a crown of gold. The
gold-centred medallion bears a figure of St. Ferdinand in Royal
robes and crowned, holding a laurel wreath in the left and a sword in
his right hand. The encircling blue-enamelled band is inscribed FI
DEI ET MERITO. The reverse centre of gold is inscribed FERD. IV.
INST. ANNO 1800 . The plaque of the Order is similar to the obverse of
the cross, without the crown. A dark blue ribbon with red edges is
used for suspension of the cross. MEDAL OF HONOUR. By a decree of
July 25, 1810, Ferdinand IV added a gold and silver Medal of Honour. This
was 33 mm. in diameter, with the obverse similar to the cross. The
reverse was inscribed FI DEI ET MERITO. This was worn with a
similar ribbon. Officers and privates of the Army and Navy were awarded
this medal for distinguished services. NUMISMATIC
NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XXIV Two Sicilies Medal
of Honour 96 ITALIAN ORDERS AND MEDAL OF
MERIT FOR LOMBARDY. Ferdinand IV instituted a medal of silver for
the Neapolitan troops who assisted him in the campaign in Lombardy
against the French in 1796. This was 38 mm., bearing on the obverse
the helmeted effigy of the king and the title, FERDIN. IV UTRI SICILIAE
REX P.F.A. ( P-Pio , devout, F-Forte, brave, A-Augusto , august).
On the reverse, within a laurel wreath, FI DEI/ REGIAE DOM US / PA
TRIAE / PROPUG- NA TORI /OB / EG REGIA FACTA . In the exergue, E.
V.A/MDCCXC VI. MEDAL OF MERIT FOR SIENA. This medal was of
gold and awarded by Ferdi¬ nand IV to the troops who distinguished
themselves in the Siena campaign in 1797. On the obverse is the helmeted
effigy of the king and his title FERDIN AN DUS IV UTRIUSQ. SICILIAE
REX P.F.A. On the obverse is an allegorical figure of a woman
crowning a soldier with a laurel wreath. Surrounding this, an
inscription reads MI LI TIB US BENE DE REGE AC PATRIA MERIT 1 S. In
the exergue is NUMISMATIC NOTES MEDALS
OF HONOUR 97 E. V.A./MDCCXC VII. The ribbon is
blue and white, edged with narrower stripes of blue (Sculfort, p.
176). MEDAL OF HONOUR FOR THE SIEGE OF GAETA. When Napoleon I
sent his brother Joseph Bonaparte to rule over the kingdom of
Sicily, Ferdinand IV fled to Gaeta. This fortress was gallantly de¬
fended in 1806 against the French under Marechal Massena, but was finally
forced to capitulate, and Ferdinand fled to the island of Sicily.
To reward those who valiantly assisted him to hold his kingdom,
Ferdinand IV instituted this Medal of Honour. It is 35 mm., and was
struck in both gold and silver, and is suspended from a deep red
ribbon. The obverse of the medal has a bust of the king facing to
right, the head wearing a helmet, laurel wreathed and surmounted by
a dragon. The inscription is FERDI- NANDUS IV. D.G. SICILIARUM REX.
The reverse has in the centre a view of the fortress of Gaeta, surrounded
by the motto, MERITO ET FI DEI CAJETAE DEFEN - SO RUM 1806 .
AND MONOGRAPHS 98
ITALIAN ORDERS AND ROYAL ORDER OF THE TWO SICI¬ LIES.
Created on February 24, 1808, by Joseph Napoleon, when King > of
Naples It was issued in three classes: Grand Officers,
Commanders and Chevaliers. Joachim Mu¬ rat, when ruler, modified the
Order in 1811; its purpose was to reward those who had assisted in
the conquest of the country. The decoration is a red-enamelled star
of five points, ball tipped and with gold edges. Above this is the
Imperial eagle surmounted by a crown. In the centre medallion is
the Arms of Sicily, a Trinacria or Triquetra, having a face in the
centre. This me¬ dallion is surrounded by the title, JOS. NA- POLEO
SICIL. REX INST 1 TUIT. The reverse medallion bears a prancing
horse, the Arms of Naples, encircled by a blue- enamelled band
inscribed PRO RENO V A TA PATRIA. The ribbon is dark blue with a
red stripe in centre. Following the death of Murat on October
13, 1815, the Kingdom was restored to Ferdinand IV, who changed the
design of the above decoration. The star was at¬ tached to the
surmounting crown by a lily N U M I S M ATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 99 (replacing the
eagle). The obverse medal¬ lion contained the Arms of Sicily and of
Naples, surrounded by the inscription FERDINANDUS BORBONIUS UTRI-
USQUE SICILIAE REX P.F.A. (Pio Forte Augusta). The reverse medallion had
in the centre a Bourbon lily and the motto FELICITATE RESTITUTA X.
KAL.JUN. 1815 . The ribbon was changed to azure blue with a red
stripe in the centre. This Order was finally abolished in 1819 and
replaced by the “Order of Saint George of the Reunion.” MEDAL
OF HONOUR FOR THE PRO¬ VINCIAL LEGION. On March 29, 1809, Joachim
Murat, instituted this medal for the Provincial Legion. It is of silver
and bronze, and bears on the obverse the effigy of the King, facing
to left, encircled by the words GIOACCHINO NAPOL. RE DELLA DUE
SICIL. On the reverse is a group of fourteen flags and a royal
crown, the outer flags bearing, respectively, the words
SICUREZZA/INTERNA. Around this device is the inscription ALLE
LEGIONI AND MONOGRAPHS
IOO ITALIAN ORDERS AND PROVINCIALI 26 MARZO 1809 .
The ribbon is light blue moire. Ruo, the Italian writer, states
that the inscription on the obverse is Gioacchino Napoleone, but
the previous description is taken from a medal and various French
authorities. MEDAL OF HONOUR FOR NAPLES. Murat authorized
another Medal of Honour on November i, 1814, to reward the guard of
Naples for its devotion to his cause. It is of gold and silver, in the
form of a wreath of oak and laurel leaves, tied with a ribbon and
surmounted by a crown. Superimposed on the wreath are two crossed flags,
enam¬ elled in the colours of the kingdom. On the obverse centre
medallion of white is the bust of the king, facing to left, and the
title GIOACCHINO NAPOLEONE (or GIO¬ ACCHINO RE DI NAPOLI ). On the
re¬ verse medallion are the words ONORE ET FEDELTA. The ribbon is
magenta. The Medal for Civil Merit is similar to the above, except
that the reverse is inscribed ONORE ET MERITO. NUMISMATIC
NOTES MEDALS OF HONOUR
IOI MEDAL OF HONOUR. After the death of Murat at Pizzo,
a medal of 38 mm. was authorized by Ferdinand IV. It was issued in
gold and silver, and worn with a bright red ribbon. On the obverse is a
crowned effigy of the restored king, facing to left, and the
inscription FERDINANDUS IV UTRI USQUE SICILIA E REX P.F.A. The
reverse has in the centre a large Bourbon lily, surrounded by the
inscription OB EGREGIAM URBIS PITH FIDELITA- TEM. In the exergue,
POSTRIDIE NO¬ NAS OCTOBRIS/ANNI R. S./MDCCCXV. MEDAL OF
HONOUR (Sicily). By de¬ crees of August 9 and 30, 1816, bronze
medals were authorized and awarded to soldiers and sailors who were
faithful to the cause of Ferdinand IV. This is a green- enamelled
Maltese cross with gold Bourbon lilies in each angle. The centre
medallion bears the effigy of the king to right, and the words
FERDINANDO IV INSTITUI 1816 . The reverse has in the centre a lily and
the inscription CONSTANTE ATTACCA- MENTO. This was worn with a red
ribbon. AND MONOGRAPHS 102
ITALIAN ORDERS SECURITY GUARD MEDAL. Created on May
30, 1816, and issued in gold and silver; it was worn with a Bourbon red
rib¬ bon. The medal is surrounded by a wreath of oak leaves and
surmounted by a crown, attached by laurel branches. On the obverse
is the effigy of the king surrounded by the title FERDINANDO IV RE
DELLE DUE SI Cl LIE P.F.A. The reverse bears a lily and the motto
ALLA GUARDI A Dl SICUREZZA. In the exergue, PER LA GIORNATA DE 22
MAGGIO 1815 . ROYAL MILITARY ORDER OF SAINT GEORGE OF THE
REUNION. This order was created on January 1, 1819, by Ferdinand
IV. It commemorated the reunion of Naples and Sicily, and was
awarded for valour, military distinction and loyalty. There are four
classes: Knights of the Grand Cross, Commanders, Officers and
Chevaliers, the decoration varying in size according to the grade. This
Order was discontinued in i860, with the formation of the present
Kingdom of Italy. The insignia is a red-enamelled cross, fleuree, with
i NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XXV Two
Sicilies Order of Saint George of the Reunion
104 ITALIAN ORDERS AND concave arms. Two gold swords
cross at the angles, and a wreath of green-enamelled laurel
connects the arms of the cross and the swords. The medallion bears a
figure of Saint George slaying the dragon; around this is a
blue-enamelled band inscribed IN HOC SIGNO VINCES. The reverse is
the same, with the word VIRTUTI above. The ribbon is light blue
moire. The decora¬ tion of the Knights of the Grand Cross is
distinguished from the other grades by a gold pendant of St. George and
the dragon. The Chevalier’s cross has no such pendant; and on the
reverse is the word MERITO. MEDAL OF ST. GEORGE. In addition
to the “Order of Saint George of the Re¬ union,” gold medals were awarded
for heroism in war, and in silver for continued service. These are
28 mm., bearing in the centre the figure of St. George slaying the
dragon, encircled by a wreath and the words VIRTUTI or MERITO according
to the purpose of the award. The obverse and reverse are the same.
The ribbon is blue with yellow edges. NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 105 ORDER
OF CONSTANTINE, (described on page 18). Instituted in Naples and
Sicily by Don Carlos in 1734. Joseph Bonaparte abolished it in 1808,
although it continued in the island of Sicily. Upon the return of
Ferdinand IV to Naples in 1814, it was restored in both Kingdoms.
ROYAL ORDER OF FRANCIS I. Francis I, upon the death of his
father, Ferdinand IV, became King of the Two Sicilies on January 4,
1825. He was of the Neapolitan branch of the Bourbon family. On
September 28, 1829, he founded the Royal Order of Francis I. Though
usually conferred as a reward for Civil Merit, the army was not
debarred from its honours. There are five classes: Grand Cross,
Com¬ manders, Officers, Knights and Chevaliers. The fourth and
fifth classes receive, re¬ spectively, the gold and silver medals,
described later. This Order was discon¬ tinued in i860 when the Kingdom
of the Two Sicilies became part of Italy, though, as a family
Order, it was continued for a while longer. The decoration is a
four-armed, AND MONOGRAPHS
io6 ITALIAN ORDERS AND double-pointed cross of
white enamel with gold edges, surmounted by a gold crown. Bourbon
lilies of gold are in each angle. The medallion is larger than in most of
the other Orders. In the centre, on a field of gold, appear the
initials of the founder, F.I., with crown above. These are
surrounded by a laurel wreath of enamel. On the blue encircling
band are the words, DE REGE OP TIME MERITO. The reverse bears the
inscription FRANCISCUS PRIMUS IN- STITUIT MDCCCXXIX, within a green
wreath. The ribbon is bright red with blue edges. The star or plaque of
the order is a silver cross without the crown, and with the same
centre medallion. The gold and silver medals, worn by the
fourth and fifth classes, are 36 mm. in diam¬ eter, bearing on the
obverse the portrait of the founder, within a laurel wreath, and
the inscription FRANCISCUS I.D.G.UTRI¬ USQUE SICIL. ETHIER. REX. The
reverse has three Bourbon lilies in the centre within a wreath, and
the motto DE REGE OPTIME MERITO 1829 . The ribbon is dark red with
blue edges; not as wide as that for the Cross. NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl.
XXVI Two Sicilies Order of Francis I
io8 ITALIAN ORDERS AND MEDAL OF CIVIL MERIT.
Authorized by royal decree of December 17, 1727. It is of gold and
silver and worn with a red ribbon. The obverse bears an effigy of
the king, and the title FRANCISCUS I.D.G. REGNI UTRIUSQUE SICIL. ET
HIER. REX. On the plain reverse is engraved the name, date and
cause of award. A medal similar to this was awarded during the
reign of Ferdinand II and may be found with either of the following
inscriptions: FERDI- N AN DUS II REGNI UTRIUSQUE SI CI¬ LIA E ET
HIERUS. or FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE.
Another MEDAL OF CIVIL MERIT was issued, 44 mm. in size. On the
obverse are busts of Francis I and Queen Maria Isabella, facing to
right, surrounded by branches of laurel. On the reverse is a Bourbon
lily, crowned. MEDAL FOR MESSINA. Francis I was
succeeded in 1830 by his son, Ferdinand II, who died in 1859. Ferdinand
II instituted the Medal for Messina for troops faithful to him, in
that city, during the Revolution NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR
109 of 1847. It is of bronze, and 30 mm. On the
obverse, within a wreath of oak and laurel leaves, is the word FEDELTA
with one Bourbon lily. The reverse reads, MESSINA 1 SEPTEMBRE 1847
. The ribbon is light blue and white. A variant of this medal has
on the obverse the effigy of the king and the words FERDINANDO II
RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE; and on the reverse the word
FEDELTA. LONG SERVICE MEDAL. Ferdinand II also created a
bronze medal for Long Service. It is 38 mm. and bears on the
obverse the king’s bust on a pedestal, surrounded by implements of war
and flags. Above is FERDIN ANDO II. The reverse reads LODEVOLE
SERVIZIO MI LI TARE DI 25 ANNI. The ribbon is red. MEDAL FOR
THE SIEGE OF MES¬ SINA. After the long siege of the citadel of
Messina in 1848 by Ferdinand II which resulted in his reconquest of
Sicily, a com¬ memorative medal was authorized by the king. This
was to reward the troops who AND MONOGRAPHS
no ITALIAN ORDERS had taken part
in the campaign. The medal for the senior officers was of gold and
enamel, 35 mm. in diameter. On the obverse within a green-enamelled
laurel wreath, is a pentagonal fort; in the corners are five bombs,
the flames of which rest upon the wreath. In the centre is the
fleur-de-lis of the Bourbons, in relief. The reverse is similar, except
that in the centre of the pentagon is the legend, ASSEDIOJ DELLA 1
CITTADELLA / DI MESSINA / 18 ^ 8 . The ribbon is red. For the
junior officers and soldiers the medal was of bronze and of the
same size, without enamel. Obverse and reverse are identical, and
the medal was worn with a red ribbon. A variant of this medal has a
plain reverse, no fort, or bombs, but with the same inscription in
relief. MEDAL FOR SICILY. Created for the troops who, under
the leadership of Filan- gieri, suppressed the Insurrection of
1848- 1849. This is of bronze-gilt, and displays the effigy of
Ferdinand II facing to right within a wreath of oak leaves. Outside,
the wreath are two draped flags, the whole is NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS
Pl. Two Sicilies Siege of Messina Long
Service Medal, Ferdinand II 112 ITALIAN ORDERS
surmounted by a Bourbon lily. The plain reverse has CAMPAGNA DI
SICILIA 18 J/. 9 , in relief. The ribbon has three equal stripes of
light blue and white. MEDAL FOR CAMPAIGN OF 1860 . Francis II
came to the throne of Sicily in 1859, about the time of the
Garibaldi campaign for the Independence of Italy. His reign was
short. The Medal for the Campaign of 1860 was created by him for
those troops who were loyal to him and opposed to Garibaldi. It is
bronze, 37 mm., and bears on the obverse the effigy of the king,
facing to left, within a wreath of oak leaves. Surrounding this is
FRANCESCO II RE DELLE DUE SI Cl LIE. The reverse bears the words,
TRIFRISCO, CAIAZZO, S.MARIA,S. ANGELO, GARIGLIANO, sur¬ mounted by
three Bourbon lilies. Around this inscription appear the words,
CAM¬ PAGN A DI SETT. OTT. 1860 . The ribbon is red with a blue
stripe in the centre. CAMPAIGN OF EASTERN SICILY. Authorized
in i860. It bears on the obverse NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XXVJ1I Two
Sicilies Medal for Sicily, Ferdinand II the effigy of
Francis II facing to right, and the words SICILIA OCCIDENT ALE/
APRILE E MAGGIO/1860. On the reverse, within a wreath of laurel, the
words AL V A LORE. This is bronze, and 27 mm. in diameter. A
variant of this medal was issued without the likeness of the king
on the obverse. MEDAL FOR THE DEFENSE OF CATANIA. The
obverse bears the effigy of Francis II, a trophy of arms, and the
words CATANIA 31 MAGGIO 1860; the reverse, within a wreath of
laurel, the words AL V A LORE. MEDAL FOR GAETA. Issued
to the refugees who fled to Gaeta with the Royal family in 1860-61
when Garibaldi entered Naples. The medal is silver, 36 mm., having
on the obverse the jugated busts of the King and Queen Maria Sophia of
Bavaria and the words FRANCESCO II—MARIA SOFIA. The reverse shows a
view of the city of Gaeta, with GAETA 1860-1861 in the exergue. A
variation of this medal has NUMISMATIC NOTES
ITALIAN DECORATIONS Pl. XXIX Two
Sicilies Medal for Gaeta, Francis II on
the reverse the fortress of Gaeta only, with the same inscription in the
exergue. After the Garibaldi campaign of 1860- 1861 for the
freedom of Sicily, and after the Royal family had given up the Kingdom
of Sicily, Francis II by a decree dated March 12, 1861, authorized
medals for all his soldiers who took part in the second siege of
Messina. It appears that dies were made but only one medal is known to
have been struck. That rests in the famous Ricciardi collection in
Naples. The writer is in¬ debted to Sig. Guido de’Mayo’s article in
the May-June 1922 issue of Miscellanea Numismatica, which describes this
medal. It is silver, 35 mm., and bears on the obverse the
jugated busts of the King and Queen, facing to left (similar to the
Gaeta Medal), and the titles, FRANCESCO II— MARIA SOFIA. The
reverse has a design of the pentagonal fortress of Messina; in the
corners of the pentagon are five bombs, the flames of which rest on the
wreath which surrounds the fort. In the centre is the Bourbon
fleur-de-lis. The exergue reads CITTADELLA DI MESSINA 1860-61.
The ribbon is given as red with blue stripes. MEDAL
FOR SICILY. This is said to have been awarded to those who took part
in the uprising against Ferdinand II in 1848, in the movement for a United
Italy, but the purpose of this award cannot be verified from the
several authorities consulted. It was issued in silver and bronze, 30
mm., and suspended from a ribbon of the Italian National
colours—three equal stripes of green, white and red. On the obverse is
an allegorical figure of Sicily, armed with a sword; at her feet is
a shield with the Arms of Sicily, while in the sky, a brilliant sun
bears the Arms of Savoy. In the distance is Mt. Aetna in eruption.
The reverse has in the centre SICILIA/1848. Around this is the
inscription, INIZIO DEL RISORGIMBNTO D’lTALIA. AND
MONOGRAPHS 118 ITALIAN ORDERS
AND TUSCANY Tuscany, the ancient Etruria, lies
south of the Apennines. On the east it was bounded by the districts
of Umbria and the Marches, while to the south lay the section known
in Classical times as Latium, but which later, with the rise of the
Church, was usually known as the Papal States. None of these
provinces had boundaries that were fixed for any great length of time,
and their geographical history is very com¬ plicated.
Between the ioth and 16th Centuries, Tuscany was composed of
several self- governed communes or Republics, the most important of
which were Lucca, Pisa, Florence and Siena. The Medici family was a
dominant factor in the government for a long period. In 1735 the country
came under Austrian rule. Francis, Duke of Lorraine and afterwards
Emperor of Aus¬ tria (1708-1765), became Grand Duke of Tuscany. He
succeeded John Gaston, the last of his line, and thus the Duchy
passed NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR 119 from the control of the Medici and into
that of the Hapsburg family. This had been arranged by
treaty. The Hapsburgs continued in control until the entrance
of the French in 1799 under Napoleon I, though the battle of
Waterloo in 1815 brought back once more their rule in the domain.
Ferdinand III (1769-1824) was succeeded by his son, Leopold II, who
lost the Duchy of Tuscany when the constit¬ uent Assembly voted for its
inclusion in the Kingdom of Italy on August 16, i860. From that
time all the Orders of Tuscany have been discontinued. ORDER
OF SAINT STEPHEN. This Order was founded at Pisa in 1561 or 1562, by
Cosimo I de’ Medici, Duke of Florence, afterwards the first duke of
Tuscany, to commemorate his victory over the French at Siena. The
battle took place on St. Stephen’s day, August 2, 1554 (or August 6
accord¬ ing to some historians). The inhabitants of the city and
the troops under Henry II, after withstanding a siege of fifteen
months, finally capitulated. In 1567, Pope Pius V AND
MONOGRAPHS 120 ITALIAN
ORDERS granted Cosimo the title of the first Grand Duke of
Tuscany. The Order was named in honour of Stephen IX, Pope and
martyr, once bishop of Florence, on whose festival Cosimo de’
Medici gained his victory. It is said to have been discontinued in
1565, but Elias Ashmole states that new statutes were approved in
1590. He also lists it as one of the Orders extant in 1715; though
Hugh Clark informs us that the Order was “revived in 1764 and put on a
respectable footing.” Whatever its status in the interval may have
been, the Order was reorganized in 1817 by Ferdinand III, Grand
Duke of Tuscany (1769-1824), and its regulations were altered by him at
that time. The insignia is a red-enamelled, gold- edged cross,
similar to that of the Knights of Malta. In the angles are golden
fleurs- de-lis and above the cross is a ducal crown of gold. The
ribbon is bright red. ORDER OF SAINT JOSEPH. Founded by
Ferdinand III on March 19, 1807, when as Grand Duke of Wurtzburg he was
ad¬ mitted to the Confederation of the Rhine. NUMISMATIC
NOTES ITALIAN DECORATIONS Pl. XXX
Tuscany Order of Saint Stephen Upon the
downfall of the Napoleonic control of Tuscany in 1814, Ferdinand restored
the Order in Tuscany when he again assumed control of the Duchy.
The Order was for meritorious service and was awarded to civilians,
ecclesiastics and the military, whether native or foreign. Generally
the honour was confined to those of the Roman Catholic faith. There
are three classes: Grand Cross, Commanders and Knights. The
Decoration of the first class is silver, a double-pointed, six-armed
cross, with rays between the arms. An oval medallion in the centre
bears the figure of St. Joseph; around this on the band, likewise of
silver, is the motto UBIQUE SI MI LIS (Everywhere the same), with a
branch of laurel and oak. In the lower centre of the band is the
letter F. The cross of the second class is gold, and similar to the
star of the first class, though smaller. It has white-enamelled
arms, and the rays and the medallion band are of red enamel. It is
surmounted by a gold crown and a suspension ring for the ribbon,
which is bright red, with a white stripe at each edge. The reverse
medallion NUMISMATIC NOTES _
ITALIAN DECORATIONS Pl. XXXI
Tuscany Order of Saint Joseph AND
has in the centre S.J.F .1807 (SanctoJosepho Ferdinando —Dedicated by
Ferdinand to Saint Joseph). The third class cross is smaller and
worn with a narrower ribbon. ORDER OF THE WHITE CROSS.
Instituted by Grand Duke Ferdinand III in 1814. This was a decoration
solely for the military faithful to him. It is sometimes called the
“Cross of Loyalty.” A MEDAL OF HONOUR was also founded in 1816 for
those who had distinguished themselves in the Duchy. No description of
these two insignia is obtainable from the several authorities
consulted. MILITARY MEDAL. Authorized in 1815 for
distinguished service. It was awarded only to junior officers and
soldiers. This medal is silver, bearing on the obverse a bust of
the founder facing to right, and the title FERDINANDO
III.A.D.A.GRAND. DI TOSCANA. The reverse has in relief AI PRODI E
FED ELI TOSCANI 1815 . (To the brave and faithful Tuscans.) The
ribbon is half red and half white. LONG SERVICE MEDAL. Founded
in 1816 and issued to junior officers and sol¬ diers. It is bronze,
37 mm., and bears on the obverse two crossed swords, with a shield
bearing the letter F superimposed. Above this device is a crown, and
below is 1816, the date of its creation. The reverse reads, in
relief, AL LUNGO E FED EL SERVIZIO. The ribbon is half red and half
white. MEDAL OF MILITARY MERIT. This was founded by Leopold
II on May 19, 1841, and bears the effigy of the Duke and the words
LEOPOLDO II GRANDUCA DI TOSCANA. The reverse has in relief FI DELTA
E V A LORE. The ribbon is half red and half black. ORDER OF
MILITARY MERIT. In¬ stituted on December 19, 1853, by Leopold II.
The decoration is a five-armed white- enamelled cross of gold on a gold
laurel wreath, which is surmounted by a gold crown. The obverse
medallion is inscribed L II. surrounded by the words MERITO
AND MONOGRAPHS 126 ITALIAN
ORDERS MILITARE. On the reverse medallion, 1853 records the
date of its creation. The ribbon is of red and black in equal
stripes. MEDAL OF 1848 . Founded by Leopold II for the war of
Italian Independence. This was a service medal for his troops
taking part in that campaign. It is bronze- gilt, and bears on the
obverse the effigy of the Grand-duke and title LEOPOLDO II GRANDUCA
DI TOSCANA. On the re¬ verse within a laurel wreath is the
inscription GUERRA/DELLA/INDIPENDENZA / ITALIANA/18^8. The loop for
the ribbon is a wide bar-like affair, similar to that for many of
the Italian medals. The ribbon is blue, bordered with two red
stripes. MEDAL OF MERIT. Attributed by but one authority to
Ferdinand IV. Issued in five classes; gold, of 40 mm. and 30 mm.;
silver, of 49 mm. and 30 mm., and bronze, 45 mm. in diameter, according
to the impor¬ tance of the award. On the obverse is a bust of the
Grand-duke and FERDINANDO IV GRANDUCA DI TOSCANA. The re-
NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XXXII Tuscany Order
of Military Merit, Leopold II verse bears the inscription AL
MER1T0 within a wreath. The ribbon is dark blue with black stripes
at the sides. LONG SERVICE MEDAL. Instituted by Leopold II in
December, 1850, for officers of the Army who had served at least
thirty years. It is 36 mm., a gilt Maltese cross, having in the
centre medallion of silver the head of Leopold II to left, encircled
by LEOPOLD II G. D. DI TO SC. On the reverse medallion is the word
ANZIANITA, with a crown above. No information concerning the ribbon
is obtainable. NUMISMATIC NOTES ITALIAN
DECORATIONS Pl. XXXIII Venice. Defence of
Venice, 1848 Tuscany. Long Service Medal
VENICE At the time of Augustus, there was no
city of Venice, and Padua was the chief city of the district which has
since come to be known as Venetia. This district occupied the
Northeastern section of that country from the Alps on the North and East
to the Adriatic Sea, and to the River Po on the West. From the
Sixth and Seventh Cen¬ turies, after the foundation and the growth
of Venice, it developed a considerable com¬ merce with its island domains
and became a great maritime power. For many centuries an
independent Republic was maintained, governed by a Senate and a Doge,
elected by the people; his authority, however, was limited.
Constant wars with neighboring peoples and with the Turks did not
exhaust the wealth of Venice; and until the Eight¬ eenth Century
Venice wielded great in¬ fluence in European politics. The Republic
was unable to withstand the French army, however, and on October 17,
1797, was divided—one half of the territory going to
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF HONOUR
131 Austria and the other half to the Cisalpine
Republic; the Ionian Islands went to France. For a thousand years the
Venetian Republic maintained its independence, and exhibited a form
of government which commanded universal admiration. ORDER OF
SAINT MARK. Probably founded early in the Eighth Century.
Giustinian, writing in 1692, states that Domenico Leoni was the first
Grand Master of the Or dine di San Marco in the year 737. He also
lists a number of the Grand Masters from that date to 1688, and gives
several authorities. Other writers fix the date of its origin as
828, when the remains of Saint Mark were taken from Alexandria to
Venice. No exact information is obtainable as to the discontinuance
of the Order, though Ashmole indicates its existence in 1672, as does
Clark in 1784. The insignia is a gold chain to be worn
around the neck. From this a gold medal¬ lion is suspended. On the
obverse is the Arms of Venice—the winged lion of St. Mark, seated
with a sword in the right paw, and with the left paw resting on an
open book, on which is the motto PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS
(Peace to thee, Mark, my Evangelist). The reverse is believed to
have been plain, although Ashmole asserts that it had the name of
the Doge then living as well as a portrait—if that is what may be
understood by his words “a particular impress.” This Order was
conferred by the Senate or by the Doge, and later was called the Order of
the Doge of Venice. On late forms, the insignia was changed to a
blue-enamelled cross, on the centre of which was a medallion with
the above described Arms. The reverse bore the effigy of the
reigning Doge, sometimes represented as on his knees receiving a
standard from the hands of St. Mark. All recipients of this Order had to
show records of noble birth and were known as the Knights of Saint
Mark. MEDAL FOR THE DEFENCE OF VENICE OF 1848 . This medal
was issued in 1849, during the second year of the short¬ lived
Republic of Saint Mark—as Venice was at that time called. It was
of silver and bronze, 27 mm., bearing on the obverse the Arms of
the Republic. Around this are the words INDIPENDENZA ITALIAN A. On the
reverse is the cross of St. Maurice surrounded by VESSILLO DI VIT TORI
A 18^8. The ribbon is crimson with a narrow gold stripe at each
side. (PI. XXXIII.) MEDAL FOR BRAVERY. Also issued in 1849.
It was of silver and bronze, but 32 mm. in diameter. The obverse has
the lion of St. Mark and GOVERNO PROVI¬ SO RIO 1848-49.
On the reverse, within an oak wreath, are the words DI FEN SORE DI
VENEZIA. The ribbon is red with gold stripes at the sides.
MEDAL FOR THE CIVIL GUARD. Authorized in 1849. It was silver
and bronze gilt, oval in form, 40 mm. by 34 mm. On the obverse
appear two crossed flags and the words GUARDI A Cl VIC A VENETA.
The reverse reads VV/ VI TALI A. The ribbon is yellow. OBSOLETE
ORDERS The following Orders listed by the several authorities
consulted, as having been formed in Italy, have long been
discontinued. Order of the Golden Star of Venice, date not
given. Order of the Golden Stole, date not given. Order
of the Royal Crown of Mantua, was, according to Genouillac, created in
771 by Prince Louis of Gonzaga (son of Witikind, King of Saxony),
in honour of his marriage with Adalgise of Lombardy, daughter of
Gisulf, due de Frioul. Order of the Eagle of Italy. Created
February 15,941, by Hugo II of Gonzaga, to perpetuate the memory of his marriage
with Princess Elizabeth of Gonzaga and Lom¬ bardy. New statutes
were formed for the Order in 968. Order of Holy Mary, Mother
of God. Founded in Italy in 1233. Its creation is attributed to
Bartholomew, Bishop of Vincenza. The purpose of its foundation was
to quell the discords which arose NUMISMATIC NOTES
MEDALS OF HONOUR 135
between the Guelphs and the Ghibellines and also to defend and
support the Roman Catholic religion. It was approved by Pope Martin
IV, who placed the knights under the protection of St. Augustin. It
was called by some the “Order of the Brothers of the Jubilation,”
later the “Order of St. Mary of the Tower,” and the “Order of the
Chevaliers of the Mother of God.” 3 Archer states that this later Order
was founded in 1737. Towards the end of the Sixteenth Century the
Order had entirely disappeared. Order of the Black Swan of Italy,
founded in 1350 by Amadeus VI and other Italian Princes, for the
purpose of preventing feuds, then so prevalent. Order of St.
George of Genoa. Founded in 1472 by Frederick III of Germany. It
was to reward the Genoese for the reception he received during his
journey to Rome, where he received the Imperial Crown. The Order
was short-lived. The badge is a plain red cross suspended from a
gold chain. This Order is not to be confused with the Order of St.
George of Austria, founded in 1468 by the Emperor Frederick III.
and monographs Order of St.
George of Ravenna. Founded in 1534 by Alexander of Farnese (then
Pope Paul III). Its award was confined to those who defended the city and
its vicinity from the attack of the Moslems or Corsairs. On the
death of its founder it ceased to exist. Cappelletti says it was
suppressed by Gregory XIII. The insignia was a red-enamelled star of
eight points, over which was a gold ducal crown. Order of the
Lily. Founded in 1546 by Alexander of Farnese. Order of the
Lamb of God of Tuscany. Founded in 1568 by John III. Order of
the Redeemer or of the Precious Blood of our Saviour. Founded in 1608
by Vincent (IV) Gonzaga, Duke of Mantua. It was in honour of
the marriage of his son Francis with the Princess Marguerite, the
daughter of Charles Emmanuel I, Duke of Savoy. The Order survived about
a century and lapsed in 1708 on the death of Ferdinando Gonzaga,
Duke of Mantua. An attempt was made to revive it in 1847 but
without success. The insignia was an oval medallion, in the centre of
which were two angels in adoration. Around this was the
motto NIHIL HOC TRISTE RECEPTO. Order of the Conception. Instituted
on September 8, 1617, by Ferdinand 1 of Gonzaga, Duke of Mantua, in
honour of the conception of the Virgin and placed under the
protection of St. Michael the Archangel. Like many other Orders
founded about this time, the members swore alle¬ giance to the
Church and agreed to fight against the infidels. Order of the
Virgin or the Order of the Virgin Mary the Glorious. Created in
Italy by three gentlemen of Spella, named Peter, John the Baptist,
and Bernard, surnamed Petrignani. The Order was approved by Pope
Paul V in 1618, and placed under the protection of the holy Virgin. The
mem¬ bers agreed to defend and uphold the Roman Catholic religion
and make war on the in¬ fidels. No record has been found of the
discontinuance of the order. Order of Saint Rosalie of Palermo.
Founded in 1634 by Alderon de Carreto. iCharles Albert
(1789-1849) was of the line of Savoy-Carignano which was founded by
Thomas Francis (1596-1656), son of Charles Emmanuel the Great.
Carignano, a town in the province of Turin, was in 1630 bestowed by
Charles Emmanuel I upon his son Thomas Francis, who was known as the
Prince of Carignano. The present reigning king of Italy is of this
house. Ency. Brit. Vol. XXI, p. 342 and Vol. 5. p. 105. 2 “At
this Crescent was fastened as many' small Pieces of Gold fashion’d like
Columns and enamell’d with Red, as the Knights had been engag’d in Battels
and Sieges; for none could be adopted into this Order unless he had well
trod the Paths of Honour.” Ashmole, E., Hist, of Order of the Garter,
1715, p. 69. 3 Ashmole, 1672, p. 80. ‘‘It was approved and
con¬ firmed by Pope Urban IV, anno 1262, and the Rule of St. Dominick
prescribed to the Knights.” Armani, E. Insegne Cavaileresche e Meda-
glie del Regno d'ltalia. Rome, 1915. Ashmole, Elias. The
Institution, Laws and Ceremonies of the Most Noble Order of the
Garter. London 1672. Ashmole, Elias. The History of the
Most Noble Order of the Garter. London 1715. N U M ISMATIC
NOTES MEDALS OF HONOUR
139 Burke, Sir Bernard. The Book of Orders of
Knighthood and Decorations of Honor. London 1858. Cappelletti,
Licurgo. Ordini Cavalle- reschi. Livorno 1904. Cibrario,
Luigi. Descrizione e Storica degli Ordini Cavallereschi. 2 vols. Torino
1846. Clark, Hugh A. A Concise History of Knighthood. London
1784. Cuomo, Raffaele. Ordini Cavallereschi antichi e
moderni. 2 vols. Naples 1894. Elvin, C. N. Handbook of the Orders
of Chivalry. London 1893. Favine, Andrew. The Theatre of
Honour and Knighthood. London 1623.—Translated from a French
Edition of 1620. Genouillac, H. Gourdon de. Diction- naire
historique des ordres de Chevalerie. Paris i860. Genouillac,
H. Gourdon de. Nouveau Dictionnaire des ordres de Chevalerie. Paris
1891. Giorgio, Florindo de. Dellc cerimonie Pubbliche della
onorificenze della nobilta e de'Titoli e degli Ordini Cavallereschi net
Regno delle Due Sicilie. Naples 1854. Giustinian, Bernardo.
Historic degli Or¬ dini militari, etc. Venezia 1692. AND
MONOGRAPHS 140 ITALIAN ORDERS
AND J. S. The History of Monastical Conven¬ tions and
Military Institutions, etc. London 1701. Lawrence-Archer,
Major J. H. The Orders of Chivalry. London 1897. Mennenii,
Francisci. Deliciae Eqyestrivm sive Militarivm Ordinvm et Eorundem
Origines, etc. Coloniae Agrippinae 1638. Perrot, A.-M.
Collection J Historique des Ordres de Chevalerie. Paris 1820.
Puca, Antonio. Gli ordini cavallereschi del Regno dTtalia. Naples
1879. Ricciardi, Eduardo. Medaglie delle due Sicilie. Naples
1910 and 1913. Ruo, Raffaele. Ordini Cavallereschi ....
instituti nel regno delle Due Sicilie. Naples 1832. Saint Joachim.
An accurate historical account of all the Orders of Knighthood, by an
Officer of the Chancery of the Order of Saint Joachim. London 1802.
(Said to be by Sir L. Hamon). Sculfort, Lieut. V. Catalogue;
Decorations et Medailles du Musee de VArmee. Paris 1912.
Trost, L. J. Die Ritter- und Verdienst Or den, Ehrenziechen und
Medaillen aller Sou- ver'dne und Staaten. Wien & Leipzig 1910.
NUMISMATIC NOTES MEDALS OF
HONOUR Lucca Civil Medal of Merit. 8
Military Service Medal. 8 St. George, Order of. 5
St. Louis, Order of. 6 Modena Cross for Service.
13 Eagle of Este, Order of. 10 Fidelity Medal. 14
Military Medal for Loyalty. 12 Military Medal of Merit.
13 Parma Constantine, Order of. 16 Medal of
Merit. 20 St. Louis, Order of. 19 San Marino
Medal of Merit. 24 Order of Chivalry. 21
Sardinia, Savoy and Kingdom of Italy Africa, Medal for.
65 Boxer Uprising, Medal for (Medal for Far East).
66 China, Medal for (Medal for Far East)... 66 AND
MONOGRAPHS
Civil Medal of Valour. •
49 Civil Order of Savoy. • 36 Colonial
Order of the Star of Italy. • 43 Crimean Medal.
■ 57 Crown of Merit. • 76 Crown of
Italy, Order of. • 38 Far East, Medal for.
. 66 Industry, Order of. ■ 42
Italian Independence Medal. 60 Italian Unity
Medal. • 76 Liberation of Sicily, Medal for.
• 58 Life Saving Medal. • 54
Marsala Medal (Medal of the Thousand). 60 Medal of
Merit. • 54 Medal of Merit (Battle of Vicenza).
• 79 Medal of Merit (Rome). • 79
Medal of Merit (“S.P.Q.R.”)... . 80 Medal of the
Thousand. 60 Military Cross for Service. •
44 Military Medal of Valour. . 46 Most
Sacred Annunciation, Order of. . . . 27 National
Gratitude, Medal of. • 74 Naval Medal of Valour.
• 50 Public Safety, Medal of Merit. • 5i
Royal Military Order of Savoy. • 35 St.
Maurice, Medal of. • 34 St. Maurice and St. Lazarus,
Order of. . . • 30 Star of the Thousand. •
59 NUMISMATIC NOT E S MEDALS OF HONOUR
Turkish War of 1911-1912. 68 United Italy, Medal for.
62 Valour Medal. 25 Veterans Guarding Tomb of the
Kings Medal. 52 Victory Medal. 74 War Cross
of Italy. 70 War in Lybia Medal. 70 War Orphans Medal.
76 War Volunteers Medal. 76 World War Medal. 72
See also Obsolete Orders. 134 The Two Sicilies
Campaign of 1860. 112 Civil Merit, Medal of. 108
Constantine, Order of. 105 Crescent, Order of the. 85
Defence of Catania, Medal for the. 114 Double Crescent (Order
of the Ship). 85 Eastern Sicily, Campaign of. 112
Ermine (Naples), Order of the. 88 Francis I, Royal Order of.
105 Gaeta Medal. 11 4 Griffin (Naples), Order of the.
89 Holy Spirit of the Right Desire (Order of the Knot).
8 7 Knot (Naples), Order of. 8 7 Lombardy, Medal of
Merit for. 96 AND MONOGRAPHS Long Service Medal. 109
Medal of Honour. 94 Medal of Honour (1815). 101
Medal of Honour (Sicily). 101 Messina, Medal for. 108
Naples, Medal of Honour for. 100 Provincial Legion, Medal of
Honour for the 99 Reel and Lioness, Order of. 87 St.
Charles, Royal Military Order of. . . . 92 St. Ferdinand, Order of,
and Order of Merit. 93 St. George, Medal of. 104
St. George of the Reunion, Royal Military Order of. 102
St. Januarius, Order of. 89 St. Michael (Naples), Order of.
89 Security Guard Medal. 102 Ship, Order of the.
85 Sicily, Medal for (Ferd. II.). no Sicily, Medal for
(Nationalist). 117 Siege of Gaeta, Medal of Honour for the. .
97 Siege of Messina, Medal for the. 109 Siena, Medal of
Merit for. 96 Spur, Order of the. 87 Two Sicilies,
Royal Order of the. 98 Tuscany Long Service Medal.
^5 Long Service Medal (Leopold II). NUMISMATIC NOTES Medal of
1848. 126 Medal of Merit. 126 Military Medal. 124
Military Merit, Medal of. 125 Military Merit, Order of.
125 St. Joseph, Order of. 120 St. Stephen, Order of.
119 White Cross, Order of the (Cross of Loyalty).
124 See also Obsolete Orders. 134 Venice
Bravery, Medal for. 133 Civil Guard, Medal for the. 133
Defence of Venice of 1848, Medal for the. . 132 St. Mark, Order of.
131 Obsolete Orders Black Swan of Italy, Order of the.
135 Conception, Order of the. 137 Eagle of Italy, Order
of the. 134 Golden Star of Venice, Order of the. 134
Golden Stole, Order of the. 134 Holy Mary, Mother of God,
Order of the. . 134 Lamb of God of Tuscany, Order of the... 136
Lily, Order of. 136 Precious Blood of Our Saviour (See
Order of the Redeemer). 13b Redeemer, Order of the.
13b AND MONOGRAPHS 146 ITALIAN ORDERS
Royal Crown of Mantua, Order of the. . . 134 St. George of Genoa,
Order of. 135 St. George of Ravenna, Order of. 136 St.
Rosalie of Palermo, Order of. 137 Virgin, Order of the. NUMISMATIC
NOTES Numismatic Notes and Monographs 1. Sj'dney P. Noe. Coin
Hoards. 1921. 47 pages. 6 plates. 50c. 2. Edward T.
Newell. Octobols of Histiaea, 1921. 25 pages. 2 plates. 50c. 3.
Edward T. Newell. Alexander Hoards — Introduction and Kyparissia
Hoard. 1921. 21 pages. 2 plates. 50c. 4. Howland Wood. The
Mexican Revolu¬ tionary Coinage 1913-1916. 1921. 44
pages. 26 plates. $2.00. 5. Leonidas Westervelt. The Jenny
Lind Medals and Tokens. 1921. 25 pages. 9 plates. 50c.
6. Agnes Baldwin. Five Roman Gold Me¬ dallions. 1921. 103
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$1.00. 8. Gilbert S. Perez. The Mint of the Philippine Islands.
1921. 8 pages. 4 plates. 50c. 9. David Eugene Smith, LL.D.
Computing Jetons. 1921. 70 pages. 25 plates.
$1.50. 10. Edward T. Newell. The First Seleucid Coinage
of Tyre. 1921. 40 pages. 8 plates. $1.00. Numismatic
Notes and Monographs (Continued) 11. Harrold E.
Gillingham. French Orders and Decorations. 1922. no pages. 35
plates. $2.00. 12. Howland Wood. Gold Dollars of 1858.
1922. 7 pages. 2 plates. 50c. 13. R. B. Whitehead.
Pre-Mohammedan Coinage of N. W. India. 1922. 56 pages.
15 plates. $2.00. 14. George F. Hill. Attambelos I of
Characene. 1922. 12 pages. 3 plates. $1.00. 15. M. P.
Vlasto. Taras Oikistes (A Con¬ tribution to Tarentine
Numismatics). 1922. 234 pages. 13 plates. $3.50. 16. Howland
Wood. Commemorative Coin¬ age of United States. 1922. 63
pages. 7 plates. $1.50. 17. Agnes Baldwin. Six Roman
Bronze Medallions. 1923. 39 pages. 6 plates. $1.50.
18. Howland Wood. Tegucigalpa Coinage of 1823. 1923. 16
pages. 2 plates. 50c. 19. Edward T. Newell. Alexander
Hoards— II. Demanhur Hoard. 1923. 162 pages. 8 plates.
$2.50. Egidio Romano. Egidio Colonna. Colonna. Keywords: conversazione cortese,
conversazione gentile, padre/figlio, amore naturale, principe, cavalleria,
cavaliere, cavalier attitude, cavalier implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonna” – The
Swimming-Pool Library. Colonna.
Grice e Colonnello: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della voce di Boezio – vox significativa – voce che e segno –
parola usata metaforicamente – nome, voce che e segno – significativa -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Benevento).
Filosofo italiano.
Grice: “I like Colonnello; as a typical Italian philosopher, he has
philosophised about ‘all,’ from, first, of course, Croce, to the ‘tedesci’! –
But also about ‘guilt,’ and my favourite, the ‘transcendentale,’ which in
Italian, for lack of ‘n’ becomes ‘trascendentale’ – how many? Colonnello thinks
more than one, if the plural is of any guide!”
Insegna a Callabria. Privilegia l'arco
tra criticismo trascendentale e fenomenologia, esistenza, ermeneutica di
Pareyson, storicismo di Croce, Nicol, Dussel. La sua proposta è verificare
l'interazione, in chiave storico-critica, del kantismo, della fenomenologia e
la filosofia dell'esistenza. Altre
opere: “Esistenzialismo kantiano” (Studio Editoriale di Cultura, Genova);
“Croce e i vociani” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Tempo e necessità”
(Japadre, L'Aquila-Roma); “Tra fenomenologia e filosofia dell'esistenza”
(Morano, Napoli); “Ermeneutica esistenzialista del concetto di ‘colpa”
(Loffredo, Napoli); “Percorsi di confine: esistenza e libertà” (Luciano,
Napoli); Croce (Bibliopolis, Napoli); “Ragione e rivelazione” (Borla, Roma);
“Melanconia ed esistenza” (Luciano, Napoli); “Storia esistenza liberta. Rileggendo
Croce, Armando, Roma); Martin Heidegger
e Hannah Arendt, Guida, Napoli); “Orizzonte del trascendente e dell’immanente,
Mimesis, Milano); “Inter-soggettivita riflessiva” L’itinerario dei corpi”
(Mimesis, Milano). Corpo, mondo, Fenomenologia (Mimesis, Milano); Fenomenologia
e patografia del ricordo, Mimesis, Milano Udine). Primum oportet
constituere, quid nomen et quid verbum, postea quid est negatio et adfirmatio
et enuntiatio et oratio. sunt ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in
anima passionum NOTAE et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. et
quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. quorum autem
haec primorum NOTAE, eaedem omnibus passiones animae et quorum hae
similitudines, res etiam eaedem.de his quidem dictum est in his quae sunt dicta
de anima, alterius est enim negotii. est autem, quemadmodum in anima
aliquotiens quidem intellectus sine vero vel falso, aliquotiens autem cui iam
necesse est horum alterum inesse, sic etiam in voce; circa conpositionem enim
et divisionem est falsitas veritasque. Nomina igitur ipsa et.verba consimilia
sunt sine conpositione vel divisione intellectui, ut homo vel album, quando non
additur aliquid; neque Titulus ex nisi quod de gr. in lat.
om. hic, hahet in suhscriptione. enim adhuc verum aut falsum est. huius autem
SIGNUM hoc est: hircocervus enim significat aliquid, sed nondum verum vel
falsum, si non vel esse vel non esse addatur, vel simpliciter vel secundum
tempus. Nomen ergo est vox significativa secundum placitum sine tempore, cuius
nulla pars est significativa separata. in nomine enim quod est equiferus ferus
nihil per se significat, quemadmodum in oratione quae est equus ferus. at vero
non quemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet etiam in conpositis. in
illis enim nullo modo pars significativa est, in his autem vult quidem, sed
nullius separati, ut in equiferus ferus. secundum placitum vero, quoniam
naturaliter nominum nihil est, sed quando fit nota. nam designant et iuhtterati
soni, ut ferarum quorum nihil est nomen. Non homo vero non est nomen. at vero
nec positum est nomen, quo illud oporteat appellari. neque enim oratio aut
negation est, sed sit nomen infinitum. Catonis autem vel Catoni et quaecumque
talia sunt non sunt nomina, sed casus nominis. ratio autem eius est in aliis
quidem eadem, sed diifert quoniam cum est vel fut vel erit iunctum neque verum
neque falsum est, nomen vero semper; ut Catonis est vel non est, nondum enim
neque verum dicit neque mentitur. Verbum autem est quod consignificat tempus
cuius pars nihil extra significat, et est semper eorum quae de altero dicuntur
nota. dico autem quoniam consignificat tempus, ut cursus quidem nomen est
currit vero verbum, consignificat enim nunc esse. et semper eorum quae de
altero dicuntur nota est, ut eorum quae de subiecto vel in subiecto. Non currit
vero et non laborat non verbum dico. consignificat quidem tempus et semper de
aliquo est, differentiae autem huic nomen non est positum; sed sit in
finitum verbu, quoniam similiter in quolibet c.est, vel quod est vel quod non
est. similiter autem vel curret vel currebat non verbum est, sed casus verbi.
differt autem a verbo, quod hoc quidem praesens consignificat tempus, illa vero
quod conplectitur. Ipsa quidem secundum se dicta verba nomina sunt et
significant aliquid. constituit enim qui dicit intellectum et qui audit
quiescit. sed si est vel non est, nondum significat; neque enim esse
signum est rei vel non esse, nec si hoc ipsum est purum dixeris. ipsum quidem
nihil est, consignificat autem quandam conpositionem, quam sine conpositis non est
intelleger. Oratio autem est vox significativa; cuius partium aliquid
significativum est separatum, ut dictio, non ut adfirmatio. dico autem, ut homo
significat aliquid, sed non quoniam est aut non est, sed erit adfirmatio vel
negatio, si quid addatur. sed non una hominis syllaba. nec in eo quod est sorex
rex significat, sed vox est nunc sola. in duplicibus vero significat quidem,
sed non secundum se, quemadmodum dictum est. Est autem oratio omnis quidem
significativa non sicut instrumentum, sed, quemadmodum dictum est, secundum
placitum. enuntiativa vero non omnis, sed in qua verum vel falsum inest. non
autem in omnibus, ut deprecatio oratio quidem est, sed neque vera neque
falsa.et ceterae quidem relinquantur; rhetoricae enim vel poeticae convenientior
consideratio est; enuntiativa vero praesentis est speculationis. Est autem una
prima oratio enuntiativa adfirmatio, deinde negatio; aliae veroconiunctione
unae. necesse est autem omnem orationem enuntiativam ex verbo esse vel casu.
etenim hominis ratio, si non aut est aut erit aut fuit aut aliquid huiusmodi
addatur, nondum est oratio enuntiativa. quare autem unum quiddam est et non
multa animal gressibile bipes neque enim eo quod propinquedicunt ur ununi erit,
est alterius hotractare negotii. est autem una c. oratio enuntiativa quae unum
significat vel coniunctione una, plures autem quae plura et non unum vel
inconiunctae. nomen ergo et verbum dictio sit sola, quoniam non est dicere sic
aliquid significantem voce enuntiare, vel aliquo interrogante vel non, sed
ipsum proferentem. harum autem haec quidem simplex est enuntiatio, ut aliquid
de aliquo vel aliquid ab aliquo, haec autem ex his coniuncta velut oratio
quaedam iam conposita. est autem simplex enuntiatio vox significativa de eo
quod est aliquid vel non est, quemadmodum tempora divisa sunt. Adfirmatio vero
est enuntiatio alicuiusde aliquo, negatio vero enuntiatio alicuius ab aliquo.
quoniam autem est enuntiare et quod est non esse et quod non est esse et quod
est esse et quod non est non esse et circa ea quae sunt extra praesens tempora
similiter omne contingit quod quis adfirmaverit negare et quod quis negaverit
adfirmare: quare manifestum est, quoniam omni adfirmationi est negatio opposita
et omni negationi adfirmatio. et sit hoc contradictio, adfirmatio et negatio
oppositae. dico autem opponi eiusdem de eodem, non autem aequivoce et
quaecumque cetera talium determinamus contra sophisticas inportunitates.
Quoniam autem sunt haec quidem rerum universalia, illa vero singillatim; dico
autem universale quod in pluribus natum est praedicari, singulare vero quod
non, ut homo quidem universale, Plato vero eorum quae suntsingularia: necesse
est autem enuntiare quoniam ines aliquid aut non aliquotiens quidemeorum
alicui quae sunt universalia, aliquotiens autem eorum quae sunt singularia. si
ergo universaliter enuntiet in universali quoniam est aut non, erunt contrariae
enuntiationes. dico autem in universali enuntiationem universalem, ut omnis
homo albus est, nullus homo albus est. quando autem in universalibus non
universaliter, non sunt contrariae, quae autem significantur est esse
contraria. dico autem non universaliter enuntiare in his quae sunt universalia,
ut est albus homo non est albus homo. cum enim universale sit homo, non
universaliter utitur enuntiatione. omnis namque non universale, sed quoniam
universaliter consignificat. in eo vero, quod praedicatur universale,
universale praedicare universaliter non est verum; nulla enim adfirmatio erit
in qua de universali praedicato universale praedicetur, ut omnis homo omne
animal est. opponi autem adfirmationem negationi dico contradictorie, quae
universale significat eidem, quoniam non universaliter, ut omnis homo albus
est, non omnis homo albus est nullus homo albus est, est quidam homo albus;
contrarie vero universalem adfirmationem et universal negationem, ut omnis homo
iustus est, nullus homo iustus est. quocirca has quidem inpossible est simul
veras essehis vero oppositas contingit in eodem, ut non omnis homo albus est
est quidam homo albus. quaecumque igitur contradictiones universalium sunt
universaliter, necesse est alteram veram esse vel falsam et quaecumque in
singularibus sunt ut est Socrates albus, non est Socrates albus; quaecumque
autem in universalibus non universaliter, non semper haec vera est, illa vero
falsa. simul enim verum est dicere quoniam est homo albus et non est homo
albus, et est homo pulcher (probus) et non est homo pulcher (probus). si enim
foedus (turpis, et non pulcher (probus); etfit aliquid, et non est. videbitur
autem subito inconveniens esse idcirco quoniam videtur significare non est homo
albus simul etiam quoniam ut om. esfet est © (xat habent Arist. codices praeter
duos) pro v.aX6q et cctaxQos in editione prima posuit pulcher et foedus, in
editione secunda probus et turpis jiemo homo albus. hoc autem neque idem
significat neque simul necessario. Manifestum est autem quoniam una negatio
unius adfirmationis est; hoc enim idem oportet negare negationem, quod
adfirmavit adfirmatio, et de eodem, vel de aliquo singularium vel de aliquo
universalium, vel universaliter vel non universaliter. dico autem ut est
Socrates albus, non est Socrates albus. si autem aliud aliquid vel de alio
idem, non opposita, sed erit ab ea diversa. huic vero quae est omnis homo
albus est illa quae est non omnis homo albus est, illi vero quae est aliqui
homo albus est illa quae est nullus homo albus est, illi autem quae est est
homo albus illa quae est non est homo albus. Quoniam ergo uni negationi
una adfirmati opposita est contradictorie et quae sint hae dictum est et
quoniam aliae sunt contrariae et quae sint hae et quoniam non omnis vera vel
falsa contradictio et quare et quando vera vel falsa. Una autem est adfirmatio
et negatio quae unum de uno significat vel cum sit universale universaliter vel
non similiter, ut omnis homo albus est, non est omnis homo albus; est homo
albus, non est homo albus; nullus homo albus est, est quidam homo albus, si
album unum significat. sin vero duobus unum Vel—singularium om. postremum vel
om.T aliquis MT est homoalb us ed. II. Ar.: h. a. est codices (hae) Mc locus in
paucis admodum codicibus exstat; habent lianc falsam versionem ex Boetii
expositione natam: Manifestum ergo quoniam una negatio uuius affirmationis est.
quoniam aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae et quae sint hae dictum
est. duplicem versioncm et superiorem veram et lianc falsamexhibent solam veram
D, falsam omisso initio: Manifestum — aff. est. E, veram in marg. Xsint edictum
et om. BE uel quoniam uel quando E est homp a. non est h. a. om. nomen est positum,
ex quibus non est unum, non est una adfirmatio, ut si quis ponat nomen tunica
homini et equo, est tunica alba haec non est una adfirmatio nec negatio una.
nihil enim hoc differt dicere quam est equus et homo albus. hoc autem
nihil differt quam dicere est equus albus et est homo albus. si ergo hae
multa significant et sunt phires, manifestum est quoniam et prima multa vel
nihil significat; neque enim est aliquis homo equus. quare nec in his necesse
est hanc quidem contradictionem veram esse, illam vero falsam. In his ergo quae
sunt et facta sunt necesse est adfirmationem vel negationem veram vel falsam
esse, in universalibus quidem universaliter semper hanc quidem veram, illam
vero falsam, et in his quae sunt singularia, quemadmodum dictum est; in his
vero, quae in universalibus non universaliter dicuntur, non est necesse; dictum
autem est et de his. in singularibus vero et futuris non similiter. nam si
omnis adfirmatio vel negatio vera vel falsa est, et omne necesse est vel esse
vel non esse. nam si hic quidem dicat futurum aliquid, ille vero non dicat hoc
idem ipsum, manifestum estquoniam necesse est verum dicere alterum ipsorum, si
omnis adfirmatio vera vel falsa. utraque enim non erunt simul in talibus. nam
si verum est dicere quoniam album vel non album est, necesse est esse album vel
non album, et si est album vel non album verum est vel adfirmare vel negare; et
si non est, mentitur, et si mentitur, non est. quare necesse est aut
adfirmationem aut negationem veram esse. nihil igitur neque est neque fit nec a
casu nec utrumlibet nec erit nec non erit, sed ex necessitate nomen
quod(quod est M) affirm. una una neg. differre et om. E dicere equus est MT est
autem MT6 veram esse vel falsam D Ar. omnia et non utrumlibet. aut enim qui
dicit verus est aut qui negat. similiter enim vel fieret vel non fieret;
utrumlibet enim nibii magis sic vel non sic se habet aut habebit. amplius si
est album nunc, verum erat dicere primo quoniam erit album, quare semper verum
fuit dicere quodlibet eorum quae facta sunt, quoniam erit. quod si semper verum
est dicere quoniam est vel erit, non potest hoc non esse nec non futurum esse.
quod autem non potest non fieri, inpossibile est non fieri; quod autem
inpossibile est non fieri, necesse est fieri. omnia ergo qua futura sunt
necesse est fieri. niliil igitur utrumlibet neque a casu erit; nam sia casu,
non ex necessitate. at vero nec quoniam neutrum verum est contingit dicere ut
quoniam neque erit neque non erit. primum enim cusit adfirmatio falsa, erit
negatio non vera et haec cum sit falsa, contingit adfirmationem esse non veram.
ad haec si verum est dicere quoniam album est et magnum, oportet utraque esse;
sin vero erit cras esse cras; si autem neque erit neque non erit cras, non erit
utrumlibe, ut navale bellum; oportebit enim neque fieri navale bellum neque non
fieri navale bellum. Quae ergo contingunt inconvenientia haec sunt et
huiusmodi alia, si omnis adfirmationis et negationis vel in his quae in
universalibus dicuntur universaliter vel in his quae sunt singularia necesse
est oppositarum hanc esse veram, illam vero falsam, nihil autem utrumlibet esse
in his quae fiunt, sed omnia esse vel fieri ex necessitate. quare non oportebit
neque consiliari neque negotiari, quoniam si hoc facimus, erit hoc, si veroho,
non erit.nihil enim prohibet in millensimum annum hunc quidem dicere hoc et
quod hnp. 1et cum liaec oportet esse cras ut est oportet E aHa om. affirmatio
et negatio oppositarumj oppositionem eorum quidem futurum esse hunc vero non
dicere. quare ex necessitate erit quodlibet eorum verum erat dicere tunc. at
vero nec hoc differt, si aliqui dixerunt contradictionem vel non dixerunt;
manifestum est enim, quod sic se habent res, et si non hic quidem adfirmaverit,
ille vero negaverit; non enim propter negare vel adfirmare erit vel non erit
nec in millensimum annum magis quam in quantolibet tempore. quare si in omni
tempore sic se habebat, ut unum vere diceretur, necesse esset hoc fieri et
unumquodque eorum quae fiunt sic se haberet, ut ex necessitate fieret. quando
enim vere dicit quis, quoniam erit, non potest non fieri et quod factum est
verum erat dicer semper, quoniam erit. Quod si haec non sunt possibilia:
videmus enim esse principium futurorum et ab eo quod consiliamur atque agimus
aliquid et quoniam est omnino in his quae non semper actu sunt esse possibile
et non, in quibus utrumque contingit et esse et non esse, quare et fieri
et non fier. et multa nobis manifesta sunt sic se habentia, ut quoniam hanc
vestem possibile est incidi et non incidetur, sed prius exteretur. similiter
autem et non incidi possibile est. non enim esset eam prius exteri, nisi esset
possibile non incidi. quare et in ahis facturis, quaecumque secundum potentiam
dicuntur huiusmodi: manifestum est, quoniam non omnia ex necessitate vel sunt
vel fiunt, sed alia quidem utrumlibet et non magis vel adfirmatio vel negatio,
alia quare quod quare quoniam praedicere habeat habeanfc E et si non ego:
etiamsi non b: uel si (om. non) codices neg. ille vero aff. G alt. in om. E
habeatest erat habere et in quibus sese ©Tincidetur — exteretur b: inciditur —
exteritur codices facturisque {om.cumque futuris quaecumque negatio uera est
Tvero magis quidem et in pluribus alterum, sed contingitfieri et alterum,
alterum vero minime. Igitur esse quod est, quand es, et non esse quod non est,
quando non est, necesse est; sed non quod est omne necesse est esse nec quod
non est necesse est non esse. non enim idem est omne quod est esse necessario,
quando est, et simpliciter esse ex necessitate. similiter autem et in eo quod
non est.et in contradictione eadem ratio. Esse quidem vel non esse omne necesse
est et futurum esse vel non; non tamen dividentem dicere alterum necessario.
dico autem ut necesse est quidem futurum esse bellum navale cras vel non esse
futurum, sed non futurum esse cras bellum navale necesse est vei non futurum
esse futurum autem esse vel non esse necesse est. quare quoniam similiter
orationes verae sunt quemadmodum et res, manifestum est quoniam quaecumque sic
se babent, ut utrumlibet sint et contraria ipsorum contingent necesse est
similiter se habere et contradictionem. quod contingit in his, quae non semper
sunt et non semper non sunt. borum enim necesse est quidem alteram partem
contradictionis veram esse vel falsam, non tamen hoc aut illud, sed utrumlibet
et magis quidem veram alteram, non tamen iam veram vel falsam. quare manifestum
est, quoniam non est necesse omnis adfirmationis vel negationis oppositarum
banc quidem veram, illam vero falsam esse. neque enim quemadmodum in bis quae
sunt, sic se habet etiam in his quae non sunt, possibilibus tamen esse aut non
esse, sed quemadmodum dictum est. Quoniam autem est de aliquo adfirmatio
signifi- ut add. b: om. codices necesse est post cras MT futurum quidem eorum A
omnes adfirmationes uel negationes codices et b (Arist.) oppositionum esse post
quidem illam autem hic ficans aliquid, hoc autem est vel nomen vel in nomine,
unum autem oportet esse et de uno hoc quod est in adfirmatione (nomen autem
dictum est et in nomine prius; non homo enim nomen quidem non dico, sed infinitum
nomen; unum enim quodammodo significat infinitum, quemadmodum et non currit non
verbum, sed infinitum verbum), erit omnis adfirmatio vel ex nomine et verbo vel
ex infinito nomine et verbo. praeter verbum autem nulla adfirmatio vel negatio.
est enim vel erit vel fuit vel fit, vel quaecumque alia huiusmodi, verba ex his
sunt quae sunt posita; consignificant enim tempus. quare prima adfirmatio et
negatio est homo, non est homo, deinde est non homo, non est non
homo; rursus est omnis homo, non est omnis homo; est omnis non homo, non est
omnis non homo. et in extrinsecus temporibus eadem ratio est. quando autem est
tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. dico autem ut
est iustus homo; est tertium dico adiacere nomen vel verbum in adfirmatione.
quare idcirco quattuor istae erunt, quarum duae quidem ad adfirmationem et
negationem sese habebunt secundum consequentiam ut privationes, duae vero
minime. dico autem quoniam est aut iusto adiacebit aut non iusto, quare
etiam negatio. quattuor ergo erunt. intellegimus vero quod diciturex his quae
subscripta sunt. est iustus homo, huius negatio non est iustus homo; est non
iustus homo, huius negatio non est non iustus homo. est enim hoe loco et non
est iusto et non iusto adiacet. haec igitur, quemadmodum in resolutoriis dictum
est, sic sunt innomine ego ex ed. II: in nominat Qm vel innominabile codices
item quodammodo significat et (ut add. S) non uerbum est inf. nom. et uerbo
erit MTES vel fit om.cons.—tempus om.consignificat T) ergo erunt] enim sunt
huius disposita. similiter autem se habet et si universalis nominis sit
adfirmatio, ut omnis est homo iustus, non omnis est homo iustus; omnis est homo
non iustus, non omnis est homo non iustus. sed non similiter angulares
contingit veras esse.contingit autem aliquando hae igitur duae oppositae sunt,
aliae autem ad non homo ut subiectum aliquid addito, ut est iustus non homo,
non est iustus non homo; est non iustus non homo, non est non iustus non homo.
magis plures autem his non erunt oppositiones. hae autem extra illas ipsae
secundum se erunt ut nomine utentes non homo. in his vero in quibus est non
convenit, ut in eo quod est currere vel ambulare, idem faciunt sic posita ac si
est adderetur, ut est currit omnis homo, non currit omnis homo; currit omnis
non homo, non currit omnis non homo. Non enim dicendum est non omnis homo sed
non negationem ad homo addendum est. omnis enim non universale significat, sed
quoniam universaliter. manifestum est autem ex eo quod est currit homo, non
currit homo; currit non homo non currit non homo. haec enim ab
illis difiPerunt eo quod non universaliter sunt. quare omnis vel nullus nihil
aliud consignificat nisi quoniam universaliter de nomine veladfirmat vel negat.
ergo cetera eadem oportet adponi. Quoniam vero contraria est negatio ei quae
est omne est animal iustum illa quae significat quoniam nullum est animal
iustum, hae quidem manifestum est quoniam numquam erunt neque verae simul neque
in eodem ipso, his vero oppositae erunt aliquando ut non omne animal iustum est
et est aliquod animal affirmatio sithaec ac uero non om. non ullus T ergo et
opponi apponi E ut E, om. ceteri et om. quoddam et est —iustum om.B c. iustum.
sequuntur vero hae: lianc quidem quae est nullus est homo iustus illa quae est
omnis est homo non iustus illam vero quae est est aliqui iustus homo opposita
quoniam non omnis est homo non iustus. necesse est enim esse aliquem.
manifestum est autem, quoniam etiam in singularibus, si est verum interrogatum
negare quoniam et adfirmare verum est, ut putasne Socrates sapiens est?
non; quoniam Socrates igitur non sapiens est. in universalibus vero non est
vera quae similiter dicitur, vera autem negatio, ut lO putasne omnis homo
sapiens? non. omnis igitur homo non sapiens. hoc enim falsum est. sed non omnis
igitur homo sapiens vera est; haec autem est opposita, illa vero contraria. Latin.
(16a.) Πρῶτον δεῖ θέσθαι τί ὄνομακαὶ τί ῥῆμα, ἔπειτα τί ἐστιν ἀπόφασιςκαὶ
κατάφασις καὶ ἀπόφανσις καὶ λόγος. Primum oportet constituere quid sit nomen et quid verbum,
postea quid est negatio et affirmatio et enuntiatio et oratio. First we must
define the terms 'noun' and 'verb', then the terms 'denial' and 'affirmation',
then 'proposition' and 'sentence.' ↵Ἔστι μὲν οὖν τὰ ἐν τῇ φωνῇ τῶν ἐν τῇ ψυχῇ παθημάτων σύμβολα, καὶ τὰ γραφόμενα τῶν ἐν τῇ φωνῇ. ↵ καὶ ὥσπερ οὐδὲ γράμματα πᾶσι τὰ αὐτά, οὐδὲ φωναὶ αἱ αὐταί• ὧν μέντοι ταῦτα σημεῖα πρώτων, ταὐτὰ πᾶσι παθήματα τῆς ψυχῆς, καὶ ὧν ταῦτα ὁμοιώματα πράγματα ἤδη ταὐτά.Sunt ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum
notae, et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. Et quemadmodum nec
litterae omnibus eaedem, sic nec eaedem voces; quorum autem hae primorum notae,
eaedem omnibus passiones animae sunt, et quorum hae similitudines, res etiam
eaedem.Spoken words are the symbols of mental experience and written words are
the symbols of spoken words. Just as all men have not the same writing, so all
men have not the same speech sounds, but the mental experiences, which these
directly symbolize, are the same for all, as also are those things of which our
experiences are the images. περὶ μὲν οὖν τούτων εἴρηται ἐν τοῖς περὶ ψυχῆς, —ἄλλης γὰρ πραγματείας•De his quidemdictum est in his quae sunt dicta de
anima -- alterius est enim negotii.This matter has, however, been discussed in
my treatise about the soul, for it belongs to an investigation distinct from
that which lies before us. — ἔστι δέ, ὥσπερ ἐν τῇ ψυχῇ ↵ ὁτὲ μὲν νόημα ἄνευ τοῦ ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι ὁτὲ δὲ ἤδη ᾧ ἀνάγκη τούτων ὑπάρχειν θάτερον, οὕτω καὶ ἐν τῇ φωνῇ• περὶ γὰρ σύνθεσιν καὶ διαίρεσίν ἐστι τὸ ψεῦδός τε καὶ τὸ ἀληθές.↵Est autem,
quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus sine vero vel falso,
aliquotiens autem cum iam necesse est horum alterum inesse, sic etiam in voce;
circa compositionem enim et divisionem est falsitas veritasque.As there are in
the mind thoughts which do not involve truth or falsity, and also those which
must be either true or false, so it is in speech. For truth and falsity imply combination and
separation. τὰ μὲν οὖν ὀνόματα αὐτὰ καὶ τὰ ῥήματα ἔοικε τῷ ἄνευ συνθέσεως καὶ
διαιρέσεως νοήματι, οἷον τὸ ἄνθρω↵πος
ἢ λευκόν, ὅταν μὴ προστεθῇ τι• οὔτε γὰρ ψεῦδος οὔτε ἀληθές πω. σημεῖον δ’ ἐστὶ
τοῦδε• καὶ γὰρ ὁ τραγέλαφοςσημαίνει μέν τι, οὔπω δὲ ἀληθὲς ἢ ψεῦδος, ἐὰν μὴ τὸ
εἶναι ἢ μὴ εἶναι προστεθῇ ἢ ἁπλῶς ἢ κατὰ χρόνον.Nomina igitur ipsa et verba
consimilia sunt sine compositione vel divisione ↵intellectui, ut 'homo' vel 'album', quando non
additur aliquid; neque enim adhuc verum aut falsum est. Huius autem signum:
'hircocervus' enim significat aliquid sed nondum verum vel falsum, si non vel
'esse' vel 'non esse' addatur vel simpliciter vel secundum tempus.Nouns and
verbs, provided nothing is added, are like thoughts without combination or
separation; 'man' and 'white', as isolated terms, are not yet either true or
false. In proof of this, consider the word 'goat-stag.' It has significance,
but there is no truth or falsity about it, unless 'is' or 'is not' is added,
either in the present or in some other tense. Ὄνομα μὲν οὖν ἐστὶ φωνὴ σημαντικὴ
κατὰ συνθήκην ↵ ἄνευ χρόνου, ἧς μηδὲν μέρος ἐστὶ σημαντικὸν κεχωρι-
σμένον• ἐν γὰρ τῷ Κάλλιππος τὸ ιππος οὐδὲν καθ’ αὑτὸ σημαίνει, ὥσπερ ἐν τῷ λόγῳ
τῷ καλὸς ἵππος .Nomen ergo est vox significativa secundum placitum ↵sine tempore, cuius nulla pars est significativa
separata; in 'equiferus' enim 'ferus' nihil per se significat, quemadmodum in
oratione quae est 'equus ferus'.Chapter 2 By a noun we mean a sound significant
by convention, which has no reference to time, and of which no part is
significant apart from the rest. In the noun 'Fairsteed,' the part 'steed' has
no significance in and by itself, as in the phrase 'fair steed.' οὐ μὴν οὐδ’ ὥσπερ
ἐν τοῖς ἁπλοῖς ὀνόμασιν, οὕτως ἔχει καὶ ἐν τοῖς πεπλεγμένοις• ἐν ἐκείνοις μὲν γὰρ
οὐδαμῶς τὸ μέρος ση↵μαντικόν,
ἐν δὲ τούτοις βούλεται μέν, ἀλλ’ οὐδενὸς κεχωρισμένον , οἷον ἐν τῷ ἐπακτροκέλης
τὸ κελης.At vero nonquemadmodum in simplicibus nominibus, sic se habet et in
compositis; in illis enim nullo modo pars significativa est↵, in his autem vult quidem sed nullius separati, ut
in 'equiferus' <'ferus'>.Yet there is a difference between simple and
composite nouns; for in the former the part is in no way significant, in the
latter it contributes to the meaning of the whole, although it has not an
independent meaning. Thus in the word 'pirate-boat' the word 'boat' has no
meaning except as part of the whole word. ↵τὸ δὲ κατὰ συνθήκην, ὅτι φύσει τῶν ὀνομάτων οὐδέν ἐστιν,
ἀλλ’ ὅταν γένηται σύμβολον• ἐπεὶ δηλοῦσί γέ τι καὶ οἱ ἀγράμ- ματοι ψόφοι, οἷον
θηρίων, ὧν οὐδέν ἐστιν ὄνομα."Secundum placitum" vero, quoniam
naturaliter nominum nihil est sed quando fit nota; nam designant et inlitterati
soni, ut ferarum, quorum nihil est nomen.The limitation 'by convention' was
introduced because nothing is by nature a noun or name-it is only so when it
becomes a symbol; inarticulate sounds, such as those which brutes produce, are
significant, yet none of these constitutes a noun. τὸ ↵ δ’ οὐκ ἄνθρωπος οὐκ ὄνομα• οὐ μὴν οὐδὲ κεῖται ὄνομα ὅ
τι δεῖ καλεῖν αὐτό, —οὔτε γὰρ λόγος οὔτε ἀπόφασίς ἐστιν• — ἀλλ’ ἔστω ὄνομα ἀόριστον.↵ 'Non homo' vero non est nomen; at vero nec positum
est nomen quod illud oporteat appellari -- neque enim oratio aut negatio est --
sed sit nomen infinitum.The expression 'not-man' is not a noun. There is indeed
no recognized term by which we may denote such an expression, for it is not a
sentence or a denial. Let it then be called an indefinite noun. ↵τὸ δὲ Φίλωνος ἢ Φίλωνι καὶ ὅσα (16b.) τοιαῦτα οὐκ ὀνόματα
ἀλλὰ πτώσεις ὀνόματος.'Catonis' autem vel 'Catoni' et quaecumque talia sunt non
sunt nomina sed casus nominis.The expressions 'of Philo', 'to Philo', and so
on, constitute not nouns, but cases of a noun. λόγος δέ ἐστιν αὐτοῦ τὰ μὲν ἄλλα
κατὰ τὰ αὐτά, ὅτι δὲ μετὰ τοῦ ἔστιν ἢ ἦν ἢ ἔσται οὐκ ἀληθεύει ἢ ψεύδεται, —τὸ
δ’ ὄνομα ἀεί,— οἷον Φίλωνός ἐστιν ἢ οὐκ ἔστιν• οὐδὲν γάρ πω οὔτε ἀλη↵θεύει οὔτε ψεύδεται.Ratio autem eius est in aliis
quidem eadem sed differt quoniam, cum 'est' vel 'fuit' vel 'erit' adiunctum,
neque verum neque falsum est, nomen vero semper; ut 'Catonis est' vel 'non est'
-- nondum enim aliquid neque rerum dicit neque mentitur.The definition of these
cases of a noun is in other respects the same as that of the noun proper, but,
when coupled with 'is', 'was', or will be', they do not, as they are, form a
proposition either true or false, and this the noun proper always does, under
these conditions. Take the words 'of Philo is' or 'of or 'of Philo is not';
these words do not, as they stand, form either a true or a false proposition. ↵Ῥῆμα δέ ἐστι τὸ προσσημαῖνον χρόνον, οὗ μέρος οὐδὲν
σημαίνει χωρίς• ἔστι δὲ τῶν καθ’ ἑτέρου λεγομένων σημεῖον.Verbum autem est quod
consignificat tempus, cuius pars nihil extra significat; et est semper eorum
quae de altero praedicantur nota.Chapter 3 A verb is that which, in addition to
its proper meaning, carries with it the notion of time. No part of it has any
independent meaning, and it is a sign of something said of something else. λέγω
δ’ ὅτι προσσημαίνει χρόνον, οἷον ὑγίεια μὲν ὄνομα, τὸ δ’ ὑγιαίνει ῥῆμα•
προσσημαίνει γὰρ τὸ νῦν ὑπάρχειν. καὶ ἀεὶ ↵ τῶν ὑπαρχόντων σημεῖόν ἐστιν, οἷον τῶν καθ’ ὑποκειμένου.Dico
autem quoniamconsignificat tempus, ut 'cursus' quidem nomen est, 'currit' vero
verbum -- consignificat enim nunc esse -- ; et semper eorum quae de altero
dicuntur nota est, ut eorum quae de subiecto vel in subiecto.I will explain
what I mean by saying that it carries with it the notion of time. 'Health' is a
noun, but 'is healthy' is a verb; for besides its proper meaning it indicates
the present existence of the state in question. Moreover, a verb is always a
sign of something said of something else, i.e. of something either predicable
of or present in some other thing. τὸ δὲ οὐχ ὑγιαίνει καὶ τὸ οὐ κάμνει οὐ ῥῆμα
λέγω• προσσημαίνει μὲν γὰρ χρόνον καὶ ἀεὶ κατά τινος ὑπάρχει, τῇ διαφορᾷ δὲ ὄνομα
οὐ κεῖται• ἀλλ’ ἔστω ἀόριστον ῥῆμα, ↵
ὅτι ὁμοίως ἐφ’ ὁτουοῦν ὑπάρχει καὶ ὄντος καὶ μὴ ὄντος.'Non currit' vero et 'non
laborat' non verbum dico; consignificat quidem tempus et semper de aliquo est,
differentiae autem huic nomen non est positum; sed sit infinitum verbum,
quoniam similiter in quolibet est vel quod est vel quod non est.Such
expressions as 'is not-healthy', 'is not, ill', I do not describe as verbs; for
though they carry the additional note of time, and always form a predicate,
there is no specified name for this variety; but let them be called indefinite
verbs, since they apply equally well to that which exists and to that which
does not. ὁμοίως δὲ καὶ τὸ ὑγίανεν ἢ τὸ ὑγιανεῖ οὐ ῥῆμα, ἀλλὰ πτῶσις ῥήματος•
διαφέρει δὲ τοῦ ῥήματος, ὅτι τὸ μὲν τὸν παρόντα προσσημαίνει χρόνον, τὰ δὲ τὸν
πέριξ.Similiter autem vel 'curret' vel 'currebat' non verbum est sed casus
verbi; differt autem a verbo quoniam hoc quidem praesens significat tempus,
illa vero quod complectitur.Similarly 'he was healthy', 'he will be healthy',
are not verbs, but tenses of a verb; the difference lies in the fact that the
verb indicates present time, while the tenses of the verb indicate those times
which lie outside the present. αὐτὰ μὲν οὖν καθ’ αὑτὰ λεγόμενα τὰ ῥήματα ὀνόματά
↵ἐστι καὶ σημαίνει τι, —ἵστησι γὰρ ὁ λέγων τὴν
διάνοιαν, καὶ ὁ ἀκούσας ἠρέμησεν,— ἀλλ’ εἰ ἔστιν ἢ μή οὔπω σημαίνει• οὐ γὰρ τὸ
εἶναι ἢ μὴ εἶναι σημεῖόν ἐστι τοῦ πράγματος, οὐδ’ ἐὰν τὸ ὂν εἴπῃς ψιλόν. αὐτὸ μὲν
γὰρ οὐδέν ἐστιν, προσσημαίνει δὲ σύνθεσίν τινα, ἣν ἄνευ τῶν ↵συγκειμένων οὐκ ἔστι νοῆσαι.Ipsa quidemsecundum se
dicta verba nomina sunt et significant aliquid -- constituit enim qui dicit
intellectum, et qui audit quiescit -- sed si est vel non est nondum significat.
Neque enim 'esse' signum est rei vel 'non esse', nec si hoc ipsum 'est' purum
dixeris: ipsum quidem nihil est, consignificat autem quandam compositionem quam
sine compositis non est intellegere.Verbs in and by themselves are substantival
and have significance, for he who uses such expressions arrests the hearer's
mind, and fixes his attention; but they do not, as they stand, express any
judgement, either positive or negative. For neither are 'to be' and 'not to be'
the participle 'being' significant of any fact, unless something is added; for
they do not themselves indicate anything, but imply a copulation, of which we
cannot form a conception apart from the things coupled. ↵Λόγος δέ ἐστι φωνὴ σημαντική, ἧς τῶν μερῶν τι
σημαντικόν ἐστι κεχωρισμένον, ὡς φάσις ἀλλ’ οὐχ ὡς κατάφασις.Oratio autem est
vox significativa, cuius partium aliquid significativum est separatum (ut
dictio, non ut affirmatio);Chapter 4 A sentence is a significant portion of
speech, some parts of which have an independent meaning, that is to say, as an
utterance, though not as the expression of any positive judgement. λέγω δέ, οἷον
ἄνθρωπος σημαίνει τι, ἀλλ’ οὐχ ὅτι ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (ἀλλ’ ἔσται κατάφασις ἢ ἀπό↵φασις ἐάν τι προστεθῇ)• ἀλλ’ οὐχ ἡ τοῦ ἀνθρώπου
συλλαβὴ μία• οὐδὲ γὰρ ἐν τῷ μῦς τὸ υς σημαντικόν, ἀλλὰ φωνή ἐστι νῦν μόνον.dico
autem ut 'homo' significat aliquid (sed non quoniam est aut non est; sed erit
affirmatio vel negatio, si quid addatur) sed non una 'hominis' syllaba; nec in
hoc quod est 'sorex' 'rex' significat sed vox est nunc sola.Let me explain. The
word 'human' has meaning, but does not constitute a proposition, either
positive or negative. It is only when other words are added that the whole will
form an affirmation or denial. But if we separate one syllable of the word
'human' from the other, it has no meaning; similarly in the word 'mouse', the
part 'ouse' has no meaning in itself, but is merely a sound. ἐν δὲ τοῖς διπλοῖς
σημαίνει μέν, ἀλλ’ οὐ καθ’ αὑτό, ὥσπερ εἴρηται.In duplicibus vero significat
quidem sed non secundum se, quemadmodum dictum est.In composite words, indeed,
the parts contribute to the meaning of the whole; yet, as has been pointed out,
they have not an independent meaning. ↵ἔστι
δὲ λόγος ἅπας μὲν σημαντικός, οὐχ ὡς ὄργανον δέ, ἀλλ’ ὥσπερ εἴρηται κατὰ
συνθήκην• ἀποφαντικὸς δὲ οὐ πᾶς, ἀλλ’ ἐν ᾧ τὸ ἀληθεύειν ἢ ψεύδεσθαι ὑπάρχει• οὐκ
ἐν ἅπασι δὲ ὑπάρχει, οἷον ἡ εὐχὴ λόγος μέν, ἀλλ’ οὔτ’ ἀληθὴς οὔτε ψευδής.Est
autem oratioomnis quidem significativa non sicut instrumentum sed (quemadmodum
dictum est) secundum placitum; enuntiativa vero non omnis sed in qua verum vel
falsum inest; non autem in omnibus, ut deprecatio oratio quidem est sed neque
vera neque falsa.Every sentence has meaning, not as being the natural means by
which a physical faculty is realized, but, as we have said, by convention. Yet
every sentence is not a proposition; only such are propositions as have in them
either truth or falsity. Thus a prayer is a sentence, but is neither true nor false.
οἱ ↵ μὲν οὖν ἄλλοι ἀφείσθωσαν, —ῥητορικῆς γὰρ ἢ ποιητικῆς
οἰκειοτέρα ἡ σκέψις,— ὁ δὲ ἀποφαντικὸς τῆς νῦν θεωρίας.Et caeterae
quidemrelinquantur (rhetoricae enim vel poeticae convenientior consideratio
est; enuntiativa vero praesentis considerationis est).Let us therefore dismiss
all other types of sentence but the proposition, for this last concerns our present
inquiry, whereas the investigation of the others belongs rather to the study of
rhetoric or of poetry. ↵Ἔστι
δὲ εἷς πρῶτος λόγος ἀποφαντικὸς κατάφασις, εἶτα ἀπόφασις• οἱ δὲ ἄλλοι συνδέσμῳ
εἷς.Est autem una primaoratio enuntiativa affirmatio, deinde negatio; aliae
vero coniunctione unae.Chapter 5 The first class of simple propositions is the
simple affirmation, the next, the simple denial; all others are only one by
conjunction. ↵ἀνάγκη δὲ ↵πάντα
λόγον ἀποφαντικὸν ἐκ ῥήματος εἶναι ἢ πτώσεως• καὶ γὰρ ὁ τοῦ ἀνθρώπου λόγος, ἐὰν
μὴ τὸ ἔστιν ἢ ἔσται ἢ ἦν ἤ τι τοιοῦτο προστεθῇ, οὔπω λόγος ἀποφαντικός (διότι δὲ
ἕν τί ἐστιν ἀλλ’ οὐ πολλὰ τὸ ζῷον πεζὸν δίπουν, —οὐ γὰρ δὴ τῷ σύνεγγυς εἰρῆσθαι
εἷς ἔσται,— ἔστι δὲ ἄλλης ↵
τοῦτο πραγματείας εἰπεῖν).Necesse est autemomnem orationem enuntiativam ex
verbo esse vel casu; et enim, hominis rationi si non aut 'est' aut 'erit' aut
'fuit' aut aliquid huiusmodi addatur, nondum est oratio enuntiativa. Quare
autem unum quiddam est et non multa 'animal gressibile bipes' -- neque enim eo
quod propinque dicuntur unum erit -- est alterius hoc tractare negotii.Every
proposition must contain a verb or the tense of a verb. The phrase which
defines the species 'man', if no verb in present, past, or future time be
added, is not a proposition. It may be asked how the expression 'a footed
animal with two feet' can be called single; for it is not the circumstance that
the words follow in unbroken succession that effects the unity. This inquiry,
however, finds its place in an investigation foreign to that before us. ἔστι δὲ
εἷς λόγος ἀποφαντικὸς ἢ ὁ ἓν δηλῶν ἢ ὁ συνδέσμῳ εἷς, πολλοὶ δὲ οἱ πολλὰ καὶ μὴ ἓν
ἢ οἱ ἀσύνδετοι.Est autem una oratioenuntiativa quae unum significat vel
coniunctione una, plures autem quae plura et non unum vel inconiunctae.We call
those propositions single which indicate a single fact, or the conjunction of
the parts of which results in unity: those propositions, on the other hand, are
separate and many in number, which indicate many facts, or whose parts have no
conjunction. ↵τὸ μὲν οὖν ὄνομα καὶ τὸ ῥῆμα φάσις ἔστω μόνον, ἐπεὶ οὐκ
ἔστιν εἰπεῖν οὕτω δηλοῦντά τι τῇ φωνῇ ὥστ’ ἀποφαίνεσθαι, ἢ ἐρωτῶντός τινος, ἢ μὴ
ἀλλ’ αὐτὸν ↵προαιρούμενον.Nomen ergo et verbum dictio sit sola,
quoniam non est dicere sic aliquid significantem voce enuntiare, vel aliquo
interrogante vel non sed ipsum proferentem.Let us, moreover, consent to call a
noun or a verb an expression only, and not a proposition, since it is not
possible for a man to speak in this way when he is expressing something, in
such a way as to make a statement, whether his utterance is an answer to a
question or an act of his own initiation. τούτων δ’ ἡ μὲν ἁπλῆ ἐστὶν ἀπόφανσις,
οἷον τὶ κατὰ τινὸς ἢ τὶ ἀπὸ τινός, ἡ δ’ ἐκ τούτων συγκειμένη, οἷον λόγος τις ἤδη
σύνθετος.Harum autem haec quidem simplex est enuntiatio, ut aliquid de aliquo
vel aliquid ab aliquo, haec autem ex his coniuncta, velut oratio quaedam iam
composita.To return: of propositions one kind is simple, i.e. that which
asserts or denies something of something, the other composite, i.e. that which
is compounded of simple propositions. Ἔστι δ’ ἡ μὲν ἁπλῆ ἀπόφανσις φωνὴ
σημαντικὴ περὶ τοῦ εἰ ὑπάρχει τι ἢ μὴ ὑπάρχει, ὡς οἱ χρόνοι διῄρηνται.Est autem
simplexenuntiatio vox significativa de eo quod est aliquid vel non est,
quemadmodum tempora divisa sunt.A simple proposition is a statement, with
meaning, as to the presence of something in a subject or its absence, in the
present, past, or future, according to the divisions of time. ↵ Κατάφασις δέ ἐστιν ἀπόφανσις τινὸς κατὰ τινός, ἀπόφασις
δέ ἐστιν ἀπόφανσις τινὸς ἀπὸ τινός.Affirmatio vero est enuntiatio alicuius de
aliquo, negatio vero enuntiatio alicuius ab aliquo.Chapter 6 An affirmation is
a positive assertion of something about something, a denial a negative
assertion. ↵ἐπεὶ δὲ ἔστι καὶ τὸ ὑπάρχον ἀποφαίνεσθαι ὡς μὴ ὑπάρχον
καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ ὑπάρχον ὡς ὑπάρχον καὶ τὸ μὴ ὑπάρχον ὡς μὴ ὑπάρχον,
καὶ περὶ τοὺς ἐκτὸς δὲ ↵τοῦ νῦν
χρόνους ὡσαύτως, ἅπαν ἂν ἐνδέχοιτο καὶ ὃ κατέφησέ τις ἀποφῆσαι καὶ ὃ ἀπέφησε
καταφῆσαι• ὥστε δῆλον ὅτι πάσῃ καταφάσει ἐστὶν ἀπόφασις ἀντικειμένη καὶ πάσῃ ἀποφάσει
κατάφασις.Quoniam autem est enuntiare et quod est non esse et quod non est esse
et quod est esse et quod non est non esse, et circa ea extrinsecus praesentis
temporis similiter omne contingit quod quis affirmaverit negare et quod quis
negaverit affirmare; quare manifestum est quoniam omni affirmationi est negatio
opposita et omni negationi affirmatio.Now it is possible both to affirm and to
deny the presence of something which is present or of something which is not,
and since these same affirmations and denials are possible with reference to
those times which lie outside the present, it would be possible to contradict
any affirmation or denial. Thus it is plain that every affirmation has an
opposite denial, and similarly every denial an opposite affirmation. καὶ ἔστω ἀντίφασις
τοῦτο, κατάφασις καὶ ἀπόφασις αἱ ἀντικείμεναι• λέγω δὲ ἀντικεῖσθαι ↵τὴν τοῦ αὐτοῦ κατὰ τοῦ αὐτοῦ, —μὴ ὁμωνύμως δέ, καὶ ὅσα
ἄλλα τῶν τοιούτων προσδιοριζόμεθα πρὸς τὰς σοφιστικὰς ἐνοχλήσεις.Et sit
hoccontradictio, affirmatio et negatio oppositae; dico autem opponi eiusdem de
eodem, non autemaequivoce et quaecumquecaetera talium determinamus contra
sophisticas importunitates.We will call such a pair of propositions a pair of
contradictories. Those positive and negative propositions are said to be
contradictory which have the same subject and predicate. The identity of
subject and of predicate must not be 'equivocal'. Indeed there are definitive
qualifications besides this, which we make to meet the casuistries of sophists.
↵Ἐπεὶ δέ ἐστι τὰ μὲν καθόλου τῶν πραγμάτων τὰ δὲ καθ’ ἕκαστον,
—λέγω δὲ καθόλου μὲν ὃ ἐπὶ πλειόνων πέφυκε ↵κατηγορεῖσθαι, καθ’ ἕκαστον δὲ ὃ μή, οἷον ἄνθρωπος μὲν
↵ τῶν καθόλου Καλλίας δὲ τῶν καθ’ ἕκαστον,— ἀνάγκη δ’ ἀποφαίνεσθαι
ὡς ὑπάρχει τι ἢ μή, ὁτὲ μὲν τῶν καθόλου τινί, ὁτὲ δὲ τῶν καθ’ ἕκαστον.Quoniam
autemsunt haec quidem rerum universalia, illa vero singillatim (dico autem
universale quod in pluribus natum est praedicari, singulare vero quod non, ut
'homo' quidem universale, 'Plato' vero eorum quae sunt singularia), necesse est
autem enuntiare quoniam inest aliquid aut non, aliquotiens quidem eorum alicui
quae sunt universalia, aliquotiens vero eorum quae sunt singularia.Chapter
7Some things are universal, others individual. By the term 'universal' I mean
that which is of such a nature as to be predicated of many subjects, by
'individual' that which is not thus predicated. Thus 'man' is a universal,
'Callias' an individual. Our propositions necessarily sometimes concern a
universal subject, sometimes an individual. ἐὰν μὲν οὖν καθόλου ἀποφαίνηται ἐπὶ
τοῦ καθόλου ὅτι ὑπάρχει ἢ μή, ἔσονται ἐναντίαι ↵ἀποφάνσεις, —λέγω δὲ ἐπὶ τοῦ καθόλου ἀποφαίνεσθαι
καθόλου, οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός• — ὅταν δὲ ἐπὶ τῶν
καθόλου μέν, μὴ καθόλου δέ, οὐκ εἰσὶν ἐναντίαι, τὰ μέντοι δηλούμενα ἔστιν εἶναι
ἐναντία, —λέγω δὲ τὸ μὴ καθόλου ἀποφαίνεσθαι ἐπὶ τῶν καθόλου, οἷον ἔστι ↵ λευκὸς ἄνθρωπος, οὐκ ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος• καθόλου γὰρ
ὄντος τοῦ ἄνθρωπος οὐχ ὡς καθόλου χρῆται τῇ ἀποφάνσει• τὸ ↵γὰρ πᾶς οὐ τὸ καθόλου σημαίνει ἀλλ’ ὅτι καθόλου.Si
ergo universaliterenuntiet in universali quoniam est aut non, erunt contrariae
enuntiationes (dico autem in universali enuntiationem universalem ut 'omnis
homo albus est', 'nullus homo albus est'); quando autem in universalibus non
universaliter, non sunt contrariae, quae autemsignificantur est esse contraria
(dico autem non universaliter enuntiare in his quae sunt universalia, ut 'est
albus homo', 'non est albus homo'; cum enim universale sit homo, non
universaliter utitur enuntiatione; 'omnis' namque non 'universale' sed 'quoniam
universaliter' consignificat).If, then, a man states a positive and a negative
proposition of universal character with regard to a universal, these two
propositions are 'contrary'. By the expression 'a proposition of universal
character with regard to a universal', such propositions as 'every man is
white', 'no man is white' are meant. When, on the other hand, the positive and
negative propositions, though they have regard to a universal, are yet not of
universal character, they will not be contrary, albeit the meaning intended is
sometimes contrary. As instances of propositions made with regard to a
universal, but not of universal character, we may take the 'propositions 'man
is white', 'man is not white'. 'Man' is a universal, but the proposition is not
made as of universal character; for the word 'every' does not make the subject
a universal, but rather gives the proposition a universal character. — ἐπὶ δὲ
τοῦ κατηγορουμένου τὸ καθόλου κατηγορεῖν καθόλου οὐκ ἔστιν ἀληθές• οὐδεμία γὰρ
κατάφασις ἔσται, ἐν ᾗ τοῦ κατηγορου↵μένου
καθόλου τὸ καθόλου κατηγορηθήσεται, οἷον ἔστι πᾶς ἄνθρωπος πᾶν ζῷον.In eo vero
quod praedicatur universaliter universale praedicare universaliter non est
verum; nulla enim affirmatio erit, in qua de universaliter praedicato
universale praedicetur, ut 'omnis homo omne animal'.If, however, both predicate
and subject are distributed, the proposition thus constituted is contrary to
truth; no affirmation will, under such circumstances, be true. The proposition
'every man is every animal' is an example of this type. ↵ Ἀντικεῖσθαι μὲν οὖν κατάφασιν ἀποφάσει λέγω ἀντιφατικῶς
τὴν τὸ καθόλου σημαίνουσαν τῷ αὐτῷ ὅτι οὐ καθόλου, οἷον πᾶς ἄνθρωπος λευκός—οὐ
πᾶς ἄνθρωπος λευκός, οὐδεὶς ἄνθρωπος λευκός—ἔστι τις ἄνθρω↵πος λευκός• ἐναντίως δὲ τὴν τοῦ καθόλου κατάφασιν καὶ
τὴν τοῦ καθόλου ἀπόφασιν, οἷον πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος—οὐδεὶς ἄνθρωπος
δίκαιος•Opponi autemaffirmationem negationi dico contradictorie quae universale
significat eidem quoniam non universaliter, ut 'omnis homo albus est', 'non
omnis homo albus est', 'nullus homo albus est', 'quidam homo albus est';
contrarie vero universalem affirmationem et universalem negationem, 'ut omnis
homo iustus est', 'nullus homo iustus est';An affirmation is opposed to a
denial in the sense which I denote by the term 'contradictory', when, while the
subject remains the same, the affirmation is of universal character and the
denial is not. The affirmation 'every man is white' is the contradictory of the
denial 'not every man is white', or again, the proposition 'no man is white' is
the contradictory of the proposition 'some men are white'. But propositions are
opposed as contraries when both the affirmation and the denial are universal,
as in the sentences 'every man is white', 'no man is white', 'every man is
just', 'no man is just'. Grice: “I used ‘body’ informally in my ‘Personal
identity’, where I suggested, that “I fell down the stairs” could be replaced
by “MY body fell down the stairs” – there is yet an essential indexical.
Different if two wrestlers unison say, ‘Both our bodies are oiled” – where
again the dual “both our” is used. We have not the second person but the FIRST
PERSON dual. “Our bodies” “Both our bodies”. Pio Colonnello. Colonnello. Keywords:
la voce, rivista La Voce, Croce e i vociani, patografia, German for ‘body’
Lieb, cognate with ‘life’ so that ‘Das Leib ohne Leben’ would be odd. The
Anglo-Normans solved the problem with ‘corpse’, corpus, vita, corpore, vita,
vivere, German ‘leben’, ‘live’ meaning with ‘remain’, creature construction,
thing, living thing, living body, personal human living being. Bodily movement.
Method in philosophical psychology, manifestation in behaviour, bodily
behaviour, brain state, different from bodily movement, voce, ‘vox
significativa’ ‘voce significativa’, voce che e segno di… la voce dei animali,
uso metaforico di ‘voce’ – the voice of Alighieri, la voce di, la voce di
Mussolini, la voce di, voice, etimologia di voce. phone, phonic, suono – voce e
suono – immagine acustica del suono, riconoscimento della voce, voce come
sinonimo di parola, o espressione – una ‘voce toscana’ -- ‘la voce umana’ – ‘sine voce’ – the voiceless
– voce come schema distintivo – voiced and voiceless – nome come voce, verbo
come voce, predicamento. Voce come SIMBOLO dell’afezione dell’animo, ma
SCRITTURA come SEGNO della voce --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonnello”
– The Swimming-Pool Library. Colonnello.
Grice e Colorni: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della diadologia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo
italiano. Grice: “To understand the passion in Italian philosophy, as the pasdsion
I experienced with Austin in the postwar and with Hardie on the golfcourse in
the good old days, one has to understand Colorni – he was a socialist, and thus
an empiriociritic! He found opposition in the Gentileians. Oddly, Colroni’s
main interest is the ‘monad,’ but he also explored what we would at Oxford call
‘science’ – rather than philosophy. Lay the blame on his tutor at Milano!”. Promotore
del federalismo europeo. Mentre era confinato a Ventotene, su
saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Figlio di Alberto Colorni, di
Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia pisana (zia di Pontecorvo,
del regista Gillo, del genetista Guido e del giurista Tullio Ascarelli). Studia al ginnasio di Milano. Si appassiona
al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione adolescenziale, come
raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu influenzata dal rapporto
intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti più grandi di
lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista
ad esercitare su di lui una forte influenza ideale. Studia sotto Borgese
e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il concetto di individuo”. Strinse
amicizia con Guido Piovene, che però verrà interrotta per via di certi articoli
anti-semitici scritti da Piovene su L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo
goliardico per la libertà di Basso e
Morandi. Saggio sull'estetica d’Ardigò. Si accosta alla divisione milanese
del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito col nucleo giellista torinese,
che fece capo prima a Ginzburg e poi a Foa. Incontra Croce, con il quale
conversa a lungo. Saggi per Il Convegno, La Cultura, Civiltà Moderna,
Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti, e presso la società editrice
"La Cultura" di Milano, uno studio critico su L'estetica di
Croce. Saggio sulla monada e la diada, vinse il concorso per
l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima assegnazione al
liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a Trieste. Qui
conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un poeta) ed anche Gambini,
Pincherle ed Curiel. Nella collana scolastica che Giovanni Gentile
diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo costrinse ad
affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla problematica
kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la psicanalisi
potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali. Quando,
come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’, Colorni
concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la filosofia
che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano seguaci Croce
come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di filosofia a Parigi,
incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese. I giornali
pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di razza
ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in
Italia e all'estero”. La sottolineatura
sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione anti-semita
appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla linea
politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove prosegue i
suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri compagni
confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni si
ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua adesione
alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa libera e
unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il Manifesto
ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al Manifesto,
auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”,
come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In
tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui
considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento
sociale, anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali
avrebbe coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa. Circa le
dinamiche che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto
ai soli Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni
recenti studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di
trinità si tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle
discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre
persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e
di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due
autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i
contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile,
riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante
lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli
anti-fascisti locali. Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una
rivista di metodologia scientifica. Riuscì a fuggire da Melfi,
rifugiandosi a Roma, dove visse da latitante. Dopo la capitolazione di Mussolini
si dedica all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità
Proletaria, nato dalla fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità
Proletaria. Partecipò, assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e
Foa, in casa di Rollier a Milano, alla riunione che diede vita al Movimento
Federalista Europeo. Il movimento adottò come proprio programma il
"Manifesto di Ventotene". Svolse nella capitale un'intensissima
attività nelle file della Resistenza. Prese parte alla direzione del PSIUP e
s'impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione Socialista Italiana e
nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti. “Io ero da
poco stato nominato segretario della Federazione Socialista per suggerimento e
per decisione di Pertini, che era membro della segreteria del partito in
quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola brigata, anche se era un
gruppo armato che era comandato da Colorni che poi è assassinata alla vigilia della liberazione di
Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini ricorda il suo
impegno per la stampa del giornale socialista: «Ricordare l'Avanti!
clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri compagni che
a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto il piombo
fascista: C. e Fioretti. Ricordo come Colorni, mio indimenticabile fratello
d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti! uscisse regolarmente. Egli in
persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo scrive gli articoli
principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione, aiutato in questo da Fioretti,
anima ardente e generoso apostolo del socialismo. A questo compito cui si sente
particolarmente portato per la preparazione e la capacità della sua mente, C. dedica
tutto se stesso, senza tuttavia tralasciare anche i più modesti incarichi
nell'organizzazione politica e militare del nostro partito. Amava profondamente
il giornale e sogna di dirigerne la redazione nostra a Liberazione avvenuta e
se non fosse stato strappato dalla ferocia fascista, sarebbe stato il primo
redattore capo dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe il suo
direttore, sorretto in questo suo compito non solo dal suo forte ingegno e
dalla sua vasta cultura filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da
quel senso del giusto che ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti,
l'Avanti! era tra i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che
sapeva porre con più chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La
sua pubblicazione veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti
appartenenti ad altri partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati
i loro interessi. Nella Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia
nascosta di Monte Mario, fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine
intitolato Problemi della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di
Ventotene". Pochi giorni prima della liberazione della capitale,
venne fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della
famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da
tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, muore sotto l’identità
di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà, confinato durante la dominazione
fascista, evadeva audacemente dedicandosi quindi a rischiose attività
cospirative. Durante la lotta antinazista, organizzato il centro militare del
Partito Socialista Italiano, dirigeva animosamente partecipandovi, primo fra i
primi, una intensa, continua e micidiale azione di guerriglia e di sabotaggio.
Scoperto e circondato da nazisti li affrontò da solo, combattendo con estremo
ardimento, finché travolto dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta. Tre
lapidi esistenti, una, posta dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è
semilleggibile perché scurita dal tempo, un'altra, posta dal Partito Socialista
Italiano, è spaccata in due e un'ultima, posta sempre dalla III Circoscrizione
del Comune di Roma, contiene un errore. Foto delle tre lapidi. Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la
Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città
del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il
Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino).
Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di Eugenio Colorni,
in Id., Il socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo
federalista di Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze,
Anno Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista,
in, Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli,
Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e
dopoguerra. Piovene e C., Einaudi, Torino e Hoepli, Milano,. Geri Cerchiai,
L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di Storia della
Filosofia», Stefano Miccolis, C. e Croce”. Talvolta non si distingue debitamente
fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un filosofo e il suo
riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal modo, proprio la
tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla composizione, la
diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come nel Novecento, è
stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e al di là della
nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al limite delle
falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni: scoperti
(o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare contesto del
quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” – che, insieme
con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono rimasti
giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una
tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un
altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito
del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una
vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti
dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e
prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del
’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua
nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un
nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo
è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini.
Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le
filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni,
in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a
rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista.
Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il
destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione
di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo
italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero,
staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di
sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma
tenace, lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda,
convivenza. Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere
*conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo
in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo
nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari
positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad
essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi
spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione
intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene
assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia
più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso
identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più
strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del
Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da
Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i
principi. L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e
vuole essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla
ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano
il medesimo nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e
penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere:
critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la
pura ragione dalla filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di
soddisfare le esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della
nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la
scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo
razionalismo, che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo
più datato, Le idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si
può apprezzare in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di
sciogliere il pensiero dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a
una filosofia intesa come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come
trapasso dalla metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo
inserito nella corrente più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in
questo consisterebbe il suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con
la metafisica specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica
speculativa quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica
immanente. Per una ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di
Cantoni su Croce, si rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in
C. Montaleone e C. Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della
vita, Milano, Guerini, Cfr. N. Bobbio, Introduzione, in E. Colorni, Scritti,
Firenze, La Nuova Italia. Avviene la crisi dell’idealismo, cui segue la ricerca
di nuove vie, proprio ad opera della generazione di C. […] le vie battute per
uscire dalla crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una
riflessione sulle trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che
dà origine a una filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è
il positivismo logico, cui aprono la strada gli studi di Geymonat; e quella che
passa attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)». Geymonat,
Studi per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha fatto notare Mario
Dal Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra, l’accostamento in questo
passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità” sembra diretto a far pensare
che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo e l’avversione alla
dittatura fascista da parte del movimento di liberazione abbiano per Geymonat
una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in Bausola, Bedeschi
et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza. Geri
Cerchiai 4 to per la prima volta nel 1935 con il titolo Nuovi indirizzi della
filosofia austriaca), fu significativamente fatto uscire con la medesima data
di stampa del giorno della Liberazione di Milano; e in quello stesso mese di
aprile apparve il primo numero della rivista «Analisi» che, come si è
accennato, contribuì fra le prime, con la pubblicazione del frammento
intitolato Filosofia e scienza, alla diffusione dell’epistemologia colorniana9.
Ed è proprio da una lettura di «Analisi» e «Sigma» che è possibile
sommariamente inquadrare il contorno di quel periodo storico al quale si deve
la prima scoperta dell’epistemologia colorniana. Voluta da Giuseppe Fachini,
«Analisi» fu stampata per cinque numeri fino al 1947, mutando il nome, nel
corso delle pubblicazioni, in quello di «Analysis». L’«esperienza personale che
io avevo fatto», racconta Fachini circa la nascita della rivista, mi aveva
convinto della necessità di una piattaforma di incontro interdisciplinare.
Allora in Italia mancava qualcosa di simile. La guerra spezzò agli inizi i miei
tentativi. Gli eventi bellico-politici stessi, per conto loro, mi portarono a
profonda solidarietà mentale con Gratton. Nasce così l’idea di «Analysis»: con
ambizioni editoriali infantilmente dissonanti col momento. Trovammo poi nel
Buzzati-Traverso un biologo “fisicalista” ma aperto ad ogni esperienza. Tra i
filosofi professionali (a formazione cioè tradizionalmente
filosofico-letteraria) Banfi, cui mi ero rivolto, mi indica l’allievo suo
Preti, come fornito di interessi e preparazione fisico-matematica, allora rara
nel filosofo. Per inciso, ricordo i miei contatti con un altro filosofo con
preparazione e interessi analoghi: C. I temi portati avanti dalla rivista
furono sostanzialmente due: l’interesse per la metodologia delle scienze –
attraverso la quale indagare la possibilità di un fondamento comune alle
diverse discipline – e la volontà di mantenersi all’interno di un’impostazione
strettamente antimetafisica. La collaborazione fra 8 In «Rivista di filosofia».
Cfr. C., Filosofia e scienza, in «Analisi». D’ora innanzi si indicheranno gli
scritti raccolti in questa edizione col solo titolo seguito dal numero di
pagina. Di «Analisi» e «Sigma», con specifico riferimento alla figura di C., si
è occupato M. Quaranta, La scoperta di C. nelle riviste del secondo dopoguerra.
Gli scritti sulla relatività, in Cerchiai e Rota (a cura di), C. e la cultura
italiana fra le due guerre, Manduria-Bari-Roma, Lacaita. “Analysis”:
testimonianza di Fachini, in Analisi. Milano, riletta da Quaranta, con
testimonianze di Fachini, Ceccato, Geymonat, Gratton, Poli, Bologna, Forni. Aggiunge
Fachini, a proposito della sua formazione, che l’impulso a uno sforzo collettivo
interdisciplinare era sorto in me dai primi contatti con l’ambiente mentale del
neopositivismo logico», ma che la soluzione positivista, verso cui ero in un
primo tempo quasi costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per
l’irrigidimento formale, verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si
affermava nel Programma pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un
luogo di libera discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di
metodologia e di critica della scienza, nello sforzo di purificare ed
universalizzare il linguaggio Cinque scritti metodologici di C. 5
scienziati e filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della pubblicazione, ma
fu anche d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue diverse anime,
concorrendo in definitiva alla conclusione dell’esperienza. L’incontro con i
fondatori e la rivista, racconta a questo proposito Ceccato, avvenne per
chiamata gentile. Io mi trovavo in parabola positivistica o logico-empiristica
discendente. Il filone che comincia ad interessarmi era ormai piuttosto quello
di Bridgman e Dingler, comunque un filone operativo. Questo difficilmente
avrebbe permesso una intesa con i filosofi del gruppo, Geymonat e Preti. Una
collisione non poteva tardare anche con il più aperto filosofo ufficiale, Banfi,
più storico, più umanista. Un certo divario di lavoro si venne a creare anche
con gli scienziati in quanto per lo scienziato di discipline assestate e
floride, come la fisica, la biologia, l’anatomo-fisiologia, etc., la
metodologia si può aggiungere come ornamento, come divertimento. Ma non per me.
Così terminate le pubblicazioni di «Analisi», la sua eredità venne raccolta, in
quello stesso anno, dalla rivista romana «Sigma», fondata da Somenzi e Giuseppe
Vaccarino. Il periodico – che riporta il sottotitolo di «Conoscenza unitaria» –
si propone di riunire, come si legge nella seconda di copertina, una limitata
quantità di elementi atti a determinare una concezione unica della conoscenza. La
nota di presentazione della rivista precisava poi i confini all’interno dei
quali si intendevano muovere i curatori: «si va facendo evidente che esaurire
la scienza nel tecnicismo dello specialista è dannoso – non solo ai fini della
costituzione di un sistema unitario della conoscenza scientifica, ma anche nei
riguardi degli stessi progressi tecnici nei singoli settori. Da qui
specialistico verso una comune impostazione dei modi fondamentali, pur essi
comuni, con cui si edifica e modifica il sapere scientifico». Unico limite, in
tal senso, era quello di non «travalicare di là dalla metodologia in una
sistematica della scienza [per] fare della metafisica insaputa e inutile» (Il
programma, in «Analisi»). “Analysis”: testimonianza di Ceccato, in Analisi.
Milano. In una lettera a Vaccarino, Somenzi rilegge la storia di «Sigma»:
“Sigma” è nata con la modesta intenzione di pubblicare il vecchio materiale
tuo, di C. e Cotone, mio. E di esaurirlo coi primi numeri. Poi si è visto che,
se non altro dato il costo della carta e stampa, conveniva pubblicare un
tentativo di sintesi organica, sia pure provvisoria, del tuo – e limitare
quello dei due C. e mio a ciò che può avere ancora interesse dal punto di vista
filosofico. Infine è sorta l’idea, con la crisi di “Analisi”, di prenderne il
posto con il programma serio di Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri
ci alienerà le simpatie dei Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei
Filiasi e Geymonat (l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla
possibilità di una nostra conversione al materialismo dialettico/razionalista
tipo “La Pensée”). Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito,
Savinio e stop» (“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di
Fisica, Fondo Somenzi, Attività professionale, Carte di lavoro non organizzate,
Collaborazione con Vaccarino, b. 1, Vaccarino. Da ora in avanti, il Fondo sarà
abbreviato con la sigla “FS”, seguita dall’indicazione dei riferimenti completi
d’inventario. La conoscenza unitaria, in «Sigma». Scriveva Vaccarino a Somenzi
riguardo a questa nota. Rileggendo la tua edizione riveduta della conoscenza
unitaria penso che possa andare come presentazione anonima, specie se sarà
da Geri Cerchiai 6 avrebbe anche dovuto discendere il ruolo della ricerca
metodologica, che – comprendendo un discorso più largamente critico-filosofico
– avrebbe dovuto fissare le norme dirette ad unificare in sistema le scienze
particolari o la conoscenza in genere. Come «Analisi», anche «Sigma» ha però
vita breve, e dopo sei numeri una nota editoriale ne annunciava la confluenza
nella rivista «Methodos». Questo fu dunque lo sfondo culturale che vide nascere
l’interesse per la filosofia colorniana, un interesse che, attraverso la
pubblicazione di alcuni testi del filosofo milanese, richiamava alla
ricostruzione della filosofia empiristica italiana (come la proposta del
ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione anti-metafisica e
anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento negli orientamenti
teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di Colorni fosse in certa
misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e «Sigma» è testimoniato,
oltre che dalle singole scelte di politica editoriale delle due riviste, da
quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con precisione», ha
scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le conversazioni di
quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza personale, che C. sia
stato tra i primi italiani di preparazione filosofica a tentare di accogliere e
di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni epistemologiche. La più
gran parte dei suoi saggi sono inediti: molte pregevoli cose egli ha lasciato:
e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di «Analisi» auspicano di poter
far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a vantaggio della ricerca
metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a sua volta, scrivendo a
Vaccarino della pubblicazione degli scritti colorniani su «Sigma», afferma: Per
Sigma convinciti che i nostri scritti, incomprensibili per virtù proprie dalla
maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente “condannata” e che quelli
di C. sono ancora i migliori che potessimo o possiamo esibire, oltre che i più
vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica e filosofia” di Colornimerita
senz’altro la pubblicazione sul numero che spero di riuscire a dedicare a
questo argomento19. Rievocando poi il Progetto di una rivista di metodologia
scientifica – da C. discusso fra gli altri con Ludovico Geymonat durante gli
anni della guerra – ante ulteriormente ampliata. Effettivamente rileggendo il
mo testo subito dopo averlo scritto non avevo avuto una buona impressione. Ma
ora mi è piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza
scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino. La conoscenza unitaria. Cambi,
Razionalismo e prassi a Milano, G. Fachini, C., in «Analisi». Si tratta di C.,
Critica filosofia e fisica teorica. Lettera di Somenzi a Vaccarino. Alcuni
inediti riconducibili a tale progetto sono presentati in M. Quaranta, La
scoperta di C., cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di FS destinati
alla rivista metodologica. Saggi metodologici di C. 7 cora Somenzi ha sottolineato come esso
corrispondesse «nella sostanza a molte realizzazioni degli ultimi quarant’anni,
da riviste come “Analysis” a collane di volumi di filosofia della scienza e di
storia della scienza quali quelle impostate a Milano e Torino dallo stesso Geymonat
e da Rossi. A partire da queste premesse, appare evidente come la storia della
riscoperta colorniana nel dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni
fondamentali aspetti dello stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia
difatti la novità di prospettiva e la conseguente, connaturata disposizione a
dialogare coi più avanzati ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò
che tuttavia rende affatto esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare
di essa un importante «contributo alla comprensione del travaglio della
filosofia italiana al momento del declino della preponderanza idealistica, non
è soltanto la particolare modalità della sua ricezione, ma anche la complessiva
parabola intellettuale seguita dal giovane studioso per giungere alle posizioni
metodologiche degli ultimi anni. C. è allievo di Borgese e Martinetti a Milano.
Nel raccontare della formazione universitaria di c., Tagliacozzo scrive. Va
ricordata l’influenza che sui suoi studenti ha allora una personalità come
quella di Borgese, che C. e compagni
chiamano scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non
disdegnano allora di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri
studenti. Altra influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero
Martinetti che spiega Kant alle otto del mattino. Martinetti avvia gli studenti
al rigorismo dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano,
discute di estetica e letteratura comparata. I debiti con l’insegnamento di
Borgese, d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso C., che in un suo
curriculum universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato
specialmente di problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese,
ho redatto lavori su L’estetica d’Ardigò.
21 V. Somenzi, C. filosofo della scienza, in «Filosofia e società», Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23
Tagliacozzo, L’uomo C., in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo nella
pagina seguente: «Martinetti […] indusse [Eugenio] ad approfondire Kant, amò
Spinoza dopo la prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in quegli
anni non lesse Croce e Gentile, ma specie Croce? […] Eugenio conobbe Hegel, ma
non fu mai hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma non fu mai
marxista. Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti l’influenza
borgesiana nell’approfondimento dei problemi estetici – si indirizzò verso
Leibniz» (ivi, p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo italiano,
L’estetica bergsoniana e L’estetica di Benedetto Croce. Quest’ultimo studio è
stato pubblicato più tardi a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24. Più
complesso, e forse maggiormente studiato, è il rapporto di Colorni con Piero
Martinetti, col quale l’autore si laureò nel 1930 su Sviluppo e significato
dell’individualismo leibniziano. Il primo, fondamentale impulso
all’approfondimento di Leibniz; l’introduzione alla filosofia di Kant; il
rifiuto del metodo dialettico; l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa
organizzazione del nesso fra individuale ed universale, sono elementi che
stringono C. al magistero martinettiano e che risultano fondamentali per la più
generale formazione del filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi presente
l’esigenza di individuare il corretto rapporto fra l’analisi della realtà e la
sua organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui parabola
all’interno della propria maturazione intellettuale sono così descritte, ne La
malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum vitae di Colorni,
s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in Gerbi, Tempi di Malafede. Guido
Piovene ed Eugenio Colorni. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra,
nuova edizione Milano, Hoepli. Cfr.: C., L’estetica di Croce. Studio critico,
Milano, La Cultura; Id., Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di
Carlo Rosemberg; per una storia di questa pubblicazione rinvio ad Vigorelli,
Antifascismo: il caso di “Pietre”, in Eugenio Colorni e la cultura italiana, a
cura di G. Cerchiai e G. Rota, cit., pp. 251-266); lo scritto sul bergsonismo è
tuttora inedito. È lo stesso C., ne La malattia filosofica, a raccontare come
si svolgevano, durante le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali è
nato ad esempio lo studio su Croce. All’università si dà continuamente
battaglia contro Croce. Ogni settimana, uno studente sale sulla cattedra per
discutere coi compagni e col professore. Salire anche lui su quella pedana, gli
piacerebbe tanto: ma per che dire? Tenterà, ad ogni modo» (C., La malattia
filosofica). Sul rapporto fra C. e Borgese rimando a Riosa, Borgese e C. tra letteratura e politica, in Cerchiai e Rota,
C. e la cultura italiana. Nello stesso periodo nel quale si laurea C., altri
due allievi di Martinetti, Barié e Gadda, venivano indirizzati dal maestro allo
studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di esempio, quanto lo
stesso Martinetti scrive a Gadda: «Se fra tre o quattro anni Ella potesse
uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere concorrenti in
questo argomento!) la via dell’università (per storia della filosofia) Le
sarebbe aperta» (Lettera di Martinetti a Gadda; in Martinetti, Lettere a Gadda,
a cura di Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani», Cfr.
anche: Cerchiai, Due inediti di Emanuele su Leibniz, in «Rivista di storia
della filosofia»; C. lettore di Leibniz, in C. e la filosofia italiana. Si veda
la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco sopra. Per il clima nel quale
poteva essere riletto Kant durante le lezioni martinettiane (con particolare
riferimento alle vicende relative a C.), si rimanda a S. Gerbi, Tempi di
malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche citazione dirette di C. presenti nel
libro sull’estetica crociana rinvia proprio allo scritto di Martinetti
intitolato Il metodo dialettico (in «Rivista di filosofia), là dove Colorni
scrive: «perché, per quale forza o per quale principio questa implicazione dei
contrari debba presentarsi quasi come una generazione dell’uno da parte
dell’altro, è difficile a intendersi. Perché si deve dire che il Non-io, il
quale è, per la sua stessa definizione, inseparabile dall’Io, sgorga, si
svolge, si origina da esso? Che il particolare nasce dall’universale?» (C.,
L’estetica di Croce). Cinque scritti metodologici di C.. Il problema che lo
occupa è sempre il posto, la collocazione delle facoltà nel mondo dello
spirito. A un certo punto, gli balena la possibilità che questi elementi di cui
cercava con tanto accanimento l’ordine e la collocazione, non patiscano alcun
ordine: possano vivere così, separati, paralleli, autonomi. L’idea lo
entusiasma. Gli sembra di avere ora fatto veramente un passo innanzi. E non
pensa più tanto a definire e a ordinare, quanto a descrivere. Ma questo
procedere dovrà pure avere una sua giustificazione teorica, dovrà pure inquadrarsi
in una visione del mondo, avere un suo nome che termina in -ismo. Pierino
[alter ego di C.] si butta sui pluralisti, sugli empiriocriticisti: studia Mach
e Avenarius, si addentra nel labirinto di Leibniz. Su queste basi, si può dire
che quello che altrove ho definito il “problema dell’ordine” divenga, talvolta
anche solo per contrasto, uno dei fili conduttori dell’intera riflessione
colorniana: impostato fin da L’estetica di Benedetto Croce, esso cercherà una
prima, instabile sistemazione nella filosofia di Leibniz, per trovare poi nella
rilettura metodologica ed epistemologica del criticismo kantiano una soluzione
– o, come potrebbe dirsi: dissoluzione – affatto originale. Al fine di seguire
il movimento del pensiero di Colorni da questo punto di vista, può essere utile
rileggere le parole dell’autore stesso. C., La malattia filosofica; cfr. anche
ibidem, n. 19 del curatore. Di Leibniz dirò in seguito, in questo stesso
paragrafo. Per quanto riguarda l’accenno agli empiriocriticisti, si rimanda a quanto
scritto da Guzzardi, il quale, esaminando precisamente la radice dei
riferimenti colorniani a Mach, Avenarius e Schuppe, ne ha riconosciuto
l’origine proprio nell’insegnamento di Martinetti. C., spiega Guzzardi, trova una
valutazione positiva di questo pluralismo, nonché delle filosofie
dell’esperienza di Schuppe, Avenarius e Mach, nell’Introduzione alla metafisica
di Martinetti. D’altra parte, M. indirizza allo studio di Mach, Avenarius e
Schuppe, un allievo, Pelazza. Tali circostanze, secondo Guzzardi, fanno
ritenere», insieme con altre che dovrebbero essere approfondite, che
l’interesse originario di C. per l’empirio-criticismo sia da collegare a
Martinetti e Pelazza (L. Guzzardi, Lo specchio della natura. C. e la cultura
del suo tempo, in C. e la cultura italiana, a cura di Cerchiai e Rota).
Prosegue Guzzardi. Non solo Schuppe e Avenarius vengono citati da C. nella
recensione all’Introduzione alla metafisica. Qui si trova pure accennato fra i
meriti di Martinetti quel concetto di esperienza pura e obiettiva che egli
sembra indicare come via di uscita dalle difficoltà in cui il pensiero moderno
si trova impigliato” – e l’esperienza pura [reine Erfahrung], attorno a cui
Pelazza ha costruito la propria presentazione dell’empirio-criticismo, aveva
costituito il punto d’approdo della filosofia di Avenarius. La recensione
Sull’“Introduzione alla metafisica” di Piero Martinetti si trova nell’edizione
Einaudi degli scritti colorniani. A tutto ciò si può aggiungere che C. accostò
all’empirio-criticismo anche la filosofia di Croce. L’individualismo del Croce non
è necessariamente in contrasto col suo idealismo: risolve piuttosto il
principio dell’auto-coscienza – che è essenziale all’idealismo – in una
coscienza del pensiero nella effettualità del suo pensare; identifica il punto
di partenza soggettivo col suo necessario correlato oggettivo, l’universale col
particolare. In questo senso si avvicina piuttosto a forme di contingentismo e
di empirio-criticismo; e in questo senso appunto è giustificabile il suo
tenersi al dato e partire da esso: in quanto questo dato non può essere inteso
che come uno stato d’animo, un’esperienza che debba essere vissuta
intensamente, e da cui si debba trarre a volta a volta l’assoluto. C.,
L’estetica di Croce. Cfr. Cerchiai,
L’itinerario filosofico di C., in «Rivista di storia della filosofia, Cerchiai.
Nel libretto su Croce, il problema dell’ordine è inquadrato a partire dalla
questione del rapporto fra la «soprastruttura» 30 dialettica del sistema e
l’effettivo valore delle singole osservazioni: «Ciò che sta sotto
l’organizzazione esteriore», scrive Colorni, è nel crocianesimo il vero
sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e ricco di molteplici
possibilità. Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura in gran parte
insoddisfacente è il compito che s’impone a chiunque viva quel pensiero come
un’esperienza della propria vita. E seguirne la possibilità di sviluppo anche
di là dalla forma che ha dato a se stessa, ci pare il miglior omaggio che si
possa rendere a una filosofia31. Se il “metodo individualistico” così
identificato nella filosofia di Croce conduce Colorni a liberare le singole
osservazioni «dall’interpretazione che Croce stesso ne ha data allo scopo di
adattarle ad un suo schema presupposto di organizzazione», per cercare di
«renderle di nuovo pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse» un sistema «non
imposto in precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi forniti»32, non
può stupire l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese per il secondo
dei suoi “auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz. Quest’ultimo, infatti,
pare offrire precisamente la possibilità di chiudere in un circolo coerente
l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione sistematica del tutto.
Scrive C. Leibniz non parte mai con l’intento esplicito di costruire un
sistema. La sua attività filosofica si presenta a tutta prima come una grande
raccolta di prese di posizione particolari. Eppure il sistema non manca in
esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi si mostrano a poco a poco
connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si giustificano e confermano
a vicenda […]. Il sistema non è una pura esteriorità, un concordanza
sopravvenuta; è anzi l’anima di ciascuno osservazione, attraverso cui tutto si
spiega e si giustifica33. Per tali motivi, Leibniz rappresenta quasi il
contraltare dello storicismo crociano o, meglio ancora, il rimedio alle sue
lacune; «Leibniz», infatti, «differisce [proprio] in questo da altri pensatori,
apparentemente più coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza va cercata al di
là del sistema, nelle varie formulazioni particolari»34: vi differisce cioè per
il fatto che, come si è visto, il suo sistema si C., L’estetica di Benedetto
Croce, cit. Scrive ancora C.: «chi parta dal mondo stesso e, rendendo eterno e
universale ciascun dato di questo, voglia costruire una scienza delle forme
possibili di questa universalizzazione e di qui giungere ad una visione
complessiva dei modi eterni della realtà e delle loro reazioni reciproche, non
pone il sistema all’inizio, come premessa della sua ricerca; ma ad esso
giungerà al termine ideale del suo cammino. Colorni, Nota bio-bibliografica, in
G. W. von Leibniz, La monadologia, preceduta da una esposizione antologica del
sistema leibniziano, a cura di C., Firenze, Sansoni. Il riferimento sembra
rinviare precisamente alla critica della filosofia crociana. Cinque scritti
metodologici di C.11 sviluppa spontaneamente dalle singole osservazioni e
l’insieme si mostra nella sua completezza attraverso il complesso dei suoi
aspetti. E tuttavia, lo scacco della prospettiva leibniziana giungerà a sua
volta quando, muovendo da simili presupposti, Colorni dovrà constatare il
carattere prettamente soggettivo del tentativo di sistematizzazione da quella
realizzato: Leibniz, spiega così C. nel suo ultimo scritto sull’argomento,
applica all’ordine spirituale quella continuità, quel passaggio ininterrotto,
quel procedere da ogni legge ad una legge più vasta, che egli crede di scorgere
come l’essenza più profonda del mondo naturale. Che questa stessa continuità e
questo allargarsi sia, più che una legge della natura, un’esigenza dello
spirito nella considerazione della natura stessa, egli non sospetta36.
L’insuccesso del punto di vista leibniziano consentirà però anche a C. di
schiudere un più libero sguardo, sciolto ormai dai condizionamenti delle
diverse scuole filosofiche, sul criticismo kantiano e sugli strumenti da questo
forniti per lo studio dei meccanismi di funzionamento del pensiero. C. aveva
anticipa le due linee – leibniziana e kantiana – della propria filosofia, là
dove aveva scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà, che la monade
di Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina kantiana, di modo che
l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente, puo coincidere con
la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza reale»37. L’effettivo
passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per Colorni un punto di
svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una vera e propria
«operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa prospettiva sul
mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare le spalle alla
“conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella particolare metodica
ch’egli presenta come conoscenza prettamente scientifica, intesa cioè come padronanza
di un processo. La domanda impossibile (senza senso) della filosofia, spiega
così Colorni, pur nella loro rigida formulazione teoretica, sono sempre
espressione di qualche tendenza, di qualche profonda esigenza dell’animo. La
risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo psicologico mediante cui
la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo, di seguirlo nelle sue
fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà, si risponde fabbricando
animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla domanda se esiste un
mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo non sia uguale a due
angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui tale somma sia
effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che tale geometria
non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto all’altra, essenzialmente
nuova C., Libero arbitrio e grazia nel pensiero di Leibniz, C., Di alcune
relazioni fra conoscenza e volontà. C., Critica filosofia e fisica teorica, C.,
Filosofia e scienza. C., Critica filosofia e fisica teorica; Cerchiai 12 È in
questo contesto, all’interno del quale Colorni ritiene di essere
definitivamente guarito dalla sua «malattia filosofica»41, che vanno collocati
i titoli di seguito trascritti e conservati presso la “Sapienza” Università di
Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. Di tali
scritti, e degli altri pubblicati dalle riviste «Aretusa», «Analisi» e «Sigma»,
è lo stesso Somenzi a raccontare la storia nel già citato testo su C. filosofo
della scienza. 3. La metodologia colorniana negli scritti del Fondo Somenzi
«Nel 1945», scrive difatti Somenzi, comparve sulla rivista «Aretusa» un Ricordo
di C. scritto dall’amico Guido Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due inediti
stimolanti: Il bisogno dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri inediti mi
pervennero attraverso la rivista «Analisi» […], e di questi una parte venne
pubblicata su «Analisi» e sulla rivista romana «Sigma» che ad essa si affiancò per
iniziativa di Giuseppe Vaccarino e mia. Dal carteggio fra Vaccarino e Somenzi
emergono altre importanti informazioni sui dattiloscritti conservati in FS, che
con ogni evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano in reciproca lettura.
Di quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47 si è già reso conto
nel § 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a dire a Somenzi di
sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i C.»; il giorno appresso, e quello
successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto segue: Spero domani di
inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti. Comincerei con i dialoghi
di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di loro un certo legame.
Ieri sera ho riletto i C., che ti rimando tranne l’ultimo, che ti invierò tra
qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero pubblicare in 3 puntate – (La
seconda notevolmente più lunga delle altre 2) – Vi è una quarta puntata
sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato qualche parola a matita
(in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho creduto anche opportuno
evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°, introducendo invece del “fisico
ribelle” il “Curiosus” del secondo n°. L’Apologo ed il Ritorno alla natura
vanno anche benissimo. Forse si potrebbero pubblicare unitamente al terzo
dialogo, che è molto breve. Le idee di Colorni mi sembrano meglio espresse nei
dialoghi che nel capitolo sulla fisica, data la forma brillante 41 La malattia
filosofica è per l’appunto il titolo che C. diede alla sua più completa
biografia intellettuale, già qui ricordata nelle pagine precedenti. 42 V.
Somenzi, C., cit., p. 79. Prosegue poi Somenzi citando di fatto alcuni dei
titoli dei quali si sta qui discutendo: «La rivista doveva contenere articoli
di fondo dedicati a problemi come: il concetto di esperienza, costanti
universali e unità di misura, l’illusione finalistica nella fisica e nella
biologia, l’illusione realistica nella fisica, geometria ed esperienza, l’assiomatica
dei principi della meccanica, l’assiomatica della teoria della relatività e
quella della meccanica quantistica, fisica puntuale e fisica di campo, il
concetto di istinto, la polemica tra meccanicismo e vitalismo, la costruzione
di una economia indipendente da premesse psicologiche. dell’espressione. In
quanto alle opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è
coincidenza con la metaconoscenza, anzi piena opposizione43. Su «Analisi», nel
1947, uscì Filosofia e scienza44, mentre – fra il 1947 e il 1948 – un più
consistente numero di titoli apparve su «Sigma»; si trattava, in particolare,
dei testi seguenti: Apologo su quattro modi di filosofare; Della lettura dei
filosofi; Del finalismo nelle scienze; Dell’antropomorfismo nelle scienze; Sugli
idoli della scienza fisica; Critica filosofica e fisica teorica; Il ritorno
alla natura; Filosofi a congresso45. Oltre a questi – e presumibilmente
appartenenti al medesimo gruppo di testi del quale Somenzi afferma di aver
pubblicato solo una parte – in FS sono conservati altri dattiloscritti, di cui
sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46. I primi tre scritti
appartengono con ogni evidenza al gruppo di testi destinati dall’autore alla
rivista di metodologia scientifica progettata con Geymonat. Questa, oltre a
note di varietà, rassegne e recensioni, avrebbe infatti dovuto ospitare una
sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra i cui titoli C. indica per
l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica delle leggi della meccanica. Il
testo intitolato II: Relatività generale è, come mostrato dalla numerazione
romana, il secondo paragrafo di Sull’assiomatica della teoria della relatività
(anch’esso menzionato nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica),
il quale comincia proprio con l’indicazione di un paragrafo (I) La relatività
ristretta. Tutti e tre i testi fanno riferimento al discorso intorno all’idea
di esperienza che per C. discende dalla scoperta del carattere relativo delle
categorie: «la coscienza che abbiamo acquistato della nostra possibilità di
modificare [i] dati elementari»48 della conoscenza, infatti, costringe secondo
C. sia a riformare i concetti di a priori e di a posteriori, sia a rivedere
coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così C., «non significa
più della ragione. A posteriori non significa più dei sensi. Sia i dati della
ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere rispettivamente del 28 e del 29
gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito all’epistola del giorno
precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947, Vaccarino aveva informato
Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col quale confronta qui gli
scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui rapporti tra la conoscenza
e la religione, il quale in definitiva risultò troppo lungo ed infarcito di
considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò che è meglio direttamente
attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte le lettere sono in FS, sez.
5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, 1942-2003 gen.
28, 135, Vaccarino Giuseppe, 1946-1948. Il “fisico ribelle” è probabilmente il
Fisico che Colorni inserisce quale interlocutore (appunto: quasi come dialogo
nel dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che nella stampa definitiva su
«Sigma» non viene poi effettivamente sostituito dal Curiosus interlocutore di
Dell’antropomorfismo nelle scienze. 44 Cfr. supra, § 1, n. 9. Il testo
comprende parzialmente anche: Sul concetto di esperienza e Intorno al principio
di identità. Cfr. infra, la Nota del
curatore. C., Filosofia e scienza. Cerchiai 14 paiono come elementi in cui il
fattore soggettivo e quello oggettivo si presentano mescolati, ma di cui è in
nostro potere, mediante un procedimento logico e psicologico insieme,
modificare la struttura»49. L’esperienza, a sua volta, «anziché rivelare leggi
naturali», dovrà suggerire, secondo le contingenti necessità degli studiosi,
«determinate forme di definizione e di misura», utili a proseguire nel lavoro
di ricerca scientifica51. Siamo qui di fronte a quel progetto di “liberazione”
della fisica «dalle premesse realistiche-finalistiche» che deve per Colorni
rappresentare non solo «uno degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche
il fine ultimo della sua stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più
lungo e strutturato Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni
teorici. Il nucleo dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale
la «filosofia odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in
mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è
chiaro a tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci
fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del
carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto
di partenza – tutto kantiano – della metodologia di C.. Il criticismo
trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che
«la curiosità di vedere al di là del velo di Maja delle categorie si è fatta
sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza
scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti»
da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo,
decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura:
«La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica
filosofica e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è,
quello reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero
diverso dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e
stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene
all’atteggiamento filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che
assicuri tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche
cosa che lo sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento
scientifico] muove invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del
secondo passo della rivoluzione copernicana. Il primo era consistito
nell’accorgersi che le leggi della realtà non sono che forme del nostro
intelletto. Il secondo consiste nel domandarsi se queste forme siano proprio
necessarie ed immutabili e irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene
perciò il «nostro potere di modificazione che si riferisce sia agli oggetti
della nostra ragione, sia a quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria
definisce gli oggetti su cui opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce
quei medesimi oggetti mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere
a determinati fenomeni naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa
libertà nella scelta degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze
implicite nella scelta di quelle particolari definizioni; libera però di mutare
le definizioni, qualora le conseguenze non la soddisfacessero. C., Sul concetto
di esperienza. Cinque scritti metodologici di C. 15 nel domandarsi se siano
irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel
tentare senz’altro di scioglierle53. In tal modo, spiega C. al termine di
Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla
prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è
una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di
nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla
consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione
è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che
proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54. L’ultimo testo qui
trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come
Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a
Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione
dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo
stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56. Lo scritto prende spunto da
argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una
sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura
dell’indagine colorniana. L’«appartenenza professionale», dice C. all’amico
Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già [C., Critica filosofica e fisica teorica,
pp. 227-228. 54 Ivi, p. 234. 55 Racconta Altiero Spinelli nella sua
autobiografia, ben descrivendo non solo la genesi dei Dialoghi di Commodo, ma
anche l’atteggiamento di Colorni nelle discussioni: «Parlavamo ogni giorno
delle cose più varie, di politica, di geometria non euclidea, di nostri
compagni di confino, delle nostre letture, delle nostre storie personali, dei
grandi della storia, ma sentivo che [Eugenio] stava sempre attento a scoprire
un qualche mio coperto punto malato, che egli avrebbe messo in luce, curato e
guarito – poiché la vocazione del guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue
[…]. Mi affascinava la precisione quasi infallibile con la quale scopriva il
punto errato di un ragionamento, il punto equivoco di un atteggiamento, il
momento retorico di un’espressione […]. Talvolta uno di noi, ripensando la sera
alle parole scambiate durante il giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel
quale diceva la sua e immaginava quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il
dialogo aveva un seguito, scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A.
Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Bologna, Mulino). 56 Gli
pseudonimi principali utilizzati negli altri dialoghi sono i seguenti: Severo è
Altiero Spinelli, Manlio Rossi-Doria è Modesto, Ursula Hirschmann è Ulpia. Così
scriveva Ferruccio Rossi-Landi alla Hirschmann. Penso che i tempi stiano maturando per un’edizione in
volume degli scritti lasciati da C.: come sono maturati, dopo tanti decenni,
per la ripresentazione ai lettori italiani di quelli diVailati, che fu studioso
per tanti versi affine ad Eugenio e che, rimasto quasi sepolto fin da prima
della Prima Guerra Mondiale, ricomparirà ora presso Laterza e presso Einaudi su
mia iniziativa». RossiLandi faceva poi riferimento alle pubblicazioni di
«Analisi» e «Sigma». Ho potuto prendere visione della corrispondenza relativa
ai diversi tentativi di pubblicazione degli scritti filosofici di C. (prima
presso l’editore Laterza e poi per la Feltrinelli) grazie alla cortesia di
Renata Colorni, che ancora conserva una parte del carteggio e che qui debbo
ringraziare per la sua disponibilità. 57 Esso va dunque letto insieme a Dello
psicologismo in economia, pubblicato nella ed. Einaudi alle pp. 322-342. Per
una più precisa contestualizzazione dei frammenti economici colorniani cfr
infra, la Nota del curatore. Cerchiai 16 pubblicati da «Sigma»
nell’immediato dopoguerra, «comporta un legame così stretto con la scienza e un
interesse così diretto ai vari problemi particolari in cui la ricerca si
articola momento per momento, che è difficile avere la possibilità di
riprendere in esame i problemi iniziali e i principi fondamentali da cui si è
partiti»58; proprio per questo, secondo Colorni, i «dilettanti e gli outsider»,
sono forse maggiormente in grado, attraverso l’esercizio di un «tranquillo,
pacato, spregiudicato esame dei punti di partenza e delle definizioni
iniziali»59, di «sconvolgere dalle fondamenta tutto l’edificio del proprio
sapere»60. Certo, dovendo rispondere all’accusa di «presumere di rivedere i
principî di tutte le scienze, senza averle mai praticate»61, lo stesso C. – che
alla scienza è giunto passando per la filosofia – parla in qualche modo pro
domo sua. E tuttavia, egli va anche a puntualizzare, in tal modo, il «arattere
pragmatistico del proprio pensiero, il quale deve giocoforza confrontarsi con
le più differenti discipline scientifiche. In Commodo a Ritroso, C. riprende
questi medesimi argomenti, insistendo però con maggior vigore su quello spirito
d’indipendenza – indispensabile ad un proficuo sviluppo dell’opera scientifica
e filosofica – il cui significato teorico è già stato indagato in Programma.
Scrive C.: «Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e
passivo, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sbagliate e confuse,
sfondando porte aperte ad ogni passo […], desideroso di scontri e di
battaglie». Emerge qui, accanto alla consapevolezza di un metodo teorico ormai
chiaramente precisato, una componente particolare del carattere del giovane
filosofo: quella irrequietezza, ironicamente descritta ne La malattia
filosofica, che contribuisce a rendere conto della stessa, febbrile attività
politica colorniana. Essa rivela una vivacità intellettuale che si mostrò
sempre incapace di fermarsi ai risultati volta per volta raggiunti e che,
trascorrendo dai primi studi storico-filosofici a quelli metodologici degli
ultimi anni, viene a costituire l’anima, per così dire, anche dei
dattiloscritti colorniani conservati nel Fondo Somenzi. C.,
Dell’antropomorfismo nelle scienze. Com’è noto, e a dispetto della sua
formazione umanistica (lit. hum.), Colorni si cimenta direttamente nella
ricerca fisica, con particolare attenzione alla teoria della relatività. Cfr.
nello specifico i titoli seguenti: Unités de misure et relativité; Le
trasformazioni di Lorentz come caso particolare e Deduzione del campo
elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e uniforme. 63 E.
Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore I testi di
Colorni in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati per la
composizione a stampa, spesso con indicazione del corpo e della impaginazione
da utilizzarsi. Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione «a penna»
talvolta riferita ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla
opportunità o meno della pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo
più di fronte a trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove
diversamente segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di
pagina – in Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare
le eventuali sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza
ulteriore indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli
interventi a penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS
conserva la conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni
in volume. Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in
FS sono conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso
di Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul
concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica
della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti
nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di
esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da
creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da
inserirsi dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle
leggi della meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti
due ulteriori scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a
Commodo: meno compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume
di prossima uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in
economia, pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva,
anche grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Rossi-Landi,
la genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si limiterà dunque ad
integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello psicologismo in
economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato È possibile
costruire una scienza economica indipendente da premesse psicologiche e
sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di metodologia
scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue dall’inizio del
dialogo fino al terzo capoverso: «[…] sarebbe una differenza di grado e non di
natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito dopo il primo e
termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non troppo sul serio»),
è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così scriveva Silvio
Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le carte di Colorni.
Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere al dialogo fra
Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella parte del
dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi sembra,
che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo però
sapere, che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività professionale,
1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e
progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos (Ceccato). Il
terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. C., Dello psicologismo in economia),
rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18 clusione del dialogo.
Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo – come si evince dai
numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il dialogo già iniziato in
quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia; Commodo a ritroso è la
risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è l’«accluso foglietto»
menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai testi sono tutte del
curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli, Responsabile del Fondo
Vittorio Somenzi, e Libutti, Direttrice della Biblioteca del Dipartimento di
Fisica (“Sapienza” Università di Roma), per la disponibilità e cortesia che mi
hanno dimostrato durante la consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque scritti
metodologici 19 II. Relatività generale1 Se vogliamo estendere quanto si è
detto per la relatività ristretta3 al caso di sistemi in movimento qualsiasi4,
il problema della relatività generale diverrà quello di determinare le misure
spazio-temporali per un osservatore in movimento qualsiasi rispetto ad un
sistema inerziale nel quale valga la geometria euclidea. La determinazione di
tali misure sarà fatta di nuovo assumendo come fissa la distanza fra due punti5,
e come costante la velocità della luce. In linea generale risulterà che la
geometria tridimensionale del sistema in questione non sarà euclidea. Viceversa
dovrebbe essere dimostrabile che se le misure assunte da un osservatore col
metodo di cui sopra, danno luogo ad una geometria non euclidea, si potrà sempre
trovare un sistema i cui punti siano mossi rispetto all’osservatore in
questione in modo tale che la sua geometria sia euclidea. In tale sistema non
vi sarà alcun campo gravitazionale. Una tale impostazione del problema
differisce un poco da quella classica della relatività generale. Non si tratta
qui di trovare una formulazione delle leggi di natura che sia invariante
rispetto a trasformazioni qualsiasi, e quindi di attribuire ad ogni sistema la
geometria richiesta dal campo gravitazionale in esso vigente, ma piuttosto di
trovare le trasformazioni che permettono di passare da un sistema ad un altro
qualsiasi6, avendo assunte per tutti i sistemi determinate convenzioni7
riguardo alle misure spazio-temporali; e questo senza fare alcuna ipotesi
riguardo alla forma delle leggi naturali. 1 FS, sez. 3, Attività professionale,
serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti
editoriali, Sigma Analysis, b. 6, Articoli, Il titolo è cancellato nel
dattiloscritto, così come è barrata la numerazione “5” (a penna) della pagina,
numerazione che, insieme con quella romana, segnava il foglio come seguito di C.,
Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta (cfr.
la Nota del curatore), del quale lo scritto è il secondo paragrafo. 2
All’inizio del dattiloscritto sono inserite a penna delle virgolette basse
(chiuse al termine del terzo capoverso), che spiegano l’intervento del quale si
rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è a Sull’assiomatica della teoria
della relatività, che infatti è numerato: La relatività ristretta. A penna è
stato qui aggiunto: «prosegue C.». 5 Cfr. E. Colorni, Sull’assiomatica della teoria
della relatività. Anziché assumere come unità di misura fondamentali una
lunghezza […] o un intervallo di tempo […] per poi dedurne le altre grandezze
cinematiche […], si potrebbe assumere come unità primitive la distanza fra due
punti dati e la velocità di propagazione di un dato fenomeno». 6 Si tratta qui
precisamente dell’idea di revisione del concetto di esperienza in relazione a
quello di definizione che costituisce uno dei nuclei del programma metodologico
colorniano. 7 Sono molti i riferimenti di Colorni al carattere convenzionale
della scienza e delle sue definizioni. Riporto, per il suo carattere
“generale”, quanto affermato nella Postilla al programma della rivista di
metodologia scientifica (in M. Quaranta, La “scoperta” di C., cit., p. 130):
«Si tratta, in breve, di partire da una concezione “convenzionalistica” o
“idoenistica” della scienza; non limitandola però, come fa in sostanza la
scuola di Vienna o anche il Gonseth, alla interpretazione filosofica dei fatti
scientifici; applicandola invece ai concetti basilari su cui poggia l’edificio
della scienza, e mostrando come un chiarimento rigoroso delle ipotesi che sono
implicite nell’assunzione di tali concetti possa trasformare effettivamente e
rendere più chiare molte formulazioni scientifiche, e forse risolvere alcuni
dei problemi più scottanti della scienza moderna». C. 20 Formulando in questo
modo il problema, si giungerebbe probabilmente alle medesime conclusioni della
relatività generale riguardo alla gravitazione; ma la nuova impostazione
permetterebbe forse di aggredire in maniera diversa da quella consueta altri
problemi (in particolare quello dell’elettromagnetismo). Non si tratterebbe più
in questo caso di formulare le leggi del campo elettromagnetico in forma
invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, ma di rendersi ragione della
loro struttura, studiando sistematicamente il comportamento di cariche in
movimento, mediante “Transformation auf Ruhe”. Questo saggio si riferisce a
studi ancora in corso e ben lungi dalla conclusione8 ). 8 L’ultimo capoverso è
barrato a penna nel dattiloscritto. L’inciso fra parentesi riprende quello
analogo – non riportato nelle edizioni dei testi colorniani, ma presente nei
dattiloscritti di FS – posto al termine di Sull’assiomatica della teoria della
relatività. I.- Relatività ristretta, il quale recita nel modo seguente:
«Questo saggio si riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo sviluppo qui
descritto viene eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte
organizzate da Vittorio Somenzi, Scatole grigie 1942-2000, 1, C. e Cotone, b.
3, Colorni). Sull’assiomatica delle leggi della meccanica. Il principio
d’inerzia è notoriamente una definizione camuffata. Esso definisce come non
soggetto ad alcuna forza il corpo dotato di movimento uniforme; quindi come
soggetto ad una forza il corpo dotato di movimento non uniforme. È possibile
considerare i principi della conservazione della quantità di movimento e
dell’energia come delle estensioni del principio d’inerzia, cioè anch’essi come
delle implicite definizioni della forza? Crediamo di sì. Consideriamo infatti
un sistema di due corpi. Diremo che il sistema non è stato sottoposto
all’azione di alcuna forza, non solo quando i due corpi proseguono nel loro
moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando hanno modificato tale loro moto
dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere rimasto immutato nel sistema non sarà
dunque più il moto dei due corpi, ma una funzione di tale moto; funzione che si
tratta di determinare, ponendole delle condizioni derivanti da esigenze
plausibili. Anzitutto si può richiedere che il mutamento provocato dall’urto
nello stato di moto di uno dei due corpi sia misurato dal mutamento provocato
dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che ciò che rimane costante nel
sistema sia la somma delle funzioni in questione riferite a ciascun corpo.
Individuato poi ciascun corpo mediante una costante caratteristica di esso (la
sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento provocato in un corpo
successivamente da due altri corpi di uguale massa e uguale velocità, sia
identico al cambiamento provocato da un corpo di massa doppia e di uguale
velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione dovrà essere della
forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in questione deve poter
esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della velocità di ciascun corpo,
sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni in questione devono cioè
essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine si osserverà che, poiché
due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema inerziale lo sono pure
rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, la costanza delle nostre funzioni
deve essere invariante rispetto a trasformazioni di Lorentz. Tutte queste
condizioni limitano la scelta delle nostre funzioni in modo da determinarle
univocamente; e ne risultano le espressioni relativistiche della quantità di
movimento e dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2, il quale parte
però da premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono avere
un’importanza per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge alle sue
espressioni dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle
equazioni di Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo
sperimentale di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività
professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole grigie, 1, C. e
Cotone, Nel dattiloscritto, le pagine riportano la numerazione, a penna in
rosso, da 6 a 7 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e la Nota del
curatore). Langevin e un fisico francese che, non diversamente da Eddington –
altro autore colorniano e griceiano – fu abile divulgatore scientifico. disponga
di una definizione dell’energia e della quantità di moto. Inoltre, quando si
siano definiti i principi fondamentali della meccanica indipendentemente
dall’elettromagnetismo, rimane aperta la possibilità di dedurre le leggi stesse
dell’elettromagnetismo servendosi di alcuni risultati della relatività, e raggiungendo
così una più profonda comprensione di quelle leggi. (Anche questo articolo si
riferisce a studi in corso, di cui la prima parte, riguardante la relatività
ristretta e l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere troppo
tecnico per la rivista4.) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli scritti
colorniani sulla teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La
“scoperta” di C. sulla teoria della relatività. Per l’inciso fra parentesi,
cfr. supra, II. Relatività generale. La rivista è la progettata rivista di
metodologia scientifica, sulla quale si rimanda ancora a quanto scritto supra,
§ 3. Cinque scritti metodologici 23 Geometria ed esperienza1 Gli assiomi della
geometria sono delle definizioni implicite, o meglio rappresentano delle
limitazioni imposte alla nostra libertà di definire gli oggetti ai quali essi
si riferiscono. Tali oggetti però possono essere di due tipi: o sono tali che
per ottenerne una rappresentazione concreta è necessario immaginarli realizzati
da un fenomeno fisico (p. es. la linea retta realizzata dalla traiettoria di un
raggio luminoso nel vuoto); in tal caso la definizione implicita negli assiomi
è una definizione “reale” (Zuordnungsdefinition2 ), e gli assiomi limitano il
numero degli oggetti o dei fenomeni che possono essere assunti per realizzare
fisicamente quel determinato ente geometrico. Oppure l’ente geometrico in
questione è tale da poter essere definito mediante un’opportuna combinazione di
altri enti precedentemente definiti (p. es. l’angolo uguale ad un angolo dato
può essere definito senza ricorrere ad alcuna sovrapposizione, quando sia stata
definita precedentemente la distanza fra due punti); e allora gli assiomi
limitano il numero degli accorgimenti che noi possiamo usare per definire quel
determinato ente geometrico. Agli scopi della costruzione fisica di un sistema
galileiano, è opportuno distinguere questi due tipi di definizione; e può
essere utile studiare da questo punto di vista le “Grundlagen” di Hilbert3. Non
è detto che si possa sempre trovare un insieme di fenomeni fisici capaci di
realizzare contemporaneamente tutti gli assiomi di una geometria. Per esempio,
se si vuol realizzare la geometria mediante raggi luminosi assunti co1 FS, sez.
3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 2,
Scatole grigie,1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3, C., 1945-1993. Numerato
a penna 8 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e Nota del curatore). Il
titolo è anch’esso sottolineato a penna con l’indicazione: a mano. A margine,
scritto a matita in rosso e cancellato, alcune segnalazioni per il tipografo:
«Corpo 10/10 tondo // Giustezza 27». Scrive Colorni in Filosofia e scienza. Ora,
mentre la geometria definisce implicitamente gli oggetti di cui tratta,
mediante gli assiomi, la fisica li definisce direttamente, mediante definizioni
reali (Zuordnungsdefinitionen). Con queste parole, Colorni richiama il concetto
reichenbachiano di Zuordnungsdefinition, per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik
der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig, Vieweg & Sohn Akt.-Ges., 1924; Id.,
Philosophie der Raum-Zeit-Lehre, Berlin- Leipzig, W. de Gruyter & Co. In
una lettera firmata da Hirschmann (ma in realtà scritta da Colorni) e
indirizzata a Geymonat per il tramite della moglie Virginia, l’autore afferma
di possedere il primo dei due titoli, e a questo rinvia per la comprensione del
proprio pensiero. Noi abbiamo qui l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik
der relativistischen Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista
molto affine a quello che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata
nel Fondo Geymonat presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di
Milano, è citata da M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale
commenta: «Ora, se è rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori,
letture kantiane sviluppate in quegli anni da Cassirer e Reichenbach, in Italia
da Preti, vanno nella direzione di accogliere la fecondità del “metodo
trascendentale”; le indagini epistemologiche di Colorni si inseriscono in questa
linea di ricerca. Questo capoverso, da Agli scopi fino a Hilbert, è cancellato
a penna nel testo dattiloscritto. Il riferimento è ai Grundlagen der Geometrie
(Fondamenti della geometria) di Hilbert. me rettilinei e di velocità di
propagazione uniforme, non è detto che risulti verificato l’assioma di Euclide;
e questo assioma, se è verificato per il sistema costruito da un determinato
osservatore, necessariamente non è verificato per il sistema costruito da un
altro osservatore, dotato rispetto al primo di movimento non uniforme. Cinque
scritti metodologici Programma1 Supponiamo che l’uomo viva in un palazzo le cui
porte sono tutte chiuse. Egli non ha le chiavi. Cioè egli ne possiede un
mazzetto, ma non sa se esse si adattino alla serratura, né quale chiave a quale
serratura. Prova, riprova, si costruisce nuove chiavi nella continua speranza
di potere un giorno abitare tutto il palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale
è riuscito di aprire una porta. Una chiave, per sua fortuna, o per sua abilità,
ha girato nella toppa. Egli apre, e trova nella camera immensi tesori, li
utilizza3, li mette a disposizione degli altri uomini che lo ringraziano
ammirati. Da quel momento4 la camera è accessibile a tutti. Entusiasmato, lo
scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di
grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte5. La chiave comincia a diventare uno
strumento pericoloso nelle sue mani. Egli la vuole usare dappertutto. Il
risultato è che sfonda le serrature. Ci vorrà6 poi una gran fatica per
accomodarle e per trovare o costruire una nuova chiave che permetta di aprirle
(Fuor di metafora: p. es. la medicina è stata rovinata per secoli
dall’ossessione del metodo meccanicistico, che aveva fatto meraviglie nel campo
della fisica. E si è voluto risolvere tutto a base di anatomia, di rapporti e
di modificazioni di tessuti. Nella maggioranza dei casi non si è cavato un
ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa fa? Egli non ha avuto la fortuna o
l’abilità di aprire una porta, ma anche lui è preso dall’ossessione di aprirle
tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con un’altra di sua fattura. La sua
ossessione è forte, meno pericolosa10 che quella dello scien1 FS, sez. 3,
Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929-
2000, 2, Scatole grigie, 1, C. e Italo Cotone, b. 3, Colorni. Nel
dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue: «SCIENZA E
MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere
materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato
così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota
manoscritta: «(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito
di Colorni, in Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna:
«Corpo 10 tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta
spesso – nella forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle
quali esso risulta per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le
differenze fra le diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta
esplicitato le correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS
rimanda al testo presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello
dell’edizione Einaudi. Benché sia barrato, e per consentire una più chiara
identificazione, si è preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua fortuna,
o per sua abilità FS: per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi tesori, li
utilizza FS: immensi tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E. 5 lo
scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di
grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte FS: lo scienziato vorrebbe aprire
tutte le porte E. 6 le serrature. Ci vorrà FS: le serrature, ma ci vorrà E. 7
di aprirle (Fuor di metafora FS: di aprirle. (Fuor di metafora E 8 Il filosofo,
invece, FS: Il filosofo invece, E aprirle tutte. Con la chiave FS: aprirla con
la chiave E. 10 è forte, meno pericolosa FS: è forse meno pericolosa E. Eugenio
Colorni ziato, ma più intensa. Per lo scienziato essa è necessaria
accessoria11. Il massimo sforzo è già stato compiuto12 nel trovare la chiave.
Il tentativo di allargamento è spesso solo abbozzato. Il filosofo, invece, è
tutto fatto di questo bisogno. Egli è abbastanza accorto per avvedersi che il
correre da una parte13 all’altra con la medesima chiave si risolve in un danno
e in un disordine. Egli vuole soddisfare alla sua esigenza in un modo
sistematico, che non lasci residui. La sua ossessione è che il palazzo sia
completamente abitabile, aperto in tutte le camere, dai saloni ai ripostigli.
Che cosa fa per soddisfarsi? Si costruisce un palazzo a suo uso e consumo,
simile il più possibile a quello vero, in cui tutte le serrature siano apribili
con una sola chiave, o con le varie chiavi che ha a sua disposizione. Lì si
rinchiude; lì15 gli sembra di vivere tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta.
In poco tempo crolla. Le camere sono identiche a quelle dell’altro palazzo, ma
sono vuote. Il poterle aprire non dà all’uomo maggior ricchezza e maggior17
potenza. A volte avviene che nel lavoro di costruire, al filosofo venga fatto
di scoprire o inventare una chiave nuova, che gli altri uomini possono usare, e
provare nelle varie serrature. In questo caso egli sarà ammirato e studiato
solo per questa invenzione fortuita o strumentale, che nelle sue intenzioni non
doveva essere che un dettaglio del grande edificio. E il grande edificio
scompare. Dopo un secolo nessuno ci crede più, nessuno può più abitarvi dentro.
Lo si considera come un bel rudero, come l’interessante documento di un’epoca;
lo si apprezza per un certo impulso che indirettamente, nei coi suoi contorni,
ha dato alle lotte e alle ricerche dell’umanità. Gli storici, gli esegeti,
cominciano a scuoterlo per vedere se, non potendosene più servire in blocco,
non si trovi del buono fra il materiale della costruzione. E cominciano a
distinguere “ciò che è vivo e ciò che è morto” e a manipolare il sistema ai
propri fini. Ne risulta che ogni pensatore viene, di regola, apprezzato dai
posteri per motivi che egli non avrebbe immaginato e che sono estranei alle sue
intenzioni fondamentali. Quello che egli aveva creduto il suo vero apporto alla
cultura e alla civiltà viene considerato inutile. Il dispendio di energie è
enorme. Vediamo gli uomini più intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro
sforzi per raggiungere mete che andranno poi completamente perdute; e 11
necessaria accessoria. FS: accessoria, sopraggiunta. E. già stato compiuto FS: già compiuto E. parte FS: porta E. 14 sola chiave, o con FS:
sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS: Là si rinchiude, là E. 16 di
cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS: di cartapesta, non di mattoni veri. In
poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17 ricchezza e maggior FS: ricchezza o
maggior E. scoprire o inventare FS: trovare E. 19 possono usare, e provare
nelle varie FS: possono usare nelle varie E. 20 rudero FS: rudere E. 21 nei coi
suoi FS: nei suoi E. scuoterlo FS:
smontarlo E. ogni pensatore viene, di regola, apprezzato FS: ogni pensatore
(come spesso anche ogni poeta) viene di regola apprezzato E. 24 immaginato e
che FS: immaginato, e che E. Cinque scritti metodologici: 27 siamo costretti a
racimolare con fatica alcuni residui del loro lavoro. Nella25 scienza le cose
sembrano andar meglio. Siamo per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono
piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta, la potenza
dell’umanità ne è stata infinitamente aumentata. Ma se la porta non si apre?
Dai Greci al Rinascimento, per duemila anni, gli uomini si sono affaccendati a
costruir26 chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di cartapesta. Ma nessuna
porta dell’edificio vero si è aperta ai loro sforzi. Da Galilei e Bacone27 in
poi, alcune sembrano cedere. Una, quella28 del meccanicismo fisico si è
addirittura spalancata. Ma quante restano ancora chiuse[!]?29 Quale sarà per
esse la chiave giusta? L’abbiamo già in mano o dobbiamo ancora costruircela? E
come sfuggire alla continua tentazione di usare per ogni porta quella che ha
fatto una volta buona prova, col rischio di rovinare tutto? La filosofia
odierna, anziché costruire bei palazzi di cartapesta, dovrebbe proporsi il
compito di affacciarsi a questi problemi, e tentare di mettere un certo ordine,
allo scopo di evitare sforzi inutili e raggiungere risultati il più possibile
concreti. Dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i
criteri di ricerca, i metodi d’indagine coi quali noi affrontiamo il reale e
cerchiamo di renderlo utile ai nostri usi. Criteri che, ormai ciò è chiaro a
tutti, trasformano31 radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa
scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato. Ciò che noi chiamiamo
realtà è evidentemente condizionato non solo dai nostri sensi, ma da tutto
l’insieme delle forme, delle categorie, dei criteri associativi e
interpretativi senza dei quali non ci è possibile di pensare e di percepire
alcunché. Criteri che noi potremo studiare, scomporre, modificare; senza però
poter mai uscire dal campo di un’attività del soggetto costitutiva della realtà
stessa. Noi34 non possediamo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alcun
nesso mezzo per eliminare il sole lato35 soggettivo della nostra nozione della
realtà; anzi abbiamo seri elementi per propendere a ritenere che la nozione di
una realtà oggettiva, da noi indipendente,36 sia un’ipostasi della nostra
mente,37 do25 A capo in E. costruir FS: costruire E. Da Galilei e Bacone FS: Da
Galileo a Bacone E. Una, quella FS: Quella E. 29 Chiuse[!]? FS: chiuse! E. 30
d’indagine a penna nel testo FS: ermeneutici E. che, ormai ciò è chiaro a
tutti, trasformano FS: che – ormai ciò è chiaro a tutti – trasformano E. Queste righe, e quelle immediatamente
successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia colorniana,
ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo «dalla
grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240), essa
dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per eliminare
il sole lato a mano nel testo FS: alcun mezzo per eliminare il polo E. 36
oggettiva, da noi indipendente, FS: oggettiva da noi indipendente E. 37 mente, FS:
mente E. Eugenio Colorni vuta ad un
nostro fondamentale bisogno di contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci
contro qualche cosa, di polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un
passivo ed un attivo. Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo
realtà non è dunque né l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione
del quale il soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte
e41 che noi, per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di
fronte a noi, coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa
cui partecipiamo noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano
di manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere
il suo divenire, di costruire in base alle previsioni. A seconda che si
accentui il carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo
un “penetrare nelle leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un
certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla
natura” o un “farle violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma
questa distinzione riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non
la sua conformazione, i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che
c’interessa qui di indagare per contribuire al progresso dell’umanità46. Lo
scienziato non conosce concretamente un problema del carattere pratico e
teorico47 della sua attività. Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che
lo spinge alla ricerca sia il “bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso,
o la speranza che gli uomini possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli
si dedicherà secondo la sua attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura
o più vicino alle applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione
costituiscono un tutto unico di cui solo per comodità di studio e per la
necessità della divisione del lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta
si considera come la naturale, evidente premessa dell’invenzione:51 l’invenzione
come la conseguenza della scoperta. L’antitesi positivismo-pragmatismo non ha
senso per lo scienziato, e non moVedi Fichte (Trascendenza interna) FS: (Vedi
Fichte, Trascendenza interna) E. Su questo aspetto della metodologia
colorniana, si legga quanto affermato da Ferruccio RossiLandi, che rileva fra
l’altro, negli scritti colorniani, la presenza di «quel disimpegno dalla
visione realistica del mondo […] che è merito della migliore critica
idealistica, soprattutto negli sviluppi dell’attualismo» (Sugli scritti di
Eugenio Colorni, in «Rivista critica di storia della filosofa né l’oggetto né
il soggetto FS: né il soggetto né l’oggetto il soggetto, a mano nel testo FS: l’uomo parte
e FS: parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura un certo numero di
elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS: un “estrarre dalla natura un
certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio”; E. 44 “un
cedere FS: un “cedere E. 45 violenza”, e FS: violenza”. E E. 46 per contribuire
al progresso dell’umanità FS: per raggiungere risultati utili e teorico FS: o
teoretico sé FS: se E. 49 dedicherà secondo la sua attitudine ad FS: dedicherà,
secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua mente ricerca FS: Ma, nella sua
mente, ricerca dell’invenzione:
dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica in nulla il suo agire.
Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della
quale sono elementi costituenti alcune “forme” e “categorie” che provengono
dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e
afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne considera alcune come
appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di fuori di sé. Quali sono?
Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato, di cui non può in alcun
modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe impossibile vedere e pensare. Kant
ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo, causalità, numero ecc. Egli ha
riconosciuto sì che esse vengono imposte alle cose dallo spirito dell’uomo; ma
col dare ad esse un carattere necessario ed a priori, ha ammonito gli uomini
sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti gli uomini comuni, senza
preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi del fatto che di quelle
categorie non si può fare a meno, le attribuiscono senz’altro alla realtà. Ma
l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive; e la curiosità di vedere al
di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta sempre più intensa. Si può
dire che la filosofia si sia scissa a questo proposito in due opposte
direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia stato seguito o no. Fra
quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno continuato a considerare le
categorie come reali, e a lavorare in un mondo costruito sulla base di queste
categorie, contentandosi a volte di mantenere nello sfondo l’ombra di un
inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di acquisire coscienza della
relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito della scienza alla
costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré, pragmatisti). Su
questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di successi,
proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era cominciato
con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di quelle categorie
che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo l’impressione che il campo
stia per esaurirsi e che non restino da fare in questa direzione se non
scoperte particolari di importanza ristretta. I filosofi invece, insofferenti
di qualsiasi dualismo o relativismo, e preoccupati di saldare l’unità del
reale, preferiscono eliminare la tentazione del52 A capo in A capo in E. 54
impossibile FS: assolutamente impossibile E. elencato FS: elencate E. spazio FS: Spazio E. numero
ecc. FS: numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS: filosofico scientifico E.
60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS: no. (I) Fra quelli
che l’hanno seguito (a) gli scienziati E. categorie, contentandosi FS:
categorie; contentandosi positivisti),
oppure FS: positivisti); oppure E. sforzi, limitando FS: sforzi; limitando E.
64 Newton, e FS: Newton e di FS:, di I filosofi invece, FS: (b) I filosofi, invece,
E. Eugenio Colorni 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura l’esistenza; e attribuire
realtà assoluta al pensiero nella sua forma universale68. In tal modo essi
soddisfecero contemporaneamente all’esigenza Kantiana69 di non uscire dalle
leggi del pensiero e al bisogno tipicamente filosofico di risolvere senza
residui il problema della realtà; incuranti d’altronde se questo loro sistema
li conducesse o no a un qualsiasi risultato apprezzabile che non si limitasse
alla soddisfazione del loro bisogno di completezza. Coloro invece71 che “hanno
disubbidito” sembrano a tutta prima disprezzare l’ammonimento di Kant e
trascurare i limiti da lui posti: ma in realtà sono essi suoi figli molto più
che gli ubbidienti. Quel limite, quella barriera appunto li ha eccitati ad
andare al di là: ha indicato loro la direzione verso cui rivolgersi
Cominciamo74 questa volta dai filosofi. a) - Il filosofo vuol gustare il frutto
proibito. Ma egli sa oramai che non potrà mai raggiungerlo con le categorie, con75
le quali Kant gli ha indicato così chiaramente i limiti. Egli abbandona per
sempre le illusioni della metafisica e della teologia, cioè i tentativi di
afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed76 è alla
continua ricerca di un altro strumento che gli permetta di raggiungere il suo
scopo. Volontà, fede, intuizione, ispirazione: in una parola l’irrazionale è
ciò cui egli si affida. Ad esso egli attribuisce tutte le possibilità che
mancano alle categorie della ragione. Con esso egli afferma di poter aprire tutte
le porte del palazzo. Ma che garanzie gli dà la nuova chiave? Semplicemente di
non essere79 la vecchia. Ogni interpretazione irrazionalistica del mondo, là
dove non consista in esplosioni di entusiasmo, è una polemica contro
l’impotenza della ragione. Polemica spesso acuta e giusta, ma che non
costituisce un motivo bastante per accettare come criterio definitivo tutto ciò
che ragione non è. Le80 esplosioni d’entusiasmo81, invece, sono a volte più
interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di penetrare, sia pure in modo
confuso, nella costituzione interna di queste attività irrazionali; di
conoscere un po’ meglio quali siano i loro procedimenti. Ciò che ha paralizzato
però tale indagine e non le ha permesso di dare finora se non scar e FS: ed E. Evidente
riferimento all’idealismo nei suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS: kantiana E.
70 se FS: che E. 71 Coloro invece FS: (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS:
disubbidito”, E. appunto FS: appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con
FS: categorie delle E. 76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà
assoluta con gli strumenti della ragione; ed FS: teologia – cioè i tentativi di
afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola
FS: parola, E. 78 A capo in E. essere FS:
esser E. A capo in E. d’entusiasmo FS: di entusiasmo E. Cinque scritti
metodologici: 31 sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state
descritte appunto col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un valore
assoluto, molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale ha
naturalmente deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria indagine
sull’uso che di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare. Anche qui
la fretta di chiudere il circolo e il bisogno filosofico di rinchiudersi in un
edificio abitabile in tutte le sue parti ha impedito di compiere qualsiasi vero
progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della realtà si sono
succedute l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna conquista stabile.
È questo un fenomeno che si ripete da secoli; ché la constatazione delle
insufficienze della ragione e il tentativo di affidarsi ad attività irrazionali
non data da Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la nostra civiltà. E la
massa di esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non ordinata, pure
imponente; e dà l’impressione di una grande miniera inesplorata85 in cui il
materiale prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad uno stadio di evoluzione
e di sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo della ragione. Il
materiale della ragione è stato esplorato a fondo, inventariato, ordinato dal
pensiero greco e dalla scolastica. Con Galilei e Newton ha trovato il campo cui
applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati che conosciamo. Kant infine88 ne
ha tracciato i limiti segnando insieme (forse un po’ in anticipo) l’esaurirsi
della miniera dal89 quale esso traeva ricchezze. Il campo dell’irrazionale
probabilmente comprende regioni infinitamente più vaste che quelle della
ragione, contenenti materiale dal carattere più eterogeneo, atto agli usi più
disparati. Il fatto solo che siamo abituati a classificarlo secondo la rubrica
negativa del “non rientrare nella ragione” ci mostra lo stato disordinato delle
nostre conoscenze al proposito. Ordinare questo mondo in modo che ci possa
servire, analizzarlo con mente tranquilla e senza preconcetti entusiasmi od
avversioni, liberarlo dal continuo incubo del confronto con la ragione ed
infine tentare se alcuni dei dati così ottenuti ci possono90 servire come
criterio per risolvere qualche problema, come chiave per aprire qualche porta:
ecco il compito che s’impone oggi alla nostra indagine91. Va92 da sé che i
metodi da usarsi non saranno i medesimi che si sono usati per il mondo
razionale: e che l’ordine ottenuto non assomiglierà neppure da lontano a quello
che noi conosciamo nel campo logico-matematico. La parola 82 risultati, FS:
risultati E. raccogliendo è, FS: raccogliendo, è, E. 84 imponente; FS:
imponente: E. 85 inesplorata FS: inesplorata, E. 86 unito FS: misto E. 87 A
capo in E. 88 Kant infine FS: Kant, infine, E. dal FS: dalla possono FS:
possano Nietzsche», afferma C. in Critica filosofica e fisica teorica aveva
indicato, con acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo seguì col pacato
distacco dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al metodo
psicoanalitico. Di seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non vuole
avere qui che un significato analogico. Si tratterà di attingere nel mondo
stesso dell’irrazionale per trovare in esso dei punti intorno a cui quella
materia possa coagularsi e offrirci dei punti di appiglio per essere da noi
usata. Sarebbe assurdo e avventato dare qui direttive e indicazioni. La
riuscita di questo lavoro dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo
compie, dalla sua capacità di servirsi liberamente di esperienze fatte in altri
campi senza lasciarsene suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua
facoltà di combinazione. Il risultato massimo sarà di mettere l’umanità in
possesso di una o più nuove chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o,
se preferite, di costruire nuovi sistemi di concordanze che si offrano al
nostro uso e ci permettano di soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo
scienziato che dalla messa a punto kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al
di là delle categorie, non s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che
non offre, finora, alcuna presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora
imperniata completamente sul razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai
secoli scorsi di compiere le grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed
il superamento che egli vuol compiere non98 è un superamento di principio,
trasportandosi di un salto in un mondo completamente diverso, ma graduale,
volta a volta seguendo le esperienze che non sono giustificabili mediante le
leggi finora conosciute. Egli non si domanda quale sia la realtà assoluta che
si cela agli occhi degli uomini dietro il velo delle categorie; ma piuttosto
come sia possibile apprendere e organizzare il materiale secondo categorie che
siano diverse da quelle finora usate. In questo senso egli è molto meno
realista che il del filosofo idealista o mistico o che lo dello scienziato
positivista. E in questo senso si può quasi dire che egli porti una conferma
sperimentale, se non alla necessità a priori delle categorie kantiane, almeno
alla dottrina kantiana delle categorie. Lo scienziato di regola non ha letto
Kant. dei FS: quei E. campi senza FS:
campi, senza E. concordanze FS: concordanza E. E. logico-matematico, che FS:
logico-matematico che compiere non FS: compiere, non E. di un FS: d’un E. e FS: ed E. che il del FS:
che il E. 102 che lo dello FS: che lo E. Proprio in questo comune punto di
arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e fisica teorica trattando delle
diverse forme della filosofia e della epistemologia postkantiane, «in questa
medesima esigenza, in questa eguale preoccupazione di raggiungere una base
stabile cui si possa attribuire un valore obbiettivo, tali diversi modi di
procedere riconoscono forse tra di sé quella parentela di premesse e di fini
che permette loro di attribuirsi il nome comune di filosofia. La scienza, al
contrario, e precisamente perché figlia della rivoluzione kantiana, rifiuterà
al contrario di operare secondo il criterio delle affermazioni di verità per
muoversi attraverso un procedimento di composizione e scomposizione della
propria materia. sperimentale, se FS: sperimentale se E. 105 Kantiane FS:
kantiane E. Kantiana FS: kantiana E. Cinque scritti metodologici. Ma
l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa della categoricità del
reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova esperienza
inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale inesplicabilità
alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla ricerca organizzando
ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento deriva direttamente il
tentativo di modificare le categorie e provarle di nuovo, così modificate, sul
metro della interpretazione scientifica. Modificare, ho detto, non abolire. Qui
si mostra la modestia dello scienziato, il suo voler provare una dopo l’altra
le chiavi, il suo volontario limitare il proprio orizzonte. Da quando egli si è
accorto di usare delle categorie nella formulazione delle sue leggi, è
continuamente tentato di provare che cosa avverrebbe se queste categorie
fossero fatte altrimenti. Come si comporterebbero i fenomeni in uno spazio che
non sia quello euclideo? Materia, energia, sostanza, causalità. Che aspetto
avrebbe un mondo in cui queste categorie si presentassero con caratteri diversi
da quelli che hanno finora avuto? L’elemento a priori del reale, divenuto
cosciente nell’uomo, comincia ad eseguire un gioco di spostamenti, di
retrocessioni, di modificazioni tale da trasformare completamente l’immagine
della realtà sulla quale gli uomini lavorano: come un obbiettivo che abbia
imparato ad aprirsi e a chiudersi, a mettersi a fuoco a seconda delle esigenze
dell’oggetto da ritrarsi. E se da un lato si può dire che questo accomodamento
delle categorie viene imposta dalle modalità della ricerca scientifica, cioè
dalle esperienze e dalle osservazioni che non è possibile far rientrare nelle
categorie finora usate (cioè quelle dell’universo newtoniano), d’altro lato è
avvenuto forse che gli scienziati, tratti dalla vaga sensazione di essere sul
punto di crearsi nuovi strumenti per l’apprensione del reale, fossero attratti
appunto da quelle esperienze che dei nuovi strumenti potessero aver bisogno.
L’esperienza non è mai evidentemente qualche cosa di puramente passivo, e vi è
sempre un motivo perché lo sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un
fatto piuttosto che su di un altro108. Comunque se la conformazione delle
singole categorie è stata fortemente modificata dalla scienza moderna, non è
stata modificata, anzi è stata rafforzata la coscienza della categoricità del
reale. Il filosofo può giungere con ragione alla conclusione che le nuove
teorie fisiche non hanno intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi
diremmo che esse hanno tratto da quella concezione le uniche conseguenze che
aprono alla mente umana nuove indefinite prospettive di ricerca. Le quali non
consistono in una vaga e problematica evasione dalle categorie, ma in una
tranquilla accettazione del fatto che non è possibile prescindere da una
“categoricità”. Accettazione che permetta però la continua revisione delle
esistenti. Kantismo e la nozione stessa FS: kantismo e la nozione stessa E. Da
questo punto comincia la conclusione assente nelle precedenti edizioni del
testo. 108 Sulla revisione colorniana del concetto di esperienza, cfr. supra §
3. 109 Colorni non si astiene mai dal sottolineare, nei suoi scritti metodologici,
«quanto vantaggio derivi alla scienza stessa dall’eliminazione del suo
substrato metafisico-finalistico» (C., Del finalismo nelle scienze. Cfr. p.e.
Id., Critica filosofica e fisica teorica. Non c’è miglior propaganda per un
nuovo atteggiamento intellettuale e morale che il fatto che esso si dimostri
una chiave capace di aprire molte porte nel campo della scienza e della
conoscenza». C. 34 categorie; cioè di quelle categorie dalle quali la mente
umana al suo stato attuale non può prescindere. Non è forse inutile precisare
che tale revisione non ha nulla a che fare con quelle discussioni sulle
classificazioni delle categorie di cui i filosofi così spesso si dilettano. Non
si tratta affatto di discutere se le categorie siano dodici o dieci, o quattro
o una. Se il “finalismo” costituisca una categoria a sé o rientri in un’altra.
Se l’“economico” e l’“estetico” siano modi autonomi o meno di considerare le
cose. Non si tratta di organizzare le forme conosciute del pensiero, e
accordarsi su quali si debbano considerare originarie, quali derivate. Il
lavoro da compiersi è molto più profondo e creativo. Si tratta di dare allo
spirito umano la possibilità di vedere le cose in modo completamente diverso da
quello usato finora; di fornirlo di un nuovo senso, mediante il quale egli
possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere problemi finora insolubili.
L’atteggiamento “critico” in senso Kantiano si mostra così come l’ultima fase
di tutta un’epoca e di un modo di prendere contatto col reale. La scienza messa
nella possibilità di prendere piena coscienza non solo dei propri metodi, ma
delle premesse necessarie di ogni sua costruzione, riceve da ciò l’impulso a
superare tale necessità ed a crearsi premesse nuove. Il lavoro che qui compie
lo spirito non ha solo i caratteri di una ricerca intellettuale. Ne fanno parte
alcuni atteggiamenti che possiamo raccogliere sotto il nome generico di morale.
Si tratta di uno sforzo violento contro un modo di considerare le cose cui
tutto ci tiene legati, di tendenze alla liberazione, di salti fuori dal mondo
cui si apparteneva. Si cerca di rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le
cose con occhi diversi, di ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già
fatte. Ci si affida alla fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per immaginarsi
mondi diversi da quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi movimenti di
conversione dello spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al mistico o
all’uomo desideroso di purificazioni o di visio. È questo il tema affrontato
fra l’altro nel dialogo di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo nelle scienze,
là dove C., stabilendo la necessità di rovesciare l’umana tendenza a ricreare
una natura fatta a propria immagine e somiglianza, distingue due differenti
forme di antropomorfismo, a seconda che si sia o meno consapevoli – e si sappia
quindi controllarne i risultati – della nostra impossibilità di prescindere
dalla “categoricità del reale”: il primo antropomorfismo è «una constatazione,
o meglio una necessità, dalla quale non siamo riusciti a uscire, l’altro è
invece una esigenza. Ora io odio le esigenze. Non ho nemmeno alcun motivo di
amare le necessità, ma da queste non vedo alcun modo per liberarci, se non
illusoriamente. Evidente riferimento allo storicismo crociano, su cui Si mostra
qui, in tutta la sua originalità, il senso più profondo che Colorni attribuisce
al kantismo all’interno della storia del pensiero filosofico e scientifico
della modernità. C., Critica filosofica e fisica teorica (p. 206), ove si
sottolinea il carattere essenzialmente morale che caratterizza il primo impulso
alla scoperta scientifica: «alla base di ogni grande scoperta, di ogni
rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista morale; l’abbattimento
di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le pieghe della nostra
anima, di cui è estremamente difficile accorgersi, estremamente doloroso
liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed infantile amore per noi
stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a noi congeniali, di
veder ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò che sperimentiamo nel
nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non devono essere stati
estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la terra rotonda
anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai pianeti, o lo
spazio a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il mistico suole
descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma si ferma solo
ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di ciò che egli
trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione silenziosamente,
spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo punto di vista, è
sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in senso assoluto, ma
usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E per giungere a ciò
escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia di camminare su un
terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di far presa. L’“al
di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un assoluto privo di
categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di essere più vaste, di
comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano, meccanismo anziché
finalismo, probabilità statistica anziché determinazione causale. La validità
delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla maggiore o minore
possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere problemi, di
formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al nuovo modo
di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di esprimere le cose
nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente costretti a ricorrere a
metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del lavoro, nei primi tempi, consiste
nell’escogitare una formula di trasformazione che permetta di passare
agevolmente dai termini delle vecchie categorie a quelli delle nuove. Come le
leggi della prospettiva mi permettono di rappresentare su un piano ciò che ha
un volume nello spazio, così le “trasformazioni di Lorentz” mi permettono di
usare gli strumenti a mia disposizione (calcolo, misura, ecc.) nello spazio
normale, per il nuovo spazio einsteniano; analogamente la psicanalisi tenta di
tra Il dominio della natura è divenuto così il prezzo dell’incredulità. È come
se la grazia venisse a toccare proprio colui che ha cessato di sperarla. Il
coraggio di riconoscersi abbandonato da Dio, di rinunciare ad essere il centro
e lo scopo dell’universo, apre immediatamente l’occhio agli uomini, li
arricchisce d’un immenso patrimonio. A bella posta abbiamo espresso queste cose
in un linguaggio mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni dovute all’ardimento
di un sol uomo, di illuminazioni subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi
brancolava alla cieca, c’è in lui sicuramente la coscienza che una vera grande
conquista conoscitiva è sempre frutto – più che di uno sforzo logico o di uno
sviluppo dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di una
inversione di valori, di una vittoria conquistata contro se stessi e contro ciò
cui con più profondi e tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per
primo un capovolgimento deve anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non
molto diversa da quella che combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di
perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos diceva che non
bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve
pure rinunziare all’idolo di una natura che parli il suo medesimo linguaggio,
di un mondo organizzato in vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo
questa assoluta vuotezza e purità, questa mancanza di anticipazione gli
permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo». L’osservazione
rientra pienamente nell’antirealismo della metodologia colorniana. D’altra
parte, risulta di particolare interesse il tentativo di delineare le
caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove categorie rispetto a quelle
che volta per volta si vanno ad abbandonare. Eugenio Colorni sformare in
termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante tali trasformazioni si
aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo piano; si forniscono
loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere con la nuova
illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a meno di
occhiali, ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto serba sempre
le tracce di ciò, e le etimologie documentano spesso tali mutamenti di registro.
Tale è, presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si veda, fra i
riferimenti colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di esempio, quanto è
dall’autore affermato nel dialogo intitolato Della lettura dei filosofi. La
psicanalisi è una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello
dell’astronomia prima di Copernico, e dell’alchimia prima della chimica. Ha
individuato in modo vago, mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide
generalizzazioni, delle relazioni e dei rapporti finora inosservati. Ha
abbozzato una parvenza di metodo di ricerca: metodo talmente incerto e
malsicuro che il più delle volte conduce a risultati opposti a quelli che si
volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un campo completamente sconosciuto,
e il materiale che sta portando alla luce è di un tale interesse, che il rifiutarlo
solo perché non è stato ancora capace di organizzarsi secondo gli aurei schemi
del metodo scientifico mi sembra il colmo del filisteismo professorale». L’accenno
alla possibilità di una condurre una vera e propria analisi categoriale
attraverso lo studio del linguaggio è forse uno degli aspetti più interessanti
ed originali di queste pagine Cinque scritti metodologici Commodo a Ritroso Vedo
che non sei sazio di facili vittorie. Se il tuo scopo era di dimostrare che tu
sai l’economia e io no, l’hai raggiunto pienamente, a tua perenne gloria e
soddisfazione. Ma se io volessi ritorcere le tue intimazioni sulla mia abilità
nelle scienze di cui mi occupo, ti direi che, con tutta la tua bravura, non sei
stato neppure capace di chiarire il mio dubbio. Non te lo dico, perché sono
sicuro che ci saresti riuscito facilmente, solo che ti fossi occupato di capire
attraverso gli sbagli e le imprecisioni, quello che ho cercato di dire, anziché
limitarti a sfogare a tua rabbia. Se un dilettante o un principiante di teoria
della scienza mi viene a parlare di corpo rigido in un senso errato e diverso
da quello usato dai fisici, io cerco di capire quale concetto egli cerchi di
adombrare dietro al termine improprio; e mi guardo dal cedere alla meschina
soddisfazione di prenderlo in castagna ad ogni parola. Il fare così, con tua
buona pace, si chiama in italiano pignoleria. Io non voglio prendere sul serio
questo tuo modo di discutere che è probabilmente solo una reazione alla mia
aggressività, e il riflesso di arrabbiature prese non in questa ma in altre
discussioni. E non ho ancora perso la speranza di trovare in te un esperto ed
aperto iniziatore ai problemi dell’economia, anziché un geloso e gretto
sacerdote del tempio della scienza. Questo metodo, hai ragione, è supremamente
irritante e presuntuoso; ma a me è molto utile, perché mi permette, fra
l’altro, di appropriarmi i concetti fondamentali con maggiore consapevolezza,
senza subirli, e mantenendo rispetto alle scienze quel certo distacco che è pur
necessario al critico e al metodologo. Una nozione si forma molto più salda
nella mia mente, quando ha resistito vittoriosamente ai miei ripetuti attacchi,
che quando l’ho dovuta imparare dalle pagine di un manuale. 1 FS, sez. 1, Carte
personali, serie 2, Documenti diversi, b. 3, Inediti di Eugenio Colorni. Per la
storia di questo scritto in relazione agli altri dialoghi economici colorniani,
si rinvia alla Nota del curatore. Così si rivolge Commodo a Ritroso in C.,
Dell’antropomorfismo nelle scienze. Mi pare che tu sia un po’ troppo attaccato,
o Ritroso, alle prerogative professionali. Sei proprio sicuro che l’aver
frequentato una scuola ufficiale e aver letto molti trattati, e avere una lunga
consuetudine coi ferri del mestiere, sia una condizione assolutamente
necessaria per capire qualche cosa dei principî fondamentali di una scienza? Non
vi è mai capitato di dover dire a una persona una di quelle cose scottanti,
dopo le quali non si ha più il coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se
voi scegliete il partito di prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno,
mostrandogli comprensione ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di
addolcirgli in tutti i modi la pillola; se farete questo, siete dei volgari
istrioni, innamorati di voi stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci
di comprendere e di amare l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà
inizio per lui a una dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua
gratitudine, la sua ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente
basso e spregevole, apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il
disinteressato, l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare.
Ditegli invece le medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta,
in cui voi avrete almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia
queste verità come veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio
per difendersi, un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite
come falso e malvagio. Il vostro C. Non so se questo possa servire agli
occhi tuoi da giustificazione. Non credere che questo metodo sia in me qualche
cosa di cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima volta, cercando
di analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non mi colpiscono.
Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla matematica; io non
avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto mio quell’ombrello; e
naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e confuso di quello che c’è
già. Il solo punto che non mi è ancora chiaro è quello indicato nell’accluso
foglietto. Mi basta che tu risponda a monosillabi e credo che non ci perderai
più di un quarto d’ora. Da principio mi sono preso una solenne arrabbiatura, e
ti avevo già risposto una lettera piena d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto
insieme a mente più calma, ho visto che in fin dei conti hai tutte le ragioni.
Ma, poiché le tue accuse mi toccano solo in un certo speciale modo, vorrei
spiegarti quanto segue a puro titolo di chiarimento personale: Da uno che si
avvicina ad una scienza che non conosce è giusto di pretendere che lo faccia
“con le ginocchia della mente inchine” pronto ad apprendere anziché a
criticare. Gli s’impone, e ben a ragione, un lungo e silenzioso noviziato, solo
finito il quale gli si potrà accordare voce in capitolo. Tutto questo è giusto
(e lo dico senza la minima ironia). Ma il risultato è che un uomo, di solito,
di questi noviziati ne fa uno solo, e vi resta legato per tutta la vita. Si
specializza in una materia, e da essa non esce, salvo che per excursus curiosi
e dilettanteschi. Ora a me questo non è concesso, giacché i miei interessi più
specifici si rivolgono alla metodologia delle scienze. E dato che mi farebbe
schifo risolvere il mio problema dall’alto, escogitando un paio di criteri
filosofici e applicandoli poi come chiavi capaci di aprire tutte le porte6;
sono costretto ad avvicinarmi a insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in
modo umano, lieve, benefico. Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e
avrà modo di stimare se stesso per non avervi serbato rancore. Nella sua
accettazione ci sarà il senso di fare una conquista, di costruire qualche cosa.
Non vi temerà. Che sia questo il senso del mito di Nereo, l’indovino col quale
bisognava azzuffarsi perché si decidesse a profetare?». Su questa immagine del
mito di Nereo, rinvio ad A. Cavaglion, «Il mio poeta». Colorni, Saba e la
psicoanalisi, in G. Cerchiai e G. Rota, C. e la cultura italiana fra le due
guerre, Cfr. quanto spiegato nella Nota del curatore. Citazione a senso da
Vergine bella, che di sol vestita, dal Canzoniere di Petrarca (CCCLXVI, v. 63).
E. Colorni, Giustificazione, Colorni disprezza coloro che chiamano filosofia
l’aver trovato una formula per interpretare il mondo. La metafora della chiave
è spesso utilizzata da Colorni per indicare precisamente l’errore di scambiare
la ricerca filosofico-scientifica con la scoperta di un criterio esplicativo
unico ed onnicomprensivo. Su tale metafora cfr. anche Programma. ciascuna
scienza, non per esserne genericamente informato, ma con l’impegno di
osservarne con occhio critico gli interni meccanismi e cavarne conclusioni non
genericamente filosofiche, ma che possono aiutare il procedere della scienza
stessa. Se voglio far questo è chiaro che non posso pretendere di sfuggire al
noviziato più severo, in ciascuna delle scienze cui mi avvicino. E non mi sogno
di sfuggirvi. Posso però cercare di rendermelo più piacevole. Il metodo che,
inconsciamente, ho trovato, è questo: Anziché accostarmi a grossi trattati con
fare accogliente e passivo, pronto ad imparare e ad adagiarmi nell’ordine della
loro esposizione, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sballate e
confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, ed inventando ombrelli,
desideroso di scontri e di battaglie. Da ogni scontro esco ammaccato e contuso
(come da questo con te) ma con un’idea più chiara. Ogni knoch out subito mi fa
fare un passo avanti nella comprensione della scienza. Così non evito
naturalmente, lo studio; e della lettura dei trattati non posso certo fare a
meno: ma mi riesce più piacevole leggerli come appassionati combattenti,
piuttosto che come amorosi pedagoghi. A patto, s’intende, di non impuntarsi
mai, e di essere pronto a riconoscere la sconfitta. Laboratorio dell’ISPF. Geri
Cerchiai ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi di Colorni conservati
presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica,
Fondo Somenzi. In essi Colorni espone alcuni dei punti chiave della propria
metodologia, delineando una proposta epistemologica destinata ad essere
riscoperta e apprezzata dopo la caduta del regime fascista, nel secondo
dopoguerra. Carlo Rosenberg. ‘G.
Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Oggettivismo e armonia. - L a filosofia
leibniziana ha ai suoi inizi un carattere nettamente oggettivistico.
Intendiamo 'lire con questo che non si trova al cent ro di essa alcun
pro- blema che riguardi la maggiore o minor validità della nostra
conoscenza delmondo esterno, nè in genere che tratti dei rap- porti fra
conoscente e conosciuto. 11 relativismo che deriva al sofista
dall’osservazione che « l’uomo è misura di tutte le cose » è estraneo a
Leibniz: egli studia il reale in sè stesso, nella sua essenza divina od
umana, secondo le sue leggi razionali o em- pn iene. Egli parte dal dato
di fatto del mondo in tutti i suoi aspetti, che vuole scrutare,
comprendere, ridurre a unità, a formule semplici e facilmente
apprendibili, trasportando nel campo filosofico e metafisico l’atteggiamento
onde i suoi grandi predecessori o contemporanei, Copernico, Galileo,
Newton, ave- \uno improntato la loro indagine del mondo fìsico: un
ten- tativo di visione complessiva, armonica, coerente di tutti i
latti presi a studiare; una ricerca di ipotesi che diano una spiegazione
del tutto, quanto più omogenea e lineare possibile. A un tale
atteggiamento egli si avvicina, piuttosto che a quello di Cartesio, il
quale vuole dedurre il mondo con le sue leggi da un solo principio posto
inizialmente come unico valido. . me ! ltre con la filosofia
cartesiana molti saranno i rapporti di Leibniz nella formulazione e nello
sviluppo dei vari pro- ficui 1 , egli se ne differenzia però
fondamentalmente per la sua concezione essenziale del mondo come un
complesso a sè stante, di cui si debba ricercare un principio
unificatore, e non come qualche cosa di inizialmente problematico, la cui
esistenza e le cui leggi debbano venir dimostrate e dedotte. Se in
que- st'ultimo atteggiamento si vuol far consistere la linea diret-
trice del moderno gnoseologismo e in genere della filosofia mo- derna,
bisognerà dire che da tale direzione Leibniz si discosta, tenendosi
piuttosto per questo riguardo sulla linea del pensiero greco, in un
atteggiamento che potremmo avvicinare a quello di Aristotele.
La filosofia (sapientia) consiste essenzialmente nella co-
noscenza perfettissima della natura. E da che cosa, se non dalla
filosofia, sono dimostrate con tanta evidenza non solo l'essenza e le
funzioni della natura, ma la cura spe- ciale che essa ha per ogni singola
cosa, e il fatto che essa non si è limitata a creare ima volta le cose
dal nulla, ma continuamente le crea e risuscita ? Devo dire che,
quando ebbi compreso tutta la forza di questi ragionamenti, esul-
tai e mi rallegrai per la filosofìa, la quale sembra finalmente volersi
l’appacificare con la religione; con la quale, non per sua colpa, ma per
le opinioni e i giudizi temerari de- gli uomini, o anche a causa di
espressioni e termini mal scelti, sembrava male conciliarsi. Cessino dunque
gli uomini pii e accesi dallo zelo della gloria divina, di aver
timore della ragione; basta che si studino di raggiungere la ra-
gione retta.... E i filosofi, dal canto loro, tralascino di riferire
tutto all' immaginazione e a figure, e di accusare come vanità o
impostura tutto ciò che si oppone a quelle nozioni crasse e materiali,
nelle quali taluni credono di poter circoscrivere tutta la natura.
(Dialogo Pacidius Philalelhi). Questo studio oggettivo della
natura nelle sue leggi, e questo sforzo di una visione unitaria del
tutto, conduce Leibniz a complessi e armonici panorami, in cui fede e
ragione, mondo divino e mondo umano, scienze naturali e scienze
metafisiche si organizzano in un ordine omogeneo. L'arniomo è ciò cui
egli tende con tutte le sue forze di scienziato e di pensatore. Fin dai
suoi anni giovanili, il miraggio di un'armonia univer- sale è al centro
dei suoi pensieri. L fisici dei nostri tempi, ricercando le cause
materiali delle cose, trascurano quelle razionali. E invece la
sapienza dell Autore supremo riluce principalmente nell’aver così
costruito I orologio del mondo, che tutto ne derivasse come per
necessità, per la suprema armonia dell’ universo. Vi è dunque bisogno li
filosofi naturali che non introducano soltanto la geometria nel campo
delle scienze fisiche (dato che la geometria manca di cause finali) ma
rendano anche manifesta nelle scienze naturali un’organizzazione,
per così dire, civile. 11 mondo è infatti come una grande re-
pubblica in cui gli spiriti corrispondono agli uomini liberi (cittadini o
nemici) le altre creature agli schiavi. (Lettera al
Thomasius). In questa su prema armonia tutte le scienze, tutti i
modi di considerazione del mondo si conciliano ed
unificano. Risolvere inizialmente il labirinto del continuo e del
movimento, che avvolge nelle sue complicazioni tutti gli ingegni, è
impresa di grande importanza per stabilire i fondamenti delle scienze e
rintuzzare la vanagloria degli scettici ; per dare una solida base alla
geometria degli indivisibili e alla aritmetica degli infiniti, generatrici di
tanti e così importanti teoremi; per elaborare un" ipotesi
fisica di coerenza universale; infine, e questo è l'essenziale, per
arrivare a dimostrazioni assolutamente geometriche, e finora mai
raggiunte, sull intima essenza del pensiero e sull eternità dello spirito
(1) e sulla causa prima. Di qui sgorgano le fonti della bontà e
dell’equità, del diritto e delle leggi, così chiare e limpide, così
piccole d’estensione e insieme profonde di contenuto, da poter valere
come grandi volumi, e da poter bastare alla soluzione di qual-
siasi problema, con una compendiosita stupefacente per []. CON LA
PAROLA ‘SPIRITO’ TRADURREMO IL TERMINO LATINO “MENS”] chi ne faccia uso, e di
cui il volgo, io erodo, non ha neppure 1’ idea (1).
(Hgpothesis phyaica nova, T /noria motus abstracti, 1671, pref., G. IV
226). A quest’ idea della coincidenza di ogni forma di realtà e
di ogni metodo d’ indagine nella suprema armonia e coerenza della
natura, si riallacciano i progetti, perseguiti da Leibniz lungo tutta la
sua carriera, di un’organizzazione sistematica delle scienze, di un’
Enciclopedia in cui di tutto il sapere si desse una visione complessiva,
concordante e concaten antesi in tutte lo sue parti; progetti, questi,
che richiamano alla Pansofia eomoniana (2) e per realizzare i quali
Leibniz si fece promotore di società scientifiche e fondatore di
accademie. Quest'armonia, però, come si è visto, non deriva in
alcun modo da un concepire tutte le scienze come prodotto dello
spirito umano, quindi soggette alle leggi di esso; essa è l’espres- sione
di una realtà divina oggettiva, a sè stante, con le sue leggi concordanti
e armoniche. La scienza scopre questa unità noi mondo, attraverso lo
leggi dello spirito, che corrispondono, in virtù dell armonia stessa,
alle leggi del mondo. Verità di ragione e di fatto. - Questa realtà
oggettiva può presentarsi sotto due aspetti : come verità di ragione
« verità di fallo ; anno questi i due modi di essere del reale,
retto ciascuno da leggi proprie, ciascuno con proprie
inconfondibili caratteristiche, cui corrispondono poi anche i due diversi
modi di apprensi one del reale: razionale e sensibile. Ecco due
defi- nizioni di questi due tipi di verità, prese da due opere
distan- tissime per data e per argomento: Le verità di
ragione sono necessarie, quelle di fatto sono contingenti. Le verità
primitive di ragione sono (1) Quale sia il significato (lei
termini .j ni adoperati (continuità, indi- visibile, infinito, pensiero,
ecc.), si vedrà in seguito. (2) Giovanni Amos Comenio (1592-1670),
noto principalmente nel campo della pedagogia per la Bua Dì*ìar.tica
Magne r, concepì il sapere come un'or- ganizzazione di ogni elemento
della conoscenza secondo leggi universali (Pansofia), trasformando il
concetto di enciclopedia da quello di una semplice raccolta di dati, a
quello di una sistemazione unitaria dei dati stessi. Leibniz conobbe ed
apprezzò grandemente le sue opero. quelle che io chiamo con nome generale
identiche, poiché sembra che esse non facciano che ripetere la
medesima cosa, senza insegnarci nulla. Esse sono affermative o ne-
gative. Le affermative sono sul tipo delle seguenti: Ogni casa è ciò che
è. e in qualsivoglia esempio A è A, lì è B; io sarò quel che sarò; ho
scritto quel che ho scritto.... Le proposizioni copulative, le
disgiuntive, e altre, sono pure suscettibili di tale identità; e io
considero afferma- tiva anche la seguente: Non-A è nou-A; e
l'ipotetica: se A è non-B, ne segue che A è non-B. Similmente se
non-A è BC, ne segue che non-A è BC.... Vengo ora a parlare
delle identiche negative che sono rette o dal 'principio di con trad
izione (1) o da quello dei disparati. Il principio di contradizione è in
generale il se- guente: una proposizio-ne è vera o falsa. Il che
contiene due enunciazioni vere: l una che il vero e il falso non
sono compatibili nella medesima proposizione, ovvero che una
proposizione non può esser vera e falsa ■ contemporaneamente ; l'altra
che l’opposto o la negazione del vero e del falso non sono compatibili,
ovvero che non vi è via di mezzo fra il vero e il falso; o, in altri
termini, che non è possi- bile che una proposizione non sia nè vera nè
falsa (2). Óra. tutto ciò è vero anche in tutte le proposizioni
partico- lari immaginabili, come: ciò che è A non potrebbe essere
non-A,... Quanto ai disparati , sono quelle proposizioni che
di- cono che I oggetto di un’ idea non è l’oggetto di un’ altra
idea; per esempio, che il calore non è la medesima cosa che il colare,
oppure che uomo e animale non sono la me- desima cosa, per quanto ogni
uomo sia mi animale. Tutto questo si può stabilire indipendentemente da
qualsiasi (1) Leibniz, come molti altri, chiama « principio rii
contradizionc >; quello che dovrebbe essere chiamato più esattamente «
principio di non contra- dizionc ». (2) È questo il principio
che si suole chiamare del «terzo escluso», prova o dalla riduzione
all' assurdo o al principio di con- tradizione, quando tali idee siano
abbastanza evidenti da non aver bisogno di analisi: ma in caso contrario
c’è pe- ricolo d’ ingannarsi: infatti, dicendo che triangolo e tri-
latero non sono la medesima rosa, si cadrebbe in errore: perchè, a ben
considerare, si vede che i tre lati e i tre angoli vanno sempre insieme.
Dicendo che il rettangolo quadrilatero e il rettangolo non son la
medesima cosa, si sbaglierebbe ancora, perchè solo il poligono a
quattro lati può avere tutti gli angoli retti. Tuttavia si può
sempre dire in astratto che il triangolo non è il trilatero, o che
le ragioni formali ( 1 ) del triangolo e del trilatero non sono le
medesime, per dirla coi filosofi. Sono espressioni diverse della medesima
cosa. Taluno, dopo aver ascoltato con pazienza ciò che ab-
biamo detto finora, la perderà infine, e dirà che noi ci divertiamo a
fare frivole enunciazioni, e che tutte le verità identiche non servono a
nulla. Ma un tale giudizio dipeli - derrebbe dal non aver abbastanza
meditato su queste ma- terie. Le dimostrazioni di logica, per esempio,
procedono dai principi dell - identità : e i geometri hanno bisogno
del principio di contradizione nello loro dimostrazioni per as-
surdo. Contentiamoci qui di mostrare l’uso delle propo- sizioni identiche
nelle dimostrazioni degli sviluppi di ragionamento. Segue lo
sviluppo di queste tesi e altre considerazioni sul- I applicazione del
principio di contradizione ai procedimenti logici. Ciò mostra
che anche le pili pine e apparentemente inutili fra le proposizioni
identiche, sono di grande utilità (1) TI tonnine è
scolastico-aristotelico, come del resto tutti i concetti logici di cui si parla
in questo brano. nei procedimenti astratti e generali: e ci può
insegnare che non si deve disprezzare nessuna verità....
Quanto alle verità primitive di fatto, sono le esperienze immediate
interne di una immediatezza di sentimento. (Nuovi
saggi, 1701 segg., IV, 2, § 1). Bisogna avvertire che tutta
l'arte combinatoria (1) si rivolge a teoremi, o proposizioni di verità
eterna, che hanno validità non per arbitrio di Dio, ma per loro
propria natura. Quanto alle proposizioni singolari e per cosi dire
storiche, come p. es. « Augusto fu imperatoredei Romani ». o alle osservazioni cioè
alle proposizioni clic sono sì universali, ma la cui verità non si fonda
sul- l’essenza ma sull’ esistenza, e che sono vere quasi per caso,
cioè per arbitrio di Dio. come p. es. « tutti gli uomini adulti in Europa
hanno cognizione di Dio»; di tali pro- posizioni non si dà dimostrazione,
ma induzione, salvo il caso in cui sia possibile dedurre un’osservazione
da un'altra osservazione attraverso un teorema. A tali osser-
vazioni si riferiscono tutte le proposizioni particolari che non siano
inverse o subalterne di una universale (2). È chiaro da ciò in qual senso
si soglia dire che dell’ indivi- duale non si dà dimostrazione, e per
qual ragione il pro- fondissimo Aristotele abbia collocato nella Topica i
luoghi degli altri argomenti in cui le proposizioni sono
contingenti e le ragioni probabili, mentre il luogo delle
dimostrazioni è uno solo: la definizione (3). Ma quando di una cosa
si deve dire ciò che non si desume dalle sue stesse viscere,
(1) I/artc combinatoria, cui questo passo si riferisce, verrà presa in
considerazione in seguito. (2) Inverse o subalterno di una
universale sarebbero per esempio le prò posizioni particolari dei
sillogismi, le quali hanno sempre carattere ana- litico. (3)
Aristotele tratta nei libri Topici dei «luoghi » (TÓ7tot)o aspetti sotto
i quali ciascuna cosa può venir considerata. Ivi tiene anche conto dei
cri- teri di probabilità, di induzione; mentre la dimostrazione e il
sillogismo venzono trattati nei due Analitici. p. es. che Cristo è nato a Betlemme, nessuuo
potrà arri- vare a tali proposizioni attraverso le definizioni, ma
la materia sarà fornita dalla storia, e i testi sovverranno alla
memoria. (Ara Combinatoria, 1000, G. IV, 69-70). Lo
verità di ragione si fondano dunque su puri principi lo- gici ; quelle di
fatto invece sull’esperienza. Le une riguardano 1 'essenza, le altre V
esistenza-, quelle il necessario, queste il con- tingente. Le
verità di ragione sono analitiche. Esse non tanno ohe svi- luppare ciò
che è già contenuto nelle viscere di ciascun con- cetto, non aggiungono
cioè nulla alla nostra conoscenza delle cose; costituiscono la base del
ragionamento deduttivo. Le scienze che da esse derivano sono le logiche e
matematiche; i principi su cui si fondano sono quelli di non còntradizione,
del terzo escluso, che poi si riducono tutti al principio di
identità. Le verità di fatto sono empiriche. Nelle proposizioni che
da esse derivano il predicato non è, come in quelle di ragione, già
contenuto nel soggetto: vi si aggiunge come qualche cosa di nuovo, che lo
aumenta ed arricchisce, ma che non gli appar- tiene necessariamente per
la sua stessa essenza; la cui presenza deve invece essere concretamente
constatata, sperimentata vol- ta per volta. Ad esse si applica 1’
induzione ; di esse si occu- pano le scienze naturali, quello storiche,
tutte le indagini che partono dal dato concreto e contingente. Si
reggono, queste ve- rità, sul principio di causalità odi ragion
sufficiente. (Ofr. p. 17 ss.). LE VERITÀ di ragione come possibili.
Le v erità di ra- gione hanno dunque su quelle di fatto il vantaggio
della as- soluta certezza e necessità, o dell’ impossibilità del
contrario; esse costituiscono una incrollabile base su cui tutta la realtà
poggia, un punto di riferimento assoluto e infallibile. D’altra parte,
però, hanno una staticità che non permette loro alcuno sviluppo nè
variazione: rimangono immobili nella loro fissità. Le verità di fatto,
invece, sono bensì casuali, contingenti; non dipendono da nessuna legge a
priori ; ma appunto questo carattere di non poter venir dedotte da
principi già conosciuti, quindi di non essere mai dimostrabili, ma
solamente perce- pibili attraverso i sensi, fa di esse lo portatrici di
ciò che è nuovo, imprevisto, mutevole; le pone come l’espressione
della realtà del mondo nel suo concreto divenire. Si potrebbe dire
che le verità di ragione costituiscono l’ordine necessario di relazioni,
di rapporti entro cui tutte le cose avvengono, quasi la cornice, la forma
della realtà: e le verità di fatto il conte- nuto, la realtà stessa in
tutti i suoi particolari. E infatti, le verità di ragione vengono da
Leibniz concepite piuttosto come relazioni che come cose-, il che egli
esprime col dire che le ve- rità di ragione, necessarie, ci dànno la sola
'possibilità delle cose, che non implica ancora affatto la loro realtà
effettiva. Infatti, se ogni possibile, e tutto ciò che ci si può
im- maginare (anche se assolutamente biasimevole) dovesse av-
venire un giorno, se ogni favola o finzione fosse stata o dovesse
divenire storia effettiva, in tal caso non vi sarebbe nuli’ altro che la
necessità e non vi sarebbe nè scelta nè provvidenza.
(Polemica pubblicata nel Journal de# Savants, 1697, G. IV, 341).
Questo mondo delle possibilità, datoci dalle verità di ragione, può
assumere infiniti aspetti, conformarsi in infinite guise, che
rappresentano tutte le forme in cui potrebbe manifestarsi la realtà; la
quale poi concretamente si manifesta in una sola di esse. Ciò che noi
vediamo e sperimentiamo è la realtà d[ fatto, che si svolge e manifesta
entro l’ambito segnatole dai principi della ragione (infatti qualsiasi
fatto concreto non potrebbe de- rogare al principio di non
contradizione). Tali principi però potrebbero inquadrare infinite altre
forme di realtà, diverse da quella di questo mondo, concretamente
esistente. È questo il principio dell’ infinità < lei mondi possibili,
cioè dell’ infinità delle possibilità che sono racchiuse nelle verità di
ragione, schemi logici necessari entro cui si svolge ogni e qualsiasi
realtà. Quando dico che vi è un’ infinità di mondi possibili,
in- tendo che non implichino contradizione, così come si pos- sono
fare romanzi che non si effettueranno mai e che sono tuttavia possibili.
Per essere possibile basta che una cosa sia intelligibile. (Lettera
al Bourguet, 1712, G. Ili, 558). È chiaro quale sia un’ idea vera e
quale falsa. Vera è un’ idea, quando la nozione ne è possibile, falsa
quando implica contradizione. La ]x>ssibilità di una cosa. poi. la
co- nosciamo a priori o a posteriori. A priori, quando risol- viamo
una nozione nei suoi elementi, cioè in altre nozioni di riconosciuta
possibilità e sappiamo che in esse nulla vi è di contradi ttorio...; a
posteriori quando sperimentiamo at- tualmente resistenza della cosa:
infatti ciò che esiste o è esistito attualmente, è senz'altro possibile
(I). E ogni qual- volta si ha una conoscenza adeguata, si ha la
conoscenza della possibilità a priori; condotta poi l'analisi a termine,
se non si manifesta alcuna contradizione, la nozione è certamente
possibile. (i Meditai iones de Cogitinone, Ventate et 'de in, 1684,
G. IV, 425). Alle verità di ragione c di fatto corrispondono anche
i due modi di conoscenza razionale e sensibile. Ma quelle verità
ap- partengono anzitutto - all'ordine oggettivo del reale. In
questo senso si deve intendere l’opposizione di Leibniz alle idee
chiare e distinte poste da Cartesio come criterio delle verità di
ragione. Tale criterio non consiste per lui in una qualsiasi
evidenza conoscitiva, ma nella possibilità e non contradizione.
Egli [Cartesio] aveva posto come criterio della verità la nostra
percezione chiara e distinta. Cioè, la verità del fatto che il circolo
sia la figura di massima area con dato perimetro non sarebbe secondo lui
altrimenti ricono- scibile se non attraverso la chiara e distinta
percezione che noi abbiamo ili tale sua proprietà. E se Dio avesse
con- formato la nostra natura in modo che noi avessimo chiara e distinta
percezione del contrario, il contrario sarebbe vero. Questa è la sua
opinione, che io non approvo punto. E non è assolutamente vero quel suo
principio metafìsico universale, che di tutte le cose che pensiamo o di
cui ragioniamo sia necessariamente in noi l' idea, p. es. del po-
li) Oiòsignilìca che resistenti) deve rientrare nelle leggi della
possibilità, ma cho queste leggi possono anche andare molto al ili fuori
dal campo dell’attualmente esistente. ligono di mille lati o
dell'ente sommamente perfetto: prin- cipio col quale, come armato dello
scudo di Achille, egli disprezzo non senza arroganza tutti coloro che
dubitarono delle sue dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Con tale
argo- mento, egli avrebbe certo potuto facilmente far sì che in noi
fosse anche 1' idea di cose impossibili, p. es. del movimento sommamente
veloce; fra le quali cose impossibili, coloro che vogliono opporsi alle
sue dimostrazioni porranno anche l'ente sommamente perfetto, lo so, per
parte mia. clic altro è l'ente sommamente perfetto e altro il
movimento sommamente veloce: ritengo però che i ragionamenti di
Cartesio siano imperfetti, e che chi li voglia condurre a compimento, vi
debba aggiungere molto di suo. (Frammento del 1077 (1), 0. IV,
271-5). Dio e i,e verità di ragione e di fatto. - Con queste
af- fermazioni, Leibniz sottomette de idee chiare, e distinte al
cri- terio oggettivo della pos sila 1 ita logica, o «non cont ra dizio ne
». E a questo criterio sottomette anche il concetto dell’ente sommamente
perfetto, sul quale si fonda la cartesiana prova ontologica dell
esistenza di Dio (2). L' idea dell’ente somma- mente perfetto, egli dice,
potrebbe essere contradittoria, come quella della velocità massima o del
numero più grande di tutti (iflee contradittorie, queste, perchè sarà
sempre possibile con- cepire una velocità o un numero maggiori di una
qualsiasi altra velocità o numero presi a piacere: quindi non si
potrà mai giungere al massimo) v J)eirente perfettissimo, dunque,
non basta aver l’idea: bisogna anche dimostrarne la possibilità,
di- mostrare cioè che esso non appartiene solo al mondo delle
nostre rappresentazioni, ma anche al mondo delle verità eterne di
ragione. (1) Questa data mi 6 stata gentilmente comunicata dal
prof. Ritter, direttore della Commissione leibniziana dell'Aceademia
delle Scienze di Berlino. (2) La prova ontologica, clic
Cartesio ha ripreso da Anseimo d'Aosta (1033-1109), afferma che Tessere
sommamente perfetto deve contenere, fra le sue perfezioni, anche
resistenza: quindi esiste. Tale prova considera quindi l’esistenza come
un attributo dell'essenza dell’essere perfettissimo. L'obiezione di Leibniz contro la prova
ontologica si ferma generalmente a questa dichiarazione di incompletezza;
e non mancano poi in lui le affermazioni che l'ente sommamente
perfetto sia effettivamente possila le e implichi la propria esi- stenza.
Tuttavia in lui già è chiaro il concetto che le verità di ragione e
quelle di fatto appartengono a due sfere diverse e - per cosi dire -
incommensurabili, sì che non sia possibile far rientrare l’una nel campo
dell’altra. Ma in generale non si può dire che Leibniz si
preoccupi troppo di provare resistenza di Dio. Abbiamo già visto
che il suo problema non è tanto di dimostrare e dedurre i concetti
fondamentali del suo sistema, quanto di organizzarli in unità armonica.
Dio è una premessa dalla quale Leibniz parte, non una conclusione cui
egli arrivi. Quale ora il rapporto fra Dio e le verità di ragione c
di fatto ( Anche a questo proposito la posizione di Leibniz si
contrap- pone a quella di Cartesio ; il (piale, dedotta a priori
l'esistenza di Dio, fa poi discendere da Dio, per un atto libero della
sua volontà, tutto il mondo delle verità, sia di ragione, sia di
fatto (1). A questa dipendenza delle verità di ragione dal- l'arbitrio
divino, Leibniz si oppone recisamente. Per lui sono rappresentato, in
queste verità, relazioni assolute regolatrici dell’ univorso, tali ohe in
esso si devono inquadrare perfino i decreti della volontà divina. Si è
già visto che le verità di ragione valgono «non per l'ar bitrio divin o
ma per loro propria natura»; e tale opinione circola in tutti gli scritti
di Leibniz, fin dalla sua prima giovinezza. È necessario che
tutto si rifaccia ad una qualche ra- gione, nè ci si deve fermare finché
non si arrivi alla prima.... (1) C'fr. per esempio, Meditazioni
metafisiche, Risposte alle seste obbie- zioni,!). U: «...lo dico che è
impossi bile che una tale idea [del bene o del vero] abbia preceduto la
determinazione della volontà di Dio.... in modo che que- sta idea del
bene abbia portato Dio a scegliere l'una cosa piuttosto che l’altra. Por
esempio, non per aver visto cho era meglio che il mondo fosse creato nel
tempo piuttosto cho dall’eternità, egli ha voluto crearlo nel tempo; o
non ha voluto cho i tre angoli di un triangolo fossero uguali a due retti
per aver visto cho non poteva essere altrimenti, etc. Ma all'opposto: per
il fatto che egli ha voluto creare il mondo nel temilo, per questo ò
meglio così che se fosse stato creato dall'eternità; e solo perchè egli
ha voluto che i tre an- goli di un triangolo fossero necessariamente
uguali a due retti, ciò è ora vero o non può essere altrimenti; e così di
tutte le altre cose». E iiuale. è
dunque l’ultima ragione della volontà divina? L’ intelletto divino. Quale
la ragione dell' intelletto divino? L’armonia delle cose. Quale
dell'armonia delle cose ? Nulla. Per esempio, della proposizione 2:4=4 :
8 non si può dare alcuna ragione, neppure attraverso la stessa
volontà divina. Quella verità dipende dall'essenza stessa o idea
delle cose. i (Frammento De resurrectione corporum, 1671, Ak. II,
I, 117). L’ intelletto divino è insomm a determinato dalle verità
di ragione, e la volontà divina non può agire se non nell’ambito
segnato da esse. La volontà divina, ora, si esplica nelle verità di
/atto. Esse, ed esse sole, sono create da Dio per un atto libero della
sua volontà. Dio è la ragione prima delle cose : poiché quelle che
sono limitate, come tutto ciò che noi vediamo e sperimen- tiamo.
sono contingenti e non hanno nulla in sé che renda la loro esistenza
necessaria; essendo chiaro che il tempo, lo spazio e la materia, uniti e
uniformi in sé stessi, e in- differenti a tutto, avrebbero potuto
ricevere movimenti e figure totalmente diversi e in tutt' altro ordine.
Bisogna dunque cercare la ragione dell esistenza del mondo, che è
tutto l'insieme delle cose contingenti: e bisogna cercarla nella sostanza
che contiene la ragione della sua esistenza in se stessa (1), e che, per
conseguenza, è necessaria ed eterna. Bisogna pure che tale causa sia
intelligente: poi- ché dato che questo mondo che esiste è contingente,
es- sendo egualmente possibili ed egualmente pretendenti al-
l'esistenza per così dire al pari di esso una infinità di altri mondi,
bisogna che la causa del mondo abbia avuto rapporto e riguardo a tutti
questi mondi possibili, por determinarne uno. E questo riguardo o
rapporto di una (1) Tale sostanza è Dio. Cfr. la prima definizione
dell’ FI tea di Spinoza: Per caiuiam e ui intelligo id, cujus esse alia
invaivi t existenliam; vive id, cujus natura non potest concipi, nini
existensv. sostanza esistente con semplici possibilità, non può
essere altro che 1‘ intelletto che ne ha le idee; e a determinarne
una non può essere altro che l'atto della mhmtà che sceglie. Ed è la
potenza di questa sostanza che ne rende la volontà efficace. La potenza
tende all'essere, la saggezza o l' in- telletto al vero, la volontà al
bene. E questa causa intel- ligente deve essere infinita in tutti i modi,
e assolutamente perfetta quanto a potenza, saggezza e bontà, poiché
essa tende a tutto ciò che è possibile. E siccome tutto è con-
nesso. non vi è ragione di ammetterne più di una. 11 suo intelletto è la
fonte delle essenze, la sua volontà è l'ori- gine delle esistenze. Ecco
in poche parole la prova di un Dio unico con le sue perfezioni e, per suo
mezzo, l'origine delle cose. (Teodicea, 1710, § 7).
Le verità di ragione sono dunque il contenuto fieli intelletto di
Dio , le verità di f atto il prodotto della sua volontà, fra le infinite
possibilità che potrebbero realizzarsi entro gli schemi del principio di
non contradizione, Dio ne sceglie una, e la pone in atto. Anche in questo,
Leibniz si oppoue a Cartesio, il quale ritiene che la materia assuma
tutte le forme possibili. Egli cita, per confutarlo, questo passo dei
Princip { rii Filosofia (parte III, art. 47): a Poiché la materia assume
successiva- mente tutti' le forme di cui è capace, se consideriamo
ordi- natamente queste forme, giungeremo infine a quella che ap-
partiene a questo nostro mondo, in modo che non sia da temere alcun
errore per colpa di una eventuale falsa i potesì " ( 1 ) . Leibniz
risponde: Non credo che si possa enunciare una proposizione
più pericolosa di questa. Poiché, se la materia riceve succes-
sivamente tutte le forme possibili, ne deriva che non si (1)
Cartesio ò costretto alla concezione che tutti i mondi possibili siano
effettivamente esistenti, dal suo impegno di dedurre il mondo dalle sole
idee chiare e distinte o di ragione. Leibniz, col suo principio di una
netta separazione Ira la possibilità c l’esistenza, può esimersi da
questo passaggio per tutte le forme della possibilità, e risolvere il
problema dell origine del mondo sensibile con un diretto ricorso al
principio delle verità di fatto. I. - VERITÀ DI RAGIONE E DI FATTO
17 possa immaginare nulla di tanto assurdo nè di tanto biz-
zarro e contrario a quello che noi chiamiamo giustizia, che non sia
accaduto o che non debba accadere un gior- no.... È questo, a mio avviso,
il 7rpwxov tpeòSoq (primo in- ganno) e il fondamento della filosofia
atea, la quale non tralascia mai, in apparenza, di dire belle cose di
Dio. Ma la vera filosofia deve darci ben altra nozione della perfe-
zione di Dio, che possa servirci tanto nella fisica, quanto nella
morale. (Lotterà al Philippi, 1080, G. IV, 283-4). Il
principio di ragion sufficiente. La realtà contin- gente posta in atto da
Dio è il mondo sensibile che noi speri- mentiamo. Per la giustificazione
di esso, le immutabili leggi della logica non sono sufficienti. TI mondo,
la realtà di fatto è, ma potrebbe anche non esserci, o essere diverso da
quello che è. Esso non deriva da nessuna verità assoluta. 11 principio
lo- gico clic si dovrà applicare per rendersi conto di esso, non è
il principio di non conti-a dizione, ma quello di ragion suffi- ciente,
quel principio cioè per cui da un dato di fottìi si risale alla sua
causa, e da essa di nuovo alla causa, e cosi fino alla causa jprima, cioè
Dio. 11 principio universale nihil esse sine catione (1)
risolve quasi tutte le discussioni metafìsiche.... Is’ulla avviene,
del cui esser stato prodotto piuttosto che non essere stato (cur
factum sit polius quam non sii) Dio, se voglia, non possa render
ragione. (Frammento sulla Selenita Media, 1677, C. 25).
(L) È il principio di ragion sulKcicnle. Non bisogna far confusione
fra questo, che Leibniz chiama a volte anche semplicemente - principio di
ra- gione », e le verità di ragione. 11 pri n c imo d i rag ione è la
forma generalo che regola lo verità di fatto. Le verità di ragione si
contrappongono invece a queste ultimo, e si fondano sul principio di non
contradizione. La somi- glianza di due termini dal significato così
differente e quasi opposto, deriva ila un diverso uso del termino «
ragione ». Nella locuzione principio di ra- gione » osso equivale a «
motivo, causa ». Ora bisogna elevarsi alla metafisica , servendoci del
gran principio, comunemente poco impiegato, il quale afferma che
nulla si verifica senza una ragione sufficiente, cioè che nulla accade
senza che sia possibile a colui che conosca sufficientemente le cose, di
dare una ragione che basti a determinare perchè è così e non altrimenti.
Posto questo principio, la prima domanda che si avrà il diritto di
porre, sarà : Perchè ri è qualche cosa piuttosto che nulla ? poiché
il nulla è più semplice e più facile che il qualche cosa. Inol-
tre. supposto che cose debbano esistere, bisogna che si possa rendere
ragione del perchè esse debbano esistere così, e non altrimenti.
Ora questa ragione sufficiente dell esistenza dell universo non si
può trovare nell' ordine delle cose contingenti, cioè dei corpi e delle
loro rappresentazioni nelle anime : poiché, essendo la materia
indifferente in sè stessa al movimento e al riposo e a questo movimento o
ad un altro, non si può trovare in essa la ragione del movimento e
ancor meno di questo movimento. E. benché il movimento at- tuale
che è nella materia derivi dal precedente, e questo ancora da un
precedente, non si avanzerà affatto, per quanto lontani si possa andare:
poiché resterà sempre la medesima domanda. Così bisogna che quella
ragione suf- ficiente che non ha più bisogno di un'altra ragione,
sia fuori di questo ordme di cose contingenti, e si trovi in una
sostanza che ne sia la causa o che sia un essere ne- cessario il quale
porti con sè la ragione della sua esistenza : altrimenti non si avrebbe
mai una ragione sufficiente, alla quale arrestare il processo. E questa
ultima ragione delle cose è chiamata Dio. ( Principe# de la
nature et de la grane, 1713-14, G. VI, 002). La causa FINALE E il «
mkiliore ». Dio è dunque la causa o ragion sufficiente rii tutte le
verità di fatto, cioè del mondo sensibile. Ma con quale criterio ha egli
scelto, nella sua creazione, fra le infinite possibilità che gli si offrivano,
proprio questa e non un altra? Che cosa lo ha guidato nella scelta?
Nulla avviene senza un perchè sufficiente, o senza una ragione
determinante. In virtù di questo principio, che ci conduce oltre i limiti
raggiunti dai nostri predecessori, Dio non cambia mai volontà e
operazione senza averne qual- che valida ragione. E quando la cosa di cui
si tratta è di natura uniforme e semplice, siamo in condizione di
giudicare (per quanto povere creature si sia) se vi può essere una
ragione o no. Quando la volontà di Dio è im- piegata da sola, senza che
nella natura delle creature vi sia la ragione di questa volontà, nè il
modo del suo ope- rare, si tratta di un puro miracolo : criterio poco
oppor- tuno in filosofia, come se Dio volesse (per esempio) che i
pianeti si muovessero in linea curva senza essere spinti da altri corpi
Ogni volta che noi conosciamo qual- che cosa delle opere di Dio, vi
troviamo dell' ordine. (Lettera allo Hartaoekcr, 1711. G. Ili,
52D). II principio della ragion sufficiente, dunque, come vale
per risalire attraverso le cause dai dati esistenti lino a Dio,
cosi lieve essere applicato a Dio stesso, il quale, creando questo
mondo, non ha agito arbitrariamente, ma è stato guidato da un criterio
della sua azione. Non ha agito, neppur lui, senza una ragione del suo
agire; e questa ragione che. determina la sua volontà, è i l criterio del
massimo be ne, della massima perfezione. A q uest o criterio
Dio si è ispirato nel creare il mondo, e a questo criterio si deve
ricorrere dunque come alla ultima ra- gione di tutta la creazione. Il
bene e la perfezione come motivo dell esistenza delle cose, viene
chiamato A n '\{ è±. Io ritengo che, ben lungi dal dover escludere
le cause finali dalla considerazione fisica, come pretende
Descartes nei Principi di Filosofia, parte 1, art. 28, sia
piuttosto per mezzo di esse che tutto si debba determinare,
poiché la causa efficiente delle cose è intelligente, avendo una
volontà e perciò tendendo al bene. (Lettera al Philipp!, 1080, 0.
IV, 281). Dio mette in opera, dunque, uno solo degli infiniti
mondi possibili ; ma è retto da un criterio in tale creazione.
Questo criterio fa sì che il mondo da luf scelto sia il migliore fra
i mondi possibili. Questa infinita saggezza, unita ad una
bontà non meno infinita, non ha potuto fare a meno di scegliere il migliore;
poiché, come im male minore è, in certo senso, un bene, cosi mi minor
bene è, in certo senso, un male, se fa ostacolo ad un bene più grande: e
vi sarebbe qualche cosa da correggere nelle azioni di Dio, se vi fosse
modo di far meglio. E come in matematica, quando non vi è nè
massimo nè minimo e nulla, insomma, di distinto, tutto avviene
ugualmente, o, quando ciò è impossibile, non avviene addirittura nulla ;
si può dire lo stesso a proposito della perfetta saggezza, la quale non è
mono regolata che la matematica : che, se non ci fosse stato il migliore
(opti- mum) fra tutti i mondi possibili, Dio non ne avrebbe pro-
dotto nessuno. Chiamo mondo tutta la serie e tutto 1 in- sieme di tutte
le cose esistenti, affinchè non si dica che più mondi hanno potuto
esistere in differenti tempi e in differenti luoghi. Giacché bisognerebbe
considerarli tutti insieme come un solo mondo, o se volete, come un
universo. E quando si riempissero tutti i tempi e tutti i luoghi,
resta pur sempre vero che si sarebbero potuti riempire in una infinità di
maniere, e che vi è ima infinità di mondi possibili, di cui Dio deve aver
scelto il migliore, perchè egli non fa nulla senza agire secondo la
suprema ragione. (Teodicea, 1710, § 8). Dio dunque non
scoglie arbitrariamente. Anche qui egli si ispira ad un principio - il
principio del migliore - che regola la sua azione nel metterò in opera la
realtà del mondo. In che cosa consiste questo principio? Che cos’è il
«migliore», questa causa finale deile verità di fatto? Un criterio di
mas- sima realizzazione, di massima perfezione, di massima
felicità, bontà, etc. : insomma di armonia, che tende a che nei
limiti della possibilità venga realizzato il massimo di esistenza
pos- sibile. Discende dalla perfezione suprema di Dio che,
produ- cendo T universo, egli abbia scelto il miglior piano possi-
bile, nel quale vi è la massima varietà, col massimo ordine; il terreno,
il luogo, il tempo meglio organati; il massimo effetto prodotto coi mezzi
più semplici; il mas- simo di potenza, il massimo di conoscenza, il
massimo di felicità e di bontà nelle creature, ammissibile nell'
universo. Infatti, dato che tutti i possibili pretendono
all'esistenza nell intelletto di Dio in proporzione delle loro
perfezioni, il risultato di tutte queste pretensioni deve essere il
mondo attuale, il più perfetto che sia possibile. Altrimenti non
sarebbe possibile rendere ragione del perchè le cose siano andate così
piuttosto che in altro modo. ( Pricipes de la Nature et de la (brace,
1713-14, G. VI, 003). È un mio principio, che tutto ciò che può
esistere ed è conciliabile con le altre cose, esista. Poiché la ratio
exi- atendi a preferenza di tutti gli altri possibili, non deve
essere limitata da altra ragione, se non da quella che non tutte le cose
sono conciliabili fra di loro. L' unica ragione determinante è dunque ut
exislant / totiora , quae plurimum involvant realitatis.
(Ii'rammonto del 1070, C. 530). Vi è una ragione in natura
per cui esiste qualche cosa piuttosto che nulla. Ciò è una conseguenza
del grande prin- cipio che nulla avviene senza una ragione, così come
deve esservi anche una ragione per cui esista una cosa piut- tosto
che un' altra. Tale ragione deve essere in qualche ente reale o
causa. Infatti la causa non è altro che una realis ratio , e le ve-
rità di possibilità e di necessità (cioè di cui viene negata la
possibilità del contrario) non produrrebbero nulla se le possibilità non
si fondassero su qualche cosa di attual- mente esistente. Questo
ente poi dovrà essere necessario: altrimenti si dovrebbe ricercare di
nuovo (contro l' ipotesi), di là da esso, una causa per cui esso esista
piuttosto che no. Quel- l'ente è insomma l'ultima ragione delle cose, e
in una parola lo si suole chiamare Dio. Vi è dunque una
ragione per cui 1 esistenza debba pre- valere sulla non-esistenza. e cioè
Ens necessarium est exi- stentificans. Ma quella causa che fa
sì che qualche cosa esista, cioè che la possibilità esiga l'esistenza, fa
anche sì che ogni possi- bile abbia una tendenza all'esistenza; poiché
non si può trovare in generale una ragione di restrizione all
esistenza dei possibili. Così si può dire che ogni jmsibile è un
inizio di esistenza ( I ) in quanto si fonda su di un ente
necessario attualmente esistente, senza il quale non vi sarebbe
alcuna via per la quale potesse possibilmente giungere ad at-
tuarsi. Ma da questo non deriva che tutti i possibili esi- stano: ciò
avverrebbe sì se tutti i possibili fossero com- possibili. Ma
poiché vi sono alcune cose che sono incompatibili con altre, ne segue che
alcuni possibili non giungano al- l'esistenza. E le cose possono essere
incompatibili non solo relativamente al medesimo tempo, ma anche
uni- versalmente parlando, perchè nelle cose presenti sono im-
plicite le future. Intanto però, dal conflitto di tutti i possibili
che pre- tendono all' esistenza, deriva questo almeno, che esista
(1) Traduciamo così il termine existilurire. quella serie di cose per la quale giunge all'esistenza
il massimo numero di cose, cioè la serie massima di tutti i
possibili. E questa serie unica è determinata, così come tra le linee è
determinata la retta, tra gli angoli l'angolo retto, tra le figure e i
solidi quelle di massima capacità, cioè il circolo e la sfera. E come
vediamo che i liquidi si raccolgono spontaneamente in gocce sferiche,
così nel- l' universo esiste la serie di massima capacità.
Esiste dunque la massima perfezione; e non consiste se non nella
quantità di realtà. Inoltre la perfezione non si deve soltanto
ravvisare nella materia, cioè in ciò che riempie il tempo e lo spazio,
la cui quantità sarebbe sempre costante in qualsiasi modo, ma nella
forma o varietà. Ne consegue che la materia non è ovunque simile a
sè stessa, ma viene resa dissimile dalle forme; altrimenti non
otterrebbe tanta varietà quanta . le è possibile.... Ne consegue
anche che ha prevalso quella serie dalla quale derivava il massimo di pensabilità
distinta. E la pensabilità distinta dà ordine alla cosa e
bellezza a chi pensa. L 'ordine, non è altro infatti che relalio
plu- rium dislinctiva, e confusione si ha quando sono presenti
bensì più cose, ma non vi è un criterio por distinguere l una
dall'altra. Cade così il concetto eli atomo e in generale di
qual- siasi corpo in cui non vi sia un criterio di distinzione di
una parte dall'altra. E ne deriva universalmente che il mondo è un
y.óapoc. un organismo armonico, cioè fatto in modo da soddisfare
massimamente chi comprenda. Il piacere di chi comprende (voluptas
intelligentis ) non è altro infatti che la percezione della bellezza,
dell' ordine, della perfezione; e ogni dolore contiene qualche cosa
di disordinato, ma solo riguardo a chi lo percepisce, perchè,
assolutamente parlando, tutto è ordinato. Così, quando alcunché ci
dispiace nella serie delle cose, ciò deriva da un difetto di
comprensione. Infatti non è possibile che ciascuno spirito comprenda
tutto distinta- mente; e a chi osservi solamente alcune parti
piuttosto che altre, 1’ armonia non può apparire nel suo complesso.
Consegue da ciò che nell'universo è osservata anche la giustizia,
non essendo la giustizia altro che un ordine o perfezione riguardo agli
spiriti. (Frammento, G. VII, 289-90). Necessità e
libertà. - Anche questo criterio di perfezione, di bontà, di armonia è,
aqalogamente alle verità di ragione, assoluto, oggettivo, a sè stante,
indipendente dalla volontà di Dio, imposto dalla necessità delle cose.
Dio sceglie il migliore: ma non avrebbe potuto scegliere altrimenti.
Siamo qui in presenza della celebre questione della conciliazione fra
neces- sità e libertà-, la quale riguarda solo da lato il nostro
argomento, e rientra piuttosto nel problema della Teodicea. Anche a que-
sto proposito Leibniz si oppone a Cartesio. Contro coloro che
sostengono che non vi è bontà nelle opere di Dio o che le regole della
bontà e della bellezza sono arbitrarie. Io sono molto lontano
dall'opinione di coloro che so- stengona che non vi siano affatto regole
di bontà e di perfezione nella natura delle cose, o nelle idee che Dio
ne ha; e che le opere di Dio non siano buone se non por la ragione
formale che Dio le ha fatte. Poiché, se ciò fosse, Dio, sapendo che egli
ne è l'autore, non avrebbe avuto ragione di guardarle in seguito e
trovarle buone, come testimonia la Sacra Scrittura (1), la quale non pare
si sia servita di questo linguaggio umano, se non per mostrarci che la
loro eccellenza si riconosce a guardarle in se stesse, anche se non
si fanno riflessioni su questa semplice denomina- zione esteriore, che le
riattacca alla loro causa. E ciò è (I) Leibniz allude qui al
racconto del Co p. I della Genesi , in cui a cia- scun atto della
creazione seeue la frase: «E Dio vide che ciò era buono». tanto più vero,
in quanto proprio attraverso la considera- zione delle opere si può
valutare chi le ha operate. Bi- sogna dunque che queste opere portino in
sè il suo carattere. Confesso che l'opinione contraria mi sembra
estremamente pericolosa e molto vicina a quella degli ultimi novatori
(1), i quali ritengono che la bellezza dell' universo e la bontà
che noi attribuiamo alle opere di Dio non siano se non chimere degli
uomini che concepiscono Dio a modo loro. Cosi, dicendo che le cose non
sono buone per nessuna regola di bontà, ma per la sola volontà di Dio, si
distrugge, mi semina, senza pensarci, tutto l'amore di Dio e la sua
gloria. Infatti, perchè lodarlo di ciò che egli ha fatto, se egli sarebbe
ugualmente lodevole facendo tutto il con- trario? Dove sarà dunque la sua
giustizia e la sua sag- gezza, se non rimane che un certo potere
dispotico, se la volontà tiene il posto della ragione e se, secondo la
defi- nizione dei tiranni, ciò che piace al più potente è, ap- punto
per ciò, giusto? Inoltre sembra che ogni volontà supponga qualche ragione
di volere, e che questa ragione sia naturalmente anteriore alla volontà.
È per questo che io trovo anche molto strana l’espressione di altri
filosofi (2), i quali dicono che le verità eterne della metafisica e
della geometria, e conseguentemente anche le regole della bontà,
della giustizia e della perfezione non sono che effetti della volontà di
Dio, mentre mi sembra che esse non siano che conseguenze del suo
intelletto, il quale non dipende affatto dalla sua volontà, così come non
ne dipende la sua essenza. Contro coloro che credono che Dio
avrebbe potuto far meglio. Non posso neppure approvare l’ opinione
di alcuni mo- derni (’.i) i quali sostengono arditamente che quello che
Dio (1) Allude agli spinozisti (cfr. l’ed. cit. del Ijestibnnk).
I/opinione che Lei lini/, ha della dottrina di Spinoza, è per molti
aspetti errata e turbata da preconcetti. (2) Cartesio (cfr.
ibid.). (3) Gli scolastici del suo tempo (efr. ibid.). fa. non
è l’assoluta perfezione, e che egli avrebbe potuto agire assai meglio.
Poiché mi semina che le conseguenze eli questa concezione siano
assolutamente contrarie alla gloria di Dio. Ufi minus malum habet ratiouem
boni, ita mimi* bomttn habet rationem mali. E si chiama agire im-
perfettamente, agire con minor perfezione di quello che si sarebbe
potuto. E trovare a ridire sull' opera di un ar- chitetto il mostrare che
egli avrebbe potuto farla meglio.... Questi moderni credono anche
di provvedere così alla libertà di Dio; come se non fosse la piìi alta
libertà quolla di agire in perfezione seguendo la ragione sovrana.
Poiché credere che Dio agisca in qualche cosa senza aver alcuna
ragione della sua volontà, oltre che apparire impossibile, è opinione poco
conforme alla sua gloria. Per esempio, suppo- niamo che Dio scelga fra A
e li. e che egli prenda A senza avere alcuna ragione di preferirlo a B:
io dico che questa azione di Dio, per lo meno, non sarebbe affatto
lodevole; poiché ogni lode deve essere fondata su qualche ragione
che non si trovi già ex hypothesi . Ritengo invece che Dio non faccia
nulla per cui non meriti di essere glorificato. ( Discours de
métaphysique, 108G, §§. Il, III). I l criterio della, bontà e del
«migliore», non è dunque con- seguenza della volontà divina: è piuttosto
la volontà divina che si ispira a questo criterio, il «piale ha una
validità ogget- tiva a sé stante, altrettanto come le verità di ragione.
L'azione di Dio è da un lato circoscritta dai limiti della
possibilitòj dati dal principio di non contradizione, nell’ambito del
«piale essa si devo svolgere: dall’altro lato è determinata da
epiesto finalismo, da questo principio del « migliore », della
bontà, che costituisce l’oggetto necessario della sua scelta. D'ambo
i lati dunque, essa si trova determinata: e questa determina- zione
costituisce la legge stessa «Iella sua perfezione. Necessità nelle
verità di ragione, dunque, poiché i principi di esse sono inderogabili,
tali che non potrebbero venir con- cepiti diversi da «piel che sono;
necessità anche nelle verità di fatto, in quanto la loro ragion
sufficiente non può non essere il principio della suprema perfezione e
bontà. Ma queste due forine «li necessità onde consta l' intelletto e la
volontà divina, quindi tutte le cose del mondo, non sono identiche fra
di loro: se lo fossero, cesserebbe, si può dire, ogni distinzione
fra verità di ragione e di fatto, e le une discenderebbero dai medesimi
principi che le altre, si baserebbero sulle medesime leggi. La necessità
di fatto ha invece caratteristiche sue proprie. Essa non implica quella
impossibilità «lei contrario che è es- senziale caratteristica della
necessità di ragione. La necessità morale. - La necessità di
ragione è una legge regolativa dell’ intelletto divino. La necessità di
fatto e la ragion sufficiente che determina la volontà di Dio: e
questa ragione è necessitante sì, ma non in modo che il contrario
sarebbe impossibile. Questo secondo tipo di necessità, Leibniz lo
distingue a volte dalla necessità di ragione col chiamarlo motivo
inclinante (contrapposto a necessitante), necessità inorale.
Bisogna distinguere tra necessità assoluta e necessità ipotetica. Bisogna
pure distinguere fra una necessità che ha luogo perchè l’opposto implica
contradizione, e che vien chiamata logica, metafisica, o matematica, ed
una neces- sità olio è morale , che fa sì che il saggio scelga il
migliore, e che ogni spirito segua l' inclinazione più grande.
La necessità ipotetica è quella che viene imposta ai futuri
contingenti dalla supposizione o ipotesi della pre- visione e
preordinazione da parte di Dio.... ....11 bene, sia vero sia
apparente, in una parola il motivo, inclina senza necessitare, senza
imporre cioè una necessità assoluta. Infatti, quando Dio, per esempio,
sceglie il mi- gliore, ciò che egli non sceglie e che è inferiore quanto
a perfezione, non cessa di essere possibile. Ma se ciò che Dio
sceglie fosse necessario, ogni altra scelta sarebbe im- possibile, contro
T ipotesi; poiché Dio sceglie tra i pos- sibili, cioè fra vari partiti,
dei quali nessuno implica con- tradizione. Ma dire che Dio
non può scegliere se non il migliore, e volerne inferire che ciò che egli
non sceglie è impossibile, è confondere i termini, la potenza e la
volontà, la neces- sità metafisica e la necessità morale, le essenze e le
esi- stenze. Giacché ciò che è necessario, lo è per la sua essenza,
poiché l'opposto implica contradizione; ma il con- tingente che esiste deve
la sua esistenza al principio del migliore, ragione sufficiente delle
cose. Ed è per questo che io dico che i motivi inclinano senza
necessitare; e che vi è ima certezza e ima infallibilità, ma non una
necessità assoluta nelle cose contingenti. Ed ho mostrato a
sufficienza nella mia Teodicea che questa necessità morale è felice,
conforme alla perfezione divina, conforme al gran principio delle
esistenze, che è quello del bisogno di una ragione sufficiente; mentre
la necessità assoluta e metafisica dipende dall' altro grande
principio dei nostri ragionamenti, che è quello delle es- senze, cioè
quello dell’ identità o della contradizione; poiché quello che è
assolutamente necessario è l’unico possibile fra i vari partiti, e il suo
contrario implica contradizione. (Polemica col Clarke, 171ò, G.
VII, 380-391). Bisogna distinguere tra il necessario e il
contingente, quantunque determinato. E non solo le verità
contingenti non sono punto necessarie, ma anche i loro legami non
sono sempre di necessità assoluta, poiché bisogna riconoscere che
vi è differenza, nel modo di determinare, fra le con- seguenze che hanno
luogo in materia necessaria e quelle che hanno luogo in materia
contingente. Le conseguenze geometriche e metafìsiche necessitano, ma le
conseguenze fìsiche e morali inclinano senza necessitare; avendo il
fi- sico stesso in sé qualche cosa di morale e di volontario
rispetto a Dio, poiché le leggi del movimento non hanno altra necèssità
che quella del migliore. Ora Dio sceglie libe- ramente, benché egli sia
determinato a scegliere il meglio. E, poiché i corpi stessi non scelgono
(avendo Dio scelto per essi), 1’ uso ha voluto che fossero chiamati
agenti necessari ; denominazione cui non mi oppongo, purché non si
confonda il necessario col determinato, e non si vada ad immaginare che
gli esseri liberi agiscano in una ma- niera indeterminata: errore,
questo, che ha prevalso in al- cuni spiriti e che distrugge le più
importanti verità, ed anche l'assioma fondamentale che nulla accade senza
ra- gione; assioma senza il quale nè l' esistenza di Dio, nè altre
grandi verità potrebbero essere ben dimostrate. (Nuovi Saggi, 1701
scgg., 11, 21, § 13). Su questo argomento della necessità e
libertà, come su mol- tissimi altri con questo comiessi (origine del male
e sua giu- stificazione nel mondo, libero arbitrio, responsabilità etc.)
si imperniano molteplici problemi, riguardanti un altro aspetto del
pensiero leibniziano, che non dobbiamo qui esaminare: ([nello della
Teodicea. Verità di ragione e di fatto sono dunque ciò di cui è costi-
tuita là realtà. Le une assolute, necessarie, imi versali, ma di una
universalità astratta, che ha luogo solo nel mondo ideale delle
possibilità, delle essenze. Le altre concrete, tangibili, esi- stenti, ma
insieme contingenti, individuali, tali che la loro esistenza non può
venire ilimostrata a priori, nè discendere matematicamente da alcuna
forma inerente alla costituzione del reale. La necessità morale, basata
sul principio ili ragione e finalistico, non elimina, come si è visto, la
contingenza: non dà quella assoluta certezza clic appartiene alle verità
di ragione e deriva dall’ impossibilità del contrario. Il
problema di Leibniz è ora la ricerca di una universalità anche nel campo
del contingente; o, in altri termini, la ridu- zione del principio di
ragion sufficiente a una linea altrettanto fissa e immutabile che quella
del principio di non contradi- zione. La sostanza individuale sarà la
soluzione di questo pro- blema: e con essa Leibniz raggiungerà a suo
modo, e sempre nell’ambito della sua concezione oggettivistica della
realtà, una sintesi di universale e individuale. La
carattkkistica. - Miraggio di Leibniz è ili ottenere una certezza matematica
in tutte le cose conosciute, in modo ila eliminare tutto ciò che si
fonila sull'opinione, e di ridurre ogni ragionamento a un calcolo. È
questo il fondamento di quella Scienza generale, Caratteristica, Ars
inveniendi di cui egli va- gheggia 1 idea, a partire dal suo primo scritto
del 1666 sul- V Arte Combinatoria, fino alla fine della sua
vita. Posso dire senza vanità che, tra i miei contemporanei, sono
uno di quelli che pili ha approfondito la scienza ma- tematica; ed ho
scoperto metodi e procedimenti comple- tamente nuovi, che portano questa
scienza di là dai limiti che le erano stati prescritti. 1
saggi che ne ho dati hanno avuto successo in Francia ed in Inghilterra: e
mi sarebbe facile darne ancora molti altri ; ma io non faccio gran caso
delle scoperte particolari, e ciò che desidero maggiormente è di
perfezionare l’arte d’ inventare in generale, e di dare piuttosto metodi
che soluzioni di problemi; poiché un solo metodo comprende un’
infinità di soluzioni.... E poiché ho avuto la fortuna di
perfezionare considere- volmente l'arte d' inventare o analisi dei
matematici, ho cominciato ad avere certe concezioni nuovissime, per
ri- durre tutti i ragionamenti umani ad una specie di calcolo che
servirebbe a scoprire la verità, nei limiti ili ciò che è possibile ex
datis , posto cioè quel che ci è dato o conosciuto. E quando le
conoscenze date non bastano a risolvere la que- stione proposta, questo
metodo servirebbe, come nelle ma- tematiche, ad accostarsi il più
possibile alla soluzione e a determinare esattamente ciò che è pili
probabile. Un tale calcolo generale formerebbe nello stesso
tempo una specie di scrittura universale che avrebbe i medesimi
vantaggi che quella dei cinesi, perchè ciascuno la potrebbe intendere
nella sua lingua. Ma supererebbe infinitamente la cinese in quanto la si
potrebbe imparare in poche set- timane, avendo essa caratteri ben
collegati secondo 1 or- dine e la connessione delle cose; mentre i cinesi
hanno una infinità di caratteri secondo la varietà delle cose, e
occorre la vita di un uomo per imparar tiene la loro scrit- tura
(1). (1) I caratteri cinesi si avvicinerebbero, secondo Leibniz, a
quelli della sua caratteristica, in quanto rappresentano, così come i
geroglifici egiziani, non le lettere di cui ciascuna parola ó forniate,
ma l'oggetto stesso che essa Questa scrittura o lingua (se si
rendessero enunciabili i caratteri) potrebbe essere presto accolta nel
mondo, per- chè la si potrebbe imparare in poche settimane, e forni-
rebbe un mezzo generale di comunicazione: il che sarebbe di glande
importanza per la diffusione della fede e per 1 istruzione dei popoli
lontani. Ma questo sarebbe il minore dei suoi vantaggi;
giacche questa medesima scrittura sarebbe una specie di algebra
geneiale, e darebbe modo di ragionare calcolando, sicché, invece di
discutere, si potrebbe dire: contiamo. E si tro- verebbe che gli errori
di ragionamento non sono che errori di calcolo, riconoscibili mediante
prove, come nell’ arit- metica. Gli uomini avrebbero così un
giudice delle controversie veramente infallibile. Poiché potrebbero
sempre sapere se è possibile decidere la questione j>er mezzo delle
conoscenze che essi posseggono già, e quando non fosse possibile
soddisfarsi intieramente, potrebbero sempre determinare ciò che è più
verosimile.... J ci giungere dunque a questa scrittura o
caratteristica, che contiene un calcolo così sorprendente, bisogna
cercare le definizioni esatte dei concetti. Poiché infatti le
nostre parole sono assai oscure e non ci dà imo spesso che nozioni
confuse, si è obbligati a sostituire ad esse altri caratteri, la cui
nozione sia precisa e determinata; ora le definizioni non sono se non
un'espressione distinta dell’ idea della cosa. E avendo io
studiato con cura non solamente la storia e le matematiche, ma anche la
teologia naturale, la giu- risprudenza e la filosofia, ho portato molto
avanti questo progetto, e mi sono fatto una quantità di definizioni.
Per rappresenta. Differiscono però dai geroglifici inquanto «sono
forse più filo- ne;. e sembrano fondati su considerazioni più
intellettuali, come quelle chedànno i numeri, l’ordine, le relazioni ».
(Lettera inedita citata in J. Bakuzi, Leibniz et l' organisation
reXigieuse de la terre, Paris, 1907, pp. 82-3). esempio la definizione
della giustizia per me è la seguente : La giustizia è la carità del
saggio, o una carità conforme alla saggezza. La carità non è altro clxe
la benevolenza generale; la saggezza è la scienza della felicità, la
felicità è lo stato di gioia durevole, la gioia è un sentimento di
perfezione, la perfezione è il grado di realtà. Penso di poter dare
definizioni analoghe di tutte le pas- sioni. virtù, vizi e azioni umane,
quanto ve ne è bisogno. E con questo mezzo si potrà parlare e ragionare
con esat- tezza. E siccome i nuovi caratteri comprenderanno sempre
le definizioni delle cose, ne segue che essi ci daranno modo di ragionare
calcolando, come ho appunto detto sopra. Ma per portare a termine
un progetto di tanta impor- tanza. il quale fornirebbe al genere umano
una specie di strumento così adatto a perfezionare la vista dello
spirito come gli occhiali servono a quella del corpo, occorrerà
molta meditazione ed un poco di assistenza. (Lettera al Duca <li
Hannover, 1 ti86 ( I ), il. Vii, 25-27). È principalmente per
attuare questo vastissimo progetto che Leibniz propugnò durante tutta la
sua vita la fondazione di società di scienziati ed accademie. Il progetto
rimase sem- pre inattuato. Ma è interessante lo sviluppo che gli studi
com- piuti per esso dettero al pensiero di Leibniz. 11 metodo per
raggiungere quegli elementi semplici o « caratteri " dalla cui
composizione derivano tutti gli oggetti della conoscenza uma- na, è un
metodo di scomposizione delle idee che troviamo di fronte a noi già
composte, partendo dalle loro definizioni (2). (1) Data
comunicatami dal prof. Ritter. (2) Ecco la primitiva formulazione
di questo metodo nella giovanile Arte Combinatoria: i L'analisi
avviene nel modo seguente: Dato un qualsiasi termine, lo si ri- solva nei
suoi elementi formali, cioè se ne ponea la definizione; questi clementi
si risolvano di nuovo in elementi, cioè si ponga la definizione dei termini
della definizione stessa, fino agli elementi semplici o termini
indefinibili; poiché „ non di tutte lo cose si deve ricercare la
definizione » (*). E questi ultimi (*) In greco nel testo:
citazione da Aristotele. Con tale metodo sarà possibile qualsiasi
dimostrazione. Co- nosciuta, infatti, 1 intima costituzione di ciascun
concetto, si potrà sempre stabilire in qualsiasi proposizione se il
predicato rientri nel soggetto, abbia cioè con esso in comune i suoi
ele- menti costitutivi. Di qualsiasi cosa, nulla ci può
essere dimostrato, nep- pure da un angelo, finché noi non conosciamo i
termini costitutivi (requisita) di essa. Infatti in ogni verità
tutti i termini costitutivi del predicato sono compresi fra i ter-
mini costitutivi del soggetto, e i termini dell’effetto ricer- cato
comprendono i mezzi che sono stati necessari per produrlo.
(Initia et specimina scientiae generali 8, G. VII, 62).
termini non si comprendono più per definizione, ma per analogia (** (***)
). Tro- vati tutti questi primi termini, si pongano in una classe, e si
indichino con segni qualsiasi; il più comodo sarà numerarli. Fra i
termini primi si pon- gano non solo lo cose ma anche i modi o rapporti
(**•). Poiché i termini composti variano in distanza dai termini primi, a
seconda del numero di termini primi di cui si compongono - cioè a seconda
dell’esponente della combinazione, - si facciano tante classi, quanti
sono gli esponenti, e in cia- scuna classe si pongano i termini che
constano di un ugual numero di ter- mini primi. I termini sorti da una
combinazione di due non si potranno indicare altrimenti che scrivendo i
termini primi di cui si compongono; c poiché i termini primi sono
indicati da numeri, si scrivano due numeri che indichino i due termini.
Ma i termini derivati da una combinazione di tre o anche da una
combinazione di maggior esponente - cioè quelli che sono nella classe
terza e seguenti - si possono indicare ciascuno in tanti modi diversi
quanto sono le combinazioni che compongono il suo esponente, con-
siderato non più come esponente, ma come numero Per esempio, siano
alcuni termini primi indicati dai numeri 3, 6, 7, 9; sia un termine
com- posto della classe terza, cioè formato da una combinazione di tre,
p. es. dai tre termini semplici 3, 6, 9; e siano nella seconda classe le
seguenti combinazioni: I.°) 3.6; 2.<>) 3.7; 3.°) 3.9; 4.°) 6.7;
5.®) 6.9; fi») 7.9. Pico che quel dato termine della classe terza si può
scrivere o cosi : 3. 0. 9, (**) Per « analogia» Leibniz intende un
modo di apprensione più imme- diato e diretto che non sia il processo
logico definitorio; per esempio un’ im- magine sensibile. Altrove egli
dice che i termini semplici si apprendono coi sensi. (***)
Questo significa che i termini semplici non si devono intendere so-
lamente come dati concreti, di fatto, sensibili, ma comprendono anche
dati astratti, relazioni ecc. Quale sia la vera natura di questi termini
semplici o molto poco chiaro, o Leibniz si ò espresso in proposito sempre
in modo vago e impreciso. Criterio della verità è dunque che
il predicato rientri nell'ambito del sog- getto; e questo rientrare è
perfettamente calcolabile. Ma tale criterio vale solamente per le verità
di ragione ohe sono ana- litiche. In esse sole il predicato è già
contenuto nel soggetto, poiché solo in esse tutto ciò che si afferma
(predica) a propo- sito di una cosa deve essere già nella cosa stessa. Se
io dico che gli angoli di un triangolo sono uguali a due retti, non
faccio altro che mettere in rilievo, nel concetto di triangolo, una
qua- lità già implicita in esso. Il predicato (essere uguali a duo
retti) fa parte già a priori del soggetto (angoli di un triangolo).
Ma posso io affermare che nel concetto di Giulio Cesare, per
esempio, sia già contenuta, a priori, l’azione di passare il Rubicone? La
proposizione: «Cesare passò il Rubicone» non è analitica, il suo
predicato cioè non è già compreso nel sog- esprimendo tutti i suoi
termini semplici; oppure esprimendo un semplice o, in luogo degli altri
duo semplici, la loro combinazione, p. es. così ; 1 /2 -9 op- pure 8/2 .
6, oppure 5 / 2 .3... Ogni qualvolta un tonnine composto viene usato
fuori della sua classe, lo si scrive sotto forma di una frazione il cui
numero superiore o numeratore è il numero d’ordine nella classe, e quello
inferiore o denominatore il numero della classe. (*) È più comodo, nell’
indicare i ter- mini oomposti, di non scrivere tutti i termini primi, ma
gli intermedi, per diminuirne il gran numero, e fra questi intermedi di
scegliere quelli che più facilmente vengono in mente a chi consideri
quella determinata cosa. Ma sarebbe più rigoroso scrivere tutti i termini
primi. Stabiliti questi principi, si possono trovare tutti i soggetti 0 i
predicati, sia affermativi sia negutivi, sia universali sia particolari.
I predicati di un soggetto dato sono infatti 1 suoi termini primi; così
pure tutti i termini composti più vicini di esso ai primi, i termini
primi dei quali sono compresi nel soggetto dato. Se dunque il termino
dato che viene considerato come soggetto è scritto in funzione dei suoi
termini primi, sarà facile trovare quei primi che di esso si predicano, o
si potranno anche trovare i composti che di esso si predicano, se si
conser- verà l’ordine nel formare le combinazioni. Se invece il termine
dato è indi- cato corno una composizione di composti, o in parte di composti,
in parte di semplici, tutto ciò che si può predicare dei composti che lo
compongono si può predicare anche del termine dato (**).... In tal modo
sara facile inda- gare per mezzo del calcolo tutto ciò che si può
predicare di qualsiasi soggetto dato ». (Ara Combinatoria,
1666, 0. IV, 64-6). (*) P. es. 5/2 . 3 significa la combinazione
del termine semplice 3 col ter- mine composto che ha il quinto posto
nella seconda classe; e cioò, secondo la lista indicata sopra, con 6.9.
La notazione 5 /2 - 3 indica dunque il termine composto 3.6.9.
(**) Questo ò, in sostanza, lo schema dol procedimento sillogistico, in
cui «iò che si predica del termine più generale si può predicare anche
del parti- colare in esso contenuto. getto, ma vi viene aggiunto per
esperienza diretta, contin- gente. Questa proposizione appartiene alle
verità di fatto. Ora, sarà possibile una dimostrazione rigoros.a in
questo campo, se ogni dimostrazione è, come si è visto, un semplice
calcolo per stabilire che i termini componenti il predicato fanno parte
del complesso dei termini componenti il soggetto? Leibniz dice a volte c
he la dimo strazione, quanto alle propo- sizioni di fatto, da solo IìT
probabilità e non la (■ertezza. Ma egli tenta anche di fondare in modo
più rigoroso la sistemazione logica di queste verità, e di far rientrare
anche esse nella re- gola del predicato contenuto nel soggetto. A tale
scopo egli si serve del principio di causalità, cui sottostanno tutte le
verità di fatto. « I termini dell effetto ricercato - si è visto -
comprendono i mezzi necessari a produrlo»; l'effetto, cioè, com- prende
già nella sua nozione tutte le cause che 1 hanno deter- minato. E,
reciprocamente, potremo dire che la nozione della causa racchiude in sè
già implicitamente tutti gli effetti cui darà luogo. Ora, poiché ogni
dato di fatto appartiene alla serie delle cause e degli effetti, ed è
insieme effetto e causa, si può affermare che ogni nozione individuale
contiene in se le nozioni delle cause che 1 hanno prodotta e degli
effetti cui darà luogo; e questa causa e questi effetti a loro volta-
con- terranno le loro cause e i loro effetti, e così via, lino alla
causa prima del tutto e causa di sè, cioè Dio; sicché ciascun
singolo dato e collegato, attraverso tali rapporti causali, con
tutto l’universo. La conoscenza di tutti questi infiniti
nessi causali è su- periore alle forzi* dell ingegno umano, il quale
perciò si contenta di ricorrere alFesperienza del dato di fatto,
rinun- ciando a dedurlo dalle sue cause; sarebbe però, in linea di
principio, possibile. Le proposizioni certe per sè stesse sono di
due tipi; le ime hanno la loro validità nella ragione — e cioè nel
con- tenuto dei loro termini e io le chiamo « note per sè stesse »
■ o anche « identiche »; le altre sono di f'atdoT e ci sì ma-
nifestano attraverso esperienze indubitabili; e tali sono anche le
testimonianze immediate della coscienza. Ma vera- mente anche le
proposizioni di fatto hanno le loro ragioni, e perciò potrebbero essere risolte
nella propria costiti!- II. zione ( 1 ) : ma noi non potremmo
conoscerle a priori attra- verso le loro cause, se non conoscendo la
totalità del- l'universo (cognita tota serie renivi) : il che supera la
forza dell' intelletto umano. Perciò le apprendiamo a posteriori,
sperimentalmente. Ma poiché spesso dobbiamo agire ri- guardo a cose per
le quali manchiamo di una sicura scienza, è preferibile che almeno
sappiamo di sicuro che una certa proposizione è probabile. (
Praecoynita <id Encyclopatdiam, G. VJI, 44). L’apprensione per
via sperimentale e il metodo della pro- babilità derivano dalla
imperfezione della conoscenza umana. In linea di principio, anche di
qualsiasi verità di fatto si può avere una nozione analitica, a priori,
tale che contenga in sè già sviluppati tutti i predicati, cioè tutti gli
effetti e le cause. Il segno di una conoscenza perfetta si ha
quando non c'è nulla della cosa trattata di cui non si possa render
ragione, e non vi sia nessun avvenimento di cui non si possa predile
l'avverarsi. (Frammento De la Hagense, G.VIJ, S3). Ora,
tale conoscenza a priori dei contingenti, se è impossi- bile alla mente
umana, non è impossibile a Dio che li ha scelti e li ha messi in atto.
Di qualsiasi verità si può rendere ragione; infatti la connessione
del predicato col soggetto o è evidente eli per sè, come nelle
proposizioni identiche, oppure si deve spie- gare, il che avviene con la
scomposizione dei termini. E l'unico c massimo criterio della verità,
beninteso nelle pro- posizioni astratte e non derivanti dall' esperienza,
è di ri- solversi nell' identità (ut sit rei identica vel ad
identicas revoca bilia). Di qui si possono dedurre gli elementi
della eterna verità e il metodo in ogni problema, purché si sap-
(1) Oioè potrebbero essere considerate come analitiche. pia
procedere in modo altrettanto dimostrativo che nella geometria. Così,
tutto viene compreso da Dio a priori e al modo delle verità eterne; poiché
egli non ha bisogno di esperienza, ed ogni cosa viene conosciuta da lui
in modo adeguato, mentre da parte nostra quasi nessuna cosa è
conosciuta adeguatamente, poche a priori, e le più per via sperimentale.
E per quest'ultimo modo di cono- scenza si devono usare altri principi ed
altri criteri. (Ve Synthesi et Analysi universali, G. VII,
295-296). Qualsiasi cosa creata, dunque, nella sua considerazione
a priori, così come è nella mente di Dio, contiene in sè come
predicati tutti gli altri contingenti che sono stati o saranno in una
qualsiasi connessione causale con essa: in una parola, tutto il suo
passato e tutto il suo avvenire. Ciò che erano i termini semplici nella
costituzione dei concetti di ragione, sono, nelle verità di fatto, questa
serie di cause e di effetti. Intesa ciascuna verità di fatto in
questo modo, come sog- getto di infiniti predicati, Leibniz la chiama
sostanza indivi- duale: essa racchiude in sè, quando sia intesa in tutta
la sua comprensione, con gli infiniti suoi collegamenti, tutto
l'uni- verso . Per distinguere le azioni di Dio e delle
creature, viene spiegato in che consista il concetto di sostanza
individuale. Poiché le azioni e le passioni appartengono
propria- mente alle sostanze individuali (actiones sunt mppo-
sitorum), sarebbe necessario spiegare che cosa sia u mutale
sostanza. E pur vero che quando si attribuiscono piìi
predicati ad un medesimo soggetto, e questo soggetto non si attri-
buisce come predicato a nessun altro, lo si chiama so- stanza
individuale: ma ciò non è sufficiente, ed una tale spiegazione non è che
nominale. Bisogna dunque conside- rare che cosa significhi l'essere
attribuito veramente ad un certo soggetto. Ora è evidente che ogni
vera predicazione ha qualche fondamento nella natura delle cose, e quando
una propo- sizione non è identica, quando cioè il predicato non è
compreso espressamente nel soggetto, Insogna che vi sia compreso
virtualmente (1) : ed è ciò che i filosofi chiamano in-esse, dicendo che
il predicato è nel soggetto. Così oc- corre che il termine del soggetto
comprenda sempre quello del predicato, in modo che colui che intendesse
perfetta- mente la nozione del soggetto, giudicherebbe anche che il
predicato gli appartiene. Posto ciò, possiamo dire che la natura di
una sostanza individuale o di un essere completo è che la sua
nozione sia così compiuta, da bastare a comprendere e a farne
dedurre tutti i predicati del soggetto cui questa nozione si attribuisce.
Mentre l’accidente è un essere la cui no- zione non comprende affatto
tutto ciò che si può atti i- buire al soggetto al quale si attribuisce
questa nozione. Così la qualità di re che appartiene ad Alessandro
Magno, facendo astrazione dal soggetto, non è abbastanza deter-
minata ad un individuo, e non comprende affatto le altre qualità del
medesimo soggetto, nè tutto ciò che è com- preso nella nozione di quel
principe; mentre Dio, vedendo la nozione individuale o /«eccetto* d
Alessandro, vi vede nello stesso tempo il fondamento e la ragione di
tutti i predicati che gli si possono veramente attribuire, come per
esempio che egli vincerà Dario e Poro, fino a cono- scervi a priori (e
non per esperienza) se egli sia morto di morte naturale o per* veleno;
cose che noi non possiamo sapere se non dalla storia. Inoltre, quando si
consideri bene la connessione delle cose, si può dire che vi sono da
ogni tempo nell’ anima di Alessandro resti di tutto ciò che gli e
(1) Cioè, nelle proposizioni identiche (analitiche) il predicato è
contenuto nel soggetto per la conformazione del soggetto stesso
(espressamente). Nelle proposizioni di fatto, invoee.il predicato è
contenuto nel soggetto in quanto collegato ad esso da una relazione di
causa ad effetto (virtualmente). accaduto, e segni di tutto ciò che gli
accadrà, perfino tracce di tutto ciò che accade nell’universo; benché
non appartenga che a Dio di riconoscerle tutte. ( Discours de
métaphysiqtu:, 1080, § Vili). A questa stregua possiamo dire che
l’atto di passare il Ru- bicone non si aggiunge alla nozione di Cesare
come qualche cosa di nuovo, di contingente, d’imprevisto. Cesare, per chi
in- tenda, questa nozione in tutti i suoi collegamenti, contiene in
sè già a priori tutto lo sviluppo della sua personalità, compreso l'atto
di passare il Rubicone: il quale, quando si attuerà, non sarà che la
conseguenza necessaria delle cause che 1" hanno prodotto, quindi lo
sviluppo ili ciò che era già contenuto in esse. Libertà e
causalità. - Sorge qui di nuovo, analogamente a ciò che si è visto
poc’anzi a proposito della determinazione di Dio a scegliere il
«migliore», il problema della libertà. Se ogni fatto contingento è
presente nella mente di Dio, non cesserà esso di essere contingente ? Non
sarà per ciò stesso ne- cessario, predeterminato? E non cadrà così anche
qualsiasi libertà nell azione dell uomo, la quale si svolge nel
campo delle verità di fatto? E insieme con essa, ogni
responsabilità umana nel biute e nel male? Anche a proposito di questo
pro- blema, strettamente collegato con l'altro citato, Leibniz fa
una distinzione fra connessione necessaria e inclinante.
Poiché la nozione individuale di ogni persona comprende una volta per
tutte ciò che mai le accadrà, si redono in essa le prove a priori dell'
avverarsi di ciascun avvenimento, o le ragioni per cui è avvenuta una
cosa piuttosto che un'altra ; ina queste verità, benché sicure, nondimeno
sono contingenti, in quanto fondate sul libero ar- bitrio di Dio o delle
creature, la cui scelta dipetuie sempre da ragioni che inclinano senza
necessitare. Bisogna cercare di risolvere una grave difficoltà che
può nascere dai fondamenti che abbiamo fissato qui sopra. Abbiamo
detto che la nozione di una sostanza indivi- duale comprende una volta
per tutte tutto ciò che le può mai accadere, e che, considerando tale
nozione, vi si può vedere tutto ciò che si potrà veramente enunciare di
essa, come possiamo vedere nella natura del circolo tutte le pro-
prietà che se ne possono dedurre. Ma semi ira che venga con ciò distrutta
la differenza fra le verità contingenti e le ne- cessarie, che non vi sia
più alcuna libertà umana, e che una fatalità assoluta venga a regnare su
tutte le nostre azioni come su tutto il resto degli avvenimenti del
mondo. Al che io rispondo che bisogna fare distinzione fra ciò che
è certo e ciò che è necessario: tutti sono d'accordo che i futuri
contingenti sono assicurati, poiché Dio li prevede; ma non si riconosce,
dicendo ciò, che siano necessari. Ma, si dirà, se qualche conclusione si
può dedurre infalli- bilmente da una definizione o nozione, essa sarà
neces- saria. Ora. dato che noi sosteniamo che tutto ciò che deve
accadere a qualsiasi persona è già compreso virtualmente nella sua natura
o nozione, così come nella definizione del circolo sono comprese le sue
proprietà, la difficoltà sussiste ancora. Per risolverla in modo
plausibile, dico che la con- nessione o consecuzione è di due specie : l’
una è assoluta- mente necessaria, e il suo contrario implica
contradizione (e questo modo di deduzione ha luogo per le verità
eterne, come quelle di geometria). L’altra non è necessaria che ex
hypothesi e, per così dire, accidentalmente, ma in sè stessa è
contingente: e ha luogo quando il contrario non implica contradizione. E
questa connessione è fondata non sulle pure idee e sul semplice
intelletto di Dio, ma anche sui suoi liberi decreti e sull'ordine
dell’universo. Veniamo ad un esempio: poiché Giulio Cesare
diverrà dittatore perpetuo e capo della repubblica, e rovescerà la libertà
dei Romani, tale azione è compresa nella sua no- zione, poiché noi
supponiamo che la natura di una tale nozione perfetta di un soggetto sia
di comprendere tutto, affinché il predicato vi sia compreso, ut possit
inesse sub- jecto. Si potrebbe dire che non è in virtù di questa
no- zione o idea che egli deve commettere questa azione, poiché essa
non gli conviene se non perchè Dio sa tutto. Ma si insisterà che la sua
natura o forma risponde a questa nozione, e poiché Dio gli ha imposto
questa parte, gli è ormai necessario sostenerla. Io potrei rispondere
invo- cando l’analogia dei futuri contingenti, i quali non hanno
ancor nulla di reale se non nell’ intelletto e nella volontà di Dio, e
poiché Dio ha dato loro inizialmente questa forma, bisognerà in ogni modo
che vi rispondano. Ma preferisco risolvere le difficoltà che
giustificarle con l’esempio di altre difficoltà simili; e ciò che dirò,
servirà a chiarire sia l una sia l'altra. È dunque ora il momento
di applicare la distinzione fra le connessioni; ed io dico che ciò
che accade conformemente a questi precedenti è sicuro, ma non necessario:
e se qualcheduno facesse il contrario, non farebbe nulla d’
impossibile in sé, quantunque sia im- possibile (ex hypothesi) che ciò
accada. Poiché, se qualche uomo fosse capace di portare a termine tutta
la dimo- strazione in virtù della quale potrebbe provare questa
con- nessione del soggetto che è Cesare col predicato che è la sua
fortunata impresa, mostrerebbe effettivamente che la dittatura futura di
Cesare ha il suo fondamento nella sua nozione o natura: che vi si vede
una ragione per cui egli ha deciso di passare il Rubicone piuttosto che
di arrestar- visi, e per cui egli ha vinto piuttosto che perso la
gior- nata di Farsaglia, e si vede pure che era ragionevole e
perciò sicuro che ciò sarebbe accaduto, ma non che ciò fosse necessario
in sé stesso, nè che il contrario impli- casse contradizione. Press’ a
poco come è ragionevole e si- curo che Dio farà sempre il migliore,
benché ciò che è meno perfetto non implichi affatto contradizione.
Infatti si troverebbe che tale dimostrazione di questo pre- dicato
di Cesare non è altrettanto assoluta che quella dei numeri o della
geometria, ma che essa presuppone l’ordine delle cose che Dio ha scelto
liberamente, e che è fondato sul primo Ubero decreto di Dio - il quale
comporta di fare sempre tutto ciò ohe è più perfetto - e sui
decreto che Dio ha fatto (in seguito al primo) riguardo alla natura
umana, cioè che l’uomo farà sempre (per quanto liberamente) ciò che
parrà il migliore. Ora ogni verità che sia fondata su questa specie di
decreti è contingente, benché sia certa; poiché questi decreti non
cambiano affatto la possibilità delle cose e, come ho già detto, benché
Dio scelga sem- pre sicuramente il migliore, ciò non impedisce che ciò
che è meno perfetto non sia e non resti possibile in sé stesso,
sebbene non accadrà ; perchè non è la sua impossibilità, ma la sua
imperfezione che lo fa respingere. Ora nulla è necessario, di cui sia
possibile l’opposto. Si sarà dunque in condizione di risolvere
queste specie di difficoltà, per quanto grandi appaiano (ed infatti
esse non sono mono impellenti a questo riguardo che tutte le altre
che si sono mai riferite a tale materia), purché si consideri bene che tutte
le proposizioni contingenti hanno ragioni per essere piuttosto così che
altrimenti, oppure (ciò che è lo stesso) che esse hanno delle prove a
priori della loro verità, le quali le rendono certe e mostrano che
la connessione del soggetto e del predicato di que- ste proposizioni ha
il suo fondamento nella natura del- l’ imo e dell'altro: ma che esse non
hanno dimostrazioni di necessità, poiché queste ragioni non sono fondate
che sul principio della contingenza o dell'esistenza delle cose,
cioè su ciò che sembra il migliore fra varie cose ugual- mente possibili
: mentre le verità necessarie sono fondate sul principio di contradizione
e sulla possibilità o impos- sibilità delle essenze stesse, senza
riguardo, in ciò, alla volontà libera di Dio o delle creature.
( Discour « de métti physique, 1086, §X1II). D’altra parte,
Leibniz usa anche altri argomenti per sal- vare la libertà e la
responsabilità in questa connessione causale universale. Libertà non è
sempre necessariamente un contrap- posto di determinazione
causale. Quanto al libero arbitrio, sono dell' opinione dei
tomi- sti (1) e di altri filosofi, i quali credono che tutto sia
predeterminato: e non vedo ragione di dubitarne. Ciò però non impedisce
che noi abbiamo ima libertà esente non solo dalla costrizione, ma anche
dalla necessità: ed in ciò la nostra situazione è analoga a quella di Dio
stesso, il quale è pure sempre determinato nelle sue azioni, poiché
non potrebbe fare a meno di scegliere il migliore. Ma se egli non avesse
da scegliere, e se ciò che egli la, fosse 1 unico possibile, egli sarebbe
sottomesso alla necessità. Piu si è perfetti, più si è determinati al
bene, ed anche più liberi nello stesso tempo. Poiché si ha una facoltà e
conoscenza tanto pili estesa ed una volontà tanto più rinchiusa nei
limiti della perfetta ragione. (Lettera al Bayle, G. Ili,
58-9). Quantunque tutti i fatti dell’universo siano ora certi
in rapporto a Dio. o (ciò che è poi lo stesso) determinati in sé
stessi ed anche legati fra di loro, non ne viene di con- seguenza che il
loro legame sia sempre di una vera ne- cessità. cioè che la verità la
quale stabilisce che un fatto è conseguenza dell altro, sia necessaria.
Ed è questo prin- cipio che bisogna applicare particolarmente alle
azioni volontarie. Quando ci si propone una scelta, per
esempio di uscire o di non uscire, il problema è se, con tutte le
circostanze interne od esterne, motivi, percezioni, disposizioni,
impres- sioni. passioni, inclinazioni prese insieme, io sia ancora
in istato di contingenza, o se io sia necessitato a scegliere, per
esempio, di uscire. Cioè è da domandare se la proposi- zione vera ed
effettivamente determinata: « in tutte queste circostanze prese insieme
io sceglierò di uscire », sia con- (1) Il principio ohe il mondo
sensibile sia retto dalla leggo di causalità appartiene alla tradizione
ari»toteliea, ricevuta da Leibniz attraverso la scolastica. tingente
o necessaria. A ciò io rispondo che è contingente; perchè nè io nè alcun
altro spirito più illuminato di me potrebbe dimostrare che l'opposto di
questa verità impli- chi contradizione. E supposto che per libertà il'
indiffe- renza & intenda una libertà opposta alla necessità
(come ho or ora spiegato), io accetto tale concetto della libertà.
Poiché sono effettivamente d'opinione che la nostra libertà, così come
quella di Dio e degli spiriti beati, è esente non solo da coazione, ma
anche da una necessità assoluta; benché essa non possa essere esente
dalla determinazione e dalla certezza. Ma io penso che in
questo argomento sia necessaria una grande precauzione, per non cadere in
una concezione chi- merica che urta contro i principi del buon senso: la
quale sarebbe ciò che io chiamo indifferenza assoluta o di equi-
librio: concetto che taluni introducono nella libertà, e che io ritengo
chimerico. Bisogna dunque considerare che que- sto legame di cui ho
parlato, assolutamente parlando non è punto necessario, ma che non jier
questo è men vero; e che in generale, ogni volta che. in tutte le
circostanze prese insieme, la bilancia della deliberazione è piìi
carica da una parte che dall’altra, è certo e immancabile che que-
sto partito vincerà. Dio, o il saggio perfetto, sceglieranno sempre il
migliore conosciuto, e se un partito non fosse mi- gliore dell'altro,
essi non sceglierebbero nè l'uno nè l’altro. Nelle altre sostanze
intelligenti, le passioni spesso terranno luogo di ragione, e si potrà
semine dire, riguardo alla vo- lontà in generale, che la scelta segue la
jiiù grande incli- nazione-, nella quale io comprendo sia le passioni,
sia le ragioni vere o apparenti. So bensì che qualcuno
immagina che ci si determini qualche volta per il partito meno carico di
ragioni, che Dio scelga qualche volta, tutto considerato, il minor
bene, e che l’ uomo scelga a volte senza motivo e contro tutte le
sue ragioni, disposizioni e passioni; insomma che si scelga a volte senza
che vi sia alcuna ragione che determini la scelta. Ma ciò, io lo ritengo
falso e assurdo, poiché è uno dei massimi principi del buon senso che
nulla accada senza causa o ragione determinante. Così, quando
Dio sceglie, lo fa secondo il criterio del mi- gliore; quando l'uomo
sceglie, sceglierà il partito che l'avrà colpito maggiormente. E se
scegliesse ciò che vede meno utile e meno piacevole, sarà magari perchè
gli è divenuto piacevole per capriccio, per spirito di contradizione, o
per analoghe ragioni di gusto depravato; le quali però non per
questo saranno meno determinanti, anche quando non fossero concludenti. E
non si troverà mai un esempio con- trario a ciò. Così,
quantunque noi abbiamo una libertà di indifferenza che ci salva dalla
necessità, non abbiamo mai una indif- ferenza di equilibrio che ci esima
dalle ragioni determi- nanti. C’è sempre qualche cosa che ci inclina e ci
la sce- gliere, ma senza che ci possa necessitare. E come Dio e
sempre portato infallibilmente al migliore, per quanto non vi sia portato
necessariamente (se non per mia necessità morale), noi siamo sempre portati
infallibilmente a ciò che ci colpisce di più, ma non necessariamente.
Poiché il contrario non implicava alcuna contradizione, non era
punto necessario nè essenziale che Dio creasse alcunché nè che creasse
particolarmente questo mondo: benché la sua saggezza e la sua bontà ve lo
abbiano indotto. (Lettera al Coste, 1707, 6. Ili, 400-102).
Previsione e predeterminazione. - Posto ciò, è possib ile pensare
che la previsione dei predicati contingenti da parte- di Dio non
contraddica alla libertà. P reveder e non significa predeterminare. Dio
sceglie fra i possibili una serie nella quale soiuTdpaT contenute
determinate azioni col carattere di li- bertà. Nello sceglierle, egli non
le crea nè le determina: non fa che metterle in azione, attualizzare la
loro possibilità. Nel farlo, egli vede tutta la serie, ne prevedo gli
sviluppi: con ciò non ha però determinato quelle azioni, le quali
mantengono, nella serie attuale come in quella possibile, la loro
caratteri- stica di libertà. Dio inclina la nostra anima
senza necessitarla ; non si ha il diritto di lamentarsi, e non si deve
domandare perchè Giuda pecchi, ma solamente perchè il peccatore Giuda sia
ammesso all' esistenza a pre- ferenza di altre persone possibili.
Imperfezione originale prima del peccato e gradi della grazia.
Quanto all’azione di Dio sulla volontà umana, vi sono moltissime
considerazioni assai difficili, che sarebbe lungo esporre qui. Ciò
nonostante, ecco che cosa si può dire all' ingrosso: Dio, concorrendo
ordinariamente alle nostre azioni, non fa che seguire le leggi che egli
ha stabilite; egli conserva, cioè, e produce continuamente il nostro
es- sere, in modo che i pensieri ci arrivino spontaneamente o
liberamente nell'ordine determinato dalla nozione della nostra sostanza
individuale, nella quale essi si potevano prevedere fin dall’eternità. In
più, in virtù del suo decreto secondo cui la volontà tende sempre al bene
apparente, esprimendo o imitando la volontà di Dio sotto certi
aspetti particolari, riguardo ai quali questo bene apparente ha
sempre qualche cosa di reale, egli determina la nostra alla scelta di ciò
che sembra il migliore, senza però ne- cessitarla. Poiché, assolutamente
parlando, essa è nell’ in- differenza, in quanto la si oppone alla
necessità, ed ha il potere di fare altrimenti o anche di sospendere
affatto la propria azione; l'uno e l'altro partito essendo e rima-
nendo possibili. Dipende dunque dall'anima di premunirsi contro le
sor- prese dell’apparenza, attraverso una ferma volontà di fare
riflessioni, e di non agire nè giudicare in determinate oc- casioni, se
non dopo aver maturamente deliberato, fi vero però, ed anche è assicurato
da tutta f eternità, che qualche anima non si servirà affatto di questo
potere in una tale circostanza. Ma chi ne ha colpa? può essa lagnarsi
d'altri che di sè stessa ? Poiché tutte queste lagnanze post factum
sono ingiuste, quando sarebbero state ingiuste ante factum. Ora
quest’anima, un poco prima di peccare, avrebbe mo- tivo di lagnarsi di
Dio come se egli la determinasse al peccato? Essendo le determinazioni di
Dio in questa ma- teria imprevedibili, d’onde sa essa di essere
determinata a peccare, se non quando essa pecca già effettivamente?
Non si tratta che di non volere; e Dio non potrebbe pro- porre condizione
più agevole e piii giusta; così tutti i giudici, senza cercare le ragioni
che hanno disposto un uomo ad avere una cattiva volontà, si fermano a
consi- derare soltanto quanto questa volontà sia cattiva. Ma forse
è fissato da tutta l’eternità che io peccherò? Rispondete voi stessi:
forse no. E senza pensare a ciò che voi non potete conoscere e che non
può darvi alcun lume, agite seguendo il vostro dovere, che
conoscete. Ma qualche altro dirà : D onde consegue che
quest'uomo commetterà sicuramente questo peccato ? La risposta è
facile: è che altrimenti non sarebbe quest’ uomo. Poiché Dio vede
dall’eternità che vi sarà un certo Giuda la cui nozione o idea posseduta
da Dio contiene questa azione futura libera. Non resta dunque se non
questo problema: perchè un tal Giuda, traditore, che non è se non
possibile nell’ idea di Dio, esista attualmente. Ma a tale domanda
non è da aspettare risposta quaggiù, se non che in gene- rale si deve
dire che, poiché Dio ha trovato giusto che Giuda esistesse nonostante il
peccato che egli prevedeva, bisogna che questo male si compensi ad usura
nell - universo, che Dio ne tragga un bene maggiore, e che insomma
questo ordine di cose, nel quale l'esistenza di tale peccatore è com-
presa, sia il più perfetto fra tutti gli altri ordini possibili (1).
(1) Questo concetto del male come parte integrante e necessaria
dell’ar- mnnia universale, sarà il tenia fondamentale della
Tendiceli. Ma spiegare sempre l' ammirevole economia di questa
scelta, non si può, durante il nostro passaggio su que- sto mondo; e
basti saperlo, senza comprenderlo. Questo è il momento di riconoscere
altitudinem divitiarum, la profondità e l’abisso della saggezza divina,
senza voler sviluppare problemi di dettaglio, che implicano
considera- zioni infinite. Si vede però bene che Dio non è la
causa del male. Poiché non soltanto dopo la perdita dell’ innocenza
degli uomini il peccato originale si è impossessato dell' anima, ma
ancor prima vi era una limitazione o imperfezione originale connaturale a
tutte le creature, che le rendeva soggette al peccato e capaci di errare.
Così non vi è mag- gior difficoltà riguardo ai supralapsari (1) che
riguardo agli altri. Ed a ciò, a mio avviso, si deve ridurre l'opi-
nione di S. Agostino e di altri autori, che l’ orìgine del male sia nel
nulla; cioè nella privazione o limitazione delle creature, alla quale Dio
rimedia graziosamente col grado di perfezione che gli piace di dare.
Questa grazia di Dio, sia ordinaria o straordinaria, ha i suoi gradi e le
sue misure, è sempre efficace in sé stessa a produrre un certo
effetto proporzionato; ed inoltre essa è sempre sufficiente, non
solo a preservarci dal peccato, ma anche a condurci alla salvazione,
supponendo che l’uomo si unisca ad essa per quanto dipende da lui. Ma
essa non è sempre sufficiente a superare le inclinazioni dell' uomo,
perchè altrimenti egli non terrebbe più a nulla; e ciò è riservato alla
sola grazia assolutamente efficace, che è sempre vittoriosa; o che
lo sia per sè stessa, o per l'accordo delle circostanze.
(Discount de mélaphysiqne, 1 080, §XXX). (I) L supralapsari
sostenevano, contro gli infialapsari, che la predeter- minazione divina
si esercitasse anche prima del peccato originale (sujrra lapsum, prima
della caduta) e che quindi il fallo di Adamo non fosse stato compiuto per
un atto di libera volontà. Leibniz, con questu sua concilia- zione di
predeterminazione e contingenza o libertà, rende ozioso il problema,
4. — Leibniz, La monadologia. Ma a parto questi problemi di necessità,
libortà, previsione predeterminazione, che rientrano piuttosto
nell’ambito della Teodicea, il punto essenziale toccato qui è V
universalità della sostanza indimdmle che, con lo infinite connessioni che
rac- chiude in sè, diviene l’universo stesso visto da un
particolare punto di vista. Essa comprende il proprio passato e il
proprio avvenire, e insieme il passato e l’avvenire di tutto
l'universo; raggiunge cioè il massimo del l'universalità: è una visione
to- tale, complessiva del tutto. E d'altra parte conserva
tutta la sua individualità. 11 punto di partenza è sempre il singolo dato
di tatto, specifico, parti- colare, contingente. Esso non scompare nel
tutto: rimane ben chiaro e visibile come capo dell’ immenso filo
svolgentesi al- I' infinito, al seguito di tutte le connessioni causali.
Rimane e garantisce un punto di appoggio, una possibilità di
percor- rere ordinatamente tutto 1’ interminabile cammino. E d’altra
parte ammette la possibilità di infiniti altri punti di partenza. Le
sostanze individuali sono tante quanti sono i dati di fatto, cioè
infinite. E ciascuna è tutto l’imiverso. Ma ciascuna da un diverso punto
di vista, con diverso punto di partenza. L’uni- verso è uno: ciascun
particolare è una infinitesima parte di esso: ma da ciascun particolare
si ha la possibilità di risalire alla totalità nel suo complesso. In
questa unione di particolare e universale nella sostanza individuale, sta
la prima grande scoperta di Leibniz, il nu cleo fon damentale del
concetto di monade. Un altro campo del! attività di pensiero
loibniziana è la filo- sofia della natura; campo ben distinto da quello
che si è visto fin ora, e trattato con strumenti e metodi di tutt’altro
genere. I problemi qui analizzati hanno particolare affinità con
quelli dello scienze fisiche: c ostituzione della m ateria, esistenza o
meno degli atomi, del vuoto, origine e funzione del movimento, del-
l’energia, etc. Leibniz non fa discendere la soluzione di questi problemi
dai principi generali della sua filosofia metafisica: li tratta per sè
stessi, secondo una tecnica ad essi propria, seguendo in questo il suo
uso di entrare sempre nel vivo di ogni ricerca e di appropriarsi le
caratteristiche particolari di ogni scienza. In seguito poi, una volta
giunto a determinate soluzioni e ad atteggiamenti definitivi, li metterà
in rapporto con le soluzioni ottenute negli altri campi, giungendo così
a sintesi sempre più ricche e comprensive. La continuità e la
materia. - Le idee di Leibniz nella filosofia fisica subiscono una
profonda evoluzione, dalla giova- nile Hypothesis physica nova, alle
concezioni più mature. E nel corso di questa evoluzione si formano i suoi
concetti fon- damentali in questo campo. Egli comincia come atomista,
al seguito del Gasa elidi (1592-1G65), il quale rinnovava le
dottrine di Epicuro e di Democrito, e concepiva la materia in tutti
i suoi aspetti come formata dalla varia combinazione degli atomi nel vuoto.
Ben presto però Leibniz abbandona questa teoria, la quale è
inconciliabile col suo principio di continuità. È questo uno dei
fondamenti del suo pensiero, e si applica non solo alla considerazione
della materia, ma anche a molti altri aspetti della sua speculazione. Per
esso non esistono arresti, interruzioni, distacchi nello sviluppo delle
cose. Per esso natura non facil saltus. Applicato alla considerazione
logica del mondo sensibile, questo principio è il fondamento del
passaggio inin- terrotto dalla causa all’effetto e dall’effetto alla
causa, senza ammettere posto una volta il miracolo iniziale della
creazione - nuove creazioni ex novo, nuovi miracoli. Per questo
princi- pio tutto il mondo è comiesso in tutte le sue parti; sì che
dal- ì’una si può, attraverso un procedimento ininterrotto, passare
a qualsiasi altra. Nulla avviene ad un tratto. Una delle mie
grandi mas- sime, e delle più ricche di applicaziomi, è che la
natura non fa mai salti : 1' ho chiamata legge della continuità;....
e l’uso di questa legge è molto importante nella fisica: essa stabilisce
che si passi sempre dal piccolo al grande e viceversa, attraverso il
medio, nei gradi come nelle parti, e che mai mi movimento nasca
immediatamente dal ri- poso, nè vi giunga se non attraverso un movimento
più piccolo; che non si possa mai finire di percorrere alcuna linea
o lunghezza prima d’aver percorso una linea più piccola; quantunque
coloro che hanno formulato finora le leggi del movimento, non abhiano
affatto osservato questa legge, credendo che un corpo possa ricevere in
mi istante un movimento contrario al precedente. Tutto ciò permette
di stabilire che anche le percezioni evidenti^de- rivano per gradi da
quelle che sono troppo piccole per essere osservate. Giudicare altrimenti
significa non cono- scere a sufficienza 1’ i mm ensa sottigliezza delle
cose, che implica sempre e ovunque un infinito attuale.
(Nuovi Saggi, 1701 segg., Prefazione. G. V, 49). Applicato
alla considerazione del mondo materiale, il principio di continuità
stabilisce che la materia è divisibile all’ infinito, e che non è
possibile concepire un arresto in questa divisibilità, o pensare un
elemento che sia indivisibile e possa rappresentare un punto ili
partenza per la costituzione dei corpi. Viene così a cadere la dottrina
dell’ atomo (1) come elemento primo e semplice, dalla cui composizione
derivino i diversi aspetti della materia. Qualsiasi elemento materiale,
sia pur piccolissimo, è concepito come composto di parti. Poiché
il continuo è divisibile all'infinito, qualsiasi atomo sarà, in certo
modo, come un mondo di infinite specie, e vi saramio mundi in mundis in
infinitum. ( Hypothesis pkyeica nova, Theoria molli e concreti,
1671, G. IV, 201). Tutta la natura è piena di corpi organizzati,
cioè animali e piante o altre specie ancora, e non vi è atomo che
non contenga un mondo di creatine, poiché tutto è diviso at-
tualmente all' infinito. (lettera al Burnott, 1699, G. Ili,
250). Il movimento. La materia, dunque, non è formata di
atomi: è divisibile all’infinito, continua, omogenea, tale che mai si
potrà arrivare all’elemento più piccolo di essa. D’altro lato, essa non è
riducibile a pura estensione, come voleva Car- tesio (2). Tale
concezione, che terrebbe conto nella materia dei soli elementi geometrici
e la considererebbe solo in funzione dello spazio che occupa, non è
sufficiente per Leibniz. La ma- teria è per lui qualche cosa di più: è
anzitutto compattezza, movimento, inerzia. È ciò che oppone resistenza.
Che la natura normale della sostanza corporea sia co- stituita
dall’estensione, mi pare sia affermato da molti con grande sicurezza, ma
da nessuno dimostrato; certamente, non derivano dal l’estensione nè il
movimento o azione, nè la resistenza o passione; e neppure le leggi della
natura che regolano il movimento e l’urto dei corpi. E veramente il
concetto dell'estensione non è primitivo, ma risolubile (1)
"ATOfioq significa appunto indivisibile. (2) Ricordiamo che
Cartesio, nella sua deduzione del mondo da Lio, prende come punto di partenza
le due sostanze: ree cogitane (principio spi- rituale) e ree exietcne
(principio della materia). in altri. Infatti, da ciò che è esteso si
richiede che sia un tutto continuo in cui coesistano vari elementi. E,
per dir tutto, all estensione, il cui concetto è relativo, è
necessario qualche cosa che si estenda o sia continuo, così come
nel latte la bianchezza, nel corpo ciò stesso che ne costituisce
l’essenza. La ripetizione di questo quid (qualunque esso sia) è
l’estensione. E io sono pienamente d'accordo con lo Huygens ( I ) (del
quale ho grande stima in questioni naturali e matematiche), cho spazio
vuoto e pura esten- sione siano un solo e medesimo concetto: nè, a mio
giudi- zio, la mobilità o la dcvriTUTtla (2) possono spiegarsi con
la pura estensione, ma solo con un soggetto dell’ estensione il
qualo non solo determini, ma riempia anche uno spazio.
(Animadvtraionee in pariem generabili Prinoipiorum eurtesianorvm,
prima del 1692, G. IV, I)a che cosa derivano, ora, queste
qualità della materia? Questa azione, questa resistenza etc., in cui
consiste l’essen- ziale di essa? Nei suoi primi studi, Leibniz fa
derivare tutte le qualità della materia dal movimento. La
materia prima è la massa stessa, nella quale non è nuli altro che
estensione e àvTiTtmta, ovvero impene- trabilità: ('estensione le deriva
dallo spazio che riempie; ma la vera natura della materia consiste
nell'essere alcun- ché di denso (crassum) e impenetrabile, e in conseguenza
tale che, incontrandosi con qualche cosa d'altro, si muova (dato che
l’uno dei due deve cedere). Questa massa con- tinua che riempie il mondo
mentre tutte le sue parti ri- ti) Cristiano Huvobns (1629-1695)
grande scenziato olandese, autore della teoria ondulatoria della luco e
primo applicatole del principio del pen- dolo alla costruzione degli
orologi, 6 uno di coloro ohe hanno maggiormente influito sullo sviluppo
dello idee scientifiche di Leibniz. La loro amicizia c cor- rispondenza
dura da iranno della loro conoscenza a Parigi (1672) finn alla mor- te
della Huygens. E fin dal 1669, Leibniz aveva tratto dalle leggi di
Huygens sugli urti lo spanto per alcune sue idee sulla costituzione della
materia. (2) Antitypia è il termine usato da Leibniz por indicare
la compattezza e impenetrabilità della materia. mangono in
quiete, è la materia prima, dalla quale ogni cosa deriva attraverso il
movimento, e nella quale tutto si dissolve attraverso la quiete. In essa
non vi sarebbe’ infatti nessuna diversità, ma una pura omogeneità,
se non vi fosse il movimento.... Dalla materia passiamo ora
alla forma. Se supponiamo che la forma non sia altro che figura,
troveremo di nuovo una mirabile concordanza. Infatti, poiché la figura è
il limite ( terminus ) del corpo, per formare le figure della
materia sarà necessario un limite. E per far sorgere vari limiti nella
materia, bisogna ricoiTere alla discontinuità delle parti, dato che
(piando le parti sono discontinue, ciascuna di esse ha termini separati
(infatti Aristotele de- finisce i continui come quelli il cui limite è
uno (1)); ma la discontinuità, in quella massa inizialmente continua,
può essere prodotta in duplice modo : o togliendole insieme an- che
la contiguità, il che ha luogo quando avviene una se- parazione fra le
parti, in modo che si produca un vuoto; oppure conservando la contiguità,
come quando le parti, pur rimanendo accoste, si muovono tuttavia in
direzioni diverse: così per esempio due sfere, comprese l una
nell'al- tra, possono muoversi in direzioni diverse e tuttavia ri-
manere contigue cessando di essere continue. Di qui è chiaro che se la
massa è stata creata inizialmente discon- tinua o interrotta da vuoti,
alcune forme devono esser state create contemporaneamente alla materia;
se invece la massa è inizialmente continua, è necessario che le
forme sorgano dal movimento perchè dal movimento deriva
la divisione, dalla divisione il limite delle parti, dai li- miti
delle parti le loro figure, dalle figure le forme, quindi dal movimento
derivano le forme. È chiaro da ciò che ogni tendenza alla forma è
movimento: e questa è la so- luzione della contrastata questione
sull’origine delle forme... (1) lu greco nel tosto: uv Tà cacata
sv. Ci resta da occuparci dei mutamenti. Come mutamenti si
enumerano volgarmente (e giustamente) i seguenti: ge- nerazione,
corruzione, aumento, diminuzione, alterazione, e mutamento di luogo o
movimento. I moderni ritengono che tutti questi mutamenti si possano spiegare
attraverso il solo mutamento di luogo. E la cosa è chiara quanto
all’ aumento e alla diminuzione : infatti mutamento di quan- tità
avviene, in un tutto, quando una parte muta di luogo e si aggiunge o
viene tolta. Resta da spiegare attraverso il movimento la generazione e
la corruzione e l’ altera- zione.... E tanto la generazione e la
corruzione quanto l’alterazione possono spiegarsi attraverso mi sottile
movi- mento delle parti: per esempio, poiché è bianco ciò che
riflette molta luce e nero ciò che ne riflette poca, saranno bianche le
cose le cui superficie contengono molti piccoli specchi; e questa è la
ragione per cui la spuma dell’acqua è bianca, constando di innumerevoli
bollicine che sono al- trettanti specchi.... E chiaro da ciò che i colori
derivano dal semplice mutamento di figura e di situazione nella
superficie ; altrettanto potremmo facilmente spiegare, se ne avessimo lo
spazio, della luce, del calore e di tutte le qua- lità. E invero, se le
qualità mutano a causa del solo movi- mento, per ciò stesso muterà anche
la sostanza: mutati infatti tutti gli elementi (perciò anche alcuni di
essi) si elimina la cosa stessa; per esempio, se elimini o la luce
o il calore, avrai eliminato il fuoco. (Lettera al Thomasius, 1669,
6. J, 17-19). Tutto dunque deriva, nella materia, dal movimento; e
senza il movimento, quando cioè sia in quiete, essa perde ogni sua
solidità e consistenza, quindi ogni sua caratteristica di materia.
Leibniz afferma ripetutamente « nullam esse cohaesionem seu consistenliam
quiescentis ». Devo dire che Cartesio ha tutt’ altra opinione,
sembrando a lui che alla stabilità della coesione nei corpi non necessiti
altro elemento collegante ( gluten ) che la quiete. Io sono di opinione
contraria : questo glutine è il movimento. .... Ciò che è in quiete è
spazio vuoto. (Lettera ali’Oldenburg, 1671, Ale. II, I,
166-7). Bisogna spiegare la causa della connessione maggiore
o minore e quindi della eterogeneità nei corpi. Si domanda perchè i
corpi abbiano le parti più o meno coerenti: af- fermo che non si deve
cercare altra causa di ciò se non nel fatto che queste parti stanno o si
muovono insieme. Si muovono insieme perchè in una così grande varietà
di movimenti generali in tutta la massa complessiva era in ogni
modo necessario che alcune parti si allontanassero di molto dalle loro
vicine, altre poco in paragone. E la medesima causa che ha fatto sì che
queste parti poco o nulla si allontanassero dalle loro vicine, fa anche
sì che esse tendano a perseverare nel medesimo stato, perchè la
causa permane. La causa è la combinazione stessa dei mo- vimenti generali
: e i movimenti generali permangono sem- pre. Li turba dunque chi muti
improvvisamente un qual- siasi effetto da essi prodotto e stabilito, e
nel quale tutta la natura consente. Ne deriva chiaramente che la
pres- sione esterna è la causa prima della solidità, e che la
quiete o il movimento cospirante delle parti ne è la causa prossima, ma
soltanto quando deriva da una causa esterna permanente. Così dunque come
la concomitanza, cioè la quiete o il movimento cospirante costituiscono
il corpo solido, analogamente il movimento vario delle parti costi-
tuisce il liquido. E questo è il principio della diver- sità specifica
nei corpi, e del fatto che alcuni sono più densi degli altri, cioè più
solidi o composti di parti so- lide più grandi. Questa tesi è anche
confermata dal- l’esperienza. (Lettera a Onorato Fabri,
1677, G. IV, 250). li. «conatcs». — Il concetto di materia
dun que si dissolve in quello di movimerfto. Ma "come avviene, ora,
tale creazione di materialità'? Qual^dl punto di partenza dell'azione del
movi- mento ? K su che cosa si svolge, inizialmente, tale azione?
Leibniz non può ricorrere agli atomi, come elementi primi, avendoli già
negati in nome del principio di continuità. Egli modifica il suo punto di
partenza, rendendolo privo di esten- sione: considerandolo non più come
la particella più piccola di materia (la quale sarebbe pur sempre
materiale, estesa), ma come un limite o un inizio, qualche cosa quindi di
inesteso. In tale principio, che egli chiama, riprendendo un termine
del- lo Hobbes, comtus, fa coincidere l’ inizio della materialità e
l’ inizio derTìTTTvtrnrnto. Vi sono degli indivisibili o inestesi,
altrimenti non sa- rebbe concepibile nè l’inizio nè la fine del movimento
cor- poreo. Ecco la dimostrazione di ciò : Si vuol trovare 1’ ini-
zio o la fine di uno spazio, di un corpo, di un movimento 0 di un
tempo qualsiasi: sia, ciò di cui si vuol cercare 1 inizio, indicato
da una linea ab il cui punto mediano sia c, e il mediano fra a e c sia d,
e quello fra a e d sia e, e così via. Si cerchi 1‘ inizio della parte
sinistra, verso il lato a. Dico che ac non è 1‘ inizio, perchè gli si può
to- gliere de senza toccare I' inizio; nè lo è ad, perchè gli si
può togliere ed, e così via; non si può mai dunque considerare come
inizio ciò a cui si può togliere qualche cosa dalla parte destra. Ciò a
cui non si può togliere alcuna estensione, è inesteso; dunque 1’ inizio
del corpo, o dello spazio, o del movimento, o del tempo, (cioè il punto,
il conatus, I istante) o è nullo, il che è assurdo, oppure è
inesteso, il che era da dimostrarsi. Il /muto non è ciò che non ha parti,
e neppure ciò di cui non si considerano le parti; ma ciò la cui
estensione è nulla, cioè ciò le cui parti non hanno distanza fra di loro,
la cui grandezza non è da considerarsi, è inassegnabile, è minore di
qualsiasi gran- dezza die possa avere un rapporto non infinito con
una altra grandezza sensibile ; minore di una qualsiasi assegna-
Iòle: e ciò è il
fondamento del metodo di Cavalieri (1) e dimostra in modo chiaro, la
verità di quel suo principio per il quale si concepiscono dei rudimenti,
per così dire, o inizi delle linee e delle figure, minori di qualsiasi
asse- gnabile.... 11 conatus sta al movimento come il punto
allo spazio, cioè come l’unità all' infinito; è cioè 1’ inizio o la fine
del movimento. Perciò tutto ciò che si muove, sia pur debol- mente,
sia pure urtando contro qualsiasi ostacolo, propa- gherà il conatus all ’
infinito per tutto ciò che gli si op- pone nella materia, e perciò
imprimerà il suo conatus a tutte le altre cose : nè si può negare che,
quando anche cessi di procedere, tuttavia abbia un conatus; e per-
ciò tenda ( conetur ), o — che è lo stesso imprima un inizio di movimento
a tutto ciò che gli si oppone, an- che se venga superato da questi
ostacoli. Così in cia- scun corpo vi possono essere contemporaneamente
più conati contrari.... Nel tempo di una spinta, di un urto,
di un incontro, i due estremi dei corpi, o pimti, si penetrano, ovvero
sono nel medesimo punto dello sjxtzio : infatti quando, di due
corpi che s incontrano, l'uno tende a penetrare nel luogo dell altro,
comincerà ad essere in esso, cioè comincerà a penetrare in esso, a unirsi
con esso. Infatti il conatus è inizio, penetrazione, unione; quei due
corpi sono perciò all inizio dell unione, cioè i loro estremi si
uniscono: dunque i corpi che si premono o spingono, hanno coesione.
Infatti i loro estremi sono uno, poiché le cose i cui ter- mini sono uno
(2), sono continue o coerenti, anche pel- li) Bona vkstuka
Cavai.ihri (1598-1(147), autore della Geometria indivisi- hiliurn. ebbe,
eoi suo concetto di indivisibile, «rande influenza sul pensiero
matematico di Leibniz. T3«!i può essere considerato forse come il
principale precursore della scoperta del calcolo infinitesimale, dovuta
al Leibniz e al Newton. (2) In greco nel testo. Cfr. sopra,
p. 55. definizione di .Aristotele; e se due cose sono in un
solo luogo, l’una non può essere spinta senza l’altra.
(Hypothe.sis phyatea nova, Theoria molun abftraeti, 1071, (i. IV,
228-30). Corpo e spirito. — il conatus è dunque, per così dire, l'
ini- zialo punto di contattoTra “materia e movimento: l'atto in cui
il movimento, applicandosi 'ad un punto" spaziale, segna I' inizio
del corpo. Ma che cos’ò il movimento rispetto alla ma- teria, se non un
principio spirituale? La lisica tratta della materia e della unica
affezione risultante dalla sua combinazione con altre cause, cioè
del movimento. Lo spirito (mena) infatti, per ottenere una figura e
situazione delle cose buona e a lui gradita, for- nisce alla materia il
movimento. Infatti la materia di per sè è priva di movimento. Principio
di ogni movimento è lo spirito. (Lotterà al Thouiasius,
l(i(iU, U. I, 22). Così Leibniz, in una formulazione ancora
immatura: e, giunto al concetto di conattie . in esso egli fa consistere
il principio dello spirito. L'estendersi e svilupparsi del conati ts
nello spazio, dà luogo alla materia; l’estendersi nel tempo (sotto forma
di memoria) dà luogo allo spirito. TI corpo sta così allo spirito
come l’ istante sta al tempo; lo spirito al corpo come il punto allo
spazio. Nessun conato senza movimento dura più di un istante,
se non negli spiriti (in mentibus). Infatti ciò che nell'istante è il
conato, quello è nel tempo il movimento del corpo: qui si apre la porta a
chi vorrà proseguire verso la vera distinzione di corpo e spirito, che
non è ancora stata spiegata da alcuno : Dinne enirn corpus est mens
momen- tanea, seu carena recordalione, poiché non ritiene per piìi
di un istante insieme il proprio conato e un altro contrario ; due
elementi, infatti, sono necessari alla sensazione e al piacere o al
dolore, senza i quali non vi è sensazione alcuna: l'azione e la reazione,
cioè la comparazione e quindi Y ar- monia ; perciò il corpo manca di
memoria, manca del senso delle azioni e delle passioni, manca di pensiero
(cogitatio). (llypothesis physica nova, Theoria motus abxtracli,
1671, (!. IV, 230). Come le azioni del corpo consistono nel
movimento, così consistono le azioni dello spirito nel conatun o,
per così dire, nel minimo movimento o punto; infatti anche lo spirito
stesso consiste propriamente soltanto in un punto dello spazio, mentre il
corpo comprende spazio, li questo, per parlare popolarmente, lo dimostro
dal fatto che lo spirito dev'essere nel luogo d : incontro di tutti i
movi- menti che ci vengono impressi dagli oggetti dei sensi. Dato
che, quando voglio stabilire che un dato corpo è oro, prendo insieme la
sua lucentezza, il suo suono, il suo peso, e ne conchiudo che è oro,
bisogna dunque che lo spirito sia in un luogo in cui tutte le linee della
vista, dell’udito e del tatto si incontrano, cioè in un punto. Se noi
dessimo allo spirito uno spazio maggiore che un punto, esso sa-
rebbe già un corpo e sarebbe divisibile in parti; e perciò non sarebbe
sempre intimamente presente a sè stesso e così non potrebbe anche
riflettersi su tutti i suoi elementi e le sue azioni. Eppure in ciò
consiste proprio l’essenza dello spirito. Posto dunque che lo spirito
consista in un punto, è indivisibile e indistruttibile. Da questi
principi e da altri ancora, ho dimostrato molte cose meravigliose
riguardo alle caratteristiche dell'anima umana e in generale di
tutti gli spiriti intelligenti; cose alle quali nessuno finora
aveva pensato, benché da esse sgorghi in modo finora mai visto la
verità della religione, della provvidenza divina, dell im- mortalità
della nostra anima e la possibilità di molti su- blimi misteri (come
quello della giustizia divina, della predestinazione e della presenza nel
sacramento). Ed io spero una volta di poter mostrare tutto ciò nel modo
più chiaro possibile, e di acquistarmi così qualche
benemerenza presso tutti gli uomini intelligenti, ehe odiano
l’ateismo oggi invadente e si preoccupano dell’ eternità.
(Lettera al duca ili Hannover, 1671, f!. I, 52-53). Da questo
contatto fra sostanza spirituale e materiale nel conatus, Leibniz trao le
sue prime conclusioni verso la fun- zione della spiritualità nel mondo
fisico, e 1 importanza dello spirito in rapporto a qualsiasi elemento
corporeo e materiale. Sono capace di dimostrare dalla natura del
movimento nel campo fisico, da me scoperta, che il movimento non
può esistere nei corpi presi per sè, se non vi si aggiunga lo
spirito;.... che lo spirito è incorporeo; che lo spirito agisce su sè
stesso, che nessuna azione su sè stesso può essere movimento, che
l'azione ilei corpo non è se non il movimento, e che quindi lo spirito
non è corpo. Che lo spirito consiste in un punto o centro, e che perciò è
indi- visibile, incorruttibile, immortale. Come nel centro con-
corrono tutti i raggi, così concorrono insieme nello spirito tutte le
impressioni sensibili attraverso i nervi; e dunque lo spirito è un
piccolo mondo concepito in un punto, il quale consiste delle proprie idee
così come il centro con- siste degli angoli, poiché l’angolo è mia parte
del centro, nonostante che il centro sia indivisibile. Così può
essere spiegata geometricamente tutta la natura dello spirito.
(Lettera al duca di Hannover, 1071, U. 1, (il). La
conservazione della forza. — Queste sono le teorie fisiche del giovane
Leibniz. Ha una nuova scoperta fa sì che egli abbandoni il suo concetto
del movimento come essenza dei corpi, e lo sostituisca con quello di
forza. Cartesio aveva affermato la immutabilità e costanza
della quantità di movimento nell’universo; cioè, ehe quanto movi-
mento viene perduto da un corpo, tanto viene acquistato da un altro, sì
ehe la somma complessiva neH ! universo sia sempre costante: intendendo
per quantità di movimento il prodotto della massa per la velocità.
Leibniz dimostra che tale principio nou è esatto, e che ciò la cui somma rimane
costante non è la quantità di movimento, ma la quantità di forza
viva 0 ! azione motrice, che è eguale al prodotto della massa
per il quadrato della velocità. Quale sia la portata di
questa scoperta nel campo fisico, non è il caso qui di notare. Per
intendere l'uso che Leibniz ne farà in questioni filosofiche e
metafisiche bisogna osservare che I azione motrice non rappresenta più
come la quantità di movimento - la semplice traslazione di un corpo da un
luogo ad un altro, ma la possibilità di produrre un determinato ef-
fetto, per esempio, di sollevare un corpo ad una determinata altezza.
Questa azione motrice di Leibniz è quella che oggi si chiama energia.
In generale la forza assoluta deve essere stimata per 1
effetto violento che essa può produrre. Chiamo effetto violento ciò che
consuma la forza dell'agente, come, per esempio, imprimere una certa
velocità ad un corpo dato, elevare un corpo determinato ad ima
determinata altezza, etc. E si può giudicare comodamente la forza di un
corpo pesante, attraverso il prodotto della massa o della pesan-
tezza per 1 altezza alla quale il corpo potrebbe salire in virtù del suo
movimento.... Quando un corpo pesante ha progredito discendendo liberamente,
ed ha acquistato im- peto o forza' viva , le altezze a cui questo corpo
potrebbe allora arrivare non sono affatto proporzionali alle
velocità, ma al quadrato delle velocità. Ed è per questo che nel
caso della forza viva le forze non sono affatto come le quantità di
movimento, o come i prodotti delle masse per le velocità....
Si verifica per via di ragione e di esperienza, che è la forza viva
assoluta - quella determinata dall'effetto violento che può produrre -
che si conserva, e non già la quantità di movimento. Poiché se questa
forza viva potesse mai aumentare, si avrebbe un effetto più potente che
la causa, oppure si avrebbe il moto perpetuo meccanico, cioè mi
movimento che potrebbe riprodurre la sua causa e qualche cosa di più ; il
che è assurdo. Ma se la forza potesse dimi- nuire, essa perirebbe alla
line completamente perchè, non potendo mai aumentare, e potendo però
diminuire, an- drebbe via via decadendo : il che è senza dubbio contrario
all'ordine delle cose. Anche l’esperienza lo conferma.... Adesso mi
piace di guardare la questione da un altro punto di vista, e di mostrare
anche la conservazione di qualche cosa di più prossimo alla quantità del
movimento, cioè la conservazione dell'azione motrice. Ecco dunque
la regola generale che io stabilisco. Qualunque cambiamento possa
accadere tra corpi concorrenti, qualunque sia il loro numero, bisogna che
vi sia sempre nei corpi concor- renti in un sistema chiuso la medesima
quantità di azione motrice nel medesimo intervallo di tempo. Per esempio,
v i deve essere durante questa ora tanta azione motrice nel- T
universo o in dati corpi che agiscono fra di loro in un sistema chiuso,
quanta ve ne sarà durante un'altra ora qualsiasi. Per comprendere
questa regola, bisogna spiegare la va- lutazione deh' azione motrice,
tutta diversa da quella della quantità di movimento, intesa la quantità
di movimento secondo l’uso che si è spiegato sopra. Ora, affinché 1
azione motrice possa essere valutata, bisogna prima valutare 1 ef-
fetto formale del movimento. Tale effetto formale o essen- ziale al
movimento consiste in ciò che è cambiato dal mo- vimento, cioè nella
quantità della massa trasportata, e nello spazio o nella lunghezza
attraverso cui questa massa è trasportata. È questo l'effetto essenziale
del movimento, o il cambiamento che esso determina: poiché il tal
corpo era lì, ora è qui: il corpo è tanto grande e la distanza è
tanta.... Bisogna ben distinguere quello che io chiamo 1
effetto formale o essenziale al movimento, da ciò che ho chiamato
più sopra l' effetto violento. Poiché 1 effetto violento con- suma la
forza e si esercita su qualche cosa di fuori; ma l'effetto formale
consiste nel corpo in movimento preso in sè stesso, e non consuma affatto
forza, anzi la conserva: poiché la medesima traslazione della medesima
massa si deve sempre continuare, se nulla dal di fuori non F im-
pedisce. È questa la ragione per cui le forze assolute sono come gli
effetti violenti che le consumano, ma non già come gli effetti
formali. Ora sarà più facile d' intendere che cosa sia F azione
mo- trice: bisogna diuique stimarla non solo per l’effetto for-
male che essa produce, ma anche per il vigore e la velocità con la quale
essa lo produce. Si vogliono far trasportare 100 libbre alla distanza di
un miglio; questo è l’effetto formale che si domanda. Uno lo vuol
compiere in un’ora, un'altro in due; io dico che Fazione del primo è
doppia di quella del secondo, essendo doppiamente rapida, su ili un
medesimo effetto.... Questa definizione dell azione motrice si
giustifica ab- bastanza a priori, perchè è chiaro che in un' azione
pura- mente formale presa in sè stessa, come è qui quella di un
corpo in movimento considerato a sè, vi sono due punti da esaminare:
l’effetto formale o ciò che è cambiato, e la rapidità del cambiamento;
poiché è ben chiaro che colui che produce il medesimo effetto formale in
minor tempo, agisce di più. (Enfiai/ de Dynamique sur lei
laix dii mouvemenl, M. VI, 218-21). La forza come attività. — La
forza, l’energia, è dunque sostituita al movimento. Dalla' semplice e
obbiettiva trasla- zione dei corpi HaTun luogo all’altro, Leibniz sposta
il centro della attenzione su ciò che della traslazione è la causa,
su ciò che contiene già in sè - per così dire - il movimento allo
stato potenziale, e lo produce. Il movimento perde così realtà a favore
della forza. La forza viene considerata come assoluta e il movimento come
relativo. Bisogna sapore anzitutto che la forza è qualche cosa di
assolutamente reale, anche nelle sostanze create: ma che lo spazio, il
tempo e il movimento hanno qualche cosa dell’ente di ragione, e non sono
veri e reali per sè stessi, ma solo in quanto attributi divini involventi
1* immensità, l’ eternità, l'azione o la forza delle sostanze create. Ise
con- segue che non esiste un vuoto nello spazio nè nel tempo, che
il movimento separato dalla forza, cioè quando non si considerino in esso
se non le caratteristiche geometriche, cioè la grandezza, la figura o i
loro mutamenti, non è altro che un mutamento di luogo; e che perciò il
movi- mento, rispetto ai fenomeni, consiste in una semplice rela-
zione-, il che fu anche riconosciuto da Cartesio, quando definì il
movimento come una traslazione dalle vicinanze di un corpo alle vicinanze
di un altro corpo. Ma nel trarne le conseguenze, dimenticò la sua
definizione, e stabili le regole del movimento come se il movimento fosse
qualche cosa di reale e assoluto. Bisogna dunque ritenere che,
quando più corpi qualsiasi sono in movimento, non è pos- sibile dedurre,
dal loro aspetto esteriore, in quali di essi sia un determinato movimento
assoluto oppure la quiete; ma ciascuno di essi a piacere può essere
considerato in quiete, pur restando uguali le manifestazioni
esteriori. (Specimen Dynamicum, parte 11, M. VI, 247).
1 1 movimento è relativo: la forza sola è assoluta. E il concetto
di forza ha, molto più che quello di movimento, una chiara impronta di attività.
Pare che in esso il conatus degli scritti giovanili abbia trovato il suo
completamento e la sua realiz- zazione. Abbiamo altrove
avvertito che negli esseri corporei vi è qualche cosa al di là
dell'estensione, anzi prima del- l’estensione : la forza della natura,
riposta ovunque dal- l’autore supremo, la quale non consiste soltanto in
una semplice facoltà, come si contentavano di dire gli scola-
stici, ma anche in un conatus o sforzo, il quale avrà il suo effetto
pieno se non sia impedito da un conatus contrario. Questo sforzo si mostra da
ogni parte ai nostri sensi; e, a mio parere, può essere dimostrato per
via ra- zionale ovunque nella materia, anche là dove non è evi-
dente ai sensi. Che se questa forza non si deve attribuire a Dio come un
miracolo, bisogna certamente che sia im- messa da lui nei corpi, in modo
da costituirne 1' intima natura; poiché l'agire è il carattere essenziale
delle sostanze, e l’estensione, lungi dal determinare la sostanza stessa,
non indica altro che la continuazione o diffusione di una so-
stanza già data, la quale tenda e si opponga, cioè resista. Nè importa
che ciascuna azione corporea derivi dal mo- vimento, e il movimento non
derivi se non da mi altro movimento esistente già da prima in quel corpo
o im- pressogli dal di fuori. Infatti il movimento (così come il
tempo) non esiste mai, a considerare la cosa rigorosamen- te; giacché non
esiste mai tutto, non avendo parti coe- sistenti. E nulla vi è in esso di
reale, se non quel quid istantaneo che consiste nella forza tendente al
mutamento. A ciò dimque si riduce tutto ciò che è nella natura cor-
porea al di fuori dell’oggetto della geometria, cioè al di fuori
deH’estensione. (Speri intra Jji/namicum, M. VI, 235).
11 corpo, la materia, contiene dunque in se una t’i*s adiva clic
supera, la materialità ed ha carattere spirituale. Tò Su o
ii.ty.óv, la potenza, 1 è duplice nel corpo: passiva e attiva. La forza
passiva costituisce propriamente la ma- teria o massa, quella attiva la
entelechia (5) o forma. La forza passiva è la resistenza stessà^per la
quale il corpo resiste non soltanto alla penetrazione, ma anche al
mo- li) Entelechia, da èvreXé? (compiuto) e exetv (avere) ò il
termine usato da Aristotele per indicare la lorma pienamente realizzata.
Leibniz lo riprende per definire l’aspetto attivo della sostanza e della
monade. Questo termine 6 anche usato spesso da lui come sinonimo ili
monade. C’fr. Monadologia, §§ 18, 48. vimento. e per la quale
avviene che un altro corpo non possa subentrare al suo posto senza che
esso ceda: d altra parte, esso non cede se non ritardando alquanto il
mo- vimento del corpo che lo spinge, e così tende a perseve- rare
nel proprio stato anteriore, in modo non soltanto da non scostarsene
spontaneamente, ma anche da resistere a ciò che tende a mutarlo. Così vi
sono due resistenze o masse: la prima, quella che chiamano antitypia o
impene- trabilità; la seconda, quella che Keplero chiama inerzia
naturale dei corpi e che Cartesio in qualche luogo del suo epistolario
riconobbe dal fatto che per essa i corpi non accolgono un nuovo movimento
se non per forza, e perciò resistono al corpo che li preme e ne
indeboliscono la forza. J1 che non avverrebbe, se nel corpo, oltre
all'esten- sione, non vi fosse tò Su jo gtxó , cioè il principio delle
leggi del movimento, per il quale avviene che la quantità delle
forze non può essere aumentata, e che un corpo non può essere spinto da
un altro corpo se non diminuendo la forza di quello/ La forza
attiva, che si suole anche dire senz altro forza, non è da concepirsi
come la semplice potenza volgare della scuola, cioè come ima recettività
di azione, ma implica un conatus, cioè mia tendenza all'azione, cosicché,
se non vi sia impedimento, ne derivi l'azionepE in ciò propria-
mente consiste l'entelechia, mal compresa dalla scuola: una tale potenza
infatti comprende 1 atto, nè permane una semplice facoltà, benché non
sempre proceda direttamente all'azione cui tende; a volte infatti vi si
oppone un im- pedimento.! In secondo luogo, la forza attiva è duplice,
primitiva'? derivativa, cioè sostanziale o accidentale. La forza attiva
primitiva, che vien chiamata da Aristotele la prima entelechia
(è'.veXé/ev/ •?) 7tpoVr/;) e nel linguaggio comune forma della sostanza,
è il secondo principio na- turale che, insieme con la materia o forza
passiva, costi- tuisce la sostanza corporea; la quale è in sè un
unità, cioè non un semplice aggregato di più sostanze: come per
esempio vi è grande differenza tra un animale e un gregge di animali. E
perciò questa entelechia è o un'anima, o qualche cosa di analogo
all'anima, e sempre attua na- turalmente qualche corpo organico, il
quale, quando fosse preso separatamente in sè stesso, cioè toltane o
allontana- tane l’anima, non sarebbe un'unica sostanza, ma un ag-
gregato di molti, insomma un artificio della natura.... La forza
derivativa è ciò che alcuni chiamano impetus, cioè conatus, o la
tendenza, per così dire, ad un qualche movimento determinato, attraverso
il quale la forza pri- mitiva o principio dell'azione viene modificato.
Quanto a questa forza, ho mostrato che non si mantiene sempre la
medesima nel medesimo corpo, ma che, comunque sia di- stribuita in piìi
corpi, rimane sempre nella medesima quantità complessiva, e differisce dal
movimento stesso, la cui quantità non si conserva..,. A
stabilire una forza attiva nei corpi ci inducono molte ragioni, e
principalmente l'esperienza stessa, la quale mo- stra che nella materia
vi sono movimenti i quali devono bensì essere attribuiti originariamente
alla causa univer- sale delle cose, cioè a Dio; ma immediatamente e
speci- ficamente devono essere spiegati attraverso la forza posta
da Dio nelle cose^'infatti, dire che Dio nella creazione ha dato ai corpi
una legge di aziono, non è altro se non dire che ha dato ad essi qualche
cosa in virtù di cui quella legge sia osservata; altrimenti dovrebbe
sempre egli stesso procurare continuamente per via straordinaria
l'osservanza di quella legge; mentre è piuttosto la sua legge stessa
che ha efficacia, ed egli ha reso i corpi attivi, cioè ha dato ad
essi ima forza insita} Bisogna inoltre considerare che la forza
derivativa e l'azione sono qualche cosa di modale, perchè sono soggetti a
mutamento. E ogni modo consiste in qualche modificazione di alcunché di
pexsistente, o me- glio di assoluto. Come la figura è in certo modo
una limitazione o mo- dificazione della forza passiva o massa estesa,
così la forza derivativa e l'azione motrice è in certo modo una modifi-
cazione non già di qualche cosa di puramente passivo (altrimenti la
modificazione o limite conterrebbe più realtà di ciò stesso cho è
limitato), ma di qualche cosa di attivo, cioè dell' entelechia primitiva.
Onde la forza derivativa e accidentale o mutevole sarà una qualche
modificazione della vìrtus primitiva essenziale che perdura in qualsiasi
sostanza corporea. Perciò i cartesiani, non riconoscendo alcun
prin- cipio attivo sostanziale modificabile nel corpo, furono co-
stretti a negare ad esso qualsiasi azione ed a trasferire l'azione nel
solo Dio: un Deus ex machina, principio tut- t' altro che
filosofico. ( Frammento del 1702, >1. VI, 100-103).
Valore metafisico della forza. Questa entelechia, que- sta forza di
qui è formata la materia, che ne costituisce anzi la piii intima essenza,
è qualche cosa di analogo all'anima. La materia ha essenzialmente
in sè il principio del mo- vimento, ma secondo me ciò non si deve
intendere se non nel senso che vi sono delle anime nella materia,
le quali sono indivisibili e indistruttibili. (Lettera al
Burnett, 1704, G. Ili, 200). E questo principio delTanimazione
della materia che spinge Leibniz ad una considerazione del mondo corporeo
diversa da quella puramente meccanica: che gli fa vedere in esso, attra-
verso il principio spirituale, un elemento finalistico e, attra- verso
questo, la mano di Dio. Devo dichiarare inizialmente che a mio
parere tutto avviene meccanicamente nella natura e che, per rendere
una ragione esatta e compiuta di qualsiasi fenomeno par- ticolare (come per
esempio della pesantezza o della ela- sticità), bastano le nozioni di
figura e ili movimento. Ma i principi stessi della meccanica e le leggi
del movimento sorgono a mio parere da alcunché di superiore, che
dipende piuttosto dalla metafisica che dalla geometria e che non si
può raggiungere con 1 immaginazione, benché lo spirito lo possa molto ben
concepire. Così io penso che nella na- tura, oltre alla nozione di
estensione, convenga impiegare quella di forza, che rende la materia
capace di agire e di resistere. E per forza o potenza non intendo il
potere o la semplice facoltà; che non è se non una possibilità
pros- sima di agire e che, essendo come morta, non produce neppur
mai un'azione senza essere eccitata dal di fuori Ma intendo qualche cosa
di mezzo fra il poterete l’azione che implica imo sforzo, un atto,
un’entelechia, poiché la forza passa per sua virtù all" azione
finché nulla ne la impedisce. Questa è la ragione per cui io la considero
come 1 elemento costitutivo della sostanza, essendo essa il principio
dell azione che della sostanza è il carattere essenziale(^l)
Così io vedo che la causa efficiente delle azioni fisiche deriva
dalla metafisica; nella quale opinione sono molto lontano da coloro che
non riconoscono nella natura se non ciò che è materiale o esteso, e che
perciò si rendono sospetti con qualche ragione presso le persone pie.
Ri- tengo pure che il concetto del bene o della causa finale,
I>er quanto contenga in sé alcunché di morale, si possa anche
impiegare utilmente nella spiegazione dei fenomeni naturali; poiché
l'autore della natura agisce secondo il principio dell ordine e della
perfezione, con una saggezza alla quale nulla si può aggiungere: e ho
mostrato altrove, a proposito della legge generale dell"
irraggiamento della luce, come il principio della causa finale basti
spesso a scoprire i segreti della natura, finché non se ne sia
trovata la causa prossima efficiente, che é più difficile a scoprirsi.
Tì) (Système novi eon jkivr erpliqvtr la nature des subitanee»,
primo abbozzo, 1(395, G. IV, 472). La vera scienza tìsica deve
essere tratta dalle sorgenti ilelle perfezioni divine. Dio infatti è l'
ultima ragione delle cose, e la conoscenza di Dio è il principio delle scienze,
così come la sua essenza e la sua volontà sono i principi delle cose.
Quanto piii si è versati nelle profondità della filosofia, tanto più
facilmente si riconosce ciò. Ma pochi finora sono riusciti a dedurre,
dalla considerazione delle proprietà divine, verità di qualche importanza
nella scienza. Vi sono forse alcuni che potranno essere spinti da
questi esempi. La filosofia si santifica così coll’ immissione in
essa delle correnti sgorgate dalle sacre sorgenti della teo- logia
naturale. E così lontana dal vero è la tesi che si debbano rifiutare le
cause finali e la considerazione di uno spirito sapientissimo che agisce
secondo bontà (onde la bontà e la bellezza diverrebbero arbitrarie o
soltanto re- lative a noi e non attribuibili a Dio: opinione quella,
di Cartesio, questa di Spinoza ( 1 ), che invece, dalla conside-
razione dello spirito, si possono dedurre principi essenziali della
fisica. (Principium quoddam generale, M. VI, 134). In
questa organizzazione divina del mondo noi vediamo la forza pervadere e
permeare tutta la natura. Non più atomi corporei: qualche cosa di
altrettanto unitario e indivisibile, ma privo di qualsiasi materialità.
Queste unità sostanziali stanno al confine fra materia e spirito,
potendosi sviluppare in ambedue le direzioni ; e racchiudono in sé una
forza che permette loro una spontaneità di sviluppo verso
l’universale. In tale spontaneità e attività consiste il carattere
spirituale degli elementi della sostanza corporea, ciò che li avvicina
al- l’ anima e all’ io. Poiché è necessario che vi sieno
nella natura corporea delle vere unità, senza le quali non vi sarebbe
affatto (1) Cartesio fa derivare, secondo Leibniz, le regole della
bontà e dell’ar- monia dall’arbitrio di Dio (Cfr. sojira, p. 13). Per
Spinoza invece la bontà è un rapporto della creatura individuale alla
Sostanza assoluta, cioè Dio. Tri molteplicità uè aggregati,
bisogna che ciò che costituisce la sostanza corporea sia alcunché di
rispondente a ciò che si suol chiamare io in noi, che è indivisibile e
tuttavia agente; poiché questo io, essendo indivisibile e senza
parti, non potrà essere un essere composto, ma, essendo agente,
sarà qualche cosa di sostanziale. (Syitcmc un uveali, primo abbozzo,
I 695, G. IV, 47ii). Costituzione e funzione della monade. - Si sono
stu- diati nei capitoli precedenti due principi fondamentali della
filo- sofia leibniziana: l’universalità della sostanza individuale, e
il principio spirituale della f orza n el mondo materiale. Il
primo, derivato dalla elaborazione dT” concetti logici; il secondo
dal rigoroso pensamento di teoremi fisici. L’unione e la fusione di
questi due principi, dà luogo alla mònade (1). Ciò ebe essi hanno in
comune è il fatto di racchiudere ambedue in sè, allo stato potenziale, un
infinita possibilità di sviluppo: la sostanza individuale, punto di
partenza di una catena di causo e di effetti che racchiude nelle sue
maglie il passato e l’avvenire di tutto 1 universo; l'unità animata del
mondo corporeo, forza capace di svilupparsi in movimento e, pur col suo
carattere spirituale, di dar luogo ad una formazione di materialità.
Dei due elementi, l’uno è universale ma astratto, puramente lo-
gico; l’altro concreto, reale, spirituale, ma ancora privo di uni-
versalità. Nella loro fusione l’uno fornisce ciò che all’altro manca: e
la monade sarà un principio spirituale e universale insieme, ma pur
concreto, tale che di esso consti effettiva- mente il mondo esistente. La
monade è « l’atomo della natura e 1 elemento delle cose ». Ad essa
vengono dati da Leibniz nomi diversi: entelechia, anima, sostanza, etc.,
a seconda delle varie occasioni in cui ne parla. (1) Monade
ò parola greca ebe significa unità. ]| termine è stato usato anche da
Giordano Bruno per indicare gli elementi primi delle cose. Non è però
sicuro ohe Leibniz abbia derivato da lui questa denominazione. L : atomo
di Epicuro, benché fornito di parti, è ima cosa unita nel suo interno,
mentre l'anima, quantunque senza parti, racchiude in sé un gran numero, o
meglio un numero infinito di varietà, per la molteplicità delle
rap- presentazioni di cose esterne, o piuttosto per la rappre-
sentazione dell'universo che il Creatore vi ha posto. (
Osservazioni al dizionario del Bayle, 1702, G. IV, 544). Le monadi
sono i principi primi c più semplici onde è costituito il mondo: non sono
materiali, ma da esse deriva tutta la materia: sono individuali,
molteplici (in quanto sono sempre punti di vista particolari presi
sull’universo, e i punti di vista possono essere infiniti); e d’altra
parte ciascuna rac- chiude in sè una visione del tutto.
L’unità sostanziale richiede un essere compiuto, indivi- sibile e
indistruttibile per natura, poiché la sua nozione involve tutto ciò che
gli deve accadere; e ciò non si po- trebbe trovare nè nella figura nè nel
movimento, che im- plicano anzi entrambi alcunché d’ immaginario -
come potrei dimostrare —, ma bensì in un’anima o forma sostanziale,
sull’esempio di ciò che si suol chiamare io. Sono questi i soli veri esseri
compiuti, come avevano ricono- sciuto gli antichi e soprattutto Platone,
il quale ha ben chiaramente mostrato che la sola materia non è in
sè sufficiente a formare una sostanza. Ora 1’ io sopraddetto, o ciò
che gli risponde in ciascuna sostanza individuale, non può essere nè
fatto nè disfatto dall'avvicinamento o dall'allontanamento delle parti,
procedimento puramente esteriore a ciò che è la sostanza. Non saprei dire
preci- samente se vi siano altre sostanze corporee effettive, oltre
quelle che sono animate, ma almeno le animo servono a darci qualche
conoscenza delle altre per analogia. (Lotterà all' Arnauld, 1086,
G. 11, 76-7). Non so se sia possibile spiegare la costituzione
dell' anima meglio che dicendo: l.° che è una sostanza semplice, ovvero
ciò eli e io chiamo una vera unità; 2.° che tale unità esprime tuttavia
la molteplicità, cioè i corpi, e che li esprime il meglio possibile
secondo il suo punto di vista o il suo rapporto ; 3.° che così essa è
espressiva dei fenomeni secondo le leggi metafisico-matematiche della
natura, cioè secondo 1 ordine più conforme alla intelligenza e alla
ra- gione. i\e deriva inline, 4.° che 1" anima è una
imitazione di Dio, nel massimo grado possibile alle creature, che essa
è come lui semplice eppure anche infinita, e avvolge tutto attraverso
percezioni confuse; ma che, riguardo a quelle distinte, essa e limitata.
Invece tutto è distinto nella so- stanza sovrana, dalla quale tutto
emana, e che è la causa ilcll esistenza e dell ordine e, in una parola,
l'ultima ragione delle cose. Dio contiene 1 universo eminentemente, e
l'anima o l'unità lo contiene virtualmente, essendo imo specchio
centrale, ma, per così dire, attivo e vitale. Si può anche dire ohe ogni
anima è un mondo a parte, ma che tutti questi mondi si accordano e sono
rappresentativi dei me- desimi fenomeni, secondo rapporti differenti; e
che questa è la maniera più perfetta di moltiplicare gli esseri
quanto è jiossibile, ed il meglio possibile. (Lettera a)
Bayle, 1702, G. Ili, 72). Il concetto di sostanza individuale è
stato formulato da Leibniz por la prima volta nel Dìscours de Méta
physìque del 1686. La parola monade è introdotta da lui nel 1696.
Verso il mezzo della sua vita, cioè, egli è giunto in possesso
dell’ele- mento fondamentale onde per lui è costituito il mondo.
Tro- vato questo, il problema che gli si pone è di spiegare, attra-
verso tale elemento, la costituzione del mondo stesso. Come nell arte
combinatoria' si dovevano trovare, per mezzo della scomposizione dei
concetti, i termini semplici di cui consta il pensiero umano, e poi,
attraverso la varia combinazione di essi, formare di nuovo ogni possibile
concetto, così ora un’ in- dagine analitica nel campo logico, fisico,
metafisico, ha condotto alla nozione di monade come sostanza semplice,
costituente il mondo. Si tratta ora di mostrare concretamente come il
mondo consti di monadi, come ogni aspetto, ogni fenomeno di esso sia
spiegabile attraverso le combinazioni, le modificazioni, i diversi
aspetti delle monadi. Inizio e fine della monade. - Donde nasce la
monade? Che cosa 1’ ha prodotta? Qnal’è la sua origino? Noijl
è possibile concepirla come derivata da ini qualsiasi ente naturale:
essere prodotta significa sempre in qualche modo essere causala ; c, poiché
essa comprende già in sé tutta la serie infinita delle causo e degli
effetti, non si può attribuirle una causa al di fuori di sé stessa:
qualsiasi sua causa sarebbe sempre compresa nel suo interno.
Analogamente, non è con- cepibile neH’ordine naturale la fine della
monade; implicando tale fine un interruzione nella serie delle cause e
degli effetti, che è invece continua e infinita. L’origine e la fine
delle monadi deve essere dunque ricercata fuori deU’ordino causale dell'
universo; o piuttosto si può dire che le monadi non hanno ori- gine: sono
nate insieme con l’universo stesso, sono concreate ad esso; e il creatore
di esse è il medesimo creatore deH'uni- verso: Dio. Quanto
all' inizio e alla fine di queste forme, anime, o principi sostanziali,
bisogna dire che esse non possono avere origine se non dalla creazione, e
non possono aver fine se non da un annullamento compiuto espressamente
dalla potenza suprema di Dio.... Così queste forme non comin- ciano
nè finiscono naturalmente. E perchè non avrebbero esse il medesimo privi
egio degli atomi, i quali, secondo i seguaci di Gassendi, devono sempre
conservarsi? Tale privilegio bisogna accordarlo a tutto ciò che è
veramente una sostanza; perchè la vera unità è assolutamente indis-
solubile. Dato ciò, bisogna credere che queste sostanze sono state
inizialmente create insieme col mondo. (Syslème noiweau, primo
abbozzo, 1605, G. IV, 474). Così (eccezion fatta per le anime che
Dio vuole ancora creare espressamente) fui obbligato a riconoscere che
le forme costitutive delle sostanze sono state create insieme col
mondo e che sussistono in eterno. (Syntènu nouveau, seconda
stesura, 1095, G. IV, 479). Individualità e universalità della
monade. - Lo monadi hanno in se stesse il doppio carattere di essere
ciascuna un elemento costitutivo del mondo, e insieme di implicare
cia- scuna, in se, 1 assoluta totalità di sviluppo del mondo
stesso. 11 mondo è composto di monadi: ma ciascuna monade è, da un
certo punto di vista, il mondo stesso. Da va certo punto di vista :
questo è il criterio che permette di conservare e con- ciliare quelle due
caratteristiche. Ciascuna monade mantiene la sua individualità* e la sua
distinzione dalle altre, in quanto implica e rappresenta il medesimo
tutto, ma da un diverso punto di vista. E i punti di vista sono infiniti;
così sono in- finite le monadi. L individualità della monade si concilia
in tal modo con la sua universalità. Benché ciò possa parere
paradossale, è impossibile a noi di avere conoscenza degli individui e di
trovare il mezzo per determinare esattamente l'individualità di qualsiasi
cosa.se non prendendo la cosa stessa: infatti tutte le circostanze
possono ripetersi; le piti piccole differenze ci sono insen- sibili; il
luogo e il tempo, lungi dal determinare, hanno anzi bisogno di essere
essi stessi determinati dalle cose che contengono. Ciò che vi è di più
notevole in questo principio, è che Y individualità involve l'infinito; e
sola- mente colui che è capace di comprendere ciò, può aver
conoscenza del principio di individuazione di questa o di quella cosa:
principio il quale deriva dall" influenza retta- mente intesa di
tutte le cose dell' universo le une sulle altre. E vero che non sarebbe
punto così, se il mondo fosse composto di atomi, come vuole Democrito; ma
in tal caso non vi sarebbe pure alcuna differenza tra due in-
dividui differenti aventi la medesima figura e la medesima
grandezza. [Nuovi Saggi, 1701 s.gg., ILI, 3, § «>.
Proprio Inaili versali tà della
monade è ciò che garantisce la sua individualità. Due atomi di ugual
forma e grandezza, con le medesime caratteristiche esteriori, sarebbero
indistinguibili 1 uno dall altro. Due monadi non possono invece essere
indi- stinguibili e perfettamente 'identiche. II fatto di essere
due, implica che esse rappresentano il mondo da due punti di vista:
e ciascun punto di vista comporta legami e rapporti all’ in- finito che
necessariamente saranno diversi da quelli di ciascun altro punto di
vista. Due monadi perfettamente identiche in tutto il complesso dei
rapporti implicati, non sono concepi- bili: sarebbero una sola e medesima
monade. È questo il prin- cipio che Leibniz chiama della identità degli
indiscernibili. Per esso ogni monade ha garantita la sua individualità e
inconfon- dibilità fra tutte le altre. K eli grande
importanza in tutta la filosofia e anche nella teologia il principio che
non esistono denominazioni puramente estrinseche; e questo a causa della
connessione delle cose tra di loro. Due cose non possono diff erir e
solo locabnente o temporalmente, ma è sempre necessario che
interceda tra di esse qualche altra differenza interna. Così non è
possibile che vi siano due atomi simili per forma e uguali per grandezza
: per esempio due cubi uguali. Queste sono nozioni matematiche, cioè
astratte, non reali. Tutto ciò che è differente deve distinguersi per
qualche cosa; e la sola posizione non basta a differenziare le cose
reali. Per questo principio si sconvolge tutta la filosofia pura-
mente atomistica. In primo luogo, non è possibile che vi siano atomi,
altrimenti vi sarebbero due cose che non dif- ferirebbero se non
dall’esterno. In secondo luogo, se la sola posizione presa per sè non
costituisce un mutamento, ne deriva che non vi è alcun mutamento che sia
pura- mente di luogo. E, in generale, il luogo, la posizione, la
quantità (come p. es. il numero), la proporzione, non sono se non
relazioni che risultano da altre cose che costi- tuiscono per sè stesse
il mutamento. Così, essere in un determinato luogo, astrattamente
parlando, non sembra indicare altro che una posizione. Ma effettivamente
bisogna che ciò che è in un determinato luogo, esprima in sè quel
luogo stesso; cosicché la distanza e il grado di distanza implica anche
un modo di esprimere in sè la cosa distante, di agire su di essa, e di
essere da essa affetto. Ed effet- tivamente la posizione implica un grado
di espressione.... Tutte le cose da noi qui esposte derivano dal
principio fondamentale che il predicato è contenuto nel soggetto;
principio che colpì l’Arnauld(l) quando una volta gliene feci cenno: - j’
en ay esté frappe - mi scrisse. (Frammento, C. 8-10).
Rappresentazione e appetito. - Proseguiamo nel carat- terizzare la
struttura della monade. Essa contiene in sè tutto il proprio sviluppo
futuro, insieme con lo sviluppo del mondo. Ma quello che determina la sua
particolarità e il suo valore, è di contenerlo non esplicito ed esteso nel
tempo e nello spazio, ma implicito, in modo pregnante, allo stato
potenziale. Se noi volessimo immaginare in ciascuna monade,
attualmente sviluppato, tutto il suo svolgimento completo,
perderemmo, per così dire, il vantaggio essenziale della monade:
avremmo di fronte a noi il mondo stesso in tutta la sua immensa e
inaf- ferrabile molteplicità. Il vantaggio consiste proprio nel
rac- cogliere la molteplicità del mondo nella individualità; di
con- tenere allo stato implicito ciò che allo stato esplicito sarebbe
Superiore ad ogni facoltà di percezione o di apprensione. Ora, come
si svolge e quale aspetto assume concretamente, nella monade, tale
implicazione della totalità ? Assume l’aspetto di forza o appetito da un
lato, di rappresentazione dall'altro. Ciascuna monade ha una
rappresentazione di tutti gli stati futuri che essa contiene in sè, e
contemporaneamente ha un impulso, una tendenza che la spinge a passare a
questi futuri, dal presente in cui si trova. In tali due forme si svolge,
nel- I - individuo, il passaggio all'universale. (1) Antonio
Arnauld (1012-1604), teologo e filosofo francese di scuola cartesiana e
giansenistica, intrattenne una lunga e importantissima corri- spondenza
col Leibniz. Lo stato dell'anima, come quello dell'atomo, è imo
stato di cambiamento, una tendenza: l'atomo tende a cambiare di
luogo, l'anima a cambiare di pensiero; l'uno e l’altro cambiano nel modo
piìi semplice e più uniforme che il loro stato permetta. Come mai allora
(mi si domanderà) c'è tanta semplicità nel cambiamento dell'atomo e tanta
va- rietà nei cambiamenti dell'anima? Il fatto è che l'atomo (così
come lo si i mm agina, benché veramente non esista in natura), quantunque
sia composto di parti, non ha nulla che determini varietà nel suo
tendere, poiché si sup- pone che queste parti non mutino i loro rapporti
reciproci ; mentre l'anima, per quanto indivisibile, contiene una
ten- denza composta, cioè una molteplicità di pensieri presenti dei
quali ciascuno tende a un particolare cambiamento, a seconda di ciò che
esso contiene; e questi pensieri si tro- vano tutti insieme nell'anima,
in virtù del suo rapporto essenziale con tutte le altre cose del mondo. E
anzi, è fra 1 altro la mancanza di tale rapporto che rende impos-
sibili in natura gli atomi di Epicuro. Infatti ogni cosa o parte dell'
universo deve rappresentare tutte le altre; Sic- ilie 1 anima, quanto
alla varietà delle sue modificazioni, non deve paragonarsi all'atomo
materiale, ma piuttosto all universo, che essa rapprasenta dal suo punto
di vista, e anche in qualche maniera a Dio, di cui essa rappresenta
in modo finito 1 infinità (a causa della sua percezione con- fusa e
imperfetta dell' infinito). 11 sentimento del piacere, per esempio,
sembra semplice, ma non lo è; e chi lo volesse notomizzare
troverebbe che esso implica tutto ciò che ci circonda e
conseguente- mente tutto ciò cir conila ciò che ci circonda. E la
ragione del cambiamento dei pensieri nell'anima è la medesima
ragione del cambiamento delle cose nell’ universo che essa rappresenta.
Infatti i rapporti meccanici che sono sviluppati nei corpi, sono riuniti
e, per cosi dire, con- centrati nelle anime o entelechie, ed hanno anzi
in esse 0. — Leibniz, La monadologia. la loro origine. È vero che non tutte le
entelechie sono, come la nostra anima, immagini di Dio, poiché non
tutte sono fatte per essere membri di una società o di uno stato di
cui egli sia il capo; ma esse sono sempre immagini del- l'universo. Sono
mondi in compendio, a modo loro: sem- plicità feconde ; unità di sostanze
; ma virtualmente infinite, por la molteplicità delle loro modificazioni;
centri che esprimono una circonferenza infinita. (Polemica
col Bayle, 1712, G. 1 V, óti2). Non potrebbe Dio forse dare
inizialmente alla sostanza una natura o forza interna che le faccia
produrre ordi- natamente (come in un automa spirituale o formale,
ma libero, in quanto gli è attribuita la ragione) tutto ciò che le
accadrà, cioè tutte le impressioni o espressioni che essa avrà ; e ciò
senza 0 soccorso di alcun' altra creatura ? Tanto più che la natura della
sostanza richiede necessa- riamente e implica essenzialmente im progresso
o un cam- biamento, senza il quale essa non avrebbe la forza di
agire. E poiché questa natura dell'anima è rappresentativa dell"
universo in modo esattissimo (benché più o meno di- stinto), la serie
delle rappresentazioni che l'anima produce in sé risponderà naturalmente
alla serie dei cambiamenti dell’universo stesso. (Syxtème
nouveau, lt>95, G. IV, IS.">). Una monade, in sé stessa
e in un istante, non può essere distinta da un'altra, se non per le sue
qualità e azioni interne, le quali non possono essere altro che le sue
per- cezioni (cioè le rappresentazioni del composto o di ciò che
sta al di fuori, nel semplice), e le sue appetizioni (cioè il suo tendere
da una percezione all'altra) che sono i prin- cipi del cambiamento.
Infatti la semplicità della sostanza non impedisce la molteplicità delle
modificazioni che si devono trovare insieme in questa medesima sostanza
semplico; e tali modificazioni consistono nella varietà dei rap- porti
rispetto alle cose che stanno al di fuori. Così in un centro o punto, per
quanto semplice, si trova un' infinità di angoli formati dalle linee che
ad esso concorrono. ( Principe « de la Mature et de la Grace,
1713-14, G. VI, 598). Tn tal modo si viene anche a configurare il
concetto di rap- presentazione e in generale di conoscenza, come Leibniz
lo tratta dal punto di vista gnoseologico. Percezione è espressione
delia molteplicità nell’unità; e, d’altro lato, è azione. 11
pensiero, essendo l’azione di una cosa su sè medesima, non ha luogo nella
figura e nel movimento, i quali non possono mostrare il principio d ima
azione veramente in- terna: d’altronde è necessario che vi sieno esseri
semplici, altrimenti non vi sarebbero esseri composti o esseri per
aggregazione, i quali sono piuttosto fenomeni che so- stanze, ed esistono
piuttosto \óp<p che (potrei (cioè piut- tosto moralmente o razionalmente
che fisicamente) per parlare con Democrito. E se non vi fosse
cambiamento nelle cose semplici, non ve ne sarebbe neppure nelle
com- poste, tutta la realtà delle quali non consiste se non nella
realtà delle cose semplici. Ora i cambiamenti interni nelle cose semplici
sono analoghi a ciò che noi concepiamo nel pensiero, e si può dire che in
generale la percezione è V espressione della molteplicità nell' unità.
Ella non ha bi- sogno, Signore (1), di questi schiarimenti sulla
immate- rialità del pensiero di cui Ella ha parlato in modo ammi-
revole in molti luoghi. Tuttavia, unendo queste conside- razioni con la
mia ipotesi particolare, mi pare che l'una serva a dar luce alle
altre. (Lotterà ni Bayle, 1702, G. Ili, 69). (1) Piotro
Bayle (1647-1706), cui Leibniz qui si rivolge, b il principale
rappresentante della lilosofia scettica in quel tempo. Fondatore delle 1
Volt- velles de la republique des lettres, autore del Dictionnaire
historique et crilique, ebbe col Leibniz lunghe od interessantissime
polemiche su vari argomenti, quali l’ipotesi dell’armonia prestabilita, e
il problema della conciliazione fra fede o ragione. I pensieri sono
azioni; e le conoscenze o verità, in quanto sono in noi, anche quando non
vi si pensa, sono abitudini o disposizioni; e noi sappiamo molte cose
alle quali non pensiamo punto. ( Nuovi Saggi, 1701 segg. I,
I, § 26, G. V., 79). Mi meraviglio, Signore, che Ella insista nel
volgere le mie opinioni in modo completamente diverso da ciò che io
intendo. Ella pretende che, secondo me, noi non facciamo altro che
accorgerci di ciò che avviene dentro di noi. Non so d onde Ella abbia
ricavato quest’ idea; io ritengo in- vece che noi facciamo tutto ciò che
avviene in noi. (Lettera al Jaquelot, 1701, G. VI, 567).
II pensiero come unità della molteplicità e come azione: ecco due
concetti che saranno propri della filosofia idealistica postkantiana, cui
Leibniz giunge già qui con l’ approfondi mento del concetto di monade
come spirito. Le piccole percezioni. - Da tale concetto Leibniz
trae anche argomenti per affermare l’ innatismo, contro la nega-
zione del Locke, il quale nel suo * Saggio sull’ intelletio umano, si era
opposto al razionalismo cartesiano affermando che tutto viene aU’anima
esclusivamente dai sensi, cioè dal di fuori, come segni che si imprimano
su di una tabula rasa. I Nuovi saggi sull’ intelletto umano di Leibniz
sono tutti destinati ad una presa di posizione di fronte alle tesi del
Locke. Di essi verrà trattato in un volume a parte. Qui ci interessa solo
no- tare come raifermazione dell’ innatismo in Leibniz non si fondi
soltanto, come in Cartesio, su motivi razionalistici. Ciò che è in- nato
allo spirito, non deriva per lui unicamente dalle idee di ra- giono. È
innato anche tutto ciò che è contenuto nell’anima, intesa come monade,
cioè tutta la serie dei rapporti di causa e di effetto di cui essa ha
rappresentazione. Tutto ciò costi- tuisce il contenuto dell’anima, e non
viene ad essa dal di fuori ma fa parte di essa già fin dalla sua creazione;
tutto 1 uni- verso, insomma, è già insito a priori nell’anima.
Ma l’anima non ha nozione attuale di tutto questo suo con- tenuto.
Il campo della sua conoscenza è limitato e si estende IV. - LA
MONADE 85 solo a ciò che le è pili immediatamente a
contatto. Come si concilia questo con la sua universalità e con
l’innatismo? Leibniz ricorre a* questo proposito alle piccole percezioni
o per- cezioni insensibili, le quali non cessano di influire
sull’anima, pur senza giungere alla sua coscienza. Esse appartengono
bensì dia rappresentazione deH’anima: l’anima però non ne ha con-
sapevolezza. In tal modo si viene a far concordare l’assoluto innatismo
di ogni verità, sia necessaria sia contingente, sia di ragione sia di
fatto, con la limitazione attuale delle nostre conoscenze. Le piccole
percezioni permettono a Leibniz di con- cepire la monade limitata insieme
e universale. La questione dell’origine delle nostre idee e dei
nostri principi non è preliminare nella filosofia, e bisogna esser
molto avanzati per risolverla bene. Credo tuttavia di po- ter dire che le
nostre idee, anche quelle delle cose sensibili vengono dal nostro proprio
intimo.... Non sono affatto fa- vorevole alla tabula rasa di Aristotele;
e vi è del giusto in ciò che Platone chiamava reminiscenza. Vi è anzi
di piii, giacché noi non abbiamo soltanto una reminiscenza di tutti
i nostri pensieri passati, ma anche un presentimento di tutti i nostri
pensieri futuri. È vero che ciò avviene in modo confuso e senza
distinguere questi pensieri, press’ a poco come quando io odo il rumore
del mare: odo allora il rumore di tutte le onde particolari che
compongono il rumore totale, pur senza distinguere un'onda
dall'altra. Così è vero, in un certo senso, ciò die ho spiegato :
cioè die non solo le nostre idee, ma anche le nostre sensazioni
(sentiments) nascono dal nostro fondo, e che l'anima è più indipendente
di quanto non si pensi; benché resti pur vero che nulla avviene in essa
che non sia determinato, e che nulla è nelle creature, che non sia
continuamente creato da Dio. (Suri' Essay de l'entendement
liutnain de Momùur Loci. dc.j o il ]( f-3, G.Y, l(i). Si tratta di
sapere se l' anima in se stessa sia compieta- mente vuota, come delle
tavolette in cui non si sia ancora scritto nulla (tabula rasa), secondo
l'opinione di Aristotele e dell'autore del Saggio, e se tutto ciò che vi
è tracciato derivi unicamente dai sensi e dall'esperienza: oppure
se l'anima contenga originariamente i principi di varie nozioni e
dottrine che gli oggetti esterni risvegliano soltanto nelle varie
occasioni, come credo io, d’accordo con Platone e anche con la Scuola e
con tutti coloro che prendono in questo significato il passo di S. Paolo
(Rom. 2,15), dove egli dice che la legge di Dio è scritta nei
cuori.... Possiamo noi negare che vi sia molto d’ iimato nel
nostro spirito, dal momento che siamo innati - per così dire - a noi
stessi, e in noi stessi vi sono l’essere, l'unità, la sostanza, la
durata, il cambiamento, l'azione, la per- fezione, il piacere e mille
altri oggetti delle nostre idee intellettuali? Ed essendo questi oggetti
immediati al no- stro intelletto e sempre presenti (benché non possano
esser sempre percepiti a causa delle nostre distrazioni e dei
nostri bisogni), perchè meravigliarsi se noi diciamo che queste idee ci
sono innate con tutto ciò che ne dipende? Mi sono servito anche del
paragone di una pietra di marmo che abbia delle venature, anziché essere
tutta unita come le tavolette vuote o ciò che i filosofi chiamano
tabula rasa. Poiché, se l'anima somigliasse a queste tavolette
vuote, le verità sarebbero in noi come la figura d' Ercole è in un marmo,
quando questo marmo è completamente indifferente a ricevere questa figura
o qualche altra. Ma se vi fossero delle vene in quella pietra, elio
indicassero la figura di Ercole a preferenza di altre figure,
questa pietra sarebbe piii determinata, e Ercole vi sarebbe come
innato in qualche maniera ; quantunque sarebbe necessario un certo lavoro
per scoprile queste vene e polirle, elimi- nando ciò che impedisce loro
di apparire. E in questa guisa le idee e le verità ci sono innate come
inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non
come azioni; benché queste virtualità siano sempre accompanate da qualche
azione, spesso insensibile, ad esse rispon- dente.... D'altronde, vi sono
mille segni i quali mostrano che in ogni istante vi è in noi un' infinità
di ■p ercezio ni, prive però di appercezione (1) e di riflessione, cioè
cam- biamenti nell’anima stessa, di cui noi non ci accorgiamo
perchè le impressioni sono troppo piccole o troppo nume- rose o troppo
unite fra di loro in modo da non aver nulla che lo distingua partitamente
; ma, unito ad altre, non mancano di produrre il loro effetto e di farsi
sentire per lo meno confusamente nell’ insieme. Così l'abitudine fa sì
che noi non ci accorgiamo del movimento di im mulino o di una
cascata, quando vi abbiamo abitato vicino per qualche tempo. Ciò non
significa che tali movimenti non conti- nuino a colpire i nostri organi,
e che non avvenga anche nell’anima qualche cosa che vi risponda ...., ma
queste in- pressioni che sono nell’anima e nel corpo, prive
dell'attrat- tiva della novità, non sono abbastanza forti per
attirare la nostra attenzione e la nostra memoria, le quali sono
rivolte ad oggetti più interessanti. Giacché ogni attenzione richiede
memoria, e spesso, quando non siamo per così dire ammoniti ed avvertiti
di prestare attenzione a talune delle nostre percezioni presenti, le
lasciamo passare senza rifles- sione e senza neppur notarle; ma se
qualcuno ce ne av- verte subito dopo, e ci fa osservare per esempio un
qual- siasi suono che si sia appena inteso, ce ne ricordiamo, e ci
accorgiamo di averne avuto poco fa una sensazione. Così si trattava
di percezioni di cui non ci eravamo ac- corti immediatamente, derivando
in questo caso l'apper- cezione solo dall' avvertimento venuto dopo un
intervallo sia pur minimo.... Non si dorme mai tanto
profondamente da non aver qualche sensazione debole e confusa, e non si
sarebbe mai svegliati neppure dal più grande rumore del mondo, so
(1) Appercezione » significa percezione cosciente (A j>ercevoir:
accorgersi) Cfr. Monadologia , 8 14. ss non si
avesse una qualche percezione del suo inizio, che è piccolo; cosi come,
neppure col più grande sforzo del mondo, non si romperebbe mai una corda
so essa non fosse tesa e allungata un poco attraverso sforzi
minori; per quanto questa piccola estensione da essi prodotta, non
appaia. (Nuovi .Saggi, 1701 segg., Prelazione, G. V, 42 47).
Do Ila rappresentazione e percezione si parlerà più a lungo nel
volume che tratterà dei Nuovi Saggi. Qui è interessante notale come lo
sviluppo del concetto di monade influisca di- rettamente anche su tutti i
problemi gnoseologici. La monade assume sempre più le caratteristiche
dello spi- rito. Universale, priva di estensione, eterna,
indistruttibile, dotata di rappresentazione e azione, essa diviene come
la pietra con cui l’edificio deH’universo è stato costruito. Essa è
spirito; ma tutto, anche la materia, consta di monadi; sia, il mondo
materiale sia il mondo spirituale la devono assu- mere come punto di
partenza. Da questa concezione della monade come elemento costitutivo del
mondo, e dall’ impegno di giustificare tutto attraverso essa, sorgono
nuovi sviluppi. Non si tratta più ora di studiare questo principio
sostanziale nella sua. intima costituzione: si tratta di vederlo agire
nel mondo. I problemi che si pongono a questo proposito si
possono ridurre a tre: quello dei rapporti della monade con la
suprema sostanza spirituale, cioè Dio; quello dei rapporti delle
varie monadi tra loro; e quello della giustificazione di una natura
corporea. Vedremo corno questi problemi siano vicendevol- mente
collegati. Le monadi e dio; accordo tra le monadi. - La rap-
presentazione di tutto l'universo e la tendenza alla propria
realizzazione che ciascuna monade tiene in sè, sono analoghe alla
tendenza e alla rappresentazione che caratterizzano la divinità. Per
questo riguardo la monade non è diversa da Dio. L) altro lato essa è una
creatimi di Dio; e il suo aspetto di creatura consiste proprio nel punto
di vista particolare da cui essa agisce e si rappresenta il mondo. In tale
rappresentazione ciascuna monade è completa in sè stessa, nè è possibile
che alcunché provenga ad essa dal di fuori: tutte lo sue affezioni,
passate, presenti e future, sono già contenute in ossa. La sua
rappresentazione del mondo è già chiusa in sè: il suo contenuto
corrispondo al contenuto delle altre monadi, allo stosso modo che due
panorami di una città da punti di vista diversi si corrispondono senza
influenzarsi a vicenda. Questa comple- tezza della monade chiusa in sè
stessa, è espressa da Leibniz con due detti celebri: il primo, che le
monadi non hanno fi- nestre', il secondo, che basta all’esistenza e
universalità della monade, che ci sia Dio ed essa sola al mondo.
Dio produce diverse sostanze, a seconda delle visioni differenti
che egli ha dell' universo -, e, attraverso V intervento di Dio, la
natura propria di ciascuna sostanza fa sì che ciò che accade all' una,
corri- sponda a ciò che accade a tutte le altre, senza però che l’una
agisca immediatamente sull’ altra. È in primo luogo chiarissimo
che le sostanze create di- pendono da Dio, il quale le conserva, anzi le
produce con- tinuamente per ima specie di emanazione, così come noi
produciamo i nostri pensieri. Infatti, dato che Dio volge, per così dire,
da tutte le parti e in tutte la maniere il si- stema generale dei
fenomeni ch’egli crede bene di produrre per manifestare la sua gloria, e
guarda tutti gli aspetti del mondo in tutti i modi possibili (poiché
nessun rap- porto sfugge alla sua onniscienza); ne consegue che il
ri- sultato di ciascuna visione dell’universo da un determinato
punto di vista, è una sostanza che esprime l’universo in modo conforme a
tale visione, se Dio crede bene di rendere il suo pensiero effettivo e di
produrre tale sostanza. E poiché la visione di Dio è sempre veritiera, lo
sono altresì le nostre percezioni : ma ciò che ci inganna sono i
nostri giudizi, che dipendono da noi. Ora noi abbiamo detto
sopra, e discende dalle nostre ulti- me affermazioni, che ciascima
sostanza è come un mondo a parte, indipendentemente da qualsiasi altra
cosa all’ infuori di Dio. Così tutti i nostri fenomeni, cioè tutto ciò
che ci potrà mai accadere, non è che una conseguenza del nostro
essere. E poiché questi fenomeni conservano un certo or- dine conforme
alla nostra natura, o. per così dire, al mondo elio è in noi - onde
possiamo fare osservazioni utili a regolare la nostra condotta e
giustificate dall' avverarsi dei fenomeni futuri, e possiamo spesso
arguire senza errare 1’ avvenire dal passato . basterebbe questo per dire
che tali fenomeni sono veri, senza preoccuparsi se essi siano fuori
di noi e se anche gli altri li percepiscano. Tuttavia è pur vero che le
percezioni o espressioni di tutte le so- stanze si rispondono vicendevolmente,
in modo che cia- scuno, seguendo accuratamente certe ragioni o leggi
che ha osservate, s’ incontra con l' altro che fa altrettanto ;
così come, quando più persone si sono accordate di trovarsi insieme
in un determinato luogo e in un determinato giorno, lo possono fare
effettivamente se vogliono. Ora. nonostante che tutti esprimano i
medesimi fenomeni, non per questo le loro espressioni sono perfettamente
simili, ma basta che siano proporzionali: così come vari spetta-
tori credono di vedere la medesima cosa, e infatti si in- tendono vicendevolmente,
per quanto ciascuno veda e parli secondo la misura della sua vista.
Ora solamente Dio (dal quale emanano continuamente tutti gli
individui, e il quale vede l'universo non solo come lo vedono essi, ma
anche in modo completamente diverso) è causa di tale corrispondenza dei
loro fenomeni, e fa sì che ciò che è specifico di uno sia comune a
tutti; altrimenti non vi sarebbe alcun legame. Si potrebbe dun- que
dire — in certo modo e in senso esatto, per quanto lontano dall'uso
comune che una sostanza particolare non agisce mai su di un'altra
sostanza particolare nè è affetta da essa, se si considera che ciò che
accade a cia- scuna non è che una conseguenza della sola sua idea o
nozione completa ; poiché tale idea contiene già tutti i predicati o
eventi, ed esprime tutto l’universo. Infatti, niente ci può toccare se
non pensieri e percezioni, e tutti i nostri pensieri e le nostre
percezioni future non sono che conseguenze (sia pur contingenti) dei
nostri pensieri e percezioni precedenti; in modo che, se io fossi
capace di considerare distintamente tutto ciò che mi accade o mi
appare in questo istante, vi potrei vedere tutto ciò che mi accadrà o mi
apparirà in eterno; e ciò non ver- rebbe a manóare e mi accadrebbe pur
sempre, se anche tutto ciò che è fuori di me fosse distrutto, purché non
ri- manesse se non Dio e io stesso. ( Discovra de
métaphysique, 1686, § XIV). La differenza fra la monade e Dio
consisto dunque in ciò, die la monade è rappresentazione del mondo da un
solo punt o di vista; mentre Dio li raccoglie e riassume tutti in sé.
E <|uesto è anche il fondamento dell’accordo delle monadi fra di
loro, pur mantenendo ciascuna la sua autonomia e in- dipendenza.
Le percezioni confuse e l’azione reciproca delle mo- nadi. - Ma
anche per un altro lato si distingue la monade da Dio: perla minor
chiarezza e precisione della sua rappresen- tazione. Con le percezioni
confuse Leibniz riprende il concetto delle piccole percezioni. Ma mentre
quelle servivano a dimo- strare in ogni anima la presenza - sia pure
incosciente e in- distinta - di tutto il contenuto del mondo, queste
fanno ravvisare in tale incoscienza e confusione la causa della im-
perfezione propria di ciascuna monade. Nella rappresentazione delle
monadi sono contenuti bensì tutti i legami di causa ed effetto che
costituiscono l’universo: ma non come percezione chiara, distinta,
perfettamente svi- luppata. Man mano che ci si allontana dal punto di
partenza che costituisce 1 individualità essenziale di ciascuna
monade, tale percezione si fa indistinta e confusa. E la deficienza
deriva dalla imperfezione che è propria delle creature. In Dio, che
è il luogo, per così dire, di tutte le monadi e raccoglie in sé gli
infiniti punti di vista, la rappresentazione dell’universo nella sua
totalità è sempre perfettamente chiara e distinta. Le percezioni dei
nostri sensi, quand' anche sono chiare, devono necessariamente contenere
una qualche sensazione confusa; poiché, dato che tutti i corpi
dell'universo sim- patizzano, il nostro riceve 1’ impressione di tutti
gli altri : e quantunque i nostri sensi siano in rapporto col
tutto, non è possibile che la nostra anima possa por mente a tutto
particolareggiatamente. Questa è la ragione onde le nostre sensazioni
confuse sono il risultato di una varietà di percezione assolutamente
infinita. Così il mormorio con- fuso che vien udito da chi si avvicini
alla riva del maro deriva dalla riunione delle risonanze di imvumerevoli
onde. Ora, se fra varie percezioni (che non s'accordano affatto a
costituirne mia complessiva) non ve n’è alcuna che ec- cella al di sopra
delle altre, e se esse producono press’ a poco impressioni di uguale
intensità o ugualmente capaci di determinare l'attenzione dell'anima,
l'anima non può ac- corgersene se non confusamente. (
Discoltra de mélaphysique, J 080 , § XXXHI). La differenziazione
nella chiarezza della percezione è dunque ciò che costituisce
l'individualità di ciascuna monade e ciò che differenzia le monadi una
dall’altra. E anche spiega, in certo qual modo, come si possa parlare -
impropriamente però - di azione, di una monade sull’altra.
Poiché noi attribuiamo ad altre cose, come a cause che agiscano su
di noi, ciò che percepiamo in un certo modo, bisogna considerare il
fondamento di questa opinione e ciò che vi è in essa di vero.
L'azione di una sostanza finita sull’altra no>i consiste se non
nel- l’accrescimento del grado della sua espressione , unito alla
diminu- zione di quello dell'altra , in quanto Dio le obbliga ad
accordarsi. Ma senza entrare in una lunga discussione, basta
ora, per conciliare il linguaggio metafisico con la pratica, os-
servare che noi attribuiamo a noi stessi, e con ragione, piuttosto i
fenomeni che esprimiamo più perfettamente; e clie attribuiamo alle altre
sostanze ciò che ciascuna di esse esprime meglio. Così ciascuna sostanza,
clie è di esten- sione infinita in quanto esprime tutto, diviene limitata
per il modo della sua espressione più o meno perfetta. In tal modo
dunque si può concepire che le sostanze si impe- discano e limitino
vicendevolmente; e quindi si può dire in questo senso che esse agiscono
l’ima sull'altra e sono obbligate, per così esprimersi, a adattarsi l una
all'altra. Giacché può avvenire che un cambiamento che aumenti
l’espressione dell - una, diminuisca quella dell'altra. Ora la virtù di
mia sostanza particolare è di bene esprimere la gloria di Dio; ed è
questo l'aspetto onde ossa è meno li- mitata. E qualsiasi cosa, quando
esercita la sua virtù o potenza, cioè quando agisce, cambia in meglio e
si svi- luppa, in quanto agisce. E dunque, quando avviene un
cambiamento da cui più sostanze sono affette (e effetti- vamente ogni
cambiamento le tocca tutte), credo che si possa due che quella che per
questo cambiamento passa immediatamente ad un maggior grado di perfezione
o ad una espressione più perfetta, esercita la sua potenza e
agisce; e quella che passa ad un grado minore di perfe- zione, mostra la
sua debolezza e 'patisce. Ritengo inoltre che ogni azione della sostanza
che abbia una qualche per- cezione, comporti un qualche 'piacere ; e ogni
passione un qualche dolore, e viceversa. Ma può tuttavia accadere
che un vantaggio presente sia distrutto da un male maggiore in
seguito. D’onde deriva che si può peccare pur nell' agire o nell’
esercitare la propria potenza e provando piacere. (Discovra de
méiuphysique, 1686, § XV). Le percezioni confuse come corpo. -
Percezione distinta è dunque nella monade l’elemento attivo; percezione
confusa l’elemento passivo. Ora noiT si e già visto, a proposito
delle leggi della forza e del movimento, che Leibniz definisce
l’azione come il principio spirituale, e la passione (o passività)
come quello materiale? Le percezioni confuse, in quanto passive,
rappresentano nella monade il principio corporeo. Ho già detto che
da un punto di vista rigorosamente metafisico, considerando come azione
ciò che a va- iene alla sostanza spontaneamente e dal suo stesso fondo,
tutto ciò che è propriamente una sostanza non fa (thè agire, poi-
ché tutto le proviene da sé stessa dopo che da Dio, e non è possibile che
una sostanza creata abbia influenza sul- l’altra. Ma, considerando come
azione un esercizio di per- fezione, e passione il contrario, non vi è
azione nelle vere sostanze se non quando la loro percezione (e io
attribuisco percezione a tutte) si sviluppa e diviene più distinta;
e non vi è jxissione se non quando diviene più confusa. Di modo che
nelle sostanze capaci di piacere e di dolore, ogni azione è un avviamento
al piacere, e ogni passione al dolore. ( Nuovi Saggi, 1701
segg., II, 21, § 72). Le ideo e verità innate non possono essere
cancellate; ma sono oscurate in tutti gli uomini (al loro stato attuale)
dalla loro tendenza verso i bisogni del corpo, e spesso ancor pili dalle
cattive abitudini sopravvenute. Tali caratteri di illuminazione interna
sarebbero sempre splendenti nell" in- telletto e darebbero calore
alla volontà, se le percezioni confuse dei nostri sensi non si impossessassero
della no- stra attenzione. È questa la lotta di cui parla la Sacra
Scrittura e anche la filosofia antica e la moderna. ( Nuovi Saggi,
1701 segg., 1, 2, § 20). Si ha ragione di chiamare, coi filosofi
antichi, perturba- zione o passione ciò che consiste nei pensieri
confusi, in cui vi è dell' involontario e dello sconosciuto ; ed è ciò
che nel linguaggio comune si attribuisce non ingiustamente alla
lotta fra corpo e spirito, poiché i nostri pensieri confusi rappresentano
il corpo o la carne, e costituiscono la no- stra imperfezione.
(Polemica eoi Bayle, 1702, G. It , olio). D’altro lato, è
interessante notare elio Leibniz, proprio con- temporaneamente alla
definizione delle percezioni confuse come provenienti dalla natura
corporea, riafferma che esse non hanno nulla di essenziale che no
distingua la natura da quella delle percezioni distinte; che è come dire
che la natura corporea non differisce essenzialmente dalla natura spirituali'.
Si concepiscono generalmente i pensieri confusi come di un genere
completamente diverso dai pensieri distinti, e il nostro autore (1)
giudica die lo spirito sia più unito al corpo attraverso i pensieri
confusi che attraverso quelli distinti. Ciò non è senza fondamento, poiché
i pensieri confusi indicano la nostra imperfezione, le nostre pas-
sioni, la nostra dipendenza dall' insieme delle cose este- riori o dalla
materia, mentre la perfezione, forza, do- minio, libertà e azione
dell’anima consistono principal- mente nei nostri pensieri distinti.
Tuttavia non è men vero che, in fondo, i pensieri confusi non sono
altro che ima molteplicità di pensieri in sé stessi uguali ai
distinti, ma tanto piccoli che ciascuno separatamente non eccita la
nostra attenzione e non è distinguibile. Si può dire anzi che nelle
nostre sensazioni ve ne è com- presa insieme una quantità veramente
infinita. E in ciò consiste proprio la grande differenza fra i pensieri
confusi e quelli distinti.... . Così non bisogna punto
concepire le sensazioni contuse come qualche cosa di primitivo e di
inesplicabile ; altri- menti le si mettono press’ a poco a pari con le
antiche qua- lità di alcuni filosofi scolastici, (2) alle quali non si
farebbe (1) Il benedettino Francesco Lami, autore di una Connotane
de soy , nènie ( Parici, 1«99), con cui Leibniz è qui in polemica.
(2) Leibniz allude qui alla concezione scolastica
Becondocuiognisensa. zinne deriva da differenti « qualità sensibili » che
si muovono dai corpi esterni che sostituire queste sensazioni se si volesse
sostenere tale differenza essenziale; e ciò non sarei) he che spostare
la difficolta. E, quantunque sia vero che la loro spiegazione
completa superi le nostre forze a causa della troppo grande molteplicità
che esse implicano, non si cessa tuttavia di penetrarvi sempre più, per
mezzo di esperienze che fanno scoprire in esse i fondamenti dei pensieri
distinti. La luce e i colori ci forniscono esempi di ciò. Queste
sensazioni confuse, non sono neppur esse arbitrarie; e io non sono
d’accordo con l'opinione accettata oggi dai più e seguita dal nostro
autore, che non vi sia somiglianza o rapporto fra le nostre sensazioni e
le loro tracce corporee. Direi piuttosto che le nostre sensazioni
rappresentano ed espri- mono perfettamente tali tracce. Taluno dirà forse
che la sensazione del calore non assomiglia al movimento: sì. senza
dubbio, non assomiglia a un movimento sensibile quale quello della ruota
di una carrozza; ma assomiglia all' insieme dei piccoli movimenti del
fuoco e degli organi che ne sono la causa; o piuttosto non è se non la
loro rappresentazione. Così la bianchezza non assomiglia a uno
specchio sferico convesso, e tuttavia non è che 1' insieme di una
quantità di piccoli specchi convessi quali si vedono nella schiuma,
guardandola da vicino. E se noi potes- simo sempre scoprire con la
medesima facilità la causa delle nostre sensazioni, troveremmo che essa
si riduce sempre a qualche cosa del genere. (Addition à
l'Explication du systeme nouteau, dopo il 1700, G. IV, 674-0). Corporeità
nella monade. Immortalità. - Si è giunti dunque a concepire il corpo come
un semplice aspetto dello spirito: o meglio, corpo e spirito come due
diversi aspetti della per penetrare in noi. Tale concezione faceva
di ogni sensazione alcunché di primitivo, originario, irresolubile. Le
varie sensazioni derivano invece per Leibniz dal differente comportarsi
di un’unica sostanza, e la differenza fra confuso e distinte — cioè fra
anima e corpo - è differenza di grado, non es- senziale. 7.
— I.kihniz, La monadologia. sostanza semplice originaria, o monade;
la quale non è in sè corporea, ma può, anzi deve svilupparsi in quanto
aumenti o diminuisca il suo grado di perfezione - come spirito o
come corpo. Le percezioni possono infatti divenire da confuse di-
stinte, e viceversa. Oltre alle percezioni di cui l'anima ha
ricordo, essa ne ha una quantità infinita di confuse, di cui non viene in
chiaro; e attraverso queste, essa rappresenta i corpi esterni, e
giunge a pensieri distinti diversi dai precedenti : perchè i corpi che
essa rappresenta sono passati d’ un tratto a qual- che cosa che colpisce
fortemente il suo. Cosi l’ anima passa qualche volta dal bianco al nero o
dal sì al no, senza sa- pere come, o almeno in modo involontario. Poiché
ciò che i suoi pensieri confusi e le sue sensazioni producono in
essa, si attribuisce al corpo. E non Insogna dunque meravigliarsi se un
uomo che mangia un dolce, e si trova punto da un qualche animale, passa
immediatamente, suo malgrado, dal piacere al dolore. Intatti l animale
era già in relazione col corpo dell'uomo avvicinandosi ad esso
prima di pungerlo, e la rappresentazione di ciò colpiva già la sua anima,
ma insensibilmente. Tuttavia a poco a poco F insensibile passa al
sensibile, nell' anima come nel corpo ; e così l’anima si modifica da sè
anche contro la sua volontà; poiché essa è schiava, attraverso le
sensazioni e i pensieri confusi che si formano secondo gli stati del
suo corpo e degli altri corpi in rapporto al suo. Ecco dunque per
quale meccanismo i piaceri si interrompono, e a volte succedono i dolori
senza che l'anima ne sia sempre avver- tita o vi sia preparata; come per
esempio nel caso che l'animale il quale pungerà si avvicini senza rumore;
op- pure, se fosse per esempio una vespa, quando una di- strazione
ci impedisce di fare attenzione al ronzio della vespa che si avvicina.
Così non bisogna punto dire che non è avvenuto nulla di nuovo nella
sostanza di questa anima, per cui essa passi alla sensazione della puntura: sono
i presentimenti confusi o, per meglio dire, le dispo- sizioni insensibili
dell'anima che rappresentavano la dispo- sizione alla puntura nel corpo
(I). (Osservazioni al Dizionario del Bayle, 1702, G. IV, 5-10-7).
Discende anche necessariamente da tutto ciò che ogni mo- nade, e
perciò ogni anima, sia fornita di un corpo. E, poiché ogni monade è
eterna e ind istrutt ibile, non solo l'anima è immortale, ma è anche
indistruttibile il corpo; e di morte, a ligoie, nella natura, non si può
parlare, ma solo di una com- posizione e scomposizione di vari elementi
semplici tra loro. Io ritengo non solo che queste anime o
entelechie ab- biano tutte con sè un qualche corpo organico
proporzio- nato alle loro percezioni; ma anche che Io avi-anno
sempre e lo hanno sempre avuto da quando esistono: così non solo
l'anima, ma anche l'animale stesso (o ciò che è ana- logo all anima e all
animale, per non fare questioni di parole) permane, e la generazione e la
morte non possono essere se non sviluppi e involuzioni di cui la natura
ci mostra visibilmente alcuni saggi, secondo il suo uso, per
aiutarci a indovinare ciò che nasconde. E quindi nè il terrò, ne il
fuoco, ne tutte le altre violenze della natura, qualunque rovina portino
nel corpo di un animale, non pos- sono impedire all'anima di conservare
un qualche corpo organico, in quanto l'organismo, cioè l'ordine e
l'artificio, è qualche cosa di essenziale alla materia prodotta e
orga- nizzata dalla sovrana saggezza: poiché la produzione deve sempre
conservare traccia del suo autore. Questo mi fa pensare anche che non vi
sia alcuno spirito separato (I ) Quanto è qui affermato
contraddice solo in parte all' ipotesi dell’ar- monia prostabilita,
secondo la quale corpo e spirito sono due sistemi sepa- rati, privi di
influenze reciproche. Le percezioni confuse dell’anima sono qui intese
non come veraracute corporee, ma come rappresentatrici nel- l'anima di
ciò ohe avviene nel corpo. È innegabile però clic Leibniz a volte
attribuisce invece alle percezioni confuse un carattere nettamente
corporeo. (Cfr. pp. 94 ss., 110 ss.). completamente dalla materia,
salvo l'essere primo e so- vrano (1). . (Lettera a Lady
Mnsham, 1704, G. Ili, 340). In natura e secondo un rigore
metafisico, non vi è nè generazione nè morte, ma solo sviluppo e
involuzione di un medesimo animale. Altrimenti vi sarebbe un salto
ec- cessivo, e la natura uscirebbe troppo dal suo carattere di
uniformità per un cambiamento essenziale inesplicabile. L’esperienza
conferma tali trasformazioni in alcuni animali, nei quali la natura
stessa ci ha mostrato un piccolo saggio di ciò che essa nasconde altrove.
L' osservazione anche permette ai più accorti osservatori di notare che
la gene- razione degli animali non è altro che un accrescimento ag-
giunto alla trasformazione; il che consente di giungere alla conclusione
che la morte non può essere se non il con- trario; consistendo la
differenza solamente nel fatto che in un caso il cambiamento si produce a
poco a poco, e nell’altro d’ un tratto e come violentemente.
D'altronde, l'esperienza mostra anche che un numero troppo grande
di piccole percezioni poco distinte, come quelle che ven- gono quando si
è ricevuto un colpo alla testa, ci stoi- disce: e che in un deliquio
avviene che noi ricordiamo - e dobbiamo ricordare — così poco di tali
percezioni, come se non ne avessimo avute affatto. Dunque la regola
del- T uniformità ci deve permettere di non giudicare diversa-
mente anche della morte degli animali, secondo l'ordine naturale; poiché
la cosa è facile a spiegarsi in tale ma- niera già conosciuta e
sperimentata, ed è inesplicabile in qualsiasi altra maniera. Non è
intatti possibile concepire come cominci o termini 1 esistenza o 1 azione
del principio percettivo, nè la sua disgregazione. ( Lettera
alla regina Sofia Carlotta di Prussia, 1704, G. IH, alò). (1) Cioè
Dio, in uni non esistono percezioni oscure, nò passività, e in cui tutto
ò realizzato. Gerarchia delle monadi. - La concezione delle
percezioni distinte e confuse come criteri di perfezione o
imperfezione, dà a Leibniz il modo di stabilire una graduazione tra le
varie monadi. Le percezioni più elevate e complesse saranno segni
distintivi delle monadi più elevate. Si forma così una vera e propria
gerarchia, i cui gradi inferiori rappresentano gli infimi staili della
vita vegetativa, i superiori le più alte vette della spiritualità. La
monade dell’uomo sta al culmine di questa ascesa; e ciò che le attribuisce
tale titolo di nobiltà sono le percezioni riflesse, onde essa giunge alle
idee astratte, all’auto- coscienza, alla memoria di sè che le garantisce
la conservazione dellasua personalità individuale. AI di sopra di tutto
poi, come percezione sommamente distinta e completa, e oggetto pure
di ogni percezione particolare da parte delle monadi, è Dio.
Ogni monade, con un corpo particolare, costituisce una sostanza vivente.
Così non vi è solamente vita dapper- tutto, imita alle membra o organi, ma
questa vita si mo- stra in un' infinità di gradi nelle monadi, dominando
le une più o meno sulle altre. Ma quando la monade ha organi così
bene adattati, che per loro mezzo vi sia rilievo e distinzione nell'
impressione che essi ricevono, e quindi nelle percezioni che rappresentano
tali impressioni (come per esempio quando, per la conformazione degli
umori degli occhi, i raggi della luce sono concentrati e agiscono
con maggior forza), allora ciò può giungere fino al sentimento ( 1
), che è una percezione accompagnata da memoria, della quale cioè
resta a lungo una certa eco, per farsi sentire occasionalmente. E un tale
essere vivente è chiamato ani- male, così come la sua monade è chiamata
anima. E quando quest’anima s’ innalza fino alla ragione, essa è
qualche cosa di più sublime, e la si annovera fra gli spiriti, come
spiegheremo or ora. È vero che gli animali sono a volte nello stato di
semplici esseri viventi e le loro anime (1) Questo termine
(sentiment) è stato da noi a volte anche tradotto con la parola «
sensazione ». nello stato di semplici monadi: quando cioè le loro per-
cezioni non sono abbastanza distinte perchè ci se ne possa ricordare,
come nel caso di un sonno profondo senza sogni, o di uno svenimento. Ma
le percezioni divenute intera- mente confuse si devono sviluppare di
nuovo negli ani- mali.... Così è bene far distinzione fra la percezione,
che è lo stato interiore della monade che rappresenta le cose
esterne, e la appercezione, che è la coscienza o conoscenza riflessiva di
quello stato interiore, e non è data a tutte le anime, nè sempre alla
medesima anima.... Vi è nelle percezioni degli animali un legame
che ha qualche somiglianza con la ragione, ma non è fondato che
sulla memoria dei fatti o effetti, e non sulla cono- scenza delle cause.
Così un cane fugge il bastone da cui è stato colpito, perchè la memoria
gli rappresenta il do- lore che questo bastone gli ha prodotto. E gli
uomini, in quanto empirici, cioè nei tre quarti delle loro azioni, non
agiscono che come bestie: per esempio, prevediamo che domani farà giorno
perchè si è sempre fatta una tale espe- rienza: ma solo l'astronomo lo
prevede per via di ragione. E anche questa previsione fallirà una volta,
quando la causa del giorno, che non è eterna, cesserà. Ma il vero
ragionamento dipende dalle verità necessarie o eterne,come quelle della
logica, dei numeri, della geometria, che costi- tuiscono la connessione
indubitabile delle idee e le conse- guenze immancabili. Gli animali nei
quali tali conseguenze non si osservano, sono eliiamati bestie. Ma quelli
che co- noscono queste verità necessarie, sono propriamente quelli
che si chiamano animali ragionevoli, e le loro anime sono chiamate
spiriti. Queste anime sono capaci di compiere atti riflessivi, e di
considerare ciò che si chiama io, so- stanza, anima, spirito, insomma le
cose e le verità imma- teriali. Ed è questa facoltà che ci rende
partecipi delle scienze o dello conoscenze dimostrative. (
Principe* (Iti la nature et de la yruce, 1711-14-, I». VI, 599-bOl).
Differenza fra gli spiriti e le altre sostanze, anime o forme so-
stanziali ; e dimostrazione che V immortalità di cui si vuol sostenere
l’esistenza, implica la memoria. Supposto che i corpi che
costituiscono unum per se, come l'uomo, siano sostanze e abbiano fonile
sostanziali, e che le bestie abbiano anima, bisogna riconoscere
elio tali anime e forme sostanziali non possono perire com-
pletamente, non meno che gli atomi o le ultimo parti della materia,
secondo l’opinione degli altri filosofi; giac- ché nessuna sostanza
perisce, per quanto possa mutarsi. Esse esprimono tutto l’universo,
benché più imperfetta- mente che gli spiriti. Ma la principale differenza
consiste nel fatto che esse non conoscono ciò che sono, nè ciò che
fanno, e quindi, non potendo fare riflessioni, non possono scoprire
verità necessarie e universali. La mancanza di riflessione su sé stesse è
pure la ragione per cui esse non posseggono alcuna qualità morale : ne
deriva che, passando esse per mille trasformazioni - press’a poco come un
bruco si muta in farfalla - ciò equivale per la morale o pratica ( 1
) a dire che esse periscono. Si può anzi dirlo, da un punto di
vista fisico, così come diciamo che i corpi periscono per corruzione. Ma
l' anima intelligente, conoscendo ciò che essa è, e potendo dire quella
parola io che ha un così pro- fondo significato, non solo permane e
sussiste metafisica- mente anche piii delle altre, ma rimane la medesima
anche moralmente, e costituisce il medesimo personaggio. Giac- ché
è il ricordo o la conoscenza di quell’ io che la rende passibile di
castigo o di ricompensa. Così 1’ immortalità ciie si richiede nella
morale e nella religione non consiste nella sola sussistenza perpetua che
appartiene a tutte le sostanze; poiché, senza il ricordo di ciò che si è
stati, non (1) Morale, ha per Leibniz e per tutti i filosofi del
suo tempo anche il si- gnificato di pratico, contingente, empirico. Si ò
già visto (p. 27 ss.) come la nooessità morale si applichi alle verità di
fatto e si contrapponga alla neces- sità di ragione, che dà l’assoluta
cortezza, l’impossibilità del contrario. avrebbe nulla di desiderabile.
Supponiamo che un privato qualsiasi debba divenire ad un tratto re della
Cina, ma a condizione di dimenticare ciò ch'egli è stato, come se
nascesse di nuovo. Ebbene, in pratica e quanto agli ef- fetti di cui ci
si può accorgere, non è forse come se egli dovesse essere annientato, e
dovesse venir creato nel me- desimo istante al suo posto un re della
Cina? Cosa che questo privato non ha alcuna ragione di desiderare.
Eccellenza degli spiriti, che Dio considera a preferenza delle al-
tre creature. Oli spiriti esprimono piuttosto Dio che il mondo , ma le
altre sostanze esprimono piuttosto il mondo che Dio. Ma, per
permettere di giudicare attraverso ragioni natu- rali che Dio conserverà
sempre non soltanto la nostra so- stanza, ma anche la nostra persona,
cioè il ricordo e la co- noscenza di ciò che noi siamo (benché la conoscenza
distinta ne sia a volte sospesa nel sonno e negli svenimenti),
bisogna unire la morale alla metafisica: cioè non bisogna soltanto
considerare Dio come il principio e la causa di tutte le so- stanze e di
tutti gh esseri, ma anche come il capo di tutte le persone o sostanze intelligenti,
e come il monarca asso- luto della più perfetta città o repubblica, quale
è quella dell' universo, composta di tutti gli spiriti insieme;
essendo Dio stesso insieme il più completo di tutti gli spiriti e
il massimo di tutti gli esseri. Sicuramente infatti gli spiriti
sono le sostanze pili perfette e che esprimono meglio la divinità. Ed
essendo la natura, il fine, la virtù e la fun- ziono delle sostanze nuli’
altro che di esprimere Dio e l’uni- verso (come è già stato spiegato a
sufficienza) non vi è ragione di dubitare che le sostanze che lo
esprimono con conoscenza di ciò che esse fanno, e che sono capaci
di conoscere grandi verità riguardo a Dio e all' universo, non lo
esprimano incomparabilmente meglio che quelle nature che sono o brute e
incapaci di conoscere le verità, o com- pletamente prive di sentimento e
di conoscenza: e la differenza fra lo sostanze intelligenti e quelle che non lo
sono è così grande come quella che c’è fra lo specchio e colui che
vede. E poiché Dio stesso è il piii grande e il più saggio
degli spiriti, è facile comprendere che gli esseri coi quali egli
può, per così dire, entrare in conversazione e perfino in società
comunicando ad essi i suoi sentimenti e le sue volontà in modo
particolare e in guisa che essi possano conoscere ed amare il loro
benefattore, lo devono interes- sare infinitamente pi fi che il resto
delle cose, le quali non possono essere considerate se non come strumenti
degli spiriti: così come noi vediamo che tutte le persone sagge
hanno molto maggior stima dell'uomo che di qualsiasi altra cosa, sia pur
preziosissima. E la pili grande soddisfazione che possa avere un’anima,
per altri riguardi contenta, è di vedersi amata dagli altri. Vi è
tuttavia, riguardo a Dio, questa differenza: chela sua gloria e il nostro
culto non pos- sono aggiungere nulla alla sua soddisfazione; non
essendo la conoscenza delle creatine se non una conseguenza della
sua sovrana e perfetta felicità, ben lungi dal contribuirvi o dall’esseme
in parte la causa. Tuttavia, ciò che è buono e ragionevole negli spiriti
finiti, si trova eminentemente in lui. E come noi loderemmo un re che
preferisse conservare la vita di un uomo che quella del più prezioso e
più raro fra i suoi animali, così non dobbiamo affatto dubitare che
il più illuminato e il più giusto di tutti i monarchi non abbia il
medesimo sentimento. Dio è il monarca delta più perfetta repubblica
composta di tutti gli spirili-, e il suo principale intento è la felicità
di questa città di THo. Effettivamente gli spiriti sono le
sostanze massimamente sus*cettibili di perfezione. E le loro perfezioni
hanno questo di particolare: che non si intralciano a vicenda, anzi
si aiutano; poiché soltanto i piti virtuosi potranno essere i più
perfetti amici. Ne segue chiaramente che Dio. il quale tende sempre alla
massima perfezione universale, avrà più cura degli spiriti e darà ad essi
non soltanto in generale ma anche a ciascuno in particolare, il massimo
di per- fezione permesso dall'armonia universale. Si può anzi
dire che Dio. in quanto è uno spirito, è l'origine delle esistenze;
altrimenti, se gli mancasse la vo- lontà per scegliere il migliore, non
vi sarebbe alcuna ra- gione affinchè esistesse un possibile a preferenza
di altri. Così la qualità posseduta da Dio, di essere egli stesso
uno spirito, precede tutte le altre considerazioni che egli può
avere riguardo alle creature: solo gli spiriti sono fatti a sua immagine,
appartengono quasi alla sua razza e sono come i figli della casa, perchè
essi soli possono servirlo li fieramente e agire coscientemente ad
imitazione della na- tura divina: un solo spùito vale tutto un mondo,
perchè non solo lo esprime, ma lo conosce pure, e vi si comporta al
modo di Dio. Così sembra che, quantunque ogni so- stanza esprima tutto
l'universo, pine le altre sostanze espri- mono piuttosto il mondo che
Dio, ma gli spiriti esprimono piuttosto Dio che il mondo. E tale natura
così nobile degli spiriti, ohe li avvicina alla divinità quanto è
possi- bile a semplici creatine, fa sì che Dio tragga da essi
gloria infinitamente maggiore che dagli altri esseri : o piuttosto
gli altri esseri non fanno che dare agli spiriti argomenti per
glorificare Dio. Questa è la ragione per cui quella qualità morale
di Dio che lo rende signore o monarca degli spiriti, lo tocca, per
così dire, personalmente in modo affatto smgolare. È in ciò ch'egli si
umanizza, ch'egli soffre rapporti umani, eh' egli entra in società con
noi, come un principe con i suoi sudditi; e tale rapporto gli è così
caro, che lo stato felice e fiorente del suo impero, consistente nella
massima felicità possibile dei suoi abitanti, diviene la suprema
delle sue leggi. Poiché la felicità è per le persone ciò che la perfezione è
per gli esseri. E se il primo principio del- l'esistenza del mondo fisico
è il decreto di dargli il mas- simo di perfezione possibile, il primo
disegno del mondo morale o della città di Dio, clie è la parte pili
nobile del- l'universo, sarà di diffondervi il massimo di felicità
pos- sibile. Non bisogna dunque affatto dubitare che Dio non
abbia ordinato il tutto in modo che gli spiriti non solo possano
vivere sempre, il che è inevitabile, ma anche ch'essi con- servino sempre
la loro qualità morale, affinchè la sua città non perda alcuna persona,
così come il mondo non perde alcuna sostanza. E quindi gli spiriti
saranno sempre ciò che sono, altrimenti non sarebbero suscettibili di
ri- compensa nè di castigo: il che d'altra parte appartiene
all'essenza di qualsiasi repubblica, ma sopratutto della più perfetta,
nella quale nulla può essere negletto. Ingomma, essendo Dio
contemporaneamente il più giusto e il più benevolo dei monarchi, e non
richiedendo se non la buona volontà, purché sia sincera e seria, i suoi
sudditi non potrebbero desiderare una condizione migliore. E, per
renderli perfettamente felici, egli vuole soltanto che lo amino.
Gesù Cristo Ita scoperto agli uomini, il mistero e le leggi ammi-
revoli del regno dei cieli e la grandezza della suprema felicità che Dio
prepara a coloro che lo amano. I filosofi antichi non hanno
abbastanza conosciuto que- ste importanti verità: Gesù Cristo solo le ha
espresse di- vinamente bene, o in modo così chiaro e famigliare,
che gli spiriti più grossolani le hanno potute concepire. Così il
suo Evangelo ha cambiato completamente la faccia delle cose umane: egli
ci ha mostrato il regno dei cieli, o quella perfetta repubblica degli
spiriti che merita il titolo di città di Dio, di cui ci ha scoperto le leggi
ammirevoli: egli solo ha mostrato come Dio ci ami, e con quale
esattezza abbia provveduto a tutto ciò die ci riguarda; che. preoc-
cupandosi dei passerotti, non trascurerà le creature ragio- nevoli che
gli sono infinitamente più care; che tutti i ca- pelli della nostra testa
sono contati; che cadranno il cielo e la terra, prima che sia cambiata la
parola di Dio e ciò che riguarda l'economia della nostra salvezza; che
Dio ha più riguardo alla minima anima intelligente, che a tutta la
macchina del mondo; che noi non dobbiamo temere ciò che può distruggere
il corpo ma non può nuocere all' anima, perchè solo Dio può rendere
l'anima febee od infebee; che le anime dei giusti sono nella sua mano al
coperto da tutte le rivoluzioni dell'universo, e nulla può agire su di
- esse se non Dio solo; che nessuna delle nostre azioni viene
dimenticata; che tutto viene messo in conto, anche lo pa- role oziose,
anche un cucchiaio d’acqua ben impiegato: infine, che tutto deve riuscire
per il maggior bene dei buoni; che i giusti saranno come dei soli, e che
nè i nostri sensi nè il nostro spirito non hanno mai gustato nulla
che si avvicini aUa febeità che Dio prepara a coloro che lo
amano. ( JJiecours de mélaphysique, 1(180, §§ XXXIV- XXXVII).
Così termina il Discours de métaphysique : nel quale, dal principio
della differente chiarezza di percezione nelle varie monadi, si giunge ad
una gerarchia degli esseri, e alla defi- nizione deU’anima o della
personalità umana in sè e nei suoi rapporti con la natura divina. Tale
costruzione permette a Leibniz uno di quegli sguardi armonici e
complessivi su tutto ("universo, in cui fenomeni tìsici, concetti
scientifici o filoso- fici, principi morali, dogmi religiosi coincidono
in una suprema armonia. La materia come aggregato. - Si è studiata
finora la natura del corpo come elemento essenziale della monade,
inse- parabile. dall'anima. Ma c’è per Leibniz un modo rii conside-
rare il mondo materiale da un altro punto di vista. La materia può essere
vista anello altrimenti che come forza passiva, ap- partenente a ciascuna
delle sostanze fondamentali onde consta il mondo, o come ciò che vi è di
confuso e indistinto nella percezione della monade. Materia è, pili
concretamente, tutto ciò che ci sta intorno; tutto ciò che, nei suoi vari
aspetti, cade sotto i nostri sensi. Ora, questa materia, a volerla
analizzare più a fondo, consterebbe anch essa di unità sostanziali,
di monadi: pur tuttavia ci si presenta, così composita, senza ca-
ratteri di attività o di spiritualità. La sua materialità non dipende
dalle unità che la costituiscono (e sappiamo che non esistono unità che
siano puramente materiali), ma dal fatto stesso di non essere un’unità,
ma un gruppo di unità: un <kj - gregaio. Quanto alle forme
sostanziali o entelechie primitive..., io non le approvo se non quando le
si considera sostanze semplici, capaci di percezione e di appetito,
insomma anime, o qualche cosa che abbia analogia con l’anima, e che
si potrebbe chiamare principio di vita: e ritengo infatti che tutta
la natura sia piena di corpi organici viventi. Così non ritengo in verità
che una pietra sia essa stessa una sostanza corporea animata o dotata di
un principio di Ilo unità o di vita; ma ritengo che in essa
vi siano dapper- tutto di tali principi; e che non vi sia alcuna parte
di materia nella quale non si trovi un animale o una pianta o
qualche altro corpo organico vivente (quantunque di organico vivente noi
non conosciamo che le piante e gli animali). Così una massa di materia
non è propriamente ciò che io chiamo una sostanza corporea, ma
un'ammasso e una risultante ( aggregatovi ) di una infinità di tali
so- stanze, come lo è un gregge di pecore o un mucchio di
vermi. ( Éclaircissement sur les natures plastiques, G. VI,
550). Non dirò, come mi si accusa, che ci sia una sola
sostanza di tutte le cose e che questa sostanza sia lo spirito. Vi
sono invece tante sostanze distinte quante sono le monadi, e tutte le
monadi non sono spiriti. E queste monadi non compongono affatto un tutto
effettivamente unitario. Que- sto tutto, se esse lo componessero, non
sarebbe in nulla uno spirito. Mi guardo pure dal dire che la materia
sia un'ombra o un nulla. Sono espressioni esagerate. Essa è un ammasso,
non substantia seti substa ntiatum, cosi come sarebbe un esercito, un
gregge; e in quanto la si consideri come componente una cosa unica, è un
fenomeno; feno- meno ben reale effettivamente, ma la cui unità è
determi- nata dal nostro concepirla. (Frammento del 1710, G.
VI, 025). L aggregato come eenomeno. - La materia, intesa in
que- sto modo, non viene ad avere nulla di reale. La sua essenza
consiste appunto nel fatto di essere una riunione di sostanze reali: in
sé stessa, essa è dunque qualche cosa di costruito, (li artificiale. Quando
viene osservata a fondo, si dissolve ne- cessariamente nei suoi
componenti. Leibniz esprime ciò col dire che essa ha natura fenomenica {
1). (1) Fenomenico (da «palvopai, appaio), è termine usato fin da
Platone per indicare ciò che non ha realtà assoluta, ma è una
apparenza. Sembra che a rigore i corpi non meritino affatto il nome
di sostanze; e questa pare esser già stata l’opinione di Platone, il
quale ha osservato che essi sono esseri tran- seunti, i quali non
sussistono mai più di un istante. Ma questo è un punto che richiede più
ampia discussione; e io ho altre ragioni importanti che mi conducono a
rifiu- tare ai corpi il titolo e il nome di sostanze, metafisi-
camente parlando. Perchè, per dirla in una parola, il corpo non ha
affatto una vera unità; non è che un aggre- gato, che la scuola chiama
puro accidente ; un insieme, come mi gregge. La sua unità deriva dalla
nostra perfe- zione. È un essere di ragione o piuttosto di immaginazione,
un fenomeno. (Evlretien de Philarète et d’ Ariste, G. VI,
58(>). I corpi non possono essere sostanze propriamente
dette, poiché sono sempre solamente delle unioni, risultanti di
sostanze semplici o vere monadi, le quali non sono estese e perciò non
sono veri corpi. Onde i corpi presuppongono sostanze immateriali.
( Lettera a Lady Masham, 1705, G. 111.357). II continuo e il
discreto. — Di qui Leibniz trae nuovi argomenti per dimostrare 1 irrealtà
della natura corporea in generale e la necessità di ricorrere, di là da
essa, a qualche cosa che sia fornito di più solida validità. Acquista
anche nuova forza la sua negazione del concetto di estensione. La
monade in sè non è estesa; non è considerabile se non come un « punto
metafìsico ». L'*estcnsione non può derivare che da una molteplicità, una
ripetizione: in questo senso essa è puramente fenomenica, così come lo è
l’aggregato. La differenza consiste nel fatto che la materia come
aggregato è discreta , cioè com- posta di un ammasso di unità indivi si
biìn e Féstensione in- vece è continua, cioè divisibile all"
infinito. A maggior ragione essa non sarà nulla di reale, ma un semplice
ordine di rapporti spaziali, così come il tempo è un ordine di rapporti
successivi. Non vi sono se non gli atomi di sostanza, cioè le unità
reali e assolutamente prive di parti, che siano le origini
delle azioni e i primi principi assoluti della composizione delle
cose, e come gli ultimi elementi dell’analisi delle cose sostan- ziali.
Si potrebbe chiamarli punti metafìsici : hanno alcunché di vitale e una
specie di percezione, e i punti matematici sono i loro punti di vista per
esprimere l'universo. Ma (piando le sostanze corporee sono ristrette
insieme, tutti i loro organi non costituiscono se non un punto fisico
ri- guardo a noi. Così i punti fìsici non sono indivisibili se non
in apparenza: i punti matematici sono esatti, ma non sono che modalità; e
solo i punti metafisici o sostanziali (costi- tuiti dalle forme o anime)
sono esatti e reali. E senza di essi non vi sarebbe nulla di reale,
poiché senza le vere unità non vi sarebbe alcuna molteplicità.
( Syslème nourea u, 1695, G. IV, 482-83). Benché la materia
consista in un ammasso di sostanze semplici innumerevoli, e la durata
delle creature, così come il movimento attuale, consista in un ammasso di
stati momentanei, tuttavia bisogna dire che lo spazio non è af-
fatto composto di punti nè il tempo di istanti, nè il movi- mento
matematico di momenti, nè la tensione di gradi estremi. Il fatto è che la
materia, lo scorrere delle cose, e insomma ciascun composto attuale, è
ima quantità discreta, ma che lo spazio, il tempo, il movimento
mate- matico, la tensione e l’ accrescimento continuo nella velo-
cità e in altre qualità, e insomma tutto ciò la cui valu- tazione
appartiene al campo delle possibilità, è una quan- tità continuata e
indeterminata in sé stessa, o indifferente alle parti che vi si possono
prendere e che vi si prendono attualmente in natura. La massa dei corpi è
divisa attual- mente in modo determinato, e nulla non vi è
esattamente continuato; ma lo spazio o la continuità perfetta che è
nell' idea, non indica se non una possibilità indeterminata di dividere
come si vuole. Nella materia e nelle realta attuali, il tutto è un
risultato di parti: ma nelle idee e nei possibili (che comprendono non
solamente questo imi- verso, ma anche qualsiasi altro che possa essere
concepito e che T intelletto divino si rappresenti effettivamente),
il tutto indeterminato è anteriore alle ilivisioni, come la no-
zione dell' intero è più semplice che quella delle frazioni, e la
precede.... Per meglio concepire la divisione attuale della
materia all' infinito e l'esclusione che vi è in essa di ogni
conti- nuità esatta e indeterminata, bisogna considerare che Dio vi
ha giti prodotto tanto ordine e tanta varietà, quanto era possibile di
introdurvi finora, e che così nulla vi è rimasto di indeterminato, mentre
1' indeterminazione è l'es- senza della continuità. Questo apprende il
nostro spirito dalla perfezione divina; e l'esperienza lo conferma
attra- verso i sensi. Non vi è goccia d'acqua così pura, che non vi
si possa osservare qualche varietà, guardandola bene. Un pezzo di pietra
è composto di determinati granuli, e al microscopio questi granuli
appaiono come rocce nelle quali vi sieno mille giochi di natura. Se la
forza della nostra vista aumentasse continuamente, troverebbe sempre
campo per esercitarsi. Dappertutto vi sono varietà attuali, e mai
una perfetta miiforinità. Nè vi sono due parti di materia completamente
simili l ima all’altra, sia nel grande, sia nel piccolo.
(Lotterà alla elettrioe Sofia di Hannover, 1705, G. V]], 502-63).
Materia trema e seconda. - Il continuo è dunque spa- zialità (o
temporalità eco.) astratta; il discreto è aggregato, o materia. E della
materia Leibniz ha due concezioni diverse: da un lato quella che abbiamo
vista al Capitolo 111, come potenza passiva primitiva, come quel
substrato di resistenza, densità, « anti tip' a», al quale si applica la
forza, trasformandola in attività, entelechia; d’altro lato questo
concetto di aggre- gato, composizione, costruzione artificiale posteriore
alla mo- nade, non avente in sè una vera e propria sostanzialità.
Per distinguere tali due modi diversi di considerare la materia,
Leibniz usa i due termini di materia prima e materia seconda.
H. Leibniz, La mvnailoloi/ia. Nei corpi io distinguo
la sostanza corporea dalla ma- teria, e distinguo la materia prima dalla
seconda. La ma- teria seconda c un aggregato o composto di varie
sostanze corporee, come un gregge è composto di vari animali. Ma
ogni animale e ogni pianta, dal canto suo, è una sostanza corporea, la
quale ha in sè il principio dell' unità che fa sì die sia veramente una
sostanza e non un aggregato. E questo principio di unità è ciò che si
chiama anima, oppure qualche cosa che ha analogia con l'anima. Ma
oltre al principio dell’ unità, la sostanza corporea ha la sua
massa e la sua materia seconda, che è ancora un aggre- gato di altre
sostanze corporee più piccole, tino all' infi- nito. Tuttavia la materia
primitiva o presa in sè stessa, è ciò che si concepisce nei corpi
mettendo da parte tutti i principi dell' unità, è cioè ciò che vi è in
essa di passivo. Di qui derivano due qualità: resistenti a et restitantia
vel inertia. Cioè, un corpo non può essere penetrato, e cede
piuttosto a un altro corpo, ma non cede senza difficoltà e senza
diminuire il movimento complessivo di quello che lo spinge. Così si può
dire che la materia, in sè stessa, involve, oltre l'estensione, ima
potenza passiva primitiva. Ma il principio dell’unità contiene la potenza
attiva pri- mitiva, o la forza primitiva, la quale non si perde mai
e persevera sempre in un ordine esatto delle sue modi- ficazioni interne
che rappresentano quelle esterne. (Lettera al Burnett, 1699, U.
Ili, 260-261). L’anima e il corpo. Attraverso il concetto di
aggregato, Leibniz spiega anche la costituzione dei .corpi organici e
degli animali. TI loro corpo, egli dice, è un aggregato, con una
mo- nade, per così dire, dominante e ordinatrice, di natura su-
jieriore. Tale monade è l’anima e costituisce l’elemento per- manente di
ciascun individuo. Definisco 1* organismo, o macchina naturale,
come una macchina, ciascuna parte della quale sia una macchina a sua
volta (1). Perciò la sottigliezza del suo artificio va all ? infinito,
poiché nulla è tanto piccolo da poter essere trascurato; mentre le parti
delle nostre macchine artificiali non sono a loro volta macchine. Questa
è la differenza essenziale fra la natura e forte, che i nostri moderni
non hanno ancora considerato abbastanza. (Lettera a Lady
Magliari), 1704, G. Ili, 356). lo distinguo: l.°) fentelechia
primitiva o anima. 2.°) La materia prima o potenza passiva primitiva.
3.°) La monade, composta di queste due. 4.°) La massa, o materia
seconda, o macchina organica, a formare la quale concorrono innu-
merevoli monadi subordinate. 5.°) L'animale o sostanza corporea, la cui
unità è determinata dalla monade domi- nante nella macchina.
(Lettera al Le Volder, 1703, G. Il, 252). E attraverso i due
concetti di materia prima c seconda, si for- mano pine duo concetti
differenti di anima. Il primo, come principio attivo insito nella monade,
inseparabile dalla sua pas- sività ; l’altro, come quella monade a
carattere più strettamente spirituale, che permane in ciascun individuo,
mentre le monadi formanti la massa del suo corpo variano e si
trasformano. La materia, senza le anime e forme o entelechie,
non è che passiva, e le anime senza materia non sarebbero che
attive: poiché la sostanza corporea completa veramente una, chiamata
dalla scuola unum per se (opposta all'essere per aggregazione), deve
risultare del principio dell' unità, che è attivo, e della massa che
costituisce la molteplicità e che sarebbe solamente passiva se essa non
contenesse se non la materia prima. Invece la materia seconda o
massa, che costituisce il nostro corpo, è tutta composta di parti che
sono in sé sostanze complete quando sono (1) Con la parola «
macchina » Leibniz intende qui, come già altrove, un organismo composito,
cioè formato di parti eterogenee.
altri animali o sostanze organiche animate o attuate a
parte. Ma l'ammasso di queste sostanze corporee organiz- zate che
costituisce il nostro corpo, non è imito alla nostra anima se non per
quel rapporto che deriva dall'ordine dei fenomeni naturali rispetto a
ciascuna sostanza particolare. £ tutto ciò mostra come si possa dire da
un lato che l' anima e il corpo sono indipendenti l'uno dall'altro,
dall'altro che limo è incompleto senza l'altro, poiché in natura
l'uno non è mai privo dell'altro. ( Additimi il l’explication
<lu lyslèine noiueau, U. JY, 572-3). Le lecci del mondo
materiale e del mondo spirituale. - In qualunque modo la si intenda, sia
come materia prima o potenza passiva, sia come materia seconda o
aggregato, la natura corporea ha dunque qualche cosa di irreale. Nel
primo caso essa è un’astrazione, anteriore, |>er così dire, alla
monade; qualche cosa che senza la forza attiva di essa non è ancor
nulla: semplice aspetto inizialmente passivo di quella che sarà un’attiva
unità. Nell'altro caso è pure un'astrazione; poste- riore, questa volta,
alla monade: una riunione, un aggruppa- mento che rimanda però sempre
alla monade come al suo elemento costitutivo essenziale.
D’altro lato, però, la materia non è eliminabile dalla monade. Essa
le si accompagna sempre, come un momento, quasi, della sua natura.
Momento astratto sì, ma essenziale; attraverso il quale necessariamente
si deve passare per raggiungere la vera concretezza deH’entelechia.
Questa materia che, analizzata nel fondo della sua costituzione, si
dissolve e perde ogni realtà, puro ha ima parte fondamentale nel mondo
concreto, natu- rale e umano, come se lo rappresenta Leibniz. La monade
è immateriale, si è visto, eppure ritiene un suo aspetto mate-
riale; così non vi è anima senza corpo. Affermato questo, Leibniz va più
in là, dimenticando quasi le sue premesse che fanno della materia qualche
cosa solo in funzione dell’anima; e cerca leggi autonome e proprie del
mondo materiale, ben distinte da quelle del mondo spirituale. Egli
ritorna quasi alla concezione cartesiana, che aveva sempre combattuto,
del- l'anima e del corpo come due sostanze separate. E, per giu-
dtifìcare la distinzione, attribidsce al corpo la legge meccanica sella
causa efficiente, all'anima la legge vitale della finalità. Questo due leggi,
che abbiamo viste unite là dove il principio della ragion sufficiente,
nelle verità di fatto, rimandava diret- tamente a Dio (1), ora sono
applicate separatamente all’anima e al corpo. Ciò è
giustificabile anche, in parte, con la natura della monade. Essa, si è
visto, contiene in sè tutto lo sviluppo futuro dell’uni- verso allo stato
di implicazione causale: l’effetto, cioè, è già contenuto nelle cause che
dovranno necessariamente produrlo. E questa connessione causale puramente
meccanica e determi- nistica, ha carattere materiale. Per tale aspetto,
la monade è materia: è cioè un punto dell’universo perfettamente e
neces- sariamente determinato dalle cause da cui discende. D altro
lato però, l’universalità si esplica nella monade come rappre- sentazione
e appetito. La totalità dei rapporti è contenuta in essa allo stato di
implicazione pregnante, cosciente e attiva. In questa percezione e
appetito, che Leibniz immagina tendente al bene e retta dalla causa,
finale del v migliore », egli fa con- sistere l’anima. Leibniz fa anche
coincidere questa nuova distin- zione di anima-corpo, con l’altra in cui
si concepisce il corpo come percezione confusa e l’anima come percezione
distinta. Tutto nei corpi avviene meccanicamente, cioè
attraverso le qualità intelligibili dei corpi, quali la grandezza, la
figura, e il movimento; e tutto nelle anime deve essere spiegato
vitalmente, cioè attraverso le qualità intelligibili dell anima, quali la
percezione e l’appetito. E nei corpi animati noi vediamo esservi una
mirabile armonia tra vitalità e mec- canismo, se ciò che avviene nel corpo
meccanicamente viene rappresentato vitalmente nell’anima; e ciò che viene
per- cepito esattamente nell’anima, nel corpo ottiene la sua
completa esecuzione. Ne deriva che, conosciute le qualità del
corpo, possiamo curare le malattie dell’anima e, conosciute lo qualità
del- l’anima, curare le malattie del corpo. È infatti a volte più
facile sapere ciò che avviene nell’ anima che ciò che avviene nel corpo;
a volte viceversa. E ogni volta che noi usiamo delle indicazioni dell’
anima per essere d aiuto (l) Cfr. sopra, p. 19.
al corpo, possiamo parlare di una medicina vitale : metodo
questo che ha più ampia estensione di quanto non si creda comunemente,
perchè il corpo non soltanto risponde al- 1 anima nei movimenti che
vengono chiamati volontari, ma anche in tutti gli altri; quantunque, per
l'abitudine che ne abbiamo, noi non ci accorgiamo che l’anima viene
in- fluenzata o consente coi movimenti del corpo, o che questi
corrispondono alle percezioni e agli appetiti dell' anima. Infatti le
percezioni del corpo sono confuse, in modo che la corrispondenza non
appare così facilmente. E l'anima comanda al corpo in quanto abbia
percezioni distinte, gli obbedisce in quanto abbia percezioni confuse. Ma
pure, chiunque abbia una qualsiasi percezione nell’anima, può
essere certo di avere un qualche effetto di essa nel corpo e
viceversa.... E le cose avvengono in modo tale, che a volte anche nei
fatti naturali noi ricerchiamo la verità at- traverso le cause finali,
quando non si può giungere fa- cilmente ad essa attraverso le cause
efficienti. (Frammento, C. 12- 13). Separazione dei due
mondi. — Ora, formulata questa di- stinzione, Leibniz rinuncia, in certo
senso, a proseguire per quella via che, attraverso la concezione del
rapporto di causa ed effetto come un rapporto di soggetto c predicato, lo
aveva condotto alla sostanza individuale e gli aveva permesso la
risoluzione dei concetti di corpo e spirito l’uno all’ altro. Qui egli
accentua invece la distinzione: corpo e spirito diven- gono due mondi
separati, due entità parallele ma prive di rap- porti fra di loro. La
loro situazione viene ad essere analoga a quella di due monadi distinte:
il contenuto di ciascuna cor- i ispoude a quello dell altra, senza che perciò
si possa dire che I una influisce sull altra (1 ). Così, ciò che avviene
meccanica- monte nel corpo, corrisponde a ciò che è nella
rappresentazione dello spirito: ma non per influenza dell'uno sull’altro
o per una qualsiasi unificazione. 1 rapporti dovranno essere stabiliti
attraverso un intervento della divinità. (1) Cfr. sopra, p. 89
ss. Noi sperimentiamo che i corpi agiscono fra di loro se- condo
leggi meccaniche, e che le anime producono in sè stesse azioni interne. E
non vediamo alcun modo di con- cepire l'azione dell'anima sulla materia o
della materia sull’ anima, nè alcunché di analogo, poiché non è
affatto spiegabile attraverso un qualsiasi artificio che lo
variazioni materiali, cioè le leggi meccaniche, facciano nascere
una percezione; nè che dalla percezione possa derivare un cam-
biamento di velocità o di direzione negli spiriti animali e negli altri
corpi, siano essi sottili o grossi a piacere. Così, sia l'
inconcepibilità di un'altra ipotesi, sia il buon ordine della natura
uniforme in sè stessa (per non parlare qui di altre considerazioni), mi
hanno portato alla conclusione die l'anima e il corpo seguano
perfettamente la loro legge, ciascuno la sua separatamente, senza che le
leggi corporee siano turbate dalle azioni dell'anima, nè che i corpi
tro- vino finestre per far penetrare il loro influsso nelle anime.
Si domanderà dunque: D'onde viene questo accordo del- f anima col
corpo? (Lettera a Lady Masharn, 1704, G. Ili, 340-11).
L’armonia prestabilita. - 11 problema che sorge ora è quello di
questa corrispondenza del mondo corporeo con quello spirituale. Ma una
così netta distinzione dei due mondi non era necessaria alla dottrina
della monade. Leibniz fu forse indotto ad accentuarla, dal fatto di
trovarsi in pole- mica col Malebranche e con gli occasionalisti (1) e di
aver trovato un’ ipotesi più plausibile per risolvere il loro
medesimo problema. 11 desiderio di correggere 1' ipotesi
occasionalistica e di applicare la propria, gli fece forse formulare il
problema negli stessi termini che i suoi interlocutori, più di quanto
non (1) Nicola Malebranche (1638-1713) autore della Recherete de
la viri té h il rappresentante principale dell'occasionalismo, dottrina
che spiegava la corrispondenza tra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale
attraverso un inter- vento continuo di Dio. In occasione di ciascun fatto
avvenuto nel mondo corporeo, Dio, secondo questa dottrina, suscita la
corrispondente rappre- sentazione nello spirito, e viceversa. Questo
problema presuppone natural- mente una netta separazione fra l'ordine
corporeo e l’ordine spirituale: separazione di marca prettamente
cartesiana. Avessero riohiesto i precedenti della sua dottrina. L’ ipotesi
di cui parliamo è quella famosa dell’ armonia prestabilita , di cui
riportiamo qui alcune fra lo molte esposizioni lasciatene dal
Leibniz. I mmaginate due orologi che si accordino
perfettamente. l 'iò può avvenire in tre maniere : la prima consiste
nella mutua influenza di un orologio sull’altro: la seconda nella
cura di mi uomo che vi provveda: la terza nella loro pro- pria esattezza.
La prima maniera è quella dell’ influenza.... La seconda maniera di
far sempre accordare due orologi anche cattivi, potrebbe essere di farvi
sempre provvedere da un abile operaio che li accordi ad ogni istante: e
questa è quella che io chiamo la maniera dell’ assistenza.
Infine la terza mainerà sarà di fare da principio queste due
pendolo con tanta arte e giustezza, da potersi assi- emare il loro
accordo per il futuro. E questa è la via del- l’accordo
prestabilito. Mettete ora l'anima e il corpo al posto di questi
due orologi: il loro accordo o simpatia avverrà pure in una di
queste tre maniere. La maniera dell' influenza è quella della filosofia
volgare; ma poiché non si possono concepire particelle materiali, nè
specie o qualità immateriali che possano passare dall’ima di queste
sostanze nell’altra, si è obbligati ad abbandonare questa opinione. La
maniera dell assistenza è quella del sistema delle cause
occasionali: ma ritengo che ciò significhi introdurre un Deus ex
machina ili un fatto naturale e ordinario, nel quale, secondo
ragione, egli uon deve intervenire se non nolla medesima maniera
nella quale concorre a tutti gli altri fatti della natura. Così non resta
che la mia ipotesi, cioè la maniera dell'ar- monia prestabilita
attraverso un artificio divino preven- tivo, il quale, fin da principio,
abbia formato queste so- stanze in un modo cosi perfetto e regolato con
tanta esattezza che, non seguendo se non le sue proprie leggi
ricevute insieme col proprio essere, ciascuna si accordi tuttavia con
l’altra: proprio come se vi fosse una mutua influenza o come se Dio vi
mettesse continuamente la mano, oltre il suo concorso generale.
(Tetterà del 1696, a. IV, 500-501). Vi è ordine e connessione
nei pensieri, come ve ne è nei movimenti; poiché l’uno risponde
perfettamente all'altro, quantunque la determinazione nei movimenti sia
bruta, e sia invece libera o con scelta nell’ essere che pensa, il
quale non è se non inclinato ma non costretto dal bene e dal male (1).
Infatti l’anima, rappresentando il corpo, conserva le sue perfezioni; e,
benché essa dipenda dal corpo (se ben si guardi) nelle azioni involontarie,
ne è indipendente e fa dipendere il corpo da se stessa nelle altre.
Ma questa dipendenza non è se non metafisica, e consiste nel riguardo che
Dio ha per l’uno regolando l'altro, o più per 1’ uno che per l’ altro, a
seconda delle perfezioni originali di ciascun individuo (2) ; mentre la
dipendenza fisica consisterebbe in un’ influenza immediata che l’imo
riceve- rebbe dall’altro, dal quale dipenderebbe. (Nuovi
Saggi, 1701 segg. II, 21, § 12). L'armonia prestabilita fa sì che
al cane entri il dolore nell' anima, quando il suo corpo è colpito. E se
il cane non dovesse essere colpito ora, Dio non avrebbe dato fin
dall’ inizio alla sua anima una costituzione tale da produrre attualmente
tale doloro in esso, e la rappresentazione o percezione che risponde al
colpo del bastone. Ma se (cosa impossibile) Dio si pentisse e, senza
mutare la natura del- l’anima e il corso naturale dello sue
modificazioni, mutasse il corso delle nature corporee in modo tale che il
colpo (1) Cfr. «opra, p. 27 ss. (2) Abbiamo già visto
come in ragione delle sue percezioni più distinte o più confuse, ciascuna
monade partecipi più dello spirito o del corpo, abbi» cioù maggiore o
minore perfezione. Cfr. sopra, p. 94 ss. non arrivasse, ramina
sentirebbe ciò che corrisponde a questo colpo, mentre il suo corpo non lo
riceverebbe af- fatto. Ma - dirà il signor Bayle - io comprendo le
ragioni per le quali il corpo del cane è colpito dal bastone, ma
non comprendo affatto come mai l'anima del cane che prova piacere mentre
mangia con appetito, passi così subitamente al dolore senza che il
bastone ne sia la causa (come vor- rebbe la tesi scolastica), nè ne sia
causa Dio in particolare (come vorrebbero gli ocxasionalisti). Ma il
signor Bayle non comprende neppure come mai il bastone possa influire
sull’ anima, nè come possa avvenire l'operazione miraco- losa attraverso
la quale Dio accorda continuamente l'anima ai corpi. Invece io ho cercato
di spiegare come tale ac- cordo avvenga naturalmente, col supporre che
ogni anima sia uno specchio vivente rappresentante l' universo
secondo il suo punto di vista, ed eminentemente in rapporto col suo
corpo. Così le cause che fanno agire il bastone (cioè l’uomo posto dietro
al cane, preparato a colpirlo mentre esso mangia, e tutto ciò che
nell'ordine corporeo contri- buisce a disporre quell’uomo a quell'azione)
sono anche rappresentate fin da principio nell'anima del cane in
modo esatto sì, ma debole, per mezzo di percezioni piccole e
confuse e senza appercezione, cioè senza che il cane se ne accorga;
perchè anche il corpo del cane non ne è influen- zato se non
impercettibilmente. E come, nell’ordine delle nature corporee, queste
disposizioni conducono finalmente al colpo ben assestato sul corpo del
cane, analogamente le rappresentazioni di queste disposizioni conducono
nel- l'anima del cane alla rappresentazione del colpo di ba- stono:
rappresentazione la quale, essendo distinta e forte (come non lo erano le
rappresentazioni delle predisposi- zioni. poiché le predisposizioni
influenzavano solo debol- mente anche il corpo del cane), il cane se ne
accorge ben distintamente: ed è questo che determina il suo do-
lore. Così non si deve affatto immaginare che l'anima del cane, in questo
caso, passi dal piacere al dolore senza alcuno sviluppo e senza alcuna
ragione interna. (Osservazioni al Dizionario del Bayle, 1702, G.,
IV, 531-32) - Nel corpo tutto avviene meccanicamente secondo le
leggi del movimento, e nell'anima tutto avviene moralmente o
secondo le apparenze del bene e del male: in modo che, anche (piando si
tratta dei nostri istinti o delle azioni in- volontarie alle quali sembra
partecipare solamente il corpo, vi è nell'anima un appetito di bene o una
fuga dal male che la spinge; benché la nostra riflessione non possa
ben districarne la confusione. Ma se l'anima e il corpo seguono
così ciascuno separatamente le sue proprie leggi, come si incontrano essi
e come avviene che il corpo obbedisca al- l' anima, e che l'anima risenta
del corpo? Per spiegare questo mistero naturale bisogna ben ricorrere a
Dio, così come quando si tratta di dare la ragione primordiale del-
l’ordine e dell'armonia nelle cose. Ma questo ricorso non avviene che una
volta per tutte, e non come se Dio tur- basse le leggi dei corpi per
farli corrispondere alle anime, e viceversa. Egli ha invece fatto fin da
principio i corpi in modo tale che, seguendo le loro leggi e le tendenze
na- turali dei movimenti, essi verranno a fare ciò che l'anima
chiederà quando ne verrà il momento; e d'altra parte ha fatto le anime
tali che. seguendo le tendenze naturali del loro appetito, giungeranno
anche sempre alle rappresenta- zioni degli stati del corpo. Giacché, come
il movimento conduce la materia di figura in figura, così l’appetito
con- duce l'anima di immagine in immagine. E così l’anima è
inizialmente dominante ed obbedita dal corpo nella mi- sura in cui il suo
appetito è accompagnato da percezioni distinte che la fanno pensare ai
mezzi adatti quando essa vuole qualche cosa; ma è soggetta al corpo, pure
fin dal- 1’ inizio, in misura delle sue percezioni confuse. Noi
spe- rimentiamo infatti che tutte le cose tendono al cambiamento; i corpi
per la forza movente, e l’anima per 1 appetito che la conduce a
percezioni distinte o confuse, secondo la sua maggiore o minore
perfezione. E non bisogna affatto meravigliarsi di quest’accordo
primordiale delle anime e dei corpi, essendo tutti i corpi organizzati
secondo le in- tenzioni di uno spirito universale, ed essendo tutte le
anime essenzialmente rappresentazioni o specchi viventi dell uni-
verso, secondo la portata e il punto di vista di ciascuna, essendo essi
perciò altrettanto durevoli che il mondo stesso. È come se Dio avesse
variato 1 universo tante volte quanto sono le anime, o come se egli avesse
creato tanti universi in compendio, accordantisi nel fondo o
differenziati nel- l'apparenza. Non vi è nulla di così ricco come questa
sem- plicità uniforme, accompagnata da un ordine perfetto. E si può
ben pensare come ciascuna anima in sè stessa debba essere perfettamente
disposta, essendo ciascuna ima par- ticolare espressione dell'universo e
come un universo con- centrato; e ciò risulta anche dal latto che ciascun
corpo, e quindi il nostro pure, è affetto in qualche modo da tutti
gli altri, ed anche l'anima dunque vi partecipa. Ecco in poche parole
tutta la mia filosofia. (Lettera alla regina Sofia Carlotta di
Prussia, 1704, 0. 111,340-48). Tale ò l' ipotesi dell'armonia
prestabilita; la quale termina e corona il sistema di Leibniz, ma non si
può dire che aggiunga molto di essenziale alla dottrina della monade. TI
principio qui introdotto è quello medesimo onde viene dimostrata la
corrispondenza del contenuto di ciascuna monade con quello di tutte, pur
senza un’ influenza reciproca. Ma l’applicarlo ai rapporti fra anima e
corpo, obbliga ad una distinzione e se- parazione fra l’ordine corporeo e
l’ordine spirituale; mentre proprio nel superamento di tale separazione e
nella sintesi dei due ordini abbiamo ravvisato il valore piu specifico
del con- cetto di monade. Ma questa separazione è posteriore
idealmente a quel con- cetto. Nell’ applicare i principi trovati, nel far
agire la sua mo- nade come elemento costituente del mondo, Leibniz ricade
a volte in posizioni da lui già inizialmente superate, e mal inter-
preta sè stesso. Ciò che rimane essenziale in quanto si è visto ilei suo
pensiero è la struttura interna del concetto di monade : questa sintesi
di universale e individuale, di materia e spirito, ili attività e
passività, che è un punto di arrivo e un punto di partenza nella storia
della filosofia. /La monade, di cui parleremo qui, non è altro che ima
sostanza semplice che entra nei composti; semplice, cioè senza
parti. 2. ° E bisogna che vi siano sostanze semplici, dato
che vi sono composti; poiché il composto non è altro che un ammasso
o aggrega tum di semplici (1). •1." ^ h-a. dove non vi sono
parti, non vi è nè estensione, nè figura, nè divisibilità possibili (2).
E queste monadi sono i veri atomi (3) della natura; in una parola gli
elementi delle cose. 4.° Non vi è neppure alcuna dissoluzione
da temere, e non vi è alcuna maniera concepibile nella quale una
sostanza semplice possa perire naturalmente. ó.° Per la medesima
ragione, non v'è alcun motivo per il quale una sostanza semplice possa
aver principio natu- ralmente; poiché essa non può essere formata per
com- posizione. (1) 1 m ricerca (logli eleuiyuti semplici,
(la cui cleri vano per composizione tutte le altro cose, è una dello idee
fondamentali di Leibniz. Applicato al campo logico, questo concetto dà
luogo ai progetti di arte combinatoria, carattc- ristica, scienza
generale, lingua universale ecc. Cfr. p. 33 s. Sul concetto di aggregato,
cfr. p. 100 s. (2) Si toglie così olla monade ogni carattere di
materialità. (3) Atomi immateriali, metafisici; non naturalmente le
particelle mate- riali indivisibili di cui parlano gli atomisti, e che
Leibniz combatteva. Così si può dire che le monadi non possono aver
principio nè fine se non d un tratto; cioè esse non pos- sono aver
principio se non per creazione, ne fine se non per annullamento; mentre
ciò che è composto comin- cia o finisce per parti (1). 7»
Neppure c'è modo di spiegare come una mo- nade possa essere alterata o
cambiata nel suo interno da qualche altra creatura; poiché in essa non e
possibile trasposizione, nè è concepibile movimento interno che vi
possa essere eccitato, diretto, aumentato o diminuito , ciò invece è
possibile nei composti, dove si danno cam- biamenti fra le parti. Le monadi
non hanno finestre pei le quali qualche cosa vi possa entrare o uscire.
Gli acci- denti non possono staccarsi nè passeggiare fuori delle
so- stanze. come facevano una volta le specie sensibili deg
scolastici. Così nè sostanza, nè accidente, non possono en- trare dall’
esterno in ima monade (2). 8° Tuttavia occorre che le monadi
abbiano qualche qualità; altrimenti non sarebbero neppure degli esseri.
E se le sostanze semplici non differissero affatto per le loro
qualità, non si avrebbe modo di accorgersi d. alcun cam- biamento nelle
cose, poiché ciò che è nel composto non può venne se non dagli
ingredienti semplici; e se le monadi fossero prive di qualità, sarebbero
indistinguibili una dal- l'altra. giacché esse non differiscono neppure
nella quan- tità: e quindi, ammesso il pieno, ciascun luogo non
rice- verebbe mai, nel movimento, se non l'equivalente (lei mo-
vimento che aveva già avuto : e uno stato di cose sarebbe y
indiscernibile dall altro. deducono dall’ immaterialità delle monadi
la imposeibilUtà r ^ C,t (2) a N°elS monade, soggetto
eomprendentegt arnese può dire cl/e £ de™ da, di lucri, se
tutto quanto le avviene è già compreso m essa. Cfr. p. 89 ss.
"'O.o Occorre inoltre che ciascuna, monade sia differente da ogni
altra. Poiché non vi sono in natura due esseri che siano perfettamente
uguali, e nei quali non sia pos- sibile trovare una differenza interna o
fondata su di una denominazione intrinseca (1). 10. 0
Considero inoltre come ammesso, che ogni essere creato, e quindi ogni
monade creata, sia soggetta a mu- tamento: e anzi che questo mutamento
sia continuo in ognuna. 11.0 Da quanto abbiamo detto,
consegue che i muta- menti naturali delle monadi derivano da mi
j)rinci]iio in- terno, dato che ima causa esteriore non potrebbe
influire sul loro interno (2). 12.° Ma occorre pure che,
oltre il principio del muta- mento, vi sia un dettaglio (3) di ciò che
muta-, il quale deter- mini, per così dire, la specificazione e la
varietà delle so- stanze semplici. v 13.° Tale dettaglio deve
implicare una molteplicità nel- l'unità o nel semplice. Infatti, poiché
ogni cambiamento naturale avviene per gradi, qualche cosa cambia e
qualche cosa resta; e quindi bisogna che nella sostanza semplice vi
sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché essa non abbia
parti. 14.° Lo stato transitorio che implica e rappresenta
una molteplicità nell’unità o nella sostanza semplice, non (1) Nei
§3 8-9 è affermata la differenziazione fra le varie monadi; In quale deve
fondarsi su alcunché di qualitativo, interno alla monade stessa,
riguardante la sua intima costituzione, e non le sue relazioni esteriori.
Questo principio intorno di ditTerenziazione è costituito dal diverso
punto di vista, secondo cui ciascuna monade rappresenta l’universo. Sul
principio dell’ iden- tità degli indiscernibili, efr. p. 78 ss.
(2) Il mutamento nolla monade consiste nello sviluppo c nella
realizza- zione di quanto è già implicito in essa. In questo sviluppo
essa manifesta la sua facoltà attiva o quella conoscitiva: percezione c
appetito. Cfr. p. 78, 80 ss., 89 ss. (3) Traduciamo cosi, non
trovando vocabolo migliore, la parola ilétail, che altri traduce con a
particolarità » o in modo affine. Essa vuole indicare uno sviluppo
completo, disteso e particolareggiato in tutti i suoi dettagli. è
altro che ciò che si chiama percezione (1), da distinguersi y dalla
appercezione o dalla coscienza, come si vedrà in se- guito. A cpiesto
proposito i cartesiani hanno gravemente errato, non avendo tenuto conto
delle percezioni di cui non ci si accorge (2). E ciò puro li ha indotti a
ritenere che i soli spiriti fossero monadi e che non vi fossero
affatto anime di bestie nè altre entelechie; ed a confondere, come fa
il volgo, un lungo stordimento con la morto propria- 1 2 3 4 mente detta:
il che li ha fatti anche cadere nel pregiudizio scolastico delle anime
interamente separate, ed ha pure con- fermato gli spiriti mal disposti
nell'opinione della morta- lità dell'anima (3). * 15.°
L’azione del principio interno che determina il mutamento o il passaggio
da ima percezione ad un altra, può chiamarsi appetizione ; è vero che
l’appetito non sem- pre può giungere completamente all’ intera percezione
cui tende; ma ne ottiene pur sempre qualche cosa, e giunge a
percezioni nuove (4). 16.° Noi stessi sperimentiamo una
molteplicità nella sostanza semplice, quando troviamo che il minimo
pensiero (1) La percezione, questo fatto dolio spirito, permetto
dunque la sintesi dell’uno e del molteplice, necessaria a conciliare
l’unità e immaterialità della monade oon la varietà e mutevolezza del suo
contenuto. Percepire è cogliere una molteplicità e riferirla ad un unico
soggetto. 11 contenuto, diremmo noi. è molteplice, la forma ò una. Cosi è
nella monade; e ciò spiega conio la va- rietà e mutevolezza in essa venga
concepita da Leibniz in termini di perce- zione. Cfr. p. 82 s.
(2) « Accorgersi « traduce il francese aptrCLVoir. Appercezione (aptreeptiev)
significa dunque l’accorgersi, cioè il percepire coscientemente, contrapposto
al percepire senza accorgersene, come nel caso delle piccole percezioni.
Cfr. p. 87. (3) Cartesio, che considera ogni attività conoscitiva
come razionale, quindi cosciente, non può attribuire tale attività se non
all’uomo, e la tiene nettamente separata da tutto ciò che è corporeo. Pi
qui gli inconvenienti sopra elencati, cui Leibniz vuole ovviare col suo
concetto di una percezione di cui non ci si accorge, e priva di ragione
(la piccola percezione), che sia quindi attribuibile anche agli animali e
che segni come un punto di con- tatto fra la materia e lo spirito. Cfr.
pp. 84 ss., 94 ss., 99 ss. Vedi anche in seguito, §§ 19 ss.
(4) L’appetito ò l’altra attività della monade, secondo cui essa può
pas- sare dall’uno al molteplice. Cfr. p. 80 ss. di cui ci
accorgiamo, implica una varietà nell'oggetto. Così tutti coloro che
riconoscono che l’ anima è una sostanza semplice, devono riconoscere
questa molteplicità nella mo- nade; e il Bayle non avrebbe dovuto
trovarvi difficoltà, come ha fatto nel suo dizionario, all'articolo
Borariua (1). 17. ° Peraltro bisogna pur riconoscere che la
percezione e ciò che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni
mec- caniche, cioè mediante ligure e movimenti (2). E supposto che
vi sia una macchina la cui struttura faccia pensare, sentire, aver
percezione, si potrà concepirla ingrandita, conservando le medesime
proporzioni, in modo che vi si possa entrare, come in un mulino. E posto
ciò, non si tro- verà, visitandola al! interno, se non pezzi spingentisi
vi- cendevolmente, ma nulla di che spiegare una percezione. E
dunque nella sostanza semplice e non nel composto o nella macchina
bisogna cercare la percezione. Anzi, non vi è se non questo che si possa
trovare nella sostanza semplice: percezioni e i loro cambiamenti. E solo
in ciò possono consistere tutte le azioni interne delle sostanze
semplici. 18. ° .Si potrebbe dare il nome di entelechie a tutte
le sostanze semplici o monadi create, poiché esse hanno in sè stesse una
certa perfezione (l/oum tò è tsXéc); vi è una autosufficienza
(afiràpxet*) che le rende fonti delle loro azioni interne, e, per così
dire, automi incorporei. l‘J.° Se vogliamo chiamare anima tutto ciò
che ha percezioni e appetiti nel senso generale che ho spiegato or
ora. tutte le sostanze semplici o monadi create potrebbero essere
chiamate anime; ma siccome il sentimento è qualche ( 1)
Nell’artieolo Korarius dei suo Dizionario, il Bayle discute P ipotesi
leibniziana dell'anuouia prestabilita; e a questo proposito trova
contradjt- toria la. tesi cho una sostanza semplice e priva di parti sia
soggetta a cam- biamento. (2) Ragioni meccaniche, lìgura,
movimento sono caratteristiche della pura in viaria. Leibniz le
contrappone alle cause finali, che sono proprie del mondo immateriale e
spirituale. Cfr. p. 116 ss. cosa di più che ima semplice percezione, io
acconsento a che il nome generale di monadi e entelechie basti per le
sostanze semplici che non hanno se non la pura perce- zione: e che si
chiamino anime solamente quelle la cui percezione è più distinta e
accompagnata da memoria (1). 20. ° Infatti noi sperimentiamo in noi
stessi uno stato in cui non ci ricordiamo di nulla e non abbiamo alcuna
percezione distinta; come quando cadiamo in deliquio o quando siamo
immersi in un sonno profondo senza sogni. In questo stato, l'anima non
differisce sensibilmente da ima semplice monade; ma siccome questo stato
non è dure- vole, e l’anima se ne Ubera, essa è qualche cosa di
più. 21. ° E non ne consegue punto che in tale stato la
sostanza semphee sia priva di percezione; ciò non è anzi possibile, per
le ragioni suddette; poiché essa non può pe- rire. nè può sussistere
senza qualche affezione, che non è poi altro che la sua perceziome. Ma
quando vi è una grande moltitudine di piccole percezioni, nelle quali non
vi è nulla di distinto, si è storditi; al modo che quando si gira
continuamente nello stesso senso per più volte di seguito si è presi da
una vertigine che può farci svenire e che non ci permette di distinguere
nulla. E la morte può de- terminare questo stato per un certo tempo negh
animali. 22. ° E, poiché ogni stato presente di una sostanza
sem- plice è naturalmente conseguenza del suo stato precedente,
sicché il presente in essa è gravido dell’avvenire (2); 23. °
dunque, poiché, appena desti dallo stordimento, ci si accorge delle
proprie percezioni, bisogna pure che se (1) La percezione pura e
semplico, incosciente o priva di appercezione tasta a costituire la
monade; ma le monadi più complesse c perfette si di- stinguono appunto
per una percezione più perfezionata, dotata di coscienza, di memoria eoe.
Cfr. §§ 24-30 e p. 101 ss. (2) Leibniz introduce qui incidentalmente
un suo principio fondamentale: il principio di causalità o di ragion
sufficiente. Ogni stalo della monade deriva da cause e produce effetti, c
se si segue tale connessione causale in tutto il suo sviluppo, si va all’
infinito e si comprende tutto l’universo pas- sato e avvenire. Cfr. p. 17
a., 35 ss. Vedi anche in seguito, § 32. ne siano avute immediatamente
prima, quantunque non ce ne siamo accorti ; poiché una percezione non può
venire in natura se non da un'altra percezione, come un mo- vimento
non può venire in natura se non da un movi- mento (1). 24 . °
Si vede da ciò. che se noi non avessimo nulla di distinto e, per dir
così, in rilievo e di un più forte sapore nelle nostre percezioni,
saremmo sempre in uno stato di stordimento. E questo è lo stato delle monadi
pure e semplici (2). 25. ° Così noi vediamo che la natura ha
dato perce- zioni in rilievo agli animali, dalla cura che essa si è
presa di fornirli di organi che raccolgono più raggi di luce o pili
vibrazioni di aria per aumentarne l'efficacia con l’u- nione. E vi è
qualche cosa di simile nell'odorato, nel gusto e nel tatto, e forse in
una quantità di altri sensi che ci sono sconosciuti. E spiegherò fra poco
(3) come ciò che avviene nell’anima rappresenti ciò che avviene negli
organi. 26. ° La memoria fornisce alle anime una specie di
concatenazioM che imita la ragione, ma che deve esserne distinta. Noi
vediamo che gli animali, quando hanno per- cezione di qualche cosa che li
colpisce e di cui hanno già avuto anteriormente una percezione simile, si
attendono, per la rappresentazione della loro memoria, a ciò che vi
era unito in quella percezione precedente, e sono portati a sentimenti
simili a quelli che avevano provati allora. Per esempio, quando si mostra
il bastone ai cani, essi si ram- mentano del dolore che esso ha loro
causato, e abbaiano e fuggono. (1) Si riferisce qui al
principio di continuità, secondo il quale natura non facil saliti)). Cfr.
p. 52. (2) Leibniz stabilisce, in questi paragrafi e nei seguenti,
i tre gradi della gerarchia: lo monadi pure c semplici fornite di sole
percezioni incoscienti; quelle fornite di momoria, o animali, quelle
fornite anche di ragione, o spi- riti. Cfr. p. 101 ss. (3) Cfr.
§§ 62, 78 ss. E la forte immaginazione che li colpisce e li
com- muove, deriva o dall’ intensità o dal numero delle perce-
zioni precedenti. Poiché spesso un' impressione forte pro- duce d’un sol
tratto l’ effetto di una lunga abitudine o di molte percezioni mediocri
ripetute. 28. ° Gli uomini agiscono come le bestie, in quanto
la concatenazione delle loro percezioni non avviene se non per il
principio della memoria; assomigliano, per questo riguardo, ai medici
empirici che hanno una semplice pra- tica senza teoria; e noi non siamo
che empirici nei tre quarti delle nostre azioni. Per esempio, quando ci
si at- tende che domani faccia giorno, si fa ciò empiricamente,
perchè finora è sempre avvenuto così. Soltanto l’ astro- nomo giudica ciò
per Ada di ragione. 29. ° Ma la conoscenza delle verità necessarie
ed eterne è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci dà la
ra- gione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e
di Dio. E ciò si chiama in noi anima ragionevole o spirito. 30. °
Inoltre, mediante la conoscenza delle verità necessa- rie e delle loro
astrazioni, noi siamo elevati agli atti riflessivi che ci fanno pensare a
ciò che si chiama io, o considerare che questo o quel contenuto è in noi
; ed è così che, pen- sando a noi, noi pensiamo all’essere, alla
sostanza, al sem- plice e al composto, all' immateriale e a Dio stesso,
col concepire che ciò che in noi è limitato, è in lui senza limiti.
E questi atti riflessivi forniscono i principali oggetti dei nostri
ragionamenti. \ 31.° I nostri ragionamenti sono fondati su due
grandi principi ( 1 ) : quello delia contradizione, in A T irtù del
quale giu- dichiamo falso ciò che implica contradizione, e vero ciò
che è opposto o contradittorio al falso; (I) Passa ad altro
argomento: le grandi forme costitutive della realtà, c insieme i
fondamentali principi logici: verità di ragione, rette dal principio di
non contradizione, verità di fatto, rette dal principio di ragion
suflìciente o di causalità. Cfr. p. (i ss., 17 s. e quello
della ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo clic nessun
fatto può esser vero o esistente, nessuna proposizione veritiera, se non
vi è una ragione suf- ficiente per cui sia così e non altrimenti; benché
tali ra- gioni il più delle volte non possano esserci note. y 33°
Vi sono pure due specie di verità: quelle di ra- gione e quello di fatto
; le verità di ragione sono necessarie e il loro opposto è impossibile;
quelle di fatto sono con- tingenti e il loro opposto è possibile. Quando
una verità è necessaria, se ne può trovare la ragione per mezzo
del- l'analisi, risolvendola in idee e in verità più semplici, fin-
ché si giunga alle primitive (1). 34° Così nelle matematiche i
teoremi speculativi e i canoni pratici sono ridotti, per mezzo dell’analisi,
a defi- nizioni, assiomi e 'postulati, 35.° Vi sono infine
idee semplici, di cui non si può dare la definizione; vi sono pure
assiomi e postulati o, in una parola, principi primitivi che non possono
essere dimostrati, e non ne hanno bisogno ; e sono le proposizioni
identiche, il cui opposto contiene un'espressa contradizione. 36°
Ma la ragion sufficiente deve trovarsi anche nelle verità contingenti o
di fatto, cioè nell'ordine delle cose dif- fuse nell'universo delle
creature ; nel quale la risoluzione in ragioni particolari potrebbe
procedere fino a un frazio- namento senza limiti, a causa della varietà
immensa delle cose della natura e della divisione dei corpi all'
infinito. Vi è un" infinità di figure e di movimenti presenti e
passati, che entrano nella causa efficiente della mia scrittura at-
tuale; vi è un' infinità di piccole inclinazioni e disposi- zioni della
mia anima, presenti e passate, che entrano nella causa finale (2).
( 1 ) È questo il metodo ilollu « caratteristica» e « combinatoria »;
cfr. p. .'iUtss- (2) La causa liliale, che Leibniz usa con significati
diversi secondo le oc- casioni, rappresenta qui, per cosi dire, una causa
efficiente rivolta verso l’avvenire. ICssa dà il fine, lo scopo, l’intenzione
secondo cui una determinata E siccome tutto questo dettaglio non implica
se non altri contingenti anteriori o più dettagliati, ciascuno dei
quali ha ancora bisogno di una simile analisi perchè se ne possa rendere
ragione, per questa via non si procede affatto; e conviene che la ragion
sufficiente od ultima sia fuori dell’ ordine o seriett di questo
dettaglio di contingenze, * per quanto infinito esso possa essere.
38. ° E cosi la ragione ultima delle cose deve consi- stere in una
sostanza necessaria, nella quale il dettaglio dei cambiamenti non si
trovi se non in modo eminente, come in una fonte; e tale sostanza noi la
chiamiamo Dio. 39. ° Ora, essendo tale sostanza ragion sufficiente
di tutto quel dettaglio, il quale inoltre è concatenato univer- salmente,
non vi è che un nolo Dio, e questo Dio è suflì-V dente (1).
40. ° È da ritenere inoltre che questa sostanza su- prema, che è
unica, universale e necessaria, non avendo nulla fuori di sè che sia da
essa indipendente, ed essendo semplice conseguenza dell'essere possibile,
debba essere in- capace di limiti e contenere la massima quantità
possibile di realtà. 4 1 . ° Donde consegue che Dio è
assolutamente perfet- to; non essendo la perfezione altro che la
grandezza della realtà positiva intesa precisamente, eliminando i limiti
o confini nelle cose che ne hanno. E là dove non vi sono confini,
cioè in Dio, la perfezione è assolutamente infinita. cosa è
avvenuta. Contribuisce quindi a determinare Je « ragioni della cosa
stessa e rientra cioè nella sua ragion sufficiente. Da causa tinaie serve a
Leib- niz per indicare un aspetto più spontaneo, attivo, spirituale,
morale del prin- cipio di ragion sufficiente. Essa si contrappone in
questo senso alla causa efficiente, la quale indirà un rapporto puramente
materiale e meccanico. Cfr. pp. li) s., 1 lfi ss. (1) Questa
dimostrazione di Ilio è basata sul principio di rugion suffi- ciente. Dio
è la causa prima di tutta la serie delle cose del mondo, delle verità di
fatto empiriche e contingenti. Egli non può però appartenere all’ordine
delle cose contingenti, altrimenti dovrebbe avere una causa fuori rii sè,
e non sarebbe più causa prima. Appartiene quindi all’ordine delle
essenze necessario. Ne consegue pure che le creature ricevono
le loro perfezioni dall' influsso di Dio, ma che derivano le imper-
fezioni dalla loro propria natura, incapace di essere senza limiti.
Poiché in questo appunto esso sono distinte da Dio. Tale imperfezione
originaria delle creature, si riscontra nel- f inerzia naturale dei corpi
(1). 43. ° È anche vero che Dio è non solo la fonte delle
esistenze, ma anche quella delle essenze in quanto reali, o di quanto vi
è di reale nella possibilità. Infatti V intel- letto di Dio è la regione
delle verità eterne, o delle idee da cui esse dipendono; e senza di lui
non vi sarebbe nulla di reale nelle possibilità, e non solamente nulla vi
sarebbe di esistente, ma neppure alcunché di possibile. 44. °
Infatti, se vi è mia realtà nelle essenze o possi- bilità, o nelle verità
eterne, bisogna pure che questa realtà si fondi su qualche cosa di
esistente e di attuale; si fondi quindi sull - esistenza dell'essere
necessario, in cui l’essenza implica l’esistenza, o cui basta di essere
possibile per essere attuale. 45. ° Così Dio solo, ovvero
l'essere necessario, ha questo privilegio: che. se è possibile, bisogna
che esista. E siccome nulla può impedire la possibilità di ciò che
non implica alcun limite, alcuna negazione, quindi alcuna contradizione,
ciò solo basta per riconoscere a priori la esistenza di Dio (2). Noi
l’abbiamo anche dimostrata per (1) Perfezione è per Leibniz il
massimo di realtà, di fatto compatibile eoi principi della possibilità,
determinati dalle verità di ragione. Cfr. p. 21 ss. Imperfezione è una
limitazione di realtà. L’intero complesso del mondo dunque, cosi come 6
messo in opera da Dio, rappresenta il massimo di realtà possibile, ed è
perfetto. Solo le cose particolari sono imperfette, in ragione appunto
della loro particolarità. Questa concezione àia medesima die Leib- niz
svolge nella Teodicea. (2) Questa è la prova ontologica del
resistenza di Ilio. Leibniz lui aggiunto alla formulazione cartesiana di
essa il criterio della possibilità. Bisogna an- zitutto, secondo lui, dimostrare
che il concetto dell’ente perfettissimo ò pos- sibile, cioè noninvolve
contradizione. Sia poiché esso è effettivamente pos- sibile, ne segue che
esso contiene in sé anche l'attributo dell’esistenza. Cfr. p. 13 ss. mezzo
della realtà delle verità eterne (1). Ma l'abbiamo di- mostrata or ora
anche a 'posteriori (2), poiché esistono es- seri contingenti, i quali
non possono avere la loro ragione ultima o sufficiente se non nell essere
necessario che ha in aè stesso la ragione della sua esistenza.
40.° Tuttavia non bisogna punto immaginarci, come fa taluno, che le
verità eterne, essendo dipendenti da Dio, siano arbitrarie e derivino
dalla sua volontà, come sembra aver inteso Cartesio e dopo di lui il
Poiret (3). Ciò non è vero se non delle verità contingenti, il cui principio
è la convenienza o la scelta del migliore : laddove le verità ne-
cessarie dipendono unicamente dal suo intelletto e ne sono l'oggetto
interno (4). 47.° Così Dio solo è f unità primitiva, o la
sostanza semplice originaria di cui tutte le monadi create o
derivate sono prodotti; e queste monadi nascono, per così dire, per
fulgurazioni continue della divinità, di momento in momento, limitate
dalla recettività della creatura, alla quale è essenziale di essere
limitata. 4 8.° \ i è in Dio la potenza , che è la sorgente di
tutto, la conoscenza che contiene il dettaglio delle idee, e la vo-
lontà che determina i mutamenti o le produzioni secondo il principio del
migliore (5). E ciò corrisponde a quello che nelle monadi create
costituisce il soggetto o base, la fa- coltà percettiva, e la facoltà
appetitiva. Ma in Dio questi (1) Ai §§ 43, 44. (2) Ai
§§ 37-30. (3) Teologo protestante (1640-1719). ( I)
Questa affermazione correggo in parte quunto fc stato attenuato ai SS 43
o 44. Le verità di ragione, clic danno la possibilità delle cose, hanno
pure una loro realtà di esseri possibili. Questa realtà deriva loro da
Dio. Ma la loro conformazione in quanto principi regolativi
dell’universo, ha una validità a sò stante, indipendente anche dalla
volontà di Dio. Solo le esi- stenze o realtà di fatto sono messe
esplicitamente in opera da lui, secondo il criterio del «migliore». Cfr.
pp. 13 ss., 18 ss. (5) L’intelletto divino Ita come contenuto le verità
di ragione; la sua volontà mette in opera le realtà di
fatto. attributi sono assolutamente infiniti e perfetti; e invece
nelle monadi create o entelechie (o perfectihabies, secondo la traduzione
di questa parola data da Ermolao Bar- baro (1)) essi non sono se non
imitazioni, in ragione della perfezione di ciascuna. 49. ° La
creatina è detta agire verso l’ esterno in quanto essa ha perfezione, e
{Mire da parte di un’altra in quanto è imperfetta. Così si attribuisce
azione alla monade in quanto essa ha percezioni distinte, e passione in
quanto ha percezioni confuse (2). 50. ° E ima creatura è più
perfetta di un'altra, in quanto si trova in essa ciò che serve a render
ragione a priori di ciò che avviene nell'altra; ed appunto per ciò
si dice che l una agisce sull’altra. 51. ° Ma nelle sostanze
semplici non si tratta che di un' influenza ideale di una monade
sull’altra; influenza che non può avere il suo effetto se non per 1"
intervento di Dio, in quanto, nelle idee di Dio, una monade
pretende con ragione che Dio, regolando le altre fin dal principio
delle cose, abbia riguardo ad essa. Infatti, giacché una monade creata
non può avere influenza fisica sull' interno dell'altra, solo per questa
via può verificarsi una dipen- denza dell’ima dall’altra.
f>2.° Per questo appunto, fra le creature, le azioni e passioni
sono reciproche. Infatti Dio, paragonando due sostanze semplici fra loro,
trova in ciascuna ragioni che l’obbligano ad adattarvi l'altra; e quindi
ciò che è attivo per certi riguardi, è passivo da un altro punto di
vista; attivo in quanto ciò che in esso vien conosciuto di- stintamente
serve a render ragione di ciò che accade in un altro; e passivo in quanto
la ragione di ciò che accade (1) Filologo e filosofo italiano
(1454-1403), tradusse in latino vario opere di Aristotele.
(2) Sulle percezioni confuse, efr. p. 92 ss. in esso si trova in
ciò che vien conosciuto distintamente in un altro (1). 53. °
Ora, poiché vi è un' infinità di universi possi- bili nelle idee di Dio,
e invece non ne può esistere che uno solo, bisogna che vi sia una ragione
sufficiente della scelta di Dio, che lo determini a scegliere uno
piuttosto che l’altro. 54. ° E questa ragione non può trovarsi se
non nella convenienza o nel grado di perfezione che questi mondi
contengono; poiché ogni possibile ha diritto di pretendere all'esistenza,
in ragione della perfezione che racchiude. 55. ° E ciò
appunto è la causa dell’esistenza del mondo migliore, che la saggezza fa
conoscere a Dio, la sua bontà gli fa scegliere e la sua potenza gli fa
pro- durre (2). 5(j.° Ora questo legame o adattamento di
tutte le cose create a ciascuna singola, e di ciascuna a tutte le
altre, fa sì che ogni sostanza semplice contenga in sé rapporti
(I) Le monadi, ohe sono senza Maestre (J 7), non possono agile l
una sull’altra. Il contenuto di ciascuna corrisponde a quello di tutte le
altre, in quanto ciascuna è un punto di vista preso sul medesimo
universo. (§§ 50-57), Ciascuna contiene nel suo intimo tutto il proprio
sviluppo; e tutto le viene dal suo intorno, nulla dal di fuori. Solo in
senso improprio c metaforico si può parlare d’influenza di una monade
sull’altra. 11 diverso punto di vista dal quale l’ universo viene
rappresentato, costituisce la particolare individualità di ciascuna
monade; esso viene indicato dalla di- versa sfera delle percezioni
distinte che rappresentano, per così dije, la zona centrale di ogni
monade, mentre le confusene rappresentano la peri- feria. (Cfr. § 60).
Questa varia collocazione reciproca dei centri e delie peri- ferie ò ciò
che permette una differenziazione fra le varie monadi. Ora, se si vuol
chiamare attivo il centro, incili si hanno percezioni distinte, e pas-
siva la periferia che ha solo percezioni confuse (§49), si potrà parlare
anche di una sfera di attività in ciascuna monade, cui corrisponde una
sfera di passività nelle altro; insomma di una certa azione ideale
dcH’una sull’altra. Cfr. p. 93 ss. (2) I mondi possibili,
cioè concepiti dall’ intelletto di Dio secondo i prin- cipi di ragione,
sono influiti. Dio sceglie fra di essi uno, il migliore, cioè il piò
perfetto. È più perfetto quello che, una volta attuato, cioè passato
dalla pura possibilità alla effettiva esistenza, contiene il massimo di
realtà. Ogni possibile, insomma, è tanto più perfetto, a quanta maggior
quantità di esi- stenza può dar luogo. Cfr. pp. 19-24. V. anche S§ 40-42,
46. clic esprimono tutte le altre, e sia per conseguenza uno
specchio vivente perpetuo dell'universo. 57.° E come una medesima
città, guardata da diffe- renti punti, sembra diversa ed è come
moltiplicata in prospettiva, analogamente avviene che, per la
moltepli- cità infinita di sostanze semplici, vi sono come
altrettanti universi differenti, i quali non sono peraltro se non
le prospettive di un universo solo, secondo i differenti punti di
vista di ciascuna monade. ò8.° È questo il modo di ottenere il
massimo di va- rietà possibile, ma con quanto pili ordine si può; cioè
il massimo di perfezione possibile. 59.° Dunque solo questa
ipotesi (che io oso dire dimo- strata) esprime in modo adeguato la
grandezza di Dio. Ciò fu riconosciuto anche dal Bayle, quando, nel suo
Di- zionario (articolo Rorarius), mosse ad essa obiezioni; fu anzi
spinto a credere che io attribuissi troppo a Dio, e più che non sia
possibile. Ma egli non potè addurre alcuna ragione che dimostrasse 1'
impossibilità di questa armonia universale, la quale fa sì che ogni
sostanza esprima esat- tamente tutte le altre per i rapporti che ha con
esse. 00.° Si vedono fi altronde, in ciò che ho esposto, le
ragioni a priori per cui le cose non potrebbero procedere diversamente.
Dio infatti, regolando il tutto, ha avuto riguardo a ciascuna parte, e
particolarmente ad ogni monade; la cui natura essendo rappresentativa,
nulla la può limitare a non rappresentare se non una parte delle
cose; benché sia vero che questa rappresenta- zione non è se non confusa
nel dettaglio di tutto l'uni- verso, e non può essere distinta che per
una piccola parte delle cose, per quelle cioè che sono o più vicine o
pili glandi rispetto ad ogni monade; altrimenti ogni monade sarebbe
una divinità. Non nell’oggetto, ma nella modifi- cazione della conoscenza
dell'oggetto, le monadi sono li mitate. Esse tendono tutte confusamente
all’ infinito, al tutto; ma sono Limitate e differenziate secondo i
gradi delle percezioni distinte (1). tìl.° E i composti in
ciò corrispondono ai semplici. Intatti, siccome tutto è pieno (il che fa
sì che tutta la materia sia concatenata (2)), e siccome nel pieno ogni
mo- vimento opera qualche effetto sopra i corpi distanti in ragione
della distanza, di modo ohe ogni corpo non solo è affetto da quelli che
lo toccano e risente in qualche modo di tutto ciò che accade ad essi, ma
anche per mezzo loro risente di quelli che toccano i primi da cui esso
è toccato immediatamente; ne consegue che questa comu- nicazione va
a qualsiasi distanza. E quindi ogni corpo risente di tutto ciò che
avviene nell' universo; sì che chi avesse la facoltà di veder tutto, potrebbe
leggere in cia- scun corpo ciò che avviene ovunque, ed anche ciò che
è avvenuto e avverrà; osservando nel presente ciò che è lontano,
sia secondo il tempo, sia secondo lo spazio (3) : ffup.7r.oia 7ràvTa (4),
diceva lppocrate. Ma mi' anima non può leggere in sè stessa se non ciò
che vi è rappresen- tato distintamente; essa non saprebbe svolgere in
una sola volta tutte le sue pieghe, perchè esse vanno all' in-
finito. (i2.° Così, quantunque ogni monade creata rappresenti
tutto l'universo, essa rappresenta piii distintamente il corpo che lo si
riferisce particolarmente e di cui essa costituisce l’entelechia: e
siccome tale corpo esprime tutto l'universo a causa della connessione di
tutta la materia nel pieno. (1) Ciascuna monade, in quanto
rappresentativa ili tutto l’universo, è analoga alla divinità. Solo la
minor foiza di questa rappresentazione la rende imperfetta e la
ditTerenzia dalla divinità e dalle altro monadi. In Dio tutto è chiaro e
distinto. Nella monade sono distinte solo le percezioni più vicino al
contro, come si è già visto. (§? 49-52) Cfr. pp. 78, 92 ss. (2)
Leibniz non ammette il vuoto, per il suo principio della continuità
applicato alla materia. Cfr. p. 52 ss. (3) Ecco un’altra formulazione
della concatenazione universale secondo il principio di causalità,
considerato questa volta nel suo aspetto fisico. (4) i Tutto ù
conspirante ». l’anima, nel rappresentare questo corpo clie le appartiene
in maniera particolare, rappresenta insieme tutto runiverso(l).
03.° 11 corpo appartenente ad una monade che ne è l’entelechia o
l’anima, costituisce con l’entelechia ciò che si può chiamare un vivente,
e coll'anima ciò che si può chiamare un animale. Ora questo corpo di un
vivente o di un animale è sempre organico; poiché, essendo ogni
monade a suo modo uno specchio dell’ imiverso, ed essendo l'universo
regolato in un ordine perfetto, bisogna pure che vi sia un ordine nel
rappresentante, cioè a dire nelle per- cezioni dell’ anima, e per
conseguenza nel corpo, secondo il quale l'universo è rappresentato
nell’anima. (>4.° Così il corpo organico di ogni vivente è ima
specie di macchina divina o di automa naturale che supera infi-
nitamente tutti gli automi artificiali. Perchè una macchina fatta
dall’arte dell' uomo non è macchina in ciascuna delle suo parti. Per
esempio, il dente di una ruota di ottone ha parti o frammenti che non
sono più per noi qualche cosa di artificiale e non hanno più nulla con
carattere di macchina riguardo all'uso cui la ruota è destinata. Ma
le macchine della natura, cioè i corpi viventi, sono ancora
macchine nelle loro più piccole parti, all' infinito. Ciò de- termina la
differenza fra la natura e l'arte, cioè fra l’arte divina e la nostra
(2). 65.° E 1 autore della natura ha potuto operare questo
artifìcio divino e infinitamente meraviglioso, perchè ogni porzione di
materia non solo è divisibile all’ infinito, come hanno già riconosciuto
gli antichi, ma è anche suddivisa attualmente senza fine, ogni parte in
parti (3), ognuna (1) « LI corpo - commenta il Boutroux (eil.
eit., p. 178) -, attraverso lo infinite percezioni confuse relative
all’univerBO che esso determina ncl- l’auima, ò il nesso che riunisce
l’anima al resto del mondo, che fa cioè comu- nicare lo anime fra di
loro». C’fr. pp. 35 ss., 78 ss. (2) Cfr. p. 114 ss. (3)
È questa un’altra applicazione del principio di continuità alla ma-
teria. Cfr. p. 52 ss. 10. — Lkiuniz, La monadologia. delle
quali ha qualche movimento proprio; altrimenti sa- rebbe impossibile che
ogni porzione della materia potesse esprimere tutto l’ universo.
66. ° Donde si vede che vi è un mondo di creatine, di viventi, di
animali, di entelechie, di anime anche nella minima particella di
materia. 67. ° Ogni porzione di materia può essere concepita
come un giardino pieno di piante, e come uno stagno pieno di pesci. Ma
ogni ramo della pianta, ogni membro dell' animale, ogni goccia dei suoi
umori, è ancora un giar- dino, uno stagno. 68. ° E quantunque
la terra e l'aria interposta fra le piante del giardino, o l’acqua
interposta fra i pesci dello stagno, non siano punto pianta nè pesce,
esse ne conten- gono tuttavia ancora; ma per lo più di una
piccolezza a noi impercettibile. 69. ° Cosi non vi è nulla di
incolto, di sterile, di morto nell'universo; e non vi è caos nè
confusione se non in ap- parenza; press' a poco come apparirebbe
confusione in uno stagno, ad una distanza dalla quale si vedesse un
movi- mento confuso, un brulichio, per così dire, di pesci, senza
discernere i pesci stessi (1). 70. ° Si vede da ciò che ogni corpo
vivente ha una entelechia dominante che è f anima nell'animale; ma
le membra di questo corpo vivente sono piene di altri viventi,
piante, animali, ciascuno dei quali ha ancora la sua ente- lechia, o la
sua anima dominante. 71. ° Ma non bisogna immaginare, come fece
taluno che aveva male inteso il mio pensiero, che ogni anima abbia
una massa o porzione di materia propria o applicata ad essa per sempre, e
che essa possieda quindi altri vi- venti inferiori, destinati sempre al
suo servizio. Poiché tutti i corpi sono in un flusso perpetuo, come
fiumi; e parti vi entrano e ne escono continuamente. (1)
Ofr. pp. 84 ss., 109 ss., 114 ss. Così l’anima non cambia di corpo
se non a poco a poco, per gradi, di modo che essa non è mai
spogliata ad un tratto di tutti i suoi organi; e vi è spesso
metamor- fosi negli animali, ma non mai metempsicosi nè trasmi-
grazione delle anime; non vi sono neppure anime comple- tamente separate,
nè genii senza corpo. Dio solo è staccato interamente dal corpo.
73. ° Perciò anche non vi è nè generazione assoluta, nè morte
perfetta, intesa rigorosamente, come separazione dall’anima. E ciò che
noi chiamiamo generazione , è sviluppo e accrescimento; come ciò che noi
chiamiamo morte, è involuzione o diminuzione (1). 74. ° I
filosofi sono stati molto imbarazzati sull’origine delle forme,
entelechie, o anime; ma oggi che ci si è ac- corti, per mezzo di ricerche
esatte sulle piante, sugli in- setti e sugli animali, che i corpi
organici della natura non sono mai prodotti da caos o da putrefazione, ma
sem- pre dai semi nei quali vi ora senza dubbio qualche pre-
formazione, si è ritenuto che, prima della concezione, vi fosse già non
solo il corpo organico, ma anche un’anima in questo corpo, insomma
l'animale stesso; e che per mezzo della concezione questo animale sia
stato solamente di- sposto ad una grande trasformazione per divenire un
ani- male di un'altra specie. Si vede pure qualche cosa di si- mile
fuori del campo della generazione; come quando i vermi divengono mosche e
i bruchi farfalle (2). (1) La menade, elio ò assolutamente
immateriale (§3), non è però priva di un suo aspetto di materialità. La
materialità viene definita da Leibniz in vari modi: come percezione
confusa (cfr. p. 91 ss.); come aggregato (ofr. p. 109 ss.). Sempre però
come un modo di essere della monade, un suo particolare « fenomeno ».
Posto ciò, e dato che la monade è eterna e indi- struttibile (§§ 4-6) non
si può a rigore parlare di morte neppure nella materia; si potrà parlare
solo di aggregazione e di disgregazione, di passaggio do uno stato
all’altro (cfr. p. 99, s.; v. anche §§ 70-77). Cosi non si può parlare di
una materia clic sia pura materia, separata da un’anima che sia pura
anima. Cfr. § 14. (2) Le teorie biologiche del suo tempo servono
qui a Leibniz come so- stegno e conferma delle sue concezioni
metafisiche. 10". — Leibniz, La monadologia. Gli
animali dei quali alcuni sono elevati al grado di animali più grandi per
mezzo della concezione, possono essere chiamati spermatici-, ma quelli
fra di essi che ri- mangono nella loro specie, cioè la maggior parte,
nascono, si moltiplicano, e vengono distrutti come i grandi animali,
e non vi e che un piccolo numero di eletti che passi ad un teatro
più vasto (1). 76. ° Ma questo non era che la metà della verità;
ho dunque ritenuto che se 1 animale non ha mai inizio natu-
ralmente, non avrà neppure fine naturale, e che non solo non vi sarà
generazione, ma neppure distruzione intera, nè morte rigorosamente
intesa. E questi ragionamenti fatti a posteriori e tratti dalle
esperienze si accordano perfet- tamente coi miei principi dedotti a
priori qui sopra. 77. ° Così si può dire che non solamente l'anima
(spec- chio di un universo indistruttibile) è indistruttibile, ma
che lo e anche 1 animale stesso, benché la sua macchina perisca spesso in
parte, e lasci o prenda spoglie organiche. 78. ° Questi principi mi
hanno dato modo di spiegare naturalmente l’ unione o conformità
dell'anima e del corpo organico. L' anima segue le sue proprie leggi, ed
il corpo le sue; ed essi si incontrano in virtù dell'armonia
presta- bilita fra tutte le sostanze, poiché le sostanze sono tutte
rappresentazioni di un medesimo imiverso (2). 79. ° Le anime
agiscono secondo le leggi delle cause finali, per appetizioni, fini e
mezzi. 1 corpi agiscono se- condo le leggi delle cause efficienti o dei
movimenti. E i due regni, quello delle cause efficienti e quello delle
cause finali, sono armonici fra di loro (3). 80. ° Cartesio
ha riconosciuto che le anime non possono attribuire forza ai corpi,
perchè vi è sempre la medesima (1) Questa teoria ha il suo
corrispondente nella dottrina della gerarchia delle monadi (jjij 24-30),
secondo cui solo alcune di esse possono elevarsi agli stadi superiori di
animale o spirito ragionevole. Cfr. $ 82. (2) Cfr. pp. 89 ss., 119
ss. (3) Sui rapporti fra le cause efficienti e le finali, cfr. la
nota a] j; 3fi.quantità di forza nella materia. Pur tuttavia egli lia
cre- duto che l’anima potesse cambiare la direzione dei corpi. Ma
egli credeva ciò, perchè ai suoi tempi non si conosceva la legge naturale
che stabilisce anche la conservazione della medesima direzione totale
nella materia: se egli avesse notato questa legge, sarebbe giunto al mio
sistema del- l’armonia prestabilita (1). 81. ° Tale sistema
stabilisce che i corpi agiscono come se (ipotesi assurda) non vi fossero
anime; che le anime agiscono come se non vi fossero corpi; e che
entrambi agiscono come se l’uno influisse sull’altro. Quanto agli
sjnriti,o anime ragionevoli, benché io ritenga, come ho detto or ora, che
tutti i viventi e animali siano in fondo conformati ugualmente (cioè che
l’animale e l'anima comincino col mondo e non finiscano se non col
mondo stesso), vi è però di particolare negli animali ragionevoli, il
fatto che i loro piccoli animali spermatici, fino a che non sono che
tali, hanno soltanto anime cornimi o sensitive: ma appena quelli che sono
eletti, per così dire, pervengono per ima effettiva concezione alla
natura umana, le loro anime sensitive vengono elevate al grado della
ra- gione e alla prerogativa degli spiriti. 83. ° Tra le
differenze che intercedono fra le anime comuni e gli spiriti, e di cui
già ne ho notato alcune, vi è anche questa: che le anime sono in generale
specchi Questo leggo tisica, secondo cui si oonserva anche la
direzione totale (o quantità di progrosso) - cioè a qualsiasi cambiamento
di direzione, in un si- stema chiuso, deve corrispondere un altro
cambiamento di direzione eguale o contrario-, contribuisce a fare del
mondo meccanico un sistema a sè, chiuso a qualsiasi influenza elio
provenga dall’esterno, por esempio dnll’aninia. Car- tesio credeva alla
oonsorvazione della quantità di movimento (cui Leibniz sostituisce la
conservazione della forza viva); ma non conosceva la conservaziono della
direzione totale. Egli pensava cioè che l'anima potesse mu- tare la dirozionedi
un movimento, lasciando invariato il sistema. Una tale influenza
dell’anima è impossibile, posta la legge di Leibniz. Anima e corpo
rimangono due sistemi separati, privi di influenze reciproche, cosi come
lo sono le monadi fra di loro. E il loro accordo dovrà essere stabilito
attraverso l’armonia prestabilita. Sulle leggi tìsiche leibniziane, cfr.
pp. 62 ss., 65 ss. viventi o immagini dell'universo delle creatine; ma che
gli spiriti sono anche immagini della divinità stessa, o dell’autore
stesso della natura; capaci di conoscere il sistema dell universo e di
imitarne alcunché, per mezzo di saggi architettonici; essendo ogni
spirito come una piccola di- vinità nel suo ambito. 84. °
Appunto questo fa sì che gli spiriti siano capaci ili entrare in una
specie di società con Dio, e che egli sia rispetto a loro non solo quello
che un inventore è per la sua macchina (ciò che Dio è rispetto alle altre
creature), ma altresì quel che mi principe è per i suoi sudditi, ed
anzi un padre per i suoi figli. Donde è facile concludere che l’insieme di
tutti gli spiriti deve compone la città di Dio, cioè il più per-
fetto stato possibile sotto il più perfetto dei monarchi. 86. °
Questa città di Dio, questa monarchia veramente universale, è un mondo
morale nel mondo naturale, è ciò che vi è di più di elevato e di più
divino nelle opere di Dio. E proprio in essa consiste la gloria di Dio;
poiché non vi sarebbe gloria, se la sua grandezza e la sua bontà
non fossero conosciute ed ammirate dagli spiriti; e anche solo in
rapporto a questa città divina egli è propriamente fornito di bontà,
laddove la sua saggezza e la sua potenza si mostrano ovunque. Come
abbiamo stabi lito pili sopra una perfetta armonia fra due regni
naturali, l’uno delle cause efficienti, 1 altro delle finali, dobbiamo
notare qui anche un’altra armonia fra il regno fisico della natura e il
regno morale della grazia, cioè fra Dio considerato come architetto
della macchina dell universo, e Dio considerato come monarca della
città divina degli spiriti. Tale armonia fa sì che le coso conducano
alla grazia per le vie medesime della natura, e che questo globo,
per esempio, debba essere distrutto e riparato per vie naturali, nel
momento in cui il governo degli spiriti lo richieda, per il castigo degli
uni e la ricompensa degli altri. Si può dire ancora che Dio, in
quanto architetto, soddisfa in tutto a Dio in quanto legislatore; e che
così i peccati devono portare con sè la propria pena per ordine di
natura e hi virtù anche della strattura meccanica delle cose; e che
analogamente le belle azioni debbono attirare a sè la propria ricompensa
por vie meccaniche rispetto ai corpi; benché ciò non possa e non debba
avvenire sempre immediatamente. Insomma, sotto questo governo perfetto,
non vi sarebbe azione buona senza ricompensa, nè cattiva senza
castigo; e tutto deve risolversi nel bene dei buoni, cioè di coloro che
non sono malcontenti in questo grande stato, che si fidano della
Provvidenza dopo aver fatto il loro dovere, e che amano e imitano come si
conviene l’Autore di ogni bene, compiacendosi nella considerazione delle
sue perfezioni, secondo la natura del vero puro amore veritiero, che fa
prendere piacere alla felicità di colui che si ama. E ciò fa sì che le
persone sagge e virtuose lavorino a tutto ciò che sembra conforme alla
volontà divina pre- suntiva o antecedente, e si contentino, d'altra
parte, di ciò che Dio fa accadere effettivamente per mezzo della sua
volontà segreta, conseguente e decisiva; riconoscendo che, se noi
potessimo intendere a sufficienza bordine del- l'universo, troveremmo che
esso supera tutti i desideri dei piii saggi, e che è impossibile renderlo
migliore di quello che è, non solo quanto al tutto in generale, ma
anche La volontà presuntiva o antecedente rappresenta ciò che
deriva dalla natura stessa di Dio, ohe ò connaturato con la sua essenza;
la vo- lontà conseguente e decisiva rappresenta l’atto effettivo con cui
Dio ha messo in opera la realtà di fatto: atto non necessario, quindi non
prevedibile, « segreto ». Questa distinzione richiama quella fra le verità di
ra- gione, necessarie, e le verità di fatto, contingenti. Cfr. pp. 6 ss.,
10 ss. quanto a noi stessi in particolare, perchè ci teniamo
le- gati, come è giusto, all'autore del tutto, non solamente come
all architetto e alla causa efficiente del nostro essere, ma anche come
al nostro signore e alla causa tinaie che deve costituire tutto lo scopo
della nostra volontà, e solo può procurarci la felicità. E qui accennato
al concetto fondamentale della Teodicea, secondo cui tutto oiò che apparo
come malo cessa di essere tale, quando venga con- siderato in connessione
con l'arinonia del tutto, nella quale anche i lati oscuri hanno una loro
funziono, e le ombreggiature contribuiscono alla per- fezione del quadro.
Cfr. p. 4(5 ss. Eugenio Colorni. Colorni. Parole chiave: diadologia, il
concetto dell’individuo, l’idealismo filosofico como malatia, indice alla
malatia metafisica, scritti filosofici curati da Bobbio, scienza unificata,
ebreo-italiano, ebreo-britannico Ayer, circolo di Vienna, Reichenbach, Hilbert,
Eddington. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colorni” – The Swimming-Pool
Library. Colorni.
Grice e Conte: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del sacrificio – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pavia). Filosofo. Grice: “Must say I love Conte – he has almost the same talent for linguistic
coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more respectable a
discipline that it is at Oxford! But Conte managed to keep it philosophically
interesting for the philosopher’s philosopher that I am!” “Conte proves that
moral philosophy is at the heart of philosopohy qua-uni-virtue – for the
critique of reason must include the buletic – and that’s all that Conte
dedicates his philosophy too! Into the bargain, he expands into concepts like
sacrifice, punishment, ‘fiducia’ (my principle of conversational trust), and so
much more!” “He plays with language the way only Heidegger did in German and I
in English!” Grice: “Conte is what I – and Italians – would call a ‘Griceian
conversationali pragmaticist.’” Studia a
Pavia e Padova. Si laurea a Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna a
Pavia. Si occupa della semiotica del performativo deontico o buletico, la
regola eidetico-costitutive, validità buletica – desirabilita -- deontica, modo
imperativo, prammatica conversazionale – alla Grice. In che cosa consiste
quell’’impero’, dal quale il modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazione
analogica. Pavia, Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli).
Primi argomenti per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro,
Ricerca d'un paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sul
linguaggio normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio
normativo. I. Studi; Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo.
II. Studi; Con una nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine.
Studi Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi,
Torino, Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche di
Filosofia del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli,
Editoriale Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino, Giappichelli);
“Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore del genere da lui
chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosi eidogrammi, solo
parzialmente éditi: Nella parola.
Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Per una critica
della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia del linguaggio
normativo). Pragmatica. Filosofia del diritto Logica deontica Ontologia Performativo
(atto verbale) Pragmatica Semiotica Semantica.To undertake to set forth with
any definiteness the ‘religious’ – or eschatological -- ideas of ''a
Roman philosopher'' – FILOSOFO ROMANO -- would be an extremely difficult
task.Those, ideas would differ with the individual and the sect, being
determined or varied by a number of considerations and influences — by
locality, education, and temperament. SILIO would not hold the
views of SEIO. We may speak of the state religion – colto officiale -- of ROMA,
as distinct from various other ‘religions’ tolerated and practised
in different parts, but it is scarcely possible to define the contents of
that ‘state religion’ – il SACERDOCIO. There are certain special
priests and priestly bodies who see to it that certain rites and
ceremonies are performed scrupulously in a prescribed manner and on prescribed
dates. But these are officers of the state – LO STATO ROMANO -- whose
knowledge and functions are confined to the ritual observances with
which they have to deal. They are not persons trained in a system of ‘theology’,
nor are they preachers of a code of doctrines or morals. They have no
"cure of souls," and belong to no church. They have no credo
and no Bible or corresponding authority to which to refer. Though most
well-informed persons will know the prominent deities in the
calendar — such as IOVE or MARTE, or QUIRINO -- perhaps scarcely any one but an
encyclopaedist or antiquarian could have named one-half of the total. It
is not merely that the deities on the list are so numerous. There are
other reasons for ignorance or vagueness. In the first place, the
line between the operations of one deity and those of another is often
too fine to draw, and deities originally more or less distinct come to be
confused or identified. Secondly, it is often hard, if not impossible,
to make up one's mind whether a so-called deity — such as SPES — is
supposed to have a real existence, or whether it is simply the
personification of an abstract quality. Thirdly, divinities fall out of
fashion, and to a large extent out of memory, while new ones come, or
were coming, into vogue. The state possesses its old-established
calendar of days sacred to a number of deities, and its code of ritual to
be performed in their honour. There are ancient prescriptions as to what
certain priests should wear, what they should do or avoid in their
priestly character, what victims — ox, sheep, or pig — they should
sacrifice, what instruments they should use for the purpose, and in what
formula of words they should pray in particular connections. There is
a standing commission, with the PONTIFICE MASSIMO at this date that
excellent religious authority, the emperor — at its head, to safeguard the
state religion, to see that its requirements are carried out, and
that no one ventures to commit an outrage towards it. But the state will
not tell you with any precision that you must believe in just so
many deities and no others. It would not tell you precisely what notions
to entertain concerning those deities whom it does officially recognise.
The state dictates no theological doctrine; neither does it dictate
any moral doctrine beyond those which you would find in the secular law.
It reserves the right to prevent the introduction of a foreign divinity
if it finds sufficient cause; but so long as the temples, the rites and
ceremonies, the cardinal moral axioms of the Roman ''religion,'' and the
basic principles of Roman society are respected, the state practises
no sort of inquisition into your beliefs or non-beliefs, and in no way
interferes with your particular selection of favourite deities. Poly-theism
in an advanced commimity is always tolerant, because it is necessarily
always indefinite. What it does not readily endure is an organised
attack upon the entire system, whether openly avowed or manifestly
implied. Even undisguised unbelief in any deity at all it is often
willing to tolerate, so long as the unbelief is rather A MATTER OF
PHILOSOPHICAL DIALECTICS than anything else, and makes no attempt at a
crusade. When a state so disposed is found to interfere with a
novel religion, it will generally be easy to perceive that the jealousy
is not on behalf of the deities nor of a creed, but on behalf of the
community in its political, economic, or social aspect. Let us endeavour
to realise as best we can the religious situation among the Roman
population. Though we are not here directly concerned with the
steps by which the Roman religion had come to be what it was, we can
scarcely hope to understand the position without some comprehension of
that development. The Romans are a CONSERVATIVE people, and many of the
peculiarities of their worship are due to the retention of old forms
which had lost such spirit as they once possessed. In the infant
days of the nation there had been no such things as gods in human shape,
or in recognisable shape at all. There were only ''powers" or
"influences'' superior to mankind, by whose aid or concurrence man must
work out his existence. The early Romans and such Italian tribes - as
they became blended with were, as they still are, EXTREMELEY
SUPERSTITIOUS. In a pre-scientific age they, like other peoples, are at a
loss to understand what produces a thunder or a lightning, rain, the
fertility or failure of crops, the changes of the seasons, the flow or
cessation of springs and streams, the intoxication or exhilaration
proceeding from wine, and a multitude of other phenomena. Fire is a
perplexing thing; so is wind. The woods are full of mysterious sounds
and movements. They could comprehend neither birth nor death, nor
the fructification of plants. The consequence is a feeling that these
things are due to some unseen agency; and the attempt is made to
bring those powers into some sort of relation with mankind, either by the
compulsion of magical operations and magical formulae, or by sacrifices and
offerings of propitiation, or by promises. A superhuman power might be
placed under a spell, or placated with food and drink, or persuaded by a
vow. Such "powers" were exceedingly numerous. Greatest of
all, and recognised equally by all, was the power working in the sky with
the thunder and the rain. Its presence was everywhere alike, and its
bperations most palpable at every season. Countless others were
concerned with particular localities or with particular functions. Every
wood, if not every tree, and also every fountain, was controlled by some
such higher ''power''; every manifestation or operation of nature
came from such an 'influence.'' There was no kind of action or undertaking,
no new stage of life or change of condition, which did not depend for
help or hin- drance upon a similar power. At first "the
''powers" bore no distinctive names, and were conceived in no
definite shapes. They were not yet gods. The human being who sought to
work upon them to favour him could only do, say, and offer such
things as he thought likely to move them. But in process of time it
became inevitable that these superhuman agencies should be referred to
under some sort of title, and the title literally expressed the
conception. Hence a multitude of names. Not only was there the
ever-prominent Jupiter or sky-father " ; there was a veritable
multitude^ of powers with provinces great and small. Among the larger conceptions
the power concerned with the sowing of seed was Saturn, that with
the growth of crops was Ceres, that with the blazing of fire was Vesta.
Among the smaller, the power which taught a babe to eat was Edulia,
that which attended the bringing home of a bride was Domiduca. The
ability to speak or to walk was supposed to be imparted by separate
agencies named accordingly. Flowers depended on Flora and fruits on
Pomona. But to assign a name is a great step towards creating
a ''power'' into a ''god,'' and such agencies began to take shape in the
mind of those who named them. This was the second stage. Jupiter,
Ceres, Satmn, and almost all the rest became "gods." The
powers in the woodlands — a Silvanus or Faunus — became embodied, like
the more modem gnomes and kobbolds. Once imagine a shape, and the
tendency is to give it visible form in an image "like unto
man,*' and to honour it with an abode — a temple or shrine. The
earliest Romans known to us erected no images or temples, but they were
not long in creating them. Particularly rapid was the reducing of a god
to human form when they came into close contact with the Etruscans
and the Greeks. For all the important deities poetry and art combined to
evolve an appropriate bodily form, which gradually became conventional,
so that the ordinary notion of a Jupiter, a Juno, a Mercury, or a Ceres
was approximately that which had been gathered from the statue thus
developed. This trouble was not taken with all the most ancient divinities.
Many of the old rural and local deities, and many of those with quite
minor provinces, were left vague and unrealised. They were
represented in no temples and by no statues. Natiu'ally as the Roman state grew
from a set of neighbouring farms into a great city, and from a small
settlement into a vast empire, the little local gods fell into the
background. The deities which concerned the state, and to which it
erected temples, were those with the more far-reaching operations — such
as the gods identified with the sky and its thunders, with war, with
fertility, with the sea, with the hearth-fire of all Rome. The rest might
well be left to localities or to domestic worship. From the
early days of Rome there existed a calendar for festivals to certain
divinities important to the little growing town, and a code of
ceremonies to be performed in their honour, and of formulae of
prayer to be offered to them. The later Romans, in their characteristic
conservatism, adhered to those festivals, to that ritual, and to those
formulae, even when some of the deities had ceased to be of
appreci- able account, and when neither the meaning of the ritual
nor the sense of the old words was any longer imderstood by the very
priests who used them. Reflect a moment on this situation. First,
we have a number of deities of the first rank, housed in temples,
embodied in statues, and recognised in all the Roman world; next a number
of minor divinities whose operations and worship may be remotely
rural or otherwise local, and whose functions are by no means
always distinguishable from those of the greater gods; then a series of
more or less un- intelligible ceremonials carried out by ancient
rule in honoiu" of divinities often practically forgotten ;
outside these a number of vague powers presiding over small domestic and
other actions; finally, a peculiar Roman tendency — in keeping with the
last — to erect into divinities, and to symbolise in statues housed
in temples, all manner of abstract qualities and states, such as Hope,
Harmony, Peace, Wealth, Health, Fame, and Youth. Reflect agam
that, when the Romans, as they spread, came into contact with Greeks,
Egyptians, or other foreigners, they met with deities whose provinces
were necessarily often identical with or closely akin Fio.
110. — A Sacrifice. to their own. Then remember that there
is no church and no official document to define the complete list
of Roman gods. Does it not follow, as a matter of course, on the one
hand, that the importation of new gods was an easy matter, and on the
other, that no individual Roman could draw the line as to the
number of even the old-established deities in whom he should or should
not believe? The guardians of the public reUgion were satisfied if
the due rites were paid by the state to those deities, on those. dates,
and precisely in that manner, which happened to be prescribed in the
official religious books. For the rest they left matters to the
individual. So much it has been necessary to say in order to
account for existing attitudes. We must use the plural, since the
attitude of the state officials is but one of several, and, inasmuch as
the state officials themselves were not a theological caste but
only secular servants of the community administering the
regulations for external worship as laid down in the records, it often
happened that their official attitude had nothing to do with their
individual beliefs. Often they did not know or care whether there
was a real religious efficacy in the acts which they performed ;
sometimes all that they knew was that they were doing what the state
required to be done properly by some one. Cicero quotes a
dictum of a Pontifex Maximus that there was one religion of the poet,
another of the philosopher, and another of the statesman. This is
true, but it is hardly adequate. We must at least add that of the common
people. A well-known statement of more modern birth puts the case —
rather too strongly — that at our period all religions were
regarded by the people as equally true, by the phi- losopher as equally
false and by the statesman as equally useful. We may begin with the
ordinary people of whatever station, who were not poets nor thinkers
nor magistrates. It is an error to suppose that such Romans of the first
eentiu'y were either atheistic or indifferent to religion. Their
fault was rather that they were too superstitious, ready to believe
too much rather than too Uttle, but to beUeve without relating their
beUef to conduct. They did not question the existence of the traditional
gods, nor the characters attributed to them; they were ready to
perform their dues of worship and to make their due offerings, but all
this had no bearing upon their own morality. They believed with the
terror of the superstitious in omens and portents, and in rites of
expiation and purification to avert the threatened evil. They were
alarmed by thunder and lightning, earthquakes, bad dreams, ravens seen
on the wrong side of the road, and other evil tokens. They commonly
accepted the existence of maUgn spirits, including ghosts. They were
prepared to believe that on occasion a statue had bled or turned
round on its base; that an ox had spoken in human language; or that there
had been a rain of blood. There were doubtless exceptions, and
super- stition was less dire and oppressive than once it was. More
than fifty years before our date Cicero had said that even old women no
longer shuddered at the terrors of an underworld, and fifty years
after it the satirist asserts the same of children. But both writers are
speaking somewhat hyper- bolically. Doubtless it had been wondered
how two augurs could look at each other without a smile, but there
is nothing to show that even a minority of augurs were acutely conscious
of any- thing to smile at. In the multiplicity of deities the
ordinary people were prepared to accept as many more as you chose
to offer them, especially if the worship attaching to them contained mystic
or orgiastic ceremonies. By this date the populace had become exceedingly
mixed, especially in the capital, and the cool hard-headed Roman
stock had been largely replaced or leavened by foreign elements,
especially from the East. The official worship of the state was formal
and frigid ; it offered nothing to the emotions or the hopes. Many
among the people felt an instinct for something more sacramental, and
especially attractive was any form of worship which promised a continued
existence, and probably a happier existence, after death. Even the
mere mysteriousness of a form of worship had its allurements. Hence a
tendency to Judaism, still more to the Egyptian worship of Isis and
Osiris. The latter made many proselytes, particularly among the
women, and contained ideas which are by no means ignoble but to our
modern minds far more truly ''religious'' than anything to be found in
the native Roman cults. To pass through purification, to practise
asceticism, to feel that there was a life beyond the grave apportioned to
your deserts, to go through an impressive form of worship held
every day, and to have the emotion^-thus worked upon — all this
supplied something to the moral nature which was lacking in the chill
sacrifices and prayers to Jupiter and the other national divinities. In
vain had the authorities, in their doubt as to the moral effects, tried
on several occasions to suppress this foreign worship; it always revived,
and it now held its established place both in the imperial city and
in the provinces, particularly near the sea, for it was especially a
sailors' religion. Rome, like Pompeii, had its temple of Isis and her
daily celebrations. There was, however, no necessary conflict
between this worship and the oflScial religion. It was quite
possible to accept Isis while accepting Jupiter. Nor, though this particular
cult has required mention, must it be taken as belonging to more than a
section of the Roman population. Most Romans would look upon it and
other deviations with acquiescence, some with contempt, and perhaps some
with a shake of the head, while themselves satisfied with an
indifferent conformity to the more estabUshed customs of the
state. Setting aside the devotees of the mystic, the more
ordinary point of view was that between Romans and the established gods
of Rome there is an understanding. The gods will support Rome so long as
Rome pays to them their dues of formal recognition. Their ritual
must not be neglected by the authorities; it is not necessary for an individual
member of the community to concern himself further in the matter.
The state, through its appointed ministers, will make the necessary
sacrifices and say the necessary words; the citizen need not put in an
appearance or take any part. He will not do or say anything dis-
respectful towards the deities in question, and he will enjoy the
festivals belonging to them. If remarkable portents and disasters occur,
he will agree that there is something wrong in the behavioiu* of the
state, and that there must be some public purification or other
placation of the gods. If the state orders such a proceeding, he will
perform whatever may be his share in it. So far he is loyal to the
''religion of the state.'' In his private capacity he has his
own wants, fears, and hopes. He therefore betakes himself
to whatever divinity he considers most likely to help him; he makes
his own prayers and vows an offering if his request is granted. Reduced to
plain commercial language his ordinary attitude is — no success, no
payment. A cardinal difference between the religion of the Romans and our
own is to be seen in the nature of their prayers. They always ask for
some definite advantage — prosperity, safety, health, or the like.
They never pray for a clean heart or for some moral improvement. Of more
importance than the man's moral condition will be his scrupulous
observance of the right external practices. Unlike the Greek, he
will cover his head when he prays. He will raise his hand to his lips before
the statue, or, if he is appealing to the celestial deities, he will
stretch his palms upwards above his head ; if to the infernal
powers, he will hold them downwards. These are the things that
matter. At home, if he belongs to the better type of
representative citizen, our Roman has his household shrine and his
household divinities, whom he never neglects. If he is very pious, he may
pray to them every morning, or at least before every enterprise. In
any case he will remember them with a small offering when he dines. There
are the ''gods of the stores" — his ''penates'' — certain deities
whom he has selected as guardians of his belongings, and who have
their little images by the hearth in the kitchen. There is the household
''protector," or more commonly there are two, who may be
painted under the form of Ughtly-stepping youths in a little niche
or shrine above a small altar. To these he will offer fruits, flowers,
incense, and cakes. And there is the ''Genius'' of the master of the
house, who is also painted on the wall, or who may be represented by his
own portrait bust or by the pictxu-e of a snake. That "Genius"
means the power presiding over his vitality and health and well-
being. If he is an artisan and belongs to a guild, he will pay special
worship to the patron god or goddess of that, guild — to Vesta, if he is
a baker, to Minerva, if he is a fuller. Out of doors he will find a
street shrine in the wall at a crossing, pertaining to the tutelary
god of what may be called his ''parish,'' and this he will not neglect.
Like all other orthodox Romans he will not undertake any new enterprise
— betrothal, marriage, journey, or important business — without
ascertaining that the auspices are favourable. In a general way he
has a notion that the gods are displeased at certain forms of crime, and
that they approve of justice and the carrying out of compacts. The
gods overlook the state, because the state engages them so to do, and
therefore to break the laws of the state is to anger the gods of the
state. But this is rather subtle for the common man, and there is
generally no understood immediate relation between these gods and his
moral conduct, unless he has sworn an oath by one or other of them. The
purpose of calling a god to witness is to bring upon a perjurer the
anger of the offended deity. But he entertains no such conception as the
modem one of "sin" or of "remorse for sin." "Sin"
is either a breach of the secular law or breach of a contract with a deity,
and ''remorse'' is but fear of or regret for the consequences.
His morality is determined by the laws of the state, family
discipUne, and social custom. For that reason his vices on the positive
side will mostly be those of his appetites, and on the negative side a
want of charity and compassion. He may be guiltless of lying and
stealing, murder and violence; he may be honest and law-abiding ; but
there .is nothing to make him temperate, continent, or gentle. His avowed
code is ''duty,'' and duty is defined by law and tradition.
If this is the religious condition of the conunon- place man or
woman — a blend of superstition, formalism, and tolerance — it is by no
means that of the educated thinker. Such persons were for the most
part freethinkers. Many of them, finding no better guide to conduct,
conform to the "religion" of the state without any real belief
in its gods or attaching any importance to its ceremonies. They do
not feel called upon to propagate any other views, and they probably
think the current notions are at least as good fqr the ignorant as any
others. If they are poets, like Horace or Lucan, they will dress up
the mythology, mostly from Greek models, and write fluently about Jupiter
and Juno, Venus and Mercury, either attributing to them the recognised
characters and legends, or varying them so as to make them more
picturesque and interesting — perhaps even im- proving them — but all the
time believing no more in the stories they are telling^ or in the deities
them- selves,* than Tennyson need have beUeved in King Arthur and
Guinevere. The gods are good poetic material and are sure to afford
popular, or at least in- offensive, reading. The poets doubtless do
something to hiunanise and beautify the popular conception of a
deity, but they seldom deUberately set out with any such purpose. If the
educated are not poets, but pubUc men of affairs, they may beUeve just as
Uttle, and yet regard the established cult of the gods as an
excellent discipline for the vulgar and the best known means of upholding
the national principle of ''duty.'' If they are philosophers they may
not, and the Epicureans in reality do not, beUeve in the gods at
all — certainly not as they are generally conceived — and will
openly discuss in speech and in writing the ques- tion of their existence
or non-existence, and of their character and nature if they do exist.
They will endeavour to substitute for the barren formalism of rites
and ceremonies, or the inconsistent or incomplete traditional morality of
duty, another set of principles as a sounder guide to life and conduct.
Some are monotheists, some are simply in doubt. Says Nero's own
tutor, Seneca, ''Do you want to propitiate the gods? Then be good. The
true worshipper of the gods is he who acts like them."
"Better," remarks Plutarch, "not believe in a God at all
than cringe before a god who is worse than the worst of men."
In the actual worship of images none of them believe. One conspicuous
writer of the time says : "To look for a form and shape to a god, I
consider to be a mark of human feebleness of mind." Concerning the
schools of thought and in particular the tenets of those Stoics and
Epicureans whom St. Paul met at Athens, and whom he could meet in
educated circles all over the Roman Empire, we shall have to speak in a
following chapter, when sununing up the intellectual and moral
condition of the time. Meanwhile it should be under- stood that, though a
profound or anything approach- ing a professional study of philosophy was
discouraged among the true Romans — more than once the profes-
sional philosophers were banished from the capital — there were few
cultivated persons who did not to some extent dabble in it, and even go so
far as to profess an adherence to one school or another. None of
these men believed in the "Roman religion" as administered by
the state, although many of them were administering it themselves. The
same man could one day freely discuss the gods in con- versation or
a treatise, and the next he might be clad in priestly garb and officially
seeing that the rites of sacrifice were being religiously carried out
in terms of the books, or that the auspices were being properly
taken. It does not, however, follow at all that because poet
or public man cared nothing for the pantheon and all its mythology, he
was therefore without his superstitions. He might still tremble at signs
and portents, at comets, at dreams, and at the un- propitious
behaviom* of birds and beasts. He might believe in astrology and resort
to its professors, called the ''Chaldaeans." On the other hand he
might laugh at such things. It was all a
matter of tempera- ment. It certainly was not every man who dared
to act like one of the Roman admirals. When it was reported that
the omens were unpropitious to an inuninent battle because the sacred
chickens ''would not eat," he ordered them to be thrown into the sea
so that at least they might drink. The freethinkers were in advance of
their times. "Science" in the modern sense hardly existed, and
until phenomena are explained it is hard to avoid a perplexity or
astonishment which is equivalent to superstition. Consider
now these various states of mind — that of the people, ready to add
almost any deity to the large and vague number aheady recognised ; that
of the poet, who finds the deities such useful literary material ;
that of the magistrate or public man, who, without enthusiasm or
necessary belief, regards reUgion as a thing useful to society; and
that of the philosopher, who thinks all the current re- Ugious
conceptions unsound, if not absurd, and morally almost useless.
Manifestly a society so composed will be one of unusual tolerance.
The Romans had no disposition to force their religion on the subject
provinces of the empire. Their religion was the Roman religion; the
rehgion of the Greeks might be left Greek, the Jewish religion Jewish,
and the Egyptian religion Egyptian. Any nation had a right to the
religion of its fathers. Nay, the Jews had such peculiar notions about
a Sabbath day and other matters that a Jew was exempted from the
military service which would have compelled him to break his national
laws. All religions were permitted, so long as they were national
religions. Also all religious views were permitted to the individual, so
long as they were not considered dangerous to the empire or imperial
rule, or so long as they threatened no appreciable harm to the
social order. If a Jew came to Rome and practised Judaism, well and
good. It was, in the eyes of the Romans, a narrow-minded and uncharitable
religion, marked by many strange and absurd practices and
superstitions, but if a misguided oriental people liked to indulge in
it, well and good. Even if a Roman became a proselyte to Judaism, well
and good, so long as he did not flout the official reUgion of his own
country. If the Egyptians chose to worship cats, ibises, and
crocodiles, that was theii^ affair, so long as they let other people alone.
In Gaul, it is true, the emperor Claudius, predecessor of Nero, had put
down the Druids. Earlier still the Druids had already been
interfered with ; but that was because the Druids — those weird old
white-sheeted men with their long beards and strange magic — were
performing human sacrifices — burning men alive in wicker frames — and
such conduct was not pnly contrary to the secular law of Rome, but
even to natural law. And when Claudius finally suppressed them, or drove
the remnant out of Gaul into Britain, it was not simply because
they worshipped non-Roman gods and performed non- Roman rites, but
because they were, as they had always notoriously been, a dangerous
political influence interfering with the proper canying out of the Roman
government. And when we come to Christianity it must be
remarked that, so long as that nascent religion was regarded as merely a
variety of Judaism, it was actu- ally protected by the Roman power, and
owes no little of its original progress to the fact. In the Acts of
the Apostles it is always from the Roman governor that St. Paul receives,
not only the fairest, but the most courteous treatment. It is the
Jews who persecute him and work up difficulties against him, because
to them he is a renegade and is weaning away their people. To the
philosophers at Athens he appears as the preacher of a new philosophy,
and they think him a "smatterer" in such subjects. To the
Roman he is a man charged by a certain com- munity with being dangerous
to social order, to wit, causing factious disturbances and profaning
the temple; and since he refuses to let the local author- ities
judge his case, and has exercised his citizen privilege by appealing to
Caesar, to Caesar he is sent. And, when a prisoner in somewhat free
custody at Rome, note that he is permitted to speak ''with all freedom,''
and that in the first instance he is acquitted. True, but the
fact remains that Nero bimit Christians in his gardens after the great
fire of Rome, and that certain later emperors are found punishing
Christians merely for avowing themselves such. Why was Christianity thus
singled out? It was not through what can be reasonably called
''religious intolerance/' for, as has been said, the Romans did not
seek to force Roman religion on other peoples, nor did they make any
inquisition into the beUefs of Romans themselves. The reasons for
singling out Christianity for special treatment are obvious enough.
The question is not whether the reasons were sound, whether the Romans
properly understood or tried to understand, whether they could be as wise
before the event as we are after it, but whether the motive was
what we should call a religious" one. To allow Epicureans to deny
the existence of gods at all, and to make scornful concessions to the
peculiar tenets of Jews, could not be the action of a people which
was bigoted. If there was bigotry and intolerance, it was political
or social bigotry and intolerance, not reUgious. To prevent any possible
misconception let the present writer say here that he considers the
principles of Christianity, as laid down by its Founder and as
spread by St. Paul, to have been the most humanizing and civilising
influence ever brought to bear upon society. But that is not the point.
The early Christians were treated as they were, not because they held
non- Roman views, but because they held anti-Roman views ; not
because they did not believe in Jupiter and Venus, but because they
refused to let any one else believe in them; not because they threatened
to weaken Roman faith, but because they threatened to weaken and
even to wreck the whole fabric of Roman society ; not because they were
known to be heretics, but because they were supposed to be disloyal;
not because they converted men, but because they appeared to convert
them into dangerous characters. As it has been put, the Christians were
regarded as the ''Nihilists" of the period. We are apt to
judge the Romans from the standpoint of Christianity dominant and
understood; it is fairer to judge them from the standpoint of a dominant
pagan empire looking on at a strange new phenomenon altogether
misunderstood and often deliberately misrepresented. Moreover — and the
point is worth more attention than it commonly receives — we have only to
read the Epistles to the Corinthians, to perceive that the early
Christian gatherings were by no means always such meek, pure, and model
assemblages as they are almost always assumed to have been. Some of the
members, for instance, quarrelled and ''were drunken.". There
were evidently many unworthy members of the new communion, and of course
there were also many manifestations of insulting bigotry on their part.
The class of society to which the Christians belonged was closely
associated in the Roman mind with the rabble and the slave, if not with
criminals. What the pagan observer saw in the new religion was "a
pestilent superstition," "hatred of the human race," "a
malevolent superstition." He thought its practices to be
connected with magic. The intransigeant Christian refused to take
the customary oath in the law courts, and there- fore appeared to menace
a trustworthy administration of the law. He took no interest in the
affairs of the empire, but talked of another king and his coming
kingdom, and he appeared to be an enemy to the Roman power. He held what
appeared to be secret meetings, although the empire rigidly suppressed
all secret societies. He weakened the martial spirit of the
soldier. He divided f amiUes — the basis of Roman society— against
themselves. He was a socialist leveller. He threatened with ruin all the
trades connected with either the established worship — as amongst
the silversmiths at Ephesus — or with the luxuries and amusements of Ufe.
Those amusements in circus or amphitheatre he hated, and therefore
appeared misanthropic. He not only stood aloof from the religious
observances of the state and the household, but treated them with
contempt or abhorrence. Moreover, at this date, he refused to
acknowledge the one great symbol of the imperial authority. This was
the statue of the emperor. When that statue was set up in every town it
was not understood by any intelligent man that the emperor was actually
a god, or that, when incense was burnt before the statue, it was
being burned to the emperor himself as deity. But just as every
householder had his attendant Genius'' — the power determining his vital
functions and well-being — which was often represented as a bust with
the man's own features, so the statue of the Augustus, ''His
Highness," represented the Genius of that Head of the State, and the
offering of incense was meant as an appeal to the Genius to keep
the emperor and the imperial power ''in health and wealth long to
live." The man who refused to make such an offering was necessarily
considered to be ill- disposed to the majesty and welfare of the Head of
the State, and therefore of the state itself. The Roman attitude
towards the early Christians was partly that of a modern government
towards Nihilists, and partly that of a generation or two ago to a blend
of extreme Radical with extreme atheist. We are not here concerned
with the whole story of the persecution of the Christians, but only with
the situation at and immediately after the date we have chosen. It
is at least quite cer ain that when Nero burned the Christians in the
year 64 he was treating them, not as the adherents of a religion, but as
social criminals or nuisances. How far his notions of Christianity
may have been influenced by Poppaea we do not know. At least he believed
he was pleasing the populace. Grice: “Conte quotes from Aristotle’s
Soph. El. On the ‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good, but sometimes
for the bad.” Conte distinguishes between semantic ambiguity – surely ‘must’ or
the imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza prammatica.
Since Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep referring
to ‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that Aristotle is
just Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative mode. Modo
imperativo is qualified. Modo is qualified as being modo verbale – the mode of
the verb impero. But then the future in French has a ‘valore imperativo.’ Conte
is more interested in the ‘must.’ But surely his quoting from Philippa Foot and
his joint work with von Wright into Kant’s hypo versus cate is very Griceian! On
top, Conte has a taste for local historical analysis and has discovered some
gems in some jurisprudential philosophers of his ‘paese’!” Amedeo Giovanni Conte. Keywords: il
sacrificio, the sorry story of deontic logic, fondatore della logica deontica
al Ghislieri di Pavia, il giuridico, giudicare, giuridicare, impiego, employ
(as noun), employ-ment, empiegamento, Conte e Wright – Wright cited by Grice,
alethic --. Wright on change cited by Grice in “Actions and Events”, Mario
Casotti, Volere, Grice, Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conte” – The
Swimming-Pool Library. Conte.
Grice e Contestabile: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Teano). Filosofo
italiano. Grice: “I love Contestabile; I love a philosopher with a sense of
humour! At Oxford, it has become increasingly difficult to laugh at people’s
surnames! But ‘grice’ means ‘pig,’ in Norwegian! – Anyway, Contestabile
contests a revisionist account of Bruno’s life – “surely he wasn’t a coward – I
know because of his links with the Campanella whom my family supported in his fight
against the furriners!” Cacciato con una telefonata» Intervista di Dino
Martirano, Corriere della sera. Con il Psi non ho ricoperto grandi incarichi ma
ho avuto l'onore di essere stato amico di Craxi. Mi mancherà la politica ma non
è una tragedia. Torno ai miei studi, alla filosofia medioevale. Mi mancheranno
certi momenti. Io, che ero stato nel Psi fin quando la procura della Repubblica
lo ha sciolto, ricordo bene i mesi trascorsi al ministero della Giustizia: col
ministro Biondi fummo i protagonisti del tentativo fallito, però generoso, di
riportare la giustizia sui binari della normalità. Sciolto il partito [Psi],
chi si è fatto maomettano, chi ebreo, chi cattolico. Però sempre socialisti
siamo rimasti. Avvocato e politico italiano Sottosegretario di Stato del
Ministero della Giustizia Presidente Berlusconi Predecessore Sorice Successore Mirone
Vicepresidente del Senato della Repubblica Presidente Mancino Senatore della
Repubblica Italiana Legislature Gruppo parlamentare Forza Italia Circoscrizione
Lombardia Collegio Cinisello Balsamo, Vigevano Incarichi parlamentari
Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia Sito istituzionale Dati
generali Partito politico FI Titolo di studio Laurea in giurisprudenza
Professione avvocato. Avvocato e politico italiano. Laureato in giurisprudenza, esercita la
professione di avvocato. Entra in politica iscrivendosi al Partito Socialista
Italiano (partito a cui è appartenuto fino agli eventi che hanno travolto tale
formazione politica)[1]. In seguito aderisce a Forza Italia, affermando che in
tale movimento politico l'area socialista era ben accolta e rappresentata. Viene
eletto senatore ed è rieletto anche nelle due successive legislature. Vicepresidente
del Senato. Incarichi parlamentariModifica Ha fatto parte delle seguenti
commissioni parlamentari: Affari costituzionali e giustizia; Difesa. Membro,
inoltre, della giunta per le elezioni e immunità parlamentari.
Sottosegretario di StatoModifica È stato sottosegretario di Stato per la Grazia
e giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi. Tutti i figli e i
figliastri del garofano. su qn.quotidiano.net. Adnkronos - Psi: C. a De
Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura Voci correlate Modifica
Governo Berlusconi I Partito Socialista Italiano C., su Senato.it - XII legislatura,
Parlamento italiano. C., su Senato.it - XIII legislatura, Parlamento italiano.
Domenico Contestabile, su Senato.it - XIV legislatura, Parlamento italiano.
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Socialismo. PAGINE CORRELATE Fabrizio Cicchitto politico italiano
Maceratini politico e avvocato italiano Scamarcio politico italiano
Altre saggi: Bruno: una revisione contestata” – La storia della filosofia
è continua revisione, e non mi scandalizzo per il revisionismo bruniano. Mi
sembra però che questi non colga nel segno. La vita diBruno, dalla fuga da S.
Domenico Maggiore a Napoli fino al rogo di Campo dei Fiori a Roma, è di singolare
coerenza. È una vita “contro”. L’accusa implicita di opportunismo mi sembra
perciò singolare. E’ vero che, durante il processo, ritratta molte sue tesi, e
avrebbe avuto salva la vita se continua in questo atteggiamento. Alla fine però
si stanca, e scolge lucidamente di morire. È opportunista chi cerca solo
di salvare la pelle, e poi decide di morire perché ritiene che il suoi giudice
ha esagerato? In quanto alla tesi sul Bruno spia elisabettiana, essa non è provata,
anzi è smentita dalla comparazione tra la grafia di Bruno e quella dei
biglietti di spionaggio. Infine, la tesi a proposito della relazione tra
Campanella e Bruno non mi ha mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziata
dalla nobile famiglia C., come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul processo
a Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del sole”
non si direbbe. (CA ui i) e iui Mia ba, VA dai ‘agi
LS it Il EGR Ln i \ LA va Di = | Pome Rm
Te ti n. i Li I e Aa Kt Hlirpogt] lb pi n 9 ha So Rif [a E Ji
> a ILLE di pe LIS ia
Giordano Bruno DRAMMA MILANO
Tipografia Commercial n als dtt , TORIO
EMANUELE , Carnevale 1881 -82. {Resta sapore
* T'ERSONAGGI BRUNO —. . . Sig. G. SALASSA LORENZO
(figlio naturale di GIORDANO BRUNO, «dot- tato:da).. ... ».
> A.D'ANDRADE ROMANO DEI LOMBARDI «+. > F. MIGLIARA
LEANDRO giovine patrizio. S.ra ANGIOLETTI LAURA figlia di ROMANO.
>» A. Busi IL GRANDE INQUISITORE . Sig. SALVARANI —
ROCCO LILLE DAMIANI ANDREA . Ni agN°
UNGUARDIANO) che nonparlano —N. N. UN OsTE .. Ni Ni Giovani
e Nobili Veneziani, Servi di Romano, Gondolieri, Seguaci di Bruno,
Soldati, In- quisitori, Si Servi del S. Uffizio, Frati e
Popolo. L'azione del 1.° e 2.° Atto è in Veni quella del:3.°
e 4.° Atto in Re Anno 1600 ber a
pieni Sofee bi; pece SUIT ZIA Fitto
Primo PIAZZA IN'VENEZIA Un’Osteria e
alcune seggiole. — In fondo un canale praticabile, che traversa la scena.
— Sul canale un ponte, che mette in un viottolo, sull'angolo del
quale sorge a destra, un magnifico Palazzo illumi— minato a festa,
prospiciente sul Canale. —.Un in- gresso laterale, illuminato da faci
fisse ai muri, con- ducedal viottolo nel Palazzo. La porta principale
verso . il Canale è aperta; durante la scena seguente, visi ve-
dono approdare gondole, dalle quali scendono persone ragguardevoli, che,
ricevute dai servi, entrano nel Palazzo. — Sera. i SCENA
TI, GIOVANI e NOBILI VENEZIANI, parte ‘in abiti fanta- stici
con mezza maschera al volto, e parte in abiti comuni, vengono da
sinistra, traversano il ponte, e dalla strada entrano nel Palazzo.
LEANDRO, ROCCO ed altri Giovani vanno e vengono ferman- dosi sulla
Piazza, cantando e ridendo, Poi LQ- RENZO e LAURA.
Leandro (accompagnandosi colla ghitarra) A te, Venezia
bella, adorata, A te, mia sposa, la serenata. HEVVPETIAIAMITEREZI LIA
VITE RENTAL rara rr ovinantosinezineneisevazize vecio sinioneee
IVTIPRErTA:Itr rara rirevenaatos aes szereris cva:i0e vice vi’ veve’
’avurecovio sr 0uIvI vare ri [tti STA Hocco (Volgendosi
all’osteria) Leandro, scuotiti! Le mura adori?...
Vieni ove brillano Divini amori, Ove donzelle Cotanto
belle Potrai mirar. Coro dei nobili Al convito
n’andiam! alla festa! Leandro Prima di venir alla
gran festa Distruggere io vo’ un'idea funesta! Oste, su via
porgetemi Vino di Cipro; a questo petto ardente - - Occorre
del più vecchio e più potente. Vivan le belle Danzanti;
volano.... Gli occhi fiammeggiano Più che le stelle; Ne’ Joro
vortici Mi ruban Vanima.... sui Crudo gioir! «__°—’—Più non
mi muovo — Suolo dolcissimo, ir belt
—r__F—rrrrrr n -___ a-rt-rvreorosoeeriovoe
nueva zeranen sonia mise eeerarmierereriiovnieteacivoteote0ie Nido
mio nuovo! Muoio in tue braccia... Santo delir! |
A te, Venezia bella, adorata, A te, mia sposa, la
serenata, Coro AI Convito! n’andiam alla festa.
(S'appressano in una gondola LAURA e LORENZO) Eaurna
Sul mare immenso — più non impera Nè sulla terra — che la
circonda... Venezia, è fango — la tua bandiera! Lutto e non feste!
— Pianga e s’ asconda. Core (con alto di cu iosità) E
un amante e la sua Della Che passeggiano alla luna; Laura sembra la
sua stella, Ma egli fa poca fortuna. Seguiam tutti i vaghi
amanti, E vediam, se pur n’ è dato, In fra i suoni, i balli e i
canti Di trovar l’innamorato. È Lorenzo di Giordano,
Che fuggì dal sacro tempio ; lì Lorenzo... il vil,
l’insano Che ne porge un triste esempio.
Lorenzo (con ira) . È rivolta a me l’offesa? L’alma
freme, batte il core! - Già suonaron l’ultim’ ore; - E voi
tutti io sfiderò. Laura E rivolta a te I’effesa;
rato L’alma freme, batte il core!... Già suonaron l'ultim’
ore Io con te li sfiderò. (LORENZO furente si scaglia contro ROCCO,
e gli toglie la spada. Gli altri NOBILI sguainano. le
proprie e si schierano în fondo) SCENA II. Detti,
ROMANO dei LOMBARDI entra frettoloso dalla casa di destra, seguito da
servi con torce accese, Bomano Chi grida? Chi chiama?
Qual chiasso villano? Non son cîttadini, ma plebe briaca !
Lorenzo, tu?... Il ferro in mano hai snudato?.... Parla! Che
avvenne! Sei pazzo ?... Ti placa!... Laura (atterrita alla vista
del padre) Che mai dirà Al Genitor?... pa Voce non
ha, Non ha più cor. Lorenzo (con timore) Che
mai dirò AI Genitor?... Voce non ho, Non ho più cor.
Leandro (con circospezione) Il segno di croce facciamoci...
e andiam via! Quel vecchio è uno sgherro dell’ Inquisizione.
Partiamo, fuggiamo... La belva più ria, E un angelo a petto di questo
demòne. Romane (ai Nobili) Non chiedo ragioni di
vostra contesa, Fra tenebre nacque... in tenebre resti; E calmi la
notte col sonno gli. ardori Di giovani folli, di stolti furori....
Partite! Or è cauto lontani restar. Coro di Nobili (infimoriti da
Romano). Fuggiam dal feroce Vegliardo Romano : Col
fiato ne ammorba Il truce, l’insano; nea Qui
tutto è sospetto.... Amici, fuggìam. 1 NOBILI, it CORO,
LEANDRO e LAURA sì riti- rano pel ponte ed entrano nel Palazzo. L’OSTE
ha chiuso ed è scomparso durante la rissa, ROMANO fa un cenno ai Servi di
allontanarsi. SCENA III. ROMANO e LORENZO
Romano Vengo, tu il sai, da Roma; e il Santo Re e Pontefice
armava il braccio mio. ‘Or sotto il ferreo terribil manto Della
suprema Città di Dio L’ Inquisizione veneta sta; E a Roma solo
ubbidirà. Dell’ eresia le vampe infeste Soffocherò —. tutte le
teste D’ un colpo all’ idra io troncherò. Lorenzo Fu
il Campanella scoperto e preso? Romano Libero ei 8° agita...
Ma il gran sovrano De’ rei, che Italia e il mondo ha acceso
Contro la Chiesa santa, è Giordano. Presso i suoi complici
quì ascoso stà! Lorenzo Odio quel uomo tanto... tel
giuro. Romano Non basta odiarlo: questo io non
curo; Tu quì arrestarlo ora dovrai: (Musica da ballo
neil’interno del Palazzo) In fra le maschere lo scoprirai,
Ed il porrat — nelle mie man. Lorenzo Si chiede un atto di
traditor?... Romano Queste ai novizi prove si dan.
Lorenzo Tradir ricuso; son uom d’onor. Romano (con sdegno)
A me tu, folle, devi?... RANA RARA pinete
Lorenzo Obbedienza ! Homano Ed alia Chiesa! Trema... .
Lorenzo (soffocando il furore) Obbedienza! Romano Dunque
?... Lorenzo (con sottomissione) Giordano io scoprirò! Eomano
(ricomponendosi) Tuci giovanili e schictti Modi ti gioveran, se
manca il senno Di età maggior, Tuo sguardo onestà; ispira, K assai
tua voce ad ascoltarti attira. Per la grand’ opra non sarai solo,
D’altri miei fidi 1’ aiuto avrai; Pronto a miei cenni sempre
sarai, Uno per ‘tutti sia il mio voler.
Lorenzo (con dolore) L’iniqua trama ahi mi colpisce!
La terra, il cielo pur n’ hanno orror!... Vile è colui, ch’ altri
tradisce, Nè v' ha pietade pel traditor. ERomano
(imperioso) Come voglio, sia fatto. Or d’ altro; è m'’ odi. Dal dì
che ardenti e improvidi Sguardi su Laura hai posti, Travolto dalla
subita Cicca passion tu fosti; N | Una rea febbre 1°
agita Tutte le membra o siolto, E vedo nel tuo
volto Il fuoco del delir. Bada! io ti scruto, o
giovine, E leggo il tuo desire; Guai se tal fiamma ignobile
Io non vedrò svanire. Tu sogni; ma chi vigila l'e per tuo ben
consiglia; Dimentica mia figlia, O trema del tuo ardir.
(parte da sinistra mentre sì volge ancora con fiero sguardo su
LORENZO). Lorenzo (con dolore): SO Solo alfin... solo
quì sono... Piangere, impallidir, tremar t’è dato sa Povero cor! Ma
dannate in eterno ei Son mie lacrime in lor foco d'inferno. Ci
i . . 0 cielo, perchè l’aere Fa A ._ ©. Spargi de’ tuoi profumi?
CRT a O terra perchè il giubilo. SA Delle tue stelle
assumi? © nare: A me negata è l'estasi. da D’ ogni dolcezza
umana, No: ae d'ogni gioia lè vana (ale EZIO Larva, che fugge
ognor; TERIOS L’ amor che è riso d’ angioli, 0; Di Nel povero
mio cor. i Strazio divien di dèmone, WA Delirio agitator. pr
| Amar non posso... 0° AARON] eta P, ‘L'odio mi restag» SS CE ao ag
Son stretto a questa to; LR 1 sur aRatalità. EI _: Vò di te
vincere. | Con santo zelo, .. Servir vo’ il Cielo... E questa
l’ ultima . «Mia volontà. (parte con fretta per il ponte). ‘
Cala la Vela. arnie, Affo Secondo onere
ge oi SALA NEL PALAZZO LOREDANO Una splendida sala da
Ballo nel Palazzo di Lore- dano a Venezia, con colonnato per modo che si
possa figurare l’accesso in altre sale. Illuminazione splen-
didissima. SCENA L Coro degl’Invitati ($
acc incanto dell’ebbre sale! Che ballo immenso! Sarà
immortale. Quest’ è la reggia della letizia; Il, paradiso. d’ ogni.
delizia. Deh! non fuggire, tempo; t’ arresta; Bearsi al lungo delir
giocondo Della fatata splendida festa Tutto in. Venezia vorrebbe il
mondo. {Gl’invitati s'allontanano in varie parti) SCENA
ILL GIORDANO entra con cautela e colla maschera in mano, poi
gli amici. drrezadzanzecezanconca n ionici oc. c0100
dna enricicondiizeotentoro neo dan'ontooarcrroniòolo /Tasos signor cecanzara anee
Giordano Quì ognun danza e delira Spensierato e
demente. E niun ragiona, E senno e cuore ha niuno. x
tutto quì è in periglio, ove il Leone Alato di San Marco
Prostrato dalla Santa Inquisizione Ai piè, scordò il
ruggito Di cui tremò per secoli ogni lito (volgendosi in
fondo) Ecco gli amici: ma assai lenti e scarsi. Alcuni dei
Primi Luce! Giordano Giustizia a tutti! E Primi E
verità! Alcuni dei Secondi [venendo oltre) Luce
! Giordano Giustizia a tutti
E Secondi E libertà! Giordano Grazie
diletti ! Sian pochi i detti; Molta l’opra. A ingannar V'astuta
Corio Dei biechi Inquisitori Ho scelto queste sale Di
Loredano. È pronto ognuno ? Coro Ognuno! Giordano
L’ ardir pari del vero alla grandezza? Ed uniti?
Coro Siam tuoi, Giordano Bruno! Giordano e Coro
Nel popol vero s’ incominci 1’ opra: S° illumini! Bugiarda è la
parola Di Roma e il suo Re, che Dio si noma, Sull’ alma i
Papi vogliono l’ impero Per posseder la terra; E coi
libri e col braccio tt Viva facciasi
ovunque eterna guerra Allo spirito, al verbo, a ogni menzogna, Con
che farci suoi schiavi Roma agogna SCENA III. DETTI e
LAURA che entra anelante dalla sinistra colla maschera in
mano. Enura Signor, fuggite! Giordano Io? no! non
fuggo. Coro (insospettito) Fuggiamo.... È pazzo! (fuggono da
va»ie aio Giordano (con ira) Vili! Tu hai fede? (a Laura)
ERaunna (sempre ancelante) Gran Dio! In queste sale
Circondavi un estremo ‘ Periglio. Per voi tremo... Fuggite per
pietà. IIIEEZZZERETET TEZIEXIZZELUPPEE PE CETO CE TI CE CES CECI ICI IA
CIT ALIZICI AZIO LETO EI Va besasnza rea dI gra rirvarai tion
Giordano (simulando) Fuggir?... Da chi fuggire?
Laura Da tutti! I delatori, Cui fia virtù
tradire, Vi cercano là fuori... Son mille a me ben
noti, Fierissimi e devoti Al sacro Tribunal.
Giordano (sorpreso) Mi conoscete? Eguana A
Padova Vi scorsi il«dì che ardito Nel fiume vi gettaste, E un
fanciullin tornaste Vivo al materno sen. L’ Inquisizion
seguiavi Co’ mille sgherri suoi Per arrestarvi; e voi Tra il
popolo festante Poteste in un istante Securo allor fuggir.
Giordano (simulando la calma) Bruno era quegli, che allor
miraste! Io non lo sono!... Mal giudicaste, . —
20— i Laura (sorpresa) Credetti... ho
divinato! © ; Voi siete il gran filosofo. Giordano
Oh certo s’ è ingannato Il vostro giovin cor.
Laura Perdonate se un lembo alzo del velo, Che a me vasconde...
(solleva: dl velo) Io v' ho scoperto!... siete... Celarvi non
potete... Giordano E chi son io? Laura
Giordano Bruno, cittadin di Nola! SCENA IV. (Durante
quest’ultimo colloquio, LORENZO entra da destra, LEANDRO da sinistra; si
fermano in - fondo, e, non veduti funno alto di attenzione).
“erimmiberarisisaorizeoeee — Mi — nisi bro
aravrariszazazezea ripa paio : Lorenza ngi Ho.
in mani, alfin 1, dai i ‘Ch’ ha Italia avvelenato; ‘Salvo da Ini
mille: anime! a Il mondo mi sia. EH 9 Leandro (4. LormNZO |
con simulata ironia) % TAL il salverài, mia “tnamo, | 79)
È quegli'il gran? ; Filosofo) di Il celebre Giordanb. VESTA
Dal Tribunal del Dèmoni Ù 401 1 PR. E O ARNO E ‘J
RARE. | Baura (| ‘801 ‘presa vi ala PISAE) | dia 39 DS
IDE Lorenzo! dui GicoL.. (a o pi di te-che mai sarà?
F a iI Gietiala (con dolore) Fui tradito
!..-Oh cerudoltà So IV I Santo phrto) Tana ‘in Cactpnse
deg Di palpiti, di ladina , Tempo,non è, mio cuore; .:
. ‘ Salvarlo, fat Miracoli. DERE eo -0t devo ame
l'amore. OL DI Giordano © La luce tua mi sfolgora,
Fanciulla, nel pensiero; Se il mio profeta!
Libero Trionferà il mio vero. (poi fissando LORENZO)
Quel volto! V° è 1’ immagine Impressa di Teresa...
Misto è quel volto... e annunziami La gioia ed il dolor!
(Prendendo per mano LORENZO) Giovane, dimmi: sei tu di
Roma? La tua favella mel dice... Parla! Dimmi: tua madre come
sì noma? Teresa forse? Lorenzo Teresa?... Sì!
SCENA V. (In fondo appare ROMANO con SERVI e SOLDATI
poi vengono gl’Invitati). Giordano L’ inquisizione! Oh
quale orror! (a Lorenzo) E tu con essa? Ah traditor! o Io a te la
vita diedi... e la morte - Tu, iniquo, appresti al Genitor!... A te
l’ inferno schiuda le porte... Sii maledetto, vil delator.
fekresrey=neoan0enencastec pregsoneeaossog @zor—rorerovrse ereeeericrone
cer csvpirtetronertpariosonnen contiene nanenene Lorenzo
Tu... padre mio? Che mai feci io!... Padre, perdonami
_Se pur ancora ‘ Merto pietà. SCENA VI.
GU INVITATI che riappariscono da destra e sinistra e detti.
GI Envitati e Leandro La festa è orrenda! Fuggiamo
tutti; Qual tradimenti! > > Keco distrutti --- Degl’
innocenti Gli almi piacer. HEomano Grazie, o Ciel!
Nelle mie mani Or Giordane io vedo tratto! Roma esulti...! Il suo
desìo Finalmente è soddisfatto. Lerenzo Orrenda
infamia! Tu il. padre mio?... Ah me infelice! Che mai fec? io!
Padre, perdonami... O Ciel, pietà! 2 ERA
EeIOrtitiezast:nuvo cene cen vinariesazyaza cc uPONPPA PESSANO MT RI
Laura (a GIORDANO) Delle amarezze il calice
Berrò con te, Giordano; Già in seno il duolo squarciami
Il core a brano a brano; Peno per te, pel figlio Mio
primo e solo amor. Leandro Oh come ovunque
penetra La santa Inquisizione ! Come sarà terribile La
sua imputazione ! In lui perdiamo un figlio, Che della patria
è onor. Giordano (4 LAURA) Ah no! Laura, non
piangere... Giordano ha l’alma forte ! Pel Vero è pronto a
vincere Il duolo pur di morte! Dio deh! ritorna il
figlio A Laura e al Genitor, Lorenzo
Sento nel seno piovermi D'un aspro duol le stille!... Il padre...
oh! il padre scorgere ab 0); Temon le mie pupille!
Com'è infelice un figlio Ribelle al genitor ! Romano
Entro mi serpe un fremito, Che mi sconvolge il core,
Veggendo quest’ eretico Di scismi banditore, Che, della
Chiesa*figlio, Divenne traditor! Leandro Tu piangi?...
Incauto, a Lui {affida Pel suo perdono; ma l’alma infida
Nel suo rimorso gran pena avrà. Coro (a LORENZO)
Che piangi?... Ognuno vile ti grida; Se’ un traditor; se’ un
parricida! Nè Dio, nè il mondo n’avran pietà. (I SOLDATI
circondano GIORDANO e cala la tela/.
IITTTTAAEIAIII RA CORTI Affo Cerzo
IN ROMA Sala nel palazzo
dell’Inquisizione. — In fondo, nel mezzo della parete una cortina nera
che chiudela scena, — A sinistra una finestra aperta con ferriata. In
fondo un tavolo coperto con un tappeto nero, a cui siedono il
grande INQUISITORE e DUE SCRIVANI; ai lati siedono gl’INQUISITORI, e, di
fronte, GIORDANO, R0- MANO e LORENZO, — Porte a destra e a
sinistra. SCENA I. Romano {> iordano!
Voi siete’ D’innanzi ai vostri giudici, al supremo Tribunal
della terra! E qui dovete, Smésso l’antico stile, Risponder
vero, obbediente, umile. “cà ra G. Inquisitore
Vostro nome è Giordan Bruno? Giordano Di Nola.
mrantsiorizea nano (199 AMDI ATTI ANI ANAZANAZA NZ RATTI TIT IATA
TERI ri prenpaniananan ananarenaenzana G. Inquisitore
Vi conosciamo! Voi correste in terre D’eretici; lè in Praga, in
Francoforte. ‘ E predicaste spesso agl’ infedeli La
santissima Chiesa dileggiando Di Roma, tutti i novator
germani Esaltando. D’ Iddio 1’ essenza in false Forme sponeste;
come v’ inspirava Mal talento. D’ Iddio la legge in pubblici
E in segreti convegni commentaste; Le coscienze fùr guaste.
Giordano Mentite! Solo io dissi agli uomini Il
mondo ha una visiera Di antiche, immense tenebre ; Cerchi la luce
vera. Dio vuol che l’uomo spinga L’acuta sua pupilla Fin dove
in cielo brilla L’eterno suo splendor. Coro
d’Inquisitori D’ anime felle Empia utopia! Il tuo,
ribelle, Un Dio non è. Non ha che larve - Tua
fantasia; .0 & gi ver disparve ; “Se in eresia ft fo i AI
fuoco, ‘al fuoco: © Sia condannato! 1 “REP carcer. poco, s ra
! tal OmpIO, egli de (Si apre la cortina’ dalla’ quale ‘escono
pina DTA io GRANDE INQUISITORE, quindi ROMANO, poi gli SCRIVANI,
‘gi ISQUISITORI, ed sea pIoR-SSf DANÒ accompagnato, dalle GUARDIE. : Gala
la cortina e solo LORENZO rimane în ‘scend), SCENA DÒ
dt e Laura 01,3 (LAURA entra dalla' sinisird e presi itasi) di
LORENZO | in atto supplichevole). SÉ Roe dia eor ATI
v Rat Laura! moi (HI dÉ tia Koi i È &
Loréiizo i «105 si vo MREPSRI RATA GIL
Lorenzo Di ea DO Ur PA Ale 2 i sd Met: la "I
Che vuoi tut ot Raid) fai I nSetdi o SERRA 2
Senti la ToRe.e. un uomo Rico tu soi. “ rE:
Lorenzo Tinura! Da me che brami? Sento straziarmi il
cuore... Laura Ah! tu il padre salvar déi, Se
una belva ancor non sei. Lorenzo Tact Laura! Il ver
dicesti È mio padre! Io lo sentìa Quando'.il labbro suo:
terribile. Me colpevole maledia. È mio padre! Ancor lo
sento AI perenne! e fier tormento.‘ ©’ Che m’ opprime e strazia il
cor. Laura | Pietà del misero. Tuo
genitor. Lorenzo L’accento tuo terribile E un dardo al
traditor. ebic Laura Lorenzo. it i #1) Ma
shananorazi scenza sanacenencacaee cena sane
oeanconeesccnionaacea—ea—e@ce0cui0reò’npsQa”ncceinci’’’ ne Agp
ipmpasrssssso— Lorenzo Nol posso! Laura
Va da me lungi, o perfido, Se nieghi al genitor
Salvar la vita. E sorga il dì terribile Che
ognuno, o traditor, Ti nieghi aita. Lorenzo
Taci!.... e che far poss’ io? Laura Aiutarmi a
salvarlo; tu lo puoi! ‘Ei fugga da quell’ orrida Fossa in serena
terra, Ove su lui degli uomini Taccia sì cruda guerra.
Ove un demén carnefice Non trovi nell’ amico, Nel figlio, un
traditor; Ove il sovran suo spirito Onnipotente e pio
Possa inalzarsi libero Di tutti al Padre, a Dio; E
riabbracciar qui un figlio, Che traviò pentito, Stringendolo al suo
cor. . pra, im masasena nanasasesc’poossoncostor09posporooscoesaesose®
Lorenzo Quell’ardire, che in volto a
te brilla, La speranza, la fede m' ispira: E una sacra,
divina favilla Della fiamma, che tarde nel cor. Raura
e Lorenzo (assieme) Con te nutro la credula speme, Che a
giustizia il trionfo sorrida; Siamo uniti per vincere insieme Od
insieme da forti morir. (partono). Muta la scena. — Carcere di GIORDANO
con porte in fondo: dentro vedesi un giaciglio di pietra, una seg-
giola ed un tavolo su cuì arde una lampada. — A sinistra una scala
da cui si accede agli Uftizii del- l’ Inquisizione. SCENA
III. Giordane (seduto sul giaciglio) «Ecco, o Roma,
l’eretico In questo tetro carcere rinchiuso !.... Del
sangue suo dissetinsi I tuoi Inquisitori Ebbri di gioia
in lor ciechi furori! (Gleaso Sul rabido rogo dall’empio
innalzato La fiamma divampa sanguigna e stridente, Ma
in mezzo all'incendio securà possente Del martire invitto la voce
s’ udrà. Il rogo non strugge — la libera idea; Ma, eterna fenice —
risorge o sfavilla; Del vasto creato — nel verbo
s'inslilla Te dense tenebre — del mondo a fugar. In mano ai
carnefici — chi, miser, mi trasse, Tu fosti, mio figlio; — tu sli
maledetto ' 9 Ma no maledirti, + ma no, nol poss’io: La morte è un
trionfo — per me, figlio mio! SCENA IV. LORENZO apre
con furia la porta del fondo che mette nel carcere; indi entra anche
LAURA. Entrambi «$0NO Raealii in domino nero come i servi del-
V’ Inquisizione. Lorenzo (di piedi di GIORDANO) Padre
mio! Tuo figlio... Giordano Non sogno! Lorenzo
Si, son io, ch’ hai maledetto ; Ma figlio tuo! Ripeti un altra
volta La tua maledizione i Coll’ accento d’ un padre, ed al mio
cuore Più cara suonerà di quel che fora Del sacerdote la
benedizione ; Ah! lasciami morir a pieid tuoi. TIrCItIVISIÀ
poorrcensersantisaazuztt=veSnII=TIERERA TATE conuaca riv ertaziori (apusa ra
rara zar sara ra bist enaneronesane ‘Giordano Felice è un tal
momento! A me t’ adusse Iddio; Ora tu sei redento! M’
abbraccia, o figlio mio. Lorenzo Padro' i] mio cuore un
balsamo Nella tua voce trova! Col tuo perdon risorgere
Mi sembra a vita nuova. Laura Redento il figlio,
accoglierlo Ben può il paterno core; Quale inattesa grazia
!.., Disparve ogni terrore. Mutti (inginocchiandosi)
Gran Dio, che fra le angoscie Apri a quest’ alma il riso,
E mesci ai loro spasimi In terra un paradiso. A
te, che i santi vincoli Riannodi di natura, Salga da queste
mura L’ inno de’ nostri cor. Giordano (STO ER Dal
fondo del cor mio 2/0 SARA Grazie a te sien, gran Dio! a
Pi E | SCENA V. re k » à, s ER wr: DETTI,
e ROMANO, che presentasi in cima della >° dente.
Fissa collo sguardo LORENZO, indi scende rapidamente. Lo seguono il
GUARDIANO Retles va x carceri e i SERVI del S. UHEIZIO: - da
si ‘Romano < È Come tu qui?... La figlia ancor Di vedo, ea Oh
mio furore ' eco 3 F : x Laura e Lorenzo 00 o O qual terror! >
ua | » Romano È ‘ Giiordano..- Questa ou fatale a me una
figlia nn dio Spa ma a te la vita. (LEANDRO, il GUARDIANO delle
carceri ei SERVI. del S. UFFIZIO mascherati ed armati si ap-
d pressano). Lg i VEL 7 Pi AE Li
unisoseorevrespropeosovo ” Romano (a GIORDANO) Trencar ti
voglio, qual vile stelo; Delle tue carni la terra e il Cielo Io
colle fiamme consolerò. Lorenzo Ed io fidato m’ ero a tal
jena ? Tutto l’inferno qui si scatena, E cielo e terra han di te
orror. Laura e Leandro Sublime martire! La tua gran
vita Tronca in un lampo tra l’infinita Gioia... Qual strazio sento
nel cor! Giordano Del mio carnefice sul volto scritto Sta col
livore il suo delitto; Solo dal Cielo giustizia avrò. Romano
(a° Soldati) Innanzi al Tribunal condotto sia. Coro (Servi e
Soldati) S'innalza un turbine Di guai novelli. Su de’
fratelli — Tratti in error. E l’empio eretico < «N°
è lavcagionez 9:13 <L Maledizione Sul corruttor! Al rogo
ignifico ‘ Condotto Sia. © Chi l’eresia Tra noi portò. Legge
inviolabile Il turbolento A tal tormento Già condannò.
RIC FROCIO RA ATONTAITA Atto
Quarto Gran sala nel Palazzo dell’Inquisizione in Roma... —. Nel
fondo una Galleria apertà sostenuta da colonne, fra ile quali: si, aprono
grandi fin:stre che lasciano tra- vedere le cupole e i colli di Roma. —
Porta: a de- stra e a sinistra. — Nelmazzo un tavolo con quattro
candelabri. — Siedono al tavolo il grande INQUI- SITORE, ROMANO e ) UE
SCRIVANI. — DUE SERVI «ai. lati, quindi gl’ INQUISITORI, i
SCENA I. Coro d'Inquisitori || |) eo nembo dall’aere piove
Lupa ' Di Giordano su:l’empia cervice! "Non v'ha niun che
l’appelli infelice, Non v'ha cor che si muova a pietà. Pronto
è il rogo, la fiamma divampa... E pur essa la vittima è pronta
! AI gran Nome Cristiano quest’onta. Or. dal fuoco purgata
sarà. } SCENA II, Giordano (appressandosi). O
sommo Inquisitor! Giunta è l'estrema Ora, che me a
gran prova... al rogo.... appella! G. Inquisitore (alle guardie)
Fuor della porta vigilate ! (le guardie e i servi partono)
O Bruno Di Nola! Quest’ è 1’ ora che vi chiama Alla prova
del fuoco.... a morte.... 0 a vita Lieta d'ogni uom nel mondo! E a voi
concesso Ciò e’ ha nessuno fu giammai; la scelta Fra la vita e la
morte! Scegliete. E in, vostre man la vostra sorte!
Giordano (Mi tentan!) Che si vuol da ms? Parlate. G.
Inquisitore Qui in faccia a tutti, dichiararvi figlio Della
Romana Chiesa ora e in eterno E vi doniam la vita; rimarrete
Prigion; ma al figlio libertà darete! Giordano. Dèmone tentator! Nol
vò.... nol posso! G. Inquisitore (qa RomaANO)] Perduto!
Udiste ?... La sentenza è data! (Parte coi servi, Le guardie
circondano GIORDANO e partono). i SCENA II. Romano (in
preda a soffocato sdegno). Cieco sirumento io sono all’empie
voglie Di costoro! Ubbidir sempre... e frattanto Spezzare di mia
figlia il vergin core, Serbando la mia vita al lutto e al pianto! O
Laura, tu l’adori D’averno il rio Filosofo, Che con l'accento
magico Tuo cuor conquise già. Or ei morrà sul rogo!... Ma
temo per mia figlia. Dal duol trafitta, all’empio Vicina ella
cadrà!... Senza la figlia, il padre Più viver non potrà. To
l’adoro! In lei Tiposi Ogni speme ed ogni alta; La mia luce, la mia
vita Con la sua si spegnerà. Volgi, o Dio su me, su lei Un
tuo sguardo protettor, E la figlia, che perdei Deh! ridona al
genitor. (ROMANO parte da sinistra e nell'uscire si. moontra con
LAURA). CA SCENA IV. Laura (apprdssandosi
‘a ROMANO) Ah! padre caro, mi benedici! Quel divin spirto,
che t’empie il core, Io pur lo sento! Odio i nemici Di quel gran
ùomo;-che' giùsto muore. Ma tu, che. il puoi, deh! tu lo salva;; Se Do,
«con Lui io morirò. : (Romano La rea fiamma, che in
cor ti VE Per chi scuote de’ Papi l’impero, Sulla fronte il
delitto’ ti Stampa Che tu svolgi nel cupo pensiero... “Salvo
tu vuoi Giordano ? Iniqua ! Nol sperar... tu Il chiedi > invano.
i (parte) Laura (con disperazione) Più di salvarlo
non v' ha speranza! L’ ala nel tempo batte spietata! Ah! la fatale
ora 8° avanza. i Con te Giordano io morirò. ( prende il
veleno) A morte infame traggono. ; L’ apostolo del vero; Ma
dal suo rogo. pallida; | La fiamma sorgerà. Che sovra. il cieco
popolo... La luce porterà; COLERE Nè più potrassi spegnere
Quel fuoco che foriero Sarà di libertà. | Coro frecta
judicate filù hominum Laura Quai voci ascolto! Lugubre
E questo il canto estremo, Ch’ ora al supplizio adduce- L’apostolo
del Ver. Coro Recta judicate fili hominum Laura
Con te Giordano! Morir voglio! Al gaudio tuo volar
desio. SCENA Ve {LORENZO e LEANDRO col corteo funebre s’inol-
trano nella scena. GIORDANO Tifo, le guardie si fa avanti nel
mezzo). Giordano. Gran Dio! la vittima. Tu vedi pronta Il
rogo a scendere \a 1 1 Per la tua, fe; CERRI TERA ee
L'ira de’ perfidi, Ovunque. conta, Oggi terribile
Piombò su di me. Coro Etenim in corde iniquilates
operamini; Injustitias manus vestrae concinnant. Lorenzo. Si
squarcino le tenebre Or dell’uman pensiero, E torni vivo a
splendere Il sol di verità, Che strugga alla tirannide L’
atroce maestà, E’ incenerisca i fulmini Del mistico nocchiero
Nella futura età.. Giordano e Leandro Da’ rei carnefici Il
rogo ardente Pel nuovo martire E posto là; Ma la
giustizia Di Dio clemente Le braccia schiudere A Lui vorrà. GIORDANO
circondato ddlle guardie parte col corteo. Leandro, Cero (partendo)
In terra injustitias manus. vestrae concinnant. (LORENZO s’appressa
a LAURA, che si troverd, vicina. a ROMANO), i Lorenzo (con
disperazione) O Padre, addio. Per me l’estrema Ora fatale
suonata è già? Guarda tuo figlio, che più non trema Nel
vendicare la verità. A me di Laura l’amor fu tolto : Perchè
un mistero buio sognai... Ah! padre, credilo, tutto: ignorai; Solo
or la luce scorgo del Ver. ER omamno Lorenzo!
Lorenzo [trattosi dall’ abito uu pugnale, si ferisce. Laura!
Laura (riavendosi avvicinasi a LORENZO) Al gaudio Ei vola.
Romane (sorreggendo LORENZO) Serbate a quanti spasimi
E il povero mio cor? o aaravai -ercerecote e
————merie—i ve oraconcorsoee «n - peacee -LilsSTFri= pone rete na dor
e. Lorenzo È tardi, o padre, il piangere... . Anche
Lorenzo... muor! (gli cadde ai piedi). Romano. /Odesi “una campana a
lenti rintocchi; avvicinandosi a LAURA e sorreggendola/
Orribil pena mi strazia il core... Un disumano fui genitore...! Non
v’ha infelice al par di me! Laura (presso LORENZO)
Lieta è quest’ ora... della mia vita... Bel paradiso la via... m’
addita Giordano.... Io volo... In ciel... con tel (Da una
finestra vedonsi le fiamme del rogo, ed un urlo di popolo annunzia
la fine dello spettacolo. Cala la tela], op de nia -
oe vr 2A SN DI LESANIA AL TR I RRIA Ji ) _
DE sa NI Ao AME Ta0 “Si 1 iL VPI, | ati Lion
"Ul ci Li TR PSR = Hi (i dI - Un pi
Hi 3 i si f VI % Y, ILA } 4 ” ; A Yy
4 Pi f f lo L É } 1} Ì ; A A Domenico
Contestabile. Keywords: BRVNO, nobilita italiana, la famiglia Contestabile
financia la rivolta di Campanella -- filosofia medioevale, Bruno, il
melodramma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Conti: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale VIRGILIANA – La nudità eroica
d’Enea -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Conti is a good one – he reminds me of
Bosanquet and Pater – the decadents in Italy came AFTER them at Oxford! Conti
philosophised on many aesthetic subjects, such as man, masculinity, and
maleness --!” Di
una famiglia originaria di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di
filosofia estetica. D'Annunzio lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a
lui per ‘Daniele Glauro’ in “Il fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria
degli Uffizi ed a Venezia presso l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione
– l’estetica di Zorzi” -- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi
che delineavano la sua concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamente
a Platone, Kant e Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il quale
scrive di stimare molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico. Direttore delle Antichità di Roma. Direttore
della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofo
oxoniese Pater e Ruskin. Altre saggi: “Giorgione,
Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia,
Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del
tempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R.
Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San
Francesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio
dolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito
leggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la lettura
non era stata ancora terminata. Dizionario
Biografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli della
tradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofo
decadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il
bello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, Marcello
Carlino.C., Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte. Io vengo dal
mare di Napoli e sono tornato qui a rivedere la primavera. Non c'è nessuna
altra città in cui, come in questa, il rifiorire degli alberi e delle siepi si
accordi con la giovinezza delle opere del genio umano, nessuna ove, come qui,
la Primavera sembri rimanere per un istante velata, per poi riapparire pili
fulgida e piìi lieta, al ritorno dei venti che spirano dalle colline e recano i
nuovi fiori. Sono anche giunto fra voi, per parlarvi della pittura di Leonardo.
Ma il mio compito, dopo la lettura deirillustre scrittore francese che m' ha
preceduto, sarebbe oggi, non dico diffìcile, ma quasi vano, se le mie idee
fossero affini alle sue ed egli fosse vicino al mio pensiero come io sono
vicino al suo aff'etto per questa nobile terra toscana, ove l'arte ha
continuato la grazia gentile e la pura bellezza della natura. Diversità di
pensare e anche d'immaginare mi rendono oggi possibile esprimere qualche cosa a
voi forse non detta, e combattere qualche affermazione troppo lontana dalla mia
sicura fede. Leonardo è il discepolo del Vermocchio. Ora, che cosa poteva egli
apprendere dal suo grande maestro? Non certamente l'arte, la quale non si
apprende e non si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai
pensare alla possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista,
un poeta? La natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a
trovare i mezzi d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel
mondo. Il maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire: " Il tuo
cuore è impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione
plastica o per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua
amarezza; guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano
discorso, ecco la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che
imitano la bellezza del cielo, della terra e del mare; ecco in qual modo si
modella la creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l'
immagine dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il
discorso, il canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare
„. Ogni opera d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e
nuova, nella quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e
preesistenti, hanno mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto
inatteso e prodigioso che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in
Leonardo appare un' immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle
labbra del giovinetto Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che
illumina un altro mondo; poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra
dell'eroe adolescente sul viso e negli occhi della Gioconda, diviene il mistero
della seduzione femminile, una grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che
nasce dall'espressione d'iin volto, si diffonde verso il paese lontano e attira
il contemplatore. Il sorriso verrocchiesco è in Leonardo come nn brano di
Plutarco in Shakespeare. Or chi oserebbe dire che l'immortale tragico inglese
derivi da Plutarco? Leonardo e il Yerrocchio sono due artisti assolutamente
distinti, che parlano un linguaggio interamente diverso e che, se somigliano
esteriormente in qualche cosa, hanno due anime quasi opposte, chiusa l'una
nella sua idea di bellezza e di stile, l'altra aperta a tutte le manifestazioni
della natura e della vita, in una continua ansietà di fissarne l'immagine
mutevole con la semplicità del segno rivelatore. Noi viviamo pur troppo in un
triste momento della vita, poiché la maggior parte degli uomini ai quali
parliamo non sanno che cosa sia l'arte, e lo Stato crede a chi meno vede. Non è
forse ancora possibile vincere una così detta scuola di critica scientifica,
fondata sull' errore già accennato e chiusa nella rete del pregiudizio
cronologico. A coloro che ancora credono alle influenze sugli spiriti geniali e
alla necessità in arte di una classificazione come in botanica, noi possiamo
trionfalmente rispondere con Leonardo che l'artista genera le sue opere qual
fanno le cose. Egli deve creare come fa la natura, e le sue opere superare e
cancelUxre i segni del tempo che passa. Un quadro, una statua, un edifizio
debbono nascere come le selve e apparire come le albe. Or chi penserà all'epoca
d'una primavera o d'un ciclo stellato? Non c'è opera d'arte geniale che venga
per noi dal passato lontano, come non e' è indizio di vetustà nelle montagne e
nella aerea architettura delle nubi. Dinanzi all'umanità che passa, il genio si
ferma e rende eterna la sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle.
Avete udito il canto dcirusignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio
vi farà sempre udire la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova
della terra il canto dell'usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano
le allodole, è una notte serena, e l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite
Dante, e siete nell'eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa
invecchia o perisce, e noi stessi, -accanto a quelle grandi anime, siamo per un
istante fuori del tempo. Questo momento di liberazione provai per la prima
volta alcuni anni or sono a Milano, trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento
di Santa Maria delle Grazie. Vidi il capolavoro nella medesima ora indicata
dalla luce clie lo illumina dal fondo, tanto che mi fu d'un tratto facile
superare i mille e piìi anni passati e trovarmi presente alla scena Gesù era
seduto nel centro del convito e da poco avea prò nunziato le parole: qualcuno
di voi mi tradira. I convitati a destra e a manca s'erano ritratti e aggruppati
in tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo, con la sua tristezza infinita La sala
era piena di gesti concitati e di ansiose interrogazioni. Il Maestro solo era
calmo e la sua figura, sul paese che gli s'apriva lontano alle spalle, era
immobile. Ma qual dramma in quella immobilità ! Mentre la sua mano destra,
lievemente contratta, esprimeva un istante di ribellione e come un istintivo
moto d'ira, la sinistra nel momento successivo s'abbandonava col dorso poggiato
sulla tavola e le dita allungate, esprimendo la rassegnaziona e il perdono. Gli
occhi abbassati non guardavano e non vedevano nulla di ciò che era presente, ma
contemplavano internamente il grande spettacolo del dolore e della miseria
umana, mentre la sua anima sembrava essersi già rifugiata in quel fondo di
paese luminoso e lontano, dove abitavano una grande speranza e una eterna pace.
Nessun uomo avevo veduto mai così solo come Gesù in mezzo a quel tumulto. Era un'isola
in mezzo a un mare procelloso. Le onde fragorose del tempo, che travolgono^
uomini e cose, mi avevano forse spinto ad approdare ad una riva ove splendono i
fiori eterni della vita? Mai infatti, come quel giorno, ebbi, per virtìi
dell'arte, la visione della vita, in un oblio piti completo. Quando il custode
del Cenacolo venne ad annunziarmi Fora della chiusura, io riudii nuovamente,
dalla strada vicina, il rumore delle carrozze e il rombo dell'esistenza; e
ritornai fra gli uomini. Pochi anni or sono Annunzio scrisse una bella pagina
di poesia per rimpiangere la rovina del Cenacolo. Voi infatti sapete, che, come
della antica e celebrata pittura dei greci, fra pochi anni della Cena vinciana
non resterà se non il ricordo ^ Il doloroso avvenimento non ^ Questo studio su
Leonardo lìiitore era già stato scritto, quando fu compiuta in Milano dal
pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera di ristauro del Cenacolo, salutata da
tutti i cultori ed amatori d'arte con gioia e gratitudine. Il Cenacolo,
compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben presto a guastarsi; ì primi
provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono al cardinale Borromeo, poi
nei secoli si susseguirono alternative di lunghi abbandoni, di fallaci rimedi
empirici, di studii incompleti e riparazioni deturpatrici, fin che il prof.
Cavenaghi fuincaricato delle ricerche scientifiche e tecniclie che, precisando
le cause e l'entità dei guasti, portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò
— sono sue parole riprodotte naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1
ottobre 1908 — che il dipinto, coperto da polvere di secoli, si screpolava e la
crosta di colore si sollepoteva non commuovere e non far riapparire la visione
tragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è forse una illusione. In
realtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve della terra ne le opere
del genio: la Minerva criselefantina di Fidia è passata dall'avorio e dall'oro
nelle pagine immortali dei poeti e nella eterna memoria degli uomini. Quando un
capolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare che il tempo lo abbia distrutto,
ma semplicemente che si sia oscurato lo specchio che ci proiettava la sua
imagine nel tempo e nello spazio. Nella profonda unità dell'anima umana, clie
rende i poeti e i filosofi simili ai figli d'una madre sola, l'ispirazione da
cui esso nacque riman pura e vivente come una forza della terra non ancor
vestita della sua forma. Se avessi la virtù del canto, vorrei lodare e far
comTava dall'intonaco, a squame di varia misura, di modo clie parecchie di
quelle i grandi, accartocciandosi, formavano altrettante sacche che si
riempivano con al- tre piccole squamette che vi cadevano dall'alto. Vuotare ad
una ad una le sac- che senza scuoterle, senza quasi toccarle, mediante una
pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza adatta, poi fare aderire le sacche
e le croste all'intorno, togliendone, con un certo liquido dal Cavenaghi
ideato, la polvere alla superficie, questo sostanzialmente fu il lavoro
paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi durò il Cavenaghi, rendendo più
tonica la fibra in isfacelo, facendole riac- quistare un po' di colorito, così
che il dipinto non debba peggiorare e possa vi- vere ancora a lungo, con
infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il Cavenaghi — sarà sempre un
organismo precario, e per le condizioni sue, pieno come è di cicatrici, e per
l'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è •stato pel Cenacolo Vinciano il
ristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e grandi manifestazioni di
gratitudine ed ammirazione sono state tributate all'assoluto disinterewse, pari
all'amore grande per l'arte, spiegati dal benemerito ristauratore, al quale
Caravaggio, sua terra natia, ha consacrato una targa artistica a memoria del
fatto; ed i cultori ed amatori d'arte, auspice Luca Beltrami, gli hanno conferita,
davanti al capolavoro vinciano, una bellissima medaglia d'oro. Il prof.
Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal Papa, in sostituzione 4el defunto prof.
Seitz, all'onorifico ufficio di direttore delle pinacoteche vaticane. prendere
la vita maravigliosa che il Cenacolo leonardesco chiude nella sua rovina. Come
la rovina d'ogni cosa grande, essa equivale ad una purificazione e ad una
apoteosi. Finche resterà un sol frammento della parete prodigiosa, finche un
sol disegno, una sola stampa, una sola fotografia, custodiranno un riflesso
lontano della sua bellezza, quella creazione del genio sarà per noi piìi
potente che se il tempo e gli uomini l'avessero rispettata in tutte le sue
parti caduche. E un errore credere che il tempo non rispetti i capolavori; e
noi molto spesso parliamo, spinti dall'abitudine, contro l'eterna verità delle
cose. Il tempo, artista maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio
umano. Dove sembrava che l'opera geniale sì fermasse, egli la continua,
mutilandola: dove appariva ciò che è chiuso e preciso, egli apre una via
infinita all' imaginazione; dov' era un aspetto freddo e muto della realtà,
egli fa nascere i segni del mistero. Ciò che sembra una distruzione e invece
una rivelazione e una consacrazione. E la natura che riprende l'umana opera
interrotta, che fa apparire la sua forza dove la mano dell'uomo cadde stanca, e
che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e si confuse, fa cantare le sue
eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il tempo soltanto per le sue rovine;
è necessario esaltarlo anche per tutte le opere d'arte che, in compagnia del
fato e della umana malvagità, ha impedito di compiere al genio umano. Alludo
principalmente alle cosi dette sculture non finite di Michelangelo e ad un
quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di Leonardo. Come i capolavori in
rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo da Vinci.Conti, Leonardo pittore
nella iiuiversalitìi della vita, i capolavori incompiuti seml)rano usciti da
poco dal seno stesso della natura. L'artista ne segnò l'imaginc non fra i
tormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno, obbedendo ad una volonth
oscura che per qualche istante abolì la sua volontà individuale. Poche tracce
di pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione d'una beata obbedienza, come
di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una esuberanza di vita uguale a
quella di cento uomini felici. * Mi limito a parlarvi del quadro di Leonardo,
oggi nella Galleria degli Uffizi, e che rappresenta l'Adorazione dei Magi. La
prima cosa che ci colpisce è il movimento. Noi sentiamo subito che il pittore
ha voluto rappresentare un avvenimento straordinario, un grande fatto della
natura e della vita. Quasi tutte le figure vanno, strisciano, accorrono verso
la parte centrale della rappresentazione, ove si fermano prostrate e come
atterrate dallo stupore e dalla maraviglia. Fra i gruppi in movimento, alcune
figure stanno diritte e immobili a guardare la scena. Nel centro una calma
assoluta. La Madonna vi appare seduta in una attitudine piena di grazia
materna, e sulle sue ginocchia il bambino si china e protende una mano per
toccare il 'dono che un vecchio genuflesso gli porge. Intorno si raccoglie e si
concentra tutto ciò che nel quadro raggiunge la maggiore intensità
d'espressione e la maggior forza di vita. Questi vecchi che vengono da lontano,
guidati dal mistero, sono una Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le più potenti
creazioni del genio umano. Tutta la scena, piena della loro commozione e del
loro sbigottimento, sembra irradiare come un vento di tempesta che, dall'anima
dei vecchi, giunga sino ai punti piti lontani del quadro. Ed ecco che noi
vediamo gli effetti dell'onda invisibile. Dietro il gruppo centrale è un
accorrere disordinato di gente: uno ha le mani levate e grida come per un
ignoto pericolo, un cavaliere non riesce a contenere lo spavento del suo
cavallo, altri gruppi di cavalli nel fondo appariscono spinti dalla furia d'una
battaglia; qua e là, sotto archi crollati, uomini che corrono e s'interrogano
ansiosi, altri che salgono discendono a frotte e smarriti per una gradinata. Si
sente che un grande avvenimento si compie, e per tutta l'ampia scena notturna è
diffusa l'atmosfera del miracolo, come in un giorno sereno la luce del sole
sulle campagne. E questa è appunto l'idea che Leonardo ha espressa nel suo
quadro con una potenza e una eloquenza suprema. Mai infatti, sino a questi
anni, la pittura aveva rappresentato il miracolo, mai lo stupore e il terrore
di ciò che sembra turbare le leggi della natura e far presentire agli uomini un
rinnovellamento del mondo, erano stati resi visibili nell'opera d'arte.
Leonardo, con questa composizione sintetica, con questo semplice suo disegno a
chiaroscuro, nel quale non un sol particolare h compiuto, è riuscito a
rappresentare il miracolo come non sarebbe stato possibile con l'opera piìi
meditata e più coscienziosamente finita. E la ragione mi sembra questa. Vi sono
idee e sentimenti che le arti plastiche non possono rappresentare se non con
mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che comiincmcnte si chiama V
incomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo meraviglioso dì espressione per il
genio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso che la natura adopera per
purificare e per consacrare nei secoli i capolavori degli uomini. In questi la
natura procede per eliminazione, nell'opera rimasta incompiuta il genio lavora
in uno stato di concentrazione suprema. Li^ Adorazione dei Magi non solo
rappresenta un miracolo; ma è essa stessa un'opera miracolosa. La notte che vi
si addensa è piena di luce per l'anima umana. Fra tutti i quadri della Galleria
degli Uffizi è il più vivo, il piìi drammatico e il più profondo per
significazione. Continuando per voi la enumerazione delle opere pittoriche
vinciane e per mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi dal tempo,
posso anche oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia, passerò a
parlare della Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi per lei
sola, il mio pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella pinacoteca
del Louvre, la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra. Nella sala
dei capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da Raffaello, da
Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di lei. Entro la
fioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo; vidi anche
il candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una pinacoteca non è
possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo piUore 93 come in una
chiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le collezioni dei
dipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare particolari, a cercare
note caratteristiche, e portano con sé libri e fotografie. Io, qnando mi
dispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn capolavoro, m'affatico a
togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato procedere con passo leggero
e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima semplice e serena. Sono
abituato a contemplare un quadro, come se fosse una costellazione. Nella notte
ir cielo è pieno di silenzio e le stelle splendono armonizzando ciascuna il suo
ritmo alla musica del cielo. Guardando gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, li
vidi palpitare in ritmo, in armonia con la musica del suo sorriso. Il quadro
m'era ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suo
studio fiorentino aspettava l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ella
entrava e si sedeva accanto alla finestra. In fondo apparivano le colline di
Fiesole, Monte Morello, l'Appennino lontano, e l'Arno serpeggiava scintillando
nel mattino, mentre le torri della città uscivano dalla nebbia al primo sole.
Anch'egli si sedeva, e, presa la lira d'argento che s'era fabbricata con le sue
mani, cominciava a cantare. La bella donna, udendo la laude melodiosa,
sorrideva, mentre l'Arno da lungi diveniva più ricco di scintille. Poi
cominciava a dipingere, e, dopo i primi tocchi una orchestra invisibile di
liuti riprendeva la canzone interrotta. La donna sorrideva in una calma regale:
i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta l'eredità delia specie, la
volontà della seduzione e dell'agguato, la grazia dell'inganno, la bontà che
cela un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo pittore posito crudele, tutto ciò
appariva alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel
poema del suo sorriso. Per un momento usci un raggio di sole; ed io die m'ero
allontanato dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La donna era viva dinanzi a
me, in tutta la sua vita reale e ideale. Buona e malvagia, crudele e
compassionevole, graziosa e felina, ella rideva, e il suo riso si prolungava
nel paese lontano e nell'anima mia; sino a darle l'oblio die viene dalla
presenza delle cose immortali. Pochi istanti dopo, il sole scomparve e la
penombra regnò nuovamente nella sala. Lì presso un sol quadro ardeva come una
lampada e in esso cantava, non affievolita, la musica del colore. Era la Festa
campestre: fra due donne nude, un suonatore di liuto svegliava alcuni accordi e
pareva che la Gioconda ne sorridesse come quando Leonardo cantava, per rendere
piìi intensa la sua vita e per tradurre col disegno la sua
misteriosa bellezza. Questo ritratto non esprime soltanto ciò che l'occhio
vede, ma è il riflesso d'una creatura amata da uno spirito che per oltre
quattro anni si affaticò a penetrarne a rivelarne la vita. Come dinanzi alla Gioconda,
Leonardo si pone dinanzi ad ogni cosa vivente col medesimo ardore di
conoscenza, con la stessa ansiosa curiosità e lo stesso desiderio invincibile
di fissarla con segni semplici e definitivi. Tutto questo poema della sua
anima, questo dramma intimo che si chiude in una alternativa di tentativi d'
espressione e di istanti di tregua contemplativa, di rapimenti e di lotte con
la sorda materia, d' ansietà e scoramenti e di calma trionfale, è raccontato
nei suoi disegni, che sono 1' immagine più completa della sua potenza non solo
intuitiva ma creativa. Per lo scultore il disegno è appena un segno, uno
scliema, un presentimento dell'opera futura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon
abbiamo altre parole per significare le notazioni figurative degli scultori; ma
esso non è se non un appunta ideale, un mezzo per ricordare un sentimento.
Ricordate i disegni di Michelangelo per le sue statue, ricordate gli odierni
disegni di Rodin per i suoi gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni,
benché esprimano una visione di movimento, non sono pittura e non sono scultura
perchè non illuminano una idea che potrà essere espressa, come chiaroscuro e
come colore sopra una superficie e che sia per apparire come forma nello
spazio. La scultura comincia soltanto col bozzetto in cera, in creta o in
gesso, cioè a dire quando V idea, destinata a manifestarsi come forma nasce a
somiglianza d'una cosa viva fra le altre cose viventi e sorge nello spazio,
nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggi del peso e chiusa nelle sue dimensioni.
Per parlare con esattezza, la scultura non ha disegno. Nella pittura il disegno
è tutto, è il primo segno che nota la visione ancora vaga sopra una superficie,
ed è il chiaroscuro e il colore che pili tardi la renderanno eloquente, che le
daranno una voce che parla e che canta, come in una musica e come in un poema.
Per Leonardo, genio universale, il disegno non è soltanto linguaggio pittorico,
ma è il mezzo adeguato d'espressione di tutto ciò che appare e che passa nel
suo pensiero, nella sua memoria, nella sua imaginazione e nella sua fantasia.
Tutti gli aspetti e tutti i momenti della multiforme ed inesaiiribilc attività
del suo spirito trovano la loro espressione negli innumerevoli disegni che egli
traccia in margine e fra le linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso
la superano con la loro potenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in
Leonardo il disegno ha avuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni
alla pittura alle pili lontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come
in Leonardo e giunto ad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di
concentrazione. I disegni di Leonardo non sono solamente una testimonianza del
suo amore per la natura, non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V
anima delle cose, ma principalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per
conoscere l'universo. Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi
di filosofìa, Leonardo disegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue
meditazioni, le sue osservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo
disegno contiene un segreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un
nuovo trionfo della indagine umana, è un lembo del mistero dell'universo
sollevato dal genio umano. Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere
ugualmente chiamato il mistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo,
lo sguardo meravigliato del fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la
quale, come afferma Bacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel
regno dei cieli. La differenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p
principalmente in questo: dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della
vita V uomo comune si abitua e finisce con l'abolire in se il senso della
maraviglia; le sue impressioni, invece d'avere sempre un carattere loro
proprio, invece d'es- Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X.
LA GIOCONDA. sere sempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si
attenuano, si affievoliscono; finche si adattano e si sottopongono al modo di
sentire individuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei
bisogni quotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se
stesso, è uno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il
genio invece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può
far discendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto della
famiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma che
vivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cose
e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ogni
mattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è
per Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le
sue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge di
filotassi; canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la legge
di risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede una
confessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono la
traduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle
cose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, è
figurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire,
dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne
verità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni
luce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci.
lii 98 un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera della penna, del
carbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui adoperato per
stringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il suo segreto.
Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il cammino che
deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in un suo
disegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una capigliatura,
ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a comprendere quelli
del volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di metterci in segreta
comunicazione con 1' anima e con la forza delle creature volanti. In questo
modo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di analogie, di forma
e di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il suono e la luce, e
paragonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delle
forze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale appariscono
come intuizioni le principali conquiste della scienza moderna, è figlia della
sua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoi
disegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa più
profonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altri
innumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti gli
altri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Pure
in questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare o
credere che quei segni corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore;
poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La sua
precisione non è il segno rigido e freddo fatto da una mano abile, ma è la
linea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai un
solo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sino
all'ultima parola. Infatti egli dice tutto; ma il suo linguaggio è come il mare
e come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vasta
come 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenza
d'espressione? In un modo semplice e grande: imitando la natura. L'imitazione
della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti e
mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura?
Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi la
maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitar
la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenire
come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modo
stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose.
Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di
Milano, di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo e
un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessi
intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due parole
dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapete
che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè? Volle forse Leonardo
coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire al
loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo non
dev'essere " solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca „, non
deve essere soltanto un " transito di cibo „ e avere della specie umana la
sola voce e la figura, e tutto il resto " essere assai manco che bestia „.
Il vero scopo della vita umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, per
conoscere il passato e la nostra dimora terrena; ecco il mezzo per vivere
nobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il tempo che fece piangere
Elena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i primi segni della
vecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il conoscere la sapienza
degli antichi e la vivente realtà delle cose presenti, ecco il decoro e l'
alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di conoscere? Questo e
per me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il sapere perchè
Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto di tanti fatti
della vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale del suo genio.
Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e della terra, nel
suo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è animato da curiosità
puramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla naturale tendenza
d'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione doni la gioia più
intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli si sottopone in
tutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi, per acquistare
una conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue innumerevoli
osservazioni, i suoi continui esperimenti sono i gradini che debbono condurlo
colà dove, entro una luce inestinguibile, appare l'eternità della vita. Soffrire
la disciplina del ragionamento e dell'esperimento per aver in fine, come
premio, la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più la sua
conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e
nuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura; ne vi fu mai al
mondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e più
ardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generato
dalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e
disegni alle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il
modo ch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che
la natura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua
stessa creazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni
hanno un'importanza assai maggiore del testo, può convincersi agevolmente di
questa verità e può anche comprendere (cosa che in questo momento deve
particolarmente interessarci) che quando Leonardo parla di anatomia o di
fisiologia, come nei così detti trattati che si vanno ora pubblicando, egli non
è mai un anatomico vero e proprio, ne un vero fisiologo, ma è sempre prima d'
ogni altra cosa e sopra ogni altra cosa pittore. Tutta la sua opera di scienza,
tutti i suoi disegni d'anatomia, d'embriologia, di botanica, non ser- vono se
non a rendere più vasta, più profonda e più ricca la sua visione pittorica
dell'uomo e della natura. La scienza non è se non un mezzo d'espressione della
sua visione del mondo, ed egli se ne giova per dare un carattere di precisa
realtà agli ardimenti del suo sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere
a creare ima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con
le stesse leggi con le quali la natura produce le sue forme: qual fanno le
cose. E doloroso che nella sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella
quale " non fu impedito „, come egli dice, " da avarizia o da
negligenza, ma solo dal tempo „, manchi irreparabilmente una fra le pagine piti
vive e più grandi: La Battaglia d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa
Maria Novella, a pochi passi dal luogo nel quale egli disegnò r opera
maravigliosa. Le campane che suonano nel campanile roseo al primo sole del
mattino, sembrano diffondere sul mio ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi
il lavoro fu compiuto, e immediatamente cominciata la pittura a fresco per la
sala del Consiglio in Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506.
Poi l'opera fu da lui abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora
nella sala del Papa, mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da
Michelangelo era nel Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti
all'ammirazione del mondo. Da queir anno manca ogni notizia. Della pittura
incominciata in Palazzo Vecchio si sa soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma
cadente a causa della cattiva preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito,
contro il mio solito, dati di fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca.
Se l'opera esistesse, il suo linguaggio renderebbe insostenibile la voce della
cronologia; ma poiché è perduta, ci è necessario contentarci delle parole di
chiunque ce ne parli. I due tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell'
episodio centrale della battaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece
Leonardo. Chi sa in qual modo maraviglioso e straordinario egli avrà
rappresentato la mischia, la furia guerresca intorno allo stendardo, che
sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio di scorci, quale evidenza di
movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale perfezione di cavalli, dei quali
egli conosceva la vita come nessuno dei suoi tempi ! Di tutto ciò nulla e
rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni traccia dell'opera scomparve, la
natura, per compensare il mondo, dovè creare una primavera favolosa, non veduta
mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e quando una bellezza è distrutta, sia
essa una selva che arda, un' isola che si sommerga, un capolavoro che cada in
rovina, la natura provvida fa nascere nuovi germogli, suscita nuove bellezze e
nuove energie, e la sua forza di creazione rimane intatta in virtii della sua
maggiore attività: il mutamento. Doctor Mysticus. Iride, mandata da
Giunone, scende sulla terra per consigliare TURNO a idare l’assalto al campo
troiano, finchè è assente ENEA. Turno, avendo provocato invano i Troiani
rinchiusi, pensa di dar fuoco alle navi, le quali si salvano per l’intervento
di Cibele che le trasforma in ninfe del mare. TURNO, interpretato.
favorevolmente quel portento, idispone l’accampamento. Durante la notte, NISO confida
ad EURIALO il’proponimento di andare in cerca d’ENEA. Ma Eurialo lo vuole
seguire. Ascanio e i capi li lodano, e prometton loro grandi doni. Entrati nel
campo dei Rùtuli, ne fanno strage. Ma quando, uski- tine, si avviano
per i boschi, sono scoperti da Volscente - che veniva con trecento
cavalieri di Laurento. Fuggono. NISO SI SALVA, MA EURÌALO È RAGGIUNTO ED UCCISO,
NONOSTANTE L’INTERVENTO DI NISO, TORNATO INDIETRO A SALVARE IL COMPAGNO. Le
teste recise dei due giovani, infilzate in una picca, son portate sotto il
campo troiano, fra i disperati lamenti della madre di Eurialo. Turno
assale i Troiani con grande strage. E poichè Numano insolentiva i nemici
vantando le virtù della stirpe italica, Ascanio compie il suo primo
eroismo idi guerra, e lo trafigge con una freccia.Pandaro e Bizia, fratelli,
tentano la riscossa lanciandosi sui Rùtuli; ma Bizia è ucciso da Turno,
che riesce a en- trare nel campo nemico, dove fa strage; finchè,
eopraf- fatto dalla folla dei Troiani, si salva lanciandosi armato a
nuoto nel Tevere. Atque ea diversa penitus dum parte geruntur, Irim de
caelo misit Saturnia Iuno audacem ad Turnum. Luco tum forte
parentis Pilumni Turnus sacrata valle sedebat. Ad quem sic roseo
Thaumantias ore locuta est: « Turne, quod optanti Divum promittere
nemo auderet, volvenda dies en attulit ultro. Aeneas urbe et sociis
et classe relicta sceptra Palatini sedemque petit Evandri. Nec
satis: extremas Corythi penetravit ad urbes 10 Lydorumque manum collectos
armat agrestes. Quid dubitas? nunc tempus equos, nunc poscere
currus. Rumpe moras omnes et turbata arripe castra. Dixit, et in caelum
paribus se sustulit alis ingentemque fuga secuit sub nubibus arcum.
A&novit iuvenis duplicesque ad sidera palmas sustulit ac tali
fugientem est voce secutus: « Iri, decus caeli, quis te mihi nubibus
actam detulit in terras? unde haec tam clara repente tempestas?
medium video discedere caelum palantesque polo stellas: sequor omina
tanta, quisquis in arma vocas. » Et sic effatus ad undam processit
summoque hausit de gurgite lymphas, multa Deos orans, oneravitque aethera
votis. lamque omnis campis exercitus ibat apertis 25 dives
equum, dives pictai vestis et auri. Messapus primas acies, postrema
céoercent Tyrrhidae iuvenes, medio dux agmine Turnus E mentre tutto
questo in ben diversa parte succede, Iride giù da cielo mandò la Saturnia
Giunone a Turno audace. Allora a caso sedeva Turno nel bosco dell’avo
Pilumno * entro alla sacra valle; e a lui con la rosea boc- ca la figlia
di Taumante * parlò: « Turno, quel che nes suno dei numi oserebbe
promettere al tuo desiderio, ec- co che il giorno che volge te l’offre
spontaneamente. Énea lasciò la città e i compagni e la flotta, ed è
salito alla reggia del Palatino ed alla sede di Evandro. Nè ba-
sta: è penetrato nell’ultime ville di Còrito *, e raccoglie ed arma
agresti schiere di Etruschi. Che indugi? Il tem- po è questo, è questo,
di chiedere i cocchi e i cavalli. Rompi ogni indugio, turba ed assali il
suo campo ». Dis- se, e nell’alto del cielo si alzò con le ali levate, e
nel fuggire segnò sotto le nubi un grande arco. La riconobbe il
giovane, e alzò ambe le palme alle stelle, e, mentr’ella volava, la
seguiva con queste parole. Ìri, ornamento del cielo, chi dalle nubi a me
ti fece discendere sopra la terra? E come mai, improvvisa, tanta
chiarezza di cie- lo? A mezzo vedo dischiudersi i cieli e in alto
vagare le stelle. Chiunque tu sia, che mi chiami alle armi, ob-
bedisco ad un tanto presagio ». E, così detto, al fiume si accostò, ed
attinse a fiore del gorgo le acque, molto pregando gli Dei, colmando il
cielo di voti. E già l’esercito intiero andava per le aperte
pianure, ricco di cavalli, ricco di vesti intessute nell’oro
(all’a- vanguardia è Messapo, ultimi vengono, i figli di Tirro ‘,
ed a capo del grosso sta Turno: s’avanza brandendo ie
LI [vertitur arma tenens et toto
vertice supra est]; ceu septem surgens sedatis amnibus altus
30 per tacitum Ganges, aut pingui flumine Nilus cum refluit
campis et iam se condidit alveo. Hic subitam nigro glomerari
pulvere nubem prospiciunt Teucri ac tenebras insurgere
campis. Primus ab adversa conclamat mole Caicus: Quis globus, o cives,
caligine volvitur atra? Ferte citi ferrum, date tela, ascendite
muros, hostis adest, heia. » Ingenti clamore per omnes
condunt se Teucri portas et moenia complent. Namque ita
discedens praeceperat optimus armis 40 Aeneas, si qua interea fortuna
fuisset, neu struere auderent aciem, neu credere campo;
castra modo et tutos servarent aggere muros. Ergo etsi conferre
manum pudor iraque monstrat, 6biciunt portas tamen et praecepta facessunt
armatique cavis exspectant turribus hostem. Turnus, ut ante volans
tardum praecesserat agmen viginti lectis equitum comitatus, et urbi
improvisus adest: maculis quem Thracius albis portat equus
cristaque tegit galea aurea rubra. Ecquis erit, mecum, iuvenes, qui primus in
hostem? En » ait et iaculum intorquens emittit in auras, principium
pugnae, et campo sese arduus infert. Clamorem excipiunt socii, fremituque
sequuntur horrisono; Teucrum mirantur inertia corda: 55 non aequo
dare se campo, non obvia ferre arma viros, sed castra fovere. Huc
turbidus atque huc lustrat equo muros aditumque per avia quaerit.
Ac veluti pleno lupus insidiatus ovili cum fremit ad caulas,
ventos perpessus et imbres, 60 nocte super media: tuti sub matribus
agni armi, e supera gli altri del capo); come tacito scorre
il Gange profondo, ingrossato da sette fiumi tranquil. li, o il Nilo
dalla pingue corrente, quando rifluisce dai campi e già se ne torna al
suo letto. Qui addensarsi una nube di negra polvere i Teucri scorgono all’improvviso,
e i campi oscurarsi; Caico, primo dalla torre di fronte, si mette a
gridare: « Che turbine, o cittadini, si aggira di negra caligine? Presto,
alle armi, recate le armi, sali- te alle mura! Ecco il nemico, olà! ». E
i Teucri con grande schiamazzo si afiollan per tutte le porte, e
col. man le mura. Giacchè così, nel partire, Enea, esperto di
guerra, aveva ordinato: se intanto si offriva una qual- che sorpresa, non
osassero uscire in ischiera nè accet- tare battaglia; solo, tenessero il
campo e 1 muri al ri- paro del vallo *. Or, benchè ira e vergogna li
spingano a dare battaglia, pure rinserran le porte, ed obbedisco-
no agli ordini, ed aspettano armati dentro le torri il ne- mico. Turno,
siccome volando davanti avea preceduto il tardo suo stuolo, con venti
cavalieri più scelti, ecco appare improvviso davanti alle mura: lo porta
un ca- vallo di Tracia pezzato di bianco, e il capo gli copre un
elmo d’oro con rosso il cimiero. « E chi sarà con me, o giovani, chi
primo incontro il nemico? Ecco! » esclama, e un dardo vibrando, lo lancia
per l’aure, segnale della battaglia, ed alto si avanza nel campo.
L'acclamano a gran voce i compagni, e con un grido lo seguono che
orribile suona: e stupiscono dei cuori inerti dei Teucri, e come non
escano in campo aperto e non cozzin le ar- mi con loro, ma stiano
accovacciati là dentro. Turno, ora qua ora là, esplora a cavallo le mura,
e cerca — ma impenetrabile è il luogo — un accesso. E come quan- do
un lupo che insidia l’ovile ricolmo, freme là presso al recinto, esposto
al vento e alla pioggia, nel cuor della 2balatum exercent, ille
asper et improbus ira saevit in absentes, collecta ‘fatigat edendi
ex longo rabies et siccae sanguine fauces; haud aliter Rutulo muros et
castra tuenti ignescunt irae, duris dolor ossibus ardet, qua tentet
ratione aditus et qua vi clausos excutiat Teucros vallo atque effundat in
aequor.. Classem, quae lateri castrorum adiuncta latebat, aggeribus
septam circum et fluvialibus undis, invadit sociosque incendia poscit
ovantes atque manum pinu flagranti fervidus implet. Tum vero
incumbunt (urget praesentia Turni), atque omnis facibus pubes accingitur
atris. Diripuere focos; piceum fert fumida lumen taeda et commixtam
Vulcanus ad astra favillam. Quis Deus, o Musae, tam saeva incendia
Teucris avertit? tantos ratibus quis depulit ignes? Dicite. Prisca
fides facto, sed fama perennis. Tempore quo primum Phrygia formabat in
Ida Aeneas classem et pelagi petere alta parabat, ipsa Deum fertur
genetrix Berecyntia magnum vocibus his adfata Iovem: « Da, gnate, petenti,
quod tua cara parens domito te poscit Olympo. Pinea silva mihi, multos
dilecta per annos; lucus in arce fuit summa, quo sacra ferebant,
nigranti picea trabibusque obscurus acernis. Has ego Dardanio iuveni, cum
classis egeret, laeta dedi: nunc sollicitam timor anxius angit.Solve
metus, atque hoc precibus sine posse parentem: 90 ne cursu
quassatae ullo neu turbine venti vincantur: prosit nostris in montibus
ortas. » Filius huic contra, torquet qui sidera mundi: « O
genetrix, quo fata vocas? aut quid petis istis? notte: sotto le
madri, al sicuro, vanno belando gli agnel- li, ed esso, inasprito e
feroce per l’ira, infuria contro i lontani; e lo tormenta la lunga rabbia
adunata del cibo con le fauci che han sete di sangue; — non
altrimenti nel Rùtulo, a guardare i muri ed il campo, ardono lire,
il dolore nell’ossa dure lo brucia: come tentare l’accesso, e come
scacciar con la forza i Teucri dal vallo e spar- gerli nella pianura.
Allora investe la flotta, che stava al riparo di fianco al campo, recinta
all’intorno dagli ar- gini e dall'onde del fiume, e invita all'incendio i
com- pagni esultanti, e furibondo impugna una fiaccola ar- dente;
ed essi si accaniscono all’opera: li sprona la pre- senza di Turno, e tutta
di negre faci la gioventù si for- nisce. Saccheggiano i focolari; le
torce fumose una luce spandon color della pece, e Vulcano lancia fumo e
fa- ville alle stelle. | Qual Dio, o Muse, un così fiero
incendio allontanò dai Troiani? chi discacciò dalle navi sì grandi fiamme?
Voi ditelo. Antica è la fede nel fatto, ma la sua fama è pe- renne.
Nel tempo che dapprima fabbricava nell’Ida di Frigia Enea la sua flotta e
si accingeva a prendere il mare infinito, dicono che essa stessa, la
Berecinzia * ma- dre dei numi, al gran Giove volgesse queste
parole: « Ascolta, o figlio, il mio prego, il primo che io, la tua
cara madre, ti chiedo, da quando domasti l'Olimpo. Ho una selva di pini,
da lunghissimi anni a me cara; ed era il sacro mio bosco sulla cima del
monte, ia dove si eser- citava il mio culto, di nereggianti abeti ombroso
e di alti tronchi di aceri. Ed io ben lieta li ho dati al dàr- dano
eroe, allorchè aveva bisogno di navi; ma ora il ti- more mi rende ansiosa
e sollecita: toglimi da questo af-. fanno, e fa che questo ottenga la
preghiera di una ma- dre: fa che non siano mai schiantate da viaggio
nes- 2Mortaline manu factae immortale carinae fas habeant?
certusque incerta pericula lustret Aeneas? cui tanta Deo permissa
potestas? Immo ubi defunctae finem portusque tenebunt Ausonios
olim, quaecumque evaserit undis Dardaniumque ducem Laurentia vexerit
arva, mortalem eripiam formam magnique iubebo aequoris esse Deas,
qualis Nereia Doto et Galatea secant spumantem pectore pontum. »
Dixerat, idque ratum Stygii per flumina fratris, per pice torrentes
atraque voragine ripas adnuit, et totum nutu tremefecit Olympum.
Ergo aderat promissa dies et tempora Parcae debita complerant, cum Turni
iniuria Matrem admonuit ratibus sacris depellere taedas. Hic primum
nova lux oculis effulsit, et ingens visus ab Aurora caelum transcurrere
nimbus Idaeique chori: tum vox horrenda per auras excidit et Troum
Rutulorumque agmina complet. « Ne trepidate meas, Teucri, defendere
naves, neve armate manus: maria ante exurere Turno, quam sacras
dabitur pinus. Vos ite solutae, ite Deae pelagi; genetrix iubet. » Et sua
quaeque continuo puppes abrumpunt vincula ripis delphinumque modo
demersis aequora rostris ima petunt: hinc virgineae (mirabile
monstrum) [quot prius aeratae steterant ad litora prorae] reddunt
se totidem facies pontoque feruntur. Obstupuere animis Rutuli,
conterritus ipse turbatis Messapus equis, cunctatur et amnis rauca
sonans revocatque pedem Tiberinus ab alto. At non audaci Turno fiducia
cessit; ultro animos tollit dictis atque increpat ultro: suno o da
turbinose tempeste; e a lor giovi sui nostri monti esser nate ». E a lei
di rincontro il figliuolo, che volge le stelle del cielo: « Madre, perchè
vuoi tu cam- biare il destino? e che cosa domandi per loro? Forse
che navi foggiate da mano mortale potranno avere una sorte immortale? Ed
Enea al sicuro affronterà i malsi- curi perigli? E quale dei numi ha così
grande potere? Bensì, quando compiuto il lor corso si fermeranno un
giorno nei porti d’Ausonia, qualunque ne sia scampata dall’onde ed abbia
portato il duce dardànio nei campi laurenti, io le toglierò la sua forma
mortale, e vorrò ch’elle sieno dee dell’ampie marine, come Doto e
Gala- tea nereidi, che fendono il mare spumante col petto ». Disse;
e giuratolo per il fiume dello stigio fratello * e per le sponde bollenti
di pece dall’atra voragine, cen- nò, ed al cenno, tutto fece tremare
l’Olimpo. Era dunque arrivato il giorno promesso, e avevan le
Parche compiuto il debito tempo, quando l'offesa di Turno indusse la
Madre a cacciar dalle sacre navi le fiaccole. Allora da prima una luce
novella agli occhi ri- fulse, e immenso fu visto trascorrere dall'Oriente
un nim- bo pel cielo, e con esso i cori dell’Ida: così tremenda una
voce cadde per l’aria, e le schiere riempì dei Troiani e dei Ruùtuli: «
Non vi affannate a difendere i miei na- vigli, o Troiani, e non afferrate
le armi: prima potrà ar- dere il mare, Turno, che bruciare i pini a me
sacri. È voi andatene sciolte, andatene, Dee del mare; la vostra
madre lo vuole ». E tosto ad una ad una ie poppe tron- can le corde dal
lido, e a guisa di delfini, tuffati i ro- stri, scendon nel fondo del
înare: e di qui (meraviglioso prodigio), quante prore di bronzo eran
state prima alla riva”, ricompaiono volti alirettanti di fanciulle, e si
av- vian sul mare. 2« Troianos haec monstra petunt, his
Iuppiter ipse auxilium solitum eripuit; non tela nec ignes
exspectant Rutulos. Ergo maria invia Teucris, 130 nec spes ulla fugae;
rerum pars altera adempta est; terra autem in nostris manibus: tot milia
gentes arma ferunt Italae. Nil me fatalia terrent, si
qua Phryges prae se iactant, responsa Deorum. Sat fatis Venerique
datum, tetigere quod arva 135 fertilis Ausoniae Troes. Sunt et mea
contra fata mihi, ferro sceleratam exscindere gentem,
coniuge praerepta; nec solos tangit Atridas iste dolor
solisque licet capere arma Mycenis. Sed periisse semel satis est;
peccare fuisset 140 ante satis penitus modo non, genus omne perosos
femineum? quibus haec medii fiducia valli fossarumque morae, leti
discrimina parva, dant animos. An non viderunt moenia Troiae
Neptuni fabricata manu considere in ignes? 145 Sed vos, o lecti,
ferro quis scindere vallum adparat et mecum invadit trepidantia
castra? Non armis mihi Vulcani, non mille carinis est
opus in Teucros. Addant se protinus omnes Etrusci socios. Tenebras
et inertia furta ; 150 [Palladii caesis summae custodibus arcis] ne
timeant; nec equi caeca condemur in alvo: luce palam certum est
igni circumdare muros. Haud sibi cum Danais faxo et pube
Pelasga esse putent, decimum quos distulit Hector in annum.
159 Nunc adeo, melior quoniam pars acta diei, quod superest,
laeti bene gestis corpora rebus procurate, viri, et pugnam sperate
parari. » Interea vigilum excubiis obsidere portas cura
datur Messapo et moenia cingere flammis.
Stupiron nel cuore i Rùtuli, atterrito è lo stesso Mes- sapo e i
suoi cavalli s'impennano; il Tiberino fiume an- cor esso s’indugia, rauco
‘sonando, e ritrae il piede dal ‘ mare. Ma non a Turno audace vien meno
l’ardire, chè anzi rianima 1 cuori coi detti e li garrisce così: «
Con- tro i Toiani, comparvero questi portenti; a loro, il so- lito
scampo lo stesso Giove ha strappato: non v'è più bisogno delle armi e dei
fuochi dei Rùtuli. Così i Teu- cri non hanno più vie sul mare nè alcuna
speranza di fuga: son tolte loro le acque, e la terra è in nostro
po- tere: tante migliaia di armati mandano l'itale genti! Non mi
atterriscono, no, i fatali responsi dei numi, di cui i Frigi si vantano.
Basti a Venere e ai fati, che della fertile Ausonia toccarono i campi i
Troiani. Ho i miei destini io pure: esterminar con la spada la scellerata
gente, poichè mi ha rapita la sposa; e un tale dolore non tocca soltanto
gli Atridi‘°, nè soltanto a Micene e lecito l’armi brandire. Ma esser
periti una volta, po- teva bastare; e non sarebbe bastato aver peccato
una volta, per odiar tutto il sesso femmineo? Certo, a lo- ro dan
forza il vallo interposto e dei fossati l’ostacolo, breve ritardo alla
morte. Ma non vider le mura di Troia — e le aveva costrutte Nettuno! —
ruinare in mezzo alle fiamme? Ora di voi, o eletti, chi si prepara a
rom- pere il vallo e ad assaltare con me gli accampamenti tremanti?
Non ho bisogno dell’armi, io, di Vulcano, e di mille carene, per
combattere contro i Troiani. E a loro si aggiungano pure alleati tutti
quanti gli Etru- schi. Le tenebre e gli assalti infingardi [del
Palladio, e dei custodi della rocca la strage]! non tornano essi,
chè noi non ci chiuderemo nel ventre oscuro del cavallo: alla luce,
all’aperto, circonderemo ie mura di fiamme. Io farò sì che non si credano
in guerra coi Dànai e con Bis septem Rutuli, muros qui
milite servent, delecti: ast illos centeni quemque sequuntur
purpurei cristis iuvenes auroque corusci. Discurrunt variantque vices
fusique per herbam indulgent vino et vertunt crateras aénos. Collucent
ignes: noctem custodia ducit insomnem ludo. Haec super e vallo
prospectant Troes et armis alta tenent, nec non trepidi formidine
portas explorant, pontesque et propugnacula iungunt, 170 tela
gerunt. Instant Mnestheus acerque Serestus, quos pater Aeneas, si quando
adversa vocarent, rectores iuvenum et rerum dedit esse magistros.
Omnis per muros legio, sortita periclum, excubat, exercetque vices, quod
cuique tuendum est. 175 Nisus erat portae custos, acerrimus armis,
Hyrtacides, comitem Aeneae quam miserat Ida venatrix iaculo celerem
levibusque sagittis; et iuxta comes Eurialus, quo pulchrior alter
non fuit Aeneadum Troiana neque induit arma, 180 ‘ ora puer prima signans
intonsa iuventa. © His amor unus erat, pariterque in bella ruebant;
tum quoque communi portam statione tenebant. Nisus ait: « Dine hunc
ardorem mentibus addunt, Euryale, an sua cuique Deus fit dira cupido?
189 Aut pugnam aut aliquid iamdudum invadere magnum mens agitat
mihi nec placida contenta quiete est. Cernis, quae Rutulos habeat fiducia
rerum. Lumina rara micant: somno vinoque soluti procubuere; silent
late loca. Percipe porro, _ 190 quid dubitem et quae nunc animo sententia
surgat. Aeneam acciri omnes, populusque patresque, exposcunt,
mittique viros, qui certa reportent. la gente Pelasga, che Ettore per ben
dieci anni tardò. Ora dunque, poichè è scorsa la parte migliore del
gior- no, quel tanto che avanza, lieti dei primi successi, con-
cedetelo, o prodi, a ristorarvi le membra, e aspettate che venga la pugna
». Frattanto si affida a Messapo di guar- dar con le scolte le porte !* e
di cinger le mura di fuo- chi. Due volte sette Rùtuli son scelti a
custodia dei mu- ri coi loro guerrieri; ed ognuno da cento armati è
se- guito, con cimieri purpurei ed armi che brillano d’oro. Corron
di qua e di là, si danno il cambio, e sdraiati su l'erba tracannano il
vino e lo versan dai crateri di bron- zo. Splendono i fuochi; e le
guardie passano la notte insonne giocando. - Di sopra al
vallo i Troiani stanno a osservare, e con l’armi guardan le mura, e così,
in fretta, per il timore, vanno studiando le porte, congiungon coi ponti
le torri, ammucchiano l’armi. Stanno su loro Mnèsteo ed il fiero
Seresto, che il padre Enea, se mai lo chiedesse il peri- colo, avea
destinati a guidare l’esercito e a governare lo stato. Tutti, lungo le
mura, al rischio che la sorte ha voluto, i guerrieri vegliano, n
scambiano i turni, secon- do che tocca ad ognuno. Niso era a custodia di
una por- ta, d’Irtaco il figlio, che, a compagno d’Enea, Ida aveva
sini la cacciatrice, ed era destro a gettare veloci saette; e accanto gli
era compagno Eurìalo, il più bello fra tutti gli Enèadi e quanti
vestivano l’armi troiane; fanciullo ancora, gli fioriva sulle gote
intonse la prima lanugine. Stretto un amore li univa, e insieme si
preci- pitavano in guerra; ed anche allora, compagni di scol- ta,
guardavan la porta. Niso disse: « M'ispirano forse gli Dèi questo mio
ardor nella mente, o Eurialo? o il suo fiero desìo diviene a ciascuno il
suo Dio? Già da gran tempo il mio cuore mi spinge alla pugna o a
ten- Si tibi quae posco promittunt (nam mihi facti fama sat
est) tumulo videor reperire sub illo 195 posse viam ad muros et moenia
Pallantea. » Obstupuit magno laudum percussus amore Euryalus: simul
his ardentem adfatur amicum: « Mene igitur socium summis adiungere
rebus, Nise, fugis? solum te in tanta pericula mittam? 200 non ita
me genitor, bellis adsuetus Opheltes, Argolicum terrorem inter Troiaeque
labores sublatum erudiit, nec tecum talia gessi > magnanimum
Aenean et fata extrema secutus. Est hic, est animus lucis contemptor et
istum 205 qui vita bene credat emi, quo tendis; honorem. » Nisus ad
haec: « Equidem de te nil tale verebar, nec fas, non: ita me referat tibi
magnus ovantem luppiter, aut quicumque oculis haec adspicit aequis.
Sed si quis (quae multa vides discrimine tali), 210 si quis adversum
rapiat casusve Deusve, te superesse velim: tua vita dignior aetas.
Sit, qui me raptum pugna pretiove redemptum mandet humo; solita aut si
qua id fortuna vetabit, absenti ferat inferias, decoretque sepulchro;
215 neu matri miserae tanti sim causa doloris, quae te sola, puer,
multis e matribus ausa persequitur, magni nec moenia curat Acestae.
» Ille autem: « Causas nequidquam nectis inanes, nec mea iam mutata
loco sententia cedit. 220 Adceleremus » ait. Vigiles simul excitat.
Illi succedunt servantque vices: statione relicta, ipse comes Niso
graditur, regemque requirunt. Cetera per terras omnes animalia
somno laxabant curas et corda oblita laborum; 225 ductores Teucrum
primi, delecta iuventus, a è o so pn
tare qualche gran fatto, e non sa placarsi a un tranquillo riposo. Tu
vedi quale fiducia s'è impadronita dei Rù- tuli. Rari lampeggiano i lumi;
immersi nel sonno e nel vino giacquero; tutto all’intorno è silenzio.
Odimi dun- que quello ch’io penso, ed il disegno che ora mi sorge
nel cuore. Tutti, il popolo e i padri, chiedon che Enea si richiami e gli
si mandino messi che gli raccontino il vero. Se mi promettono quello
ch’io chiedo per te (per mia parte, mi basta la gloria del fatto), credo,
la, sotto a quel colle, di ritrovare la via che mena del Pallantèo
alle mura ». Stupì, colpito da grande amore di gloria, Eurìalo; e con
queste parole si volge all’ardito compa- gno: « Niso, dunque rifuggi dal
prendermi teco all’im- presa sì grande? Ti lascerò andar solo in mezzo a
co- tanti perigli? Ah, non così mio padre, Ofelte assuefatto alle
guerre, fra lo spavento argolico ed i travagli di Troia mi allevò,
m’istruì; e non così mi mostrai accanto a te, nel seguire il magnanimo
Enea fino all’estreme fortune. C’è qui, c'è qui un animo che sa
disprezzare la vita, e crede che ben con la vita si acquisti questa
gloria che agogni tu pure ». E Niso di rincontro: « Non io certo dubitavo
di te, nè lo potrei, oh no: così a te mi riconduca in trionfo il grande
Giove o chiunque dall’alto ci guarda con occhio propizio. Ma se,
come spesso accade in rischi sì grandi, se un qualche caso, o un
Dio, mi tragga a morire, vorrei che tu rimanessi; ti dà più diritto alla
vita la tua giovinezza: e vi sia chi mi sottragga alla mischia o mi
ricompri al nemico per sotterrarmi, e se, come accade, lo vieterà la
fortuna, mi renda i funebri offici, anche lontano, e di un sepolcro
mi onori. Ah, ch’io non sia cagione di un sì grande dolore alla tua
povera madre, che sola, o fanciullo, fra tante madri osava seguirti, e
non ristette del grande 3 - Vircuro - Eneide - Vol. III
consilium summis regni de rebus habebant, quid facerent
quisve Aeneae iam nuntius esset. Stant longis adnixi hastis et
scuta tenentes castrorum et campi medio. Tum Nisus et una
‘230 Euryalus confestim alacres admittier orant: rem magnam,
pretiumque morae fore. Primus Iulus accepit trepidos ac Nisum dicere
iussit. Tunc sic Hyrtacides: « Audite o mentibus aequis,
Aeneadae, neve haec nostris spectentur ab annis, 235 quae ferimus. Rutuli
somno vinoque soluti conticuere: locum insidiis conspeximus
ipsi, qui patet in bivio portae, quae proxima ponto;
interrupti ignes, aterque ad sidera fumus erigitur; si fortuna
permittitis uti 240 quaesitum Aenean et moenia Pallantea, mox
hic cum spoliis ingenti caede peracta adfore cernetis. Nec nos via
fallet euntes: vidimus obscuris primam sub vallibus urbem
venatu adsiduo et totum cognovimus amnem. » 245 Hic annis
gravis atque animi maturus Aletes: « Di patrii, quorum semper sub
numine Troia est, non tamen omnino Teucros delere paratis,
cum tales animos iuvenum et tam certa tulistis pectora. » Sic
memorans umeros dextrasque tenebat 250 amborum et vultum lacrimis atque
ora rigabat: « Quae vobis, quae digna, viri, pro laudibus
istis, praemia posse rear solvi? pulcherrima primum Di
moresque dabunt vestri; tum cetera reddet actutum pius Aeneas atque
integer aevi 259 Ascanius, meriti tanti non immemor umquam. » «Immo
ego vos, cui sola salus genitore reducto, excipit Ascanius, per
magnos, Nise, Penates Assaracique Larem et canae penetralia Vestae
Aceste alle mura ». Ma quegli: « Tu indarno intessi i tuoi vani pretesti,
e il mio voler non si muta e non ce- de. Presto!» soggiunge. E risveglia
le scolte; queste subentrano al cambio; lasciata la guardia, ei
s’accom- pagna con Niso, e vanno in cerca del re. Gli altri
animali per tutte le terre placavan nel son- no i loro affanni nei cuori
dimentichi d’ogni travaglio; ma i duci primi dei Teucri, fior dei
guerrieri, tenevan consiglio sul grave momento del regno: che fare? e
chi mandar messaggero ad Enea? Stanno poggiati alle lun- ghe aste,
e reggon gli scudi, nel mezzo alla piazza del campo. Quand’ecco Niso, e
con lui Eurìalo, pronti, chie- dono d’essere uditi, subito: grande è la
cosa, e d’inter- rompere vale la pena. Iulo per primo li accolse
ansiosi, e a Niso ordinò di parlare. Così allora l’Irtàcide: «
Udite con menti benigne, o Enèadi; e quel che portiamo non lo
giudicate dagli anni. I Rùtuli, immersi nel sonno e nel vino, tacciono
tutti; noi, un luogo abbiam scorto, propizio alle insidie, che si scopre
là al bivio della porta ch’è prossima al mare. Son mezzo spenti i fuochi,
e cu- po il fumo si erge alle stelle; se ci lasciate tentare la
sorte a ricercare Enea e le mura del Pallanteo, presto qui con le spoglie
nemiche ed onusti di strage ci rive- drete tornare. E non smarriremo la
via: sotto le oscu- re valli, nelle continue cacce, vedemmo lassù la
città e tutto il fiume esplorammo ». Allora, grave d’anni, e maturo
di senno rispose Alete: «O Dei della patria, sotto il cui nume è ancor
Troia, certo voi non pensate di distruggere i Teucri del tutto, poi che
c'inviaste tali anime e petti sì fermi di giovani! ». Questo
dicendo, stringeva d’entrambi le spalle e le mani, rigando le
guance di pianto: « Oh, quale premio, o prodi, che de- gno premio per
questa impresa vi potremo noi dare? obtestor: quaecumque mihi fortuna fidesque
est, in vestris pono gremiis; revocate parentem, reddite
conspectum; nihil illo triste recepto. Bina dabo argento perfecta atque
aspera signis pocula, devicta genitor quae cepit Arisba, et
tripodas geminos, auri duo magna talenta, cratera antiquum, quem dat
Sidonia Dido. Si vero capere Italiam sceptrisque potiri
contigerit victori et praedae ducere sortem, vidisti quo Turnus equo,
quibus ibat in armis aureus: ipsum illum, clipeum cristasque
rubentes excipiam sorti, iam nunc tua praemia, Nise. Praeterea bis
sex genitor lectissima matrum corpora captivosque dabit, suaque omnibus
arma: insuper his, campi quod rex habet ipse Latinus, Te vero, mea
quem spatiis propioribus aetas insequitur, venerande puer, iam pectore
toto accipio, et comitem casus complector in omnes. Nulla meis sine
te quaeretur gloria rebus: seu pacem seu bella geram, tibi maxima
rerum verborumque fides. » Contra quem talia fatur Euryalus: « Me
nulla dies tam fortibus ausis dissimilem arguerit; tantum fortuna secunda
haud adversa cadat. Sed te super omnia dona unum oro: genetrix Priami de
gente vetusta est mihi, quam miseram tenuit non Ilia tellus
mecum excedentem, non moenia regis Acestae: hanc ego nunc ignaram huius,
quodcumque pericli est, inque salutatam linquo; nox et tua
testis dextera, quod nequeam lacrimas perferre parentis; at
tu, oro, solare inopem et succurre relictae. Hanc sine me spem ferre tui:
audentior ibo in casus omnes. » Percussa mente dedere
290 Il primo ve lo daranno, e il più bello, gli Dèi e le vo-
stre virtù; gli altri ben presto li avrete dal pio Enea e da Ascanio, il
giovinetto in fiore, che di un così gran- de servigio non sarà immemore
mai ». « Anzi io, sog- giunse Ascanio, che altra salvezza non ho se non
il ri- torno del padre, questo vi giuro, o Niso, per i grandi
Penati, per il lare di Assàraco e per l’altare della anti- chissima
Vesta: ogni mia sorte ed ogni mia speranza, in vostre mani io pongo;
riconducetemi il padre, fate che io lo riveda: se lo ricupero, nulla sarà
più triste per me. Due coppe vi darò, cesellate in argento e scol-
pite a bassorilievi, che il padre ebbe alla presa di Ari- sba; e due
tripodi, e due grandi talenti di oro, ed un cratere antico, dono della
sidònia Didone. Se poi vin- citore potrò prender l’Italia e tenere lo
scettro e sorteg- giare le prede, certo tu hai veduto quel destriero su
cui Turno veniva, e le ammi che lo vestivano d’oro: ebbene, quel
suo cavallo, e lo scudo e il cimiero vermiglio, li sottrarrò dal
sorteggio; fin d’ora è un tuo premio, o Niso. Inoltre, mio padre darà due
volte sei corpi di donne, fra le più belle, ed altrettanti prigioni, con
le sue armi ciascuno: e oltre a ciò, proprio i campi che or sono
del rege Latino. Te poi, che sei vicino a me per età, o venerando
fanciullo, con tutto il cuore ti accolgo, fin d’ora, e ti abbraccio,
compagno per ogni fortuna. Non cercherò per me gloria nessuna senza di
te; ed in pace ed in guerra, nei fatti e nelle parole, in te fiderò
sopra ognuno ». A lui di rincontro Eurìalo rispose così: « Non verrà mai
un giorno che mi palesi diverso da que- sto mio forte sentire: mi basta
che la fortuna di secon- da non muti in avversa. Ma sopra ogni altro
dono, solo una cosa t’imploro: ho una madre, della stirpe di Priamo
vetusta, che, misera, quando partii, non si fer- Dardanidae
lacrimas, ante omnes pulcher Iulus, atque animum patriae strinxit
pictetie imago. Tum sic effatur: 295 « Sponde digna tuis
ingentibus omnia coeptis; | namque erit ista mihi genetrix nomenque
Creusae solum defuerit, nec partum gratia talem parva manet.
Casus factum quicumque sequentur, per caput hoc iuro, per quod
pater ante solebat: 300 quae tibi polliceor reduci rebusque
secundis, haec eadem matrique tuae generique manebunt. »
Sic ait illacrimans: umero simul exuit ensem auratum, mira
quem fecerat arte Lycaon | Gnosius atque habilem vagina aptarat eburna.
305 Dat Niso Mnestheus pellem horrentisque leonis exuvias: galeam
fidus permutat Aletes. Protinus armati incedunt; quos omnis
euntes primorum manus ad portas iuvenumque senumque prosequitur
votis. Necnon et pulcher Iulus 310 ante annos animumque gerens curamque
virilem, multa patri mandata dabat portanda. Sed aurae omnia
discerpunt et nubibus irrita domant. Egressi superant fossas,
noctisque per umbram castra inimica petunt, multis tamen ante futuri
315 exitio. Passim somno vinoque per herbam corpora fusa vident,
arrectos litore currus, inter lora rotasque viros, simul arma
iacere, vina simul. Prior Hyrtacides sic ore locutus: «
Euryale, audendum dextra: nunc ipsa vocat res. 320 Hac iter est. Tu, ne
qua manus se attollere nobis a tergo possit, custodi et consule
longe. Haec ego vasta dabo et lato te limite ducam. »
Sic memorat vocemque premit; simul ense superbum Rhamnetem
adgreditur, qui forte tapetibus altis mò nella terra di Ilio nè fra le mura di
Aceste. Or io qui l’abbandono ignara di questo mio rischio, qual
che si sia, e insalutata: la notte e la tua destra mi sian te-
stimoni che io non potrei sostenere le lacrime della mia madre. Ma tu, te
ne prego, consola la misera, soccorrila, se resta sola. Lascia ch'io
porti meco questa speranza di te; poi, anderò più audace incontro ad ogni
ventura ». Commossi nel cuore i Dardànidi lagrimarono, il bel Iulo
anzi tutti, chè il cuore gli strinse il ricordo dell’a- more paterno. È
così disse: « Attenditi pur tutto quan- to si deve alla tua grande
impresa; chè essa sarà la mia madre, e soltanto il nome le mancherà di
Creusa: pic- colo dono, a colei che generò un tal figlio. Qualunque
si sia l’evento, per questo mio capo ti giuro sul quale soleva giurare
mio padre: quello che io ti promisi se tornerai vittorioso, alla tua
madre sarà serbato ed alla tua stirpe ». Così diceva piangendo, e dalla
spalla si tolse la spada d’oro che aveva foggiata con arte stu-
penda Licàone di Cnosso, scorrevole entro la guaina di avorio. Mnèsteo a
Niso donava di un irsuto leone la pelle e la apoglia, e il fido Alete scambia
il suo elmo con lui. Tosto s’avviano armati; e tutta ia schiera dei
grandi, giovani e vecchi, alle porte li accompagnan coi voti. E intanto
il bello Iulo, che ha cuore e senno virile, oltre l’età, affidava molti
messaggi al suo padre. Ma l’aura tutti li sperde inutili in mezzo alle
nuvole. Usciti, varcano i fossi, e per le ombre notturne ven- gbno
al campo fatale; ma prima, a molti daranno la morte. (Qua e là sparsi tra
il sonno ed il vino scorgono i corpi sull’erba, e i cocchi alzati sul
lido, e, tra le bri- glie e le ruote, giacere i guerrieri, e con loro le
armi, ed i vini con loro. Primo il figlio di Irtaco così disse: «
Eurìalo, qui bisogna osar con la destra: l’oecasione lo exstructus toto
proflabat pectore somnum, rex idem et regi Turno gratissimus augur;
sed non augurio potuit depellere pestem. Tres iuxta famulos
temere inter tela iacentes armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis
nactus equis, ferroque secat pendentia colla. Tum caput ipsi aufert
domino, truncumque relinquit sanguine singultantem; atro tepefacta cruore
terra torique madent. Necnon Lamyrumque Lamumque, et iuvenem
Sarranum, illa qui pluritha nocte 335 luserat, insignis facie, multoque
iacebat membra Deo victus: felix, si protinus illum
aequasset nocti ludum in lucemque tulisset. Impastus ceu
plena leo per ovilia turbans, suadet enim vesana fames, manditque
trahitque 340 molle pecus mutumque metu, fremit ore cruento.
Nec minor Euryali caedes; incensus et ipse perfurit, ac
multam in medio sine nomine plebem, Fadumque Herbesumque subit Rhoetumque
Abarimque ignaros, Rhoetum vigilantem et cuncta videntem, sed magnum
metuens se post cratera tegebat; pectore in adverso totum cui
comminus ensem condidit adsurgenti et multa morte recepit.
Purpuream vomit ille animam et cum sanguine mixta vina refert
moriens: hic furto fervidus instat. 350 lamque ad Messapi socios
tendebat: ibi ignem deficere extremum et religatos rite
videbat carpere gramen equos: breviter cum talia Nisus
(sensit enim nimia caede atque cupidine ferri. Absistamus, ait, nam lux inimica
propinquat. Poenarum exhaustum satis est, via facta per hostes. » Multa
virum solido argento perfecta relinquunt armaque craterasque simul
pulchrosque tapetas. vuole. Di qua è la via. Ora tu, perchè un qualche
drap- pello non ci si levi alle spalle, fa guardia e sta attento
all’intorno. Io qui farò largo, e ti guiderò per un ampio cammino >».
Così dice, poi smorza la voce; ed il superbo Ramnete con la sua spada
colpisce; ed egli, sui tappeti ammucchiati giacendo, dormiva lì a pieno
petto, rus- sando. Re egli pure, ed al re Turno il più grato degli
àuguri; ma non potè con la scienza profetica allontana- re la morte. Lì
presso, uccide tre servi che a caso gia- cevan fra l’armi, e lo scudiero
di Remo, ed il suo auri- ga sorpreso sott’essi i cavalli, e col ferro
taglia le gole rovescie. Poscia anche al signore tronca il capo, ed
il busto lascia singhiozzante nel sangue; intiepiditi la terra ed i
letti di negro sangue s’imbevono. E poi Là- miro, e Lamo, e il giovin
Sarrano, che fino a tardi la notte aveva giocato, bello di volto, e
giaceva vinte le membra dal vino: felice, se avesse giocato tutta la
notte ed infino all’aurora! Così un leone digiuno imperver- sando
tra gli ovili ricolmi — la fame rabbiosa lo istiga — sbrana e trascina la
greggia molle e per il terrore ammutita, e rugge con bocca sanguigna. Nè
minore è la strage d’EURÌALO; ardendo anch'egli infuria, e alla rinfusa
sorprende molta ignobile plebe, e Fado, ed Erbeso, e Reto, ed Abari,
inconsapevoli; Reto, era desto e tutto vedeva, ma per paura si stava
nascosto dietro un grande cratere: ma mentre si alzava, gli immerse fino
all’elsa nel petto la spada, e la ritrasse grondante di sangue. Ed
egli in un fiotto di porpora esala la vita, ed il vino, morendo, rigetta
col sangue. L’altro, più ardente, con- tinua la strage furtiva. E già si
volgeva ai compagni di Messapo; ivi vedeva languire gli ultimi fuochi, e
i ca- valli al guinzaglio, com’è uso, pascere l’erba, allorchè NISO,
che trascinato lo vide da brama soverchia di stra- EURYALVS phaleras Rhamnetis et aurea
bullis cingula (Tiburti Remulo ditissimus olim quae mittit dona
hospitio, cum iungeret absens, Caedicus; ille suo moriens dat
habere nepoti, post mortem bello Rutuli pugnaque potiti), haec
rapit, atque umeris nequidquam fortibus aptat. Tum galeam Messapi habilem
cristisque decorum induit. Excedunt castris, et tuta capessunt. Interea
praemissi equites ex urbe Latina, cetera dum legio campis instructa
moratur, ibant et Turno regi responsa ferebant, tercentum,
scutati omnes, Volscente magistro. 370 lamque propinquabant castris
murosque subibant, cum procul hos laevo flectentes limite
cernunt, et galea Euryalum sublustri noctis in umbra
prodidit immemorem, radiisque adversa refulsit. Haud temere
est visum. Conclamat ab agmine Vol. [scens: 375 « State, viri:
quae causa viae? quive estis in armis? quove tenetis iter? » Nihil
illi tendere contra; sed celerare fugam in silvas et fidere
nocti. Obiciunt equites sese ad divortia nota hinc
atque hinc,omnemque aditum custode coronant. Silva fuit, late dumis atque ilice
nigra horrida, quam densi complerant undique sentes,
rara per occultos lucebat semita calles. Euryalum tenebrae
ramorum onerosaque praeda impediunt, fallitque timor regione
viarum. NISVS abit: iamque imprudens evaserat hostes atque locos,
qui post Albae de nomine dicti Albani (tum rex stabula alta Latinus
habebat). Ut stetit et frustra absentem respexit amicum:
« Euryale infelix, qua te regione reliqui? ge, così brevemente. parlò: «
Fermiamoci, chè oramai la luce nemica si appressa. Li abbiamo puniti
abbastanza, e aperta in mezzo ai nemici è la via ». Lasciano lì
molte armi di guerrieri lavorate di argento massiccio, ed i crateri
insieme ed i belli tappeti. Eurìalo si toglie i fregi di Ramnete ed il
balteo dall’auree borchie, e, invano!, sugli omeri forti lo adatta. A
Rèmolo, il tiburtino, li aveva mandati una volta il ricchissimo Cèdico,
in segno di ospitalità ch’egli stringeva da lungi; e quegli moren-
do li diede al nipote, e, questo morto, i Rùtuli se ne im- padronirono in
guerra. Poi l’elmo di Messapo si cinge, agevole, e adorno di creste.
Escon dal campo e s’avvia- no in salvo. Frattanto i cavalieri
mandati innanzi dalla città di Latino, mentre i pedoni attendono armati
nella campa- gna, venivano per riportare al re Turno un responso:
trecento, tutti scudati, ed era lor duce Volscente. E già erano. presso
al campo e varcavan le mura, quando da lungi li scorgono che piegavano
verso sinistra; e l’elmo, nella penombra notturna tradì EURÌALO immemore,
a un raggio di luna splendendo. È non fu vana la vista. Grida dalla
sua schiera Volscente: « Fermi, voi! perchè siete in via? chi siete così
armati? e dove andate? ». Ma quelli non rispondono, anzi si affrettano in
fuga pei boschi e fidano nell’oscurità. 1 cavalieri si gettano di qua, di
là ai bivi ben noti, e tutte circondan di gnardie le uscite. Era
una selva spaziosa e orrida di nere querce e di pruni, densa da ogni
parte di sterpi; e tra le peste occulte, raro si apriva un sentiero.
L'ombre dei rami e il carico del bottino ritardavano Euriìalo, e il
timore gli fa smar- rire la via. Niso è fuggito; e di già, senza pensare
all’a- mico, altrepassati aveva i nemici ed i luoghi che poi dal
nome di Alba furon chiamati Albani (allora, v’era- Quaque sequar,
rursus perplexum iter omne revolvens fallacis silvae? » Simul et vestigia
retro observata legit dumisque silentibus errat. Audit equos,
audit strepitus et signa sequentum. Nec longum i in medio tempus,
cum clamor ad aures pervenit ac videt EURYALVM, quem iam manus omnis
fraude loci et noctis, subito turbante tumultu, Oppressum rapit et
conantem plurima frustra. Quid faciat? qua vi iuvenem, quibus audeat
armis eripere? an sese medios moriturus in hostes inferat, et pulchram properet
per vulnera mortem? Ocius adducto torquens hastile lacerto,
suspiciens altam Lunam, et sic voce precatur: Tu, Dea, tu praesens
nostro succurre labori, astrorum decus et nemorum Latonia custos: si qua
tuis umquam pro me pater Hyrtacus aris dona tulit, si qua ipse meis
venatibus auxi, supendive tholo aut sacra ad fastigia fixi:
hunc sine me turbare globum et rege tela per auras. Dixerat, et toto
conixus corpore ferrum conicit. Hasta volans noctis diverberat umbras,
et venit adversi in tergum Sulmonis, ibique frangitur, ac
fisso transit praecordia ligno. Volvitur ille vomens calidum de
pectore flumen frigidus et longis singultibus ilia pulsat. 415
Diversi circumspiciunt. Hoc acrior idem ecce aliud summa telum
librabat ab aure. Dum trepidant, it hasta Tago per tempus utrumque
stridens, traiectoque haesit tepefacta cerebro. Saevit atrox
Volscens nec teli conspicit usquam 420 auctorem nec quo se ardens immittere
possit. Tu tamen interea calido mihi sanguine poenas persolves
amborum » inquit: simul ense recluso i no i pascoli incolti del re
Latino). Come ristette, ed in- vano si volse a cercare l’amico: « O
infelice EURIALO, e dove mai t'ho lasciato? dove ti cercherò, ancor rifacendo
il cammino tortuoso per la selva fallace? ». E tosto nota e ricalca
all’indietro le tracce, ed erra silenzioso tra i pruni. Ode i cavalli,
ode lo strepito e i segnali degl’inse- guitori. E ben presto agli orecchi
un grido gli giunge; ed Eurìalo vede, cui già tutta quanta la schiera,
ingan- nato dal luogo e dal buio, turbato dall’improvviso tu-
multo, circonda ed incalza; ed invano ei tenta in mille modi la fuga. Che
fare? con quali forze, con quali armi tentar di salvare il fanciullo? O
non è meglio lanciarsi in mezzo ai nemici a morire, e bella cercare con
le fe- rite la morte? E subito, vibrando col braccio all’indie- tro
un lanciotto, guarda la Luna nell’alto e così le ri- volge una prece: «
Tu, dea, tu, propizia, nel nostro peri- glio soccorrici, o Latònia, onore
degli astri e delle selve custode, se mai ai tuoi altari doni per me ti
recò Irtaco, il padre, se mai con le mie cacce anch’io ne aggiunsi, e
li sospesi alla volta o li infissi ai sacri pinnacoli '*, lascia
che io disordini questa schiera, e guidami i dardi per l’aria ». Disse, e
con tutto il suo corpo puntando, lan- ciò il ferro. E l’asta volando
sferza le ombre notturne, e trapassa nel petto fino alle spalle Sulmone,
ed ivi si spezza, e attraversa, infittavi dentro, i precordi. Cade
di sella colui, vomitando un caldo fiume dal petto, gia freddo, ed
i fianchi gli scuotono lunghi singhiozzi. Guar- dano gli altri qua e la;
e Niso ne prende coraggio, e dall’altezza del capo, ecco, un altro dardo
librava. E, nella trepida attesa, l’asta attraversa stridendo a
Tago le tempia, e s’infigge tiepida in mezzo al cervello. Atro-
cemente infuria Volscente, chè non vede l'autore del eolpo per potersi
lanciare ardente contro di lui. « Eb- de ibat in EURYALVM.
Tum vero exterritus, amens conclamat Nisus, nec se celare tenebris .
amplius, aut tantum potuit perferre dolorem: « Me me, adsum qui feci, in
me convertite ferrum, o Rutuli! mea fraus omnis: nihil iste nec ausus,
nec potuit: caelum hoc et conscia sidera testor. Tantum infelicem nimium
dilexit amicum. Talia dicta dabat: sed viribus ensis adactus transabiit
costas et candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per
artus it cruor, inque umeros cervix collapsa recumbit: purpureus
veluti cum flos succisus aratro 435 languescit moriens, lassove papavera
collo demisere caput, pluvia cum forte gravantur. At NISVS ruit in
medios solumque per omnes Volscentem petit, in solo Volscente
moratur. Quem circum glomerati hostes hinc comminus spe {hbinc
440 proturbant. Instat non secius ac rotat ensem fulmineum,
donec Rutuli clamantis in ore condidit adverso et moriens animam abstulit
hosti. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus placidaque
ibi demum morte quievit. 445 Fortunati ambo! si quid mea carmina
possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae
Capitolii immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit.
Victores praeda Rutuli spoliisque potiti | 450 Volscentem exanimum
flentes in castra ferebant. Nec minor in castris luctus, Rhamnete
reperto exsangui, et primis una tot caede peremptis Sarranoque
Numaque. Ingens concursus ad ipsa corpora seminecesque viros tepidaque
recentem bene, tu pagherai intanto col caldo tuo sangue per am- bedue »
gridò; e, sguainata la spada, senz’altro si av- venta ad Eurìalo. Ma
allora, atterrito, fuor di sè, con un grido, non potè più celarsi nelle
tenebre Niso, e sopportare un sì grande dolore: « Me, me! Son qui,
so- no io il colpevole; in me rivolgete le armi, o Rùtuli! È mia
ogni frode; costui non osò, non poteva; pel cielo, lo giuro, e per le
consapevoli stelle. Sola sua colpa, che troppo amò l’infelice suo amico
». Così diceva; ma il ferro, vibrato con forza, attraversò le coste e
ruppe il candido petto. S'abbattè Eurìalo morendo, e per le mem-
bra leggiadre il sangue si spande, ed il collo si piega ab- bandonato
sopra le spalle: come quando un fiore pur- pureo che l’aratro ha reciso,
languisce morendo: o co- me quando i papaveri sul collo stanco la testa
piegano, se per caso li grava la pioggia. Ma Niso si slancia
nel mezzo, e solo, fra tutti, Volscente cerca, e sol di Volscente si cura. Gli
si affollano intorno i nemici, e d’ogni parte, da presso, lo ricaccia-
no; e nondimeno egli incalza ruotando la spada fulmi- nea, finchè la
piantò nella bocca del Rùtulo, che schia- mazzava, e, già morente, rapì
al nemico la vita. Poi. si gettò, crivellato di colpi sopra l’esanime
amico, ed ivi, infine, trovò in placida morte riposo. Fortunati
ambe- due! Se qualche valore ha il mio canto, giorno nessuno mai vi
torrà alla memoria dei tempi, finchè la stirpe di Enea terrà del
Campidoglio l’incrollabile rupe, e il padre della patria romana avrà qui
l'impero !. Vincitori i Rùtuli, con la preda e con le spoglie, pian-
gendo portavano esanime nell’accampamento Volscen- te. E non minore fu il
lutto nel campo, allorchè si sco- perse esangue Ramnete, ed insieme con
lui tanti duci uccisi alla strage, e Sarrano, e Numa; la folla si accalca caede
locum et plenos spumanti sanguine rivos. Agnoscunt spolia inter se
galeamque nitentem Messapi, et multo phaleras sudore receptas.
Et iam prima novo spargebat lumine terras Tithoni croceum linquens
‘Aurora cubile; iam sole infuso, iam rebus luce retectis,
Turnus in arma viros, armis circumdatus ipse, suscitat, aeratasque
acies in proelia cogit quisque suas, variisque acuunt rumoribus
iras. Quin ipsa arrectis (visu miserabile) in hastis praefigunt
capita et multo clamore sequuntur Euryali et Nisi. Aeneadae
duri murorum in parte sinistra apposuere aciem, nam dextera cingitur
amni, ingentesque tenent fossas et turribus altis stant maesti;
simul ora virum praefixa movebant, nota nimis miseris atroque fluentia
tabo. Interea pavidam volitans pinnata per urbem nuntia Fama
ruit, matrisque adlabitur aures EURYALI. At subitus miserae calor ossa
reliquit: excussi manibus radii revolutaque pensa. Evolat
infelix, et femineo ululatu, scissa comam, muros amens atque agmina
cursu prima petit, non illa virum, non illa pericli telorumque memor;
caelum dehinc questibus implet: 480 « Hunc ego te, EURYALE, adspicio?
tunc illa senectae sera meae requies, potuisti linquere
solam, crudelis? nec te, sub tanta pericula missum, adfari extremum
miserae data copia matri? Heu, terra ignota canibus data praeda
Latinis alitibusque iaces, nec te, tua funera mater produxi
pressive oculos aut vulnere lavi, veste tegens, tibi quam noctes festina
diesque ai loro corpi, e ai guerrieri moribondi, ed al luogo ancor
caldo di strage recente, ed al sangue schiumante che scorre in ruscelli.
Riconoscon fra loro le epoglie, e di Messapo il lucido elmo, e i fregi
con grande sudore riavuti. ! E già di nuova luce spargeva la
terra la prima Aurora lasciando il giaciglio croceo di Titone; già sorto
il sole, già scoperte le cose alla luce, Turno, già chiuso nell’armi,
chiama alle armi i guerrieri; ed ordina ognuno in battaglia le sue
schiere coperte dî bronzo, e raccontan- do il fatto ne acuisce gli
sdegni. Anzi, o miserabile vieta!, piantan sull’aste i capi, e li seguono forte
gridando, di EURIALO e di NISO. Gli Enèadi saldi sulla parte einistra dei
muri ordinan la resistenza — chè la destra è recinta dal fiume —, e
difendono gli ampi fossati e stan mesti in cima alle torri; e li sgomentano
i volti con- fitti dei due guerrieri, ahi troppo noti a loro infelici,
e gocciolanti di marcia e di sangue. Intanto messaggera la
Fama volando alata per la città spaventata va scorrendo, e agli orecchi
giunge del- la madre di Eurìalo. Subitamente il calore lasciò del-
l’infelice le ossa: le cade di mano la spola e rotolan giù i gomitoli.
Esce correndo la misera, e, come donna, ur- lando, stracciate le chiome,
folle, raggiunge di corsa le mura e le prime avanguardie; e non si cura,
essa, dei guerrieri e del rischio dell’armi, e il cielo riempie con
i suoi lamenti: « Così ti rivedo, o Eurialo? Ultimo ri- . poso alla mia
vecchiezza, o crudele, lasciarmi sola hai potuto? E non fu dato a tua
madre infelice parlarti l’ultima volta, quando movesti ad un rischio sì
grande? Ahi, in terra ignorata, preda ai cani latini ed agli uc-
celli tu giaci; ed io, tua madre, non ho seguito i tuoi resti mortali, e
non ti ho chiusi gli occhi e lavate le tue 4 - VircILI9 - Eneide -
Vol. III urgebam et tela curas solabar aniles. Quo
sequar? aut quae nunc artus avulsaque membra et funus lacerum tellus habet? hoc
mihi de te, nate, refers? hoc sum terraque marique secuta?
Figite me, si qua est pietas, in me omnia tela conicite, o Rutuli:
me primam absumite ferro: aut tu, magne pater Divum, miserere,
tuoque 495 invisum hoc detrude caput sub Tartara telo, quando
aliter nequeo crudelem abrumpere vita. » Hoc fletu concussi ariimi,
maestusque per omnes it gemitus; torpent infractae ad proelia vires.
Illam incendentem luctus Idaeus et Actor 500 Jlionei monitu et
multum lacrimantis Iuli corripiunt interque manus sub tecta
reponunt. At tuba terribilem sonitum procul aere canoro
increpuit; sequitur clamor, caelumque remugit. Accelerant acta pariter
testudine Volsci et fossas implere parant ac vellere vallum.
Quaerunt pars aditum et scalis ascendere muros, qua rara est
acies interlucetque corona non tam spissa viris. Telorum effundere
contra omne genus Teucri ac duris detrudere contis, 510
adsueti longo muros defendere bello. Saxa quoque infesto volvebant
pondere, si qua possent tectam aciem perrumpere: cum tamen
omnes ferre iuvat subter densa testudine casus. Nec iam sufficiunt;
nam, qua globus imminet ingens, 515 immanem Teucri molem volvuntque
ruuntque, quae stravit Rutulos late armorumque resolvit
tegmina. Nec curant caeco contendere Marte amplius audaces Rutuli,
sed pellere vallo missilibus certant. 520 Parte alia
horrendus visu quassabat Etruscam ferite, avvolgendoti poi nella veste
che, giorno e notte, per te, sollecita io tesseva, consolando al telaio i
miei affanni senili. Dove cercarti? Qual terra ha ora le tue membra
troncate e la tua lacera salma? Questo, o mio figlio, mi riporti di te?
Questo, questo, per terra e per mare, ho seguito? Me trafiggete, se in
voi è alcuna pietà; su me tutte l’armi scagliate, o Rùtuli; me
prima uccidete col ferro! E se no, abbimi misericordia tu, o gran
padre dei numi, e col tuo dardo scagliami questo mio capo odioso giù nel
profondo del Tàrtaro, se in al- tro modo non posso troncar questa vita
crudele ». Si consumarono i cuori a quel pianto, e mesto fra tutti
un singhiozzare si spande; si fiaccano infrante le forze dei
guerrieri; ma Attore e Idèo, per ordine di Ilionèo e di lulo molto
piangente, la presero, chè suscitava troppo dolore, ed a braccia la
riportarono in casa. Ma da lontano la tromba per il suo bronzo
canoro squillò con terribile suono; e la segue il grido di guerra e
ne rimbombano L cieli. Vengono i Volsci all'assalto, sotto la testuggin
‘!* serrati, e s'accingono a colmare le fosse e a svellere il vallo '”.
Altri cercano un varco per la scalata alle mura, là dove rada è la
schiera, e vi tra- luce meno spessa di eroi la corona. Dall’altra' parte
i Teucri rovesciano ogni sorta di dardi, e li ricacciano giù con le
lor dure picche; chè erano avvezzi a difen- dere in lunga guerra le mura.
E rotolavano in basso ad offesa pesanti macigni, per tentar di spezzare
la schie- ra coperta: ma questa, sotto la densa testuggine, sop-
porta ogni colpo. Ma ormai non possono più; chè lad- dove più folta e
perigliosa è la schiera, un masso im- menso i Troiani rotolano e piombano
giù, che per un ampio tratto schiacciò i Rùtuli e ruppe il riparo
di scudi. Allora non pensano più, i Rùtuli audaci, a farpinum et
fumiferos infert Mezentius ignes. At Messapus equum domitor Neptunia
proles, rescindit vallum et scalas in moenia poscit. Vos, o
Calliope, precor, adspirate canenti, 525 quas ibi tunc ferro strages, quae
funera Turnus ediderit, quem quisque virum demiserit Orco, et mecum
ingentes oras evolvite belli; let meministis enim, Divae, et memorare
potestis). Turris erat vasto suspectu et pontibus altis, 530
opportuna loco, summis quam viribus omnes expugnare Itali summaque
evertere opum vi certabant, Troes contra defendere saxis perque
cavas densi tela intorquere fenestras. Princeps ardentem coniecit
lampada Turnus 535 et flammam adfixit lateri, quae plurima vento
| corripuit tabulas et postibus haesit adesis. Turbati
trepidare intus frustraque malorum velle fugam. Dum se glomerant,
retroque residunt in partem, quae peste caret, tum pondere turris
procubuit subito, et caelum tonat omne fragore. Semineces ad
terram, immani mole eecuta, confixique suis telis et pectora
duro transfossi ligno veniunt. Vix unus Helenor et
Lycus elapsi, quorum primaevus Helenor, Maeonio regi quem serva Licymnia
furtim sustulerat vetitisque ad Troiam miserat armis,
ense levis nudo parmaque inglorius alba. Isque, ubi se Turni
media inter milia vidit, hinc acies atque hinc acies adstare
Latinas; ut fera, quae, densa venantum saepta corona, contra tela
furit seseque haud nescia morti inicit et saltu supra venabula fertur:
haud aliter iuvenis medios moriturus in hoetes guerra così al
coperto, ma lanciano dardi al nemico per discacciarlo dal vallo. In altra
parte, orrendo a vedersi, squassava la fiaccola etrusca '* Mesenzio, e
fuochi fu- manti lanciava. E intanto Messapo, il domator di
cavalli, prole nettunia, rompeva il vallo e chiedeva le scale a
salir sulle mura. Voi '’, o Calliope, ti prego, ispirate il mio
canto: quali stragi ivi col ferro, e che lutti Turno spargesse, e
chi ogni guerriero laggiù nell’Orco respinse; e meco il gran quadro
della guerra svolgete. Chè tutto voi ricordate, o Dee, e agli altri
ricordarlo potete. °° V’era una torre, altissima a guardarla dal
basso, con erti ponti, opportunamente disposta; e tutti con ogni
forza lottavano gli Itali per espugnarla, e con estrema | violenza
tentavan di abbatterla: ma di rincontro i Tro- iani fitti la difendevan
coi sassi e scagliavano dardi pei vani delle finestre. Primo Turno lanciò
una fiaccola ar- dente, e nel fianco vi confisse una fiamma, che, nutrita
dal vento, invase le tavole, e alle imposte corrose si apprese.
Spaventati, quelli di dentro, si scompigliano, e invano cercan fuggendo
lo scampo. E mentre si affol- lano, e s’arretrano in una parte ancora
illesa dal fuo- co, allora a quel peso la torre improvvisamente si
schian- ta, e tutto a quel fragore il cielo rintuona. A terra semi-
vivi, sotto l'enorme mole, cadono, dalle lor armi trafitti o trapassato
il petto dal duro legno. Due soli appena, Elènore e Lico, scamparono; dei
quali il giù giovine, Elènore, Licinnia, una schiava, avea generato ad un
re Meonio con amore furtivo: e, con armi vietate ?!, a Troia
l’aveva mandato, alla leggera, con sola la spada, oscuro, e con un
semplice scudo. Ma egli, come si vide in mezzo ai mille di Turno, e
d’ogni parte incalzarlo schiere e schiere latine: come una belva che
cinta da un denso irruit et, qua tela videt densissima tendit. 559
At pedibus longe melior Lycus inter et hostes inter et arma fuga
muros tenet altaque certat prendere tecta manu sociumque attingere
dextras. Quem Turnus, pariter cursu teloqye secutus, increpat
his victor: « Nostrasne evadere, demens, 560 sperasti te posse manus? »
simul arripit ipsum pendentem, et magna muri cum parte revellit:
qualis ubi aut leporem ‘aut candenti corpore cycnum sustulit alta
petens pedibus Iovis armiger uncis, quaesitum aut matri multis balatibus
agnum 965 Martius a stabulis rapuit lupus. Undique clamor tollitur;
invadunt et fossas aggere complent; ardentes taedas alii ad
fastigia iactant. Ilioneus saxo atque ingenti fragmine montis
Lucetium portae subeuntem ignesque ferentem, : 570 Emathiona Liger,
Corynaeum sternit Asylas, hic iaculo bonus, hic longe fallente
sagitta; Ortygium Caeneus, victorem Caenea Turnus,
Turnus Ityn Cloniumque, Dioxippum Promolumque et Sagarim et
summis stantem pro turribus Idam: Privernum Capys. Hunc primo levis hasta
Themillae strinxerat; ille manum proiecto tegmine demens ad
vulnus tulit; ergo alis adlapsa sagitta et laevo infixa est lateri
manus abditaque intus spiramenta animae letali vulnere rupit. Stabat in
egregiis Arcentis filius armis, pictus acu chlamydem et ferrugine
clarus Ibera, insignis facie, genitor quem miserat Arcens eductum
Matris luco Symaethia circum flumina, pinguis ubi et placabilis ara
Palici. Stridentem fundam, positis Mezentius hastis ipse ter
adducta circum caput agit habena, cerchio di cacciatori, infuria contro le
armi, e conscia si slancia a morire, e con un balzo sopra gli spiedi
si lancia, non altrimenti il giovane morituro si getta nel mezzo ai
nemici, e, dove vede più folte le armi, là ten- de. Ma, più veloce alla
corsa, Lico, fra i nemici e fra l’armi fuggendo è già presso alle mura, e
cerca di af- ferrarsi là al sommo, e di aggrapparsi alle mani dei
com- pagni;. ma Turno, a corsa, e con l’armi, lo segue e lo giunge,
e, vincitore, l’oltraggia: « Folle, sperasti tu dun- que dalle mie mani
scampare? » e sì dicendo lo affer- ra penzoloni e lo svelle con una gran
parte del muro: come quando una lepre o un cigno dal candido corpo
si porta nell’alto l’armigero di Giove °° con piedi arti- gliati, o come
quando il marzio lupo rapisce dalla stal- la un agnello, e lo cerca con
lunghi belati la madre. Si alzan da ogni parte le grida; vanno
all’assalto, e col. man di terra i fossati; altri fiaccole ardenti
lanciano verso le cime. Ilioneo con un sasso, un enorme pezzo di
monte, abbatte Lucezio, che già era sotto alla porta per appicarvi il
fuoco; Lìgero atterra Emazione: Asila, Corineo; l’uno valente nell’asta,
l’altro nel dardo che coglie da lungi. Cèneo uccide Ortigio; e Turno, il
vin- citore Cèneo; Turno, Iti e Clònio e Diossippo e Pròmolo e
Sàgari e Ida, che guardava le altissime torri. Capi uccise Priverno.
L’aveva sfiorato da prima lievemente la lancia di Temilla; ed egli,
gettato lo scudo, folle por- tò la mano alla ferita: e allora, volando,
una freccia gli piantò nel fianco sinistro la mano, ed entrando gli
rup- pe con mortale ferita i polmoni. Stava nell’armi egre- gie il
figlio di Arcente, con ricamata la clàmide, spleu- dente di porpora ibèra
#, bello di aspetto, che il padre Arcente aveva mandato; ed allevato lo
aveva di Cibele nel bosco, presso alle correnti del Simeto, là dove
è et media adversi liquefacto tempora plumbo diffidit ac multa
porrectum extendit harena. Tum primum bello celerem intendisse
sagittam dicitur, ante feras solitus terrere fugaces, Ascanius,
fortemque manu’ fudisse Numanum cui Remulo cognomen erat, Turnique
minorem germanam nuper thalamo sociatus habebat. Is primam ante
aciem digna atque indigna relatu vociferans, tumidusque novo praecordia
regno ibat et ingentem sese clamore ferebat: « Non pudet obsidione
iterum valloque teneri, bis capti Phryges, et morti praetendere
muros? En qui nostra sibi bello conubia poscunt! Quis Dens Italiam,
quae vos dementia adegit? Non hic Atridae nec fandi fictor Ulixes:
durum ab stirpe genus natos ad flumina primum deferimus saevoque gelu
duramus et undis: venatu invigilant pueri silvasque fatigant,
flectere ludus equos et spicula tendere cornu. At patiens operum parvoque
adsueta iuventus aut rastris terram domat aut quatit oppida bello.
Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum terga fatigamus hasta; nec
tarda senectus debilitat vires animi mutatque vigorem; canitiem galea
premimus, semperque recentes comportare iuvat praedas et vivere
rapto. Vobis picta croco et fulgenti murice vestes, desidiae cordi;
iuvat indulgere choreis, . et tunicae manicas et habent redimicula
mitrae. O vere Phrygiae, neque enim Phryges, ite per alta Dindyma,
ubi adsuetis biforem dat tibia cantum. Tympana vos buxusque vocant
Berecyntia matris Idaeae: sinite arma viris et cedite ferro. »
pingue di doni e mite l’altar di Palìco **. Posate le aste, tre volte
rotando la fune al suo capo, Mesenzio stesso lanciava la fionda
stridente; e con il piombo disciolto *. gli ruppe nel mezzo le tempie, e
lo rovesciò lungo di- steso sul suolo. Dicon che allora, la
prima volta scagliasse in guerra il suo agile dardo Ascanio, già
assuefatto a spaventare in fuga le fiere, e di sua mano abbattesse il
forte Numano, Rèmolo detto, che aveva da poco sposata la sorella minore di
Turno. Quegli, davanti a tutti, vociferando a diritto e a rovescio, gonfio nel
cuore della fresca real parentela, andava avanzando borioso gridan- do: «
E non vi vergognate, o Frigi acchiappati due vol. te, di stare un’altra
volta dentro ad un vallo assediati, e di opporre alla morte le mura?
Eccoli, quelli che chie- dono le nostre spose con l’armi! Qual Dio vi ha
spinti in Italia o quale vostra follia? Non sono qui gli Atridi, nè
Ulisse spacciatore di frottole. Dura razza fin dalla ra- dice, i nostri
figli tuffiamo appena nati nei fiumi, e li induriamo al crudo gelo
dell’onde. Fanciulli, si danno alle cacce e stamcan le selve, ed è lor
gioco domare ca- valli e tender dall'arco le frecce. Poi, pazienti al
lavoro e paghi di poco, i giovani doman la terra coi rastri, o
scrollano in guerra le mura. Ogni età si consuma tra il ferro, e con
l’asta a rovescio pungiamo le terga dei buoi; nè la vecchiaia, ancor
tarda, indebolisce le forze del- l’animo o ne muta il vigore; premiamo
con l’elmo i ca- pelli canuti, e sempre ci giova portar via prede
novelle e vivere della rapina. Ma voi amate le vesti dipinte di
croco e di porpora splendida; vi piace badare alle dan- ze, con tuniche
adorne di maniche e mitre guarnite di nastri. O veramente Frige, e non
Frigi, andate per l’alto del Dìndimo ?‘, dove solete ascoltare il canto
del flauto Talia iactantem dictis ac dira canentem non tulit
Ascanius, nervoque obversus equino intendit telum, diversaque bracchia
ducens constitit, ante lovem supplex per vota precatus: « Iuppiter
omnipotens, audacibus adnue coeptis, = 625. ipse tibi ad tua templa feram
sollemnia dona et statuam ante aras aurata fronte iuvencum,
candentem, pariterque caput cum matre ferentem, iam cornu petat et
pedibus qui spargat harenam. » Audiit et caeli genitor de parte serena
intonuit laevum, sonat una fatifer arcus. Effugit horrendum stridens
adducta sagitta perque caput Remuli venit et cava tempora ferro
traicit. « I, verbis virtutem illude superbis! bis capti Phryges haec
Rutulis responsa remittunt. Hoc tantum Ascanius. Teucri clamore
sequuntur, laetitiaque fremunt animosque ad sidera tollunt.
Aetheria tum forte plaga crinitus Apollo desuper Ausonias acies urbemque
videbat, nube sedens, atque his victorem affatur Iulum: 640 « Macte
nova virtute, puer: sic itur ad astra, Dis genite et geniture Deos. Iure
omnia bella gente sub Assaraci fato ventura resident: nec te Troia
capit. » Simul haec effatus ab alto aethere se mittit, spirantes dimovet
auras, 645 Ascaniumque petit. Forma tum vertitur oris antiquum in
Buten. Hic Dardanio Anchisae armiger ante fuit fidusque ad limina
custos. Tum comitem Ascanio pater addidit. Ibat Apollo omnia
longaevo similis, vocemque coloremque 650 et crines albos et saeva
sonoribus arma; atque his ardentem dictis adfatur Iulum: « Sit
satis, Aenide, telis impune Numanum a due canne. Vi chiamano i timpani del
Berecinto e il flauto di bosso della gran Madre idèa; lasciate agli
uo- mini l’armi e rinunciate alla guerra ». Le vanterie e gli
insulti non tollerò Ascanio, e men- tr’egli sbraitava, di fronte a lui
incoccò sul nerbo equi- no °° una freccia, e con le braccia aperte stiè
fermo, pri- ma levando a Giove, supplichevole, il voto: « O Giove
onnipotente, consenti all'audace mia impresa. Ed io solenni doni ti
recherò ai tuoi templi, ed agli altari un giovenco t'immolerò, dalle
corna dorate, candido, che porti il capo alto al par della madre, e già
cozzi e coi piedi sparga all’intorno l’arena ». L’udì il Padre, e
dalla plaga serena del cielo tuonò da sinistra: ed insieme ri-
suonò il suo arco fatale. OCrribilmente stridendo fuggì la scagliata
saetta, e dentro il capo di Rèmolo s’infisse e trapassò col ferro le
concave tempia. « Va, schernisci il valore con le parole superbe! I
Frigi, due volte acchiap- pati, questa risposta ai Rùtuli inviano ». Nè
altro disse Ascanio; ma i Teucri lo applaudon gridando, e fremon di
letizia, ed alzano il cuore alle stelle. Proprio allora, dall’alto del
cielo Apollo crinito stava mirando le schie- re ausonie ed il campo,
seduto sopra una nube; e a Iulo vittorioso volgeva queste parole: « Bene,
o valoroso fanciullo! Così si ascende alle stelle, o progenie di
nu- mi che dovrai generare altri numi. Ben tutte le guerre future,
per volere dei fati, sotto la stirpe di Assàraco dovranno aver fine °°:
troppo poco è Troia per te ». Ciò detto, dall’alto dell’etere si getta, e
fende le aure vitali, e viene ad Ascanio, mutando l’aspetto del volto in
quello di Bute, l’anziano. Questi già era stato di Anchise dar-
danio scudiero e fido custode alle soglie. Poscia il padre lo diede
compagno ad Ascanio; ed Apollo veniva simile in tutto a quel vecchio, la
voce, il colore, i capelli canoppetisse tuis: primam hanc tibi magnus
Apollo concedit laudem et paribus non invidit armis:cetera parce,
puer, bello. » Sic orsus Apollo mortales medio adspectus sermone
reliquit, et procul in tenuem ex oculis evanuit auram.
Agnovere Deum proceres divinaque tela Dardanidae,
pharetramque fuga sensere sonantem.Ergo avidum pugnae dictis ac numine
Phoebi Ascanium prohibent: ipsi in certamina rursus
succedunt animasque in aperta pericula mittunt. It clamor
totis per propugnacula muris: intendunt acres arcus amentaque
torquent. 665 Sternitur omne solum telis; tum scuta cavaeque
dant sonitum flictu galeae; pugna aspera surgit; quantus ab
occasu veniens pluvialibus Haedis . verberat imber humum: quam
multa grandine nimbi in vada praecipitant, cum Iuppiter horridus
Austris torquet aquosam hiemem et caelo cava nubila rumpit. Pandarus et
Bitias, Idaeo Alcanore creti, quos Iovis eduxit luco silvestris
Iaera abietibus iuvenes patriis et montibus aequos,
portam, quae ducis imperio commissa, recludunt, freti armis, ultroque
invitant moenibus hostem. Ipsi intus dextra ac laeva pro turribus
adstant, armati ferro et cristis capita alta corusci: quales
aériae liquentia flumina circum, sive Padi ripis Athesim seu
propter amoenum, 680 consurgunt geminae quercus intonsaque caelo
| attollunt capita et sublimi vertice nutant.
Irrumpunt, aditus Rutuli ut videre patentes. Continuo
Quercens et pulcher Aquicolus armis et praeceps animi Tmarus et
Mavortius Haemon agminibus totis aut versi terga dedere, didi e l’armi
ferocemente sonanti: ed all’ardente Iulo si volge con queste parole: « Ti
basti, o figliuolo d’E- nea, che sia caduto Numano per il tuo colpo e
senza tuo male; questa prima lode a te il grande Apollo concede, e
non t’invidia se tu lo eguagli nell’ arco; ma d’ora in poi, o fanciullo,
astieniti dal guerreggiare ». Così di- cendo Apollo, a mezzo il discorso
lasciò l'aspetto mor- tale e lontano svanì dagli occhi nell’aria leggera.
Rico- nobbero il Dio gli anziani dei Dàrdani, e l’armi divine, e
sentiron sonare, mentr'egli fuggìa, la faretra. Onde ai detti e al volere
di Febo allontanavano. Ascanio, avi- do ancora di pugna; ritornano essi a
combattere, ed espongono nell’aperto periglio la vita. S'alza da
tutte le mura per tutte le torri un clamore: tendono gli ar- chi
gagliardi e lanciano i giavellotti. Il suolo tutto si copre di strali; ai
colpi risuonan gli scudi e i concavi elmi; insorge dura la pugna. Così al
venir da ponente, sotto i Capretti piovosi °°, sferza la pioggia la
terra; così con la grandine precipitano i nembi sul mare, quando
orrido Giove con gli Austri turbina l’acque a diluvio, e nel cielo le
concave nubi dirompe. Pàndaro e Bizia, da Alcànore Idèo generati,
che nel bosco di Giove allevòo la silvestre Ièra *, giovani pari
agli abeti dei monti paterni, apron la porta, che il duce aveva a loro
affidata, fiduciosi nell’armi, e il nemico provocano a entrar nelle mura. Ed
essi là dentro, a destra e a sinistra, si rizzano a guisa di torri, di
ferro armati, e corruschi gli erti capi di creste; come aeree
lunghesso 1 fiumi correnti, sulle sponde del Po o presso l'Adige
ameno, sorgon due querce gemelle, e innalzano le chio- me intonse nel
cielo, con le cime sublimi ondeggiando. Irrompono i Ruùtuli, poi che
videro aperte le porte; ma tosto Quercente e Aquìcolo bello nell’armi e
Tmaro aut ipso portae posuere in limine vitam. Tum magis increscunt
animis discordibus irae: et iam collecti Troés glomerantur eodem et
conferre manum et procurrere longius audent. 690 Ductori Turno
diversa in parte furenti turbantique viros perfertur nuntius,
hostem fervere caede nova et portas praebere patentes. Deserit
inceptum atque immani concitus ira Dardaniam ruit ad portam fratresque
superbos. 695 Ét primum Antiphaten (is enim se primus agebat), *
Thebana de matre nothum Sarpedonis alti, coniecto sternit iaculo: volat
Itala cornus aéra per tenerum, stomachoque infixa sub altum pectus
abit: reddit specus atri vulneris undam 700 spumantem, et fixo ferrum in
pulmone tepescit. Tum Meropem atque Erymanta manu, tum sternit
[Aphidnum: ‘tum Bitiam ardentem oculis animisque
frementem, non iaculo (neque enim iaculo vitam ille dedisset). Sed
magnum stridens contorta phalarica venit,, 705 fulminis acta modo, quam
nec duo taurea terga nec duplici squama lorica fidelis et auro
sustinuit. Collapsa ruunt immania membra. Dat tellus gemitum, et clipeum
super intonat ingens. Talis in Euboico Baiarum litore quondam 710
saxea pila cadit, magnis quam molibus ante constructam ponto iaciunt; sic
illa ruinam prona trahit penitusque vadis illisa recumbit; miscent
se maria et nigrae attolluntur harenae; tum sonitu Prochyta alta tremit,
durumque cubile 715 Inarime Iovis imperiis imposta Typhoeo.
Hic Mars armipotens animum viresque Latinis addidit et stimulos
acres sub pectore vertit l’impetuoso ed il marziale Emone, con tutte le
schiere, o volser fuggendo le spalle, o sulla soglia stessa della
porta lasciaron la vita. Allora crescon vie più nei cuori discordi le
ire; e già ammassati i Troiani si stringon colà, ed osan venire alle mani
e avanzarsi fuori più lungi. Al duce Turno, che in altra
parte infuriava e sgomi- nava i guerrieri, giunge la nuova: il nemico
arde di strage novella, e aperte si offron le porte. Lascia l’im-
presa e spinto dall’ira tremenda, contro la porta darda- nia si scaglia e
i fratelli superbi. E per il primo Antifate (poichè avanzava pel primo) di
madre tebana ba- stardo di Sarpèdone alto, colpisce ed abbatte col
dardo: vola il corniolo italico *' per l’aria leggera, e piantatosi
in gola scende nel fondo del petto; sgorga dalla caver- na della negra
ferita un'onda spumante, e nel polmone trafitto intiepidisce il ferro.
Poi Mèrope ed FErimante abbatte, poi Afidno, poi Bizia che Iampeggiava
con gli occhi e con il cuore fremeva; ma non con un dardo, chè
quegli con un dardo non dava la vita! Ma fortemen- te stridendo una
falàrica **° venne, lanciata a guisa di un fulmine, cui le due pelli
taurine non ressero, nè la fe- dele corazza di doppia squama dorata. Le
membra immani stramazzano; la terra ne geme, e di sopra lo ecu- do
immenso rintuona. Tale nel lido euboico di Baia . cade talora un blocco
di macigni che costruiscon prima con grandi massi e poi gettan nel mare;
così esso rovina all’ingiù, e scagliato nel più profondo si arresta:
ma ribollon le onde e negre si sollevan le arene, e a quel fragore
l’alta Pròcida trema, ed Ischia, che per co- mando di Giove, fu posta, duro
letto, sopra Tifèo. Qui Marte signore dell’armi coraggio e forza ai
La- tini crebbe ed acuti gli sproni rivolse loro nel cuore, e immisitque
Fugam Teucris atrumque Timorem. Undique conveniunt, quoniam data copia
pugnae, bellatorque animo Deus incidit. Pandarus ut fuso
germanum corpore cernit, et quo sit fortuna loco, qui casus agat
res, portam vi magna converso cardine torquet, obnixus latis
umeris; multosque suorum moenibus exclusos duro in certamine
linquit; ast alios secum includit, recipitque ruentes, demens, qui
Rutulum in medio non agmine regem viderit irrumpentem, ultroque
incluserit urbi, immanem veluti pecora inter inertia tigrim.
Continuo nova lux oculis effulsit, et arma horrendum sonuere: tremunt in
vertice cristae sanguineae, clipeoque micantia fulmina mittit.
Agnoscunt faciem invisam atque immania membra turbati subito Aeneadae.
Tum Pandarus ingens emicat, et mortis fraternae fervidus ira
effatur: « Non haec dotalis regia Amatae, nec muris cohibet
patriis media Ardea Turnum: castra inimica vides; nulla hinc exire
potestas. » Olli subridens sedato pectore Turnus: « Incipe,
si qua animo virtus, et consere dextram: hic etiam inventum Priamo
narrabis Achillem. » Dixerat. Ille rudem nodis et cortice crudo
intorquet summis adnixus viribus hastam. Excepere aurae: vulnus Saturnia
luno detorsit veniens, portaeque infigitur hasta. At non hoc
telum, mea quod vi dextera versat, effugies: neque enim is teli nec
vulneris auctor. » Sic ait, et sublatum alte consurgit in ensem,
et mediam ferro gemina inter tempora frontem dividit impubesque
immani vulnere malas. contro i Teucri lanciò la Fuga ed il cupo Terrore.
Ac- corrono da ogni parte quelli, poichè si combatte da presso, ed
il guerriero Iddio entrato è a loro nel cuore. Pandaro, come vede a terra
disteso il fratello, e che la fortuna è per gli altri ed è contrario
l'evento, a gran forza, puntando l’ampie spalle, la porta spinge sui
car- dini e serra; e molti dei suoi lascia fuor delle mura in aspra
battaglia; ma altri riesce a chiuder con sè e li accoglie che
precipitavano dentro. Folle, che il rùtulo ‘re non vide, che in mezzo
alla schiera dentro irrompeva, ed anzi lo serrava nel campo, come, tra un
gregge im- belle, feroce una tigre; di sùbito, gli sfavillo dagli
oc- chi una luce novella, e le armi orribilmente suonarono: si
squassan sull’'elmo le creste sanguigne, ed agitando lo scudo vibra
bagliori di lampi. Riconoscon la faccia odio- sa e le membra giganti, di
subito _sgomenti gli Enèadi. Allora gli sbalza davanti Pàndaro immenso, e
fremendo d’ira pel morto fratello, grida: « Non è questa la reggia
dotale di Amata, nè qui è Ardea, che Turno rinchiuda fra le mura paterne.
Campo nemico è questo che vedi; ed uscir non potrai ». A lui sorridendo
Turno con cuore pacato: « Orsù, se hai coraggio, combatti con me:
rac- conterai a Priamo che anche qui s’è trovato un Achil- le ». Sì
disse; e quegli, con ogni sua forza poggiando, aspro di nodi e di ruvida
scorza un giavellotto lanciò. Ma colpì l’aria, chè la saturnia Giunone
deviò il colpo mortale, e l’asta contro la porta s’infisse. « Ma non
tu questa spada, che ruota la mia destra a gran forza, sfug- girai:
chè di un altro è l’arma ed è la ferita ». Così dis- se, e si alzò con
tutta la spada levata; e con il ferro la fronte gli spaccò in mezzo alle
tempie, e, con orrenda ferita, ancora imberbi le guance. Fu un fragore, e
la terra fu scossa al cader del gran peso; stende egli a 5 -
VirciLio - Eneide - Vol. III Fit sonus, ingenti concussa est
pondere tellus: collapsos artus atque arma cruenta cerebro
sternit humi moriens, atque illi partibus aequis. huc caput
atque illuc umero ex utroque pependit. 755 Diffugiunt versi trepida
formidine Troés; et si continuo victorem ea cura subisset,
rumpere claustra manu sociosque immittere portis, ultimus
ille dies bello gentique fuisset. Sed furor ardentem caedisque
insana cupido 7160 egit in adversos. Principio Phalerim
et succiso poplite Gygen excipit: hinc raptas fugientibus ingerit
hastas in tergum. Iuno vires animumque ministrat; addit
Halym comitem et confixa Phegea parma, 765 ignaros deinde in muris
Martemque cientes Alcandrumque Haliumque Noémonaque
Prytanimque. Lyncea tendentem contra sociosque vocantem ©
vibranti gladio conixus ab aggere dexter occupat: huic uno
deiectum comminus ictu 170 cum galea longe iacuit caput. Inde
ferarum | vastatorem Amycum, quo non felicior alter
ungere tela manu ferrumque armare veneno, et Clytium
Aeoliden, et amicum Crethea Musis, Crethea Musarum comitem, cui
carmina semper 775 et citharae cordi numerosque intendere
nervis: semper equos atque arma virum pugnasque canebat.
Tandem ductores, audita caede suorum, conveniunt Teucri, Mnestheus
acerque Serestus, palantesque vident socios hostemque receptum.
780 Et Mnestheus: « Quo deinde fugam, quo tenditis? inquit.
Quos alios muros, quae iam ultra moenia habetis? Unus homo et
vestris, o cives, undique saeptus aggeribus, tantas strages impune
per urbem terra morendo le membra prostrate e le armi sozze di
sangue e di cèrebro; e da ambedue le spalle gli pen- zola un capo e di
qua e di là. Fuggon respinti da pau- roso terrore i Troiani; e se il
vincitore pensava, in quel momento, a spezzare i cancelli e a far entrar
per la porta i compagni, l’ultimo giorno era quello della guer- ra
e del popol troiano. Ma il suo furore e un folle desi- derio di strage lo
scagliò impetuoso in mezzo ai nemici. Prima egli affronta Fàlari, e a
Gige recide il garretto; poi toglie loro le aste e le lancia alle spalle
ai fuggenti. Forze e coraggio gli somministra Giunone. Hali dà lor
per compagno, e, trafittogli lo scudo, Fegeo; poi, mentre ignari sulle
mura incitavano a guerra, Alcandro, ed Alio, e Noèmone, e Prìtani.
Lìnceo, che gli veniva incontro e chiamava i compagni, egli previene,
rotando la epada, dallo steccato a destra: e d’un sol colpo da presso,
il capo troncato si giacque insieme con l’elmo lontano. Poi, Amico,
il distruttore di fiere, di cui altri non era più esperto ad unger gli
strali e avvelenare le armi; poi, Clizio l’eòlide, e amico alle Muse
Creteo, Creteo alle Muse compagno, che sempre i carmi e le cetre ebbe
a cuore, e l’armonia delle corde: sempre i corsieri e le ar- mi e
le pugne eroiche cantava. Alfine i Teucri duci, udita la strage dei
loro, accor- rono, Mnèsteo ed il padre Seresto, e vedono rotti i
com- pagni, e, fra le mura, il nemico. E Mnèsteo: «E poi, dove
fuggite? dove andare volete? — diceva. — E che altre mura, che altra
città vi rimane? Un uomo solo, e d’ogni parte rinchiuso dai vostri
steccati, potrà, o cit- tadini, di stragi riempir la città, impunemente?
Tanti fra i primi guerrieri manderà giù nell’Orco? Non della misera
patria e degli antichi Iddii, e del magnanimo Enea, codardi, vi tocca
misericordia o vergogna? » Ac- ediderit? iuvenum primos tot miserit
Orco? 785 Non infelicis patriae veterumque Deorum et magni Aeneae,
segnes, miseretque pudetque? » Talibus accensi firmantur et agmine
denso consistunt. Turnus paulatim excedere pugna “et
fluvium petere ac partem, quae cingitur unda: 790 acrius hoc Teucri
clamore incumbere magno et glomerare manum, ceu saevum turba
leonem cum telis premit infensis, at territus ille asper,
acerba tuens, retro redit, et neque terga ora dare aut virtus
patitur, nec tendere contra, 795 ille quidem, hoc cupiens, potis est per
tela virosque: haud aliter retro dubius vestigia Turnus
improperata refert, et mens exaestuat ira. Quin etiam bis tum
medios invaserat hostes, bis confusa fuga per muros agmina vertit;
800 sed manus e castris propere coit omnis in unum: nec
contra vires audet Saturnia luno sufficere, aériam caelo nam
luppiter Irim demisit, germanae haud mollia iussa ferentem, ni
Turnus cedat Teucrorum moenibus altis. Ergo nec clipeo iuvenis subsistere
tantum, nec dextra valet; iniectis sic undique telis
obruitur. Strepit adsiduo cava tempora circum tinnitu galea,
et saxis solida aera fatiscunt, discussaeque iubae capiti, nec sufficit
umbo ictibus; ingeminant hastis et Troès et ipse fulmineus
Mnestheus. Tum toto corpore sudor liquitur et piceum (nec respirare
potestas) flumen agit: fessos quatit acer ànhelitus artus.
Tum demum praeceps saltu sese omnibus armis — 815 in fluvium dedit.
Ille suo cum gurgite flavo accepit venientem ac mollibus extulit
undis et laetum sociis abluta caede remisit. cesi da tali parole,
riprendono cuore, e in ischiera ser- rata lo affrontano: e Turno a passo
a passo si ritrae dal- la battaglia, volgendo verso il fiume e la parte che
n’era ricinta; e però più accaniti i Troiani lo incalzan con grande
clamore, addensando le schiere. E come quando un feroce leone stringon da
presso con l’armi ostili i cac- ciatori, e quello, fiero, e torvo lo
sguardo, retrocede, ma nè l’ira o il valore non gli lascian voltare le
spalle; ma neppure potrebbe, benchè desioso, lanciarsi in mezzo
alle armi e alla turba: non altrimenti Turno, dubbioso, lentamente si
arretra, e il cuore per l’ira gli bolle. Anzi, due volte si era gettato
in mezzo ai nemici, due volte volse in fuga per le mura le schiere
sconvolte; ma tutto rapidamente si accoglie dal campo l’esercito contro
lui solo, nè altre forze formirgli osa la Saturnia Giunone, giacchè
aerea dal cielo Giove Iride inviava, con suoi bruschi comandi alla
sorella **, se Turno non lasciasse le mura alte dei Teucri. Dunque non
può il giovane con lo scudo o con la mano resistere ancora: son
troppi i dardi che d’ogni parte gli piovono giù. Senza riposo
tinnisce intorno alle concave tempie l’elmo, ed il solido bronzo
s’incrina alle pietre, e le creste si rovescian dal capo, e ai colpi non
basta lo scudo; raddoppian l’assalto i Troiani con l’aste, e primo, fulmineo,
Mnèsteo. Da tutto il corpo il sudore allora gli gronda, e gli cola
— omai il respiro gli manca — in un fiume color della pece. E
finalmente allora, a precipizio, di un salto, con tutte le armi, nel
fiume si lanciò; e quello, con la sua bionda corrente l’accolse, e lo
tenne sopra le onde tran- quille, e, della strage asterso, lieto ai
compagni lo rese.Angelo Conti. Keywords: VIRGILIANA, decadente, decadenza,
divina decadenza, filosofia decadente, filosofo decadente, decadentismo,
divinely decadent – d’annunzio, museo d’annunziano, il bello e il bizzarro, il
bello bizzarro, estetica, sensatio, senso, sensum, sentior, sentitum,
perceived, perceptum – sense and sensibilia, estetico/noetico (nihil est in
intellectu qui prior non fuerit in sensu), propieta estetica, proprieta di
secondo grado, secondary quality, Grice, Sibley, Scruton, Platone, Kant,
Schopenhauer, Ruskin, Pater, Antichita, antico e moderno, il fascino dell’antico,
from the antique, from life, Uffizi, Accademia Venezia, RegieAccademiadiVenezia,
Capodemonti, Napoli, Antichita Roma, il fiume d’Eraclito, Ulisse e il canto
delle sirene, Morelli, Francesco, Virgilio, dolcissimo padre, ascetismo,
ascecis, zorzi, riva beata, Pater, Essay on Style by Pater, Da Vinci, Morelli,
la nudita eroica d’Enea – Luigi Ratini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e Conti: la ragione conversazionale e l’implicatura
converseazionale del dialogo filosofico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Grice: “Conti is a good one; for
one he is a ‘patrizio veneziano,’ for another he like Alexander Pope and detests
Newton! (Italian temper there!) – My favourite are his “Dialoghi filosofici,’
full of implicata as they are!” Patrizio
veneto, classicista, famoso per essere stato arbitro nella controversia tra
Leibniz e Newton, circa l'invenzione del calcolo infinitesimale (keyword:
infinito). Si lege in amicizia con Fay,
noto per gli esperimenti fisici che conduce all'Accademia delle Scienze. Di lui
esiste una statua in Prato della Valle, fatta da Chiereghin. Scrive saggi riguardanti
la struttura della tragedia, e nel “Trattato del fantasma poetico” discute la
funzione del coro: monologo, dialogo, coro (terza persona?). Tra le sue
tragedie, la più significativa fu il “Giulio Cesare”. Ne scrive altre tre,
tutte di soggetto romano: “Marco Bruto”, “Giunio Bruto”, e “Druso”. Altre
opere: “Opere” (Venezia, presso Giambatista Pasquali); “Versioni poetiche”
(Bari, Laterza). Dizionario biografico degli italiani. Della nascita del C. sono
r’ſuoi veri pu dj. Principio de’ suoi studi scritto da lui stero. Disputa col
Nigrisoli e altre particolarità de’ suoi studi sono al primo viaggio di
Francia. Primo viaggio in Francia. Primo viaggio in Inghilterra e prime
conversazioni col Newtono. Mediazione tra il Newtono e il Leibnizio Studi e
altre occupazioni di Conti a Londra. Suoi sudj di belle lettere. Viaggio
d'Ollanda e d'Allemagna. Nuova dimora in Inghilterra. Ritorno in Francia e ſuoi
pudi. Amicizie. e converſazioni in queſti anni in Francia. Querela col Newtono.
Suo ritorno in Italia. Edizione del Cesare. Studi e commerzi. Edizione delle
ſue Prose e Poesie. Sue Tragedie. Illustrazione del Parmenide di Velia di
Platone; fima e onori di C.. Traduzioni. Altri suoi fudi. Progetti di nuove
opere. Ultimi ſtudi. Edizione del Druso; ſua morte. Rifleli Jul carattere di C.,
e notizie particolari della sua vita private. Relazione de’ Manoscritti
lasciati da C. Dell' Imitazione. Del Fantasma Poetico. La Poesia Greca.
Allegoria dell'Eneide di Virgilio. Illuſtrazione dello Scudo di Enea.
Illustrazione del Poema di Catullo intitolato le Nozze di Teride e di Peleo.
Dissertazione sopra la Tebaide di Stazio. Discorso ſopra la Italiana Poesia.
Illustrazione del Dialogo di Fracastoro intitolato il Na. wagero, o fia della
Poesia. Disertazione sopra la Ragion Poetica del Gravina. Della Potenza conoscitiva
dell'Anima. Della Fantasia. Poesie Tradotte dall' Inglese. Al Sig. Marcheſe
Manfredo Repeta sopra il Poema del Riccio Rapito. Il Riccio Rapito. Prose
Franceſe Italiane a Monſieur Perel. Dialogue ſur la Nature de l' Amour. Lettre
à Madame la Preſidente Ferrant. Lettera al Sig. Cavalier Vallisnieri. Al sig.
Marcheſe Maffei. Al N. U. Sig. Benedetto Marcello. Al P. D. Bernardo Piſenti C.
R. Somaſco.A Monſignor Cerarti. L’allegoria dell’Eneide di Virgilio propone una
cosa per farne intender un'altra, che ſeco è in proporzione, se l’ “Eneide” per
consenso di tutti i più abili commentatori é un panegirico *allegorico*
d'Augusto, convien necessariamente che la cosa proposta sieno l’azione d’Enea
(l’explicatura), e la cosa che deve intendersi ed è loro proporzionata,
l’azione d'Augusto (implicatura) più memorabile e più degna di lode. Per çiò
con una ſuccinca narrazione pone prima sotto gli occhi l’azione d'Enea, che e
il primo termine (l’explicatura) su cui l’allegoria o metafora o implicatura
(& fonda, o come l'originale del ritratto; indi fa il confronto dell’azione
di Augusto. Nell'istoria d'Enea, basta quloſſervare l’oggetto dell’epica, e il
carattere stoico dell'eroe. L'oggetto tutto tende alla nuova colonia di Roma o
al Principato ch'Enea (via Ascanio e Romolo e Remo) ha da fondare nel Lazio e
Italia. Questo gli predisse Creusa, Febo, i Penati; questo le Arpie, Eleno e la
Sibilla; e perchè fi compisca l’oracolo della predeterminazione e del fatalismo
stoico, Enea li salva dagl in incendi e dalla strage di Troja. Ettore lo
dichiara Pontefice. I compagni lo eleggono Re. Avvisato o protetto schiva i
tradimenti, gli scogli, i ciclopi; non è sommerso nelle tempeste, non
trattenuto dall’africana Didone più pericolosa delle stesse tempeste. Finalmente
arrivato in nel Lazio trova il re latino dispoſto a riceverlo per genero,
Evandro e i toscani pronti a dargli soccorso; sebben abbia a fronte Torno, un
nimico feroce e collegato coi vicini, lo vince e l'uccide. Gli oracoli fatalisti
predeterminati stoichi dunque, i viaggi, e le guerre d’Enea non riguardano se
non lo stabilimento d'un regno o principato. Il carattere poi d’Enea o
dell'eroe si vede in tutta l'Eneide composto della *virtù* stoica convenevoli
al capo e fondatore d'un regno. La virtu e pietà verso l’uomo e verso
Diuspater, senno nel provvedere a’pericoli e prevederli, valore da soldato e da
capitano. La pietà (o compasione) verso l’uomo e la carità – l’imperativo della
carita conversazionale, verso Diuspater religione. Della carita o benevelonza o
compasione, o compieta verso l’uomo Enea dà esempi illustri per tutto. Salva il
padre Anchise dalle fiamme portandolo sulle spalle dirige sempre il viaggio secondo
i di lui consigli, celebra il suo anniversario co'giochi conſiderati da’ pagani
come una parte della eeligione, e per ubbidirlo discende fino all’inferno!
Quanto è tenero per il figliuolo Ascanio, e sollecito e della salute e de gli
avanzamenti di lui! E quando Creusa sua moglie si smarrisce, non va egli a ricercarla
tra gl'incendi e le stragi? Che dirò della sua pietà, carita, compassione,
compieta, benevolenza, verso il suo compagno (o d’EURIALO verso NISO), verso
l’amico, e verso Torno, il nemico stesso? Nella tempesta più s’affligge della
loro perdita che della propria, gli consola e gl’incoraggisce negli affanni, li
provvede di cibo, li divertisce e premia co’giochi, fa l’esequie a Polidoro suo
parente, a Miseno suo trombettiere, a Gaeta sua nutrice; piange la morte di Palinuro
e più quella di Pallante (Patroclo), e ne manda il cadavere ad Evandro con
magnificenza e con lutto degno di un re. Avendo ferito a morte Lauro che l’assalì,
gli itende la destra, lo solleva, e lascia che a Mesenzio se ne porsi il corpo.
Vuol perdonare a Turno, e non l’uccide *che* per vendicar suo amante Pallante;
ciò ch'era un atto di carita. Verso Diuspater sempre fervida e pronta è la sua
pietà. Come stoico perfetto e negatore del libre arbitrio, nulla intraprende
senza consultare l’oracolo, e non comincia alcun’azione senza offrir un voto,
una preghiera e sacri fizj, ch’egli offre egualmente al Diuspater propizio, che
alle Diuspater nonpropizio o Giunone e Pallade. Per ubbidir Diuspater supera la
passione che la strega Didone invoca, cede rispettoso alla sua collera
nell'incendio di Troia; conosce Apollo per principal protettore; ascolta
attento i cantici d'Ercole, e invoca Berecintia che l'allista nella nuova
guerra. Alla sua pietà corrisponde il suo senno. Tosto ch'entra in un paese
vuol conoscere i liti, i luoghi, e la gente che l'azbita; così fa in Affrica, e
nel regno d'Evandro, e scoperto l'assaſlinio di Polinestore fugge il pericolo
di cadervi: fa metter in aguato i soldati per lorprender l'Arpie; egli steſſo
dirige la nave che manca di piloto; manda ambasciatori al re del Lazio; cerca
soccorso nella guerra; ricevuto lo distribuisce in due corpi per più
imbarazzare il nemico ciò ch'è una parte della virtu o prudenza militare, non
meno che assediar la città mentre il nemico è sospeso. Questo o quello segno (manifestazione
secondo Vitters) del valore poi non dà nell'attaccare i nimici, nel farne
stragi di sua mano? uccide i più forti e tra gli altri Lauso, Mesenzio, lo
stesso Turno. Più comparisce il valore d'Enea, se col P. Boſsù fi confronti con
quello di Turno, antagonista, avversario, dell’epica, ardente, milantatore,
prepotente e buono sol per la guerra che vuole giusta od ingiusta, ed in questa
è incauto e senza direzione. Enea all'opposto grave – la gravita romana --, misurato
e non peccatore o essecivo, parla poco, laconico, opera molto, sempre consigliato
e forte colla gloria del consiglio e dell'esecuzione. Di questo o quello segno
della virtu -- pietà, senno, e valore, c’e un intreccio mirabile, sicche
comparisce Enea saggio e paziente capitano come Agamennone, valoroo vincitor
del nimico come Achille, destro a maneggiar lo spirito ed a condur una
negoziazione o consenso cooperative conversazionale come Nestore e Ulise:
giugne a questa virtù una pietà sincera, una probità esatta che mai non ſi
ſmente, una compassion tenera per il suo amico e il suo suddito. Enea è buon
figlio, buon padre, buon amico, buon amante, e tutto ciò per motivi superiori
di dovere e di ragione morale kantiana alla luce del stoicismo fatalism del
predeterminismo. Sopra tutto pero domina la specie della virtù più convenevole
d’ogni altra specie al fondatore della dinastia di Romolo, perchè per essa si
merita la protezione di Deuspater, si rende l’amico o il popolo che deve
ubbidire, l’alleato, ed il vicino con cui si deve patteggiare e con-federarsi
in cooperazione conversazionale verso un fine comune. Vi sarebbero il carattere
degli altri personaggi e dei dell'epica, ma essendo scritti di mano dell’autore
sono come non scritti. Anche la seconda parte che riguarda le azione del primo
imperatore romano, Ottavio detto l’augusto è molto imperfetta; eccone qualche
confronto. Nella rovina di Troja li ravvisano la rovina della Roma repubblicana
di Cesare ed Catone. Da questa rovina, Ottavio, come Enea era stato preservato
dalla provvità, 1 videnza del fato, come dice Orazio nel Carmie Secolare. Enea
porta in ispalla suo padre Anchiee; Ottavio prende la vendetta del suo padre addotivo
Cesare. Enea e in Troja maricato a Creusa da cui ha Julo; Ottavio e maricato a
Scribonia da cui ha Giulia. Ma Creusa per ordine de’ Fati è colia ad Enea, come
Scribonia ad Ottavio; e nel dir che ad Enea si apparecchia moglie, da cui
doveano discendere tanci Re, adula cacitamente Livia. Didone che s’oppone al
disegno (de-segno – plannificazione) d’Enea magnifica e vana dell'impero ha del
carattere superbo, impecuo lo, ed astuto di questa altra Africana, Cleopatra,
che impiegò cutre l'arti femmini li per impegnar Ottavio. Ma v'è un tratto
finissimo di lode nella comparazione che poteano i romani fare d’Enea e
ďOttavio, perchè laddove Enea cesse alle lusinghe di Didone, e dopo averla
posseduta l’abbandona scorteſemente in preda alla disperazione, biasmo da cui
poco lo scusanu gli ordini degli Dei; quanto più dovea stimarli Ottavio che mai
non si lasciò vincere dalle tante arti di Cleopatra? In Evandro, che accoglie
Enea, si puo ravvisar Cicerone, che col suo credito e colla sua eloquenza reſe
tanti servigj a Ottavio. L’epica, però per non rimproverargli la disgrazia di
Cicerone, fa che non Evandro ma il figliuolo di lui resti ucciso da Turno, nel
quale *senza dubbio* vien “simboleggiato” Marc’Antonio, valoroso bensì, ma
imprudente, e che le in molte cose mostra fortezza d’animo chiaro ed
eccellente, in molte altre, come Turno, li governa malissimo, e da quello o
questo segno non meno di magnanimità che di pulsanimità. Nulla dimostra più la
finezza cortigianesca di Orazio e di Virgilio come il loro non nominar mai
Cicerone. S'astennero dal risvegliar in Ottavio un'idea che gli dava de’ rimorsi.
All'incontro nominarono Giunio Bruto e Catone, per mostrare che Ottavio non ha
usurpata la libertà, ma che anzi ne era il protettore, l’imperatore, come negli
ultimi tempi lo volea Cromuvelo (Lord Protector) in Inghilterra. Antonio stesso
molto si risparmia, esi può osservare in Orazio che mai non si parla d’Antonio
senza congiungerlo a l’africana Cleopatra per far cadere in lei l’odio e la
colpa; e cosi fa Virgilio fagacemente nella battaglia d’Azio, quando parla
d’Antonio palesemente, e quando ne parla per allegoria, supprime quell vizio
che avrebbero dispiaciuto ai suoi partigiani ch’erano molti, ed a’figliuoli
elevati da Ottavio a sommi onori. Queſta è pur la ragione prammatica, per la
qual Virgilio non dipinta le guerre che fece Ottavio con Bruto, Callio e cogli
altri, che per modo di peregrinazioni, onde non offender quei ch’erano ancora
del partito di questi ultimi difensori della pubblica libertà. Il re del Lazio,
Latino, che ammonito dall’oracolo vuol dar la figliuola più ad Enea, che a
Turno, è il vero ritratto del senato romano, che vecchio (senior, senatore) ed
impotente non potendo più regolar la repubblica, benchè per ispirazione divina
egl’inchini più a lasciarsi governare d’Ottavio che da Marc’Antonio, atterrito
nondimeno dagli apparecchi di guerra, lascia disputar la vittoria a’ due rivali,
come appunto il re Latino fuggendo lascia terminar la guerra a Turno ed Enea.
In Mesenzio ed in Lauso si veggono Cassio e Giunio Bruto, e l'empietà data a
Mezenzio e la virtù data a Lauso lo persuadono. Muore Laulo ed Enea lo
compiagne, come Ottavio compianse Bruto, al dir di Plutarco. Quando Lauro
combatceva, era Mesenzio con la persona appresso di un tronco per posarvi
appoggiato, e gli stava intorno un cerchio de’ più eletti e de’ più fidi; e
quando vide Lauso ucciso, comincia a disperarsi, e a lagnarsi, e andar incontro
alla morte. Queſta deſcrizione concorda molto con quella che fa Plutarco di
Cassio, allora che ritirato sul colle stava rimirando l’esercito di Bruto, e
credendo ch’egli fosse rotto, disperato si confiſſe nel le reni la spade. Non
occorre cercare rassomiglianza perfetta tra questo o quello accidente vero e
questo o quello accidente finto. Baſta che uno si ravvif nell'altro. I ritratti
della Poesia, e particolarmente epica, sono “simili” a quelli che i gran
pittori introducono ne’ quadri istoriati; negli Dei, negli eroi, ne’ capitani
ritengono le fattezze del volto de viventi che vogliono onorare ma variano le
attitudini, o le velti per variare le imagini, e produr nello spettatore maggior
maraviglia ed affetti più vivi. Con questa regola si pollono ritrovare molti
altri confronti nelle cose dell'Eneide colla vita d’Ottavio. Nè par probabile
che tanta corriſpondenza sia effetto del caso, attesa spezialmente la sagacità
del poeta, e l'idea generale dell'opera. Parte di questa corriſpondenza fa
vedere nello scudo d' Enea la seguente illuſtrazione, che si dà intera. Come
nell'Iliade d'Omero Teti porge ad Achille uno scudo fabbricato da Vulcano così
nell'Eneide di Virgilio Venere porge ad Enea uno scudo fabbricato dallo stesso
Dio. Quì non s'intraprende d'illuſtrare ſe non ciò che appartie. ne allo Scudo
d'Enea, oſſervando prima generalmente, qual ne foſſe la materia, la faldezza,
la figura, l'intreccio e i colori, ed indi particolarmente l' ordine e' i fiti
delle coſe ſcolpite, le loro ſtorie, cd allegorie. I'Ciclopi impiegarono
nell'armatura d'Enea il rame, l'ac ciajo, l'oro, e l'argento, ma fecero che ivi
abbondante più dell'uno o dell'altro metallo ove era biſogno di maggior die
feſa, o di più raro ornamento. L'Elmo che dovea abbagliando minacciare i nimici,
riſplen dea per la terſezza dell'acciajo, non altrimenti che ſe fiam. me
ſpargeſſe. La Lorica era ſcabra per i rilievi del rame e del bronzo, che quanto
più maſſicci'ſi fingono, ed incurva ii, tanto più le faette e le ſpade
ſpuntavano. Ben è vero che per la miſtura degli altri metalli, i colori della
Lorica ſi mi ſchiavano con quei del bronzo e dell'oro, ond'ella riſplende va
come un Iride in faccia al Sole. Nell'aſta e nelle ſchinie re abbondava
particolarmente l'elettro che è un compofto d ' oro e ' una quinta parte
d'argento, ma purgato più volte da'Ciclopi; l'oro nel foco avea ſvaporato
l'argento, onde la compoſizione riuſciva più prezioſa, più denſa, ed impene.
trabile. Nello Scudov'erano tutti e quattro i metalli tra loro op portunamente
fuſi e temperati. I Ciclopi ne aveano appiana ta la maſſa in ſette piaſtre
rotonde, che a guiſa dei ſette cuoi attorti dello Scudo d' Ajace implicarono
l'une nell'altre, perchè lo Scudo refifteffe a tutte l'armi de' Latini.
Miſterioſo era il numero di ſetre appreſſo gli Antichi per la relazione ch'egli
avea al numero de Pianeti. Forſe credea no, che gli aſpetti di cucci e ſette
influendo nella fabbrica d' uno Scudo gli deffero una tempra immortale. La
figura dello Scudo d'Enea era ovale, nè a cid forſe an cora mancava il ſuo
miſtero. Gli Scudi ancili chc fi fingea. no 177 no caduti dal Cielo a tempi di
Numa, aveano la ſteſſa figura, Or lo Scudo d' Enea non era men celeſte di loro;
ed Enea, che doveva portarlo, non ſi fuppone men pio di Numa. I Ciclopi nel
fabbricar lo Scudo avendo poſta in opera per comando di Vulcano tutta la loro
arte maeſtra, collocarono, intrecciarono, limetrizzarono, e colorirono le
figure ſcolpite in maniera, che lo Scudo emulava la reflicura di un arazzo. Nè
queſta a mio credere è un'Iperbole poetica, ma un'imi tazione di quell'idee che
Virgilio, avea vedute ne'baſi rilievi di Roma, ove ſoggiornava, ed in quelli
delle Città della Gre cia, ove per profittarlı dello ſtudio delle bell'arti
avea viag giato. A Roma nelle Biblioteche e ne' Tempj ſtavano appeli certi
Scudi tutti ſtoriati, e tra gli altri Plinio racconta, che nel Tempio di
Bellona Appio Claudio confacrò uno Scudo, ove in picciole figure era
rappreſentata tutta la Genealogia dell'antica famiglia de' Claud). Nel conveſſo
dello Scudo di Minerva avea Fidia ſcolpita la battaglia delle Amazoni, e nel
concavo la guerra degli Dei e de'Giganti. Offerva Plinio, che Fidia, volendo
moſtrar l'arte nelle minimeparti, avea elpela ſo ne' Sandali della Dea la
battaglia de' Lapiti e de'Centauri, e nella baſe della ſtatua la naſcita di
Pandora con quella di trenia Dei. Ne'baſſi rilievi delle lamine che cingevano
la ſe dia della fatura di Giove Olimpico, lo ſteſſo Fidia in oro ſcol pito avea,
da una parte il sole che conduceva il cocchio, e dall'altra Giove e Giunone; a
lato di Giove v'era una delle Grazie, indi Mercurio e Veſta., Venere pareva,
uſcir dal ma re, l'Amore l'accoglieva, e la Dea Pito la coronava. Nello ſteſſo
baſſo rilievo li vedeva Apollo e Diana, Minerva ed Er; cole, e nel piedeſtallo
da un canto Anfitrite e Nettuno, e dall'altro la Luna, che galoppaya ſopra un
cavallo. Qual mol ticudine, qual varietà ed intreccio di figure in poco ſpazio?
Or è molto verifimile, che come lo Scudo d'Achille diede a Virgilio la prima
idea dello Scudo d'Enea, così į baſli rilie vi da lui yeduti a Roma in Atene e
in Olimpia gl'inſegnal ſero a perfezionarlo. Nella deſcrizione delle figure ben
fi ſcor ge che l'artifizio dell'imitazione, non deriva dagli alerui fan tasmi,
ma da un'acurata oſſervazione del ſenſo, che regold la fantaſia del Poeta
fino · lo ſpingo oltre la conghiettura, e pretendo che alle figu. se veduce da
Virgilio ſcolpite o nell’avorio, o nell'oro, od in altro metallo negli vi
applicalle la forza e la leggiadrią Tomo II. 2 de' 3 178 ra 1 1 de colori da
lui veduti nelle pitcure encauſtiche: Plioio ne annovera di tre fpezie, e non
ſaprei fuggerirne una miglior idea che raſſomigliandole alle picture che
vediamo, non dirò fulle porcellane di troppo fragil materia a confronto del me
tallo, ma su fmali di più dura tempra, e su vaſi e ſulle cop pe antiche, ove la
varietà del colore riſultò dal vario grado del foco, che lor fu dato nel
fondere e nel tingere il metal lo. Difficile è proporzionare il grado del foco
ad ogni colo re, ma difficiliſſimo ove i colori lieno per conſiſtenza e viva
cità differenti, e ſi debba nello ſteſſo tempo abbrugiandoli laſciarli ſecondo
il biſogno o floridi, od auſteri, ed a tutti imprimere quello fplendore che
ſecondo Plinio non è lo ſtef To che il lume, ma di'mezzo tra il lume e l'ombra,
ed è propriamente l'intenſione d'ogni colore nella ſua ſpezie. Il Sig. Abate
Fraguier, la cui memoria mi ſarà ſempre ca. offerva, che nello Scudo d'Achille
la terra fenduta in folco dall'aratro cangia in nero il color d'oro, che i
grappo li d'uva ſono neri e la vigna d'oro, che le giovenche ſono rappreſentate
al vivo col bianco e col giallo, cioè collo lta gno e con l'oro, e che
veriſſimo è il langue trangugiato da due Leoni che lacerarono il bue. Da ciò
inferiſce che l'arte encauſtica fioriva a'tempi d'Omero; ma quando anche i Cro
nologi che non convengono dell'età d'Omero glielo conce deffero, molto più
debbono elli concedere, che nel tempo d' Omero quell'arte era molto imperfetta
a paragone dell'eccel lenza a cui la portarono i Greci nel secolo d'Aleſſandro,
e ne’ſuſſeguenti. Le picture de' più celebri artefici encauſtici e rano ſtate
portate dalla Grecia a Roma da' Capitani Romani, é poſcia conſecrate ne! Tempi.
Virgilio che avea ſotto gli oc chj de'modelli così perfecti, gli ha
verifimilmente adombra ti ne ' colori del ſuo Scudo yine queſta ſpezie
d'imitazione pud negarſi ad ua Poeta sì doito, e d'on guſto così eſquiſito in
ogni genere d'arte • Per reftarne convinti bafta riflettere alla varietà ed
armonia de? colori delle figure deſcritte j ai sfuma menti, 0, come parla
Plinio, alle commiſſure de culoriftel fi, ai fecreti più mirabili della
perſpectiva introdotti negli ac» tidenti delle imagini, e finalmente
all'efpreffione degli affec ti de coſtumidegli Uomini rappreſentation La
varietà e larmonia de'colori appariſce nell'Oca d'ar gento che vola ne' portici
d'oro, ne' flutti biancheggianti per lai fpuma ini un mare cerulco Larrei ſono
i colli de'Galli, mentre le loro chiome fon d'oro, e vergate d'oro le veſti; il
langue di Mezio è vermiglio e gocciola dalle ſpine che lo no verdi. Per gli
sfumiamenti de colori, ed inſieme per l'eſpreſſione degli affetti e de' coſtumi,
diverſi nell' arni e nelle veſti fo no i colori de' Barbari condotti in trionfo;
il limitar del Tem. pio d'Apollo è bianco come la neve, ma più bianco è lo
ſteſſo Dio; Cleopatra è pallida per la morte futura; il Nilo al ſembiante ed al
geſto moſtra la doglia che lo crucia e l' impazienza di ſalvare i fuggitivi
ſuoi figli. Che dirò della forza della perſpectiva? Parrafio dipinle, al dir di
Plinio, il Demone degli Atenieſi vario, iracondo, in giuſto, incoſtante..
Virgilio rappreſenta Porſenna che nello Iteſſo tempo comanda, li ſdegna, e
minaccia. Nel Portico a. vanti la Curia di Pompeo era dipinto, ſecondo lo
ſteſſo Plinio, un Soldato che non ſi fapea ſe con lo Scudo aſcendeſſe o di
Icenderſe. Virgilio fa che i bambini attaccati alle poppe del. la Lupa fieno da
queſta alternaniente accarezzati; ciò che il Tallo imirò nelle figure delle
porte d'Armida ove Marcanto nio nel ſeguir Cleopatra che fugge, Mirava
alternamente or la crudele Pugna ch'è in dubbio, or le fuggenti vele. Ma
paſſando a coſe più particolari, io per far meglio in tender l'ordine,
l'intreccio, ed i fici delle figure, divido in quattro parii lo Scudo. La prima
contiene la diſcendenza d ' Enca fino alla Lupa incluſivamente. La copula o,
cioè an cora dimoſtra che tutto era nello ſtello baſſo rilievo. La ſeconda
parte contiene molte coſe memorabili fotto i Re e ſotto la Repubblica. La terza
la battaglia d' Azio. La quarta i tre Trionfi d'Auguſto. Queſte parti, ſi fanno
ſenſibili dividendo l'ovale in quattro altre ovali concentriche che io ſegnerò
co'numeri 1. 2. 3. 4. Nello spazio segnato i. ch' è come l'orlo dello Scudo io
pongo le figure che rappreſentano i diſcendenti d'Enea anno verati da Virgilio
nel primo libro e nel ſeſto: queſti ſono A Scanio, Silvio padre di molci Re,
Proca, Capi, Silvio, Enea, i due giovani coronati di quercia, Numitore, e la
Lupa che allatra i due bambini. De quindici Re d'Alba, di cui parla 2 2 Dio 186
Dionigi d’Alicarnaſſo e Tito Livio, Virgilio non nomina che queſti, perchè,
come egli accenna, furono fondatori di colo. nie, avendo edificato Nomento,
Gabia, Fidene, Collazia full? állo d'una montagna, ed il caſtello d'Inuo o di
Pane. Fon darono ancora Bola e Cora, e queſte ed altre nominate Cit rà eſſendo
nel Paeſe de' Sabini e de' Volſci, avranno dato oc caſione alle guerre e
battaglie nello Scudo eſpreſſe. Nel baf ſo rilievo d'Alcanio dev'egli
rappreſentarſi a guiſa d’un Ca. pirano o d'un Re che comanda di fabbricare una
Città qual era Alba lunga. Altri prendono gli ordini, ed altri gli eſegui
ſcono, ed i Soldati ſtanno riguardando l'opra. La pittura d ' Aſcanio è ſulla
cima dello Scudo; nella parte oppofta, o nel ballo v'è la Lupa che allatta i
bambini, e biſogna rappre ſentaría qual è in molte medaglie. Ne' lati dell'orlo
dello Scudo toſto ſi vede un bambino in mano d'un paſtore ch' eſce da una ſelva;
lo ſiegue in Re circondato da molti bam bini coronati, indi un Ře che guida un
eſercito, un altro che eſpugna una Città, un altro che è in mezzo a Sacerdo ti
e a Veltali, molti giovani Re cinti il capo di quercia che combattono e fondano
colonie, o su monti, o nelle pianu. se. Nè Tito Livio, nè Dionigi d'Alicarnaſſo
parlano in par ticolare di queſte battaglie, onde ſi poſſono ſcolpire a fanta
ſia, ma devono eſſer ſcolpice in medaglie appeſe a rami od alle foglie d'un
albero genealogico che ſerpeggi nell'orlo. Nello ſpazio ſegnato 2. io pongo da
una parte due baſſi ri lievi di forma ellittica, ma incaſtrati di varj fogliami
che riempiono i vuoti. Elli rappreſentano il ratto delle Sabine, e la pace cra
Romolo e Tazio. Pongo dall'altra parte altri rilievi della ſteſſa forma che
rappreſentano Mezio ſquarciato da ' cavalli, e Porſenna che afledia Roma. Nel
ſommo dell'ovale ſi vede nelle figure più rilevate il Campidoglio affalito
da’Galli, e difeſo daManlio; e nelle più lontane i Salj e le Matrone che
eſulcano; nella parte oppo. fta che è la più baſſa dello Scudo v'è il Tartaro
con Catili na affiffo allo ſcoglio, e ſopra il ſotterraneo (chiamato da Vir
gilio la bocca profonda di Dite ) verdeggiano gli Elisj, ove Catone dà la legge
all'anime pie. Le figure di queſto ſpazio ſono maggiori di quelle dell' orlo
perchè le parti più vici ne al centro dello Scudo ove fi fogliono diriger i
colpi, devo no eſſer più maſſiccie per più reliftere. Lo ſpazio è percid
maggiore Nel i 81 5 Nello ſpazio ſegnato 3. v'è la battaglia d' Azio. Apollo
ſaettante è ſul Promontorio, ove Auguſto gl’inalzò un Tem pio. Le navi
d'Auguſto ſono alla deſtra ſchierate in arco; nel deftro corno v'è Augufto
colla ftella in fronte e co' Pe. nati in mano, nel finiftro Agrippa cinto le
tempia della co rona roftrata. Dirimpetto vi fono le Navi torreggianti d'An
tonio. Secondo Plutarco, Antonio con Publicola reggeva il corno deſtro, e
Clelio il ſiniſtro. Cleopatra è nel mezzo in atto di percuotere il fiftro,
ſtromento dedicato ad Ilide che Cleopatra voleva emulare in curto. Tra i due
ſemicerchi del. le navi ve ne ſono alcune diſtaccate che tra loro combatto no.
Soggiunge Plutarco, che Ceſare non ſolamente non or dina ferir le prode dure e
ferrate d'Antonio, ma nè anco inveſtirle per fianco, perciò che gli ſproni
facilmente ſi ve nivano a romper urtando nelle cravi quadre incaſtrate infie me
col ferro: Era dunque queſta battaglia (ſegue egli) mol to ſimile a una
giornata per terra, anzi piuttoſto all'aſfalco d'una Cicà. Perciocchè tre o
quattro navi di Ceſare com battevano intorno a una nave d'Antonio con
partigiane, piche, e con fuoco. D'altra parte gli Antoniani ftando ſulle gabbie
di legno traevano dardi e pietre contro i nimici. Così ap punto Virgilio
rappreſenta le navi che combattono. Sulle navi di Cleopatra vi ſono i Dei
moſtruoſi d'Egitto, in atto di ſaettar Neituno, Venere, Minerva, che ſtanno
ſulle navi d'Auguſto, e contro alle quali egli diſſe al Senato che Antonio avea
moſſo la guerra, non meno che contro al. la Patria. Marre è in mezzo
della batcaglia, la Diſcordia, e Bellona, ed in aria ſtanno le Furie. Tutto ciò
è ſotto la fi. gura del Campidoglio o nella parte ſuperior dell'ovale, men tre
a'lari ſono le navi ſchierate. Nella parte inferiore vi fo no le navi di
Cleopatra che fuggono ſpinte dal vento Japiga, che ſoffia dal capo di Salentino;
non lungi è la figura del Nilo, che allargà la veſte, e chiama i vinci a
ricovrarli ne? ſuoi naſcondigli: egli è d' una figura giganteſca appoggiato
ſull'urna che verſa i ſette fiumi nel mediterraneo, nel reſto dello ſpazio ſi
diffonde il mare coi delfini che ſcherzano. Le figure di quello ſpazio ſono
maggiori per la ragione ſopraccen nata, ed è maggiore lo ſpazio ſteſſo. Nello
ſpazio ſegnato 4. vi ſono eſpreſli i tre trionfi d'Au guſto. Egli trionfo, dice
Svetonio, in tre giorni l'uno dietro all'alcro; la prima volta per la vistoria
Dalmacica, la ſecon da 4 182 1 da per l'Aziaca, e la terza per l'Aleſſandrina.
Dione Caffio particolareggia i trionfi. Trionfo Ceſare, dic'egli, il primo
giorno de' popoli Pannoni, Dalmatini, Japidi, ed altri loro circonvicini, e
d'alcuni popoli della Gallia e della Germania ancora, perciocchè Cajo Carina
avea già vinti e ſoggiogati i Morini e gli alıri popoli appreſſo, che nella
ribellione da lo. Fo fatta gli erano ſtati compagni, ed oltre ciò avea dato una
rolta a'Svevi, ed a quelli che aveano già paſſato il Reno; laonde ed egli e
Ceſare feco rappreſentò il Trionfo percioc chè la vittoria folevaſi attribuire
ſempre all'Imperatore, e l' Imperatore era Ceſare, è teneva in mano il governo
di tut, 10. Il ſecondo giorno Ceſare rappreſentò il Trionfo della bat taglia
fatta al promontorio d' Azio nel mare. Il terzo poi dell'Egitto ſoggiogato. Le
ſpoglie in queſte guerre acquiftare furono baſtanti ad ornar tutto l'apparato
di que' Trionfi; quel. Je però d'Egitto avvanzavano di gran lunga curti gli
aliri ap parati d'ornamenti di ricchezza e di rarità; tra l'altre coſe vi fi
vedea Cleopatra fteſa ſopra una colore in alto di morire, onde in un cerio modo
queſta Reina era condotta in trionfo cogli altri prigioni, tra'quali v'era
Aleſſandro ſuo figliuolo, e Cleopatra fua figliuola chiamati da lei col nome
del Sole e della Luna. Gl’interpreti fi vanno inutilmente affaricando a cercar
le ragioni della qualità de'prigioni, e particolarmente perchè ne' cocchi ſi
vedeſſe l'imagine dell' Eufrate e dell’A. raſſe fiumi dell'Armenia e della
Meſopotamia non conquiſtati da Auguſto. Il P. Arduino nelle ſue rifleſioni
fopra Virgilio non ritrovando queſte vittorie d'Auguſto ne trae degli argo
menti diſavantaggioſi all'Eneide. Io non perderò inutilmente il tempo a
riſpondergli in particolare. Ciò che poſſo dire a coloro che ammettono
l'autorità di Dion Callio, è far loro oſſervare, che Antonio dopo aver chiamara
Cleopatra Reina dei Re, Ceſarione Re dei Re, ed aggiunto alla loro giuriſdi.
zione l’Egico, donò la Siria a Tolomeo, e lutte le Provin cie di quà
dall'Eufrate fino all'Elleſponto; donò l'Africa fino alla Cirenaica a Cleopatra,
ed al fratello di coſtoro chiama to Aleflandro dond l'Armenia con tutto il
rimanente del pae fe al di là dell'Eufrate Gno all'Indie. Or non è verifimile
che Auguſto da cutti queſti Paeſi fcieglieſſe de' prigioni, che egli doveva
aver fatti o nella battaglia d'Azio, o nella ſcon fiila data ad Antonio in
Aleſſandria? Quanto al Reno, Agrip pa l'avea paſſato nel 717. nė fi curò del
Trionfo, ma egli è pro. 183 probabile che Auguſto voleſſe che Agrippa trionfare
ſeco co me Cajo Carina. Non v'era. ſegno d'amicizia e d'onore che non gli deſſe,
perciocchè oltre la corona roſtrata, con cui lo fregið dopo aver vinto Seſto
Pompeo in Sicilia, volea ch'egli avelle una cenda e l'altre inſegne militari
ſimili a quelle dell' Imperatore, e, come dall'Imperatore, da lui ſi prendeſſe
il ſegno della milizia, ed egli era in forſe di dargli per moglie Giulia: canto
grande, gli diſſe Mecenate, tu faceſti Agrippa, che o biſogna ucciderlo, o
ch'egli ſia tuo Genero. Dopo il Trionfo Auguſto inalzò molti Tempj; uno ad A.
pollo ſecondo Svetonio ſul monte Palarino, al quale aggiun ſe una Loggia con
una Biblioteca Greci e Latina; un altro ne edificò a Marte vendicatore per il
voto fatto nella guerra contro Bruto e Caſſio per vendicare il Padre, ed un
altro a Giove Tonante nel Campidoglio. Secondo Dione egli ancora conſecrò il
Tempio di Minerva, ornò il Tempio di Giulio ſuo Padre ſoſpendendovi molti e
molti doni della preda por tata d'Egitco, e molti ne conſecrò ed offerſe a
Giove Capi. tolino, a Giunone, a Minerva. Non è da traſcurare che po fe
l'imagine della vittoria ſecondo Dione nel Tempio di Mi nerva, e ſecondo Plinio
nel Tempio del Padre Celare, il qua le era nel Foro; aggiunge Plinio, che vi
poſe ancora i Ca ſtori che forſe ſimboleggiavano Auguſto ed Agrippa, nel pri mo
libro aſſomigliati da Virgilio a Romolo ed a Remo, come interpreta Servio. Poſe
ancora Augufto nel foro due quadri, uno della guerra, e l'altro del Trionfo; e
s’io non m'ingan doveano queſti rappreſentare coſe alluſive alla battaglia d'
Azio, ed ai trionfi dello ſteſſo Ceſare. Comunque la coſa ſia, ove è il centro
dello Scudo che è la parte più alta, io pongo la Cupola del Tempio d'Apollo,
alle cui porte Augufto affig ge le corone d'oro che erano i doni offertigli da’
Popoli dalle Provincie confederate. Tutto all'intorno vi ſono le are e
gl’incenſi colle vittime, e quindi la pompa e la lecizia del trionfo. In quel
giorno che Auguſto entrò in Roma, dice Dio ne, gli fu conceduto un Arco nella
Piazza di Roma, e in o nor di lui li celebrarono i giuochi quinquennali, e gli
anda rono incontro le Vergini Veítali, il Senaco ed il Popolo, colle mogli, e
il figliuoli: mi par ſoverchio (ſoggiunge Dio. ne ) di raccontar i voti e le
imagini ed altre coſe fatte per lui · La pompa del Trionfo conſiſte ne'
prigioni Nomadi, o Numidi, Affricani, Lelegi, Cari popoli dell'Alia minore Ge
no, e 184 Geloni ſpezie di Sciti, Morini popoli della Gallia Belgicà fi tuati
verſo l' Oceano Britannico. Tra queſti vi ſono molti cocchi colle imagini
dell'Eufrate, del Reno, e dell'Araffe col ponte che Auguſto vi fabbricò. Tali
ſono i baſli rilievi e le figure di tutto lo Scudo; elle s'ingrandiſcono a
proporzione ch'egli ſi va rilevando, e le miniature devono render ſenſi bili i
colori di cui ſono in Virgilio dipinte. I colori domi nanti ſono il giallo e il
bianco che rappreſentano l' acciajo ed il rame. Marte però deve eſſer dipinto
con un colore fer rigno, o fia di ferro, non raffinato in acciajo; diverſi ſono
i gradi de colori o floridi od auſteri che biſogna lumeggiare ed onibreggiare;
ma ſopra tutto convien dar alle figure lo ſplen dore, o ſia quel grado vigoroſo
di colore di cui s'è parlato. Spiegato in queſta maniera ciò che concerne la
parte ma teriale e ſtorica dello Scudo, egli è tempo di ragionare delle
relazioni che le figure hanno ad Auguſto, al quale tutto il Poema è diretto,
come a lungo eſpoſi nell'altra diſſertazione. Biſogna quì ricordarſi che
l'adulazione, ingegnoſiſlima nelle fue compiacenze, or impiega le lodi dirette
e manifeſte, or l'indirette ed occulte, ſecondo che l'une e l'altre per le cir
coſtanze fono più grate a colui che fi loda. Lodar Augufto per la ſua ſtirpe,
lodarlo per la vittoria che gli diede l'Imperio, e per i tre trionfi, ne' quali
fece tanto riſplender la ſua pietà, erano lodi che Auguſto fonima mente
defiderava che ſi pubblicaſſero, onde eſſo poteſſe ritrar: ne più venerazione
ed ubbidienza. Conviene a parte a parte moſtrarlo. Giulio Ceſare nel far
l'Orazione funebre in lode di Giulia ſua Zia: La firpe materna, diſſe, di
Giulia mia Zia ha origi ne dai Re, é la paterna è congiunta cogli Dei immortali,
im perciocchè da Anco Marzio derivano i Re Marxj del cui nom fu mia Madre, da
Venere i Giulj della cui gente è la noſtra Fa miglia. Trovaſ dunque nel ceppo
antico della caſa noſtra la fantità dei Re la quale appreſſo gli Uomini è di
grandiflima autorità e la Religione degli Dii nella podeſtà de' quali ſono el
Re. Sin quì Svetonio. Non potea dunque che molto pia. cere ad Augufto che
Virgilio noftraſſe e nel primo enel ſe fto e nell'ottavo che nella ſua
genealogia verano i Re, gli Dei, e gli Eroi. Virgilio dice nel primo libro: il
giovine A ſcanio che porta oggidiil cognome di Giulio e che ſi chiamava Ilo,
mentre Ilio era in piedi, governerà Lavinio per trent'anni 1 in. 185 intieri
etraſporterà la sede del Regno in Alba lunga di cui faa rà una forte Città. Nel
feſto egli dice: uſcirà dal ſangue Tro jano miſto all' Italico Silvio ſuo
figlio poſtumo che perpetuerd in Alba il ſuo nome, e ſarà egli fello Re e padre
di molti Re,. per lui la noſtra ftirpe dominerà in Alba. Virgilio ſcaltro nul
la parla delle guerre che ſecondo Dionigi d'Alicarnaſſo vi fu rono tra Giulio
figliuolo d'Aſcanio e Silvio, e molto meno che per i ſuffragj del popolo ſi
deſſe a Silvio il Regno che apparteneva a ſua madre, ea Giulio per contentarlo
la fo vranità ſulle coſe della Religione, per cui, ſoggiunge Dionigi, la
Famiglia Giulia ha goduto fin al mio tempo del ſovrano Pontificato, e s'è
chiamata Giulia a cagion d' Julo da cui u ſciva. Io non so accordar queſto
paſſo di Dionigi d'Alicarnaſ ſo con quell'altro di Plutarco e di Svetonio, ove
ſi vede che Giulio Ceſare non per dricco di ſangue, ma per i ſuffragidel popolo
in competenza di Catulo ottenne il ſommo Pontifica to. Laſciando cid, baſta quì
oſſervare, che Virgilio confonde Aſcanio con Silvio figliuolo di Lavinia e gli
altri diſcendenci da lui, poichè dice, che v'era ſcolpita tutta la ftirpe
d'Enea cominciando da Aſcanio. Io così interpreto quel Ab Aſcanio. Di tutti
queſti Re e di queſti Eroi Virgilio nefa come del le imagini trionfali, che pone
nell'orlo del ſuo Scudo, come negli atrj delle caſe de' Romani ſi poncano le
imagini degli Avi loro, ſulle quali Giuvenale e Plinio fanno sì gravi riflet
fioni intorno al biasmo ed alla lode de' diſcendenti. Ciò ba fi intorno la lode
manifeſta della ftirpe d'Auguſto. Palliamo alle lodi indirette. Nelle medaglie,
ove fi legge Reft. o reſtitui, ſi vede l'ima. gine o d'un Bruto, o d'un Coclite,
o della libertà, o d'al tre coſe alluſive alle azioni celebri de' Romani
antichi, che gl' Imperatori Romani aveano imitate o reftituite. Il P. Ar duino
vuole che queſte allegorie nelle medaglie cominciaſſero ſotto Tito, di cui ſi
contano fino 22. medaglie di queſta ſpe. zie e terminaſſero ſotto Trajano, di
cui ſe ne contano 24. ma non, perchè queſte medaglie non ci reſtino, ſi può
dedur che ſotto gli altri Imperatori e particolarmente ſottoAuguſto, che
vantavafi d'effere il difenſore della libertà del Senato e dei popolo,
l'adulazione non aveſſe inventate l'allegoric; certo è almeno, che con
queſt'ipoteſi ſi rileva il ſenſo del ratto del. le Sabine, e della pace ira
Tazio e Romolo. Prima che Planco determinaffe il Senato a dar ad Occavio Tomo
II. il 186 9 il nome d'Auguſto, molti volcano che ſi chiamafle Romolo. In fatti
Auguſto l'imicava non ſolo nella fondazione d'un nuovo Impero, ma ancora in
molte circoſtanze della ftella fon dazione. Come Romolo col ratto delle Sabine
avea provvedu to al mantenimento della Città, così Auguito con la legge di
maricar gli ordini che Orazio chiama legge Marita; due ne fece Auguſto., la prima
nell' anno 736. e ſi chiamava legge Giulia, e l'altra dell'anno 762. e li
chiamava legge Popea perchè fatta ſotto i Conſoli Sulpizio e Popeo. Con queſte
leg. gi fi rinovarono l'antiche rammemorate da Cicerone e da Aulo Gellio, e
Dion Caſſio merte in bocca d'Auguſto una lunga arringa su queſta materia al
Senato, nella quale dopo d'aver cogli eſempj delle nozze degli Dei eſaltato il
vantaggio e la giocondità de'figli, l'utile della Repubblica, e il biasmo di
viver ſenza moglie, gli fa dire: Romolo autor noftro, e da cui diſcendiamo, non
li ſdegnerà con tagione conſiderando il fuo naſcimento e i coftumi introdotti?
Orazio nel Carme ſecolare lodando per queſta legge il Se nato obliquamente loda
Auguſto; ma Virgilio nella lode obli. qua involge l'argomento del minore al
maggiore come s'egli diceffe: fe tanta obbligazione hanno i Romani a Romolo che
con una violenza provvide al mantenimento della Città, mol to maggior
obbligazione i Romani hanno ad Auguſto che ſen. za danno de' vicini vi provvide
con una legge si ſaggia. Romolo dopo le guerre con Tazio ai rapacificò
ſolennemen. te con lui, e diviſe feco il Regno; ed Auguſto dopo molte guerre
con Marcantonio conciliatoſi ſeco per l'opera de' co muni amici diviſe l'Impero,
del quale il termine ſecondo Plu tarco era il Mar Jonio. Tutta la parte,
dic'egli, verfo Levan te fu conceſſa ad Antonio, e l'alira verſo Occidente a
Ceſare. Pegno della pace fu Ottavia maritata ad Antonio, e certamente ella è
rappreſeatata nella vittima che ſi ſcanna nella ceremo nia del giuramento tra
Romolo e Tazio: ne deve far difficol tà il noine della vittima, poichè tutto
ciò che li confacrava agli Dei era fanto, e la Scrofa è ſtata ad Enea d'indizio
del paeſe che ricercava. La pittura di Mezio non è meno allegorica; egli tradi
Tul lo Oſtilio come Antonio tradì la Repubblica, e tradi Ottavio con la guerra
che all'uno ed all'altra intimo per far piacere a Cleopatra. Mezio ne fu
ſquarciato a viſta di Tullo; ed An. tonio fu coſtretto a darſi la morte quafi
agli occhi d'Augufto. An 187 Antonio mentre s'incamminava al ſepolcro ove s'era
rinchiuſa Cleopatra, andava verſando il ſangue per le Atrade come ap punto il
corpo di Mezio per la ſelva. Non ſi potevano eſpri mer da Virgilio coſe sì
delicate che in un quadro allegorico, Due volie, dice Svetonio, entrò Auguſto
in Roma vitto rioſo e ſenza trionfare, una, poichè egli ebbe vinto Bruto e
Caffio ne'campi Filippici, l'altra avendo vioto Seſto Pompeo in Sicilia; il che
moftra, qual foſſe la modeſtia politica d ' Auguſto; queſta ſteſſa egli usò con
Marcantonio del quale e gli non crionfo, ma di Cleopatra, come ſi può
raccoglier dal Trionfo deſcrito da Dion Callio. Egli ſollevò i figliuoli d'
Antonio alle prime dignità, nè col moſtrar odio e vendetta con Antonio dopo
ch'egli era morto voleva offender Octavia a cui era ſempre grata la memoria del
marito. Orazio e Vir gilio ben ſapendolo non mai parlarono di Marcantonio ſc
non mettendolo in compagnia di Cleopatra su cui fecero ca der l'odio e la colpa;
ma nel tempo ſteſſo, conoſcendo forſe che Auguſto ſi compiaceva, che negli
animi de' Romani non ſi ſmarriſſero l'idee di quanto avea fatto contra
Marcantonio per la finta difeſa della libertà, eſli procurarono di maſcherar ne
l'azioni con l'allegoria, della quale Auguſto poteva abba ſtanza intenderne il
ſenſo, e non offenderſi i partigiani d'An tonio per le varie interpretazioni
che poteano darle. Nelle mie note su l’Odi d'Orazio io ſpiego con ciò molte
coſe in intelligibili ſenza queſta ſuppoſizione, nè ſarà diſcaro che ne moſtri
l'uſo nelle ſtorie di Porſenna e di Manlio ſcolpite da Virgilio nella ſeconda
ovale dello Scudo. Porſenna voleva riſtabilire in Roma la tirannia traſportan
dovi i Tarquinj, e nonmeno Antonio voleva riſtabilirla tra ſportandovi
Cleopatra. Se Antonio, dice Dione, foſſe ſtato ſuperiore e ſignore del tutto,
era per dare a Cleopatra la Cit tà di Roma; è poco dopo ſoggiunge, che
Cleopatra era venu ta in ſperanza d'acquiſtar l'Impero Romano, e che quando al
cuno le dimandava giuſtizia, ella riſpondeva che gliela fareb be in Campidoglio:al
che pur allude Orazio nell'Ode 37. l. 1. dicendo ch'ella era ebbra di folli
ſperanze non meno che di vino mareorico. Io non so ſe troppo raffini nel
ritrovar in Clelia che ſi falva a nuoto, Ottavia che al dir di Plutarco eſce
precipitoſamente dalla caſa d'Antonio; ma certamente Coclite che rompe il ponte
è un ſimbolo d'Agrippa che con la vittoria navale interrompe l'avvanzamento
d'Antonio. AQ 2 Tito 188 Tito Manlio è difenſore della libertà del Campidoglio
con tra i Galli, come Antonio fu difenſore della preteſa libertà contra Caſſio
e Bruto e gli altri nimici di Giulio Ceſare. Non mancarono, dice Plinio, i
fregi delle coſe militari in Manlio Capitolino, ſe non gli aveſſe perduti
nell'eſito della vita; e Tito Livio ſoggiunge, che lo ſteſſo luogo nell'Uomo
ſteſſo fu un monumento e d'inſigne gloria e di ultima pena. Anto nio difeſe il
popolo Romano ne' Campi Filippici, e il popo lo Romano in Azio ed in
Aleſſandria l' inſeguì e fu cagione della ſua morte. I Salj ed i Luperci
eſultano, e le matrone ne loro cocchi agiati conducono le coſe ſacre per la
Città per dimoſtrare che non ſono ammeſſe in Roma le ſuperſtizio ni Egiziache,
abborrite eſtremamente da' Romani ne'cempi d ' Auguſto e di Tiberio. Catilina
tormentato nell' Inferno non moſtra egli le pene dovute a Marcantonio? e per la
ragion de contrarj quante lo di meritava Auguſto per la ſalvata libertà? In
grazia di que fta ſoffriva Augufto che fi lodaſſe Catone Uticenſe. Orazio
nell’Ode 12. c. 1. lo mette tra gli Eroi di Roma. Loderò di Caton la nobil
morte? Il P. Catrou pretende, che il Catone che negli Elisj dello Scudo dà
legge agli ſpiriti, non fia altrimenti Catune Uricen ſe, ch'era troppo odioſo
a'Ceſari, ma Catone il Cenſore, di cui dice Seneca, che tanto giovo co'ſuoi
coſtumi al popolo Romano, quanto Scipione colle ſue guerre. Il P. della Rue é
per il Carone Uticenſe, ma non ne aſſegna la ragione, la quale è manifefta, ſe
ſi riflette al paſſo di Taciro da me nell' alıra diſſertazione addotto e che
qui ancora ſoggiongo, perchè cgli moſtra quanto Ottavio fi vantafle, come
Cromuello fece a' noſtri tempi, di paſſar per difenſore della pubblica libertà.
Tito Livio (così fa dir Tacito a Cremuzio Cordo in Senato ) chiariffimo tra
tutti gli Scrittori e per eloquenza e per fedel tà, celebrò con tante lodiGnco
Pompeo che Auguſto lo chia mava Pompejano, nè perciò gli fu meno amico. Nelle
Opere di Aſinio Pollione (cui Virgilio dedicò l'Egloga terza ) li fa
onoratiflima memoria di Callio e Bruto: Meffala Corvino pre dicava Caffio per
ſuo Imperatore, e l'uno e l'altro viſſero lun. gamente pieni di ricchezze e
d'onori, ed Auguſto, non ſi sa le con maggior lode di manſuetudine o di
prudenza, laſciò 1 cor 189 correr le lettere d'Antonio, e l'orazioni di Bruto,
che molto lo diſonoravano; nel che forſe volle imitar Ceſare Dittatore che
tollerò i verſi di Bibaculo e di Catullo, ed al libro di Marco Cicerone nel
quale s' inalza Catone al Cielo, riſpoſe perorando come ſe foſse avanti i
Giudici. Con queſto paſſo di Tacito ſi può dar la ragione per la quale Virgilio
ed Ora zio non temerono, dedicando l'Opere loro ad Auguſto, di no. minar Giunio
Bruto, Marco Bruto, e Callio, Catone, e Pom peo. Maquale ſcaltrezza
cortigianeſca v'è in Virgilio nell' introdur Catone a dar legge agli ſpiriti?
Par, ch'egli accen ni, che Carone meritava ſolamente grado in quella Repubbli
ca ideale di Platone, la quale ſecondo Cicerone egli cercava nella feccia di
Romolo. Ed ecco ciò che dovea dirſi intorno alle lodi indirette ed allegoriche.
Le figure del quarto e del quinto ſpazio contengono lodi di rette, perchè cuite
ripiene delle coſe di cui si compiaceva Auguſto che i Romani continuamente
acclamaffero. Egli ſteſ ſo, come ſi diffe, avea nel Foro di Ceſare conſecrata
l'ima gine della battaglia, e del Trionfo, nè io dubito punto che Virgilio ne
aveſſe eſpreſli i tratti della pittura nello Scudo in quella guila, che nel
primo libro nel rappreſentar il Furore alliſo ſopra i trofei e con le mani
annodate al tergo imita la pittura ch'era nel Tempio di Giano. Tutto poi nella
deſcrizione e della battaglia, e del Trion fo, è diretto alla lode d'Auguſto.
Nella battaglia, Auguſto è coi Padri, col Popolo, coi Penati, e co'magni Dei,
ed ha in fronte la ſtella paterna; ciò ſignifica, che la guerra era in trapreſa
per la libertà del Popolo, del Senato e coll'alliſtenza di Giulio Ceſare già
Deificato. All'incontro Antonio non ha ſeco che de' Barbari, ed un'effeminata
Reina; Auguſto è di feſo da Venere genitrice, da Minerva, e da Apollo, Dei del
la prudenza e del conſiglio, e da Nettuno, che gli era ſtato favorevole nelle
guerre in Sicilia contro Seſto. All'incontro Antonio non ha ſeco che Dei
moſtruoſi ed odiati da' Romani. Quanto cgli deſcrive più feroce la pugna, tanto
maggior mente eſalta il valore d'Auguſto e d' Agrippa, ch'egli ſempre
accompagna per le ragioni di ſopra accennate. Le Furie e la Diſcordia con
Bellona liriferiſcono a Cleo patra; ma qual mai v'è ſagacità poetica
nell'accennare la fu ga e la morte di queſta Reina? Mentre ella ſuona il filtro
non vede i due ſerpi che la minacciano alle ſpalle; ella con fida iyo fida in
vano nelle forze dell'Egitto, e in vano tenta di rifu. giarſi nelle più occulte
ſpiagge delNilo. Tutto allude al.con higlio ed alle azioni di Cleopatra. Perchè
poi Virgilio non nc introducefle nel Trionfo l'effigie, e tra i prigioni non
poneſ ſe i figliuoli di lei, la cagione n'è forſe ſtata il timore d'ec citar
nell'animo altrui con queſte imagini qualche grado di ammirazione e di
compaffione, e perciò ſcemar in parte la lode d'Auguſto, e tra l'altre quella
della pietà. Ne'gran Poe. ti biſogna egualmente riflettere e a quel che dicono
e a quel che tacciono, onde molto male s'argomenta dalla Poeſia alla Storia, e
dalla Storia alla Poeſia, quando non s'attende al fi ne a cui tutto vuol
accomodare il Poeta. Il fine delle figure ſcolpite nei vari ſpazi dello Scudo
ha relazione al fine gene rale dell'Eneide. Le figuredel ſecondo ſpazio
riguardano il ſenno d'Auguſto, le figure del terzo il valore, le figure del
quarto riguardano la ſua pierà. Queſte ſono le tre virtù do. minanti
dell'Eneide. Dionigi d'Alicarnaſlo, che ſcriveva nel tempo d'Augufto, le
ſtabiliſce come neceſſarie ai fondatori d ' un Impero, e Virgilio vi fabbrica
ſovra l'Eneide. Molte altre coſe io potrei addurre intorno l'artifizio poeti.
€0, la chiarezza, e la brevità, colla quale Virgilio in sì po chi verſi eſprime
tante coſe, nè mai per oftentazione o d’in. gegno o di dottrina o d'erudizione,
maſempre relativamente al diſſegno del tutto e delle parti, ciò che deve
ſervire a' Poe. ti moderni di precetto e d'eſempio. atentat nesatentratata L A ſecca della
Filoſofia Italica fondata da Pitcagora ebbe nome e ſede nella Magna Grecia, tra
le cui Provincie fu per l'eccellenza de'Filoſofi, che vi fiorirono, celebre la
Lucania, ed in queſta la Città di Velia, o d'Elea così denomi nata dal fiume
che l'irrigava. Quivi Senofane di Colofone, Cit tà della Jonia nell'Alia minore,
ſtabilì e perfezionò la fecta, che dalla Città d'Elea fi diffe Eleacica, e
meritò d'avere tra gli al tri diſcepoli Parmenide nato di Pireto, e quel
Filoſofo grave e venerabile, che con Zenone paſsò in Atene, ove tenne la con
ferenza con Socrate eſpreſſa in queſto Dialogo. Ora avendomi propoſto io
d'illuſtrarlo nella ſua parte ſtori ca e Filoſofica, credo diſoddisfar quanto
baſta al mio impegno ſe prima tento d'accordar l'erà controverſa dei tre
Filoſofi nomi nati, indi ſe della dottrina Eleatica ſpiego l'origine e
l'effetto, o la Filoſofia Pittagorica, e la Platonica; finalmente ſe mi fer
punto che Platone in queſto Dialogo n'eſpoſe, e dichiaro l'artifizio filoſofico,
e poetico dello ſteſſo Dialogo. lo difli, che Senofane ftabili, e perfezionò la
ſecca Eleacica perchè Platone dice nel Sofiſta, la gente d ' Elea incomincia
appref ſo di noi da Senofane, anzi da più antichi, i quali non poteano eller
che Talete, o Pittagora, oi difcepoli loro; non regnando, allora alıra
Filoſofia nella Grecia, ſe non l'introdotta dai due fondatori, o profeſſata da
i loro allievi. Alcuni però fecero Se nofane poſteriore a Talete, ma più antico
di Pittagora, nè fo dove prendeſſero le loro congetture cronologiche, alle
quali oltre l'autorità di Platone, s'oppongono le ſcoperte dei due Fi loſofi, e
i viaggi loro. Taletecalcolo il primo l' eccliſli lunari, ma come poteva egli
calcolarle ſenza conoſcere la propolizione, che Euclide poi fe ce la 47 del
primo libro degli Elementi, e di cui s'aſcrive or dinariamente l'invenzione a
Pitcagora? I calcoli aſtronomici ſo mo ſul. no (4 ) no dedotti da trigonometrici,
principio de' quali è il triangolo rettangolo miſura diſe ſteſſo, e de gli
altri triangoli. Pittagora dunque, che l'invento, o fu contemporaneo di Talete,
o fiori prima di lui., Io credei, che queſta foſſe una dimoſtrazione in
cronologia, finchè in Plutarco (a ) ritrovai che gli Egizj ſimboleggiavano co?
tre lati del triangolo rettangolo miſurati da 3, 4, e s le loro principali
divinità Ilide, Oliride, ed Oro; aſſegnando ad Oſiri de la perpendicolare, la
baſe ad Ilide, e ad Oro l'ipotenuſa; L'antichità del ſimbolo manifeſta quella
della cognizione, tan to più che gli Egizi coltivarono l' aſtronomia da poi che
eb bero inventato la geometria per miſurare i terreni, e non par veriſimile,
che ſenza conoſcere il triangolo rettangolo, il pri mo e il più facile ad
immaginarſi de gli altri, poteſſero riu ſcire nella pratica di queſte due
ſcienze. V'aggiungo, che fe condo Platone (6.) noci erano, agli Egizi gl'
incomenlurabili, la prima idea de' quali naſce dall' impoſſibilità di eſtrar la
radice dal quadrato dell'ipotenuſa del triangolo; I lati del retcangolo Pitta
gorico ſono i numeri accennati, e queſta è la prova che dagli E giz lo
toglieſſe Pittagora, e nello ſteſſo tempo o poco prima l' aveſſe colto Talete,
benchè poi Talete ſi contentaffe di moſtrare all'Aſia minore l'ulo aſtronomico
della propoſizione, e Pictagora ne deſſe alla Magna Grecia la dimoſtrazione
Geometrica, ed è forſe quella regiſtrata da Euclide nel primo libro diverſa
dalla 8 del libro 6 dedotta dalle proporzioni delle linee, e che nel progreſſo
del tempo Eudoffo, che fiori nel tempo di Placone, portò dall' Egitto col s
elemento. Or fe i gradi delle cognizioni dello fpirito umano ſono fema pre gli
ftefli, dall'analogie dell' Epoche moderne ſi poſſono de durre le antiche, e
particolarmente quelle che hanno relazione agl'inventori de' principjmatematici.
Nel paſſato ſecolo ſi trova prima dal Toricelli la Cicloide, e l' Ugenio
l'applicò a regola re il moto dell'orologio a pendulo; il Newtono fi limitò
all'altrace ta Teoria della luna, e l' Hallejo l'applico a correggere le Tavo
le aſtronomiche. La ſeconda congettura della contemporaneità di Pitragora, e di
Talete, ſi prende da coſe più facili. Vuol Jamblico, che Ta lete ſcriveſſe una
lettera a Ferecide maeſtro di Pittagora, e gli legaſſe certi fcritti morendo, e
par che Plinio convenga che i due Filoſofi foſſero ſtati in Egitto al tempo che
regnava il Re Amaſi. La queſtione non cade più dunque ne ſu tutto il ſecolo, ne
(a) Trattato d'Ilide, ed Oſiride. (6 ) Nella Rep. e nelle leggi. (5 ) 1 4 ne
ful mezzo ſecolo, ma su l'età dell'uno e dell'altro di pochi anni diſtante;
Talete par più vecchio ſe ſcriſſeuna lettera al maeſtro di Pittagora, machi sa
poi ſe Pitragora non era allora in Egitto? queſta lieve differenza non toglie
però, che ſe Talete' fu più d'un ſecoloprima di Senofane, non lo foſſe ancora
Pittagora: Io ritrovo bensì, che Senofane era contemporanco d'Epicar mo, e
diEmpedocle. Secondo Timeo lo Storico, Senofane paſsò in Sicilia al tempo di
Gerone, ſotto il cui Regno Epicarmo era illuſtre per le ſue commedie, e
Plutarco (a) ci conſervò la memo ' ia d'una riſpoſta, che diede Senofane ad
Empedocle. Non è facile il determinare, nè qui lo cerco, quanto Epicar mo, ed
Empedocle foſſero diſtanti da Pittagora, e quindidà Ar chita Tarentino il
vecchio, da Peritione, da Timeo di Locri, da Ocello Lucano, e da altri, che ſi
dimandavano Piccagorei (6 ) perchè udirono Pittagora, a differenza deglialtri,
che ſi chiamava no Pittagoriſti. Quando cominciò Senofane a ſtudiar la
Filoſofia, quella di Ta lete era già diffuſa nella Jonia, e quella di Pittagora
nella Magna Grecia,e nella Sicilia; su queſto fondamento altri fecero Seno fane
diſcepolo di Anaſimandro, ed altri di Archelao diſcepolo di Anafagora, il quale
avea il primo traſportata la Filoſofia dalla Jonia in Atene, ove paffato
Senofane ftudiò ſotto (c ) un certo Bottone Ateniere. Dalla povertà cacciato
Senofane dalla Grecia, paſsò nella Sici lia e quà s'abbandono alle doctrine
Pittagoriche, più delle Joniche conformi all'ingegno di lui acre, e profondo.
Dalla Filoſofia Jo nica, e dall' Italica traſſe un nuovo liftema, è meritò ď'
effer ca po della ſecta Eleatica primo fonte dell'Accademica, e della Pla
tonica, delle quali poi furono rami lo ſcetticismo, e lo ſtoicismo, Nulla
ancora s'è fatto, ſe non ſi dimoſtra accordarſi l'ecà di Senofane con quella di
Parmenide, e queſta con quella di Socra te. Tralaſciare dunque molte epoche
inverifimili, io m'arreſto a quella che aſſegna Timeo a Senofane, ed è che egli
fiorille nell'olimpiade 76. Parmenide, ſecondo Laerzio ſeguito dallo Stan lejo,
e da altri, fiorì nell' olimpiade 69 diſtante dalla 76 di 7 olimpiadi, che
importano 28 anni, calcolando ogni olimpiade per 4 anni compiuti. La voce
fiorire è molto vaga o ſteľa nel la Cronologia, perchè non ſempre moſtra, che
un Filoſofo fof ſe nel punto più alto della ſua fama, ma che ſolo aveſſe un no
meilluſtreacquiſtato. Il Newtono, che cosi rapidamente ſi per fezionò nelle
matematiche, fioria del pari in Inghilterra nel 1662 quando ſcriſſe al
Leibnizio la lettera in cui gli dichiarava lo ſvi luppo, (a ) Plut. de vit.pud.
(6) Patr. diſcuſs. prop. 1. 6. (c) Laerzio vit.di Sen. (6 ) 3 8 luppo, e l'uſo
del Binomio eſaltato ad una potenza indetermi nata, e nell'anno 1716 in cui
molte coſe aggiunſe al ſuo libro de' colori, e n'illuſtrò molte altre nei
principj naturali della Fi loſofia matematica, Senofane, che lo Scaligero fa
vivere 104 an ni, ed altri almeno fino a 100, potea fiorire in olimpiadi mol to
diftanti, perchè per la forza della ſua mente facilmente riu fcendo nelle fue
applicazioni, in breve acquiſtava fama di lomme Filoſofo, e la ſua fama tanto
più ſpargeali per le bocche degli Uomini, quanto egli abbelliva le ſue
meditazioni filoſofiche con la Poelia per farle ricercare, e leggere con più
d'avidità. Parmenide fece i ſuoi ftudi in Elea (a ) ſotto Amenia, e Dio cheta
Pictagorici, i quali lo riduſſero a laſciar le ricchezze, ecol tivar la vita
privata, e darſi tutto alla Filoſofia. Biſogna dun que che in eſſa molto
riuſciſſe, o la Filoſofia foſſe la paſſione, che più lo dominava, ſe nato de'
più ricchi, e de’più nobili di Elea ebbe tale coraggio; ma ciò molto applauſo
dovea avergli acquiſtato appreſſo de'ſuoi Cittadini, ſe fin d'allora
cominciarono a celebrarlo in guiſa, che al dir di Ermipo Empedocle l'emuld.
Nulla vieta il ſupporre, che Empedocle avelTe molto ſoggiornato in Elea, e poi
foſſe ritornato in Agrigento ſua Patria. In Elea era ſtato emulator di
Parmenide doctiſſimo nelPittagoriſmo, e lo fu in Sicilia di Senofane, che lo
profeſſava con qualche cangiamento', dopo gli anni 28 che è l'intervallo
frappoſto tra l'olimpiade 69 e 76. Paſso Senofane in Elea, ed ivi Parmenide
conſecrato agli ſtudi corſe ad udir Senofane, come i giovani nobili, e ben
educati ſo leano far nella Grecia, quando nelle loro Circà udiano entrar un
Filoſofo illuſtre, e che potea inſtruirli in qualche nuovo liſte ma, del che
chiari gli eſempi ne vediamo nel Protagora, nelGor gia, ed in altri Dialoghi di
Platone. Quando Parmenide udi Se nofane, queſti poteva eſfer molto vecchio; ma
qualunque età dia ſi a Senofane, mi baſta, che nel pricipio dell' olimpiade
76Parme nide imparaſſe da lui il fiſtema dell'uno immobile, e non aveſſe allora
che 36, e ancor 40 anni, la ſteſſa età che avea Zenone quando diſputò con
Socrate in Acene. Socrate nacque al fine dell'olimpiade 77, ed avea 4 anni com
piuti o 5 anni cominciati, quando nella noſtra ipoteſi Parmeni de ne avea 40.
Se zo anni dopo ſi fuppone, che Parmenide con Ze none paſlaffe da Elea in Atene,
come vuol Platone, non avea che 60 anni, e Socrate che 25, onde era egli molto
giovane relativa mente a Parmenide. Semplici, e al fommo veriſimili ſono queſte
ipoteſi degli ſtudi, 1 e dei (a ) Laerzio vita di Parmenide. 1 (7 ) e dei
viaggi dei due Filoſofi, e ſe s'accordano facilmente con le olimpiadi, perchè
oftinarſi a rigettarle, e rinunziare all'au corità di Platone, che potea molto
meglio al fuo tempo cono fcere l'epoche dell'era filoſofica, che non ſi
conobbero 6oo an ni dopo, e ben più? Le circoſtanze, con cui Platone accompagna
l'abboccamento di Socrate con Parmenide, accoppiano in guiſa alla verità del
fatto la veriſimiglianza ſtorica del Dialogo, che pare non do ver laſciarſi
alcun ſoſpetto. Io le eſtrarro dal Dialogo. Parmenide, e Zenone fuo diſcepolo
favorito o fuo figlio a dottivo abitavano fuor delle mura di Atene in caſa di
un cer to Pitidoro. Nelle ſolennità de grandi Panatenei, itofene So crate a
ritrovar Parmenide, ritrovò folo in caſa Zenone, e comia cid a diſputar feco fu
l'idee. Entrato poco dopo Parmenide in caſa con Pitidoro, ſi proſeguì la
diſputa incominciata alla pre fenza di molti, tra' quali Ariſtotele non lo
Stagirita, ma uno dei 30 Governatori, o Tiranni di Atene. Tali ſono le circo
ftanze del luogo, del tempo, e dei teſtimoni della diſputa. Socrate non avea
allora che 25 anni; or eſſendo egli mor to nell'età di 72 anni,
dall'abboccamento alla morte non vi fo no che 47 anni di diſtanza, e tanti
appunto o pochi più dall' abboccamento al Dialogo, ſe Platone lo ſcriffe dopo
la morte di Socrate: ma poniamo che l' aveſſe compoſto anche 20 anni dopo; la
memoria di un Uomo così illuſtre qual era Parmeni de non potea più ignorarli in
Atene, di quel s'ignori ora a Parigi la dimora che vi fece il Leibnizio, e
l'Ugenio, e le di fpute che ebbero nell' Accademia reale. Alle verilimiglianze
ſtoriche s'aggiungono le poetiche necef ſarie all' ornamento del Dialogo, che è
una ſpecie di Poeſia Dramatica: così lo teſse Platone.: Cefalo per bocca di
Antifone ſuo fratello uterino, e figliuo lo di Pirilampo, racconta ad A dimanto,
e Glaucone, tutto ciò che avea udito da Pitidoro fu la diſputa che ebbero
Zenone pri ma, e poi Parmenide con Socrate. ' Antifone avea converſaco
familiarmente con Pitidoro compagno di Zenone, ma poi laſcia ta la Filoſofia
coltivava l'arte equeſtre, e quando Cefalo ad in ſtigazione de' compagni andd a
ritrovarlo, egli dava certo fre no ad accomodare ad un fabro; circoſtanza che
io credo finta per dar rilievo al racconto, é fiffar la fantaſia del lettore
con qualche coſa di ſtrano. Par toſto che Antifone occupato in un volgare
eſercizio, non debba favellare ſe non di coſe volgari, nè mai s' aſpetta, che
egli ſia per ſalire nell' ultime aſtrazio ni della metafiſica; quindi il
lettore reſta ſorpreſo dalla mera viglia (8 ) 1 > e di viglia, allora che
egli racconta il principio della diſputa tra So crate e Zenone, e che poi
s'interrompe alla venuta di Parme nide, che fattoſi pregar un poco la continua
fino al fine. Quan te menzogne, ſe Socrate non parld mai con Parmenide ! All
incontro qual arte fina di veriſimiglianza poetica, per dar or namento alla
verità del fatto di cuiCefalo, Adimanto, e Glau cone vivendo poteano renderne
teſtimonianza? Come immagi narſi, che un Filoſofo il qual volea render accetta
la lettura de ſuoi Dialoghi, cominciaſſe a diſguſtar il lettore con bugie le
più sfacciate? Ariſtotele, che calunnia il ſuo Maeſtro in tante parti
dell'opere ſue fue, e che parld ſovente di Parmenide Socrate non attaccò mai
Platone ſul loro abboccamento, e pur ne poteva trar degli argomenti, per
renderne la dottrina ſoſpetta. Non ne parlano altri autori Greci più vicini a
Platone, non gli autori Latini, che più ſtudiarono i Greci, e tra gli altri
Cicerone e Plinio, che tante coſe ci conſervarono fu l' iſtoria ed Era
Filoſofica. Non v'è che il ſolo Ateneo il qual viſſe a' tempi di Marco Aurelio,
che vuol dir quaſi più di 600 anni dopo Platone. (a ) Egli dice: Appena
permette l' età che Socrate aveſe veduto, ed udito Parmenide, non dover però
noi meravigliar ſene, perchè Platone ſuppoſe che Fedro vivere al tempo di
Socrate; che Paralo, e Zantippo figliuoli di Pericle, e morti nella peſtilenza,
ragionaſſero nel Protagora, e che Gorgia diceſſe nel Dialogo del ſuo nome quel
che mai s'era fognato di dire. Molte altre accuſe contro Platone vibra Ateneo,
e s'affatica a dipingerlo tanto mordace, e maledico quanto bugiardo. Non so
perchè i Cronologi attenti a peſare ogni minuzia de'te fti non oſfervino, che
Ateneo nel dire vix ætas permittit dichiara, che poco intervallo di tempo v'era
ſtato tra la morte di Parme nide, e l'età di Socrate, maqueſto vix qual ha poi
forza cronologica poſto in bocca di Guriſconſulti, di Oratori, diPoeti, di
Filologi, non di Cronologi, che avrebbono diminuito l'allegrezza del convito
coi loro calcoli, e colle lor aſciutte illazioni? Il Calaubono il qual nel ſuo
comentario d'Ateneo in un'altro libro in foglio sfoga tanta eru dizione ſu
l’erbe, ſu ipeſci, ſui coſtumidel convito, elu mille altre coſe inutiliffime a
ſaperli nulla degna di dire ſu le accuſe colle qua li uno dei Dinnoſofiſti
morde Platone. Io per me credo, che A teneo vedendoſi incapace d' emulare
l'immenſità della dottrina Platonica, e l'arrificioſa maniera con cui l'eſpone
Platone ne'ſuoi Dialoghi, teſſe lunga ſerie d'accuſe, e lo condanna di menzogne
ro, e maledico per accreditar ſe non altro la veracità, e la mo deſtia colla
quale caratterizza i ſuoi Dinnoſofiſti. Il buon Grama cico (a ) Ateneo lib. 14.
Sympt, 9 ) tico ne goda egli pure, e ſen ' applauda; non per queſto io crede rò,
che Parmenide non poteſſe ragionare con Socrate, e ſtard immobile nelle mie
ipoteſi cronologiche, che a ben peſarle non vagliono meno di tante altre, che
in queſto ſecolo fi ſpacciano, e fi difendono come i Teoremi diGeometria:
Candidamente perd confeſſo, che io farò per ſacrificarle a colui, che
all'autorità di Ateneo ne aggiungere qualchealtra più dimoſtrativa, e meno ſo
fpecta; finalmente malgrado le congetture eſpoſte io ſon perſua ſo, che ſe
Platone tutto finſe, il Dialogo è più ammirabile per la menzogna poetica tutta
opera della ſua fantaſia, che non è per la verità del fatto, di cui poteano
farſi onore i men dotti. Platone fcriffe in Filoſofia più ditutti gli antichi
che lo precede rono, e come da Eraclito le coſe fiſiche, da Socrate le morali,
così tolle da' Pittagorici lemetafiſiche, le quali non ſi correffero che nel
fecondo ſecolo della Religione, per le varie diſpuce che, nacquero tra
iPlatonici, e tra i Criſtiani. Eſaminerò dunque prima d'ogni altra coſa la
natura della difpu ta, dopo di cui proporrò generalmente l'antica Filoſofia, ed
in di la particolareggierò in Pittagora, e ne'Pittagorici, tra'quali Se nofane
e Parmenide, e la terminerò con Platone. A queſte due coſe io riduco l'origine,
e l'effetto dell'Eleatiça Filoſofia.. Gli antichi Filoſofi, ſenza eccettuarne
nè pur uno, convennero nel principio, che di nulla fi fa nulla, e ciò gl'
impedì di poter conoſcere che Dio era un ente ſingolariſlimo, uno, onnipoten re,
buono, e libero; in ſomma di tutte quelle perfezioni dotato le quali o per
negazione, o per caſualità, o per eminenza gli at tribuirono i SS. Padri, e
cuti'i Teologi. Era Dio ſtato ſempre con la materia? Dunque altro non gli
competea, che eſſer un modo di efla od un ente, che ſolo per preciſion di
ragione dalla materia ſi diſtingueva; era egli per metà uno, per metà
onnipotente, fe dipendea da un principio, ſenza il quale operar non potea, non
più che il Pitcore dalla tela e dai colori, e lo Scultore dal marmo. La
diminuzione della potenza toglieva a Dio la bontà, perchè non poteva egli
vincer in guiſa la contumacia della materia, che non regnaſſe a ſuo malgrado il
male miſto col bene. Come dunque Mosè per opporſi al politeiſmo del ſuo tempo
dalla creazione cominciò la ſtoria del mondo; così per opporſi a tutti gli
errori che derivarono dall'eternità della mate ria fi cominciò nel ſimbolo
Apoftolico da Dio creatore, inſiſten do al dogma di S. Paolo, il quale nella
Epiſtola agli Ebrei: In tendiamo; (a ) dice egli, per la fede eſſere ſtati
connelli i ſecoli Tom. II. b dalla (a ) Epiſt. agli Ebrei cap. 11. Fide intelligimus
aptata eſſe ſecula ver bo Dei. (10 ) dalla parola di Dio. I Padri nelle loro
diſpute co'Gentili lo dichia rarono. Noi, dice Atenagora,Jepariam Diodalla
materia, lamateria crediamo un ente diverſo ---- (m ) Dio è uno, ed ingenito,
ed eterno; la materia è corruttibile; e poi celebriamo tutti un Dio ſolo crea
tore di tutte le coſe. - -.- la fua forza immenſa non poterono abbrac ciar
coloro con l'animo, che la notizia di Dio non cercarono nello ſtef fo Dio, ma
dentro fe fteſi. Taciano (6 ) pur dice: Dio non s'inſi nua nella materia e
negli spiriti materiali e nelle forme, ma egli è artefice inviſibile ed
intangibile di tutte le coſe. Teofilo d'Antiochia (c) parlando ad Autolico,
dice, ſe Dio è ingenito e la materia è pur tale, non è più Dio fabricatore e
creatore di tutte le coſe. Queſti Pa dri viſfero tutti e tre nel ſecondo ſecolo
non molto diftanti l' uno dall'altro. Gli errori de' Marcioniti, de'
Valentiniani, de' Baſiliani, chefuronopur cutti e tre che in queſto ſecolo diedero
occa fione a' Padri d'illuſtrare il lor zelo, dichiarando con la crea zione
della materia il principio fondamentale della Religione Criſtiana. Anzi Taciano
dimoſtro, che i Greci ne avevano ri cevute l'idee da'Barbari, ed i Barbari
dagli Ebrei, benchè poi le aveſſero oſcurate e corrotse. Affaccendati gli altri
Padri a purgarle, oſſervarono che Dio, autore del pari della Fede, che della
ragione, non le avea ſeparate in un modo caliginoſo ed impenetrabile, ma le
avea in maniera accordate, che dall'aurora dell'una fi potea paſſare al pieno
giorno dell'altra, cogliendo però dalla ragione quanto e Platonici e
Pittagorici e Stoici, ed Epicurei v aveano im preſſo col lor proprio carattere.
Si compiacquero dunque della ſetta Eclerica, ed il primo che l'abbracciale fu
Atenagora il primo de' Catechiſti d'Aleſſandria, poi S. Clemente ed Origene dal
Veſcovo Uezio chiamato Pocamonico (d ) anzichè Platoni ço, San Clemente ſpinſe
tant'oltre la condiſcendenza, che pro poſe come poflibile un ſiſtema
filoſofico, il quale raccoglieſſe tut te le verità ſcoperte dalla ragione umana
fin dal principio del mondo, ed agevolaſſe il metodo di far ricever i dogmi
della fede, e quello della creazione. Amonio Sacca conciliator di Ariſtotele e
di Platone, ritrovando che in Ariſtotele l' eternità del mondo ſi conciliava
con l'eter nità di Dio, ſe ben egli nulla ſcriveſſe, laſcid tuttavia a' ſuoi
diſcepoli, onde ſtabilire tal dogma. Diſtinſe egli l' eternica in due gradi o
in due ſegni, nell' uno dei quali poneva Dio, nell'altro le coſe bensì create,
ma da lui dipendenti, come il raggio dalSole, o l'ombra dal corpo. S'accorſero
i Padri, che iFi (a ) Apologia pro Chriftianis. (6) Tat. allir, cont. Græc. (c
) Teof. Aut, lib. 2. (d ) Iftor. del Moeffenio nel finedelCuduortio. (11 ) e
tras i Filoſofi mettendo con la creazione eterna una dipendenza tra la materia
é tra Dio, coglievano a Dio la libertà, perché cacitamente fupponevano, che da
Dio neceffariamente foſſe emanato il mondo come il raggio dal Sole e l'ombra
dal corpo. Far di Dio un Agente neceſſario, è lo ſteſſo che farlo per metà
Signore, per che ſe fi confeſſa da una parte, che da Dio dipenda la coſa che
egli fa, fi nega dall' altra che da lui dipende il farla ed il non farla. La
libertà è la maggiore delle perfezioni. Perchè dun que corla a un ente
infinitamenteperfetto? Lafcio S. Ireneo, S.Cirillo, ed altri, cheſoddisfarono
ampia mente a tutte l' obbiezioni; ma quello, che più degli altri le
ſcDIonvolſe ed atterrò, è ſtato Lattanzio Firmiano, che con au reo ftile nel
quarto ſecolo ſcriſe. In queſto ſecolo ancora ſcriffe ro Eufebio nella
Preparazione evangelica, e poi S. Agoſtino nel la Città di Dio, l'uno ſegut l'
ormeaccennace da Taziano, 1 alţro con erudizione più vigorofa, e più filoſofica
ſcriffe contro l'eternità, l'animazione, la divinica del mondo, e l'immutabi
lità del Fato. Apparve Proclo (as nel príncípio del V1. fecolo fondendo nella
ſua Teologia molto di quella de' nomiDivini at tribuita a S. Dionigi Areopagita,
rinovd il fiſtema di Amonio Sacca riſtoro il Platoniſmo caduto. Nel fecolo dopo,
Zac caria di Mitilene, ed Enea di Gaza, ſcriſſero' pure contro l'eter nità del
Mondo. E da' loro fcritii ſi raccoglie, che l'idea di Dio, combinata col
policeiſmo era un'idea nugatoria, non men di quel la del bilineo rettilineo,
che rappreſenta alla mente una figura, é non è che una contraddizione. Il P.
Balto, nel ſuo dotuiffimo libro contro il Platoniſmo ſvelato, lo dimoftra; e
dopo il Balto fe de fece dal Moeſfenio quella circoſtanziata iſtoria ſul
Platonis la quale è nel fine dell' opere del Cuduortio, da lui tradotre dall'
Ingleſe in Latino. lo nell’eſpor la doctrina de Filoſofi antichi non mi feryi
rò dell'autorita de' Platonici recenti, non più, che fe non aveſ ſero mai
ſcritto, ſalvo allora, che s'accordano cogli antichi, e ci confervano qualche
circoſtanza ſtorica indifferente. Cercherò prima ne' teſti de' Filoſofi ftefli
il ſenſo, che naturalmente preſen iano, e dove ſia queſto oſcuro, ed equivoco,
ricorrerà all'in terpretazione o di Cicerone, o di Plutarco, o di Sefto
Empirico, o di Laerzio Viſle Cicerone molti anni prima del Crifianeſimo, e
Plutar co viffe a Roma ſotto Adriano, o Trajano, dopo d'aver ſtudiato in Egitto
forro Amonio, diſcepolo di Potamone, e del quale egli b 2 par (a ) Pachimero in
Suida, Vedi Fabrizio Bibliot. art, Proclo. e mo,. (12 ) parla nella vita di
Temiſtocle ed altrove. Laerzio e Seſto Empi rico, fiorirono in circa ſotto
Severo, che vuol dire molto prima di Amonio Sacca, di Plotino, di Porfirio, e
di molti alori nimici del nomeCriſtiano; non rifiuterd dall'altro lato i
ſoccorſi, che i Padri m'offrono allora particolarmente, che non hanno certa
indulgenza alle opinioni filoſofiche, ſcrivendo agl’Imperatori, o non
argomentano ad hominem contro coloro, che gl'inſultava no. La mecafiſica di
Platone non è diverſa da quella de' Pittago rici, e ſe una volta io dimoſtro,
che queſti e particolarmente Pitta gora, Senofane, e Parmenide conobbero bensì
un principio intel ligente, ma non ſeparato dalla materia, anzi con effa non
facen do che un tutto, avrò dimoſtrato, io mi perſuado, che queſto pur era il
ſiſtema Platonico. Cominciero da Cicerone che in poche ma ſoſtanzioſe parole
compendio tutto il ſiſtema de' primi Accademici o di Platone, e lo craſſe da'
Pittagorici, come da Placone purtraſsero il loro gli Stoici, e i ſecondi e
verzi Acca demici, poichè quanto a' Peripatetici (a ) eli convenendo nelle cafe
non differivano, che ne' nomi. Gl’antichi, dice egli, divideano (b )lanatura in
due coſe, l'una delle quali era efficiente, e l'altraad eſsa quafi preſtandoſi
quella di cui ſi fa ceano le coſe.. Incid che facea riponevano la forza, in ciò
di cui ſi fa cea, una certa materia, ma l'una e l'altra era nell' una e nell'
altra perchè nè la materia può aver coerenza, ſe non ſia da qualche forza
ritenuta, ne v'è la forza ſenza qualche materia, poichè nullo v'è che non fic
in qualche luogo.. Se la forza e la materia erano indiviſibilmente unite, la
fola mente le ſeparava, e perciò conſiderar l'una ſenza l'altra era un?:
aſtrazione, una preciſion della menee. Cid che riſulta (c ) dall'uno e
dall'altro, o ſia dall'accoppiamento, lo chiamavano corpo, e quafi certa
qualità...--. Di queſte qualità al tre fono principali, ed altre derivate da
queſte. Delle principali ſono ognuna [CICERONE, QUÆST. ACAD. -- Peripateticos',
& Academicos nominibus differentes, & re congruentes lib. 2. (b ) De
natura autem ita dicebant, ut eam dividerent in res duas, ut altera eſſet
efficiens, altera autem quaſi huic fe præbens ea qua effi ceretur aliquid: in
eo, quod efficeret vim eff: cenſebant; in eo au tem quod efficeretur materiam
quamdam: in utroque tamen utrum, que: neque enim materiam ipfam cohærere
potuiſſe, ſi nulla vi contineretur; neque vim line aliqua materia: nihil eft
enim quod non alicubi eſſe cogatur. (c ) Sed quod ex utroque id jam corpus,
& quaſi q uandam qualitatem nominabanc Earum igitur qualitatum ſunt aliæ
Principes, aliæ ex his ortæ. Principes ſunt uniuſmodi, & ſimplices, ex iis
au tem ortæ variæ funt, & quafi multiformes: itaque aer quoque (uti niur (13
) ognuna della ſteſſa ſpecie, e ſemplici. Da queſte qualità, altre ne for no
nate, e quaſi moltiformi. L'aere, il fuoco, l'acqua, ela terra for no primi, e
da queſti nacquero le forme degli animali, e le altre coſe, che ſi generano
dalla terra. Dunque que' principi, per tradurlo dal Greco, ſi dicono elementi,
de' quali l' aria, il fuoco, banno la for za di muovere, e di fare, le altre
parti di ricevere, e quaſi di pati re, l'acqua, dico, e la terra. La parola
ſemplice quì non ſignifica indiviſibile, e Seſto (a ) Em pirico pur la prende
in queſto ſenſo. Vè un quinto genere, b )di cui ſono gli aſtri, e le menti
ſingolari, ed Ariftotele lo pone diſimile dagli altri quattro. Se le menti ſono
tratte dallo ſteſſo elemento, che gli altri, non ſon eſſe ſemplici nel ſenſo
d'indiviſibile, ciò che CICERONE dice altrove. Teniamo noi che l'animo abbia
tre parti, come piacque a Platone, o ſia ſemplice ed uno; ſe ſemplice ſia egli
come il foco, il fangue, l'anima, cioè il ſoffio. Queſte coſe conſtando di
parti non ſono ſemplici. Continua CICERONE. (c ) Ma penſano, che di tutte ſia
ſoggetto una certa materia priva di ogni specie, e d ogni qualità, e da eui
Butte le coſe ſono eſpreſſe e fatte, e che può ricever in sè tutte le coſe. Se
la materia era prima d'ogni fpecie, d'ogni qualità, non cra corpo, e perciò
conſiderata dalla mente, indipendentemen te dalla forza, ella era incorporea;
Selto Empirico chiama per. incorporei i punti, le linee, e le ſuperficie...
Platone nel Timeo, la chiama difficile ed oſcura fpecie, e il recercacolo
d'ogni generazione, e quali nutrice; aggiunge, che ella non fi diparte mai
dalla propria potenza, perciocchè tut te le coſe riceve, nè prende maiper alcun
modo, alcuna forma a queſte fimile, e prova eller convenevole, che di tutte le
ſpecie ſia privo quel. che ha in sè da ricever tisti'i generi, comequelli che
hanno da fa re unguenti odorofi, l'umida materia, che vogliono di certo odore,
cori dire di tal guiſa preparano ', che ella non abbia alcun proprio odore e
colore eziandio, vogliono in materie molli imprimere alcune pgure, los niuna
mur' n. pro latino ) ignis, & aqua, & terra prima ſunt. Ex iis au tem'
orræ animantium formæ earumque rerum quæ gignantur è ter ras, ergo illa initia,
ut è Greco vertam, elementa dicuntur; è qui bus aer, & ignis movendi vim habent
& efficiendi; reliquæ par tes accipiendi & quafi patiendi, aquam dico
& terram. a ) Contra Mathematicos. (b ) Quintuin genus e quo eſſent aſtra
mentesque ſingulares earum quatuor quæ ſupra dixi diſſimiles, Ariſtoteles
quoddameſſe rebatur. (6 ) Sed Salicetam putant oinnibus fine ulla fpecie, atque
carentem omni illa qualitate o... materiam quandam ex qua omnia eſptela, atque
effecta lipt qux'- tota omnia accipere pofito (14 ) 1 njuna figura affatto
laſciano primieramente apparire in quelle, ma cer cano pria di renderle
quantopoſſibil fra polite. Molte altre coſe aggiunge Placone, che Ariſtotele in
una de finizione riduce, dicendo che la materia non è alcuna di quelle co fe,
di cui l'ente fi determina, e tra l'altre coſe annovera la qua lica, e la
quantità, che par Cicerone ridurre alla ſola qualità; ma che l'idea del corpo,
e della materia foffero diverſe ſecon do gli antichi, lo dimoſtrano le diverſe
parole, con cui l'eſpri mevano, chiamando la materia ùns, ed il corpo owllde.
Chi po ne un nome, dice Platone nel Sofiſta, dalla cofa diverſo, introdu ce
veramente due coſe. La materia dunque, non eſſendo il corpo, ella era
incorporea, ed incorporea la chiama in molti luoghi Sesto Empirico, e Plotino,
la cui autorità qui è tanto più for te, quanto che egli ſteſo col nome
d'incorporeo, non ſignifi cava la ſteſſa coſa che noi chiamšamo fpirituale.
Stobeo (a ) lo conferma col dire: Si nega effer corpo lamateria non tanto,
perchè manchi degl'intervalli del corpo, o delle tre dimenſioni, quanto perchè
ſia priva d'altre coſe appartenenti al corpo, figura, co lore, gravità,
leggerezza, ed ogni altra qualità, e quantità. La materia pud (b ) in tutti i
modi mutarfi, ed in ogni parte non mai ridurſi al niente, ma ſolo in parti che
poſsono all' infinito partir li, e dividerſi, nulla eſſendo di minimo in natura,
che divider non fi pola. Le coſe poi che ſi movono tutte', moverſi con
intervalli, che all'infinito ſi poſſono dividere, e cosi' movendoſi quella
forza, cheab bian detta qualità (cioè il corpo ) e di qud, e di là verſando per
fano, che tutta affatto la materia fi muti, efi faccian le coſe, che chix miam
quali, dalle cui nature coerenti, e continue in tutte le ſue parti è fatto il
mondo, fuori di cui non v'è alcuna parte di materia, nè abas cun corpo. Quante
coſe raduna CICERONE in poche parole ! Con la divi fibilità all'infinito della
materia, eſclude gli atomi forſe ammeſ da Empedocle ne' minutiſſimi corpicelli,
che componevano gli elementi, e da Eraclito nelle mondature piccioliflime, ed
indivi fibi (a ) Stobeo. I. 1. Egl. fil. cap. 14. 16 ) Omnibusque modismutare
atque ex omni parte eoque etiam interi se non in nihilum ', ſed in ſuas partes
quæ infinite lecari, atque di vidi pollint, cum ſit nihil omnino in rerum
naturam minimum quod dividi nequeat: quæ autem moveantur omnia intervallis
moveri; quzintervalla item infinite dividi poſfint, & cum ita moveatur il
la vis, quam qualitatem effe diximus, & cum fic ultro citroque verfetur:
& materiam ipfam totam penitus commutari putant, & ita effici quæ
appellant qualia, e quibus in omninatura cohærente, & confirmata cum omnibus
fuis partibus effectum elle mundunt, extra quem nulla pars materiæ fit
nullumque corpus. (15 ) Ibili. Con la coerenza delle parti della materia, CICERONE
eſclu de il vuoto negato da tutti, da Talece fino a Platone, onde dif ſe
Empedocle: Nulla di vuoto vė, nulla che abbondi. Accenna pur CICERONE le leggi
coſtanti che conſervano icore pi movendoſi, e nel dir che fi movono con certi
intervalli, i quali all' infinito ſi poffon dividere, non applica egli le leggi
del moto a' corpi minimi come a'fenfibili? Le parti (a) del mondo effer tutte
le coſe che fono in eso, e tutte occupate da una natura che ſente, e nella
quale v'è una ragione per fetta, e la ſteſsa fempiterna, nulla effendovi di più
forteche poſsa diſtruggerla, e la steſſadirfi mente, ſapienza perfetta, e
chiamarfi Dio, ed eſer.quafi certaprudenza di tutte le coſe, cheprovede alle
coſe celefti, ed a quelle che in terra appartengono agli uomini. Se queſto Dio
degli antichi Filoſofi rifultava dalle nature coerenti e continue di tutte le
parti del mondo, ſe egli era il ſenſo, la ragione perfetta, la ſapienza, la
providenza che reg gea queſte parti, era egli altro che una modificazione della
forza e della materia, giacchè non v'era forza ſenza materia, nè materia fenza
forza, e non era egli ſeparatamente dalle co ſe conſiderato che un ente di
ragione? Qual relazione ha que fto Dio al noſtro, che è un ente ſingolariſtimo
in sè, e fepa rato non per preciſion di ragione, ma realmente dalla forza e
dalla materia, della quale egli è il Creatore? Alle volte lochiamiamo (b )
neceſſità, perchè null' altro pud farſi, ſe non ciò che da lei è coſtituito
nella quafi fatale, e immutabile con tinuazione d'un ordine fempiterno; alle
volte poi lo chiamiamo fortu na, la qual fa molte coſe improvvife, nè da noi
penſate per l'oſcuri. tà, ed ignoranza delle cagioni; ed ecco Dio rappreſentato
come agente neceſſario, o ſenza libertà; ecco diſegnato l' ordine fa tale e
ſempiterno delle coſe; ecco come per la noſtra igno ranza non poſſiamo
conoſcere la conneſſione, e le conſeguenze delle (a ) Partes autem mundi effe
omnia quæ infint in eo quæ natura ſentiente teneantur, in qua ratio perfecta
inſit quæ fit eadem ſem piterna: nihil enim valentius eſſe a quo intereat, quam
vim ani mam effe dicunt mundi eandemque effe mentem fapientiamque per fectam
quem Deum appellant, omniumque rerum quæ ſunt ei fub jedtæ quafi prudentiam
quandam procurantem cæleftia maxime dein de in terris, eaque pertinent ad
homines. 16 ) Quam interdum neceſitatem appellant quia nihil aliter poſfit, at
que ab ea conftitutum fit inter qual fatalem, &immutabilem conti nuationem
ordinis fempiterni; nonnunquam quidem eandem fortu nam, quod efficiat multa
improviſa hæc nec optata nobis propter obſcuritatem ignorationemque cauſarum, (16
) delle cagioni, e degli effetti loro. In ſomma l'antica Filoſofia aveva
adotata l' eternità, l' animazione, la divinità del mondo, e l'immutabilità del
Fato, le quattro coſe che Santo Agoſtino ha egregiamente combattute nella Città
di Dio. Comparando il trattato d' Ilide, e d' Ogride di Plutarco col paſſo di CICERONE,
non è difficile di raccogliere, che la Filoſo fia Egizia ne' principi
eſſenziali non era diverſa dalla Greca, ſe non nella maniera di ſpiegarſi o ne'
ſimboli. La materia, di cui parla CICERONE, era Ilide, la quale in ogni coſa
potea tramu. tarſi, e di tutte le coſe eſer capace, della luce, delle tenebre,
del giorno, della notte, della vita, della morte, del principio, e del fi ne.
La forza è Oſiride, la cui veſte ſi facea ſenza ombra, e ſenza varietà, d'un
color ſemplice, e rilucente; perchè ella è il principio dalla noſtramente ſolo,
intefo, puro, e ſincero, tutt' iſimbolicontrarj a quelli delle proprietà
dipendenti dalle qualità de' corpi diſegnati per Oro. Riſultava queſti
dall'accoppiamento d'Ilde, e d'Oſiride, e chiamavaſi parto o creatura,
rappreſentandoſi per l'ipotenuſa del triangolo miſurata dal 5; per cui ſi
chiamava con la voce Pente, da cui deriva Panta, o l'Univerſo, che gli Egizi
penſavano eſſer la ſteſſa coſa con Dio, nel che, come egli dice, s'accordava Ma
netone Sebenita con Ecateo Abderita. Diodoro di Sicilia nel principio della ſua
Storia, ſcrive coſa pen {aſſero gli Egizj su la generazione del mondo, ſul
principio del le coſe, ſul naſcimento dell'Uomo. Par che Euſebio afcriva a Tot,
che è il Mercurio degli Egizj, quanto ſcriſſe Sanconiatone ſul caos, e ſulla
formazione della Luna, delle Stelle, degli Elementi. La Teologia miſtica dei
Fenici, che dagli Ebrei, ſecondo Euſebio ed altri Padri, ſi preſe, reftd in
guila alterata e confuſa, che nel caos poſero prima i principj delle coſe, ed
introduſſero poi l'arte fice o l'amore, per opra del quale ordinarono il caos,
é fabbrica rono il mondo. Orfeo il primo la portò nella Grecia e L'Inno criſto
canto del caos vetufto, E come agli elementi, e come al Cielo Origin deffe, ed
alla vaſta terra, E alla profondità del mar Amore Antichiſſimo, e ſaggio. Il
caos era la materia, l'amore, o la forma, ed i prodotti, i compoſti, ed i
corpi, ed in queſte tre coſe conſiſtea la fiſica generale degli antichi. La
ſcienza che n'eftraſſero o la metafi fica rappreſentandola in una maniera molto
indeterminata, la ſciava infeparata la materia da Dio, e dai compoſti, ed era
molto perciò differente dalla noſtra metafiſica, la quale nell' en te include
eſſenzialmente le creature, nè s'eſtende che per un ' 9 1 5 analogia molto
lontana al Creatore. Io lo dimoſtrerò partita mente ne' liſtemi di Pittagora,
di Senofane, e di Parmenide, e ſarà facile ad applicarne l'uſo a Platone.
Pittagora e Platone (a ) giudicano, che il mondo ſia ſtato fatto da Dio: dunque
le Platone fece da Dio generar il mon do ordinando la materia fluctuante, egli
imparò ciò da Pitta gora, che l'avea imparato dagli Egizi, da Orfeo, anzi dal
pro prio maeſtro (6 ) Ferecide Sciro. Avea egli ſoſtenuto, che in tut ta
l'eternità Giove, il tempo, e la terra erano ſtati. Facciali pur di Giove, la
cagione di tutte le coſe, e gli ſi dia ſomma pruden za, e fomma ſapienza, egli
non ſarà mai che la forza, e l'amore che eguaglieraffi al tempo, e alla terra;
vi ſi aggiunga, che poi chè Giove diede il premio alla terra ſi chiamò queſta
Tellure, (c ) non altro mai ſi concluderà, ſe non che prima la forza, e l'amo
re temperaffe, digeriſſe, ed ornaſſe quella mole indigeſta, che chiamavali
terra. Pittagora generò il mondo dal foco, e a guiſa di foco ſotti liſſimo (d )
Iparſo, e rinchiuſo nel mondo, volea Placone, che foffe Dio. L'ornamento, (e )
l'unione, l'ordine di tutte le coſe furono chiamate da Pittagora Coſmos, o il
mondo, e diffe egli, che il mondo viſibile era Dio. Stimò il primo, dice
Cicerone (f) l'animo per tutta la natura delle coſe eſer diffuſo, e per la
mente da cui gli animi noftri ſono tratti, ne vide per la detrazione di que fti
diſtaccarſi, e ſquarciarſi Dio, e farſi miſera una parte di lui, mentre queſti
ſoffrivano. Dio dunque era il mondo, e l'anime era no parti di Dio, effetto
della Metempficoſi, ſe pur non era queſta una coſa affatto poetica, come Timeo
di Locri lo dice. VIRGILIO espresse il sentimento di CICERONE nelle Georgiche.
Della mente di Dio parci efſer l' api, E forfi eterei differo, che Dio Va per
tutte le terre, e tutti i mari, E pel profondo Ciel; quindi gli armenti, E le
pecore, e gli Uomini, e ogni ftirpe Di fere, e ogni altra, che da se rimove La
tenue vita allorchè naſce. Tomo II. E nell (a ) Plut. de Ifid.& Ofir.car.
374. Franc. Edit. Vechel. (6 ) Laert. (C ) S. Clem. Aleſs. (d ) San Giuſtino
apolog. Ermia nel fine dell'opere di S. Giuſtino. (e) Plut,plac.lib.2. (1) De
Natura Deor. I. 1. Elle apibus partem divinæ mentis, & hauſtus Æthereos
dixere: Deum namque iré per omnes Terrasque tractusque maris Columque profundum.
Hinc pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum Quemque fibi tenues naſcentem
arceſſere vitas. 1.4. Georg.. C (18 ) E nell' Eneide, Nel principio le terre,
il Cielo, e i campi Liquidi, e della Luna lo fplendente Globo, e gli aſtri
Titanj, interno fpirco Alimenta, ed infuſa in ogni membro Tutta la mole n'agica
la mente E fi framiſchia nel gran corpo; quindi E di pecore, e d'Uomini la
ftirpe, De volanti la vita, e'l mar che i moftri Sorco la liſcia ſuperficie
porta. no, Pittagora fu l'autor dell'idee; (a ) oſervd il primo tra'Greci che
la mente non potendo rappreſentarſi ſingolari, perchè ſono in numerabili nel
compararli, ne traſfe igeneri, e le ſpecie, ne'qua li ſi ravviſano le coſe
ſparſe. Così ravviſava tutti gli individui umani nell'animal ragionevole. Nel
far queſti aſtratti conſide rò, che la materia era mutabile, alterabile,
Auflibile in ogni gui fa, ma che non vi ſono ſpecie, che s'accreſcano, o che
perifca e perciò gli Uomini oſſervandole coſtantemente in tutti i tempi, e in
tutti i Paeſi le credono eterne ed immutabili. La que ſtione era di
rappreſentar queſt'idee. I numeri convengono all'Uomo, al cavallo, alla
giuſtizia, al la caſa, e a che so io; dunque i numeri ſono univerſali, perchè
atti alla rappreſentazione de' molti. L'oſſervazione è d'Ariſtotele, (c ) e
molto più la ſtende Poſſidonio, riferito da Seſto Empirico, (d ) il qual
dimoſtra per i numeri aſſimigliarſi cutte le coſe, e ſen za queſti non poterſi
intendere nè gli elementi, nè l'armonia, nè alcuna delle tre dimenſioni del
corpo, nè ciò che riſulta da corpi uniti, coerenti, diftánti, nè tutti i
calcoli delle quantità fùccef five, nè ciò che appartiene alla vita, ed all'
arti fondate su propor zioni ſolo intelligibili per i numeri. Pitragora dunque
ſi ſervì del numero, per dar un ſimbolo dei due principj delle coſe, la forza,
e la materia, di cui chiamò l'una l'uno, e l'altra il due. L'unità, diceva egli,
è Dio, (e ) ed anche il bene che è di natura * Principio Coelum, ac terras
camposque liquentes Lucentemque globum Lunæ Titaniaque altra Spiritus intus
alit: totamque infuſa per artus Mens agitat molem, & magno ſe corpore
miſcet. Inde hominum pecudumque genus vitæque volantum, Et quæ marmoreo fert
monſtra ſub æquore pontus. (a ) Plut. plac. Phil. l. 1. (6 ) Plut. ib. l. 1.
c.9. (c ) Metaf. lib. 10. (d ) Contra Logicos. (e ) Plut. plac. Phil. lib. 2. (19
) un ſolo, e lo ſteſso intelletto, il due infinito, e genio triſto, d'inser
torno il qual due ſi fa la quantità della materia. Chiamava uno la forza perchè
noi la concepiamo a guiſa d'un non ſo che d'indi viſibile; chiamava due la
materia, perchè ella è fempre divil bile in due, Di queſti due principj, uno è
quello del bene, e l'altro del male, già l'ha inſinuato Plutarco. Archelao
Veſcovo (a ) di Cara dice; Širiano introduce la dualità contraria a ſe ſteffa,
la quale egli preſe da Pittagora, ſiccome tutti gli altri ſettatori di tak
dogma,; quali difendono la dualità declinando dalla via retta della ſcrittura.
Tutte in ſommal'ereſie, che vi ſono nel compendio della filosofia di CICERONE,
che vuol dir l'eternità, l'animazione, la divis nità del mondo, Piccagora le
raccolfe in un ſiſtema, ed in vano fi dice, che egli nulla fcriveſſe. Liſide
diſcepolo (b ) di Pittagora in una lettera fcnca ad Ip parco, dopo la morte del
maeſtro ſignifica non voler comuni care ad alcuno i precetti, e dimoſtra che
delle coſe, le quali di ceano i ſeguaci di Pitcagora, non ve n'era nè pur
ombra. Por firio nella vita di Pittagora dice, che agli Uomini oppreſli da tale
calamitat, (cioè dalla morte di Piccagora ): manca lo ſciens di lui, la quale
arcana e recondita cuſtodida in petto, nè vi reftas fono che certe coſe
difficili da intenderſi imparate a memoria dagli udi tori dell'eſterna
Filoſofia, poichènon v'era alçun ſcritto di Pittagora; ed aggiunge,che dopo la
morte di lui „ Lilide, Archippo,ed altri furono folleciti, chei
penſieridiPiccagora non ſi pubblicaffero, onde eutti gli arcani della ſua
Filoſofia con lui perirono'. To dubito aſſai del la vericà della lettera di
Liſide, la quale con quel che dice Porfirio pud eſſere ſtata finta,perchè i
Criſtiani nontraeſfero argomenti da quanto ci reſta diPitagora, in CICERONE in
Plutarco, in Laer zio: ma ſe non v'era coſa alcuna della Filoſofia di Pittagora,.co
me poi Jamblico poeea gloriarſi di riftabilirla; e non è manifeſto che egli la
riſtabili a fuo modo per combattere i Criſtiani de'quali fu accerbo' nimico; lo
ſteſſo Porfirio, che dice nulla aver fcric to Pittagora, come poi ebbe fronte
d'afferire, che egli avea ſcrit to fu l'ente, il che Euſebio (c ) riferiſce?
Diſcepoli di Pitcagora furono Archita Tarentino il vecchio, Pe ritione, Timeo
di Locri, ed Epicarmo. Archita il vecchio (d ), che Simplicio confonde col
giovine, fcriſſe delle dieci voci corriſpondenti ai dieci concetti dell'animo,
i quali s'eſtendono a cutte le cole, potendoſi d' ognuna cercar la (a )
Zaccagna collect. monumentorum veterum Eccleſiæ Græcæ, atque Latinæ. Archelai
Epiſcopi acta. (6 ) Galeo. (c ) Propof. Evang, lalg. (d ) Patrizia diſcuſ,
Peripa,1 (20 ) la ſoſtanza, la quantità, la qualità, l'azione, e gli altri
acciden ti regiſtrati a lungo da Ariſtotele nella ſua Logica, in cui copiò il
trattato di Archita. Lo Stanlejo, che pretende di numerare tutte le donne
Pitcago riche, omette Peritione, e pur eſser ella dovea la più celebre,le da
lei trafse Ariftotele (a ) tutta l'idea della ſua metafiſica. Lo prova con
molta erudizione il Patrizio, allegando la definizio ne della fapienza di
Peritione, e comparandola con quella di Ariſtotele. La ſapienza, diceva ella,
verſa in tutt'i generi degli en ti, perchè verſa intorno tutti gli enti, come
la viſione intorno tutti i viſibili. Ariſtotele definì la metafiſica, per la
ſcienza che contem pla l'ente, in quanto ente, e le coſe che per sè gli
convengono. Peritione egregiamente ſpiegò gli accidenti dicendo: delle coſe che
accadono agli enti, alcune univerſalmente accadono a tutti, alcu ne altre a
molti di loro, e certe ad un ſolo, ma riguardar univerſal mente, e contemplar
tutti gli accidenti appartiene alla ſcienza. Que. fte ed altre cole che
ilPatrizio aggiunge, danno idea della preci fione, e nettezza di Peritione, e
nel tempo ſtefso quanto tra' Pittagorici erano familiari l'idee Pittagoriche,
ſe le donne ſtef ſe ne ſcriveano con tanta eleganza filoſofica · Non dobbiamo
tuttavia meravigliarſene, di poi cheabbiam veduto ne’noftri gior ni Madama la
Marcheſa di Chatelet, ſcrivere ſulla natura del. le monadi Leibniziane,
queſtione molto più oſcura di quella dell'ente. Timeo di Locri nel ſuo
ragionamento ſull'anima del mondo, in queſta univerlità di natura, dice egli,
v'è un certo che, il qual rimane, ed è l intelligibile eſemplare delle coſe,
che ſono in un fuſo perpetuo di mutazioni, e queſto nelle vicende delle coſe
ſingolari, co ftante, e perpetuo eſemplare ſi chiama idea, ed è dalla mente
compre fo. Nell'univerſità dunque delle coſe, che vuol dir dentro le coſe o in
cutti i compoſti v'è quel non ſo che, che mai non cangia, e può dalla mente
eſtrarli qual idolo. Le coſe ſenſibili eſser in un perpetuo fluſso lo
diſsegnarono, al dir di Platone, nell'Omero, ed Eſiodo ſotto l'imagine
dell'Oceano, e di Te ti, e di queſte non aſsegnarono fcienza i Pictagorici, ma
ſolo di quelle, che nè col ſenſo, né coll' immaginazione ſi ravviſa no, e
queſta fu la prima differenza tra la Filoſofia Jonica, e l'Italica. Epicarmo
ſommo Poeta, come Omero al dir di Platone, so all' una grandezza d'un cubito (diceva
egli ) altra tu voglia aggiun gervi o ſottrarsi, non avrai mai certo la Nera
miſura; gli Uomini pa rimen (a ) Patriz. l. 2. cap. 1. diſcuſ. Perip. (6)
Ragion, ſu l'anima del Mondo. (21 ) rimente conſidera or accrefcere, ed or
decreſcere, tutti ſoggiaciono ai cambiamenti del tempo. (a ) Jeri tu fofti un
altro, io pur vi fui, E un altro ſiamo in queſto tempo, e fieno Di nuovo gli
altri, che non mai gli ſteſſi Noi ſiamo, come la ragion lo predica. Per
l'Intelligibile così parlo: A. L'arte tibicinal è qualche coſa? B. Perchè no.
A. Forſe è l' Uom queſta tal arte? B. Non mai A. Vediam, che coſa queſto ſia
Tibicine B. Egli è un Uom; non dico il vero? A. Il ver ma ftimi che non debba
diri Ciò pur del bene? Io voglio dir che il bene Una coſa pur ſia, ma s'altri
impari Ad effer buon ei già dirafli buono; Il Tibicine è quegli che la tibia A
ſuonar imparò. Quel che a ſaltare Salvatore, e ceſtor quegli che a teſſere
Impararo, e così d'ogni altro l'arte Certamente non è, ma ben l'artefice. Nel
dir Epicarmo, che il bene è una coſa come l'arte, e che nè il buono, nè l'arte
ſono gli uomini che la partecipano, egli c ' inſegna a far le aſtrazioni della
mente, la qual avendo comparato tra loro molti Uomini che fien buoni, molti
tibicini, molti falcatori e teſtori, ne ha compoſto quell'idea, che poi convie
ne a tutti. Queſt'idea reſtando ſempre la ſteſſa in tutti i tem pi, ed in tutti
i caſi, per quanto variano i temperamenti, e le figure degli Uomini, li
confidera ſempre nello Iteſſo modo, ed è principio del diſcorſo, o di ciò che
nel Teeteto ſi chiamano analogie ſcoperte, le quali nel raccogliere le coſe col
mezzo de' ſenli, le fanno comprendere la ragione. Epicarmo era contemporaneo di
Senofane, come ſi diffe, ed eccoci a ' Filolofi più vicini a Socrate, ed indi a
Platone, i qua li a poco preffo ſi trasfuſero le ſtelle idee non diverſificate,
che dalla maniera d'eſporle, e di colorirle. Senofane, dice Euſebio, e quelli (6
) che lo ſeguirono, moſfero così con (a ) Laerzio Vita di Platone. (6 ) Lib.
11. cap. 1. Prep. Evang. (22 ) 1. 1 contenzioſe ragioni, che piuttoſto
arrecareno a' Filoſofanti confuſio ne, che ajuto. Pittagora volea che il mondo
foffe eterno, benst come gli altri Filoſofi, quanto alla materia, ma non quanto
alla forma, poichè credea che foſſe ſtato generato dal foco; Se nofane pofe il
mondo non generato, ma eterno, 'aderendo ad Ocello Lucano, che fcriffe fu
l'eternità del mondo prima d'A. riſtotele; ecco la prima differenza tra
Senofane, e Pittagora Un'altra più forte ve n' era; Pittagora avea pofti per
principj l'uno, e il due, Senofane riduſſe tutto all'uno, Senofane", dice CICERONE,
è più antico di Anafagora; vuel che uno fieno tutte le coſe, nè queſto uno è
mutabile, ed è Dio non mai nato, e ſempiter no, e di conglobata figura. Seſto
Empirico (b ) parlando per bocca di Timone foggiunge, che fecondo Senofane l'
Univerſo era una fola coſa, che Dio eſiſteva in tutte le coſe, e che era di
figura sfe rica, e di ragione dotato. Ad Empirico ſi conforma Laerzio (c )
dicendo, che ſecondo Senofane, Dio nella materia tutto udiva tutto vedeva,
ſebben non reſpirale, e che tutte le coſe inſieme erano la prudenza, la mente,
l'eternità. Io dimando, ſe nel far Dio fparfo per tutte le coſe, e fen ſitivo,
e prudente, e intelligente, differiva egli dall' opinione che CICERONE eſpoſe
nel compendio della Filoſofia? Non v'è che la figura sferica che gli aſſegna
Senofane, e per cui non infinito, ma finito lo rende; ma chi fa, fe nel
concepir gli antichi la figu ra sferica, comela più ſemplice, intendeſſero
ſimbolicamente d'ac tribuir a Dio tutte le perfezioni? converrebbe faper fe
Senofane fcriſſe ciò in profa, od in verſo, e ben eſaminare tutto il conte fto
della fua dottrina. Non reſtandoci che conghietture, io m'at tengo a quella del
ſimbolo per accordar CICERONE con se stesso, il quale nella natura degli Dei
combatte Senofane, che aggiunſe la mente all'infinito. Queſt'infinità era una
conſeguenza del fuo ſiſtema, perchè ſup poſta l'eternità della materia cost
argomentava: (d ) Eterno è cid che è, se è eterno è infinito, fe infinito uno,
ſe uno fimile a sèl. Di nuovo ſe l' uno è eterno e ſimile, egli è ancora
immobile, fe immobile non ſi trasfigura per poſizioni, non ſi altera per forme,
non ſi miſchia con altri. Ariſtocele elamina i ſoffiſmi contenuti in queſto
ragio namento; il principale è; da ciò che il mondo è ecerno, infini to, uno,
non ne fiegue che egli lia effettivamente immobile, per che le coſe eſiſtono
nella maniera che poſfono eſiſtere, e la materia ſe ſteſſa il principio del
moto non v'è contradizione a cont (a ) Queſt. Acad. lib. 1. (6 ) Lib. 1.
dell'ipotipoſi. (c ) Laert. lib. 9. idí Arift. contra Xenof, Zenon. &
Gorgiam. eſſendo per i 2 (23 ) a concepire, che il moto ſia eterno come la
materia. Coloro che ammettevano il caos eterno, davano eterno il moto, ſebben
ſen za regola o forma. Non ſi cerca qui però, ſe concludeſſe l'argomento di
Seno fane, ma ſolo qual foſſe la ſua ſentenza, e coſa egli ne dedu ceſse. Come
poi accordarla colla ſua fifica? Ammetteva egli per principj (a ) delle coſe
naturali la terra, il foco, l'aria, e l' acqua, e dalle alterazioni di queſti
elementi, rendea tutti i miſti a generazione, e corruzione ſoggetti. Grand uſo
fece di quefte due coſe, perchè, ſecondo lui, conſiſteva il So le negl'ignicoli
raccolti dall umida (6 ) eſalazione in una nuvola ignita, e la Luna in una
nuvola coſtipata. Manon era poſſi bile decerminare il grado di verilimiglianza
filoſofica ch'egli da va all'Ipoteli, poichè nelle ſentenze filiche di Senofane
y' è mani. feſta contradizione. Poneva egli de' Soli innumerabili, e la Lu na
abitata. I ſoli innumerabili erano quelli de' Pitcagorici, e di Orfeo (C ); ma
come abitar una nuvola? La terra (d ) la quale per immenſa profondicà fi
ftendea di ſotto, era coſa ri pugnante alla sfera armillare che Anaſimandro
forſe di lui, maeſtro avea inventata o propagata per cutta la Grecia. Cor
revano allora tali dottrine, e Senofane, in Colofone, in Atene, in Sicilia, e
in Elea le avea ſtudiate; avea Talęce calcolate l'eccliffi del Sole, e della
Luna, avea Pittagora applicare al liſtema celeſte le conſonanze Muſicali, e
nella lira a lette corde determinato il pu mero, e le diſtanze de' Pianeti; non
è poſſibile, che Senofane in un tempo così illuminato voleſſe diſcredicare il
ſuo ingegno con ipoteſi aſſurde e ad ogni ragione contrarie; non erano dunque,
che idoli fantaſtici, iperboli poetiche, o ſimiglianze groſſolane, in cui ſi
deve più badare al color, che alla coſa. La grande difficoltà di Senofane era
nel combinare il fiſico col metafiſico, o lo ſtato ideale con l'obiettivo. Avea
già ſtabilito Pictagora, l'intelletto altro non eſſer che (e ) mente, ſcienza,
opi nione, ſenſo, da cui tutte l' arti, e le ſcienze nacquero. Egli diſse gnava
la mente per l'uno, ciò che adeſſo noi chiamiamo lemplice intelligenza;
diſegnava la ſcienza pel due, poichè s'acquiſta la ſcienza deducendo una coſa
da un'altra; diſsegnava l'opinione per il tre, poichè nel trar la conſeguenza
da un principio proba bile ſe ne riguarda nello ſteſſo tempo due, in uno
de'quali v'èla ragion ſufficiente d'affermare, nell'altro di negar la coſa. I
Pit 3 ta (a ) Laert. vit. di Xen. Plut. plac. (6) Plutar. lib.... Origenes
Philoſ. (c ) Veggali Moefenio ſu l'eſiſtenza d'Orfee. Plutar. plac. de Fil.
lib.i. (d) Gregorii Aſtronomici Pref. (c ) Plutar. lib. 1. de plac. (24 )
tagorici furono tutti dogmatici, o per dar credito alle ſentenze del ſuo
maeſtro, o perchè pareſſe loro, che la fapienza non do veſſe mai eſſer
miſtad'ignoranza, come accade nell' opinione milta dell' una, e dell' altra.
Senofane fu il primo ad introdur il dubbio nella Filoſofia, e quindi
l'opinione. (a ) Chiaro l'Uomo non ſa, nè ſaprà mai Degli Dei coſa alcuna ed
altre coſe Che da me dette fur, ſiaſi perfetto Pur quanto ei dice, tuttavia non
fallo, E v'è opinion in tutte queſte coſe. Da queſti verſi Seſto Empirico
inferiſce, che Senofane non to glica la comprenſione, ma ſolamente quella che
dalla ſcienza de riva; nel dire in tutte queſte coſe d'è opinione accenna il
proba bile, e l'opinabile, onde conclude che Senofane deve porſi tra coloro,
che negano darſi criterio della verità, e non tra gli ac cattalecici, che
negavano alcuna coſa poterſi da noi compren dere. L'autorità di Selto Empirico
è d'un gran peſo, ove ſi tratta di determinare i gradi della cognizione, ma non
è da ſprezzar fi ciò che dice CICERONE: Senofane e Parmenide quan tunque con
non buoni verſi però con certi verſi accufano quaſi irati d'ignoranza coloro,
che ofano dir di ſaper qualche coſa allo ra che nulla fanno. Chi dice nulla
eſclude ogni ſcienza, ed ogni opinione. Senofane ſi diſtinſe per la Logica, (c
) e ſecondo la Cro nologia di Euſebio, (d ) egli fu udito da Protagora, e da
Nef ſa; Metrodoro udi Nefra; Diogene Metrodoro; Anaſarco Diogene, e coſtui
Pirro d' Elea, dal qual ebbero nome i Filo ſofi Scercici fino a Gorgia, il qual
diceva: Non v'è nulla;,fe anche vi foſe qualche coſa, non ſi potrebbe
comprendere, e ſe compren dere, non mai ſpiegare con le parole. Come inoltrarſi
dopo tale raf finamento di dubbj? Tra i diſcepoli però di Senofane il più
illuſtre fu Parmeni de deſcritto da Platone nel Teeteto qual vecchio grave, e
vene rabile e di una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe mal non
m'appoogo, che egli nella diſputa non era oſtinato, ſu perbo, rozzo ed agreſte,
come Ariſtotele (e ) dipinge Senofane è Meliſſo. Socrate in quel Dialogo, ed in
altri s'aſtiene quanto pud (a) Xenoph. ap. Seſt. Emp, adv. Matem. (6 ) QUEST.
ACAD.; Eufeb.1.6. C. 19. (d ) Id. l. 12, c. 7. (c ) Metaf. lib.... (25 ) può di
ragionare contro le ſentenze di Parmenide per la rive renza che ad eſſo portava.
Euſebio (a ) caratterizza la dottrina di Parmenide, qual via contraria a quella
di Senofane. Ermia però, dice Parmenide in bei verſi, c'inſegna che queſto
Univerſo è eterno, immobile, e ſempre ſimile a ſe ſtero. Lo ſteſſo Euſebio
credeva, che ſecondo Parmeni de l'univerſo foſſe ſempiterno, ed immobile.
Stobeo riferiſce, che Senofane, Parmenide, e Meliſſo colſero affatto la
generazio ne, e la corruzione. In che dunque diſconvenia Parmenide da Se nofane,
(6 ) Ariſtotele chiaramente lo ſpiega nell' accennar la dif ferenza che v'era
tra Parmenide e Meliſſo, dicendo: volea Par menide, che tutto foſe uno ſecondo
la ragione, e Meliſo ſecondo la materia, e da queſti due differiva Senofane,
che chiaramente non dif ſe nè l'uno, nè l'altro. Eſer uno ſecondo la materia, è
il medeſimo che ritrovar nell eſſenza della materia la ragion ſufficiente
dell'unità della ſteſſa. Ed in fatti una è la materia, fe in tutte le parti e
nel tutco e nella medeſima fpecie è omogenea, qual CICERONE la deſcrit ſe nel
compendio della filoſofia, e l'ammiſero Platone, ed Ariſto tele. CICERONE
rammemora ancora la forza, utrumque in utroque, ma conſiderando forſe Meliſſo,
che gli effetti della forza, o ſieno le forme, ed i modi aggiunti
ſucceſſivamente alla materia, non mai erano continuamente cangiando, gli
eſcluſe dall'eſſenza, e in con ſeguenza dall'unità della materia; ma ſe una era
eſſenzialmente la materia, uno era il mondo o l'univerſo, che da eſſa riſultava
e ſe uno in ſe ſteſſo indiviſibile, eterno, ed immutabile. Malgrado dunque le
continue aggregazioni delle parti ne' loro tutti, e le continue diſſoluzioni
de'tutti nelle lor parti, malgrado le altera zioni, le generazioni, e le
corruzioni, contemplando Meliſo l' univerſo nella parte effenziale lo credeva
uno, e immutabile in quella guiſa che è ilmare, non oſtante le continue
agitazioni che foffre da innumerabili flutti. Se tal era la ſentenza di Meliſo,
ella non è men empia ri ſpetto a noi, che ridicola preſo i Pagani, perchè la
materia, fe condo lo ſteſſo CICERONE, non può aver coerenza, e in conſeguen
Tomo II. d za (a ) Cap. 5. l. t. Præp. Evang. (6 ) Parmenides unum fecundum
rationem attigiffe videtur, Meliſſus vero fecundum materiam, quare id &
ille quidem finitum, hic ve ro infinitum ait effe, Xenophanes autem quando
prior iſtis unum poſuerat (nam Parmenides hujus auditor fuiffe dicitur ) nihil
tamen clarum dixit, & neutrius eorum naturam attigiſſe videtur, ſed ad
folum coelum refpiciens ille unum ait effe Deum. Metaf, Arift. l. 1. cap. 5.
ediz, Parigi (20 ) 1 1 1 4 > za unità, ſe non è ritenuta da qualche forza, e
la continua ſuccef fione delle forme conſiderata affolutamente in ſe ſteſſa,
non è me no eſſenziale al mondo, che alla materia. Ragionava dunque più
ſottilmente Parmenide; dalla materia, e dalla forza, dalla ſoſtanza, e
dall'accidente, avea coll'aſtra zione della mente dedotta l'idea dell'ente e
dell'uno, e preten dea che l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo preſcindeffe da
tutte le forme, e le differenze dell'ente ſteſſo. Il P. Maſtrio quali tre mille
anni dopo ebbe una fimile idea, poichè egli vuole che l'en te in quanto tale
preſcinda dal finito, e dall'infinito, da Dio, e dalle creature e la ſentenza è
ſeguita da tutti gli Scotiſti. Qualunque ella fiali, certo è che come quella di
Parmenide curta opera della ragione più raffinata, e che ben diſſe Arifto tele,
che l'uno di Parmenide di VELIA era tutto ſecondo la ragione, non che la
ſentenza di Meliſſo ancor non lo foffe, ma egli nel fondarla tutta ſulla
materia croppo s'accomodava ai pregiudizi del ſenſo. Da Parmenide, e da Meliſſo
ſi diſtaccava Senofane, il quale ef ſendo il primo a ragionare dell'immobilità
dell'ente e dell'uno, s'at tenne alla concluſione ſenza ſpiegar il metodo con
cui la deduſſe. Ariſtotele (a ) che avea diviſe le loro fentenze nella metafiſi
ca, par che nella fiſica le confonda dove diffe', che altri di lo ro tolfero la
generazione', e la generazione, e la corruzione, i quali come ben dicano in
altre coſe non ſi deve perd penſare che parlino da Fifici, poichè l'efervi
alcuni enti immobili è più inſpezione di una ſcienza ſuperiore, che della
Fiſica. Non condanna dunque PARMENIDE DI VELIA, e MELISSO DI VELIA, perchè
aveſſero tratcato dell'unità, ed immo bilità dell'ente, ma perchè ne aveano
fatto un punto di Fiſica, dalla quale egli eſclule il trattato delle coſe eterne,
e immuta bili, onde credendo che il mondo, e il Cielo lo foffero, parte ne
trattò nella ſteſſa metafiſica, e parte ne' libri del Cielo; na chi può credere
che Parmenide non diſtingueffe queſte due ſcien ze, avendo aſſegnati due
principi delle generazioni, il foco, e la terra? e determinato che un foco
ſottiliſſimo, o lia l'etere cingeſſe gli altri, e che movendoſi in vortice
raffrenaffe colla ſua rotazione ſe ſteſſo, e le coſe contenute, ciò che è il
principio de' più moderni FILOSOFI (6 ) Egli componeva il mondo di molte
ghirlande tra loro teſſüste, una rara, e l'altra' denfa; fra le ghirlan de ne
poneva dell'altre meſcolate di tenebre, e di luce, e volea che la coſa la qual
a guiſa di muro le circondava forje foda, e maliccia. Queſte ghirlande, e
corone erano i vortici di Empedocle, dei qua li egli dice parlando de caſtighi
de'genj. Quelli (a ) Ariſt. Fiſic. lib. 1, (b ) Plut, lib. 2. cap. 7. (17 ) (*
) Quelli nel mar ſollicitante forza Dell' etere rifpinge, e fola ſpucali
Ne’ſotterranei abimi, e nella lampada Dell'almo Sole dalla terra cacciali, E il
Sole infaticabile tramandali Ne' wortici dell'etere. Accoppiando il paffo di
Parmenide con quel di Empedocle, par che tutti due deſſero vortici alle Stelle,
raffigurando Parinenide nella luce le fiffe, e nelle tenebre i Pianeti; chi sa,
che queſta coſa maf ſiccia non foſſe il moto del vortice tutto luminoſo, perchè
tutto etereo, il quale impediffe con la ſua forza di rotazione lo sfaſcia mento
del mondo viſibile? il moto della Luna, dice Plutarco, (a ) ol'impero con cui
gira, l'impediſce di cadere in quella guiſa, che la fionda torta in giro
dalbraccio impediſce la caduta del faffo. Vuol Favorino, che Parmenide primo
ſcopriſſe, che la ſteſſa Stella pre cede il Sole la mattina, e lo fiegue la
fera, o che il Veſpero è lo ſteſſo che il Fosforo. PLINIO ne attribuiſce la
ſcoperta a Piccago ra, il quale veriſimilmente la portò d'Egitto, col ſiſtema
cele fte; ma forſe Parmenide, nella Teoria di queſta ftella, più che gli altri
Pittagorici ſi diſtinſe, come Filolao nel moto della ter ra. Filolao la facea
gira r in cerchio intorno alSole, ed Ecfan to volea, che movendoſinon
partiſſe dal proprio luogo, ma fer mata a guiſa di ruota, ſopra l'aſſe proprio
intorno quello giraffe da Occidente in Oriente; non (6 ) aderiva Parmenide, nè
a Filo lao, nè ad Ecfanto, ma conſiderando la terra d'ogni intorno egualmente
lontana dalCielo, la ponea in equilibrio, e voleva che ſenza eſſer fpinta da
alcuna forza a queſto, o quell'altro verſo, ella fi ſquaſfaſe bensì, ma non ſi
moveſſe. Parmenide feparò il primo le parti abitate della terra fuor de' cerchj
fol ftiziali, indizio manifeſto, che egli avea proficcato delle teorie di
Anaſimandro, di cui ſi ſuol far ignorante Senofane. Tal era: il ſiſtema
aſtronomico di Parmenide: nel fiſico egli divinizzò la guerra, la difcordia,
l'amore, e diffe: Di tutti gli altri Dei cauſa è l'amore. * Αιθέριον μεν γαρ
σφεμένος πόντον δε διώκει, Πόντος δέσχθονος έδας απέπτυσε, γαία δ' εσαύθις
Η'ελία ακαμαντος, ο δ αιθέρος εμβαλε δίνεις. Α'λος δ' εξ άλα δέχεται και
συγένεσι δε πάντες. Plut. de Ifide, & Ofiride. (a ) De facie Lunæ. 16 )
Plut,deplac. Phil. lib. 3. d 2 Cosi (28 ) 1 Così gli attribuiſce Simplizio, ed
Ariſtofane colle da Par menide l'amore che ordina, e fabbrica le coſe nella
commedia degli uccelli, gli altri Dei non erano, che gli elementi già di
vinizzati da Parmenide. (a ) Empedocle l' emulò, benchè egli quattro elementi
poneſse, e due Parmenide, il foco, e la ter ra, principali architetti delle
corruzioni, e delle generazioni, e che rarefatti, o condenſati, ſi cangiano in
aria, ed in acqua. I principj, ſecondo Ariſtotele, devono eſser tra loro
contrari, e nulla v'è di più contrario, che il caldo, e il freddo, a quali
corriſpondono il raro, ee ilil denſo denſo,, ilil moto moto,, e la quiete.
Tutto queſto ſiſtema fiſico di Parmenide eſpreſse Platone nel Sofiſta. Le mu je
Jadi, ele Siciliane, dice, a queſte poſterioriſtimaronocoſa più ſicura
d'annodare le coſe inſieme, in modo che l'ente ſia molte coſe ed uno, e ſi
tenga colla diſcordia, e colla concordia, perchè diſcordando (6 ) fem pre
s'accoſta egli come dicono le più forti muſe, ma le più molli non hanno voluto,
che ciò ſe ne ſia ſempre così, ma privatamente alcuna volta dicono che
l'Univerſo ſia uno, ed amica per Venere, altra volta molte, e con sè per ſeco
diſcordanſi con certa conteſa. S'io non m'in ganno, qui s'allude all'amicizia,
e alla diſcordia, o all’amore, e alla lite, che Parmenide poſe come principj
efficienti delle genera zioni, e corruzioni; molti Poeti ſtaccando ciò dalle
Poeſie di Par menide, e di Empedocle, non ifpiegarono con la lite, e con l'ami
cizia, ſe non alcunifenomeni particolari, come chi dalſiſtemadel Newtono, il
quale poſe per principio univerſale l’ attrazione; al tri ſolo la prendeſse per
iſpiegare i fenomeni del magnetiſmo, e poi per iſpiegare l'eletricità, la
gravità ec. fi valeſse d'altro prin cipio. Non può dirſi dunque, che Parmenide
non foſse eccellente Fi fico, ſe egli allora penſava a ciò che il Newtono pensò
tanti ſeco li dopo; ſcriſſe in verſi il trattato della Natura, come Lucre zio,
ma il Poema s'è perduto, e non ce ne reſta che il principio conſervatoci da
Seſto Empirico. (c ) Mi portano i deſtrier, e quant'io voglio Traſcorrono; che
già m'aveano tratto Nella celebre via del Genio; via Di cui m'aveano
ammaeſtrato appieno Gľ (a ) CICERONE. 6 ) Nel Gítema Newtoniano in tanto una
parte di erta fugge da un' altra parte, in quanto ella è attratta con più forza
da un altro corpo; quindi dall'attrazione ſi deduce l'a repulfione. () I verli
ſono in Seſto Empirico contra Logicos. (29 ) 1 Gl'infigni coridori, e dalla
fama. Correndo il cocchio ſquaſsano, cui Duce Le fanciulle precedono, ma l'aſſe
Splende ſtridendo nell'eſtrema parce De' raggi tra due fiſso orbi torniti.
Allorchè s'affrettaro le fanciulle Eliadi, e della notte abbandonando Le café
tenebroſe oltrepaſsarle, Nella via della luce al fine entraro; Da i ſpiragli
rimoſsero le vele Con man robuſta dove ſon le porte Delle vie della notte, e
della luce; L'une e l'altre circonda un arco immenſo, E il pavimento tutto n'è
di marmo; Agiliffime corronvi, e s'appreſsano Colà dove tenea Dice le chiavi,
L'ultrice Dea, che premj, e pene imparte. Con parole molcendola ottennero Le
fanciulle, che all'uſcio ella fmoveſse L'interna leva. L'adattata chiave
Spalancando le porte per immenſo Foro i chioſtri ſcoperfe, mentre l'affe Si rivolgeva,
e l'orbita del cocchio, Facilmente reggean l'alme fanciulle, A cui ben pronti
il cocchio, ed i cavalli Ubbidiro. La Dea liera m’accolfe, E per la deſtra
preſomi usd meco Tali parole. Dio ti ſalvi, o figlio Dilecto figlio, che alla
noſtra Řeggia Guidarono que' nobili deſtrieri Che hanno in forte di reggere il
divino Cocchio, nè rea fortuna ti conduſse In tal via. Non è trita a paſſi
umani Ma audacemente di pregare è d'uopo I Numi, onde ti laſcino le leggi
Inveſtigar della natura, in grembo Di veritade, che a ubbidire è proſta, E de'
mortali tu fuggir potrai Le opinion, di cui non vera fede, Ma tu rimovi il tuo
penſier da queſta Via di ricerca, nè ti sforzi lunga Eſperienza delle coſe gli
occhi Figgere accenti o pur aperte orecchie Ai (30 ) Ai dogmi che ragion non
prova. Quello Che ti preſcrive eſperienza lunga La ſola mente dall'error
corregge. Seſto Empirico, comentando queſti verſi oſſerva, che Parmeni de
chiama gli appetiti dell'animo i cavalli, la ragione il genio, o demone, e gli
occhi le fanciulle Eliadi; tutto il reſto è fancaf ma poetico, e, comeSenofane,
egli penſava intorno alla ricer ca del vero; concludendo il giudizio appartener
alla ragione, e non ai ſenſi, ſenza eccettuare i due delladifciplina, o l'udi
to, e la viſta; dogma che fu poi quello dell'accademia, come a lungo Cicerone
lo prova. I verſi fe hanno per oggetto cofe fublimi, e leggiadramente accoppino
l' allegoria all' imitazione, e all' armonia, foddisfanno in un tempo ſtesſo,
al fenſo, alla fantaſia, e all'incellecco, ono de queſte potenze coſpirando
inſieme a ben rappreſentarci le co fe cantase, a preſtano ſcambievolmente le
loro cognizioni, affin chè troppo sfumando nelle aſtrazioni, non ſvaniſca
l'idea, e le ſenſazioni, e i fantasmi non l'offuſchino, ma ſervino alla mente
di ſpecchio per ben contemplarla. La grande arte è, che lo ſpec chio non abbia
troppo d'aſprezze, le quali non diſpergano ſover chiamente, ed affortiglino il
raggio, che turbaco non ci laſci diſcernere, dove è l'oggetto. Alla proſa
dunque, ma proſa poe tica ricorre Platone volendo appagare tutte le potenze
della anima. Ed eccoci finalmente a Platone, dopo d' aver eſaminato come
Pittagora dall'eternità, divinità, animazione del mondo racco glieſe l'idee; le
divideſfero in certe claſſi generali i Pittagorici le diſtaccaſſero dal tutto,
e ne faceſſero degli enti a parte; come Senofane, il primo ricavaſſe la
concluſione dell'ente uno ed im-. mobile, come Parmenide contemplaſse ſecondo
la ragione queſt' idea, e nelle coſe fiſiche s'uniformaffe a Senofane,
diſtinguendo ľ opinabile dal vero. Tutta queſta fabbrica era fondata ſu la
maniera di penſar di Pictagora, maniera falla, e pienamente diſtrutta da Padri,
che molto al di là del IV. fecolo non combatterono collo fteffo Pit tagora, ma
con Platone, di cui ſi debbe adeſſo rintracciare qua li influenze aveſſero nel
Dialogo la dottrina dell'idee, dell'uno immobile, e dello ſcetticismo, perchè
egli vi parla, e dell'idee, e dell'uno, e tutto proponendo per iporeli nulla
conclude. Prima però di ſviluppar queſte cofe l'ordine della doctrina ricerca,
che favelliamo dello ſtile Platonico in generale. Profonda e delicata
cognizione della lingua Greca ſi ricerca per (31 ) e per ben intendere la
bellezza, la forza, e l'armonia dello ſti le poetico di Płacone; lFraguier, che
in tutto il cor ſo della ſua vita, l'avea con un ſpirito molto colto nella POESIA
LATINA, ed in ogni altro genere di belle lettere ſtu diato, ben eſaminando il
ſuo ſtile, ritrovava che Platone avea trasfuſo ne' Dialoghi l' Epico, il Lirico,
ed il Dramatico. Com parava egli la profopopea, colla quale Dio nel Timeo ra
giona agli Dei inferiori 'all' ode più ſublime di Pindaro travedeva nelle
narrazioni dello ſteíſo Timeo, e in alcune del la Repubblica, la magnificenza
Epica dell'Iliade. Nel paſſo cita so di ' Ateneo ', Gorgia mal ſoddisfatto di
quel Dialogo intito lato col ſuo nome, ci dice, che un giovane, e Lepido
Archilo co regnava in Atene; allude egli a Platone, che irritato con tro i
Sofifti, non riſparmid le accucezze, ed i ſali contro di lo ro, ma i ſali di
Platone non erano aſpri, ed ulcerofi, come quelli di Archiloco, e di Ariſtofane,
ma eſtratti dallo ſteſſo mare, in cui nacque Venere. Così Plutarco dice di
Menandro, e con non men di ragione io poſſo dirlo di Platone, che tut to
comicamente condiſce con le grazie, e con le luſinghe della Poeſia di Omero, ed
ingentiliſce in guiſa le accuſe de Sofiſti, che non mai gli affronta con quell'
ingiurie, colle quali il Re de'Re alla preſenza dell'eſercito rinfaccia Achille.
L' ironia di Socrate a ' è la chiave, ed ella è così ben maneggiata, che da
alcuni ſi crede nel Menedemo (a) lodarſi le orazioni funebri, e pure vi ſi
condannano. L'allegoria è perpetua in tutti i Dialoghi; allegorici ſono i nu
meri armonici, di cui teſſuta è l'anima del mondo; allegoriche le Sirene degli
orbi celeſti; allegorico il carro dell'anima, l'ali e il coc chiere; allegorici
gli Androgini, la naſcita dell' amore, la gradazionedegli animali di Prometeo,
e di Epimeteo, la guerra de gli Atenieſi contro i popoli del mar Atlantico, e
quanto diſſe dell'Iſola Atlantica, e ſulle leggi, esu i coſtumidegli abitanti;
tutto vi è finto per preparar l'idea della Repubblica, il cui modello cerca
Platone nella fabbrica ſteſſa del mondo, ed ordiſce così la men zogna poetica,
che molti s'affaticarono di ſpiegare ſtoricamente l'Iſola Atlantide, come il
Ciro di Senofonte. Più s'occulta Pla tone in certe allegorie incluſe nelle
frafi poetiche, per le qua li ſimboleggia molte coſe, e politiche, e morali, e
metafiſiche, diſegnando l'ulcime con coſe colte, o dalla muſica, o dall'altro
nomia, o dalla geometria; tre ſcienze (6 ) nelle quali era fo mamente dorto al
ſuo tempo. Certo è, che ſe giuſtamente non retro s'ap (a ) CERONE, Acad. (6 ) Ab, Fleurì nella lode di Platone.
s'apprezzano le fraſi poetiche riducendole al ſenſo filoſofico, li corre
riſchio di non intender mai, nè le parti, nè il tucco di un certo Dialogo, e ne
vedremo nel Parmenide ſteſso gli eſempj. Ebbe dunque Platone comune la poeſia
con Parmenide, ma molto egli l'accrebbe col Dialogo, modo più naturale per
iftrui re, più comodo per illuminare, adoprato da Socrate, da Seno fonte, da
Stilfone, daEuclide, da Glaucone, e al dire d'Ariſto tele da un certo
Aleffamene inventato. S'imitano col Dialogo i ragionamenti degli Uomini, come
ne? drami s'imitano le azioni. Platone che voleva emular in tutto la poeſia di
Omero, ſi sforzo d'imitar le diſpute de Filoſofi, in quella guiſa che Omero
avea imitate le azionidegli Eroi. Ciò che al Drama è la favola e l'epiſodio, è
la queſtione al Dialogo, e la digreffione, e' nell'una, e nell'altra riuſcì
egregiamente Plato ne. Non v'è Tragedia antica, che meglio eſprima il principio,
la percurbazione, il ſcioglimento dell'azione, di quel che Platone proponga,
diſcuta, termini la queſtione, in cui ſebben nulla concluda, però gli bafta
d'aver conſumate le ragioni dall' una, e dall'altra parte. Nelle digreffioni
comincia per lenti gradi ad allontanarſi dalla queſtione, poi ſpazia o nella
Geometria nella muſica, od in altra ſcienza a fuo talento, e ſenza che il
lettore fe ne accorga, il riconduce alla prima propoſizione non per ſalti, ma
per gradi. Anche in cid imitd Omero, che al dir del Gravina (a ) traſcorre
tallora alſoverchio, tallora moſtra ď abbandonare, ma poi per altra ſtrada
ſoccorre. Platone non imita meno Omero nel carattere degl'interlocu tori, e
delle ſentenze; io ravviſo in Alcibiade un non so che del carattere di Paride,
l'uno e l'altro è milapcatore, fuperbo, e laſcivo; il carattere di Neftore è
trasfuſo in quella parte del carattere di Socrate, ove queſto conſiglia, ma
Neſtore auto rizza i ſuoi diſcorſi con l'eſperienze acquiſtare nell'uſo della
vita, e Socrate con l'impreſſioni del genio che il dominava. I caratteri de'
Sofiſti ſono preli da quei dei Trojani, che ſenza ordine, e ſen za diſcipliita
s'avanzano come le Gru ſchiamazzando, e poi reſta no ſconfitti da' Greci, il
cui coraggio e valore era ſoſtenuto dalla ſapienza, e dal consiglio, e fino da
Minerva. Molti. pretendono che Platone ſpieghi la ſua ſentenza nel far
ragionare Socrate, Timeo, Parmenide, l'Oſpite Arepieſe, e l' Eleatico, due
perſone anonime, e che gli faccia dire a Gorgia, a Traſimaco a Claride., a.
Protagora, & Eucidemo, ciò che non approva e vuol rifiutare, ma coſtoro non
avvertono, che nel (2 ) Ragion Poetica. (33 ) nel far Platone ſiſtematico lo
fanno peſlimo Dialogiſta, e talor peffi moFiloſofo, perchè egli concraddice a
ſe ſteſſo in diverſiDialoghi, o almeno le coſe vi ſono così ſconneſſe, che non
ſi può raccoglierle, non più che le membra di Penteo (a ) diſunite e sbranate.
Tratto di cutte le parti della Filoſofia, or Logica, or Fiſica, or Metafiſica,
accennomolte ſcoperte de' ſuoi tempiintorno alla mufica, all'aſtro nomia,
all'ottica, ma imitando poi la ſetta Eleatica ne'dubbj, e nell'opinioni, tutto
propoſe ſenza nulla concludere. CICERONE lo conſidera come il primo degli
Accademici, o quel che diede ad Arceſilao, ed indi a Carneade il metodo di
dubitare. Seſto Empirico ſenza altro lo pone tra' Pirronici nelle materie an
cora più gravi, come in quelle dell'anima,del mondo, di Dio; nè a ciò CICERONE è
contrario. Conveniamo dunque che Platone, co me nello ſtile poetico convenne
colla ſcola Eleacica, così vi conven ne nel metodo di opinare,che egli col
Dialogo reſe più problematico. Confideriamolo adeſſo nelle fentenze, e
principalmente in quelle che riguardano l'idee ſulla Divinità, e ſulla materia.
S'è già dimoſtrato, che i Pitcagorici riducevano tutto all'idee, ed ai numeri.
Platone ſcielſe, e perfezionò ilmetodo dell'idee, econ duffe lo ſpirito alla
cognizione del bene per l'idea del bene, della bellezza per l'idea della
bellezza, e cosìfece del valore, della tem peranza, della ſcienza, e dell'altre
virtù morali ed intellettuali, com ponendo tra loro l'idee n'eſtraffe l'idea
della Repubblica, o l'idea del giuſto conſiderato nell'amminiſtrazione d'una
Repubblicazimmagine di quella amminiſtrazione, che delle potenze dell'anima fa
la ragione. Credevå egli, che ſpiegar le coſe particolari per le univerſali,
fof ſe il metodo chela natura leguiva, allorchè procede dalle cagioniagli
effecti. Parve ad Ariftotele, che foſſe più facile, e più ſendibile nelle
inſegnar le ſcienze, ſeguir l'ordine dello ſpirito, chealla cagionevi per
l'effetto. Non ſono più oppofti queſtimetoditra loro, che la ſin teſi, e
l'analių, di cui l'una comincia dalle coſe generali, per difcen dere alle
particolari, e l'altra dalle particolari, peraſcendere alle ge nerali; l'uno e
l'altro Filoſofo nell'inveſtigar l'idee delle coſe, adoprò il metodo ſteſſo di
comparare i ſingolari,e di farnele aſtrazioni oppor. rune, e lo dimoſtrerd a lungo
pel ragionamento dell'idee Placoniche. CICERONE riduce l'idea alla terza parte
della Filoſofia, che ver ſa nel difputare. Così l'idea trattavasi dagli antichi,
che ſebbene ac cordavano ella naſcer de ſenſi, però volevano che il giudizio
nonfoſe ne fenſi, ma che la mente fore giudice delle coſe, ſtimandola ſola atta
a di ſcopriril vero, perchèfola diſcopriva cid cheera ſemplice, della ſteſanas
tura, o tal qual era, e queſto lo chiamavano idea già così nominata da Platone,
e noi poſiamo (conclude egli ) rettamente chiamarla la lpecie. Non erano perciò
l'idee Platoniche, a ben comprenderle, che le fpe cie, eigeneri che noi
facciamo, comparando ed altraendo, eche, Tom. II. (a ) Eufeb.Prop.Evang. (6 )
De Natura Deorum. (c ) Lib.1.Accad. 2 e come (34 ) 1 come ſi diffe,
cappreſentavano i Pittagorici per l'unità, poichè la mente tutto va unificando
per ſua natura. Una ſpiegazione sì facile, e breve dell'idee Platoniche,
perfectamente s'accorda co' principi d'Ariſtotele. Egli tratta nella Merafilica
l'idee Platoniche da metafc re poetiche, e queſto nome gli avrebbe pur dato
Platone, se avelle dogmaticamente ſcritto come Ariſtotele', ma nel Dialogo
ſpecie di Poelia Dramatica egli eguagliò la compoſizioneallo ſtile. Morco
Platone, ed offeſo Ariſtocele di vederſi poſpoſto a Pfeufipo „ a lui tanto
inferiore in ingegno, e in dotcrina vi oppoſe un'altra ſcuola di cui ſi fece
capo, e per accreditarla cominciò a combattere le fentenze del ſuo antagoniſta,
attaccandoſi alla parte più difficile, e più equivoca o alla quiſtionedell'idee,
alle quali Preuſipo imitando.forſe il metodo di Platone dovea dar troppo di
realità. Ariſtotele ſcriſe dunque contro l'idee ſeparate, ma Platone avendo già
nel Par menide conſumato quanto potea dirli contro di loro, Ariftotele ne copiò
gli argomenti dipeſo, ed al ſuo ſolito con brevica ed oſcurità di ſtile,
fingendo di combatter Placone critico Preuſipo, ed i ſuoi di i fcepoli. Dital
congettura è mallevadore il Patrizio nelle ſue diſcuſ fioni peripatetiche.
S'elle ſon vere, non che verifimili, verifimile è pure che fin d'allora ſi
ſpargeſſero i ſemi che prima Ammonio Sacca, ed indiPlotino, Porfirio
coltivarono, e Jamblico, e Procloridul fero in regolato fiftema. S.Giuſtino,
che avea più ſtudiatii Platoni ici, che Platone era perfuafo, che l'idee
foſſero ſoſtanzeſeparate, collocate con Dio nella sfera più alta. S. Cirillo
rifiuţa Giuliano A poſtaca, che credeva il Sole, la Luna, egli altrieller
l'idee viſibili e comporre gli Dei. 11 P. Balto riferiſce a lungo ipaſſi di S.
Ireneo, di S. Bafilio e d'altri, i quali impugnarono l'idee ſeparate, che
introdu cendo il politeismo rovinavano ne'ſuoiprincipj la Religione Criſtia pa.
Soſpetta il P. Balto, che Eufebio difendere l'idee Platoniche persè
ſuffiftenţia pro dell'Arianismo da lui profeſfaco. Negli ultimi tempi il
Clerico ne rinovd la ſentenza, e molto più l'anonimo Soci niano nel tuo
Platonismo ſvelato, ove ſi confondono con l'idee di Platone, gli Eoni rami
de'Seffirotii cabaliſtici adottati da' Valencia niani e da' Baſiliani, e
de'quali nella concinuazione dell'iſtoria degli Ebrei parla a lungo il Basnage,
I comentatori di Platone abbagliatidatante autorità, nè avendo forza di critica
fufficiente per reliltervi, s'abbandonarono ai fantasmi di Proclo, e di
Jamblico, anziche abbadarea'ceſti di Platone, ne s ' avviſarono di ben pelare
le dottrine del Parmenide contro l'idee ſeparate aggiunte da Ariſtotele alla
metafiſica. S. A goſtino è il primo de' Padri Latini, che non fepara l'idee Pla
toniche da Dio; dando a Dio la creazione del mondo non poteva egli non
concepire nell' intelletto divino la ragione dell'ordine del le coſe create, e
queſte appunto ſono l' idee su le quali poi San Tommaſo ſeguito da' Teologi, ne
fece molti articoli, of. feryando che l'idee divine ſono univerſali, onon
rappreſentano a Dio (35 ) 2 € Dio ſolo le ſpecie, ma ancora gl'individui, col
rappreſentargli le coſe non quali noi per la limitazione della noſtra mente le
veggiamo, ma quali ſono in fé ſteſſe. Il Padre Balco riprende a dritto su
queſto punto il Dacier, che per difender malamen te Platone, cade non volendo
in un errore. Ma fe Platone preſe da’ Pitragorici l' idee nel ſenſo, che le
propoſero Pitcagora, ed Archira, pare che egli ancora come queſti ſentiſſe
intorno la Divinità. S'è già dimoſtraco che dopo Pitcagora, Senofane e
Parmenide conſideravano Dio non altrimenti, che l'anima del mondo. Lunga cofa,
dice Ci cerone, (a ) ſarebbe a dire dell'incoſtanza di Platone intorno a Dio;
nel Timeo nega, che porta nominarſi il Padre del mondo; nel libro delle leggi,
ſtima non doverfa ricercar affatto coſa ſia Dio. Lo stesſo nel Timeo, e nelle
leggi, dice eſſer Dio, il mondo, e gli altri e la terra, e gli animi, e gli
altri Dei, che abbiamo ricevuti dagl' iftitu ti de' Maggiori. Il Padre Arduino
raccolſe tutti i paffi, ove Pla tone parla degli Dei nel ſenſo ſtero. Dio nel
Timeo ſi chiama bensì il Padre, e l'artefice del mondo, ma non mai il Signore,
il Sovrano; ſi chiamava il mondo un Dio generato, il quale ba una perfetta
ſomiglianza con Dio; figliuolo, e figliuolo unico di Dio; un Dio completo, un
Dio generato da un altro Dio, un Dio felice, im magine del Diointelligibile,
perfetta copia d un originale perfetto Dio ottimo malimo, qual appunto i Romani
doceano diGiove, per cui folo intendevano il deſtino inviſibile delle coſe.
Molci alcri paſſi ſpiega l' Arduino, e da cutii ſi raccoglie, che Placone non
co noſceva Dio, che come principio intelligente, qual lo conobbe Pittagora,
Senofane, PARMENIDE DI VELIA, e cant alori, a' quali può ben applicarſi il
pallo di S. Paolo, in un ſenſo filoſofico, che cono ſcendo Dio, non come Dio
l'onorarono (non ſeparandolo affacco dal la materia, o, ponendolo ad eſsa
coeterno. ) Pitcagora avea generato il mondo, e lo generarono i Fenici, Orfeo,
ed Eliodo. A queſt'idea poetica, Platone aggiunſe le Fi loſofiche accennate da
Timeo di Locri nel fuo ragionamento della natura, e dell'anima del mondo, e ne
compofe il Timeo, nel qual volea nell'ordine oſſervato dalla ſapienza nella
fabbrica del mon do, dar un modello di quella Repubblica, che poſcia propoſe
nel Dialogo del Giuſto. Ariſtocele pur comparava la coſtituzione del mondo ad
una Repubblica, in queſta v'è il Principe, che comanda ai Magiſtrati militari,
e civili, e nel mondo v'è Dio, che col miniſtero degli Dei inferiori, compie,
conſerva, ed ordina cuc te le coſe. S'è © e di lo Lei li i e lo i e (a ) D:
Natura Deorum lib. I. 3 (36 ) s'è gia dimoſtrato, che i Platonici recenti nel
divider in due punti, o ſegni, l'eternità, neaſſegnavano il primo ſegno a Dio,
in quanto a Dio, ed il ſecondo a Dio creatore della materia la difficoltà è di
ritrovare in Platone qualche coſa che s'av vicini a queſta dottrina. Teofilo (a
) non ve la ritrovd altri menti dicendo, che Platone coi ſuoi ſeguaci poneva
Dio, e la materia ingenita; con che non venia a porre Dio, nè uno; nè ſolo. lo
qui ſtenderò un lungo paſſo di Plutarco, perché fe 'ne giudichi. Il mondo, dice
egli,è bensì ſtato fabbricato da Dio, perchè fra tutte le coſe è bellißimo il
mondo e Dio fra le cagioni l'ottimo, ma la ſoſtanza, e la materia, della quale
è ſtato formato, non eſſer mai nata, ma ſempre averſi trovata ſottopoſta ab
Maeſtro, ed ubbidiente a ricever quell'ordine, e quella diſpoſizione, che fore
in quanto ella potelle comportare a lui fimigliante, percbè il mondo non fu
creato dinulla, ma di ciò che era privo, di bellezza, di leggiadria, e di
perfezione, ſiccome la caſa, la veſte, la ſtatua, perciocchè tutte le cose,
primache naſceſe il mondo, foffero confuſe, e diſordinate, nondimeno le coſe
confuſe non erano ſenza corpo, ſenza fora ma, ſenza regola, moſle da movimento
a caſo, e ſenza ragione. Que sto altro non era; che la ſproporzione dell'
anima, di ragione Spoglia ta, perciocchè Dio di coſa ſenza corpo non fece corpo,
nè anima di coſa d'anima priva, nella maniera che noi vediamo, cbe il Maeſtro
di muſica, e dell armonia, non fa egli la voce, bensì la voce acconcia, e il
moto proporzionato; così parimenti Dio non fece il corpo trattabile, e ſodo, nè
l'anima atta a moverſi, ed in gannarſi, ma preſo l' uno, e l'altro principio,
quello oſcuro e pienodi tenebre, queſto confuſo e pazzo, amendue più rozzi, e
più difformidel convenevole ordinandoli; e diſponendoli, e congiungendoli formd
un animal beltiſſimo, e perfettiſſimo. Dunque la natura del corpo non è punto
diverſa da quella natura, come dice Platone, che abbraccio il tutto, ed è
fondamento e nutrice di tutte le coſe che naſcono; non dimeno la natura delp
anima fu da Platone nel Filebo nominata infini to, il quale non riceve numero,
nè proporzione, nè vi ſi trova miſu ra, o termine alcuno di mancamento, di
ſoverchio, di ſimiglianza, o di differenza. Così parla Plutarco ed è facile il
dedurne, che ſecondo Pla tone eterna era bensì la materia del mondo, ma nuova
la for ma, (a ) Teophil. ad Autolicum 1.2. Plato cum ſuis aſſeclis Deum quidem
confitetur ingenitum, patrem præterea & conditorem hominum, at que deinde
fubjicit, live ſupponit Deo materiam quoque ingenitam, quæ fimul cum Deo
prodiderit five extiterit; verum fi Deus cen ſetur ingenitus, & materia
perhibetur ingenita, jam nec amplius Deus conditor & creator eſt hominum
etiam fecundum Platonicos, nec quod unus & folus ſit ab his vere
demonftratur. nè il moto, ma 1 1 (37 ) má, ed in queſto Platone differiva da
Ariftotele, il quale, come s'accennd, fece ad un tempo eterne, e la materia, e
la forma; Ariſtotele rimprovera perciò Platone, d' aver fuppofto, che la
materia con cuiDio compoſe le coſe, foſſe in moto, e loda Anaf fagora, che la
poſe in quiete. Vuole egli ignorare, che affatto poetico foſſe il Timeo; pure
non è credibile,che egli non l'aveſſe udito dir più volte da Placone ſteſſo,
che nel Dialogo finſe Socra te a favellar con Timeo di Locri contemporaneo
forſe a Pittagora; parla dell' abboccamento che Solone ebbe coi Sacerdoti
d'Egitto, iutta ſpaccia la favola dell'Iſola Atlantide., ſtempera in una taz za
i numeri armonici dell'anima del mondo compoſta di cre ſo ftanze, ne ſparge le
reliquie su le ſuperficie de glòbi', conſidera come coſa reale la mecemplicoſi,
che Timem (a ) nel ſuo ragiona. mento introduce come coſa politica. In ſomma
ben eſaminan do tutte le frafi Platoniche e tutto il conteſto della dottrina
Filoſofica poeticamente maſcherata, io ſon perſuaſo, che in Platone, comene
Pictagorici, Dio vi s'introduca qual animadel mondo, o la ſteſſa mente, e
ſapienza perfecta ſparſa per tutto; allora perciò che dice CICERONE nella
natura degli Dei, e quan do Platone fa Dio incorporeo (b ) egli confonde Dio
con la mate+ ria, la quale era incorporea, come ſi diffe, prima che da Dio ſe
ne eſtraffero i corpi. Dall'alcra parte nell'ipateli, che Dio gli abbia
eſtratti, fece Dio concepirſi" al di fuori della materia, co me
l'architetto al Palagio, e lo ſcultore alla ſtatua. In vano dun que dall' opere
di Platone, e degli altri Filoſofi antichi, i qua li ammifero la materia eterna,
li cerca l'idea del Dio che ado. riamo; egli è uno ſpirito infinito, nella di
cui natura inviſibile ſono riunite cutte le perfezioni immaginabili, e
poflibili; onde gli ſcolaſtici lo chiamarono il cumulo delle perfezioni; e i
Cartuliani l'ente infinitamente perfecto. Sino a què l' ammet cevano gli ſtefli
Pagani, ma la definizione non balta, ſe ad el fa non s? aggiunge, che Dio ha
tratto dal niente l' Univerſo, e che è diltinto realmente, e ſoſtanzialmente da
tutto ciò che ha creato. Tale definizione come ortodoſſa propoſe l' Abbate
d'Oliveta ’ Filoſofi (c ) dopo di aver eſpoſte tutte le loro fen tenze, tra le
quali entra e Pittagora, é Senofane, e Parmeni de, e Platone Itello, Non (a. )
Nel fine. (6 ) Cicer. Natur. Deor. (c ) Nel fine del Tomo 3. della traduzione
della Natura degli Dei;. Par ce mot. Dieu, je veux dire un eſprit infini, dont
la nature eſt indiviſible & incomunicable; dans lequel font réunies toutes
les perfections imaginables & poſsibles, ſans aucun mélange d' imperfe
etion; qui'a tiré du ndant l'univers, & qui eſt diſtinct réellement &
ſubſtantiellement de tout ce qu'il a créé. 0 1 (38 ) o dell' Non è tuttavia,
che debbano ſpregiarſi le dottrine di Placone, e rigettarle come inutili;
conobbe egli Dio ſotto un'idea con fuſa, come lo conobbe Ariſtotele, e in
quella guiſa che S. Tom maſo da Ariſtotele tralle molti principi, e
combinandoli coi rivelati propoſe molte concluſioni Teologiche, così può farſi
di Platone; S. Tommaſo dall' uno, e dall'altro traſfe l'eſiſtenza di Dio,
impiegando i mori, le cagioni, l'ordine del mondo, i gra di più o meno perfetti
delle coſe, ma non potè trarla dall' en te contingente e neceſſario, che
Platone non conoſceva, ponen do ecerna la materia, e chiamandola neceſſità.
Dimoſtrar il primo ente qual principio intelligente, per l'adequaca idea di Dio,
non baſta le da eſſo non ti rimovono tutte le compoſizio ni, dimoſtrando, come
fa S. Tommaſo, che in lui non ve n'ha nè di forma, nè di materia, e che non può
ridurſi ad alcun genere, Nel Parmenide però non v'è biſogno d'alcuno di queſti
ar tificj; tutto vi fi' riduce all'idea metafiſica dellence uno. Convien
dedurla da' ſuoi principj, od eſtrarla come fece Pittagora, e Peritione da
tutti i compofti, ed eſaminarne le proprietà. Così AQUINO (si veda), ove tratta
dell'unicà, e della bontà di Dio, prima ricerca, quanto la ragione, gli può per
mettere, coſa ſia l' uno, e coſa ſia il buono, indi col princi pio rivelato cid
combinando, dimoſtra la purità, e la bon tà di Dio. Io parimenti ricercherò con
la ragione, fe si poſſa ben intendere l' uno del Parmenide, laſciando agli
altri la fa rica di ſpiegarlo in un modo fublime, applicandovi le coſe
Teologiche, delle quali non intendo d' attaccarne, o diftrug. gerne la minima.
Io cratterò della dottrina del fine, indi del metodo del Dialogo. Gli antichi
con ragione intitolarono queſto Dialogo, il Par menide o dell' idee, perchè
Parmenide parla più degli altri, e tutti i ſuoi ragionamenti raggirano su l'
idee, o per cercarle con le aſtrazioni della mente, o per diſtruggere le
ſeparate, eſempli ficandone il caſo nell'idea dell' uno, la più ſemplice di
tutte l'al tre, e a cutte l'altre comune. Supponevano i Pictagorici, che tutte
le coſe imicaſſero, o par ticipaſſero l'idee, o le fpecie; provacontro loro
Parmenide, che le cofe non poſſono eſſer partecipi delle fpecie, nè ſecondo il
tutto, nè ſecondo unaparte, indi col principio di contraddizione, col progreſſo
all'infinito, e coll' ideaſteſſa delle perfezioni divine; gli fteffi argomenti
di cui ſono nel Parmenide i femi, fteſe Ariſto tele, ed è mirabile che i
comentatori non abbiano penſato di con frontarlo nel ragionamento dell'idee con
Placone, ciò che attri buiſco all'ipoceli da loro fiſsata, che in queſto
Dialogo Parmenide, o Platone confermi e non diſtrugga. l' idee ſeparate.
Annullate tali idee in modo cheSocrate ne reſta convinto, Pare menide per non
laſciarlo nell' imbarazzo gli moſtra la neceſſità che ha il Filoſofo
d'ammettere certi principj fiſſi ed immutabili e tanto più difficili a
comprendere, quanto che non fi poffono de terminare, nè co' ſenſi, nè colla
fantaſia. Parmenide' nell'etem plificare il caſo del metodo propone l'idea
dell'uno, e la con ūdera relativamente a ſe ſteſſa, indi all'ente, al fine, al
non en te. Così un matematico trattando per eſempio del triangolo, lo
conſidererebbe prima in ſe ſteſſo, poi per rapporto all'altre figure rettilinee
o piane, ed al fine alle non rettilinee, od alcerchio. Definiſce Zenone l'uno
per oppoſizione a molti, e chiama uno ciò che non è molti. Ariſtotele, nella
metafiſica molto ap prova queſta definizione, perché i molti ſono più noti al
ſenſo che l' uno; prende Parmenide la definizione, e negando dellº uno tutto
ciò che s'include in molti o li predica de' molti; negà ch' egli fia cutro,
parte, principio, mezzo, fine, figura moto, quiete, lo ſteſſo, diverſo, ſimile,
diſſimile, eguale, mag giore, minore; in oltre gli nega le differenze del
tempo, pre lente, paſſato, futuro, l'eſſenza, la ſoſtanza, il nome, il ſen fo,
la ſcienza, l'opinione. Parmenide prende ſempre l'uno nel ſuo concetto
aſtrattiflimo, nè men volendo che l'uno â conſideri per rapporto a ſe ſteſſo,
perchè nel riferir l'uno a sè li concepireb be come due o come molti. La
ſeconda quiſtione è, ſe l'uno ſia che accada all' uno, ed all'altre coſe; qui
l'uno fi ſuppone inſeparabile dall'ente, come rente dall' uno, onde tutto ciò
che s' include o li predica dell', pud predicarſi dell' uno; quindi ſe nell'
ente's include o dell'ente fi predica, la parte, il tutto, il finito,
l'infinito, il principio, mezzo, il fine, la figura, il luogo, il moto, la
quiete, il fimile, il diffimile, lo iteſto, il diverſo, l'eguale, il maggiore,
il minore, il tempo paffato, preſente, e futuro, 1 eſſenza, o la ſoſtanza, la
ſcienza, l'opinione, il ſenſo, tutte queſte coſe ſi predicheranno ancora
dell'uno. Non ſi predicano però queſte coſe oppoſte dell' uno, e dell'ente. nel
medelimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo riſpetto, ma in varj te m pi o ſecondo
diverſi riſpetti, e ciò fa che le contraddizioni non ſieno, che apparenti, o
del genere di quei meraviglioſi, che de generano ſpiegandoſi in puerilità. Cosi
penſa lo ſtelfo Platone nel Teeteto, maParmenide nel cercar qui ſe ſia l'uno,
quali altre co fe ne fieguano, non cela all'uſo de Sofiſti, ma ſpiega come vero
Filoſofo in termini ſemplici i miſteri, e queſta iola credo una nuova prova del
liftema Parmenideo da me ſtabilito. In queſte due prime nozioni dell' uno non
vi ſi framiſchiano le immaginarie', o poetiche; mabensì ve ne fono nella terza,
ove fi rapportal'uno al non ente, o al nulla, di cui non s'ha nozionereale', ma
ſolamente immaginaria come dell'impoffibile. V'è un affioma Logico, il qual
diceche, dall' impoflibile ogni coſa ſe ne deduce, pera che in lui fi
complicano i contraddicorj, anzi il criterio per co nofcerlo è per mezzo dei
contradditorj, e poichè l'uno è inſe párabile dall'ente; fia lo ſteſſo dir il
non uno, che il non en te, ma del non ente o dell'impoffibile fi dice che ha
effenza, o che non l'ha, che è lo ſteſſo e diverſo, che è ſimile, e non fi mile,
eguale, non eguale, cheſe genera e fi diſtrugge ec. Dun que le ſteſſe coſe che
ſi predicheranno del non ente conveniran no ancora al non uno. Nell'attribuire
il non uno all'altre coſe, fi trasformeranno queſte in fantasmi, o sogni
d'eſtenſione, di mal fa, di moto e di quiete, ciò che rende il mondo più
poetico del cabbaliftico. Platone o Parmenide maneggiano queſto argo mento con
ſomma ſagacità, e delicatezza, e ben ſi vede quanto foſſe la loro Filoſofia
profonda, e quanto utiliffima eller poſla, non cangiando il grado dell' aſtrazione,
nè inneſtandovi opinioni affatto encufiaftiche, come fece FICINO. I celebri
Pittori, attenti ad oſſervare in ogni luogo tutto ciò che loro ſomminiſtra idee
nuove d'atteggiamenti, di ſcorcii, di lineamenti, difigure, ſe mai su i muri
più affumicati ritro. yano quelle ſtriſcie fortuite impreſſevi dalla caligine,
le vanno combinando con la loro immaginazione, e creano delle figure
leggiadramente fimecrizzate, e canto ſi rifcaldano nel vagheggiar opera loro,
che le additano agli altri, come fe ivi foffero,e ſi cruciano e fremono, e
ingiuriano, quando queſti ſemplicemen te riſpondono di non ravvifare, che orme
irregolari di fumo. I Filofofi, e particolarmente i comentatori hanno lo ſteſſo
coſtu me, fiffi in un fiftema l'addatano a tutto ciò che incontrano nell'
autore da loro accarezzato, e dove egli ancora parla nel modo più ſemplice, e
naturale, e conveniente a'ſuoi principj, par loro di fargli torto, ſe non
l'abiſfano nelle loro profonde ſpeculazioni, e lo dimoſtrano tanto più
ammirabile, quanto nyono l'intendono, c quanto dagli altri è meno intefo. In
tutti i Dialoghi s'è prefiſſo FICINO, di far di Placone (a ) un Teologo
Criſtiano, ma non so come ritorni in queſto Dialogo al (a ) Prima ex quinque
ſuperioribus de uno fupremoque Deo dixerint quomodo procreat diſponitque deorum
ſequentium ordines. Secunda de fingulis Deorum ordinibus, quo pacto ab ipſo Deo
proficiſcuntur ec. argum. Marſ. Ficini Parm. vel de uño rerum principio, &
de 9 ideis. (41 ) al Paganeſimo, e vi traſporti tutte le idee fimboliche del
Timeo, e del Fedro ſenza biſogno, e profitto; e che coſa ſon queſti Dei che
ſeguono Dio nell'ordine loro, ed in qual parte del Parmeni de li ritrovo?
Annullò il Serano gli Dei, e vi ſoſtituì due ſorti d'idee; Dio è la prima e
principal idea, le ſeconde ſono le va. rie idee delle coſe create; ma ſe
Parmenide non diſtingueva Dia dal mondo; coſe affatto poeriche non ſono le idee
divine? Non bado il Serano, che Parmenide toglie all'ente ſino il tem po'
preſente, e le toglie ancora l'eſſenza. Si, ma intende il Se rano l'eſſenza
delle coſe ſingolari, e quando Parmenide dice, che l'uno è molte coſe, vuol
dire, che egli dà la forza d'elfte re alle coſe ſingolari. Or come ſi può
includere nell'idea dell' uno, in quanto tale la forza? E come poteva Parmenide
inclu derla nell' uno, ſenza concepirvi l' eſſenza, e nell' accoppiare l'
eliftenza alla forza, e non concepir l' uno come molti contro l? ipoteſi? La
prima idea, dice il Serano, fi diffonde in maniera ſulle coſe create', alle
quali Dio dà la forza, e facoltà d ' eſiſtere, che ad ogni modo circoſcrive ne'
determinati cancelli dell' uno, la feffa moltiplici, tà, e quaſi infinità delle
coſe ſingolari. Queſta è la luce tenebroſa del Flud, chi può ſpiegarla? Va il
Serano peſcando le affezioni dell' idee ſeconde, e ne ri trova ſei, dopo le
quali la ſua vena metafiſica, e teologica, ſi conſuma, o perde, ed in tutto il
reſto del Dialogo immobil mente fiſto, ed eſtatico ſul ceſto Platonico, par uno
di que' Chineſi, che per molti anni guardandoſi la punta del naſo s'im maginano
di veder l'eſſenza divina; non batte egli palpebra tutto concentrato in sè, nè
degna abbaſſarſi a ſoſtener con note margina li l'imbarazzato lettore. Io ſon
ben lontano dal condannare le al tre note di queſto autore, colle quali negli
altri Dialoghi eſpone la conneſſione, e callora le ragioni ſemplici del teſto,
ma nel Par menide ſpiegando alto il volo per emular il Ficino, li dimentica del
ſuo coſtume, e laſcia in aſciutco il leccore; ma come è poſſi. bile, che avendo
egli canto ſtudiaco Platone, e confrontati i teſti, nonabbia atteſo ad unpaſſo
del Filebo, in cui li ſpiega il fine, che Platone ſi prefiſſe in queſto Dialogo?
Nel Filebo, che non ſenza ragione gli antichi faceano ſeguir al Parmenide, cosi
ſi parla da Socrate a Protarco. Tu, o Protar dice Socrate, intorno l' uno ed i
molti ai dette le coſe pubbliche dei meraviglioſi, le quali, per dir cosi, ſono
concedute da tutti, che non fieno punto da toccarli, ejendone alcune puerili, e
facili da conoſcerſi, e per nuocere maſſimamente a ragionamenti, fe alcun le
ammetteſſe; nè è Tom. II. f de (42 ) - 1 1 tal uno, da ſtimarſi coſa
meraviglioſa, ſe alcun dividendo rolla ragione le mem-, bra d'alcuna coſa, e
tutte quelle parti, confeſſando quella eſerne una; di poi la confutalle, e ne
prendeſe beffe quaſi sforzato a con. feſare coſe moſtruoſe, cioè che una ſola
coſa ſia molte ed infinite, ele molte quaſi una ſola, E' quì da notarli quel
dividere con la ragione le membra di alcuna coſa, formula che egli repplica
ſovente nel Parmenide, in cui dice, ſeparar le coſe con l'intelligenza, e fino
sbranarle; indizio manifeſto che qui non ſi tratta, che d'aftrazione di ra
gione, per cui nelle coſe più ſemplici fi diſtinguono, non le par ii, ma gli
attributi, e le relazioni che le fan molte per rapporto alla mente; or tutto
ciò che dice nel Parmenide dell'ente, e dell' uno, non divien egli un di que'
meraviglioſi puerili, de' quali par la Socrate, fe non s'averte, che le
contraddizioniſono apparen. ti, o che nel medeſimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo
non s'aſcrive all'uno, il fimile e diffimile? Siegue Socrate: quando alcuno
giovane pone l'uno, non eſſer alcu na di quelle coſe, le quali naſcono, e
muojono, perciocchè quì un co come poco fa dicemmo, ſi è conceduto, che non ſi
debba con futare. Parla quà Socrate della prudenza, della ſcienza, e della men
te, di loro natura une, immortali, ed eterne nel ſiſtema Piccagori co, e delle
quali, come d'eſſere reali, parla nel Sofiſta. Conclude Socrate: Ma quando ad
affermare è altretto un fol Uo mo, un ſol bue, una coſa bella, ed una coſa
buona, allora veramen. te in queſte, ed in cotali unità ſi rende ſollecito lo
ſtudio, ed anche ſi fa ambiguala divifione. Primieramente ſe ſieno da
ammetterſi certe uni tà sì farte, che fieno veramente; di poi, in qualguiſa ſia
de penſarſi, che ciaſcuna di quelle coſe ſia una, e la medeſima ſempre, nè fi
pren da generazione, nè morte, ma ſe ne ſtia fermiſima nell' unità di lei;
finalmente ſe ſia da porſi alcuna coſa nelle coſe generate, od infinite, o
partita, ed oggimaifatta moite coſe, o tutta eſa in diſparte da ſe medeſima, il
che più di tutte l'altre coſe parrebbe impoſibile che uno, e lo dello ſi facele
parimente in uno, ed in molti. Quefto è l'uno, ed i molti che ſi trovano
intorno a cotali coſe, ma non quelli, o Protarco che non conceduti bene ſono
cagione d'ogni dubitanza, ed ogni facilità ben conceduti. Manifeftiffimo è, che
quì Socrate ripete le difficoltà ſull' idee ſeparate fattegli da Parmenide, e
ſu le quali confeffa, che impoſſi bile è di scioglierle, indi fa attenzione al
metodo inſegnato da Par menide, di cercar l'idee per via dell' aſtrazioni, con
le quali ſi to glie ogni difficoltà intorno a'molti, e all'uno. Da queſti palli
io deduco, che il fine di Platone in queſto Dialogo altro non fu, che
d'allontanarſi da quel meravigliolo e puerile, in cui facilmente fi cade,
quando non ben li diftingua no i concerci della mente, o s'amia irasformare i
concetti in ido li, ed a realizzarli poeticamente, come faceano i Pittagorici.
Per compir queſto diſegno fcelle Platone il Filoſofo più ſpeculativo
dell'antichità, e deſcritto da Socrate qual Uomograve, evenerabile, e d'una
profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe non erro, che egli nella ſua
maniera d'argomentare franca, libera, ed inſie me profonda, nulla tenea del
lopraciglio, e della vanità dei Sofi fi; Platone quimoſtra fin dove arrivar pud
l'ultima analiſi, che i Pitcagorici faceano dell'idee, oltre le quali il
procedere'era un eſporſi a pericolo di non più intender quello che ſi dicea,
comepur trop ро è arrivato ad alcuni Scolaſtici, che fpingendo troppo, oltre le
queſtioni oncologiche, ofarono ſin negare il principio di con traddizione, ed
affermarono chel'infinito ſi raggruppaffe in un pun to. Nel GORGIA DI LEONZIO,
nel Protagora, ed in altri Dialoghi contro iSo fifti, coll'arte dell'ironia
Socratica, li dipinge a diritto Platone quali cacciatori mercenari d'uomini,
mercatanti venditori, appal tatori di ſcienze, e diſcipline falſe; ma chi può
dire che Platone ebbe difegno di proporſi in queſto Dialogo Parmenide, qual mer
catante venditore, ed appaltatore di bujo peſto, che così devono chiamarſi le
quiſtioni tenebroſe, ed all'ambicate; bujo peſto è quel lo di cui troppo
liberalmente lo caricano il Ficino, ed il Sera no, non quel che combina la
doctrina d' Ariſtotele, con quella di Platone; dotcrina che curt " i
Peripatetici, e gli Scolaſtici ab bracciarono e che ultimamente con tanta
chiarezza e preci* fione, eſpoſe il Wolfio nella fua Ontologia. Queſto Dialogo
è primieramente ontologico, e preſo in queſto ſenſo non ha in sè più di
pericolo che la metafilica d' Ariſtocele, ma ridotta alla Dialeccica, L'antica
Dialetica verſava fu i generi di tutte le coſe, attenca a compararli, a
combinarli, per preparare' ed illuſtrare la quiſtio ne propoſta. S'ingegna lo
Stanlejo di ridur a tre generi la Dialec tica de Piccagorici.1. Ai non
ripugnanti, o ſia all'eſſenza delle coſe nelle quali ſi combinano, coſe tra
loro non contradditcorie.. Così l'eſſenza del triangolo o del quadrato, è
l'eſfer figure di cre o quattro linee, perchè non v'è ripugnanza, che il numero
ter nario o quaternario, s'adatti o fi combini alle linee rette. 2. Ai
differenti o alle coſe che tra loro ſi diverſificano nell'eſſenza, nc gli
attributi, e ne' modi; così il triangolo è differente dal qua drato, ed il
quadrato dal cerchio. 3. Ai relativi a'quali ſi riduco if 2 no (44 ) no tutte
le matematiche conſiderate dagli antichi, come il vero modello della diſciplina,
ed a cui i moderni riduſſero l'arte dell' analogie filoſofiche, ed il calcolo
de' probabili. Platone ſtabiliſce in molti luoghi non tre ma cinque generi del
le coſe; l'eſſenza o ciò che è, lo ſteſſo, il diverſo, il moto, e la quiere; a
queſte due ultime nozioni ſi riduceva tutta la fiſica antica, onde diſfe
Ariſtotele, che ignorato il moto s'ignora la natura. Lo ſteſſo e il diverfo
vaga per tutte le altre fcien ze; onde Platone dello fteſſo, e del diverſo,
compoſe l'anima del mondo, e la bellezza. Lo ſteſſo e il diverſo ſono relazioni
dell' ente in genere, fi ſpargono ſulle relazioni dell'ente in ſpecie, il
fimile, il diffi mile, Peguale, il maggiore, il minore, il nuovo, l'antico. Que
fta era la ſcala de'generi ſuperiori, o quelle nozioni ontologi che aſtratte
per l'acume della mente da' concreti, coſa ben di verſa dalla ſcala de'
predicamenti d' Ariſtotele. Il Wolfio fa propoſe per ultimo oggetto degli ſtudj
fuoi, di perfezionar" la Icala de'generi, e con eſſa ſciogliere il
problema dell' analiſ dell'idee, propoſta ma non trattata dal Leibnizio. I
Pittagorici ne diedero i primi ſemi, e Placone più li ſviluppò, applican doli
alla determinazione dell' idee, quindi è che nel Parmeni de tutti iſuoi
argomenti ſi riducono alle relazioni dell'ente, in genere dell'ente, in ſpecie.
Rinferrata ne' fuoi limiti la materia del Parmenide, il meto do che v’applica è
quello del principio di contraddizione, che ci conduce all' aſſurdo; metodo non
tanto accetto a noi, per. chè ci dimoſtra la noftra impotenza, ma che ci sforza
invin cibilmente all'faffenſo. In queſto metodo Platone ne aggruppa molti altri,
il metodo d' eſcluſione è quello dell'analiſi geo metrica. Nel metodo
d'eſclufione fi numerano tutti i caſi di una co ſa, e s'eſcludono o tutti per
dinotare l'aſsurdità, o tutti men in cui fi cerca la ſoluzione del problema.
Così Archi mede avendo dimoſtrato, che un dato poligono non è, nèmag giore, nè
minore del cerchio, nel quale è inſcritto o circon Icritto, conclude che gli è
eguale. Placone in molti caſi ado pra il metodo ſteſſo. Nel metodo dell'analili
geometrica, fi aſſume (6 ) il quefito come conceffo, e per legitime conſeguenze
s'inoltra fino ad un ve 1 uno, ro (a ) Affumptio quæſiti tanquam conceſsi per
ea quæ conſequentur ad verum conceffum. (6.) Wallis Il. dell’Algebra. (45 ) To
conceſso, da cui riteſsendo il ragionamento ', li dimoſtra il quelito; molti
vogliono, che Platone ſia l'inventore di queſto metodo, e che abbia fatto il
Parmenide per darne l'eſempio; maqueſti attribuirono al tutto ciò che conviene
adalcune parti, Utiliflime ſarebbono le metafiſiche de'moderni, fe i loro
autori fi foſsero limitati all'ipoteſi, e ſi foſſero guardati di proporle in
for ma di dogma, cagione d'eterni litigi non ſalvati, ne da ſtile elo quente,
nè da calcoli algebraici. Il Carteſio ſegui nelle ſue medi tazioni ilmetodo
analitico, ma diede occaſione a molti ſiſtemi più ſtrani de'ſogni, come quello
degli Egoiſti, conſeguenza dello fpi nofismo fpirituale. Che dirò dell'arte del
Dialogo, in cui s'è già dimoſtrato imi, tarſi i ragionamenti umani, come i
Poeti Dramatici aveano imi tate le azioni umane. All'imitazione. di queſte
convien il palco, ed il verſo, non all'imitazione de' ragionamenti, la quale
per ſua natura appartiene alla DIALECTICA: poco o nulla di leggiadria avrebbono
i sillogismi, egli entimemi in verſo, e poco o nulla lor gioverebbe l'apparato
della ſcena. Si è pur detto che la quiſtione, e la digreffione al Dialogo, è
come la favola, e l' epiſodio al Drama. Nel Parmenide la quiſtione è intorno
l'idee, ma non v'è digreſſione, ſe pur non fi voglia ridur a queſta, la
preparazione alla diſputa con Par menide, incominciata tra Zenone, e Socrate.
La differenza de' drami ſi prende dal diverſo modo dell'azio ne, la quale o è
ſemplice, o compoſta, e la differenza de’ Dia loghi dal modo del ragionamento,
nel quale, o s'inſegna, os inveſtiga da un ſolo, o s' inſegna, o s'inveſtiga da
molti la quiftione propoſta. A quattro generi riduce il Taffo i Dialoghi, al
dottrinale, al Dialettico, al tentativo, al contenzioſo. De’due primi generi è
miſto il Parmenide, perchè dopo di aver egli diſputato con Socra te, quaſi ſolo
favella, non contandoſi le riſpoſte d'Ariſtotele, approvazioni per lo più della
concluſione, o preghiere d' eſpor più chiaramente la ragione accennata. Nel
inlegnare qual fia la natura o l'idea dell'uno, qui non v'è tentativo, nè
litigio, nè in queſto Dialogo v'è molto a ricercare, ſe ſia meglio adat cato
all'inſegnamento che il maeſtro interroghi, od i diſcepo lo., perchè appena
termino la breve diſputa có Zenone, che Parmenide cominciò a interrogar Socrate,
ed avendolo confu? lo, ed imbarazzato con una difficoltà cui non poteva
riſpondere, Para (a ). Torquato Taſſo diſc. ful Dialogo. uno. Parmenide paſſa ſenza
interrompimento alle tre poſizioni dell ' Vuol Torquato Tallo, che come una ſia
l'azione nel Dra ma, così una fia la quiſtion nel Dialogo, la quale o è infini
ta, per eſempio ſe deve apprezzarſi la virtù, o è finita, per eſempio che
deggia far Socrate condannato a morte. La qui ftione del Parmenide è infinita,
perchè fi tratta dell' idee di cui ſi cerca la natura e l'origine, la natura
dimoſtrando che non ſono dalla noſtra mente feparate, l'origine dimoſtrando
come per via delle ſuppoſizioni s'acquiſtano. Queſte due coſe ne fan no
propriamente una, perché non ſi può intender la natura dell' idee ſenza prima
determinarne l'origine. L'una e l' altra determina Parmenide, e rimove l' idee
feparate per convertire il ragionamento al modo con cui la mente le acquiſta.
Parme nide lo propone, non lo dimoſtra per non allontanarſi dal co ſtume della
ſua fetta, che era di propor dubitando le coſe: Non è cutravia in ciò ſolamente
che appariſce il coſtume di Par menide. Dimanda Socrate, che gli ſia dichiarata
la quiſtione delle idee, ed intorno alle coſe che ſi veggono,ed ancora intorno
a quelle che ſi comprendono con la ragione. Parmenide, e Zenone attentamente lo
aſcoltano, eſpero guardandoſi l'un l'altro fog ghignano quaſi di Socrate
meravigliandofi. E queſta è quell'evi denza tanto neceſſaria al Dialogo, e di
cui Platone diede si chiari eſempj neli' Ippia, e nel Fedone. Ella è qui
ordinata a manife ſtare il coſtume d'un Filoſofo accento, e che colla triſtezza,
e coi fogghigni accenna, ciò che nel diſcepolo non s'accorda con la ra gione.
Un tratto poi del coſtume d'un Filoſofo attento, è do ve dice Parmenide o
Socrate troppo per tempo, innanzi che tu ti eſerciti a parlare, ti sforzi di
definire ciò che ſia il bello, il giu ſto, il buono, e qualunque dell' altre
ſpecie. Perchè poco fa il con fiderai vedendoti diſputare con Ariſtotele. Per
certo mi credi, que fto tuo fervore è bello è divino, il quale alla ragion ſi
conduce, ma recati in ſe ſtello, ed eſercitati mentre ſei giovane in queſta fa
coltà la quale a molti inutile, e ſi chiama dal volgo garruli tà, altrimenti ſi
fuggiria da la veritade. Parmenide qui accenna la Dialectica in quanto vaga per
cutti i generi, ſulla qual coſa poco dopo ſoggiunge conſervando il co ſtume
divecchio venerabile. Sarebbe cofa ſconvenevole, cheſi trat tale maſſimamente
da un vecchio certe coſe si fatte alla preſenza di molti, non ſapendo il volgo,
che ſenza queſto vagare, e diſcerne re per tutte le coſeſia impoſſibile
abbattendoſi nel vero acquiſtar men te. Ariſtotele e gli altri lo pregarono, e
Parmenide riſpoſe con un apo 7 pare inutile apologo: egli è neceſſario
finalmente che s'ubbidiſca, tutto che mi è av viſo di tutto quello che patà il
cavallo Ibico, cui Atleta e vecchio do vendo prendere la conteſa delle carrette,
e per l'eſperienza iremando de' ſuccelli, alimigliando egli a ſe ſtello, dille
cheegli già vecchio era coſtretto di ritornar agli amori. Nel medeſimo modo
diſſe Parmeni. de, a me pare di temer malto, quando penſo in che guiſa
cosè.d'età avanzata, io pola paſar a nuoto un mare cosi profondo di ragionda
menti. Intorno la ſentenza, o ſia ciò che ſente il principale interlocu tore
del Dialogo, ella è qual conveniva a un Dialettico eſperto, nel vagar per i
generi delle coſe, e nell'argomentare, e ben de gno, che nelle coſe
intellettuali Platone, Secondo il teſtimonio di Apulejo, lo preferiſſe agli
altri Pitiagorici, e n'imitaſſe la ſotti gliezza, e nell' idee, e nel metodo di
proporle. Nella Poelia. Epica, altro è che il Poeta imiti narrando un facto,
altro che introduca un degli attori a narrarlo. Così nell' Odiſſea, aḥtre ſono
le cofe che Omero direttamente narra accadute ad Uliffe, altre quelle che narra
Ulife ſteſſo. S'in troducono ne' Poemi i racconti, per variar i modi dell'
imita zione, ed ancora per accreſcerla; ella è perciò doppia, quando nel Poema
i perſonaggi imitati, imitano effi fteffi col loro rac conto. In queſto Dialogo,
Pitidoro imita, narrando i diſcorſi che inteſe da Parmenide. I Dialoghi, benchè
fpecie di Poeſia Dramatica, in ciò con vengono con l' Epica, e Platone, che
nelle diſpute de'Filoſo fi volle imitare i combattimenti degli Eroi di Omero,
emold anche queſto nel modo di rappreſentarli. Nel Filebo propone ſenza alcro
la difputa chiaramente enunziata intorno la felici tà ed il piacere, nè
premette alcuna circoſtanza ſtorica ai ra gionamenti dei tre interlocutori,
Socrate,, Filebo e Protar co; così fa nel Sofiſta, nell' Eutifrone nelle Leggi,
e nella Repubblica, ma non cosi nel Convito, nel Fedone, e nel Par menide.
Pitidoro vi narra ciò che ha udito da Antifone, e queſto è modo più artificioſo
dell'altro, perchè vi ſi ricerca molta ſa gacità nel render neceffario il
ragionamento, ed accompagnar lo di quelle circoſtanze che più mettano la coſa
fotto gli oc chi, intereſſino il lettore ad aſcoltare i perſonaggi, e di tem po
in tempo lo ricreino con opportune digreffioni, ma tutte convergenti alla
quiſtione propoſta, ſenza che ſe ne accorga il lettore. Nel diſcorſo naturale
noi pafliamo ſenza rifleſſo da una coſa all'altra, ma nel Dialogo, ſe ſi vuol
imitando perfezionar la natura, nulla vi ſi deve introdurre ſenza ragion ſuf
ficiente. La ſomma difficoltà dell' artificio del Dialogo è nell:
interrogazioni, e nelle riſpoſte diftinte e preciſe, ma nel Par menide il
dialettico s'accoppia col dottrinale e queſta è la parte dominante, perchè
eſcluſe l' idee ſeparate, Parmenide ſem pre parla ſcorrendo per le
ſuppoſizioni.; ILLUSTRAZIONE D E L 1 PARMENIDE.. Tom. II. }, (51 )
ILLUSTRAZIONE D E L PARMENIDE. tertentanut Estates L A diſputa su l' idee fatta
tra Parmenide, Zenone', Socra te, ed un certo Ariſtotele, viene a Glaucone, e
ad Adi manto riferita da Cefalo per bocca d'Antifone, il quale avendo
familiarmente converſato con Pitidoro compagno di Ze none', avea su queſta
materia udito da lui le ragioni dei tre Fi loſofi. Reſtarono queſte cosi
profondamente impreſſe nella me moria di Antifone allor giovanetto, che molti
anni dopo ſeb ben diſtratto dagli eſercizi equeſtri, poté in tutte le loro cir
coſtanze rappreſentarle nell' abboccamento, che egli ebbe con Cefalo, e coi
compagni. Tofto Cefalo eſpone il motivo della diſpuca Parmenide ne Poemi avea
detto che tutto è uno, e Zenone provato in uno ſcritto, che uno non è molti. Si
comincia la Jercura dello ſcritto, e Socrate vi fa ſopra delle difficoltà a mi
fura che ſi legge. Poco mancava' a' terminar la lettura, quan do Parmenide con
Pitidoro, e Ariſtotele entrarono in caſa. Si leſſe di nuovo alla preſenza di
Parmenide, e degli altri il pri moargomento, e fi difputò incidentemente su la
differenza del le due definizioni parendo a Socrate, che il dire tutto è uno
foffe lo ſteſſo che il dire, uno non è molti. Glielo concede Zenone, é lodaća
la ſagacità di Socrate dichiara', che non per vanità o per 'arcano di Filoſofia
egli ha' fcritto, ma per fo ftener l'orazion di Parmenide contro coloro che ſi
sforzavano di ſchernirlo, perchè ſe molte contraddizioni degne di riſo pativa
l' Orazion di Parmenide, molte altre di più ridicole ſe ne inferivano dalle
ſuppoſizioni degli altri. Zenone ſcriſfe il: li bro nella ſua giovanezza, ma un
certo avendoglielo rubato.fi pubblico. Si ricomincia la diſputa. Parmenide, e
Zenone lafciano a So. crace eſpor tutta la ſua ſentenza su l'idee ſeparate, per
le quali moſtrava la definizione dell'uno da Zenone affegnata non eſſer
univerſale ". Accorcol Parmenide, che tutta la forza dell'argo mento (52 )
mento di Socrate fondavaſi su l’idee ſeparate, l'imbarazza co ftringendolo ad
aſſegnarne alle coſe fiſiche. Non sa Socrate ri folvere la difficoltà.
Parmenide fingendo di conceder l'idee ſe parate argomenta contro la loro
participazione, contro il lo ro progreſo all' infinito, contro alla loro
incomprenſibilità. So crate n'è molto curbato, credendo che annullate l ' idee
ſepara te non vi fieno più principj per ben filoſofare. Ammira Par menide il
fervor di Socrate, e lo conſiglia ad eſercitarſi nella Dialetica per ben
inveſtigare l'idee. Pitidoro ed Ariftotele, pre gano Parmenide ad eſemplificar
il metodo dell'inveſtigazione dell'Idee. Egli ſcieglie l'idea dell' uno, e col
metodo delle ſup poſizioni la tratta. Orquattro ſono le quiſtioni che ſi
poſſono eſtrar dal Parmeni de relativamente alla definizione di Zenone, che
l'uno non è molti. La prima è quella dell'uno per rapporto all' idee feparate;
Ia ſeconda dell'uno per rapporto asé; la terza dell'unc per rap porto all '
ente; la quarta dell'uno per rapporto al non ente. Le tre ultime quiſtioni ſono
propoſte per via d'ipoteſi: ſe l'uno; ſe l ' uno è; fe l'uno non è. Per non
traſcurar nulla di ciò che agevola l'intelligenza del Dialogo, premetterò
partitamente ad ogni quiſtione la Ipiegazio ne delle voci, e delle nozioni
neceſſarie, ſtando più che mi ſia poſſibile attaccato alle parole del teſto
quale Dardi Bembo il tra duffe; mi par inutile di por tutto il Dialogo, perchè
eſſendoſi ri ſtampato di freſco, tutti coloro i quali hanno vaghezza d inten
derlo ſe ne faranno già proveduti,per gli altri èinutile e vana ogni
illuſtrazione. Zenone di VELIA defini l'uno ciò che non è molci. Approva Ariſto
tele (a ) queſta definizione, perchè in generale ogni defini zione, dovendoſi
aſſegnare per le coſe più lenfibilia e più note, l'eſperienza di tutti i ſenſi
ci moſtra, che i molti ci ſono più noti che l'uno; i fanciulli più teneri nel
coccare, nel vedere, e nell'udire pereepiſcono i molti, e la loro cognizione è
imme là dove hanno biſogno, che la loro ragione fi maturi un poco per
cominciare a dir uno, e quindi numerar su le I molti dunque eſſendo più noti
dell' uno, negandoli di forma 6 ) Metaf. lib. 1o. diata; dita. il (53 ) il
concetto negativo dell'uno in quella guiſa, che negando le par ti ſi fa il
concetto negativo del punto. Dall'uno G fa l'idea aſtratta dell'unità, come
dall'idea dell'uomo l'idea aſtratta dell'umanità. Tre ſono le ſpecie dell'unità;
la Lo gica, la Matematica, la Metafisica. L'unità Logica ſono i generi, e le
ſpecie, o certe idee univerſali atte a rappreſentar molti in uno; l'unità
matematica è il principio compoſitivo de' numeri, o il prin cipio per cui fi
numera; principio differente dal zero, da cui ſi nuinera. L'unità metafiſica' è
una proprietà traſcendentale dell' ente, o che conviene all'ente in quanto tale,
poichè d'ogni ente fi predica l'uno, come fi predica il vero, e il buono, o ſia
il perfetto, ma la verità, e la bontà, o la perfezione, inclu dendo ordine
nella varietà ſuppone l' uno, onde tra le proprie tà dell'ente egli è la più
univerſale (a ). L'unità o l'uno nel ſuo concetto aſtrattiſſimo preſcinde da
tutte le relazioni, potendoſi per l'aſtrazione della mente non riferire, nè
alle coſe che rappreſenta, nè a' numeri che compone, nè a ciò cui conviene: In
queſto ſenſo aftrattiflimo definiſce Zenone l' uno, opponendolo ai molti in
genere. Contro queſta definizione cosi argomenta Socrate. Vi ſono idee ſeparate:
dunque ogni idea eſſen do una in sè, e molti, nel participarſi a molti l'uno,
eimolti poſſono accoppiarſi; dunque non pud dirſi, che l'uno fia molti. Prima
di ſviluppar l' argomento rifletterò su certe voci, e nozioni di Socrate. $. 2.
Suppone toſto Socrate, che vi fieno idee ſeparate. L'idea ſe condo l'etimologia
della voce Greca, significa propriamente com fa viſta, e per traslato ſignifica
coſa inteſa, o ciò che s'inten de; ma tallora ſignifica l'atto per cui
s'intende, il qual però meglio ſi chiama nozione o concetto. Åleinoo defint
l'idea, intelligenza per rapporto a Dio, pri mo intelligibile per rapporto anoi,
miſura quanto alla mate ria, eſemplare quanto al mondo ſenſibile, effenza
quanto a ſe ſteſſa. In tutti queſti ſenſi la prende or Socrate, ora Parmeni de;
ma la prima nozione dell' idea ſeparata è che ella fia il primo intelligibile.
$. 3• ve ) Wolfo Metaf. (54 ) §. 3. Socrate: oltre l' idee del bello, dell'
oneſto, e del giufto, che Parmenide gli accorda, ammette ancora quelle del
limile, del diffimile, del moto, della quiete, dell' uno, e de' molti. Queſte
ultime idee ſono tra loro oppoſte e contrarie, come il caldo, il freddo, il
bianco, ed il nero; eſſendo contrarie, ciò che convie ne all'una, non conviene
all' alira, e quindi ſecondo Socrate i ge neri, e le ſpecie, idee più o meno
univerſali conſiderate in se non patiſcono paßioni contrarie, ma nulla vieta
nell'ipoteſi di Socrate, che non poſſano participarſi dalle coſe. 1 S. 4.
Partecipare è propriamente ritener in sè una parte d'un cutto;; così l'aria
partecipa la luce ', poichè ogni particella d' aria ha in sè una particella di
luce. In un ſenſo più ampio, la voce partici pare s'eſtende dalla quantità alla
qualità, all'azione, all effenza Iteffa.;. così ſi dice, che l'accidente
partecipa della ſoſtanza', gli effetti delle cagioni, un figlio le virtù,
eivizj.del padre: La par cipazione è quindi' più ampia della ſimiglianza
limitata alla ſola convenienza delle qualità, e molto più dell'imitazione, che
alla fimiglianza aggiunge la relazione tra il modello, e la copia; due gemelli
naſcendo saſlimigliano, e pur l'uno' non è la copia dell' altro. I Pittagorici'
nel riferir le coſe all' idee ſeparate, come a loro modellidiceano', che
participavano o imitavano l'idee, ma fecondo Ariſtotele non mai filoſoficamente
ſpiegarono le voci di participazione, e d'imitazione. S. 56 Cið fuppoſto, il
primo argomento di Socrate tratto da queſti principj fi pud diſtinguer in due
per maggior chiarezza. Ogni idea è una in sé, ed una in molti, dunque nel tempo
ſteſſo, uno può efser molti. Cosi lo conferma, Benchè l' idee lieno tra loro
con crarie, nondimeno poſsono eſserº nel tempo ſteſso participate da. molti,
anzi dallo ſteſso ſecondo diverſi riguardi, ma in queſte participazioni
ritengono la loro unità, dunque: ſon uno e molti. Così lo prova: oppoſte e
contrarie ſono tra loro l’idee, del ſimile, del diſſimile', del moto', della
quiete, dell’'uno; é dei molti; dunque comenulla viera, che lo ſteſso poſsa
aver more in Metaf, in una parte, e quiete nell'altra; eſfer fimile ad un altro
in una parte, e diffimile nell'altra, così nulla vieta che ſia uno, e molti;
una Caſa ha molti legni, e molte pietre; ogni. Uo mo è uno conſiderato in sè,
ed è o ſeſto, o ſettimo conſide rato con altri. la un Uomo, altra è la deſtra,
altra la fini ſtra, altre le parti dinanzi, altre di dietro, altre le ſupreme,
al tre le infime. Nel Sofiſta egli dice; noi chiamiamo un Uomo denominandolo
con molti cognomi, mentre a lui attribuiamo i colori, le figure, le grandezze,
le virtù, ed ivizi: nelle quali coſe tutte, ed in altre infinite, non ſolamente
diciamo che egli fia Uomo, ma ancora buono, ed altre infinite coſe, e le altre
fecondo la ſtella ragione. In cotal gui sa fupponendo noi qualunque coſa una,
di nuovo l'appelliamo molte e con molti nomi..... Onde ſi è da noi data
occaſione di contraddi re, come jo penſo a' giovani, ed a ' vecchi di tardo
ingegno: percioc che incontinente ci potrebbe chiunque far obbiezione che ſia
coſa impos fibile, che molte sofe folero una, ed una molte. Dunque uno può
eſſer molti; dunque non è generale la de finizione, che uno ſia non molti. La
participazione dell' idea evidentemente lo manifeſta. Sciolto è l'argomento ſe
fi nega l'ipoteſi dell' idee ſeparate perchè colte l'idee è colca la loro
participazione. Parmenide ri gecta l'ipoteſi, come nè generale, nè chiara; non
generale.per chè non s'eſtende a cutti i cafi poflibili i; non chiara., 'perchè
non pud fpiegarſi la participazione dell'idea. Cost:provo la pri ma parte non
ſi debbonoaſſegnar idee delle coſe ſeparate, o aſſegnarſene di tutte le coſe ';
che vuol dire, non baſta affe le.coſe morali, e matematiche, mabiſogna af.
ſegnarne ancora per le fifiche: dunque non ſolamente vi ſono idee del giuſto,
del bello, del buono, del grande, del fimile ec, ma dell'uomo, del foco,
dell'acqua, e d' alcune coſe, che molti fimano per avventura ridicoloſe; i
peli, il fango, le macchie., ed altre coſe ignobili, e vili. Socrate toſto lo
nega, perchè gli pare, che ammettere queſt' idee, ſarebbe coſa troppo
diſconvenevole, poi can didamente confera, che alcuna volta queſto penſiero lo
turbo, e che quando di là fi ferma ſe nefugge temendo di non corrompere la ſua
mente, e fantaſia cadendo in ciancie ineſplicabili., onde a quelle coſe
ritornato (cioè all'idee del giuſto, del bello, del buono, ed all idee
'matematiche ) verſa intorno a quelle. In (a ) Sof, pag. 306, (56.) In un caſo
ſimile ſi ritrovò il P. Malebranchio; ſentendo egli la difficoltà di ſpiegar
chiaramente, come l'eſtenſione intelligibi-: le, eſſendo immobile in Dio, gli
rappreſenti il moto, ove il luſtra queſto articolo dice nel fine: (a ) Io non
oso impegnarmi'. a trattar queſto ſoggetto a fondo, temendo di dir coſe, o
troppo aftrat te, o troppo ſtravaganti, o ſe ſi vuole, per non azzardarmi a dir
co ſe che non so, nè sono capace di diſcoprire. Queſto è il ripiego di Socrate.
Ariſtotele (do ) ove nella Metafiſica combatte l' idee ſeparate malamente
attribuite a Platone, adduce tra l'altre coſe, che dandoſi idee ſeparate ſi
dovrebbe darne de' ſingolari, de' corrut tibili; egli non eſtendeche
l'argomento da Parmenide eſemplifica to, e poida Alcinoo, che afferi non darſi
nel fiſtema de' Platonici idee delle coſe arcifiziali; uno ſcudo, una lira ec.
ne delle co fe oltre natura la febbre, la bile non naturale; non delle coſe
ſingolari, Socrate, Placone; non delle vili, ed abbiecte ſozzure, paglie ec.
donde traffero i Platonici dopo Ariſtotele, queſta di ſtinzione, ſe non dal
Parmenide? §. 7. Propoſta che ha Parmenide un'obbiezione, che Socrate non può
riſolvere, egli cangia l' argomento ad judicium in quello aid hominem, che vuol
dire non argomenta più ſecondo i principi della ragione univerſale, ma ſecondo
i principj del diſputante, e ne deduce la contraddizione. Suppone dunque che vi
fieno idee ſeparate ", ma come poi date queſte idee lo ſpiegare che lieno
participate dalle coſe Queſta participazione ſi fa, o ſecondo il tutto, o
ſecondo la parte. Parmenide dimoſtra, che nèl'uno, nè l'altro può eſſere. Sia
da una coſa participaca l'idea ſecondo il cutco, dunque tut ta l'idea è in ſe
ſteſſa.; e tutta fuori di ſe ſteſſa; dunque nel tempo ſteſſo eſiſte tutta in sè,
e cutca fuori di sè. Siaľ idea conliderata in sè A, e participata fia B, C, D
ec. generalmen te, o non A; dunque nel tempo ſteſſo l'idea è A, e non A, ciò
che è contraddittorio. Nè occor dire che un giorno è uno, e lo Steffo, ed
inſieme in mola ti luoghi, e pur non è da ſesteso in diſparte. Il giorno non è
che la luce del sole, diffuſa in tutto il noſtro emisfero. Or quel la parte di
luce, che illumina me, non illumina il compagno ſebben mi lia vicino. Parmenide
li ſerve dell'eſempio della ve la, (a ) Ricerca della verità T. 4. pag.... (b )
Metaf. I..... (57 ) la, la quale molti coprendo, non è perd una in molti,
perchè la parte c he copre l'uno, non è la parte che copre l'altro. Reſta
a dimoſtrare, che l'idea non è participata dalle coſe ſe condo una parte; la
dimoſtrazione è da se manifefta, perchè l'idea participata ſarebbe una, e non
una; una tutta in sè, e non una nelle coſe che ne hanno ſolo una parte. Queſto
modo d'ar gomentare, è fondato ſul principio di contraddizione adoprato lovente
da Platone, e ſtabilito da Ariſtotele, come il primo prin cipio in cui ſi
riſolvono cutti gli altri. Eſperimentiamo noi cal eſſere la natura della noſtra
mente, la qual mentre giudica che una coſa ſia, non può inſieme giudicare, che
la ſteſſa non ſia. Parmenide eſemplifica l'impoſſibilità di queſta ipoteſi. 5.
8. La grandezza è ciò che è capace di più e di meno. Nel conce pir il più fi
concepiſce il maggiore, nel concepir il meno fi conce piſce il minore, e nel
concepir l'eguale non ſi concepiſce nè più, nè meno nelle quantità che ſi
comparano. lo dico che li comparano, perchè nè il più, nè il meno, nè l' eguale
concepir ſi poſſono ſenza riguardar una coſa nel tempo ſteſ to che l'altra o
ſenza compararle, e in queſta comparazione pro priamente la grandezza confifte,
la quale, come ben dice il Wol fio, non ſi può concepir ſenza un altro a
differenza della quali tà. Tutto quindi l' effer della grandezza è relativo, od
ha tut to l'eſſere in ordine ad un altro. Così Platone eſpreſſe la natu ra
della relazione nel Politico, nel Simpoſio, nel Sofifta, e pri ma di lui
Archita, ed Ocello, (a ) i quali diviſero la relazio ne in quattro generi. Da
queſti autori traſfe Ariſtotele (6 ) la definizione, che dà della relazione.
Nulla perd vieta, come & proverà, che per compendiare i concetti non ſi
concepiſca la gran dezza come qualche coſa di aſſoluto, a cui accade – eſſere
mag giore, minore, ed eguale, e che di nuovo ſi concepiſcano il maggiore, o'l
minore come aſſoluti, a' quali accada il più, o meno, o nè l'uno, nè l'altro.
Suppoſto dunque, che fi dia l'idea della grandezza, e in conſeguenza del
maggiore, del minore, dell' eguale, così argomenta Parmenide. Sia A l'idea del
maggiore, B del minore, C dell' eguale; ſi dividano tutte2, e tre in parti
ineguali: С poichè dunque una coſa in canto è maggiore, in quanto partecipa
l'idea del maggiore, lia l'idea - B del maggiore A diviſa in parti ineguali, e
la parte minore delmaggiore ſia participata, quello che la Tom. II. h par (á )
Diſcuſ. Perip. Patriz; T. 2. pag. 185. (b ) Ad aliquid alia dicuntur quæcunque
quod ipſa ſunt aliorum effe dicuntur. o il A (58 ) partecipa non ſarà egli nel
tempo fefto, e maggiore, e mino re? Maggiore, perchè parcecipa l'idea del
maggiore; minore per chè parcecipa la parte minor del maggiore. Così potrà
dirli della participazione della parte più picciola dell'idea del minore, e
dell' idea dell'eguale. Se'l idee dunque fi participano dalle coſe, ſe condo
una parte loro non potrà mai effer quefta, una delle par ri ineguali. Parmenide
non procede olore, maè facile l'aggiun-. gervi, che nè meno pud parcicipare
delle parti eguali, perchè la parte.eguale del maggiore participata dalla coſa,
la farebbe nel tempo ſteſſo eguale, e maggiore; e così la parte eguale del mi
nore, ſarebbe la coſa minore ed eguale.. 9. La noſtra mente, come per ſua
natura non può concepiricon tradditrorj, così non pud frappaſſar l'infinito,
biſogna che s'ar reſti ad un primo, o ad un ultimo, il qual è come Tuncino che
ſoſtiene curri gli anelli della catena. Ariſtocele, e'ne'mori, e nel le
cagioni, e ne'fini dimoſtra l' aſſurdità del progreſſo all' infini 10, modo d'
argomentare imparato dal Parmenide di Platone non men che l' altro del
principio di contraddizione. Il Wolfo dimoſtròeffer impoſibile il progreſſo
all'infinito rectilineo, e cir colare. g. 10,. Poſta l'aſſurdità del progreſſo
all'infinito, così argomenta Par menide: Tu ſtimi che qualunque ſpecie fia una,
quando pare i te cbe certe, e molte coſe fieno grandi, parendoti per avventura
in ris guardando a tutte le coſe, che ſia queſta una certa idea, onde tu penfi
che il grande fia uno. Prima d'inoltrarſi è da oſſervare, che qui Platone
inſegna, co me comparando le coſe, nel riflectere a quello in cui conven gono,
ne riſulta un'altra idea, come prima avea inſegnato Epicarmo, Queſt' idea è
ſempre una, perchè uno è l'atto della mente con cui ſi rifletre a ciò che le
coſe hanno di commune. Continua Parmenide: Se'il grande, e l'altre coſe che
ſono grandi nel medeſimo modo conſideralli per tutre le coſe, non apparirebbe
egli da capo ceri' una coſa grande, onde farebbe neceſſario che queſte tutte
pareffero grandi? Vuol dire che nel compararſi dalla mente di nuovo l'idea del
grande con le grandezze participate, nè riſulta un'altra idea di grandezza, per
la qual coſa concludeParmenide: apparirà di nuo po altra ſpecie di grandezza
fuor do esſa grandezza, e di quelle che fono ! (59 ) fono partecipi di lei, e
dopo tutte queſte, altra di nuovo con cui som rebbono queſte grandi, nè pide
qualunqueſpecie fia una, ma piuttoſto di numero infinito. La ragione è, che
l'idee della grandezza di nuovo aſtratte nella comparazione, eſſendo per loro
natura re lative faranno fena pre di nuovo comparabili, e così all' infini to.
Ariſtocele su queſto fondamento del Parmenide, e tutti i Platonici, e tra gli
altri Alcinoo dillero, che non fu potea aver idee de relativi. $. 11. cioè per
Dal modo con cui Parmenide comparando l'ideę, altre idee He deduffe, concluſe
Socrate, che le ſpecie ſono' atti dell'intel fetto, i quali non riſiedono, che
nell'animo. Gli concede Para menide, che ogni atto dell' intelletto è uno, ma
gli fa confef fare, che queſt' acto ha un oggetto, ed è l' ente'; l'ente perd
in quanto ſi concepiſce o s'intende', non s'immagina o ſente: prende egli qut
l'idea, non per la nozione, o per il concetro' della mente 1 atto, ma per la
relazione che ella ha ad un certo oggecto, e conſidera l'unità dell'idea' non
relativa mente all'atto dell'intelletto, ma all' ente che la partecipa poichè
ſecondo i principj di Socrate, ella è ſempre la ſteſa in tutte le coſe. Ne
deduce per confeguenza, che ſe l'idee ſono' at: ti dell'intelletto, le coſe che
partecipano della ſpezie', o deli? idea faranno tutte intellective, ed
intelligibili. Vi riſponde So crace, che le coſe non partecipano' dell' idee,
in quanto' queſte fono atti dell'intelletto, ma in quanto rappreſentano le coſe;
che vuol dire, in quanto l' idee Tono eſemplari, di cui le co fe fono
limiglianze; onde in tanto le coſe le partecipano', in quanto ad effe li fanno
ſimili. Parmenide contro queſte fimi glianze dell' idee, argomenta coll'
aſſurdità del progreſſo all' ip knito, come fece delle grandezze. $. 12
Supponiamo che' molte' coſé' fieno ſimili per la participazione dell' idee
della ſimiglianza. Potendoſi dunque comparar dall'in telletto le ' fimiglianze',
e delle coſe, e dell' idee, Te' ne' eſtrar rà un'altra' idea di ſimiglianza, e
queſta di nuovo comparando 1' idee con le coſe, darà un' altra idea di
fimiglianza, e co sh all'infinito, cio' che è aſſurdo”. Cosi eſprime queſto
argo mento Parmenide: non ſarebbe egli neceſſità grande, che' quel che è fimile
al fimile' folle partecipe dell' uno, e della fleffa ſpecie? Or hi 2 non (60 )
5 non ſarà ciò la ſtessa ſpecie, di cui le fimili coſe rendendoſi partecipi
fiano fimili? Dunque non può alcuna coſa eller ſimile alla ſpecie, ne la ſpecie
ad altrui, altrimenti oltre alla fpecie', altra ſpecie ſempre apparirebbe, che
ſe ella folle fimile ad alcuna coſa altra dacapo', ne cellerebbe mai queſto
progreſo, che non ſi faceſſe ſempre nuova fpe cie, ſe ancora folle ſimile la
ſpecie, a chi di lei ſi rendeſe partecipe: Ariſtotele propoſe lo ſteſſo
argomento ſebben oſcuramente L'Uomo, dice, ſignifica non meno la ſoſtanza
ſenſibile degli Uomini ſingolari, che la ſoſtanza intelligibile dell'Uomo per
sè, o fia l'idea dell' Uomo. Or ſe queſt' idee convengono in una coſa comune,
fi concepiſce comparandole un terzo Uomo, equin di un altro, e così all'infinit.
Ariftotele creſce l'aſſurdità Socrate lingolare participando dell'Uomo
univerſale partecipa, e dell'animale e dell'animale a due piedi, e d'altre coſe,
ciod, quelle che ha comuni colle piance, colle pietre, ed altre innume rabili.
Converrà dunque moltiplicare all'infinito l'idee, onde per una coſa ſenſibile
converrà porne infinite; ſi può aggiungere che queſto numero di nuovo ſi
moltiplicherà all'infinito am mettendoſi l' idee dei relativi, poichè ogni coſa
che è nell'Uo mo, pud compararſi a turce l' idee delle coſe viſibili, ed
invidia bili, o della ſteſſa, o di diverſa ſpecie. Ma l'Uomo ideale, diceano i Pittagorici,
effendo incorrutti bile, ed univerſale non ſi può comparar a coſa ſingolare, e
cor ruttibile, ed eſtrarne quindi nuova idea? Ariſtotele vi riſponde: i binarj
feparati ſono anche eſſi incorruttibili, e pur per conoſcer li biſogna dar
un'idea comune di binario, in cui convenga il binario B, il binario C ec. In
oltre l'idea di figura è comune al cerchio, al triangolo, ea tutte le figure
piane e ſolide, onde ella, è propriamente ge nere relativamente alle ſpecie, ma
chi può mai conoſcere una figura che non ſia, nè cerchio, nè triangolo, nè
altra ſimile? Intanto la concepiſce la figura in genere, in quanto la mente non
s' applica, che ai limiti che circonſcrivono lo ſpazio, fen za far attenzione
rifeffa, nè al modo, nè al numero, nè al fito dei limiti ſtelli. Spiegherd la
coſa con un eſempio più fa cile. Egli è impoſſibile che io concepiſca un
triangolo ſenza rappreſentarmi che egli fia, o Equilatero, o Iſollele, Sca leno;
altro è poi, che nel rappreſentarmi uno di queſti crian goli io non faccia
determinata attenzione alle ſpecie dei tre lati. Noi non intendiamo le cofe,
dice San Tommaſo, ſe non cona vertendoſi a' fantasmi loro. Ora a qual fantasma
è anneſſa l' idea della figura? Confuſamente a tutte le figure; ma io non ne,
con (01 ) conſidero diſtintamente alcuna, e ſolo attendo a ciò in cui cut te
convengono, ed è d' eſſere uno ſpazio circonſcritto; ma ſe nel concepire l'
idee de' generi delle coſe matematiche v'è canta dif ficoltà ammettendo l' idee
ſeparate, quale ve ne ſarà nell'idee metafiſiche? Nell'ipoteſi Pitagorica ſi
dovranno aſſegnar idee del poflibile, dell'ente, dell'atto, della potenza,
della cagione, del principio, del modo, dell'attributo, del terminato, è dell '
indeterminato, del neceſſario, del contingente', del perfetto dell'imperfetto
ec. nè ſolo di queſte coſe, ma del prima, del dopo, dell'inſieme, del ſeparato,
e finalmente del genere in quanto genere, e della ſpecie in quanto ſpecie: coſe
tuote af furdiffime nè abbaſtanza eſaminate da coloro che preteſero che noi
vediamo le coſe in Dio, perchè ad ognuna di queſte coſe non men che
all'eſtenſione, ed al numero dovrebbe aſſegnarſi un'idea, Ariſtotele con gran
ragione v'aggiunſe, che neli ipo teſi dell' idee ſeparate, oltre l'idee de
relativi converrebbe am mettere l'idee delle negazioni, e delle privazioni, o
degli op pofti, cioè dei contraddittori dei contrarj ec. 9. 13. Dace l'idee,
data la loro participazione, ed eſcluſa la compa razione a'ſenſibili, ricerca
Parmenide fe debbonſi annoverare l'idee tra gli enti relativi; od aſfoluti. Vi
fono delle coſe, di cui tutta l'eſſenza conſiſte nel riferir fi all'altre, e
queſte ſono relative, (8. 8.) é ve ne ſon altre di cui l'eſſenza conliſte nella
non ripugnanza dei predicari, che le coſtituiſcono, e queſte ſon le affolute;
Poichè tutto l'efferé de’ relativi è nel loro confronto, (5.8. ) includono effi
neceffaria. mente due termini tra loro oppoſti, il fondamento dei quali fo no
le coſe affolute, che tra loro fi comparano; quindi il fonda mento del relativo
è sempre l' aſſoluto. Un Uomo fuffifte per sè, e ſe foſſe ſolo nel mondo, non
farebbe nè Padrone, nè ſer-' vo, ma ſuppoſto che viva in una ſocietà, può eſſer
l'uno, e l' altro, in guila però che non è ſervo in quanto Padrone, nè Pa drone
in quanto ſervo, ma come Padrone ſi riferiſce a coloro cui comanda, come ſervo
a coloro cui ubbidiſce, e l'uno, e l' altro gli accade in quanto è Uomo, ed a
diverſi Uomini li ri. feriſce. Poichè dunque l'idee fi riferiſcono ai fimili
che le par tecipano, biſogna che ſieno in ſe ſteſſe e parimenti perchè i ſimili
che partecipano l'idee fi poffano riferir all’ idee, convie ne che fieno in ſe
ſteſi. Biſogna in una parola, che l'idee, e le coſe che le partecipano abbiano
un' eſſenza determinata. Con clude (62 ) 1 clude quindi Parmenide, che l'idee
hanno tra loro, un ' eſſenza, ma che queſta non è un eſſenza tutta: relativa
alle coſe che ſo no appreſſo di noi, o pure le coſe fi nominano ſimiglianze, o
in altramaniera di cui facendoſi partecipi, noi la nominiamo con, qualunque di
eſſe.;. aggiunge parimenti, che le coſe che ſono in noi, non hanno la virtù ſua
d'eſiſtere in verſo l' idee, ma fono quel che ſono relativamente a ſe ſteſſe.
Parmenide quin di chiama le cofe. che ſono in. noi,, e: in torno a noi:
equivoche: all' idee.. Cagione equivoca: degli animali, delle piante, de
metalli ec. diſero Ariſtocele, e gli Scolaſtici il Sole, perchè ſebben concorra
alla loro generazione, non conviene con loro, 0 non gli aſſomi glia che
nell'eſſere. Parmenide parlando ad bominem par che allu da all' opinione di
Socrate, il quale nell' ammecter l' idee, come cagioni delle coſe, era sforzato
ad ammetterle come cagioni equivoche,, non potendo ammetterle, come cagioni
eſemplari, il che: Ariſtotele così: dimoſtrò:-ſe quando l'Uomo fi genera da
Socra te, eglis'alfomiglia all'idea, e non a Socrate, fi potrà generar: { mile
all'idea, liavi o non ſiavi Socrate;; ma ľ Uomo generandofia non s'aſſomiglia
all'idea, ma a Socrate, come è manifeſto dall' eſperienza; dunque Socrate, e
non l'idea è l'eſemplare del generato: Poſto dunque che l' idee: influifcano
nella generazion delle coſe, convien ſempre porle, come cagioni equivoche;: ma
da: chi Ariſtotile traffe cal idea, ſe non da Placone? ' Or fe: l'idee non
hanno relazioni alle coſe, o ſono diloro ca gioni equivoche, come poſſiamo
conoſcerle? Se le piante, de pie tre ragionaſſero,. potrebbono
mairappreſentarli (rimirando ſe fteſ. ' fe,. ), che il Sole foſſe loro: tanto
diſſimile? che ebbe. tanta parte nella loro generazione. Le noſtre idee non
ſono cagioniequivoche delle coſe, le quali noi produciamo affilandoſi ſul loro
modello. Un Architeto uno Scultore, un Pitcore fanno la caſa, la ſtatua,.,
l'immagine ſecondo l'idea che ne hanno formata, e perciò comparano l'effet to
all' idea per miſurarla,, e perfezionarla;, nella combinazione dell'idée chiare,.
e diſtinte conſiſtendo la ſcienza, l'oggetto del la noſtra ha ſempre
proporzione all'idee che d'effo formiamo;.. ma ſe l.idee: ſeparate come cagioni
equivoche non hanno alcu na proporzione con le coſe che vediamo, non par
poffibile di: riconoſcerle, e in conſeguenza aver- Scienza di loro. Delle co fe
quindi rivelate, non abbiamo ſcienza ma fede; ſono certe, € infallibili, ma non
a noi: chiare e diftinte.. Platone nel Filebo ſtabiliſce due generi di coſe;
altre non 'han no avuto origine, nè finiranno giammai, perchè ſono immutabi li,
e fempiterne; altre non ſono perchè ſempre 'fi fanno ſono a generazione, &
corruzzione ſoggette: À queſti due ge neri di coſe, ' fa corriſponder due
generi di cognizione; delle coſe immutabili, ed eterne ſi ha ſcienza, dell'
altre non ſi ha che opinione. Le coſe di cui s' ha ſcienza ſono l'idee, perchè
ſono ſempre nello ſteſſo ſtaro, nè ſi può ſapere ſe non ciò che è, ed è ſempre
nel medeſimo modo; le coſe di cui s' ha opinione fono le coſe ſenſibili, perchè
continuamente fluendo, non ſono mai nello ſteſ fo ſtato. Come dunque Placone
nel Tilebo, dà fcienza dell'idee, e nel Parmenide non la dà? La riſpoſta
generale è, che da cid che ſi dice in un Dialogo,nulla deve inferirſi
relativamente a cid che ſi dice nell'altro, perchè Platone non ragiona ſecondo
la ſua ſentenza, come nelle lettere per eſempio, ma ſecondo le ſenten że altrui;
oltre a cid, Platone trattando nel Filebo della defini zione della ſcienza egli
è manifeſto, che tratta ſolo della ſua pof fibilità relativamente all'oggetto,ſenza
poi procurarſi di cercare, ſe ſi dia o no tale ſcienza negli Uomini, I
Matematici definiſco no il cerchio, e il triangolo in quanto è poffibile, nè fi
curano ſe eſiſta o.no: quindi ben ' li definiſce la Filolofia, la Scienza dei
poffibili in quanto tali; nel Parmenide non della poſſibili tà, ma
dell'attualità della ſcienza ſi tratta, e Parmenide mo ftra, che dandoſi l'
idee ſeparate non poſſiamo aver 'ſcienza di effe, perchè non hanno alcuna
proporzione con noi, e con le coſe.noſtre. 5. 15. Ammettendo con S. Agoſtino, e
S. Tommaſo, cheIddio ab bia idee, e molte idee, onde per eſſe conoſca i
ſingolari, i fu turi, i contingenti, gli infiniti, non perciò poſſiamo dire,
che abbiamo ſcienza dell' idee di Dio, o che poliamo conoſcere co me per queſt'
ideeegli conoſca le coſe. Il Malebranchio, ed il Poiret, che lo tentarono,
caderono ſecondo la fraſe di Socrate in ciancie ineſplicabili. 1. 16. (64 ). S.
'16.: s' inoltra Parmenide: La ſcienza in sè conliderata è un'idea, come la
bontà, la bellezza ec. ma ſe queſt' idea della ſcienza, non ha alcuna
proporzione alle ſcienze a noi note, non poßia mo conoſcerla, poichè le ſcienze
intanto a noi ſono note in quanto verſano su noi, o su le coſe che ſono intorno
a noi. Or non conoſcendo l'idea della ſcienza in quanto tale, nè men poſſiamo
conoſcere ſcientificamente l'altre idee, perchè per aver ſcienza dell' altre
idee convien participar dell'idea della ſcien za, ciò che è impoflibile:
Parmenide par qui ſupporre che la noftra ſcienza paragonata all'idea della
ſcienza ſia come il zero all' infinito ma ſe noi non participiamo dell'idea del
la ſcienza, come potremo ſcientificamente, o chiaramente, e diſtintamente
conoſcere il bello, l'oneſto, il giuſto, e l'altre idee? Nulla a mio credere
v'è di più acuto, e profondo che queſtº argomento, e quel d ' Ariſtotele non
l'eguaglia, benchè per altro concluda contro l'ipoteſi dell' idee ſeparate.
Oſservò egli che lº idee eſsendo immutabili per loro eſsenza, non ſi può per
eſse ſpie gar il moto, dalla cui cognizione dipende quella della natura; dunque
l' idee ſono inutili alla ſcienza per cui furono introdotte. Coloro i quali
amiſero con Eraclito, che le coſe ſenſibili ſono in un continuo fluſso,
ricorſero all'idee ſeparate, le quali immutabili eſsendo, ſomminiſtravano a?
Filoſofi dei principj immutabili del loro ſiſtema; la difficoltà è come i
Filolofi le conoſceſsero, ſe la lor mente, non nell' eſsere, ma nell operare
dipende dagli organi del corpo umano, ſoggetto alle vicende dell'altre coſe
fenfibili? f. 17. All' argomento tolto dal principio di contraddizione del pro
greſſo all' infinito, Placone aggiunge l' altro tolto dalle perfer zioni Divine.
Come il retto è la miſura di ſe ſteſſo, e del cur vo, così il cumulo di tutte
le perfezioni che è in Dio; ci ſer ve di miſura per giudicare, e delle
perfezioni di Dio ſteſso, e di quelle dell'altre coſe. Per via del principio di
contraddizio: ne del progreſso all'infinito ſi dimoſtra l'eſiſtenza di Dio, e
per via, o di negazione, o di eminenza, o di caſualità, fi di moſtrano le
infinite perfezioni di lui, onde ſe a qualche data ipoteſi conſegua
l'annullazione di qualche perfezione divina, l'al ſur ſurdo è maſſimo, perchè
Dio nell' effer principio dell'eſiſtenza, è ancora principio di tale eſiſtenza,
e nulla può eſiſtere ſe ri pugna alla natura Divina. Socrate non potea non
conoſcer Dio comeprincipio intelli gente, dunque era neceſſario, che gli
attribuiffè l' idee non me no convenevoli all'intelletto, che i tre lati ad un
triangolo; pur tace Socrate, quando Parmenide gli prova, che la perfec tiſſima
ſcienza o P idea della ſcienza convenendo a Dio, egli per queſt' idea non
poteva conoſcer le coſe, ciò che era con trario alla divina natura. Par dunque
che Socrate ſupponeſſe l' idee ſeparate, ma dall'altra parte Ariſtocele dice
chiaramen te, che Socrate noo ammetteva l' idee ſeparate ſe ben deffe gli
univerſali. Non ſi ſoddisfarebbe in parte alla difficoltà, di cendoli che
Platone, per bocca di Socrate, parlò dell' idee in fenfo poetico, per aver
occaſione d'annullarle, e propor la doc trina che ha da lui copiato Ariſtotele,
e della quale poi ſi ſervì contro que' diſcepoli di Platone, che realizzarono
l' idee ſeparate.. 18. Annullate l' idee ſeparate, la voce idea nel progreſo
del Dia logo, tutta fi riſtringe all' idee, che la mente aftrae comparan do le
coſe. S'è già accennato ($. 8.) il modo, con cui deduſ fe Parmenide l'idea
della grandezza, e de' ſimili, e li vedrà inoltrandoſi, che egli parlando dell'
uno e dell'ente, proteſta di ſeparar le coſe con l'intelligenza, e con queſta
fino sbra narle', che è quanto dire, diſtinguer i concetti o l' idee, ſecon do
i rapporti delle coſe, foſſero ancora quefte ſempliciffime; nulla v'è di più
ſemplice dell'anima per ſua natura indiviſibi le, e pur in eſſa ſi diſtinguono
varie potenze, ſecondo le rela zioni, che ai varj organi del corpo ella ha
operando, onde fi dice che ella ſente, ë che ella immagina. Nella parte ancora
intellettiva, ſi diſtinguono le facoltà che ella ha di comparare, e di aſtrarre,
e di combinare e di, e di contemplare l' idee', onde ella dichiaraſi mente, e
ingelletto, (c ) voci non altrimenti fi nonime, poichè le loro etimologie di
confrontano ai varj uffizj dell'anima; tutte quindi le ſcienze ſono ſu l'
aſtrazioni fonda te. La fiſica aftrae dalle coſe ſingolari, la matematica dalle
ſen Tom. 11. i (a) Mens è detta a menfura, poichè l' anima compara, e miſura le
coſe, Intellectus da intus legere, poichè intendendo ſcieglie, e deduce una
cola da un' altra. fibili, (06 ) fibili, la metafiſica da ogni materia. Vuole
il Patrizio, che come in una gran parte del Sofifta, čosi in tutto il Parmeni
de non ſi tratti che di quella metafiſica, che Ariſtotele colſe da Placone, e
di cui le prime idee ne diedero i Pitcagorici, e tra gli altri, Archira e
Peritione; io v'aggiungo che la me cafifica avendo due parti, cioè l' ontologia,
o la ſcienza, che tratta delle proprietà dell'ente, in quanto ente, e la Teolo
gia naturale o la ſcienza, che tratta delle ſoſtanze ſeparate dal la materia,
come Dio e l'anima, Parmenide ſi riſtringe in que ſto trattato all' ontologia,
e manifefte ne faranno nel progreſo ſo le prove; baſta accennar qui, che
dovendofi dar un elem pio del modo con cui s acquiſtano l ' idee, ſcieglie
Parmenide l'idea dell'uno, applicando ad efla il metodo delle fuppoſizio ni.
Due coſe aggiunge alluſive all'analiſi, ed alla ſinteſi. La prima che ufficio e
d' uomo ingegnoſo il poter apprendere, come ſi ritrovi il genere di qualunque
coſa, ciò che ſi fa cominciando dall'analiſi, o dall'eſame delle coſe
particolari, e per l'aſtra zione, elevandoſi agli univerſali; la ſeconda, che
ufficio è di uomo meraviglioſo inſegnar agli altri le coſe ritrovate, ciò che
ſi fa per la ſinteſi, combinando l'idee generali, e quindi le lo ro
combinazioni, da cui ſi deducono i problemi, e i teoremi, ed indi i corollari,
e le annotazioni. Sommo acume di men te fi ricerca nel far le opportune
aſtrazioni, e di nuovo da.quefte aftrarne altre, ſin che ” analiſi propoſta ſi
riduca all' ul time idee, e ſomma fodezza, ritrovare l'idee, concatenarle in
guifa che alcri con facilità, e prontezza le intendano, e l'uno, è l'altro
dimoſtra Parmenide, o col luo nome Placone. Se l'uno che ne ſegua. b. I. Vuol
Uole il Ficino, che queſta prima fuppoſizione debba inten derſi. Se l' uno,
perchè il verbo è, o ſia la copula del predicato o del ſoggetto v'è pofta, non
in grazia della coſa, ma dell' orazione. Nel legger la nota marginale del
Ficino mi ricordai, che Licofrone (a ) invecedi dire, il parete è bianco, di
ceva il parete bianco, ed altri il parete biancheggia, quaſi che Platone non
riprovaſſe nel Sofiſta l' orazion ſenza verbi, o che (a ) Ariſt. 1. Phil. 9 (07
) che i verbi non foſſero ſtati inventati per compendiare i gius dizi ! Non è
forſe lo ſteſſo il dire, io amo, che io ſono aman te é io biancheggio, che io
fono biancheggiante? La fuppofi zione dunque, je l' uno equivale all' orazione
condizionata, ed implicità fé uno, nè così la propone Parmenide, ſe non per
intimarci, che a null' altro fi deve badare nell'ipoteſi, che all uno preſo in
un concetto aſtrattiflimo. Nella Geometria ſinteticamente ſi comincia dal punto
prin cipio della linea; nell'aritmetica, dall'uno principio del nume ro; e
nell' ontologia dall' uno traſcendentale, che conviene ad ogni noftra idea.
Eſclude tutte le relazioni, perchè riferendofi l'uno per eſempio ad A, B, C ec.
non è più uno, ma molti, in quanto in lui fi conſiderano le diverſe faccie che
ſi riferi ſcono ai molti. Parmenide in queſta prima ipoteſi eſclude dall' uno
cutte le relazioni, cioè quelle dell'ente in genere, e l'alore dell'ente in
fpecie. Relazioni dell'ente in genere ſono l'identicà, e la di verſità, perchè
non competono meno alla ſoſtanza, che alla quantità, qualità, ed agli altri
predicamenti. Relazioni dell'en te in fpecie ſono, la limiglianza, la
diſſimiglianza, Peguaglian za, l'ineguaglianza, l'antichità, la novità eco
perchè competo no o alle fole qualità, o alle ſole quantità ec. * l une e
l'altre intanto ſi dicono relazioni, in quanto non conſiderano le coſe in ſe
ſtelle, ma relativamente tra loro: il diffimile, l'eguale ec. non li
concepiſcono ſenza i due termini, che tra loro fi paragonano. Se l' uno in
quanto tale non può compararſi ad alcuna coſa, biſogna eſcluder da lui tutte
queſte relazioni, tan to più ſe nelle coſe riferite s'includono i molti.
Parmenide comincia dall'eſcluſione delle relazioni più facili a conofcere', che
ſono quelle della quantità; paſſa alle relazioni della qualità, e ad alcre, e
finalmente all'eſſenza; nè di ciò con tento efclude le relazioni, che l'uno può
aver all'opinione, al la ſcienza, é lino al nome. Se l'uno in queſto concetto
aftrat tiſſimo fi nominalle, avendo ogni nome relazione al ſenſo, al la
fantalia, od alla mente, e quindi a tutti gli uomini, che lo pronunziano o
l'odono, l'uno con l'aggiunta di queſte relazio ni ſarebbe molti. Si ſente più
che non s'eſprimequeſt' ultimo grado, ed abbiamo grande obbligazione a Platone,
che in que Ro Dialogo, nel rappreſentarci la dottrina della fetta Eleatica, ci
ha moſtrato l'uſo opportuno delle aſtrazioni. Egli di conten ta di non
moltiplicarla, che fino ad un certo grado, a fine che l'idea coll' altrarla
tanto non s'inlanguidifca, è sfumi; onde al fine la mente non poſſa più
ravviſarla in quella guiſa, che i 2 l'im 708 ) l'immagine d'un oggetto
riflettuta da uno ſpecchio ſucceflivamen te in molti altri, al fin diviene si
ombratile, che ſvaniſce da. gli occhi. Frattanto era neceſſario dimoſtrare in
un ſoggetto aſtrattiſſimo per sè, l'uſo dell'ultime aſtrazioni che può far la
mente, non eſſendovi altro modo di accennare, come in ogni quiſtione s'arrivi a
quell' ultima idea, in cui conviene che vi ci ripoſi, anco malgrado l'impeto
innato, che inevitabilmente ci porta a ſempre più nelle cognizioni inoltrarci.
Nell'inveſtigazione poi dell' idea vaga Parmenide per tutti i generi, come era
in uſo nell'antica Dialetica, e fatta la ſuppoſizio ne determinata per via di
comparazioni, ed eſcluſioni, egli ricava il punto preciſo della quiſtione
propoſta. Con la chiarezza maggio re che io poſſa, procurerò deſprimer
diſtintamente tutti i gra di tallor dell'analiſi, e callor della ſinteſi
Parmenidea. Nel trat çar l'altra quiſtione meconvenne ſeguire le
interrogazioni, e le riſpoſte degli Interlocutori ma quà folo Parmenide parla;
onde bafta ſolo ſeguendo l'ordine del Dialogo premetter le.co. ſe neceſſarie,
eſtrar la propoſizione, e dimoſtrarla fe fi può cal metodo de' Geometri. L' uno
non è molti. Abbiamo quanto baſta illuſtrata queſta definizione; qui fo lo
avverto, che come il Wolfio, dopo d'aver definito, che l'en te ſemplice è cid
che non ha parti, da queſta definizione ne gativa egli deduſſe, che l'ente
ſemplice non è ſteſo, non è diviſibi le, ſenza figura, ſenza grandezza, che non
riempie ſpazio, che non ha moto inteſtino ec. Così Platone, da ciò che è l '
uno, dimoſtra le fteſſe coſe, e molt'altre che andremo partitamente,
conſiderando, e deducendo dalle nozioni preme{le. g. 3. 11 Wolfio defini il
tutto ciò che è lo ſteſſo con molti; per abbracciar in una definizione non ſolo
il tutto integrale, che chiamaſi totum, ma ancora il potenziale che chiamali
omne. Lo ſteſſo, come ſi vedrà fra poco, conviene non meno alle quantia tà, che
alle qualità, ed alle ſoſtanze, e l'idea di molti è più univerſale, che quella
delle parti, convenendo i molti e agli enti ſemplici, ed a' compoſti come a'
quantitativi. Parmenide non definiſce qui, che il tutto integrale, raccogliendo
inſieme le 1 (69 ) le parti, e limitandole in uno, a cui niente manca, ed è per
fua natura indiviſibile; la nozione di molti è quindipiù aftratta della nozion
delle parti, e in queſto ſenſo Ariſtotele diffe, che il tutto è prima delle
parti, e non le parti del tutto, il che, ſe ſi crede al Patrizio, tolfe da
Ippodamo Turio. (a ) §. 4. L'uno non è nè tutto, nè parte di sè. Se l'uno è
tutto non vi manca alcuna parte, ($. 3. ) dunque ha parti; dunque è molti
contro la definizione dell' uno ($. 2. ) Se l'uno è parte di sè, è un tutto
riſpetto a sè, ma non pud eſser un tutto, come ſi dimoſtrò; dunque non è parte
disè. L'uno non effendo nè tutto, né ſteſo, od è indiviſibile, o è ſemplice.
parte, non è 8. S. Ogni cutto ha principio, mezzo, e fine. Cid vuol dire, che
propoſtoſi un turco nel numerarne le parti fi comincia da quella che chiamaſi
prima, e li progrediſce all' ultima paſſando per le intermedie. §. 6. L'uno non
ha principio, nè mezzo, nè fine. ol, Se l'aveſse ſarebbe un tutto ($. 5. ) il
che è impoſſibile (8.4. ) Speſre volte inſegnò Ariſtotele, che l'infinito è
ſenza principio, ſenza fine; offerva il Patrizio, che lo preſe dal Parmenide,
ove ſi dice, che l'infinito (o piuttoſto come io crederei l'indefinito ) non ha
ne principio, nè fine, cioè non ſi sa in eſſo, nè dove comin, ciar la
numerazione, ne dove terminarla. In queſto ſenſo una li nea non è propriamente
infinita, o indefinita, le comincia da un punto, nè una ſuperficie, nè un corpo,
ſe la ſuperficie comincia da una linea, e il corpo daunaſuperficie. A queſti
infiniti måtema rici, che cominciano da un termine, non compere la definizione,
che Platone aſſegna dell'infinito, da cui eſclude il principio, ed il fine. (a
) Diſcuſ. perip. T. 2. p. 280. S. 2: (70 ) S. 7. L ' uno è infinito. L'uno non
ha principio, nè fine (S. 6. ) Dunque è infinito. (An. Si 6: ) 9. 8. La figura
è una parte dello ſpazio, o dell'eſtenſione circonſcrit ca da cerci limiti, o è
retta come il quadrato, il cubo ec. o ro tonda, come il cerchio, la sfera,
Pelifli, l'eliffoide ec. o miſta dell'uno, e dell'altro. Il principio della
figura è dove i moder ni pongono il vertice, il fine dove pongono la baſe",
il mez zodove la figura fi divide per mecà. 8. 9. L'uno non ha figura. Ogni
figura, o recta, o rotonda ha principio, mezzo, o fine (8. 8. ) ma l'uno non ha
principio, nè mezzo, nè fine. ($. 6. ) Dunque non ha figura. L'uno è
infigurabile. $. 10. Non lo può concepire', che una coſa ſia in ſè ſteſſa ſenza
il di 1 ſtinguere con la mente, che ella è comprendente e compreſa, cid che è
concepirla due volte, o di uno far due. Non ſi può conce pire, che una coſa ſia
in altrui, ſenza che ella ſia toccata in mol te parti. Il luogo abbraccia, o
comprende la coſa in lui colloca ta · Eſer in alcrui, od effer in ſe ſtello,,
ſono due oppoſti ſenza. mezzo, come il moto, e la quiete. So IT. L'uno non è in
luogo. O ſarebbe in sé, o in altrui; ($. 10. ) ſe in sè, egli ſarebbe a sè il
ſuo luogo, onde abbracciando ſe ſteſſo ſarebbe nel tempo fteflo, e comprendente,
e compreſo, cioè l' uno ſarebbe due co ſe o molti contro la definizione ($. 2.)
ſe foſſe in altrui, fareb be 1 1 1 1 (71 ) be toccato in molte parti, onde
avrebbe molte parti contro la definizione. (§. 2. COROL. L'unonon è
circonſcritto da alcuna coſa, terra, Cielo, materia, ſpazio ec. ANNOT. Daqueſto
argomento lice inferire, che Parmenide cob ſidera qui l'uno, in quanto è dalla
mente aſtratto da corpi, che ſono in luogo; s'è già oſſervato, che l'ontologia
degli anti chi era fondata su l' idee aftratce dalla materia, dalla forma, dal
compoſto, dagli accidenti; onde queſt'uno aſtratto da corpi, e da loro
dipendente non ha alcuna relazione a Dio, ch'è un ente per sè, in sè, infinito
cc.. 12. Il moto alla ſoſtanza, ſecondo Ariſtotele, è quando una coſa, per
eſempio una parte di terra ceſſa d'eſfer terra, e comincia ad eſſer pianta. Il
moto alla quantità è quando una coſa, per eſempio un fanciullo creſce nella
ſtatura, ed un vecchio decreſce. Il moto alla qualità è quando per eſempio la
carne d unUomo fredda, dura, ed aſpra, li fa da sè calda, molle, liſcia. Preten
deva Ariſtotele, che queſti tre moti dipendendo dalla forza in crinſeca, che
facea cangiare alle coſe la ſoſtanza, e gli acciden ti loro, li diſtingueſſero
dal moto locale, nel qual altro non ſi con ſidera, che il paſſaggio da un luogo
all' altro: Parmenide, o Pla tone, benchè parli del moto di generazione, e
d'alterazione, par ſolo far attenzione, ſecondo l'ulo de'moderni,
all'accoppiamento delle parti, e quindi all aumento delle qualità, due coſe
accom pagnate dal moto locale, o di traslazione. Lo conſidera egli in linea
retta, oin cerchio, nel qual moto una parte della coſa & forma nel mezzo, e
le altre parti fi rivolgono intorno al mezzo. Vuol poi, che tutto ciò che ſi
genera ſi faccia in qualche luogo ſecondo il principio da lui in queſto Dialogo
replicato più volte. Ciò che non è in alcun luogo è nulla. Platone nel Teeteto
dice per bocca di Socrate: Se dimoſtran eli una ſpecie di moto, o due ſpecie,
come a me pare, nondimeno io conſidero che cid non ſolamente appaja a me folo,
mo ancora tu ne fii partecipe, acciocchè amendue parimenti patiamo qualunque
coſa face cia meſtieri, ficchè mi di, cbiami tu forſe moverſi, quando alcune
coſa fe mute da luogo a luogo, e nello steſo ſi raccoglie? Teodoro glie lo
concede. Socrate ſoggiugne: Dunque fiare una specie questa, ma quando
fermandoſi alcuna coſa nello ſteffo luogo s'invecchia, o di bian, ca fi fa nera,
o dara dimolle, e ſi altera da certa altra alterazione, son chiameremo noi
meritamente queſt' altra ſpecie di movimenti?... Ora dico che fieno due le
ſpecie del movimento cioè alterazione, la (72 ) la circonferenza. Egli dice
circonferenza in luogo di traslazione in cerchio, per moſtrar che nel pieno
ogni coſa va in giro., Conſidera poi quì, che nel farſi una coſa vi la un
accoppia mento, nel qual prima una parte fi congiunga a quella che li fa,
mentre l'altra parte, che ſi deve aggiungere, è ancora fuori della coſa. 1 $.
13. L'uno non ha moto di alterazione, nè di generazione. Non di alterazione,
perchè ſe ſi altera non è più uno, ac quiſtando nuove qualità; ſe fi genera non
è più uno, acquiſtan do nuove parti. Or nuove qualità, e nuove parti fanno
molti; dunque ſe l' uno o fi altera, o fi genera, è molti contro la de
finizione. IN ALTRO MODO. Una coſa non può generarſi o farſi che in un' altra,
perchè tutto ciò che è, o fi fa, è in qualche luogo, ma ſe l'uno non può effer
in un altro (S. 11. ) nè meno può farſi in eſſo. In ol tre ſe una coſa ſi fa in
un altro, non ancora ella è ſe ſi fa. Or quando una coſa ſi fa, una parte è in
lei, e una fuori di lei, perchè le parti fi vanno ſucceſſivamente aggiungendo,
ma l'uno non avendo parti (5. 4. ) nè può eſſer nè tutto te in sè, nè tutto, nè
parte fuori di sè. Dunque non può ge nerarſi. Corol. L' uno non è generabile,
nè alterabile, nè par §. 14. L'uno non ha il moto di traslazione. L'uno non è
in luogo (5. 11. ) ma la traslazione in linea ret. ta è una mutazione
ſucceſſiva del luogo. Dunque l ' uno non eſſendo in luogo ($. 11. ) non può
mutar il luogo, ſecondo la linea retta, ma nè meno pud mutarlo, ſecondo la
linea circo lare, perchè deve raggirar nel mezzo, e tener fiffe le parti che fi
rivolgono intorno al mezzo; ma l'uno non ha nè mezzo, né parte, dunque non può
rivolgerſi in cerchio'(. 13. ) Dunque le alluno non conviene nè l'uno, nè
l'altro, non gli conviene il moto di traslazione. Q. 15. 1 1. 1 (73 ) g. isi
Come ſi concepiſce il moto, nel concepire la traslazione fuc ceffiva del mobile,
o ſia il rapporto continuamente vario della diſtanza del mobile a ' corpi
contigui, così fi concepiſce la quie te nel concepir il rapporto coſtante di
diſtanza a ' corpi conti gui; quindi nel moto, il corpo va ſucceſſivamente
occupan do diverſe parti dello ſpazio, e nella quiece occupa le ſteſſe par ti
dello ſpazio. $. 16. Luno non è nè in quiete, nè in moto. L'uno non è in sè, nè
in altrui (9.11. ) ma ciò che è in quiete, è ſempre nello ſteſſo, ciò che li
move è ſempre in al trui. Dunque ſe l'uno non è in ſe ſteſſo, nè in altrui, non
ſi ripoſa, nè ſi muove. $ 17 Platone ha ſin ora conſiderato l' uno per eſcluder
da lui la ragion di tutto, di parte, di principio, di fine, di mezzo, di figura,
di luogo, di moto, cioè per eſcluder dall' uno tutte le relazioni che
appartengono alla quantità, come la più nota, e più facile. Senofane pur
provava, che l' uno era infinito, im mobile, non ſi trasfigurava nella
poſizione, non s'alterava nel la forma, non fi milchiava con alcri. Non è egli
molto veri ſimile, che egli ne arecaffe le ſteſſe ragioni, che poi Parmeni de
più fteſe, ed affottiglid? Paſſa Parmenide ad eſcluder dall' uno le relazioni
dell'ente che appartengono alla qualicà, di cui le prime ſono l'identità e la
diverſità. Non premette Parmenide alcuna definizione dello ſteſſo, e del
diverſo; come fece del tutto; dai Pittagorici (a ) impard, al dir del Patrizio,
che l'identità, e la diverſità non devono conſiderar fi come paſſioni dell'
ente, ma come generi ſecondarj, i di cui primi ſono il moco e la quiere.
Ariſtotele all'incontro riduce l' identità a una certa unità, e dichiara che
ella come la diverſità appartiene alla ſuſtanza, poichè fteſse ſono quelle coſe
che con vengono, o nella materia, o nella ſpecie, o nel numero, o nel Tomo II.
k gene (a ) Diſcuſ. Perip. T. 2. p. 207. (74.), genere di cui una è la
ſoſtanza. Platone eſtende l'identità, e di verſità alle qualità, e da lui
impårarono i matematici a dire, che le ragioni o proporzioni, che ſono le
ſteſſe con una ſtella, ſo no le ſteſſe tra loro; e non ſi dice pur tutto giorno
lo lteſto grado di calore, di lume ec. e. parimente ragioni diverſe, di verſo
grado di calore, di lume ec. Dunque non alla ſola fo ftanza, ma alla quantità,
alla qualità, ed agli altri predicamen ti apparciene lo ſtello, e il diverſo.
Inliftendo il Wolfio su le nozioni ſcolaſtiche, dà il criterio per diſtinguere
lo ſteſſo dal diverſo. Quelle coſe, dice egli, fou no le stelle che ſi poſſono
ſoftituire. ſcambievolmente ſalvo qua lunque predicato, che loro aſſolutamente,
ſotto qualche con dizione convenga; ſicchè fatta la fortituzione, la coſa reſta
ta le, come ſe non foſſe ſtata ſoftituita. Se in una bilancia, in cui ſang
equilibrati due peſi, in cambio di un peſo, d' una certa grandezza, io ne
ſoſtituiſco un alıro, in modo che l'equilibrio Loro non lia tolto, queſti due
peſi, in quanto peſi, nulla diſtin guendoli: ſi chiamano gli ſteſſi. Se nel
peſo che è prima nella bilancia, vi foſſe una certa figura, ed un certo colore,
eun cer to grado di calore, e di freddo, ed anche un certo odore, e tutto ciò
appuntino ſi ritrovalle nel peſo che ſi ſoſtituiſce, que fti due peſi non
diſtinguendoſi, e nel peſo, e nell' altre qualità li chiamano gli fteſi; Lo
ſteffo in numero è ciò che ſi afferma di ſe ſteſſo, o cui ripugna d'efiftere
due volte; nel dirſi, queſto triangolo è que ſto triangoló, ' ſi predica lo
ſteſſo triangolo di ſe ſteſſo, onde convenendo la ſtella eliſtenza al ſoggetto,
e al predicato, egli è manifeſto, che il triangolo in quanto è nell' uno, e
nell' altro non ha doppia eſiſtenza, mala ſteſſa, I diverſi poi ſono quelli,
che ſcambievolinente non poſſono ſoſtituirfi, falvo ogni predicato che all' uno,
o all' altro aſſo lacamente o condizionatamente convenga. Così nel caſo della
ſoſtituzione de' peſi della bilancia, ſe un peſo nel ſoſtituirſi all' altro
cangia d'equilibrio, il pelo ſofticuito è diverſo dal peſo, di cui preſe la
vece; egli è diverlo in ragion di peſo, benchè per altro poteſſe eller lo
ſteſſo nella grandezza, nella figura nel calore, ed altre qualità. Poſſono
dunque le coſe eſſer le ftel ſe in un predicato, e diverfe negli altri; quindi
ſi può diſtin guer lo ſteſſo, e il diverlo in affoluto, e in relativo; ſono aſ
loluti, ſe le coſe convengono in tutti i predicati, o diſconven gono falva però
la loro eliſtenza; ſono relativi le convengono in alcuni predicati, ma
diſconvengono in altri. E'cid neceſſa rio di ben avvertire, perchè in queſto
Dialogo fi prende lo ſteſ 1 1 ſo, 1 (75 ) fo, e. il diverſo in queſti due
fenfi. Qul Parmenide perd pren de aſtrattamente la coſa, perchè a lui baſta,
che l'identità, e la diverficà fiano affezioni, o generi delle coſe non preſe
in sé, ma relativamente all'altre, baſtando queſta fola relazione per eſclu
derle dall' uno; quindi può facilmente dimoſtrarſi, che l'uno non è, nè a se,
nd ad altrui lo ſteſſo, perchè nel ſuo concerto aſtrat tiffimo efclude ogni
comparazione; ma Parmenide in alcro modo lo dimoſtra, rappreſentandoſi alla
mente per via d'una nozione immaginaria, che l' uno prima è uno, e poi per
forza della com parazione egli è molti. Ciò ſi rende ſenſibile col diſegnar
l'uno col ſimbolo aritmetico I, e poi aggiongendovi A, o qualche alera lettera,
onde egli fia prima i, indi 1 + A. S. 78 L'uno non è lo ſteſſo, nè diverfo a sè,
nè ad altri. Se l'uno foſſe da fé ſteffo diverfo, ſoſtituendoſi l'uno per l'uno
dove prima della ſoſtituzione fi concepiva i, dopo della foftitu zione si
concepirebbe 1 + A, dunque non più i contro l'ipoteſi. Se fia lo ſteſſo ad
altrui egli farà quello, cioè 1 + A non cið che è, od uno, il che di nuovo è
contro l'ipoteſi.. 19. L'uno non è diverſo, nè da altrui, ne da ſe ſteſſo.
L'uno convenendo con tutte le coſe, perchè d'ogni coſa ſi dice, uno non è
diverſo da effe, che in virtù di qualche predicato; dun que in quanto non è più
uno; dunque non può eſſer diverſo dall' altre cofe. Non è la ſteſſa la natura
dell' uno, e dello ſteſfo, perchè quando una coſa li fa la ſteſſa ad aleuna non
ſi fa uno; il colore di A per efempio ſia lo ſteſſo, che il colore di B, non
perciò mai A è B, perchè le due coſe colorite comparandoſi, benchè con vengano
nel colore, e in queſto fieno uno, non perd convengono nell ' çliſtenza, Se gli
Itelli non ſi conofcono, che per la Toſti tuzione, gli ftelli convengono bene
ne'predicati; ma ſono fem pre due. Dunque quando una coſa ſi fa la ſteſſa con
l'altra, di due non ſi få uno, ſe non inquanto ſi concepiſce, che con vengono,
o nella quantità, o nella qualità ec. ma non perchè convengono non ſono due;
dunque o l' uno paragonato all' uno ſi fanno due, e cosi l'uno non è uno, o
reſtando uno non k 2 ſi può (70 ) la pudfar ſoſtituzione. Dunque non pud dirſi,
che l' uno fia lo ſteſſo a ſe ſteſſo. 20. Parmenide paſſa a comparar l'uno coi
fimili, e diffimili. Aris ftorele dice, che i ſimili ſono quelli che patiſcono
lo ſteſſo, ei diffimili quei che pariſcono il diverſo; de' primi una è la
qualità, dei ſecondi è diverſa la qualità,onde egli ripone i ſimili, e dilli
mili ſotto l'identità, e diverſità, il che imparò da Platone nel Filebo (a ) e
più facilmente dal Parmenide, ove Platone defini ſce il ſimile, per ciò cui
adiviene patir lo tego, il diffimile, ciò cui adiviene patir il diverſo.
Conſidera quì Parmenide le.qualità, come attributi o modi che ſi ricevano nel
ſoggetto, il quale nel riceverle in cerca guiſa paciſce; ſono queſte nozioni
immaginarie, come quella della ſoſtanza. Su queſte orme Parmenidee, il Wol fio
definiſce i fimili quelli, in cui le ſteſſe ſono le coſe, per le qua li
doverebbono diſcernerſi, onde ſecondo lui, la fimiglianza è l' identità di
quelle coſe per cui dovrebbono tra loro diftinguerli. Se in due volti per
eſempio io ritrovo nelle parti gli ſteſſi linea menti, ne' lineamenti gli
ſteſſi gradi de' colori ec. in fomma ſe io ritrovo, che le ftelle fieno tutte
quelle qualità, per cui dovereb bono diſtinguerſi, i due volti ſono ſimili;
diffimili all'incontro ſono quei volti, in cui diverſe ſi ricrovano le coſe per
cui tra lo ro fi diſtinguono, che vuol dire i lineamenti delle parti, le figu
la collocazione, le grandezze. Il Wolfio fi fece ſtrada con que ſta definizione
a definir i ſimili matematici, ben oſſervando, che le loro proporzioni, benchè
abbiano per fondamento ilquanto, fi riducono al quale. re, S. 21. L' uno non è
fimile nè diffimile ad alcuno, o a se, o ad altrui. Simile a quello cui
adivienelo feſto (. 20. ) ma l' uno eſclu de lo ſteſſo (S. 18. ) Dunque efclude
il ſimile. L’uno ſe riceve alcuna coſa fuor di quello che è l' eſſer uno, pa
tiſce d'eſſer più l'uno, perchè egli è l'uno, ed inſieme la coſa che pariſce,
onde almeno egli è due o molti; dunque non è più uno; dunque ſe l’uno non
paciſce d'effer lo ſteſſo, o loco, o con altri, non può eſſer a ſe ſteſſo, o ad
alcri ſimile, (a ) Patriz. Diſcuſ. perip. p.202. Il (77 ) Il dillimile è quel
che pariſce diverſità (5. 20. ) ma l'uno non può parire diverſità, dunque non è,
nè diverſo da lui, nèda altre coſe, altrimenti non ſarebbe più uno; dunque
l'uno non è diſli mile, nè a ſe ſteſſo, nè ad altrui. 1 l. 22 Concluſo che ha
Parmenide non convenir all'uno, nè l'iden: tità, nè la diverſità, nè la
ſimiglianza, nè la diffimiglianza, paſ fa a ricercare ſe gli convenga l'eguale
o l'ineguale, due pro prietà delle grandezze comparate P une all' altre;
l'eguale im murabilmente ſta nel mezzo, da cui l' ineguale allontanandoſi per
ecceſſo ſi chiama maggiore, e per difetto minore. L'egua le paragonato
all'eguale ha le ſteſſe miſure, paragonato al mag giore ha meno miſure, e ne ha
più paragonato al minore. Ra gionando Parmenide con Socrate ad bominem, fi
ferve del ter mine di participare, che non è allegorico, ove ſi tratta di par
ti. Offervo che non miſurandoli, ſecondo Platone, che con l'uni tà, e col
numero, è manifeſto, che la miſura è ſecondo lui quan tità; pur gli attribuiſce
lo ſteſso, e il diverſo. g. 23. L'uno non è, nè eguale, nè maggiore, nè minore.
Non participando, nè dello ſteſso, nè del diverſo, non parte cipa mai, o le ſteſse,
o le diverſe miſure, in conſeguenza non è nè eguale, nè maggiore, nè minore. 6.
24. Come ſi miſurano le grandezze permanenti, così ancora ſi mi ſurano le
ſucceſſive, le quali paragonare l'une all' altre, compete loro lo ſteſso e il
diverſo, cioè il più, e il meno. Si dice che due Uomini hanno la ſteſsa età,
quando è miſurata per lo ſteſso nu mero di rivoluzioni ſolari, e che hanno
maggiore o minor età le ella ſia miſurata per maggiori o minori rivoluzioni
ſolari. L'antichità, la vetuftà, la novità ſono relazioni degli enti ſuc
ceflivi per rapporto alla loro eſiſtenza fucceffiva; antico ſi dice quello che
da lungo intervallo di tempo e prima d'un altro; nuo vo quel che ora è, e non
fu che già poco tempo prima d'un al tro; il giovane, il vecchio, ſono
propriamente le differenze dell' età degli Uomini, mas'attribuiſcono per
mecafora a curce le coſe. 9.25. (78 ) f. 25. L'uno non è più vecchio, più
giovane di ſe ſteſso, o dell' altre coſe. L ' uno non pud participare, oo delle
ſteſse,, o di maggiori o minori miſure degli enti ſucceflivi, perchè non può
partici pare dello ſteſso, e del diverſo; ma quel ch'è più vecchio, partecipa
di maggiori miſure, quel che è più giovine di minori, dunque ec. g. 26. Per ben
intendere come uno nel farli più vecchio di fe fteſso o d'un altro ſi fa più
giovane, mi è neceſsario trasferire alcu ne nozioni della ſeconda ipoteſi, ed
aritmeticamente ſvilupparle. g. 27 6 3 5 4 Se il rapporto del maggiore al
minore crefca per l'aggiun ta agli antecedenti, e a' conſeguenti d'una
grandezza eguale, il rapporto ſempre decreſce. Sieno i numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6,
7, i quali ſucceſſivamen te creſcono per l'aggiunta dell'unità, èmanifeſto che (a
) > 4 $ Si prendano i quozienti o valori delle ragioni. Il valore della
ragione di = it; il valore di = ito il valore di = i +. Or tal eſsendo la
ragione qual è il fuo valore ſe I +1/2 > it it ec. come è mani 3 feſto fard
> 5 ec. Or rappreſenti A C l' età d'un 3 fanciullo di 3 anni, e B D l'età
d'un | fanciullo di due anni, s' aggiunga alla А С F prima età un anno, ciod ad
" A C. s'ag giunga CF, e alla ſeconda età B D SA D G. aggiunga un altro
anno o DG. Onde s' averà la ragione di }; li vada aggiungendo ſucceſſivamente
alle due età un'anno, ed indi un'anno, e li averanno le ragio ni di e di. Egli
è manifeſto, che il fanciullo di tre anni è più vecchio di quello di due, ma
nel creſcere all'uno, e all' al > 3 4 Ā 1 B tro (a ) Il ſegno è quello del
maggiore, Il ſegno di < del minore. Il ſegno è quello dell'eguale. (79 ) tro
un' anno la ragione che ne riſulta di è minore dell'altra; molto minore è
quella di, e molto più minore quella di onde ſebben il primo fanciullo ſi
faccia ſempre più vecchio dell'altro, contuttociò per l'accreſcimento
dell'egual quantità ſi fa più gio vane relativamente, perché dove nella prima
ragione la differen za era nella ſeconda è minore di 1, e quindi, ſempre mi
nore. Egli è vero dunque, che un fanciullo nel farli' più vecchio d'un altro li
fa ancora più giovane. Se non ſi compari l'età di due fanciulli, ma ſi
conſideri folo l' erà di uno, che ſempre riſpetto a ſe ſteſso creſce di un'anno,
egli è manifeſto, che per queſto eguale accreſcimento, nel decreſcer ſempre le
ragioni degli anni cra loro comparati, lo ſteſso fanciul lo nel farſi più
vecchio di ſe ſtefso, fi fa ancora più giovane. Si vede quindi, che nel farſi
il più vecchio dal più giovane, fi fa cid dal diverſo, e che non è diverſo,
ma'ſi fa. Corol. Lo era, lo efser ſtato, il li faceva, ſignificano i modi del
tempo paſsato; il ſi farà, il ſarà, e ſarà per farſi, i modi del fucuro o
dell'inanzi; l'eſsere, il farſi, i modi del preſente. f. 28. L'uno non è in
cempo. Se l'uno fofse in tempo participerebbe delle miſure del tempo; dunque or
ſarebbe più giovane, or più vecchio, ma queſto non pud eſsere, come s'è
dimoſtrato (9. 25. Dunque ec, IN ALTRO MODO. Quel che è in tempo nel farſi più
vecchio, ſi fa più giovane di ſe ſteſso, (§. 27.) ma l'uno non può farſi più
vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſso, perchè non può farſi, nè una cola, nè
l'altra (9.25. ) Dunque non è in tempo. Il più giovane che ſi fa dal più
vecchio è diverſo da lui, e non è ma ſi fa, ma l'uno non può ricever il diverſo
(§. 18. ) Dunque non può farli dal più vecchio il più giovane; dunque non è in
tempo. Il più giovane non ſi fa dal più vecchio, nè in più lungo tem po, nè in
più breve di fe fteſso, ma ſempre nell'egual tempo con le ſteſso, o fia, o ſia
ſtato, o ſia per dover eſsere; (§. 27. ) mą l'uno non è ſuſcettibile
dell'eguale (§. 23. ) Dunque nè meno dell' egual tempo; dunque non avendo le
paſſioni del tempo non è in cempo.. 29. (80 ) S. 29. L'uno non partecipa, nè
del preſente, ' nè del futuro nè del paſſato. L'uno non eſſendo in tempo non
può partecipare del tem po, ma le paſſioni del tempo ſono, il preſente, il
paſſato, il futuro. ($. 27. ) Dunque non le partecipa. Corol. Se l'uno non è
partecipe di niun tempo, non fu mai, nè ſi faceva, nè era, nè ora è fatto, nè
fi fa, nè farà. 8. 30. Ogni ente, o ciò che è partecipe di eſſenza, è, ſecondo
Plato ne, o nel tempo preſente, o ſarà nel futuro, o fu nel paſſato. Nel Timeo
egli dice, che Dio per far il tempo fluente nel numero, fece un'immagine
dell'eternità. Dunque l'eternità fiſſa in ſe ſteſſa non contiene, che il
preſente, e ciò pur dicono i Teolo gi nel diffinirla con Boezio, una
poſſeſſione tutta inſieme di una vita interminabile. Negando dunque Parmenide,
che il pre ſente competa all' uno, gli nega l'eternità, onde è egli evidente
che non parla di Dio, ma ſolo d'un ente di ragione, dal quale per l' astrazion
della mente eſclude tutto ciò che involve rela zione a qualche coſa, ed anche a
lui ſteſo. Dall' altra parte, qui Parmenide non eſclude dall'uno, ſe non cid
che appartie ne per lo più alle coſe corporee e viſibili, il tutto, le parti,
il luogo, l'eguale, il maggiore, il minore, la generazione, la traslazione, le
differenze del tempo; e ciò che dice dello ſteſ. fo, e del diverſo, del fimile,
e del diflimile, che pur conven gono alle coſe incorporee, lo ricava da ciò che
ha negato ne' quanti. 1. 31. L'uno non è, o non ha eſſenza. L'uno non partecipa
del preſente, del paſſato, del futuro (9.29. ) ma ciò che ha effenza partecipa
dell'uno, o dell'altro ($. 30. ) Dunque l'uno non ha eflenza. Annot. Dall'uno
conſiderato preciſamente come uno, cioè a dire oppoſto amolti, ſi debbe
eſcludere, oltre l'eſſenza attuale, an cor la poſſibile, perchè la poſſibilità
come fonte, e principio del, la (81 ) la realità porta ſeco qualche relazione a
cid che eſiſte, é dall' uno ogni relazione deve eſcluderſi.; molto più le
relazioni dell' uno all'ente, di ragione che chiamali intellettuale qual è il
Lo-. gico, il metafiſico, il matematico, e l'altre relazioni ancora ché aver
poteſſe all'ente immaginario ancor chimerico.. §. 32. tra coſa Primafi
concepiſce la, non ripugnanza dei predicati delle co ſe, ed è l'eſſenza, e
queſta non ſi dice d'altre coſe, o d'al tre eſſenze, ma bensì o gli attributi,
i modi, e le relazioni fi dicono deſsa; cal è la definizione logica, che
Ariſtotele diede della ſoſtanza, chiamandola ciò che non ſi predica d'al ma che
tutte le coſe ſi predicano d'eſsa. In que ſto ſenſo l'eſsenza nel ſuo concetto
aſtratto, non differiſce dal la foſtanza, che in quanto queſta ſi riferiſce a
ſe ſteſſa, ed agli aleri de' quali è ſoftegno, per il che ſi dice, che ella non
ha contrario, e non è capace di più, e di meno. Se l' uno non può predicarſi
dell'uno, o di le ſteſſo, per non radoppiarlo o farne due o molti, egli è
manifeſto, che non è ſoſtanza to più ſe fi conſidera col Wolfio, che nella
nozione della fo ſtanza, v'è qualche coſa d'immaginario, perchè ella fi rappre
ſenca alla fantaſią, come un valo od altra coſa, che in sè ri. ceve gli
accidenti. $. 33 L'uno non è ſoſtanza. L'uno non ha eſſenza. (S. 31. ) Dunque
non ha ſoſtanza ($. 32. ) ſ. 34. La ragione è propriamente quell'atto della
mente, che da una coſa n'inferiſce un' alera, od è ancora ſe ſi vuole la con
neſſione delle verità univerſali; la ſcienza è la cognizione cer ta, ed
evidente delle coſe, ed è tutta opera della ragione che deduce una coſa da un'
altra. Nell' attribuire una coſa ad un altra, ſe li ha qualche cimore, che ad
efla ſi poſſa attribuire l'op poſto, ſi ha della coſa opinione. Col ſenſo poi
non ſi percepi Icono, che le coſe ſingolari, o determinate in ogni parte, e
quindi compoſte di molti. Da queſte definizioni e manifeſto chenegli oggetti
della ragione, della ſcienza, dell'opinione, del Tom. II. I fen ((82 ). fénfo s
} includono moki, çd - in oltre che ogni coſa, che.0.4 ſénte, o su cui di
ragiona fcientificamente, od opinabilmente, ha un' eſſenza attuale o poflibile;
falfa o vera. 1 $. 356 Dell' uno non li ha ragione, ſcienza, opinione, ſenfo.
Quefte coſe includono molti, e dipendono dall'ipoteſid' un eſſenza (§. 34. ) ma
l' uno non ha eſenza (S. 31. ) e non in olude molti (.9.,2. ) Dunque ec, g. 36
Non ſi dà nome ſe non alle coſe, della cui eſſenza, o per ragione, o per
opinione, o per ſcienza, o per ſenſo ſi ha un ' idea o chiara, od ofcura, o
diſtinta, o, confula, o miſta di que Ite differenze. S. 37... L'uno non ha
nome. L'uno' non ha effetiza:(: 34:) Dunque l'uno non ha nome. 1 §. 38.
Ragruppando in poco ciò che ſin ora ſi è detto, ſi può for mare tal fillogismo.
Dal concetto aftrattiflimo dell' uno ſi de vono, eſcluder i molti di qualunque
genere effi fieno; ma cid che appatriene alla quantità, alla qualità; alla
refazione ec? vi s'includono imolti; dunque devono queſti eſcluderſi dal.concet
to aſtrattilfino dell'uno,. ] Se fi diceffe, che così concludendo ſi confonde
l'uno col nul la, manifeſto è l'inganno, poichè la definizione del nulla è, che
egli non abbia nozione alcuna o poſitiva, o negativa, ciò che elclude dal nulla
ogni realtà. Quando'io dico all'incontro, l'uno non é molti, non tolgo a lui
ogni realtà, benchè eſplicitámen te io non vi rifletta. Io ſto più immobilmente
che poſſo affil ſo su l'uno, in quanto s’oppone a molti, e in queſta conſide
razione preſcindo più che poſſo dal conſiderar l' uno, o per rap porto
all'ente, o per rapporto al mio penſiero; noi poſſiamo, come accennai, più
ſentire, che eſprimere queſte preciſionimen tali, e momentanoe, ma 'non
laſciamo di fentirte, e le fencia ·mo (83 ) mo ſe poffiamo eſprimerle in
qualche modo, e farle' intendered agli altri; nè per altro la fcola Eleacica;
ed indi Placone le pro poſe, che per addeſtrar la mente ad inveſtigar l'idee
delle coſe. Era necelfario fciegliere per eſempio quell' idea, in cui la pre
ciſione arriva all'ultimo grado, ove pofla mai giungere la men te umana. Non ſi
conoſce mai bene la natura', ' ed'i precetti della arte, che l'imita, fe non
ned maffimo. Io dimando al Lettore; che legge attualmente il Parmenide di
Platone, e lo confronta col mio comentario, fè altro faccio in effo, che ſviluppare
il fenſo.ovvio det tefto: Abbia pur Pro clo, e gli altri Placonici, e Gentili,
e Criſtiani confiderato queſto Dialogo, non come ontologico, ma come Teologico,
io ril pettando, e la dottrina, e l'autorità loro', dirò che la mia Spiegazione
ontologica non impediſce, che degli intelletti più fublimi del mio,
teologicamente non l'inalzino a coſe maggio ri, come fece il Cardinal Befarione,
applicando a queſto Dia logo la dotrrina del preceſo S. Dionigi Areopagita. Si
può ri leggere avendo preſente tútra l'intiera ſeſſione, quanto ivi diſ fi
appoggiandomi alla dottrina di S. Tommaſo: Dio'è un en te fingolariſfimo, e
nell' applicarvi quel che conviene all' en te di ragione; biſogna ftar attenti
che non ſi confonda l' uno ton l'altro; la merafíſica degli antichi è la ſteffa
che la me tafifica dei moderni; mia nel riferir la prima ' alle coſe, queſte
includevano Dio, che gli antichi non ſeparavano dalla mate ria, che per
preciſionedi mente, là dove la ſeconda conſiderando fe coſe non ha a Dio, che
un'analogia molco lontana, perchè fi diſtingue eſenzialmente, é realmente dalle
ſteſſe. SEZIONE TERZA. Se l'uno è, quali coſe adivengono intorno ad eſſo. I. I.
Nom On ſi ricerca ſe faecia meſtieri, che ſucceda- un cert' uno, ma ſe vi ſia
l'uno; o pure ſoſtituendo la nozione imma ginaria ſe l'uno partecipi l'eſfenza.
Dall'ipoteſi così propoſta ne fiegue', che' l'uno non è la pro: pria 'eflenza,
o che l' effenzà, e l' uno non ſono gli ſteſi con: cerci z chi dice elfenza,
dice preciſamente la: non ripugnanza dei predicati, e chi dice uno, dice 'non
molti.; Nel cratcat queſta: ſuppoſizionë, Platone comincia a frami I 2 fchia (84
) ſchiare all' aſtrazioni le nozioni immaginarie più che di ſopra Queſto fa
ſovente l'oſcurità del teſto, perchè per intenderlo ci sforziamo toſto a
concepire ciò, che non è che un' imaginazione ed imaginazione tallora falſa, da
cui li deduce una contraddizio ne, nèſempre però vera, ma apparente, il che
raddoppia l'ab baglio, ſe non vi s'attende; manifeſteranno gli eſempi ciò che
io dico, in tanto mi ſia lecito di contraſegnare con due ſimboli diverſi, A, e
B, i due concettidell'ente, e dell'uno. Nel farne il compleſſo A + B io
rappreſento un tutto che ha due parti, che io tra loro ſeparo con la mente, per
ragionarne più diſtintamente fi 2. Se l'uno è, ogni parte di queſto tutto (uno
è:) può dividerſi in infinite particelle. Si prenda la particella uno, e ſi
concepiſca come ſeparata per un momento dall'altra particella ence, poichè per
la fuppoſizio ne l'uno è, egli è manifeſto, che conſta di due particelle, uno
ed ente. Di queſto nuovo compleffo ſi prenda la particella uno, e queſta per la
ſteſſa ragione ſi dividerà in due altre, ente ed uno, e così all'infinito. Or
ſi prenda l'altra particella ente, e poiché ogni ente è uno, ſi dividerà queſta
particella in due altre, le quali di nuovo fi divideranno, e così all'infinito;
dunque ogni particel. la del cutto uno è, ovvero è l'uno, ſi divide in infinite
particel le all' infinito. Così può ſenſibilmente rappreſentarſi. Ente uno А +
B 1 Ente uno uno ente 2 a + 2b 2A + 2B ente uno uno | ente 3A ente, uno uno |
ente 46 4A 4B 3. a 36 3B 1 uno, Come A + B rappreſenta il primo compleſſo
immaginario della e dell'ente così 2a + 2b rappreſenta il ſecondo com pleſſo
immaginario dell'uno, e dell'ence dedotto dall'ente, o da A, e parimenti 2A +
2B ſignifica il ſecondo compleſſo imma ginario dell'uno, e dell'ente dedotto da
B. ANNOT. Qui Platone fuppone darli reciprocazione tra le due pror (85 )
propoſizioni l'uno è, è l'uno, nella prima delle quali l' uno è il loggetro,
cliente è l'attributo, e nella ſeconda l'ente è il ſoggetto, e uno l'attributo.
Perchè legitimamente ſia la reciprocazione del le propoſizioni, biſogna che il
ſoggetto ſia tanto ampio, quanto l'attributo, onde può reciprocarſi la
propoſizione. Il triangolo è una figura di tre lati; nell'altra ogni figura di
tre lati è un trians golo, ma non già ſi reciproca la propoſizione, ogni
ternario è nu. mero, perchè non ogni numero è ternario. Il non aver avvertita
la legge della reciprocazione fece cader in molti parallogismi tallora i
Geometri. Corol. Poichè ogni ente è uno, l'uno ſi moltiplicherà come l'ente,
onde potrà dirſi, che l'uno è infinito, o che l'uno è mol ti. Queſta è la prima
contraddizione di queſt' ipoteſi, ma è con traddizione immaginaria od apparente,
perchè l'uno per sè non è molti, ma è molti per accidente, cioè perchè gli
accade di mol tiplicarſi, ſecondo gli enti che lo partecipano, onde non predi
candoſi dell'uno nel tempo ſteſſo, e ſecondo lo ſteſſo, gli oppoſti, non ha in
sè vera contraddizione. g. 3. Platone s'inoltra con le nozioni immaginarie.
Conſiderando l? uno, in quanto partecipe di eſsenza, lo prende ſecondo ſe
ſteſso con l'intelligenza, ſpartato da quello di cui diciamo che ſia par tecipe,
cioè dell'eſsenza. Ciò vuol dire, che dell'ente, e dell'uno Platone fi fa quei
due idoli caratterizzati per A, e per B. Nel dirli che li prende l'uno
coll'intelligenza ſpar; tato dall'ente, s'allude manifeſtamente all'aſtrazioni
della mente. $. 4. 1 L'eſsenza o l'ente, e l'uno ſono diverfi. Alcro è
l'eſsenza, ed altro l'uno (: 32. Sez. 2.) Dunque uno in quanto uno è
dall'eſsenza diverſo, e l'eſsenza in quanto eſsenza è diverſa dall'ano; dunque
l'uno, e l'eſsenza ſono diverſi; Co sì può illuſtrarſi tale ragionamento.
L'ente o l'eſsenza in quanto eſsenza include la non ripugnan za dei predicati
coſtitutivi; l'uno in quanto uno include l'oppo Gizione ai molti, ma queſti due
concetti tra loro non convengo no; dunque ſono diverfi. 8. 5. (86 ) $. s.
L'eſsenza, l'uno, e il diverſo fanno tre concetti o tre coſe trx loro diverſe.
S'è già dirnoftrato, che l'uno, el ente non termi nando lo ſteſso concetto ſono
diverſi tra loro, ma il diverſo non includendo nel ſuo concetto, che la non
convenienza, fa un concet to diverſo, ed in conſeguenza una coſa diverſa dall'
altre due; dunque l'eſsenza, l'uno, il diverſo fanno tre coſe diverſe.. 6. Si
rappreſenti l'uno per A, l'enre per B, e il diverſo per C ne riſultano quindi.
Le combi- FA B7 In ogni combi-7 Tre poi eſsendo le combina nazioni di nazione
vie zioni v'è ancora A, B,CAC uno in due Erre volte uno? in ogni com uno in due
tre volte due E binazione В С! uno in due tre volte tre Abbiamo dunque dedotto
da A, B, C, o dall'ente, dall' uno e dal diverſo il 2.primo pari, il ' tre
primo diſpari, dae volte 3 parimenti impari, 3 volce 3 imparimenti: impari.
Sipuò an cora dedurre due volte due parimenti pari', e queſte ſono tutte le
ſpecie dei numeri. Combinandoſi il 2 il 3 due volte, tre volte e fin quattro
volte, ma non altre, ſi compongono tutti i numeri: fino al dieci. It 3* 2 + 2 =
4 2 + 3 2 + 6 = 3 ti 3 2 + 2 + 37 2 + 1 + 2 + 2 = 3 + 3 + 2 3 + 3 + = te: 2 + 2
+ 2 +19 1 + 2 + 2 + + 3 = I + 2 + 3 + 4 = 10 II 10 è fatto dall'ı, e dal o, e
ſignifica ', che il primo articolo dei numeri termina alla prima decina; fe
ſucceſſivamente alla de cina ſi aggiunge l'i, il 2, il 3. ec. ſi arriva alla
ſeconda decina, e collo ftelso metodo alla terza, alla quarta ec: fino al 100,
che è la decima decina da cui ſi va fino a 1000, o 10 volte 1oo ec. I Pita (87
) I Pittagorici chiamavanol yno il finito, come quello che li mitava l'infinito
o l'indefinito ad una tal ſpecie o forma: dot trina, dice nel Eilebo Platone,
la quale diſcende dagli Dei; queſta è, the tutte le coſe tengono in loro fteſſe
il termine, o l'infinito innato; o piuctoſto l ' indefinito. Lo rappreſentavano
nella materia i Pittagorici, e lo ſimboleggiavano nel 2, o nel binario, poichè
ogni coſa ſteſa è divit bile in due e ognuna delle parti in altre due,; e così
all'infinito. Quando a queſto infinito s'aggiungea luna, che vuol dir la forza
o la forma ſe ne faceva il compoſto che era l'altro principio, di cui par la
Platone; queſto compoſto dețerminato a una ſpecie dalla for ma componeva un
tutto, in cui vera principio, mezzo, e fi në. Lo diffegnavano i Pictagorici per
il 3, e lo chiamavano numero perfecto, medio, e proporzione; oſſervò S.
Agoſtino che numerando fino al 3,, € rapportando prima il 2 all'1, ed indi al
tre nel comporſi la proporzione continua, aritmetica fi forma per la
replicazione del 2 il 4, numero che immediata mente luccede al 3, ciò che non
ſi ha negli altri numeri, per chè cominciando la proporzione aritmetica dal.2
chi replica il 3 non fa il numero che immediatamente lo ſegue od il 5 ma il 6;
nel continuare la proporzione con queſto metodo i numeri riſultanti ſempre più
ſe n'allontanano. S. Agoſtino per ciò offerva co'.Pittagorici, che la
perfezione dei numeri è ne quattro primi, in cui gli eftremi ſono intimamente
uniti ai mezzi, e i mezzi agli eſtremi. Quindi le più perfecte conſo nanze
muſicali, ſono fatte dei primi quattro numeri 2 3-4, 1 ' 2'3? ſ. 7. Se l'uno è,
egli è ogni numero. Nella combinazione dell'uno, dell'ente, e del diverſo fi de
ducono tutti i numeri (9. 6.), Dunque nell' uno, in quanto è, vi ſono tutti i
numeri,; Carol. Il numero eſſendo molti nell' uno, in quanto l'uno è., egli
contiene moltitudine, e perchè i numeri fono infiniti nell uno che è, vi farà
una moltitudine infinita. COROL. 2. Il numero in moltitudine infinita, eſſendo
inclu ſo nell'uno che è, farà egli partecipe d'eſſenza. Si prenda la ſerie
naturale de numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 ec. fino al oo unità eterogenea alla
prima, e da cui fi comincia l'alcra ferie 200, 30, 40, fino 200 = 60 altra
unità eterogenea, da cui comin (88 ). cominciali, un' altra ſerie 2 co ',
300'ec. ſino a o, e cosi all' infinito. Se di queſte tre ſerie ſe ne fa una
ſola ſi ha 1.2.3.4.5 ec. co '... 00?... oo..., fino ad in cui ſi potrebbe
cominciar di nuovo la numerazione. Cominciando da uno, li può con le frazioni
continuar la ſe. rie decreſcente con lo ſteſſo ordine che l'altra, onde 1 I 1
ec. • • ec. fino 3 4 5 I 1 I I I wec. 4 Combinando la ſerie dei finiti intieri,
rotti, e degli infiniti matematici, e immaginarj, fi ha tutta la ſerie. ec.
1.2.3.4 ec. co oo oo ' ec. 0° 5 4 3 2 In queſte eſpreſſioni non v'è errore,
purchè non s' attenda, che alla proporzione delle quantità, nè ſi realizzino i
ſimboli. Ma non biſogna credere, che la numerazione ſia terminata, po tendoſi
concepire, e tra gli intieri, e tra rotti, e tra gli infi. niti dei mezzi
proporzionali, i quali ſono, come ben prova il Ba rovio, veri numeri (ſe ben
noi non poſſiamo eſprimerli ) perchè ſimboli di vere quantità, come i numeri,
ointieri, orotti, e gli infinitamente grandi, egli infinitamente piccioli.
Platone, al dir d'Ariſtotele, poſe i due infiniti (a ) magnum & parvum, e
queſti, come ben ancora lo riconobbe il P. Grandi, ſono gli infinita mente
grandi, e gli infinitamente piccioli dei moderni Geome tri; infiniti replico
immaginarj, de' quali con tanta chiarezza trattò il Wolfio nell'Ontologia,
ſgombrando tutte le difficoltà' che v'oppoſero coloro, che non ben inteſero
queſte due ſpecie d'infiniti Platonici, caratterizzati da profondi Geometri con
tan to utile della Geomecria, della Mecanica, ed altre parti delle Matematiche.
Queſti due infiniti di Platone non ſono diverſi dai grandiflimi, e menomiſlimi,
di cui qui parla. 8. 8. In quanti luoghi è l' ente, in tanti è l'uno. Se l' uno
è egli accompagna ſempre l'ente, ma non v'è ente, che non ſia in qual che luogo
(9.12. Sez, 2. ) Dunque in quanti luoghi è l'ente, in tanti è l'uno. a ) Plato
vero duo infinita magnum & parvum. Arift. 3.Phiſ. c.4. §. 9: (89 ) g. 9. Se
l' uno è, non ſolo ' egli è l'uno, ma un certo uno. Ogni ente ſingolare
partecipa dell'ente, dunque dell'uno; dunque come ogni ente ſingolare è un
certo ente, ogni ente ſingolare è un certo uno. ČOROL. Si compartiſce dunque
l'uno, non ſolo con le coſe in genere, ma con le coſe ſingolari, onde v'è l'uno,
e il tal uno, e a queſto compete, come all'altro, eſfer molti, perchè vi ſono
molti enti ſingolari, e compete loro il luogo degli enti ſingolari. g. 10. Se
l'uno è, egli è un uno che è uno, e cert' uno, e mol ci, e parti, e finito, e
in moltitudine infinito. Egli è uno, e cert'uno, ſe accompagnando gli enti è in
ogni ente, ed in ogni cal ente; egli è tutto ſe ogni ente, in quan to è, egli è
un tutto; egli è párte, ſe ogni parte dell'ente è jina; egli è finito, ſe ogni
tutto ha i ſuoi limiti, e infinito le contiene in sè tutti i numeri. Annot.
Queſte contraddizioni non ſono che apparenti. D. II. Se l'uno è, egli ha
principio, mezzo, e fine. L'uno è finito, e tutto, e parte (S. 10. Sez. 3. )
Dunque ha in sè limiti, perchè ogni una di queſte coſe ne ha; dunque ha
principio, mezzo, e fine. Corol. Dunque l' uno è partecipe di figura retta o
roton da, o d'amendue miſta. ANNOT. Come l'uno, di cui quì parla Parmenide, pud
effer Dio, o qualche idea divina, fe egli è circonſcritto da tutti i luoghi
degli enti, ſe s'individua cogli enti ſingolari, ſe è tutto, parte, finito,
figurato ec. 5 Tom. II. m 6. 12. (20 ) Do? 127 ** Se. l'uno è, egli è in ſe
ſtello, e iş altrui., Ciò che è tutto, comprende tutte le ſue parti; ma l'uno
com prende tutte le ſue parti, dunque l' uno è un tutto; ma il tutto contien ſe
ſteſſo, è l' uno è un turco. Dunque l'uno contiene ſe fteffa. ANNOT. La
propoſizione è identica, e vuol dire: un tutto è. un tutto; o iltutto è nel
tucta; non ſi faccia più attenzione al tutto, mamaall all'uno, e li concluderà,
che l'uno è nell'uno. Si com bini poi l'uno, e il cucco, e ſi concluderà, che
come il cutto è in ſe ſtello, così l'uno è in fe fteflo. Quel che è in ſe
ſteſſo, egli è in ogni ſua parte, ed in tutte le parti, ma il cutto non può
eſſer in niuna parte, perchè il più au conterebbe pel manco, nè meno il tutto
può eſſer in tutte le par ti, perchè ſe in cutie, farebbe ancora tutto in
ciaſcuna, dunque il tutto non è in ſe ſteſſo, ma l'uno è il cutto; dunque non è
in fe fteflo. Ogni coſa è in qualche luogo, perchè ciò chenon è in qualche
kuogo è nulla (S.12. Sez.2.) e quel che è in qualche luogo è in fe felio, o in
altrui, perché non li dà mezzo; mas'è dimoſtrato che ſe è l'uno egli non è in
ſe ſteſſo, dunque è in altrui; ma di ſopra s'era pur dimoſtrato, che egli era
in le ſtello; dunque è in ſe ſteſſo, ed in alcrui. ANNOT. Non v'è quì che
contraddizione apparente, perchè quando ſi dimoſtra, che l'uno è in ſe ſteſſo,
ſi conlidera che l'uno è un tutto le cui parti fon tutte inſieme, quando
all'incontro fi confidera, che l'uno è in altrui, non ſi concepiſce il tutto
con le párti pret inleme, ma come quello che non è in niuna delle ſue parti. S.
13. Se P upo è, egli fta, e ſi muove. Quel che ſta è ſempre in ſe ſteſſo,
perchè da lui non mai & di parte; ' ma l'uno eſſendo nell' uno, non ſi
diparte mai da fe ftef ſo; dunque è ſempre nello ſteſſo; dunque fta. Quel che è
ſempre in altri non è mai nello ſteſſo, e non eſsendo nello ſteſso mai non fta,
e non ſtando ſi move, ma l' uno non è in ſe ſteſso, ma ſempre in altrui; dunque
ſempre fi move. ANNOT. Non è pur queſta, che contraddizione apparente.. 14. (91
) $. 14. 1 e il Una coſa comparata all'altra, o è la ſteſsa, o diverſa, o è par
te di quella coſa conliderata come tutto, od è tutto, conſiderata 1a cofa come
parte. Così dice Platone, e par conſiderar lo ſteſso, e il diverſo
relativamente alle qualità ſolamente, e la parte, cutto relativamente alla
quantità. Se dunque fi dimoſtraſse, che una coſa relativamente a un' altra non
foſse, nè tutto, ne pare ce, nè la Ateſsa, ne ſeguirebbe per il metodo d'
eſcluſione, che ella fofse diyerſa. g. 15. Se l'uno è, egli è a ſe ſteſso lo
ſteſso, ed a ſe ſteſso diverſo. Se egli è in le ſteſso, e fta ſempre, egli è a
ſe ſteſso lo ſteſso, ſe egli è in altrui, e ſempre lr move, è da ſe ſteſso
diverſo. L'uno non è parte di ſe ſteſso, nè tutto rifpetto a ſe ſteſso, nè l'uno
è diverſo dall'uno; or s'è luppoſto, che una coſa compara ta ad un'altra, fe
d'eſsa non è tutto, nè parce, nè diverſa ſarà la ſteſsa; dunque l'uno ſarà lo
ſteſso con ſeco; ma ſe l'uno è in al trui non è ſempre lo ſteſso a ſe ſteſso;
dunque per l' eſcluſione Platonica ſarà egli da ſe ſteſso diverſo'. §. 16. ne
Per eſpor: l'argomento ſeguente in tutta la ſua forza, convie. ne particamente
illuftrare i principj da cui dipende. Si ſuppo 1. Che l' uno è da sè diverfo,
come da ente nell'ipo teſi, che egli ſia. 2. Che il diverſo e lo ſteſſo,
effendo contra rj, uno non può mai eſser dell' altro. Cost lo ſpiego · Molci
enti potendo efiftere, od eſiſtendo nel tempo ſteſso, lo ſteſso farebbe nel
diverſo, ciò che è impoſſibile, non potendo i con trarj, cioè A, e non A ſtar
inleme. Ben ſi vede che qui parla Platone del diverſo, e dello ſteſso aſsoluto,
e non relati. vo, quale abbiamo fpiegato nel G. 17. Sez. 2. perchè nulla vie ta,
che due coſe non poffino eſser diverſe' nell'eſsenza, nelle quantità, nelle
azioni ec. ed intanto eſiſtere nel tempo ſteſso mi Iura eſtrinfeca delle coſe.
Non è cosi conſiderando il diverſo aſsoluto, o l'idea del diverſo, e
conſiderando lo ſteſso aſſoluto o l'idea dello ſteſso.; l'uno non può mai ſtar
nell'altro, e in conſeguenza la ſteſsa coſa non può mai partecipare nello
ſteſso tempo di queſte due idee contrarie. Allude qui tacitamente Par m 2 meni (92
) menide a ciò che ha già dimoſtrato, parlando della participazio ne dell'idee.
L'argomento ha tanto maggior forza, quando fi conſiderano gli enti ſeparati
dall' uno, poichè ſe foſsero diverfi, per ragion del diverſo participerebbono
dell' idea del diverſo che è Tempre una, dal che deduce Parmenide, che non
poten do eſser diverſi per la participazione dell'uno nell'ipoteſi di Socrate,
non ſono diverſi tra loro. 3. Suppone che le coſe che non ſon uno, non fieno
partecipi dell'uno, perchè non ſarebbono uno, ma uno in certo modo. Quì pur
Parmenide parla dell'idea dell' uno, che participandofi dalle coſe non è più
uno, ma uno con certe circoſtanze, od in certo modo, ma ſe non ſon uno nor
faranno eziandio numero, perchè ogni numero è uno. 4. Le coſe che uno non ſono,
nè aſsolutamente uno, non poſsono eſser parti dell'uno, poichè l' uno non può
eſser parte delle co ſe che non fon uno, nè può eſser tutto, quafi comparato a
par ricella. Parmenide alludetacitamente a ciò che diſse di ſopra, che idea non
pud eſser participata, nè ſecondo la parte, nè ſecon do il tutto, dal che deduce,
che le coſe che non ſon uno ne fono particelle dell' uno, nè ſono all' uno
quaſi a particella. Ciò ſuppoſto così argomenta Parmenide col metodo d'
eſcluſione. g. 17. Se l'uno è, egli è diverſo, e lo ſteſso con altre cofe;
all'uno convien il diverſo, aſsolutamente in quanto diverſo, e non all” altre
coſe, cui non conviene, che relativamente Dun que l'uno è diverſo dall'altre
coſe.; le altre coſe non ſono diper fe dall'uno, nè ſono parci, nè tutto
riſpetto all' uno; dunque fono le Aeſse con l'uno. F. 18. Chi proferiſce lo
ſteſso pome una, e più volte ſenza riferirlo a più coſe, come ſi riferiſce nei
nomi equivoci, ed analoghi, eſprime fempre lo ſteſso concetto; dunque nel
proferire la voce, diverſo; applicandola all'uno, confiderato relativamente
agli altri, e un' altra volta agli altri conſiderati relativamente all'uno,
nell'ado prar lo ſteſso nome s'eſprime lo ſteſso concetto. Quindi dice Par:
menide: quando diciamo eſſer gli altri diverſi dall' uno, e l'uno ef ſer dagli
altri diverſo, non mai introduciamo il diverſo a figuificar altra coſa, che la
natura di cui è proprio nome. $. 19. (93 ) S. 19. s'è gia oſſervato, che fimile
è quel che patiſce lo ſteffo; difts mile quel che patiſce il diverſo (9.
20.Sez. 2.) Se l'uno è, egli è ſimile, e diſſimile a ſe ſteſſo, ed agli al tri.
L'uno è diverſo dagli altri (9. 17. Sez. 3. ) Dunque l'altre coſe ſono diverfe
dall' uno, ma non fono diverſe nè più né meno dall'uno, che l'uno dall' altre
coſe (S. 18. Sez. 3. ) e ſe nè più, nè meno, rimane che egualmente fia uno. In
quanto adiviene alle uno l'effer diverſo daglialtri, e gli altri dall'uno, egli
patiſce la ſteſſo per rapporto agli altri, e gli altri per rapporto a lui; ma
ciò che patiſce lo ſteſſo è fimile, dunque l'uno e limile agli altri, e gli
altri per la ſteſſa ragione fon fimili a lui. Il diverſo è contrario allo
ſteſſo; ma fi dimoſtro, che l'uno agli altri è lo ſteſſo, e diverſo, (S. 17.
Sez. 3. ) ed è contraria paffione effer lo ſteſſo agli altri, ed effer diverſo
dagli altri ma in quanto diverſo parve fimigliante; dunque in quanto lo Steffo
fia diflimigliante, ſecondo la paſſione contraria. E' da notarſi, che l'uno è
ſimile agli altri, in quan to diverſo, e diſſimile in quanto lo ſteſſo. S. 20.
Due coſe che ſi toccano ſono preſenti l'una all ' altra, nè tra effe vi ſi
frammette un terzo, perchè in queſto caſo non più toccherebbono ſe ſteſſe, ma
il terzo frappoſto. Ove due coſe fi toccano, due ſono le coſe, ed uno il
contatto, ove tre li toc chino, tre ſono le coſe, e due i contatti; in ſomma
creſcen do i termini creſcono a proporzione i contatti, ſecondo il nu mero dei
termini meno uno. Si tocchino tra loro due punti matematici, ' poichè nulla fra
loro s'interpone, un punto per ragion del contatto coinciderà con l'altro; fi
facciano toccare da un terzo punto, queſto pu. re coinciderà, e quindi infiniti
punti matematici non fanno che un punto, onde de liegue, che la linea non è
compoſta di punti, o che i punti ſovrapofti gli uni agli altri non fanno
grandezze. Ciò naſce, perchè tutti i punti ſono omogenei ſen za parti, ma ſe vi
foſféro degli enti tra loro eterogenei, ben chè non eſteſi, o ſenza parti,
nulladimeno poſti gli uni appreſ so gli altri, benchè non componeſſero
grandezza, tuttavia fa rebbono più, come ben offervò Ariſtotele. Ciò diede
occaſio ne al Leibnizio di compor l'eſtenſione di enti ſemplici, ma ete (94 )
eterogenei, o diverſi di ſpecie, che eſiſtendo ſcambievolmente gli uni fuori
degli altri coeſiſtano in uno; quindi per la no zione dell' eſtenſione, convien
conſiderare, e più enti che eſi Atano fuori di sè, e che tra loro s'unifcano, e
formino uno. Non fanno però un eſteſo;, perchè fe ben inſieme eſiſtano, non
ſono tuttavia tra loro uniti, come allora che liquefatti più me talli ſi
confondono in una maſſa. Le partipoi indeterminate dell'eſteſo, conſiderate in
aftratto, cioè ſenza far attenzione alla loro fpecie, non diferiſcono tra lo ro,
che nel numero. Non ſarà inutile quefta offervazione nel progreſſo. Intanto ſi
oſfervi, che l'uno eſcludendo nel ſuo con cetto i più, oi molti, per quanto
l'uno ſi moltiplichi per ſe ſteſ fo è ſempre uno, onde egliè il ſuo quadrato,
il fuo cubo, ed ogni altra potenza, foſſe anche ella di dimenſioni infinite, e
non folo avete un eſponente, ma molti, come le quantità che ſi dicono
eſponenziali. $. 21. Se l'uno è, egli tocca ſe ſteſſo, e l'altre coſe. L'uno è
in fe fteſſo, ed in altrui (5. 12. Sez. 3. ) In quanto è in fe fteſſo vien
impedito di toccar l'altre coſe, dunque tocca fe Hello; in quanto è in altrui,
è nell'altre coſe; dunque le coccherà. IN ALTRO MODO Una coſa nel coccar
l'altra giace appreffo quella che tocca, ed occupa la ſede vicina; ma ſe l'uno
tocca ſe ſteſſo, giace appreſſo ſe steſſo, ed è quindi due coſe, il che non
potendo effere, mani feſto è che non pud toccarſi. Le coſe diverſe dall'uno,
non potendo effer numero, perchè.non partecipano l'uno, non pociamo mai con
l'uno far due, ma nel contatto v'è ſempre almeno due (9. 19. Sez.-3.) Dunque
l'uno non toccherà l'altre coſe.: ANNOT. La contraddizione pur è qut apparente,
e ſi fa l'ano corporeo nel fupporre, che ei tocchi. Nozione immaginaria. 22.
Parmenide ragionando ad hominem con Socrate fuppone la par ticipazione
dell'idee, combattuta nella prima parte; conſidera quindi la grandezza, e la
piccolezza, come due ſpecie ſeparate, tra (95 ) tra loro contrarie; ben a cid
s'avverta, perchè in queſto conſiſte la deſtrezza del Filoſofo, e la forza del
ſuo ragionamento, S. 23 2 os' Se l'uno e, egli non è ně eguale, nè maggiore, në
mi nore degli altri enti. Sia l'ente minore degli altri enti, egli dunque
participerà dell ' idea della piccolezza, la qual è contraria alla ſpecie della
gran dezza. Si concepiſca, che la piccolezza ſia nell' uno, o farà in tutto
l'uno, o in alcuna parte di eſso; fe in tutto l' uno, eftenderà per l'intiero
uno tutto al di dentro, che vuol dire lo compenetrerà con la ſua ſoſtanza, o
l'abbraccierà con eſtremi li. miti al di fuori, che vuol dire lo comprenderà;
ma ſe la picco lezza s'eſtende al di dentro di tutto l' uno gli è eguale ",
e fe lo comprende gli è maggiore, onde la piccolezza ſarebbe nello ſteſ ſo
tempo grande, ed eguale contro l'idea di lei. Se la piccolezza è una parte
dell'uno, ne ſeguirà, che ella lia di nuovo in tutta la parte, o al di fuori, o
ál di dentro quindi che ella fia eguale, o maggiore per le coſe dimoſtrare;
dunque non potendo eſser la piccolezza, nè in tutto l' uno, nè in parte
dell'uno, non ſarà nell'uno, onde l'uno non farà pic colo, o minore degli altri
enti. Corol. In alcuno degli enti per la ſteſsa ragione non po irà ritrovarſi
la piccolezza, onde in queſta ipoteſi non v'è al tra cofa piccola, che la
piccolezza ftetsa, ma dove non v'è il piccolo, non v'è neppur il grande, perchè
l' uno non è che per riſpetto all'altro; dunque non vi faranno coſe grandi,
trartone la grandezza, e quindi I uno, e altre coſe ſaranno prive di grandezza,
e di piccolezza. e S. 24. Se l'uno è, le altre coſe non ſono di eſso nè
maggiori, nè minori, nè eguali. Le altre coſe aſsolutamente parlando ſono prive
di grandezza, e di piccolezza, dunque, rifpetto alla uno, non fono nè piccole,
ne grandi, e per la ſteſsa ragione, l'uno non è nè maggiore, nè minore
dell'altre coſe, eſsendo privo di grandezza, e dipiccolezza. 5.125. (26 ) S.
25. Se è l'uno egli farà eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non è maggiore,
nè minore dell'altre coſe, ma ſe l'uno non è, nè maggiore, nè minore dell'
altre coſe, egli per la forza dell'eſcluſione ſarà eguale. §. 26. Se l'uno è,
egli è eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non avendo in sè, nè grandezza,
nè piccolezza, nè eccede rà ſe ſteſſo, nè da ſe ſteſo farà ecceduto, dunque
farà eguale a ſe ſteſſo. S. 27. L'uno è maggiore, e minore di fe ſteſſo. Egli è
in ſeſteſſo, dunque li comprende; dunque èmag giore di ſe ſtello; eſſendo in ſe
ſteſſo, egli è da ſe ſteſſo com preſo, dunque è minore; dunque è maggiore, e
minore di ſe ſteffo. S. 28, Se l'uno è, le altre coſe ſono maggiori, minori ed
eguali all' uno. Null'altro v'è, che l'uno, e l'altre coſe, non dandoſi mez zo,
($. 12. Sez. 2. ) Quel che è in una coſa è minore di eſſa (S. 10. Sezione 2. )
e ciò che la contiene è maggiore; dun que, poi che ogni coſa è in un luogo, (.
12. Sezione 2) e che altro non v'è che l' uno, è l' altre coſe neceſſariamente
ſono nell' uno, o l' uno nell'altre coſe; ma ſe l' uno è nell' altre coſe,
queſte ſono maggiori dell' uno, perchè lo conten gono; l'uno è minore, perchè è
contenuto; dunque l'altre co le ſono maggiori, e - minori dell’uno: ma s'è
dimoſtrato, che l' uno non eſſendo nè maggiore, nè minore dell' altre coſe,
all' al tre coſe farà eguale (§. 24. Sez. 3.) Dunque egli è eguale, mag giore,
minore dell'altre coſe. Corol. Egli dunque può eſſere di miſure eguali,
maggiori, e minori, riſpetto a sè, ed all' altre coſe. Quindi Ha 1 1 ! (97 ) Ha
più miſure riſpetto alle coſe delle quali è maggiore, me no miſure riſpetto a
quelle delle quali è minore, e pari miſu re riſpetto a quelle delle quali egli
è eguale. 6. 29. 9 Paſſa a dimoſtrare Parmenide, che ſe l'uno è, egli è parce
cipe del tempo, ed è, e ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe fteſto, e degli
altri, ed in contrario, e che non è, nè ſi fa nè più giovane, nè più vecchio di
ſe ſtello, e degli altri par cicipanti il tempo. Per intendere adequatamente
queſte propoſizioni, in cui s'af follano varj principi i biſogna prima
ripaffare ciò che fi diſle nel ſ. 3. Sez. 3. 9. 27. Sez. 2. ove fi dimoſtrò. 1.
Che chi partecipa dell' eſſenza, partecipa delle differenze del tempo. 2. Che
cið che ſi fa più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, nel farſi più
vecchio, li fa più giovane, e cið per eguali parti di tempo, ag giunte agli
ineguali, il che abbiamo dimoſtrato coll' eſempio delle ragioni di e
diſucceſſivamente accreſciute di 1. comparando percið le ragioni di į, e di
abbiam veduto, che i loro va Iori i ti, eit ! + divengono ſempre minori.
Altreſuppoſizioniegli fa ne' ſeguenti argomenti. 1. Il tempo è un fluſſo, da
cui ſi fa progreſſo dal pallaco al preſente, e dal pre Tente al futuro, e
dall'era all'è, è dall' è al ſarà. 2. Che una coſa che'ſi fa paſſa dal preſente
ove è, nel futuro ove ſarà, e perciò nel farli è di mezzo cra l'uno, e l'altro,
onde propria mente ciò che è nell' inftante, non ſi fa, ma è quello che è, o,
come l'eſprime Platone, una coſa che ha fatto acquiſto del preſente cella di
farſi, od è ciò che allora convien che fi faccia. 3. Il preſente è ſempre unito
all'uno, perchè è ſempre unito all' ente, dal qual l'uno è inſeparabile. 4. Il
diverſo, o l'idea del diverſo è la ſtella coſa ſecondo i principi di Socra te,
e percid è ſempre uno, onde quello che non è uno, non può eſer il diverſo, o
l'idea del diverſo, onde le coſe diverſe dall' uno, o che partecipano il
diverſo, ſono più che l'uno, o hanno in sè moltitudine, e in conſeguenza numero
o più. 5. Delle più ſono prima le poche, che le molte, e delle poche prima il
pochiſſimo. 6. La coſa che prima li fa è la prima, e le dipoi ſono più giovani
delle già fatte innanzi. 7. E' impof fibile', che una coſa ſi faccia oltre la
natura, onde in una co ſa che ha principio, mezzo, e fine, prima li fa il
principio, indi il mezzo, e poi il fine, che vuol dire, il fine ti fa i'ulti
mo. 8. Quel che ſi fa ultimo è più giovane di quel che fi fa Tomo II. il a e ce
I 21 S: i n (98 ) il primo. 9. Chi ſi fa con tutte le parti infieme d'un tutto,,
fi fa nello ſteſſo tempo inſieme col cutto.. 1 1 ſ. 30. Se l'uno è, egli è, e
ſi fa, e non è, nè ſi fa più vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo. Se l' uno è
participando l'eſſenza, participa del tempo ($. 3. Sez. 3. ) ma quel che è in
tempo, è in un fluſſo continuo o pal ſa dal paſſato al preſente, o dal preſente
al futuro (S. 28. Sez: 3.) Dunque l'uno e continuamente in queſto paſſaggio. In
quanto paſſadall'era all' è fi fa più vecchio di sè;ma nel farſi più vec chio,
ſi fa più giovane (S. 26. Sez. 2. ) Dunque ſi fa più vec chio, e più giovane di
ſe ſteſſo. Chi non oltrepaſſa il preſente, nel far progreſſo dal paſſato,
nell'avvenire non ſi fa, ma è ciò che è ($.22. Sez. 4. ) Dunque quando l ' uno
tocca primieramente il preſente, non ſi fa allo ra vecchio, ma è vecchio
oggimai, Nel toccar il preſente, co me ha prima di lui fatto acquiſto, cefla di
farli, od è ancora ciò che avvien che ſi faccia i $. 28.Sez. 3.) Dunque l'uno,
quan do fatto vecchio conſeguiſce il preſence, cella di farſi, od è allora più
vecchio di ſe ſteſſo, di ciò che era toccando il pal fato; ma l'uno è di quello
più vecchio, onde fi faceva vec chio; e facevali di ſe ſteſſo, ed il più
vecchio è più vecchio del giovane; dunque allora l' uno è più giovane di ſe
ſteſſo quando fatto vecchio conſeguiſce il preſente, ma il preſente è fempre
unito all'uno; dunque l'uno, ed è ſempre, e li fa più vecchio, e più giovane di
ſe ſteſſo; ma facendoſi tale, od ef ſendo in tempo pari ritiene la ſteſſa età,
e chi ritiene la ftel fa età, non è più vecchio, nè più giovane; dunque l'uno
eſ ſendo, e facendoli in tempo, non è più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſſo.
g. 31. Se l'uno è, egli è più vecchio dell'altre coſe, o l'altre coſe più
giovani di lui. Nelle coſe diverſe, che hanno in sè moltitudine o numero, altre
ſon fatte prima, altre dappoi; ma il primo che ſi fa è pochifiimo, (9. 26. Sez.
3. ) e nei numeri l'uno è pochiſſimo, dunque l'uno è facco inanzi alle coſe che
hanno numero, o che fono. 1 (99 ) fono diverſe dall'uno, o ſono gli altri; ma
il primo che ſi fa è più vecchio, le coſe che dipoi ſi fanno, ſono più giovani;
dunque l'uno è più vecchio dell'alcre coſe, e l'altre coſe più giovani. g. 32.
Se l'uno è, egli è più giovane dell' altre coſe, e le altre coſe più vecchie
dell' uno. L'uno non può farſi oltre la natura fua (.9.,26. Sez: 3. ) Dunque
avendo parti, o principio, o mezzo, o fine, ſi fa ſecondo la natura del
principio, del mezzo, e del fine, ma il princi pio fi fa il primo, è il fine ſi
fa l'ultimo, ma l' ultimo fatto e più giovane dell' altre coſe, e l' altre coſe
più vecchie dell' uno ($. 26. Sez. 3. ); dunque l'uno è più giovane degli altri,
e gli altri dell'uno. $. 33. Se l'uno è, egli non è più vecchio, nè più giovane
dell' altre coſe.. Ogni parte dell' uno è una; ogni parte del mezzo è una, ed
uno è parimente il fine, od il tutto, onde fi farà l'uno, é colla prima coſa
che fi fa, ed infieme colla ſeconda, colla ter za ec. onde percorrendo ſin
all'eſtremo fi farà un tutto, o 1 uno non eſcluſo nella generazione dal mezzo,
non dall' eftre mo, non dal primo, non da altro; ma ſe l'uno ſi fa inſieme con
tutte le parti d' un tutto ha la ſteſfa età con tutti gli al tri; dunque ſe non
è nato oltre la propria natura, non è fac to prima nè dopo l'altre coſe, ma
inſieme e fecondo queſta ragione non è più vecchio, o più giovane degli altri,
nè gli altri dell' uno. ſ. 34. Se l' uno è, egli ſi fa più giovane, più vecchio
di ſe ſteſſo. Se alcuna coſa foſſe più vecchia d' altra, li farebbe ancora più
vecchia di ſe ſteffa: A ſia più vecchio di B, nel creſcerfi gli anni ad A, egli
& fa più vecchio di fe fteffo, e di B; dun n 2 que (100 ) | 1 que l'uno nel
farſi più vecchio dell' altre coſe ſi fa ancora più vecchio di sè; manel farſi
più vecchio, ſi fa ancora più gio vane per la ſteſſa ragione, che creſcendo
tempi eguali, la ra gione decreſce (5.27. Sez. 2. ) Dunque l'uno li fa più
giovane di ſe ſteſſo, ma s'era dimoſtrato, che ſi faceva più vecchio (S. 30.
Sezione 3. ) Dunque ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe Iteffo. 1 f. 35. Se
l'uno è, egli non può farſi, nè più vecchio, nè più giovane dell'alere coſe.
Ciò che fi fa più vecchio d'un altro, o più giovane, ſi fa più vecchio, e più
giovane ancora riguardo a sè (1.37. Sez. 3.) ma l' uno non ſi fa, ma è, e più
giovane, e più vecchio ri guardo a sè; dunque non ſi fa, nè più giovane, nè più
vec chio riguardo agli altri. Se l'uno è più vecchio, che le altre coſe, ha più
lungo tem po dell'altre coſe, ma creſcendoſi il tempo, egli ſempre eccede meno,
onde ſi fa più giovane riſpetto alle coſe, delle quali era innanzi più vecchio;
ma ſe egli ſi fa più giovane, quell' altre coſe ſi faranno più vecchie; dunque
le coſe che erano innanzi, e più giovani dell'uno, ſi fanno dell' uno più
vecchie, cinè fi fanno più vecchie, riſpetto a quello che era più vecchio; ma
le coſe più vecchie non ſono, ma fi fanno ſempre, perchè la fanno più vecchie,
mentre l'uno ſi fa più giovane; dunque le coſe ſi fanno ſempre più vecchie
dell'uno. Le coſe poi più vec chie, parimente ſi fanno più giovani dell' uno
più giovane perchè l'uno, e l'altre coſe movendoli in contrario G fanno vi
cendevolmente contrarie, cioè le coſe più giovani dell'uno, ſi fanno più
vecchie dell'uno che è vecchio, ed all'incontro l'una più vecchio, li fa più
giovane delle coſe più giovani;, ma non, è poffibile che l' uno, e l' altre
coſe fieno fatte nè più giova ni, nè più vecchie, perchè le cali foſſero, non
più li farebbo no; dunque le coſe, e l'uno tra loro ſi fanno più vecchie, e più
giovani: l'uno li fa più giovane delle cofe, per quello che parve eſſer più
vecchio, e prima fatto, l'altre coſe poi fi fanno più vecchie, per quello che
ſono ſtate fatte dopo, e ſecondo la ſella ragione: l'altre coſe ancora ſe ne
ſtanno riſpettivamente alla uno, come quelle che ſono ſtate più vecchie, e
prima dell'uno. Dunque inquanto che nè l' uno, nè gli altri fi fanno, diſtan do
1 (101 ) $ do ſempre tra loro di un numero pari, non ſi farà nè l'uno più
vecchio degli altri, nè gli altri dell' uno. Ma come decreſce ſempre la ragione
dei tempi, o con minor particella ſempre tra loro differiſcono le coſe prime
dall' ultime, e l'ultime dalle prime, così è neceſſario che l' altre coſe ſi
facciano, e più vecchie più giovani dell'uno, e l'uno dell'altre coſe. Quinci
aggruppando in uno tutte le propoſizioni, abbiamo di. moſtrato, che l'uno è, e
li fa più vecchio, e più giovane degli altri, e di nuovo non è più vecchio, nè
più giovane di ſe ſteſſo e degli altri. Corol. Perchè l' uno è partecipe del
tempo, o ſi fa più vec chio, e più giovane, egli è partecipe del quando, del
futuro, e del preſente. Dunque era l'uno, ed è, e ſarà, e ſi faceva, e fi fa, e
li farà, e ſarà ancora alcuna coſa in lui, e di lui, ed è, ed era, e farà.
COROL. 2. Perchè la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, la defini zione, il nome,
riguardando le coſe che ſono nelle differenze dei tempi, in quanto l'uno è
capace di queſte differenze, è ancora fog getto di ſcienza, d'opinione, di
fenſo, può definirli, e può no. minarſi. Annot. Qui Parmenide non dà ſcienza, e
definizione, ſe non delle coſe ſoggette al tempo, il che biſogna accordare con
ciò che diſke (9.16. Sez. 1. ) La ſcienza che appreſſo noi è ſcienza del le
verità, che ſono a noi dintorno. 9. 36. Riſtringiamo adeſſo in poco, quanto
Platone ha propoſto nella propoſizione condizionale, o ſia nell'ipoteſi ſe
l'uno è. 1. Diftin le colla mente i due concetti dell'uno, e dell'ence., 2. Ne
com poſe un tutto intellectuale di due parti, o dei due concetçi dell' uno, e
dell'ente. 3. Tra loro paragonandoli ne deduſſe il terzo concetto del diverlo.
4. Conclure che nell' uno o è una moltitu dine infinita di numeri, che dividono
l' uno a proporzione dell' ente. 5. Che l'uno è tutto, e parte, e finiso, e
infinito. 6. Da ciò che è un tutto finito, conſiderò in effo il principio, il
mez-, 2o, il fine, e quindi la figura. 7. Da ciò che è un turto, e che il tutto
è nel tutto, conclure che l'uno è nell' uno, ed in fe ftel 1o. 8. Da ciò che
l'uno è comeparte nel tutto, conclure che è in altrui. 9. Che ſta, e ripoſa, ſe
egli è in ſe ſteſſo. 10. Che ſi mo ve, le è in altrui. 11. Che è ſimile a sè in
quanto l'uno, è lo ſteſſo che l'uno. 12. Simile agli altri, perchè paciſce d'
eſſere co me gli altri. Che è diffimile in quanto cert'uno, e certo ente. 14. (102
) 14. Che è lo ſteſſo, poichè ekſte, ed eſiſtono glialtrienti nello ſteſſo
tempo. 15. Che è diverſo, in quanto non ha in sè ciò che hanno gli altri enti.
16. Quindi fimile, e diffimile, perchè patiſce le ſteſſe cofe. 17. Che è
maggiore, minore, ed ineguale, e non maggio re, minore, nè eguale dell'altre
coſe. 18. Che è, e ſi fa più gio vane, e più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre
coſe, e non è, e non fi fa, nè più vecchio, nè più giovane dell'altre coſe, e
l'altre co fe di lui. 19. Finalmente, che dell'uno in quanto è li ha ſcienza,,
ſenſo, opinione, e può denominarſi, e definirſi. Si potrebbe più
compendioſamente ridur in poco l'argomento di Parmenide, conſiderando che
reciproche ſono queſte due pro polizioni: l'unoid, è l ' uno, per il che ſi può
predicar dell'ente ciò che ſi predica dell' uno, e dell' uno ciò che ſi predica
dell' en per ragione dei diverſi concetti formali, predicandoſi dell' ente, la
parte, il finito, l'infinito, il principio, il mezzo, il fine, la figura, lo
ſteſſo, il diverſo, la quiete, il mo to, il limile, il diſſimile, e il maggiore,
l'eguale, il minore, it giovane, il vecchio ec. cutti queſti
predicaricompereranno pari mente all'uno. Ben ſi vede, che qui non ſi parla che
dell' en te corporeo, e degli enti particolari, a cui or compete una co fa, ed
or un'altra. il tutto, S. 37: Ma perchè i predicati oppoſti, come il fimile, il
diffimile, it maggiore, e il minore non poſſono competere nel tempo ſteſſo all'
uno, ed all'ente ſenza contraddizione, Parmenide moſtra che queſti attributi
contrari non gli competono nello ſteſſo tem po, ma in diverſi tempi; tal è la
natura di ogni ente finito: gli attributi, imodi, le relazioni, delle quali è
capace, non hanno luo go in lui, che ſucceſſivamente a differenza dell'ente
infinito, in cui tutte le perfezioni poſſibili, che attribuir gli ſi poſſono,.ftan
no in lui tutte inſieme, onde non male con due parole molto energiche, ſebben
barbare, ſi chiamò Dio dal Bulfingero, omni tudo compoſibilitatis. Gli
Scolaſtici lo chiamarono atto puro, cioè atto ſenza alcuna miſtura di potenza,
e quindi diametralmen te oppoſto alla materia che è pura potenza, e talmente
pura, che al cuni degli ſcolaſtici la ſpogliano dell'atto entitativo,
edell'eſiſtenza. $. 38 (103 ) go 38. Se l'uno è; egli prende diverfi ſtati
ſecondo le:: differenza dei tempi. Nel tempo ſteſſo non ſi può participare, e
non participare dell'eſſenza, e delle coſe che conſeguono al non participarla,
ed al participarla; or il farli è renderſi partecipe dell' ellenza; il
rovinarli e privarſi dell' effenza; dunque l'uno non può ne! tempo ſteſſo, e
prender, c laſciar l'eſſenza. Dunque la pren de, e la laſcia in diverſi tempi,
Quando ſi fa uno, egli perde l' eſfer molte coſe; quando ſi fa molte coſe ceffa
d'effer uno; nel farfi uno, e molte, li fepara, e fi congiunge, qualora ſi fa
ſimile, e diffimile, ſi affimiglia, e diffimiglia; quando ſi fa maggiore,
minore, ed eguale, creſce, decreſce, e li pareggia; quallora movendoſi fi
ferma, e quallo ra fermandoſi li move. Or tutte queſte coſe, eſſendo tra loro
contrarie, l ' uno non può averle nel tempo ſteſſo, dunque l'ha in tempi
diverfi. 9. 39 Non fi pud paſſar dalla quiete al moto, e dal møto alla quie te,
ſenza cangiamento di itato. Un corpo che cangia fuccelli vamente la relazione
di diſtanza, che egli ha ad altri corpi vi cini, ha uno ſtato diverſo da quello
d'un corpo, che conſerya ſempre a ' corpi vicini la ſteſſa diſtanza. Queſto
cangiamento di uno ſtato all' altro ſi fa in tempo; ma conſidera Platone, che
nel paſſaggio dal moto alla quiete, e dalla quiere al moro, v'è un non so che
d'improvviſo, e di momentaneo, che ſi conce piſce nell'iſtante del paſſaggio, e
non più appartiene al moto, che alla quiete; non al moto, perchè la coſa ſi
concepirebbe ancora in ripoſo; non al ripoſo, perchè la coſa fi concepiſce
ancora in moto, Conclude dunque Placone, che queſta natu ra improvviſa è quaſi
ſconvenevole tra il moto, e la quiete; che ella non è in verun tempo, e a
queſta da queſta paſſan do fi muta nello ftato ciò che li move, e nel moto ciò
che ſi ri pola. 8. 40. (104 ).. §. 40. Se l'uno è, nell'atto che cangia ſtato,
non gli competono più i predicati dell'ente. Nel paſsar l'uno dal moto alla
quiete fi muta momentaneamen te, e all'improvviſo, o mutandoli egli non è in
alcun tempo; dunque non ſta nè fi move. Così quando paſsa dall'eſsere alla ro
vina, o dal non eſsere al farſi, non è, nè ſi fa, nè fi diſtrugge. Parimente
quando paſsa dall' uno in molti, e da molti in uno, non è, nè uno, nè molti, nè
ſi congiunge, nè fi ſcongiunge, e paf fando dal ſimile al diſſimile, od al
contrario, non è, nè affimi gliato, nè diſlimigliato, e paſsando dal piccolo al
grande, ed all' eguale non creſce, nè decreſce, nè ſi pareggia. Annot. Da
queſta dottrina ſebben metaforicamente da ' Plato ne eſpreſsa, imparò
Ariſtotele ad introdurre tra i principj delle generazioni, la privazione mal a
propoſito ſchernità da coloro, che non ne inteſero nè la forza, nè l'uſo.
Quando una coſa ha perdute tutte le diſpoſizioni o determinazioni, che la
rendevano tale, ella ceſsa d' eſsere la tal coſa, cioè reſta priva di tutto ciò
che la coſtituiva, e diſtingueva dall'altre coſe, ma nell'atto ſteſ fo, in cui
ceſsa d'eſsere quel che era, comincia ad eſsere ciò che non era, o paſsa dalla
privazione alla forma contraria; queſto ſtato di mezzo che è tra la forma, e la
non forma, Platone chia ma natura mirabile, e momentanea, ed è certo, che ella
nel fifa far i gradi della noſtra cognizione ci moſtra quelli della natura che
non opera mai per falti. Nel Timeo dice: Dovendo eſer l'ef figie delle coſe
diſtinta da ogni verità di forma, non fia mai prepa rato quel medeſimo grembo
di tal formazione, ſe egli non farà informe di tutte quelle ſpecie, le quali è
per ricever da qualche parte, percid che ſe egli faravvi alcuna di quelle coſe
che in sé riceve fimiglianza, quando riceverà una natura contraria di quella di
cui è ſimile, ovve ro un' altra, affatto malagevolmente la ſimiglianza, e
l'effigie di quel la eſprimerà quando moſtrerà la ſua, però egli è convenevole,
che di tutte le ſpecie ſia privo quello che ha in sè da ricevere tutti i generi.
Siccomequelli che hanno da fare unguenti odoriferi, l'umida materia, la quale
vogliono di certo odore condire, di tal guiſa preparano, che * ella non abbia
alcun proprio odore. E coloro che vogliono in materie molli imprimerealcune
figure, niuna figura affatto laſciano primiera mente apparire in quella, ma
quelle cercano in prima di render qan to poſibil fia polite. Ciò ſi rende
ſenſibile nelle quantità algebraiche poſitive, e ne gative, nelle quali non ſi
paſsa dall'une all'altre ſenza paſsar per 1 1 1 il (105. ) o il zero, che non è
nè negativo, ne poſitivo, ed è il vero fim bolo della privazione. Nella
Geometria il punto matematico equi vale al zero, che è il principio negativo
dell'eſtenſione, e dal quale fi comincia la miſura, come l'unità è il principio
poſitivo, per cui fi comincia la ſteſſa miſura. Il punto è comune alla linea,
che ceſsa per eſempio di eſsere alla ſiniſtra, e comincia ad eſsere alla deſtra,
o che termina d' eſser in alto, e comincia ad eſser a baſso; così egli non è
deſtro, nè finiſtro, nè alto, nè baſso. Tut te queſte ſono eſpreſſioni utiliNime,
e ſebben noicele rappreſen ciamo per fpecie aliene, come il niente, o l'
impoflibile, tuttavia molto fervono a reggere i noſtri ragionamenti. L'origine,
e la natura del calcolo delle fuſioni dipende dall'uſo della natura momentanea,
ed ammirabile di Platone. In queſto calcolo non ſi cercano, ſecondo il Newtono,
le quantità infinita mente piccole, chemainon poſsono determinarſi,ma la
ragione del le quantità naſcenti, od evaneſcenti, cioè di quelle, le cui fuffio
ni, o velocità nel naſcere, o nel ſvanire equivagliono al zero, il qual
ſimboleggia il termine del ripoſo, e il principio del moto il termine del moto,
ed il principio del ripoſo. Sieno nel preſen te momento le fluenti quantità y,
x; nel momento ſeguente di verranno ſecondo l' eſpreſſione Newtoniana y toy, ed
xtoy, ove o y, od ox eſprimono i momenti delle velocità. Softituite queſte
eſpreſſioni in un'equazione propoſta, per eſempio in quel la della parabola yy.
=ax, quefta fi caogierà nell' equazione. yy + 2 oyy tooyy = oaxtoax o
cancellando gli eguali 2oyy tooyy = oax, e cancellando il comune o 2 yyt oyy =
ax Sin che la quantità efpreſsa per o reſta finita, non può mai de terminarli
la ragione delle quantità che fluivano, ma nella ſup poſizione che ella s'
annulli, come nel caſo dell' ultima o della prima velocità delle grandezze, ove
o s'eguaglia a zero, fi ha 2 yy = ax, e ponendo l'equazione in analogia 2 y.a::
x.y ragione determinata, con cui le qualità cominciano o termic nano di Auire.
Il Newcono ſpiega più a lungo queſte coſe nel ſuo trattato delle Curve, e lo
ſpiega non chiarezza il Ditton nell'inſtituzione delle Auſſioni; baſta a me
d'averlo quì accennato, per moſtrare che agli antichi non man cavano quell'
idee, che i moderni hanno poi ſviluppato, carat £ erizzandole con canta utilità
delle ſcienze, e delle bell'arri. Tomo II. 5. 41, (106 ) S.' 41, 1 Platone
preſuppone nel ſeguente argomento, che la partenon è parte nè di molti, nè di
tutti, ma di cert'una idea, e di cert'uno che chiamiamo tutto, ed è un cutto
fatto da tutte le parti, e in sè perfetto, Dalla parola idea lice argomentare,
che qui non fi craica che dei concetti, con cui fi concepiicono i molti, e il
tutto, e le parti. L'idea dei molti è l'idea dei più aſſolutamente preſi, e com
prende egualmente le parti, ed i tutti, dicendoſi molte, o più parti, molti o
più molti. L'idea del tutto è l'idea dell'uno più riſtretto in un certo numero,
o riſtretto in cerci limiti; idea della parte è l'idea d'uno incluſo in queſti
più già ridoc ti. Non ſi pud quindi rigoroſamente parlando dire, che la par te
ſia parte di molti, perchè conſiderandoli ſecondo la loro propria idea, non
fanno ancora il tutto a cui ha immediata re lazione la parte, Nel dir dunque
Platone, che la parte non è parte di mol ti, allude ai modi, o ai più vagamente
preli, e nel dir che la parte è parte del tutto, allude ai più riſtretti; ne'
più, come s'accennd, vi ſono incluſe indifferentemente le parti, ei tutti, onde
ſe la parte foſſe parte dei più, potrebbe eſſer parte di ſe Iteffa. Aggiunge
Platone, che ogni parte non è parte di qualun que uno ma d'un cert' uno, cioè
di un certo tutto. La par te del triangolo non è la parte del quadrato, nè un
ſoldato che è una parce d' un eſercito, è parte di una proceſſione di Frati. Il
tutto poi che è fatto di tutte le parti, o a cui non man ca alcuna parte, è
perfetto., Si oſſervi in oltre eſſer lo ſteſſo, il dir molti, o più d'uno; che
ogni coſa quindi o è uno, o più, cioè molci; che una parte dell' eſtenlione
cratca fuori di efla, o feparata da eſſa, eſſendo fteſa, contiene più, e ſe
dinuovo ſi ſepa ra in due, una di queſte parti eſſendo di nuovo fteſa, ritiene
ipiù. In altri termini ciò vuol dire, che non v'è parte dell'eſtenſione che non
ſia diviſibile all'infinito, e come la prima divifione fi fa per 2, ed indi per
2 i Pittagorici aſſegnavano il 2, come il fim bolo dell'infinito. Prima che una
parte fi ſeparaſſe da una certa eſtenſione, ella riteneva il nome di parte, ma
quando è ſeparata, e che di nuovo ſi divide, ella non è più parte, ma tutto.
Queſti nomi di tutto, e di parte ſono ſempre relativi; coloro per ciò che
definiſcono l' eſtenſione, ciò che ha parti fuori" di? par (107 ) parti,
null' altro dicono ſe non che l' eſtenſione è l'eſtenſione, perchè non ha parti
ſe non ciò che è eſteſo. Molto peggio fan no coloro, che ſuppongono, che l'
eſtenſione eſſendo compoſta di una infinità di parti fteſe, ſia compoſta d'una
infinità di ſo. ſtanze tra loro tutte ſeparate, perchè l'idea dell'eſtenſione
null hache di relativo, e ſuppone la coſa aſſoluta,' o la ſoſtanza, su cui la
relazione ſi fonda. Il corpo fiſico, e mecanico non ſono pura eſtenſione, come
il geometrico,; perchè nel corpo fiſico v'è la forza, o la for ma, e nel
mecanico il peſo, origine delle proprietà, e dei lo ro fenomeni.. 8. 42. Se
l'uno è, le parti in quanto parti ſono parti dell' uno, o partecipano dell'uno.
Le parti non poſſono eſſer parti di le ſteſſe, nè di molti ($. 40. Sezione 3. )
dunque dell' uno, il che è dire, che partecipano dell' uno. §. 43, Se l'uno è,
il tutto in quanto tutto partecipa dell' uno. Il tutto cui nulla manca delle
tre parti è uno; dunque par tecipa dell'uno. Corol. Il tutto dunque, e le parti
partecipano dell' uno, e ciò ſignifica un non so che di ſeparato da gli altri,
ma eſiſten; te per sè, ſia egli qualunque coſa. ANNOT. Non par egli, che Parmenide
nel dir, che queſt' uno ſia ſeparato dagli altri, e per sè eſiſtente, alluda
all'idee feparatę che ha combattute nella prima ſeſſione '? Se non vuol ciò
dirſi, come contrario alla profonda Filoſofia d'un sì grande Uomo, non ne
liegue egli, che parlando qui con Socrate, parla bensi col fuo linguaggio, ma
nel tempo fteffo incende di favellare fecondo le attrazioni della mente. 0 2
9.44. (108 ) 8. 44. Se l'uno è, le cofe che partecipano dell' uno fono altra
coſa che l'uno. Niuna coſa può effer alcun uno fuor che lo ſteſſo uno; dunque
ſe le coſe partecipano dell'uno, che vuol dire, non ſono lo ſtes fo uno,
bifogna che fieno un'altra coſa. Dunque le coſe che partecipano dell' uno fono
de verſe dall'uno. S. 4.5. Se l' uno è, le coſe che partecipano dell'uno, ſono
in moltitudine infinite. Se le coſe che partecipano l'uno ſono diverſe dall'
uno, non ef fendo uno nè più d'uno non faranno niente; ma non fon l'uno, dunque
più d'ano, dunque ogni parte d'uno, include in eſſa i più, e queſti altri più,
e così in infinito, dunque le coſe clre parteci pano l'uno, ſono infinite in
moltitudine. COROL. Poichè il più include per fua natura la moltitudine in
finita, ogni parte che d'eſſo ſi tragga fuori con l'intelligenza le ben
piccoliflima rifpetto all'altre, ſarà in moltitudine infinita. ANNOT. Platone
dice da quelle (cioè dei molti ) trar fuori con r* intelligenza alcuna cofa
piccoliffima. In qual altro modo pud egli meglio indicar l'aſtrazione della
mente.? nel dir Platone, che confiderando la diverſa natura della fpecie
fecondo ſe ſteſſa quanto di lei vediamo, fia egli infinito, e in moltitudine,
altro non ſignifica con la diverſa natura, ſe non che ogni parte dell'
eftenfione include in sè più, e queſti altri più, e infiniti in. moltitudine. 1
g. 46. Se l'uno è, la parre in quanto parte è diverſa dell' uno, per chè l'uno
è per sè indiviſibile, e la parte per sè divifibile. 8. 47 (109 ) S. 47. Se
l'uno è, le parti ſono più che l' uno. Le parti diverſe dell'uno, ſe non ſono
uno, o più d'uno, nulla ſaranno, ma ogni cofa è uno o più; dunque ſe le parti
diverſe dall uno non ſon uno, ſaranno più che uno. S. 48. Se l'uno è, le parti
che lo partecipano hanno termine tra loro, e riſpetto al tutto, e il tutto
riſpetto alle parti. Ogni parte è una, ogni tutto è uno; ſe l'uno e l'altro
parte cipa l'uno; ma quello che è fatto uno ha un termine. Dunque ec. Corol.
All' altre coſe, che all' uno, avviene che partecipan do dell'uno, e di loro
ſteſſe, ſi fanno in loro cert'altra coſa, il che dà loro il termine, ma la
natura loro che include i più, è per eſſenza infinita in moltitudine; dunque le
altre coſe che l'uno tutte ſecondo le particelle loro, ſono infinite in numero,
e par tecipi di termini. g. 49. Se l'uno è, le coſe che partecipano l'uno, fono
fimili, e dil ſimili, ſi movono, e ſi fermano, od hanno altre paſſioni con
trarie, Le altre coſe che l'uno, ſono tutte infinite, o indefinite, fe condo la
loro natura, onde tutte patiſcono lo ſteſſo, ed aven do cermini, e diverſi
termini, patiſcono il diverſo, ma il limi le è quel che patiſce il ſimile, il
diſſimile quel che patiſce il diverſo. Dunquele coſe, altre che l'uno, ſono
ſimili, e diffimi li. Maſe patiſcono le ſtelle coſe, e diverſe, pariranno anche
il moverſi, ed il fermarſi, l'eſſer maggiori, minori, ed eguali, l' eſſer più
vecchie, più giovani ec. e 3. 50 Riepilogando le coſe dette, abbiam dimoſtrato
che ſe l'uno che in quanto lo partecipano ſon d'ello parti. Che il tutto dal le
parti riſultante partecipa pur dell' uno; che le parti parte cipanti del tutto,
è dell' uno ſono infinite in moltitudine, che han (110 ). hanno termine tra
loro, e rifpetto al tutto, come il tutto l'ha riſpetto alle parci, onde nel
patir le coſe ſteſſe, e diverſe ſono ſimili, e diffimili, ſi moyono, e fi
fermano. Paſſa a confiderar Parmenide nella ſuppoſizione, che sia l'uno, coſa
adiviene alle coſe che non partecipano l'uno. g. 58. Se l'uno è, e le altre
coſe che non partecipano l'uno, non ſono nè tutto, nè parii, nè fimili, nè
diffimili, nè le ſteſſe nè diverſe, non ſi movono, non fi fermano, non ſi fanno,
non ſi diſtruggono, non ſono, nè maggiori, nè minori, nè eguali, nè vecchie, nè
giovani. Si concepiſca l'uno ſeparato dall'altre coſe, cioè fi concepi ſca che
le altre coſe non lo partecipano, non vi ſaranno mol ti, perchè ognun de molti
è uno; non vi ſarà numero, o mol titudine ordinata che principia dall’uno, il
quale ſucceſſivamen te li va aggiungendo a ſe ſteſſo, e fa ogni numero uno
nella fua fpecie; non vi ſarà tutto, che è una moltitudine riſtretta in uño;
non vi ſaranno parti, ognuna delle quali è uno ordi nata ad un altro uno; non
vi ſaranno coſe limili, nè diffimi li, nè le ſteſſe, nè diverſe con l' uno,
perchè ſe teneffero in se -ſimigliznza, ediffimiglianza, comprenderebbono in sè
due ſpecie tra loro contrarie, onde non eſſendo partecipi di due, nemme no lo
ſarebbono di due contrarj; non poſſono eſſer quindi le coſe nè ſteſſe, nè
diverfe, nè moverſi, nè formarſi, nè diftrug. gerſi, nè effer maggiori, giovani,
e vecchie, perchè eſſendo ſem pre partecipi di due coſe contrarie ſarebbono
partecipi di nu mero. ANNOT. Queſto è lo ſteſſo che concludere che l' uno
traſcen dentale, eſſendo inſeparabile dall' ente, è lo ſteſſo tor dalle coſe l'
uno, che l'ente, od annullarlo. g. 52. 1 Parmenide ha ultimamente conſiderato,
coſa accaderebbe alle coſe, ſe non vi foſſe l'uno, che per ipoteſi ſtabili. Or
cangia ipoteſi, e cerca, coſa accaderebbe alle cofe fe non vi foſse l'uno.
Queſte due ipoteſi ſembrano diverſe, ma ricadono poi nello ſteſso, perchè canto
è annullar le cote ſeparando da loro l' uno che è, od eſsere ſi concepiſce,
quanto annuliarle ponendo le co ſe, e negando l'uno. SE (111 ) . B. I. Uando
per eſempio fi dice grandezza, e non grandezza, QI si dicono due coſe oppoſte,
e tra loro contrarie, poichè la non grandezza diſtrugge ciò che la grandezza
pone o in natu ra, o nella mente; le fi fanno quindi le due propoſizioni, la
grandezza è la non grandezza non è, tutte e due ſono nega tive, ma l'una è d'
un ſoggetto finito, e determinato, l'altra d'un ſoggetro infinito, e
indeterminato. La grandezza é il ſog getto di decerminata ſignificazione, la
non grandezza di ſignifica zione indeterminara, perchè non grande è il piccolo,
non grande il punto, non grande l'unità ec. Or il determinato è contrario all
indeterminato; dunque, come ben oſservò Marſilio Ficino, le due propoſizioni,
la grandezza è, la non grandezza non è, ſono con trarie, ſebben l’una, e
l'alcra fieno negative. Lo ſteſso debbe dirſi delle due propoſizioni, l'uno non
è, il non uno non è, egeneral mente della propoſizione A non è; non A non è:
nella pri ma ſi nega ad A l'eſere, nella ſeconda ad A che fi nega, ga l'effere.
Negar ſemplicemente una coſa, e negare la nega zione, ſono coſe tra loro
contrarie. La propoſizione all'incon. tro A non è, e l'altra non A è, ſono
equivalenti, perchè nel la prima di A fi nega l' eſſere, nella ſeconda fi
afferma, che ad A fia negato l' eſſere. Affermare la negazione è lo ſteſſo che
negar la cola; dunque equivalenti propoſizioni ſaranno, l'uno non è, il non uno
è. E' poi da oſſervarli, che le negazioni, e pri vazioni ſi conoſcono per le
loro realtà oppofte, la cecità per la vi fione, le tenebre per la luce, non A
per A. ſi ne B. 2. Se l'uno non è, nel pronunziar la propoſizione ai concepiſce
chiaramente e diſtintamente, che l'uno non fia, o li ha fcien za di ciò che
s'eſprime, e s'eſprime qualche coſa diverſa dall' altra, l'uno è. Le privazioni,
e negazioni ſi concepiſcono chia ramente, e diſtintamente per le loro realtà
oppoſte, dunque il non uno per l' uno (J. 1. ) ma la propoſizione il non uno è,
è, equivalente all'altra l' uno non è, dunque queſta propoſizione l' uno non è,
fi concepiſce chiaramente e diſtintamente, o li ha ſcienza di lei. La
propoſizione l'uno non è, è diverſa dall' altra, 3 uno (112 ) ! $ 1 1 uno è, e
chiaramente, e diſtintamente ſi concepiſce la loro diver ſità; dunque nel dir
l' uno non è, ſi concepiſce qualche coſa di diverſo. Platone così lo dice:
eſprime primieramente alcuna coſa che ſi può conoſcere, poſcia differente
dall'altra, colui che dice uno, aggiungendovi l'eſfere, oil non eſſere,
perciocchè non ſi conoſce meno, ciò che fia quel che ſi dice non ellere, e come
ſia certa co fa differente dall'altra. Corol. Può dunque predicarſi dell' uno
la ſcienza, e la di yerſità. S. 3. Se non è l'uno, o ſe il non uno è, il non
uno partecipa delle coſe che di lui ſi predicano, e non le partecipa. Del non
uno è, ſi predica la ſcienza, e la diverſità (Cor. ant. ) dunque partecipa di
queſte coſe, mapoichè egli non è, non aven do eflenza, non può participarle, perchè
il non ente non ha pro prietà, dunque non le partecipa; dunque le partecipa, e
non le partecipa. COROL. Così s'eſprime Platone: Il non ente è partecipe di sé,
e d'alcuna coſa, e di queſta, e con queſta, e di queſta, e di cut te le coſe sì
fatte; concioliachè non li direbbe uno, nè le diverſe coſe dell'uno, ne avrebbe
egli alcuna coſa, nè alcuna coſa fi chia merebbe, ſe non foſſe partecipe di
alcuna, nè di queſte altre nondimeno è impoſſibile che ſia l'uno, ſe egli non é,
ma niuna cofa vieta, che non ſia partecipe di molte coſe, ed è neceſſario
ancora ſe è quello l'uno, e non altro, ma ſe non è, nè l'uno, nè quello non
ſarà egli; non ſi dirà nulla di lui, ed il ragionamento farà d'altra cofa, ma
ſe fi ſuppone che quello uno non ſia, è ne ceſſario che ſia partecipe di lui, e
di molte altre coſe,. 4. Se il non uno è, il non uno è ſimile a ſe ſteſſo, e
diffimile all'altre coſe, ed al contrario. Il non uno convien col non uno,
dunque con ſe ſteſſo; dunque è ſimile a ſe ſtello. Il non uno è diverſo
dall'altre coſe che parte cipano l'uno, dunque è diffimile dall'altre coſe; ma
il non uno non eſſendo, non può aver proprietà d'effer ſimile, nè diffimi le,
dunque ec. 8. S. 1 (113 ) §. 5. Se il non uno d, egli è eguale, ed ineguale
all' altre coſe, e nel tempo ſteſo eguale, ed ineguale. Gli eguali ſono fimili
nella quantità; ma il non uno non ha ſimiglianza con l'altre coſe, dunque non
ha egualita; ma ſe egli non è eguale agli altri, gli altri non ſono eguali a
lui, dunque è loro ineguale; ma gl' ineguali partecipano dell' ineguaglianza,
cioè di grandezza, edi piccolezza; dunque l'uno che non è, egli è grande, e
piccolo; ma tra il grande, e il piccolo ſi frammetter eguale, e chi ha
grandezza, e piccolezza, pud ancora aver egua glianza; dunque l'uno che non è
può participare di queſte coſe; ma s'è dimoſtrato, che non le partecipa, dunque
ec. 5. 6. Se l'uno non è, ha in certo modo l'eſſere, o s'attri buiſcono a lui
coſe che l'hanno.. -. Nel dire che l'iuno non è, ſi ha ſcienza di cid che ſi
dice; nel dir che è, diverſo dall' uno, che è, e dall'alcre coſe; che è fimile,
non fimile; diſſimile, non diſſimile dall' altre coſe; eguale, no eguale, fi
profeſſa di concepire, e di pronunziare il vero, ma eſprimendoſi, e
pronunciandoli queſte coſe a guiſa di enti, all'uno che non è s' attribuiſcono
in queſto modo, onde egli ha in un certo modo l'eſſere. B. 70 Queſta
propoſizione: il nulla è nulla, il nulla non è nulla, equivale a queſte altre
due: il non ente è non ' ente; il non ente non è non ente. La prima di elle è
affirmativa, ed iden, tica, perchè fi afferma il nulla di ſe ſteſo, la ſeconda
è nega tiva, perchè ſi nega il nulla del nulla, che vuol dir, ſi affer. ma
qualche coſa, perche una negazione diſtruggendo l' altra elleno affermano. Nel
dire il non ente, non ente, il non en te vien a participare in un certo modo
dell effere, affine di ef ſer non ente.. Nel dire all'incontro il non ente non
è non en te, il non ente per non eſſere non ente che vuol dir per eſ ſere, vien
a partecipar del non eſſere. Così intendo Platone, Tomo II. P allor (114 ) 1
allor che dice: il non ente ad eller non ente ba il legame dei non eſſere, fe
dee non eſſere, come lente tiene nella ſtella guiſa il legame deli eſere,
perchè ei non ſia non ente, affinchè di nuovo ei fia perfettamente, e non
ſiapartecipe il non ente delléſenza, del non eſſer non ente, ma dell'eſenza
dell'eſer non ente, ſe il non ento fia perfettamente. $ Se l'uno non è, egli
partecipa; e non partecipa dell' eflenza 1 L'ente è partecipe del non eſſere,
ed il non.ente dell'eſſe re ($. 7. Sez. 4. ) ma ſe non è, l'uno é neceffario
che ſia par tecipe del non eſſere, affinchè ei non ſia; dunque appariſce, che
l'eſſenza ſia nell' uno, ſe egli non è, e la non effenza ſé egli è. ANNOT.
Tutti queſti ſono ſcherzi metafiſici, per dar luogo alle nozioni immaginarie, e
quindi alle contraddizioni, che mo ſtrano le coſe impoſſibili; ben deve
oſſervarſi, che facilmente con effe fi cade in quel mirabile, che degenera in
puerilità. Platone ſobriamente l' adopra, per dimoſtrare in quali raffina menti
sfumavano le dottrine della ſetta Elearica. 9. 9. Se l'uno non è, ha mutamento,
e in conſeguenza moto, e non ha moto, Šisru ! L'uno parve ente, e non ente,
onde fta così, e non così, dunque fi muta paſſando dall' eſfér al non effer;
dunque ha moto. Ma fe l'uno non è, non è in alcun luogo, perchè ogni en té è in
qualche luogo, ma non eſſendo mai in luogo non pudo paſſare da un luogo
all'altro, dunque non percid fi move, per che non ſi traſmuta.. io. (115 ): $.
io. Y Se l'uno non è, non ſi altera, e non alterandoli ne ſi muta, nè ſi move.
L'uno non eſſendo, non può mai verſare in quello che non è, dunque non
alterarſi, poichè ſe l'uno da ſe stello li alceral fe in alcun luogo, non ſi
ragionerebbe più deil' uno, ma di cer ta altra coſa; ma ſe non li altera non ſi
rivolge in fe fteffo nè fi muta, nè ſi altera; dunque ec. ļ $. Se l'uno non è,
fta e ſi moồe, e fi altera, Quel che non ſi move ſe ne ſta in quiete, e ſi
ferma que gli che in quiete ne fta; dunque l'ano non effendo, comeapo pariſce
ſta egli e li move, anzi movendoſi è neceſſario che ſi alteri, perchè in quanto
alcuna coſa ſi move, incanto ſe ne ſta ella non nello ſteſſo modo, ma
altrimenti; dunque l'uno mentre fi move ſi altera, e nondimeno non movendoſi in
niun luogo in niuna guiſa ſi può alterare; dunque in quanto fi move", ciò
che non è uno ſi altera; ma in quanto non ti move, non fi alce ra, dunque l'uno
non eſſendo ſi altera, e non ſi altera. $. 12 Se l'uno non è, egli è diverſo da
quel che era prima, non ſi altera; non fi fa, non ci muore, e di nuovo ſi fa,
emuore. Cid che ſi alcera è neceſſario che ſi faccia diverſo da quel che era
prima, ma quel che non fi altera, non ſi fa në muore; dunque l'uno, non eſſendo
mentre fi altera, e ſi fa, e periſce, ma non alterandoſi, non fi fa, nè muore,
nè periſce, ed in do tal guiſa l' uno 'non effendo, li fa, e muore e di nuovo
non fi fa, nè muore. §. 13: Sin ora ha dimoſtrato Platone, che ſe l' uno non è,
egli dà di sè fcienza, ed ha in sè diverlicà, che è partecipe, e non par tecipe
di altre cole; quindi lo ſteilo-, e non lo ſteſſo con ſe ſtel р. 2 (116 ) ſi
move fteffo, ſimile e diffimile nè ſimile, nè diffimile, eguale, ed ineguale,
non eguale, nè ineguale, partecipe d'eſſenza, e non partecipe, ſi muta, e non
ſi muta e non ſi mo ve, fi altera, e non fi altera, ft fa, c periſce, e fi fa,
e non periſce. Tutte queſte concluſioni derivano dalla poſizione, l' uno non è;
l'uno eſſendo inſeparabile dall'ente, ſe non v'è l'uno, nè pur v'è l'ente.
OrPente non è, che il poflibile. Annullato dunque il poſſibile reſta l'
impoffibile, da cui ſecondo l' Aflioma ſegue coſa, ex impoſſibile ſequitur
quolibet, perchè nell'idea aſtrat ta dell'impoſſibile s'includono tutte le
contraddizioni. Platone dal conſiderare, che l'uno non ha eſſenza, e non n'è
capace, nega tutte le altre relazioni che pud avere. Premetto a ciò che quando
diciamo, che alcuna coſa non ſia, nel proferire, queſto non è, fi fignifica
ſemplicemente, che non è al tutto in niun modo, e non eſſendo in niun modo, non
è capace in alcun modo di eſſenza; dunque non potrà eſſere il non ente, ne in
alcun modo farſi partecipe di eſsenza. §. 14. Se l'uno non è, non può farſi in
alcun modo par tecipe d'eſsenza. Quel che non è, ſignifica ſemplicemente, che
non è al tur 10, in niun modo, o non è ſemplicemente capace di eſsenza, dunque
fe l'uno non è, non può mai eſser capace d'eſsenza.. 15: ne la per Se l'uno non
è, non pud farſit, nd morire. Chi non è partecipe di eſsenza, non la riceve, nè
la de. Dunque fe. L'uno non è, non pud nè ricever, nè acqui ftar l'eſsenza,
perchè non n ' è capace; dunque non periſce, nè fi fa. $. 16. Se l'uno nonè,
non fi altera, nè fi move, nè ſe ne ſta, non ha grandezza, nè piccolezza, nè
parità, né limiglianza, e dia, verlin (11 ) 3 onde eſsenza, non può aver ne
grandezza, nèpic marfi. Se verſità riſpetto all' altre coſe, e a ſe ſteſso, nè
gli conviene ale cun altro attributo Se l'uno non è, non ſi altera, perchè fi
farebbe già, je pe rirebbe potendo queſto; ſe non ſi alcera, nè men fi move, ſe
come non ente, non eſsendo in alcun luogo, non pud ſtar lo ſteſso in alcuna
coſa, nè in alcuna coſa fermarſi. Se non ha nè piccolezza, nè parità, eſser
ſimile, o diverſo, o rifpetto all'altre coſe, o a ſe ſteſso, nè le altre coſe
potranno eſser in lui in alcun modo, gli ſono, nè fimili, nè diffimili, nèle
ſteſse, nè diverſe, nè pud ſtar ſeco, non ha il di lui, o ciò che ſi dice di
alcuna coſa, o queſto, o di queſto, o d'altrui, o ad altrui, o alcuna volta, o
dopo, o al preſente, o ſcienza, o opinione, o ſenſo, o fer mone, o nome, o
qualunque altro degli enti. Annot. Sebben ſi oſserva, Platone al non uno toglie
tutto quello che ha dato all'uno, conſiderato in ſe ſteſso nella prima Sezione,
argomento evidente, che, quando tutti gli altri man caſsero, quì non ſi trarca
che delle aſtrazioni della mente, fra miſchiate tallora con le nozioni
immaginarie, quali ſono in que fta Sezione, e nel rimanente. Non ci reſta che
l'ultima quiſtione, in cui ſi cerca ſe non è l'uno, che accada all'altre coſe.
SEZIONE QUINTA,. $. 1. S'orser Oſservi tolto. 1. Che ciò che è, o è l' uno, o
l'altre co ſe • 2. Che ſe queſte non foſsero (almeno nella noſtra im-. maginazione,
o nella noſtra mente ) di loro non ſi diſputereb be, perchè il nulla non ha
proprierà. 3. Che ſe dell' altre li fa vella, l'altre ſono il diverſo, poichè
l'altro, e il diverſo ſono fi nonimi', onde diciamo altro non eſser l'altro,
che l'altro d'al tri, ed efser del diverſo diverſo, e che per far le coſe altre
dalla uno, vi ſi debbe aggiungere qualche altra coſa, onde fieno per eſser
altre, di cui ſaranno altre. 3 Tesni f. 2. (118 ) S. 2.. Se l'uno non è, le
coſe altre o diverſe dall'uno, non ſono altre. o diverſe, che per ragion di ſe
ſteſse.. Nelle coſe altre dall' uno o diverſe dall'uno, vi's include' qual che
altra coſa, per cui fieno altre, ma queſta coſa non pud ef ſer l'uno, perchè
per ipoteſi egli non v'è. Dunque, poiché non v'è, che l' uno, e l'altre coſe,
eſcluſo che altre coſe non fieno. altre per luno ne liegue che ſieno altre per
ſe. ftelse, COROL.. Dunque: per ſe ſteſse. ſono ciò che ſono tra se.., S: 3 Se:
l'uno non v'è, le coſe altre dall' uno ſono tali per una moltitudine infinita.
Non v'è che uno o i più, dunque le coſe altre o diverſe 1 dall’uno, non potendo
eſser altre che l'uno, il quale non v'è per ipoteſi, non ſaranno altre che per
i più, cioè per la mol: titudine; ma il più, o la moltitudine eſsendo per le
ſteſsa in finita '; le coſe. altre dall uno,. ſono alore per una: moltitudine
infinita.. COROLLAR. Qualunque mala dunque di loro appariſce in molti-. tudine
infinita, e ſe alcuno ſi prenderà ciò che menomilimo pare co. me. Sogno, incontinente
in vece di quello che pare uno, ſi fa innangi una moltitudine infinita, e in
vece di quella chemenomilimopar ve, apparirebbe grandiſſimo già, ſe il
pareggialli ad altre coſe in die Sparte da lui. Cosi: parla Platone: fia prefa
qualunque parte d'eſtenſione, el la è diviſibile in due, ed inoi in due, e così
all'infinito. Della di viſione di cui è capace il tutto, ſono capaci
reſpettivamente le parti, nè v'è particella si minima, che le noi nell' ipotefi
che non v'è uno, poteſſimo vedere con un microſcopio miracolo fo,, non ci
pareſse diviſa in una moltitudine infinita di parti, ma tali che nell' iſtante
ſteſso, che noi vedeſſimo la parte, la vedremmo attualmente diviſa in altre
parti infinite, e cosi all'in finito; non è che io dir voglia, che vedremmo
l'infinito at tuale, perchè non poſſiamo intenderlo, non che vederlo, nè so
come il Leibnizio abbia poruto concepir nella più minima par 1 (119 ) parte di
ciò che egli chiama 'materia, un numero attualmente infinito di monadi";
biſogna prima provare, che noi concepia mo l'infinito attuale -, ed indi che vi
ſieno queſte monadi; ma ſe vi foſsero, il che io non l' ammetto, che come
principio di co gnizione, e non di natura, in eſse, come l'eſprime il nome loro,
v è un'unità, che è il fondamento di concepir nella monade innumerabili
proprietà; ma quì nell' eſtenlione Platonica, biſo gna rappreſentarfi ogni
parte deſsa ſeparata dall' uno; ' v'è in ciò contraddizione, ma appunto Platone
- la ſuppone per de dur dall'aſsurdo i, l'impoſſibilità di ſeparar l' uno
dall'ente. §. 4. Se non è l'uno in ogni maſsa apparente apparirà il numero, e
le proprietà dei numeri, l'eguale, il mag giore, il minore. Tolto l' uno dalla
maſsa, ci ſi fa come nel ſogno innanzi una moltitudine infinita, in cui ſe ſi
vuol ordinar colla mente la moltitudine, vi ſi trova il numero; quindi il pari,
e l' impari; il picciolo, il grande, il piccioliſſimo, il grandiſſimo., compa
rando tra loro le maſse, in cui s'è diviſa la maſsa maggiore, e quindi l'eguale,
perchè non ſi può paſsar dal maggiore al mino re ſenza paſsar per l'eguale, ma
queſti ſaranno tutti fantasmi d' egualità, di maggiore, di minore, di pari,
d'impari ec, come di numero, §. 5. Se non v'è l' uno, ogni maſsa apparente
avendo termine appa rente, riſpetto all' altra non ha nè principio, nè mezzo,
nè fine riſpetto a fe ftefsa. Si prenda alcuna delle maſse apparenti coll
intelligenza, in nanzi al principio, ſe le fa ſempre innanzi altro principio, e
dopo il fine, ſegue ſempre un altro fine, e nel mezzo altre coſe ſem pre più
interne del mezzo, e ſempre minori, perchè non ſi può ricever in queſta alcun
uno, non eſsendo l'uno. Annot. E ' da oſservarſi, che qui Platone dice, prender
alcu na coſa con l'intelligenza, cioè aſtrattamente conliderarla í vi ag (120 )
aggiunge poi che potendoſi prender la maſsa ſenza l' uno, cioè fenza far
aftrazione dall'uno, ſi sbrana qualunque coſa così pre ſa con l'intelligenza,
che è quanto a dire con la mente fi* di vide in più parti, e queſte in altre, e
così all'infinito. S. 6. Se l'uno non è, preſa qualunque maſſa a chi da lungi
la mira groſſamente par uno, ma chi da preffo l'in tende è un infinito in
moltitudine. Non potendo noi nulla concepir ſenza l' uno a prima viſta, e da
lungi mirato ci par uno, ma da preſſo, e acutamente vedendolo, tolto l'uno, ci
rappreſenciamo infiniti. COROL. Se dunque non v'è l'uno, ma l'altre coſe dall'
uno, qualunque di eſſe è infinita, e con termine ed uno, e molci. Se non v'è
l'uno le altre coſe ci pareranno, e ſimili, e diffi mili, e le ſteſſe, e le
diverſe, e unire, e ſeparate, e moverſi, fermarſi; nè potendo noi concepir le
coſe ſenza l'uno le ve dremo, come adombrate da lunge, e patir lo ſteſſo, ed
eſſere fimiglianci, mada preſſo molte, e diverſe, e per il fantasma della
diverſità diverſe, e diflimiglianti tra loro ſteſſe e pari mente ci pareranno
le maſſe ſimili, e diffimili, e da loro ſteſ ſe, e tra di sè, e le ſteſſe, e
diverſe tra loro, e che tocchi no, e fieno ſeparate da loro ſteſſe, e fi movano
con tutti i mo ti, e ſi facciano, e periſcano, e nell' una, e nell' altra manie
e tutte le coſe sì fatte che li poſſono dedurre dalle coſe 7 ra, già dette. S.
7. Ha dimoſtrato fin ora Parmenide 3 che adiviene alle coſe ſe non è l' uno,
cerca poi che fieno gli altri che non ſon uno. 1 §. 8. (121 ) $. 8. Se non è
l'uno, le alere coſe non ſon uno, ne molti. Non ſono uno, perchè non v'è l' uno;
non ſono molti perchè i molti preſuppongono l'uno. ital 18. s. Se non v'è l'uno,
non vi ſarà nè opinione, nè fantasma, ne ſcienza dell'altre coſe. Le altre coſe
non hanno alcun concetto con niuna di quel le che non ſono, nè alcuna di quelle
che non ſono è appreſso ad alcuna dell'altre che ſono; dunque appreſſo ad altri
non v'è opinione, non v'è fantasma dell'ente, e quindi dell uno; ma ſe non v'è
l'uno, non effendo poſſibile il penſar a molte coſe fen za r uno, neppur
èpoſſibile che ſi penſi che fieno uno, o mol ti le coſe.. 10. Se non vè l' uno,
le coſe non fono nè fimili, nè diffi mili, nè le ſteſſe, nè diverſe, nè ſi toccano,
ne & ſeparano Non ſi poſſono concepir le coſe ſenza l'uno; dunque ſe non vi
è l'uno, non ſi poſſono concepire, nè ſimili, nè diffimili nè le fteffe, nè
diverſe, nè unite, nd ſeparate. COROL. Dunque ſe non v' è l' uno nulla v'è,
onde o ſia l' uno, o non fia, ed egli e l'altre coſe ancora ſono, e non ſo no
ad ogni modo riſpetto a fe ftelle, e tra di loro, e appajo no, e non appajono.
II. Riftringendo in poco tutto ciò che negli ultimi paragrafi s'è eſpoſto, egli
è manifefto, che l' uno efiendo inſeparabile dall' ente, ove non v'è più uno,
non v'è più d'ente, cioè v'è nul. la, ol'impoſſibile", da cui ſeguono
tutti i contraddittorj, qual Tomo II. q Pla (122 ) Platone ci eſpoſe per via di
nozioni affatto immaginarie; egli ne fa veder i uſo, e moſtra nel tempo ſteſſo,
quanto la fan taſia ſia diverſa dall' intelletto, poichè ella ci rappreſenta
una coſa, mentre la mente ragionando ce ne fa concepire un'altra. Si conclude
dunque, che Placone in queſto Dialogo non fi af fiffa che a moſtrar ſuſo
dell'aſtrazioni della mente, nell' inve ſtigazione dell' idee. 1. Con le
negazioni, come fece nel primo capo. 2. Con le analogie dell'altre idee
aſtratte; finalmente con le cognizioni dell' idee, del ſenſo, della fantaſia,
combinate a quelle della mente. LETTERA A SALIER Primo Cuſtode della Biblioteca
DEL RE CRISTIANISSIMO. On dubitate che io ſia mai per dimenticarmi di voi, co
N°me alcuni venuti ultimamente di Francia m' accufaro no da voſtra parte;
troppo m'è rimaſta impreſſa l'idea della bontà, e gentilezza voftra, troppo è
ſtato vivo il piacere e ſodo il profitto, che io ricavai dalle converſazioni
letterarie, che abbiamo fpeſſo avute inſieme, e tra l'altre su l'opere di
Platone; ce ne porgevano il motivo le ſaggie rifleſſioni, che leggevaci l'Ab
bate Fraguier, or su l'ironia di Socrate, or ful carattere de'So fifti, or su
la Repubblica, ed or su le Leggi, tutti oggetti delle belle diſſertazioni, che
egli diede alla voſtra Accademia. Solo la Iciò egli intatto il Parmenide, o non
aveſſe il tempo, o la voglia d' applicarſi a ſviluppare un Dialogo, che è il
più malagevole di Platone, o temeſſe dioffendere la ſoavità del ſuo genio con
l'idee troppo auftere, e filoſofiche, delle quali il Dialogo abbonda. Voi ben
ſapete, che per voſtro conſiglio m' applicai a leggerlo con attenzione fin
dall'anno 1725. e ne concepii quel fiſtema, di cui állor vi parlai. Venuto in
Italia, e diftratto da graviſſimi intereſſi dimeſtici, ne interruppi l'eſame
già cominciato, ſebbene negli intervalli io leggeſſi continuamente Platone; e
l'avrete ve duto nel Sogno del Globo di Venere, che il Signor Conte di Cai lus
v avrà forſe dimoſtrato in lingua Franceſe tradotto. Di tem po intempo io
parlai del Parmenide con gli amici, e mi fi fue gliò il deſiderio di compierne
il ſiſtema da me abbozzato all'occa lione del Platone di Dardi Bembo, che
ſtampali in Venezia, con P aggiunta delle note e degli argomenti del Serano
letteralmente tradotti. Dalla Differtazione preliminare ritrarrete l'idea
generale del la Filoſofia Eleatica così celebre per l'acurezza, e per la profon
dità de' Filoſofi, come la Jonica per la fodezza dell'eſperienze, e l'Ita (124
) 1 1 ľ Italica per la felice combinazione della Geometria, e dell'A ſtronomia
alla Fiſica. Non è difficile ſcoprire, che la metafiſica do Ariſtotele è tratta
in granparte in queſto Dialogo, in cui Plato ne abbandona quaſi l' artificio
poetico adoprato negli altri, e ſi ſpiega nella maniera più ſemplice, e più
preciſa. Nella prima Sef fione io v'oſſervai i tre fonti delle allurdità degli
argomenti me tafiſici; il principio di contraddizione, il progreſſo
all'infinito, el' annullazione fuppofta di qualche perfezione divina.
GliEleatici, che forſe gli inventarono, riconoſceano i limiti dell'intelligenza
uma na, e pur era queſta la minor parte della Dialectica loro, la qual vaga va
per tutti i lommi generi delle coſe. La quiſtione dell'origine e della natura
dell' idee v'è più che abbozzata, e la riſpoſta che so crare diede a Parmenide,
su la maggior difficolcà dell' idee, è la ſteſſa che uso il Padre Malebranchio
nel medeſimo caſo. Nell'al tre opere s' accuſa il Commentatore di dar troppo
ſpirito al ſuo Filoſofo; in queſta è cutto il contrario, poichè per quanto ſi
ſpieghi Platone, vi reſta fempre molto a medicare, e la compa razione del reſto
fa ſempre vergogna al commento. Ficino e Serano, che aſſegnarono al Dialogo un
grado di ſublimità Teologica non convenevole, l'hanno sfigurato, e colto agli
altri il profitto, che avrebbono potuto ricavare da una ſpe colazione così ben
dedocta e conforta nè punto inteſa dai due Commentatori, i quali preteſero che
in queſto Dialogo chiama to dell'idee, voleſſe Platone diſputare a pro delle
feparate, quan do egli manifeſtamente le rifiuto, tutto riducendo all' Ontolo
gia che è la più bella, e la più utile parte della metafiſica In molci errori
cadè miſeramente il Carcelio, per averla ab bandonata, eſpregiata; e non furono
dal Leibnizio, ed indi dal Wolfio ridotti al ſuo vero lume i dogmi filoſofici,
ſe non dopo che effi s' affaticarono a dimoſtrare, le nozioni Ontologiche eſſer
quelle alle quali convien avertire prima d' inoltrarſi nella combinazione
dell'idee, e quindineiſiſtemi. Tutti gli uomini pre veggono gli aſtratti ne'
concreci, pochi hanno la forza di ſepa rarli, pochiſſimi quella di ridurli in
teoria, ed è ſolo riſerva to a' ſommi Filoſofi il farne ſiſtema. Voi molto più
vedete in Platone, che io poſſa eſprimere; in canto vi prego a conſer varmi il
voſtro affetto, ed eſſer certo che il mio farà ſempre inviolabile. La scuola
stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e
profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si
polarizza, com'era già av venuto per Aristotele, su due ambiti
fondamentalmente di stinti tra di loro: da una parte, una teoria del
linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra
linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna significante,
significato, oggetto esterno); dal l'altra, una teoria del segno
proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della
filosofia stoica trovano però un pun to di convergenza, come vedremo, nel loro
comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella
metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la
speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere
"corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata).
Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in
considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere
oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem po.
Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi derati esistenti. Ora,
tanto nella teoria del linguaggio, quan to in quella del segno proposizionale,
accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità
incorporee, quali i lekta. Per il momento è invece necessario sgombrare il
campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità
incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del
non-esistente, ma vengono investite di una esistenza derivativa' (Long ). Il
secondo possibile equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra
riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione moderna di
corpo, per gli stoici erano "corpi" an che le qualità, in quanto
venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un certo
individuo costi tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza,
dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue
proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist). Si profila, a
questo punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di
"particolare": quest'ultimo viene carat terizzato come un oggetto
materiale, che ha una forma defi nita come condizione necessaria e sufficiente
della sua esi stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un
oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long). È proprio su questi
presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria semiolinguistica
degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della verità nasce
appunto a proposito deIl'identificazione dei "particolari", ed è con
nesso a una teoria della percezione. Così, si terrà presente innanzitutto che
per gli stoici le im magini (phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti
ester ni danno luogo a una percezione vera se esse riproducono esattamente la
configurazione di tali oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo
importante nella teoria del si gnificato degli stoici, come si sa che avevano
una parte im portante anche nella teoria del significato di Aristotele. In
secondo luogo si può considerare come fondamentale il fatto che uno dei modi di
identificare un "particolare" è quello di identificarlo
linguisticamente. In questo caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a
B che sta par lando intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che
egli ha compreso il suo riferimento. Il passo di Sesto Empirico che contiene i
lineamenti fondamentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un
contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È
importante sottolineare che per gli stoici una teoria del la verità, cioè la
ricerca delle basi per una verifica delle pro posizioni, non può essere
elaborata in maniera indipenden te da una concezione della struttura del mondo
e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni
hanno riposto il vero e il falso nella cosa significata (tò smainomenon), altri
nella voce (phon), altri infine nel movimento del pensiero. Della prima
opinione sono stati i porta bandiera gli stoici col sostenere che sono tra
loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quella
significante (tò smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn chanon),
e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola
"Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò tò
pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi
percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero
(dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo
compren dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di
noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce
e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto
significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso
(Sext. Emp., Adv. Math.) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici
il fe nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui to nei
termini di un triangolo. Si può osservare che compaiono i termini significante
e significato (come è dato trovare anche nella teoria moderna di Saussure), ma
non quello di segno. Come anche slmsin6menon (significato) lekt6n (detto)
tmsm lnon (significente) tynchAnon in Aristotele, la nozione di smeion
appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello strettamente
linguistico. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui è abbastanza
particolare, in quanto si tratta di un nome proprio. In secondo luogo, se da
una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la significazione
sono tre e comprendono anche l'oggetto, che propriamente è esterno al
linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo parziale. Soltanto
il primo e il terzo termine, cioè la voce si gnificante e l'oggetto, possono
essere assimilati nei due triangoli. Un caso assolutamente a sé costituisce il
termine che si trova al vertice superiore del triangolo, chiamato prima ù·lJ_
main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua seconda denominazione
costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio degli stoici e
rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo aspetto della
sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con Aristotele. (oggetto
esterno, referente). Nella stessa posizione del triangolo della significazione
Aristotele pone delle entità psicologiche, che venivano considerate le
medesime per tutti gl’uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel
passo riportato, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur
udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo comprendono . Come rileva Todorov,
la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto che, mentre
l'entità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello della mente
dei locutori, quella considerata dagli stoici si situa direttamente al livello
del linguaggio. Todorov interpreta il lekt6n come la capacità del primo
elemento di designare il terzo. Tale interpretazione poggia anche sul fatto che
l'esempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di de signazione come
gl’altri nomi, ma è molto controverso se abbia un *senso*. La risposta che di
solito si dà a questo interrogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la
sequenza di suoni /dione/ e vedono Dione, ma sono incapaci di connettere il
suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dunque, come avviene
appunto nel caso dei Greci, consiste proprio nel percepire la connessione tra
la parola che viene pronunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long identifica
il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura come
l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo
caso, la traduzione più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in
quanto tale espressione copre sia la nozione di giudizio che quella di stato di
cose significato da una parola o da una serie di parole. L'idea che il lekton
si può configurare come una affermazione intorno all’oggetto emerge da una
testimonianza di Seneca (Epistulae morales), in cui viene delineato uno schema
triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una
proposizione – “Cato ambulat” -- laddove Sesto propone solo un nome (“Dione”).
Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Catone, che è
un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso, che è un incorporale. Tale
asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre
diverse traduzioni latine: “enuntiatum,” “effatum,” e “dictum.” Dato che
l'esempio proposto da Seneca è una proposizione, risulta più agevole, rispetto
ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato
"vero" o "falso".4 nfatti solo i lekta che costituiscono
una proposizione completa possono essere veri o falsi. Nel modello
aristotelico della significazione, una espressione e un simbolo di uno stato
psichico (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo, non
viene operata una chiara distinzione tra la nozione di significato e quella di
pensiero. Tale concezione ricompare del resto nella nota teoria di Ogden e Richards,
i quali disegnano un triangolo semiotico in cui figura al vertice superiore la
nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione
proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di
Diogene, si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero,
anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto.
“Gli stoici affermano che il lekton è ciò che sussiste in conformità con una
rappresentazione razionale (logike phantasia) e che una rappresentazione
razionale è quella secondo cui il rappresentato (phantasthén) può essere
espresso in parole (Sext. Emp., Adv. Math.). In termini del tutto analoghi si
esprime Diogene (Vitae), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da entrambi
i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta
tra il lekton, che rappresentano il livello del significato, e la
rappresentazione razionalie (logike phantasma), che possiamo definire come
delle forme di atti vità intellettiva o dei pensieri. Quest'ultime entità sono
peculiari della specie umana e possono, ali'occorrenza, essere espresse in
parole -- a questo infatti si riferisce l'aggettivo, “logike”. Ma, sempre dai
due passi, si può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero,
vengono messi in relazione. Long cosi commenta il passo di Sesto: "I take
this difficult passage to mean that the lekton is defined as the objective
content of acts of thinking (noesis)" e aggiunge anche "or, what
comes to the same thing in Stoicism, the sense of significant discourse".
Prima di approfondire il senso di questa seconda asserzione di Long,
soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con
l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura come contenuto o
risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve niamo scoprendo
attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo
rispetto a quanto lo stesso Sesto dice altrove (Adv.Math.), quando ha messo in
relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In
effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in
conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accento appare
spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto con
l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente contraddizione
o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degl’esegeti antichi sia le
interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici. Come mette bene in
evidenza Mignucci, il lekton, essendo incorporeo, non può essere disgiunti da
qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da supporto ad essi e che
permetta la loro esprimibilità. Il proble ma diviene allora quello di
stabilire se a fare da supporto a un lekton siano: un suono della voce; o
l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto opta per la prima;
la seconda, come pure la definizione di Diogene, per la seconda. Ugualmente,
tra gl’interpreti moderni, Mates risponde che è la parola a fare da supporto al
lekton. Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo,
questo è un falso dilemma, non resolubile tuttavia filologicamente, in quanto
nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno
dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un duplice
presupposto che sembra agire nella teoria stoica. Da un lato il verificarsi di
discorsi significativi rimanda a un'attività intellettuale, in assenza della
quale non è possibile che si diano i significati. Dall'altra, il risultato
dell'attività intellettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per
esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le conseguenze dal
fatto che un lekton è definito da una parte come *contenuto* di una
rappresentazioni razionale e dali'altra come il significato di una parola:
conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra
i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere significati
attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti
l'uno dall'altro. A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di
Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto
oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa
cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato
dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la
phantasia ha un ruolo assolutamente primario, in quanto non è possibile, senza
di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della conoscenza, quali
l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero
(nosis). Infatti la rappresentazione viene per prima, poi il pensiero
(dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò
che esperimenta come il risultato della rappresentazione. Il passo di Diogene è importante perché
ripropone la nozione, già platonica, del pensiero come discorso interno. Tutto
ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di
un passo di Diogene Laerzio (Vitae) in cui viene detto che il criterio di veri-
.. In questo una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli
della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano
basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella
teoria linguistica del significato.Il lekton, che abbiamo finora incontrato
come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione
fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore
di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono
anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì
che, come sottolinea Eco, nella se fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura
di diritto tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, per
ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni
debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa
possibile dalla sintassi linguistica. Occorre tener presente che gli stoici
non dicono ancora che le parole sono segni (-- cf. H. P. Grice – “Not all
things that mean are signs. Words are not”) -- sarà Agostino il pri (110 a
fare una simile asserzione -- e rimane, del resto, una differenza lessicale tra
la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano
dei lekta ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il
segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl
maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che
ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno,
dicono che è una proposizione (axioma) che è l'antecedente (prokathegoumenon)
in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del CONSEQUENTE
(ekkalyptikòn tou ligontos). E dicono che la proposizione è un lekt6n completo
in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e
finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che vengono
presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si
definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si
pone in rapporto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra
proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per
Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza
che esso permette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella
epistemica, e il segno appartiene a un campo che è distinto sia da quello
logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una
proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma SOLO
QUELLA PROPOSIZIONE CHE PERMETTE DI SCOPRIRE IL CONSEGUENTE – cioè, che
permette l'accesso a una nuova conoscenza. Va comunque notato che, se l'ottica
con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele,
assolutamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È normallnente
accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici
introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata
dalla so stanza degli eventi (Todorov), per quanto concerne il punto di vista
antologico, e dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione,
per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si
poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come
segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gl’avvenimenti
espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la
differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e
finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "ESSA
HA LATTE" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "ESSA
CONCEPTIO" (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh.). Essi chiamano antecedente la prima
proposizione via fornisce alcuni esempi di segno -- come quello della
Retorica. "Se essa ha latte, essa ha partorito" -- in cui vengono
presi in considerazione eventi e non sostanze. Ma nella filosofia aristotelica
la teoria del segno ha una parte marginale. Il segno viene fatto rientrare nel
procedimento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene
confinato nel campo dei procedimenti retorico-dialettici, se non è un
tekmirion, cioè, un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul
sillogismo perfetto, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole
postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla
retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla
scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gl’epicurei
vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò
che è ignoto. Preti sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra
Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione,
rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei
maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo de, 1 8 è
possibile cogliere i punti essenziali di questo passag gio . Per Nausifane,
infatti , il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e
quello retorico (basato sull'entimema) presentano in realtà la stessa
struttura logica. In entrambi i casi è necessario distinguere tra la
CONSEQUENZA o conclusione (ak6/outhon),
la "premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle
premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei
due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti
(hyparchonta) per giungere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo
del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenzialità",
di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e retorica. Ora,
come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione
del le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia
costituisce proprio il nocciolo della dottrina de gli stoici -- come pure di
tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio il nome
di "dogmatici". Non solo, ma come prova della centralità della
semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno: fatto che
testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che
conferma la tendenza delle scuole post-aristoteliche a ridurre o trasformare
il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno, comune e proprio. Nella semiotica stoica si
registra la scomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion:
il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi nati
smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono del
sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale
opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra
"segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion).
Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini
filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro
verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se
gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo. Un segno è comune (koin6n) per
nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non
percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che
crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta
usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi
risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è
necessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che
noi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dente
di cui è segno (Philodemus, De signis)
C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri tenere il segno
comune come non valido e nell'accettare in vece unicamente il segno proprio.
Dalla definizione di Filodemo si ricava che una differenza peculiare consiste
nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co me
"necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello
comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno
necessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria con
l'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel
segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma può
anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza
di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri
no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda
e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dal
pallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla
bontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se
gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una
conclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientifica
ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi
stemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,
la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita
delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B)
"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il
suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto
riprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno
preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del
segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra
segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due
maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno
quello che sembra rive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare
segno anche ciò che serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in sieme
con esso. In maniera propria si dice segno quello che è in dicativo di una
cosa avvolta nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente,
e in maniera contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice
distinzione, in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e
segno proprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo (ibidem, 143);
e poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono
oscure, egli propo ne di distinguere preliminarmente le cose in
"manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente
quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le
cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla
conoscenza in maniera diretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che è
giorno e che io sto di scorrendo"23 quando io faccio realmente queste
cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han no una natura
tale da non arrivare alla nostra comprensio ne (kata/psis), come a esempio
"se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli
di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose
oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta
divengono, per certe cir costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio
è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene.
Atene, visibile per sua natura, diviene tempora neamente invisibile a causa
della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una
natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen sabili (noto1).26
Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si
pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in
quanto le cose manifeste ven gono comprese in maniera non mediata e le cose
oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio
attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle
ultime due categorie. Ma i tipi di segno sono diversi per ciascuna di
esse. Le cose tempora neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora
tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la
definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo costoro [i dogmatici],
alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri indicativi (endeiktika). Chia
mano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in
maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è avvolta nell'oscurità,
ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata insieme a tal segno e che
non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È
invece indicativo, come dicono, quel segno che, non osservato insieme con la
cosa designata in maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione,
segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni
dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp. Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo
è, in sostanza, frutto di un'asso ciazione costante tra cose comunemente
osservate in con nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli esempi che
Sesto sceglie per illustrare questo tipo si distribuiscano se condo la
tripartizione28 contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la
cosa indicata: nel caso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in
"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il
fatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segno
rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del
precedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è
segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno
sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono
di risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai
"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei
segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,
che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei
"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente
schema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure non
danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno
luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la
distinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativo
solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne
trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso
Sesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto con
l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento
logico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto
importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto di
vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra
segno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tra
l'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenza
di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un
segno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della sua
struttura ci permetterà di vedere. Ritornando alla definizione stoìca di segno
che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima
di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa
"connesso" o "connessione". Il suo significato logico ci
viene chiarito da Diogene: si tratta dell'asserto temporaneamente
condizionale del tipo "Se p, q", in cui a una prima proposizione
consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La
seconda cosa da prendere in considerazione è la nozione di condizionale valido
(hyghiés, "sano", igienico). Da un passo di Sesto, dove se ne trova
la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna INTERPRETAZIONE
VER-FUNZIONALE di "Se p, q". Infatti la validità o in validità
dell'asserto condizionale "Se p, q" dipende dal valore di verità dell’antecedente
e del conseguente di esso.Sesto, in due passi paralleli, camente quel
condizionale che non comincia dal vero e finisce nel falso e fcrnisce una
tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica
contemporanea preve de per l'implicazione materiale: p q ·se p, q•
valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto
accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a proposito del criterio per
giudicare un condizionale valido. Esso corrisponde a ciò che è stato definito
dai Kneale il dibattito sulla natura dei condizionali, che anima le discussioni
di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla
nozione di se- definisce come valido uni valido gno come antecedente
(prokathegoumenon) in un condizionale valido. In effetti, come fa rilevare lo
stesso Sesto, i tipi di condizionale valido sono TRE nella tavola dei valori
di verità corrispondente all'IMPLICAZIONE MATERIALE: 1) V V; 2) F F, e 3) F V.
INVALIDO: V F. Il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del
segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo
in casi particolari. Ora, in effetti, un segno non può non essere espresso da
una proposizione vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui esso
rimanda. Così SONO ESCLUSI sono il secondo (F F) e il terzo caso (F V), in
quanto hanno un antecedente falso. Dunque, l'unica possibilità è relativa al PRIMO
tipo di condizionale – cioè, quello che comincia dal vero e finisce nel vero. Ma
c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al carattere che il segno
deve avere di essere *rivelatore* (enkalyp tik6n) del conseguente. In effetti,
un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui
si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da
due proposizioni entrambe vere.Tuttavia, secondo Sesto, non si realizzano in
questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le
proposizioni rimanno a FATTI DI PER SÉ EVIDENTI (cf. la caverna di Platone). Il
primo termine del condizionale non è *rivelatore* del secondo – cf. Grice:
“Black clouds mean rain” – yes). In effetti, per comprendere la vera natura del
segno bisogna passare dal piano strettamente logico a uno più generalmente
epistemologico, epistemico, o cognoscitivo, doxastico incluso. Il segno, per
gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista
logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve
anche possedere il carattere di dispositivo che permette di accrescere la conoscenza.
Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si appoggia su un livello
logico, ma si inquadra in un'ottica conoscitiva. Gli esempi di carattere
medico (Grice: “Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they
meant measles”) denunciano l'origine di quest'ottica. In generale il segno
deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso,
come "egli ha sputato cartilagine bronchiale" – or Grice’s “Spots” --
a una conoscenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una piaga
nel polmone" (“measles – and Dahl ignored it. A tragedy – and part of a
father’s responsibility and liability to know what measles spots mean””)
Tuttavia, ciò che la teoria del segno acquisisce, passando dalle mani dei
medici a quella dei filosofi, è una solida struttura dal punto di vista
logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette o non
igieniche – malatta. Quanto ampio e
difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano
logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo
dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla natura dei condizionali
(Kneale). Scrive infatti Sesto Empirico. Tutti quanti i dialettici sono
generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il
suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e
quando esso segua, e propongono criteri rivali (Adv. Math.). Riferendosi a
questo dibattito, Sesto elenca quattro criteri che sono proposti per stabilire
la validità di un as serto condizionale: quello di FILONE MEGARICO (H. P.
GRICE); quello di Diodoro Crono; quello della srsnartsis attribuibile a
Crisippo; e quello della émphasis. Sulla disputa si può tuttavia fare
un'osservazione generale preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa
notare Hurst, è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è
riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una
definizione di questa relazione di consequenzialità (akolouthla) in termini
formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici
si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può
possedere proprietà autonome, essendo dotato di significato, non è stato preso
in considerazione se non nella misura in cui poteva essere provato che esso
coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due
livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente sono in grado di
elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione
logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a
comprendere meglio questo modo di procedere un paragone con i metodi della
logica contemporanea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes
sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi possono stabilire
in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a
quella che è ampiamente conosciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa
come quella di una espressione di implicitazione ("following", “yielding”
-- Hurst). A esempio Peirce e Russell erano interessati alle proprietà della
implicazione materiale indipendentemente dal fatto che essa riproducesse il
significato "usuale" di "implica" ("implies", o
di “se”). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida
senza sostenere che l’im plicazione rigida rappresenti il significato di
"implica" (cf. H. P. GRICE citato da P. F. STRAWSON, Introduction to
Logical Theory – e P. F. STRAWSON, Introduction to “Philosophical Logic” on
Quine on the meaning of ‘if’. --. Questa differenza nel modo di procedere tra
antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formal. Mmentre i logici
antichi sono interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a
fornire due definizioni: quella di "implicazione materiale" e quella
di "implicazione rigida". Filone è il primo esponente della scuola
megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero-funzionale
dell'espressione "Se p, q". Secondo Filone – citato da Grice nella
William James IV, ‘Condizionali indicativi’ --, un'espressione condizionale è
valida o o vera se, e solo se, non comincia con il vero e finisce con il
falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di
consequenzialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del
l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il condizionale è
valido, corrispondente ai tre esempi seguenti:
"Se è giorno, c'è luce" (VV); "Se la terra vola, la terra
ha le ali" (FF); e "Se la terra vola, la terra esiste" (FV).
Come sottolineano i Kneale, è probabile che Filone ha in mente l'uso
dell'espressione "Se p, q" nel ragionamento e che vuole attirare
l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo
antecedente implicita sempre il conseguente. L'interpretazione proposta da
Filone è la più debole che soddisfi tale requisito. Diodoro Crono è il
maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere
forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que
st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst – “wheras H. P.
Grice had no qualm about criticising his own tutee!”). La critica che Diodoro muove
all'interpretazione filoniana -- verso la sua diodoreana -- insiste proprio
sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degl’esempi
di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo
tt , possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio,
l'asserto "SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” è considerato VERO da Filone
se si dessero le condizioni , in un tempo t
, per cui è giorno e io sto conversando. Diodoro invece crede dimostrare
che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta
di dire se esso cada o no sotto la DEFINIZIONE di Filone. Infatti, esso – “SE É
GIORNO, IO STO CONVERSANDO” può essere pronunciato anche in un tempo t2, quando
è giorno -- MA io rimango silenzioso. In questo caso esso avrebbe la forma – o
interpretazione -- invalida (falsa) VF. Per ovviare a questo inconveniente,
Diodoro elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quando
"non ammise, né ammette di cominciare con il vero e finire con il
falso". L'esempio che egli dà è "Se non esistono gl’elementi atomici
delle cose, esistono gl’elementi atomici delle cose", che, secondo
Diodoro, ha l'antecedente sempre falso e il conseguente semprevero: ciò basterà
a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico
caso in cui il condizionale sarebbe non valido La terza concezione di
condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi
moderni (Mates; Bochenski), corrisponde alla implicazione rigida di Lewis o
comunque a una forma di implicazione necessaria (Kneale; Preti). In maniera concorde
con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con cezione viene riportata
da Diogene (Vitae). ÈVERO un condizionale nel quale il contraddittorio
(antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'antecedente,
come a esempio “se è giorno, c'è luce”. Il nome del sostenitore di questa
concezione non ci è stato lasciato da chi la riferisce. Ma vi sono prove che
essa appartenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller). La nozione di
"incompatibilità", messa in scena da que sta definizione, è molto
interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Hurst,
commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e
anche, più in generale, quella di "consequenzialità" (following,
yielding), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante
relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro prietà
che esse avrebbero al di fuori della relazione. Al contrario, è necessario
ricorrere alle relazioni interne che sussi stono in virtù del loro
significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di Hurst
con le osservazioni di Preti, il quale so stiene che l'esempio di Sesto, dato
a proposito della “synartsis” (connectio”) sembra alludere a qualcosa di
ancora più forte della strict implication di Lewis, alla vera e propria
tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la
dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in
quel testo è presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della
contrapposizione (ana skeu), che appare analogo a quello della synartsis.
Infatti, l'inferenza per contrapposizione è quella in cui la negazione del
conseguente comporta la negazione del l'antecedente. Essa si configura in
maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, il secondo"
è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il secondo,
non il primo". Preti sottolinea le affinità tra la synartsis (secondo cui
la negazione del conseguente è incompatibile con l'antecedente) e il metodo di
contrapposizione (anaskeu) (in cui la negazione del conseguente comporta la
negazione dell'antecedente), e in entrambi i casi chiama in causa la
implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da
Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che tende a risolvere
l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. Nel
passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo
visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le
proposizioni categori che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni
nell'as serto condizionale. Contemporaneamente si registra un'accentuazione
del carattere, già presente in Aristotele, di consequenzialità necessaria che
la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a
quello non noto deve presentare un carattere cogente. – cfr. Hobbes on
‘consequence’ – Computatio – e Grice, “Meaning Revisited” – x, y – consequence
--. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica
stoica, una legata ali'analisi della natura della ra gione e dei suoi
processi, l'altra riferibile alla configurazio ne della metafisica stoica
(Lacy). Per il primo punto è Sesto43 stesso a informarci che gli stoici
ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di
discorso interno (logos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare
i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione
di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di
segno, che ha appunto la forma: "Se questo, quest'altro". Così l'esistenza del segno
si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al
secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse
costituito da una catena ininter rotta di eventi, legati tra loro da rapporti
di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto
dipendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la
consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella
stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli
eventi. L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e
sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col locata sulla relazione
necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause ed effetti
a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa accettazione,
con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi nazione
consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle ga certi avvenimenti
presenti e altri che avverranno.4 Ora, per quanto la razionalità degl’uomini
sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei, tuttavia
questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che lega gli
eventi ("conligatio causarum omnium"), mentre ai primi è preclusa.
Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi
caratteristici delle cause ("signa causarum et notas") degli eventi e
su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av
verrebbe per gli dei, i condizionali degl’uomini intorno al futuro mancano di
necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello
della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria. Ma
questa, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia sufficiente a
definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è
luce» il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto
entrambe le cose sono evidenti e quindi l'inferenza non può provare nulla. La
verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto
nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della
caratteristica di permettere di scoprire una nuova conoscenza. Il segno
stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello
deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per
collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore
dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presente che l'essenza del
segno è l'inferenza che va dalle cose ma nifeste a quelle non percepite. Ma a
questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi ca un problema
difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia
analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e
contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto
nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la
dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):-
sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque , il secondo . Qui
l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentato dallo scorrere del
sudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. La presenza dei pori
è un fatto oscuro per natura. Infatti, essi possono soltanto essere conosciuti
dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era
ancora stato inventato. Sesto aggiunge, come argomento rafforzativo delle
premesse nel ragionamento precedente, un'ulteriore argomentazione: - compatto
e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. Pertanto non è possibile
che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa
argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ)
applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condizionale: p
(se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori
intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del
corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo applichiamo
il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e
non poroso) :>p (un liquido non vi può scorrere attraverso), espressione
che è alla base della premessa del secondo ragionamento di Sesto. Essa
permette di sviluppare un ragionamento corrispondente al MODVS TOLLENS, che
convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli
stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la
contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a
priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno
produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la
relazione anche nel caso di verità fattuali, poiché parte dall'assunzione che
il fatto oscuro per natura sia legato a quello evidente in modo tale che ciò
che è evi dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse
quale viene rivelato essere. Antonio Schinella Conti. Antonio Conti. Keywords: Conti’s
French letters – Conti’s Scritti Filosofici, Dialoghi Filosofichi, about
whether corpori celesti are inhabited -- l’infinito, self-referential,
recursion, anti-sneak, regress, infinite regress in the analysis of
communication, calcolo finitesimale, calcolo infinitesimale, Enea stoico,
Ottavio Stoico, Cicerone stoico, semiotica stoica – allegoria dell’Eneide,
scudo di Enea, Il Parmenide di Platone – assiomatico dell’essere – L’essere e. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Conti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Miniato). Filosofo italiano. Grice: “Conti is a good one – a historian of
philosophy, or rather a philosophical historian – I never know! – his chapter
on the Greek embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a
Siena e Pisa. Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del
bello, che define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra
il principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e
fede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio,
o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città
coglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a
Milano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero,
o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla
facciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia
delle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla
relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private;
“Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del
tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi nazionali”;
“Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima. Il Messia
redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona del
rosario. Ai figli del popolo, consigli. Giovanni Duprè o Dell'arte, 2 dialoghi.
Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e dialoghi sulla
filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi sulla storia
della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione; discussione sulla
filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual mezzo”. Dizionario
Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista deve
tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include giudizj
e ragionamenti. Dialettica dell'arte, o dialettica rappre sentativa. L'idea è
universale, talchè i particolari dell'arte non debbono mai ecclissare o
escludere l'universalità del concetto; perché, altrimenti, arte bella non c'è’ L’ordine
ideale porge alle immagini formosità. eletta, che manifestasi o per cose
straordinarie, o per l'eccellenza de'modi, o per tutto ciò ad un tempo, ma
ſuggendo le ampollosità. L'ordine ideale
si determina ne sezni; onde s' origina l'armonia de'con trapposti. Armonia
dell'ordine ideale con la natura, legge di corrispondenza e di contrapposto
anche in ció. Armonia col divino per
natura.Il gusto del Bello. Regola prossima è il gusto. Sentimento di verità, di
bellezza, e di bene. Che cosa è il gusto? Ana logie del gusto intellettivo col
gusto sensitivo. Urficj del gusto; sanità e infermità; abiti buoni, o vizinsi; S'esamina
gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza. Effetto del gusto. Il gusto
non può mancare a ' veri artisti, e avvertenze io giudicare il gusto loro dall'
opere. Quattro gradi del gusto. Aiuto che il gusto del bello riceve dal
sentimento logico e dalla morale coscienza. Stato di sanità o di malattia, cioè
buona o rea edu cazione. E empj. Stato
d' abiti buoni o viziosi. Esempj. Conclusione. Come si può guarire o correggere
il gusto falso. Le leggi del gusto. Che cosa presuppone l'esame ch'uno faccia
del proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi un
gusto cattivo, 4. e primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studio
perciò di buoni esemplari. 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità –
7. e quanto a ' fini dell'arte. - 8. Il gusto deve mostrarci il modo e il
quando dell'operare. Elevazione del sentimento. 10. Verosimiglianza. Esempj.
Equazione di tutti gli elementi dell'arte con l'idea. Gusto de' limiti. I
limiti massi. mamente ne segni esteriori.
I Pedanti e i Licenziosi. Argomento. Che sieno i Pedanti e i Licenziosi.
Significato più generale di questi vocaboli. 4. Si gnificato più proprio e
stretto. Errori contrarj e vizj comuni. La pedanteria va fuori di natura. 7.
Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza. 9. Esempj. Non comprendono
l'universalità i Pedanti. Esempj. 12. Nė la comprendono Licenziosi. 13. Esempj.
Non hanno vera nobiltà i Pedanti, 15. e la licenza è ignobilità. Talchè gli uni
e gli altri non consegui scono fama durevole. Estro. Leggi dell'ordine
immaginato.. 1. Argomento. Immaginazione. Rinnovazione di fan tasmi, 3. e
innovazione o invenzione. 4. Queste per tre modi, spontaneo. pensato, meditato.Legge
univer sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto. 6. Gradi
dell'invenzione immaginativa. Primo; mutamento di alcune cose percepite.Secondo;
immagini di cose reali non percepite. Terzo; novità d'imma.ini fra percezioni
oscure. 8. Quarto; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cose
reali determinato. 9. Quinto; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto; relativo ad
astratte generalità. 11. Settimo; fantasmi di cose semplici, spirituali,
divine. 12. Ultimo; armonia universale di fantasmi e loro elevazione. 13.
Perché l'estro abbia tal nome. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace o
vuoto, e vero o fecondo. Conclusione. Armonia
interna delle Immagini. Argomento. Sceltezza e vita delle immagini, Scel. tezza
rispetto all'arti diverse; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte;
e rispetto agli argomenti. Sceltezza per la qualità e per la quantità. 5. Vita
delle immagini, 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. Unione del
sensibile con l'ideale. Allegoria, e 8. allegorie speciali, e vizj
dell'allegoria. 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera; e quindi bisogna
imma ginar l'opera innanzi di farla e che rispondano i par ticolari al lutto e
l'e - trinseco venga dall'intrinseco, e gli accessorj dal principale. 13.
Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti. 15. Relazione specificata
delle immagini co' segni. Armonie di verosimiglianza in generale. Argomento e
legge universale di corrispondenza e di con trapposto, e come si rifletta nelle
immagini dell'arte. 2. Questa legge apparisce nella qualità, quantità, tempo e
spa zio. 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura. 5. Esempj dell'éra
nostra, - 6. Drammatica e lirica 7. Figure di confronto ne'linguaggi. – 8.
Esempi del disegno e della musica. 9. Analogia del corporeo e dello spiritua le.
10. Loro diversità; – 11. e contrapposto nella na tura e nell'arte. 12.
Verosimile immaginoso, che differi sce dal reale, benchè gli somigli. 13.
Quello trascende. Poesia e architettura. 14. Scultura, pittura, musica, e arti
ausiliari. Com'accade ciò. Armonie con la natura corporea. 1. Argomento. Legge
naturale di simetria. 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella i
sensibili rap presentati, Il lalto remotamente, il gusto e l'odorato
indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'è
universale. Legge naturale di simetria
ne ' visibili aspetti, - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte
bella. 8. Simetria di quantità nel grado. Simetria di quantità nel numero de'
suoni, delle cose visibili. 11. Simetria naturale dello spazio. 12. Simetria
nell'arti, quanto a’limiti. 13. Simetria di limiti anche nell'unione di più
cose. Simetria di luo ghi. 15. Simetria di tempo misuratore, e di tempo rap
presentato. - Armonie con la natura spirituale. Gli affetti. Somiglianza loro;
3. varietà; 4. contrapposto. 5. Personificazione immaginosa dell'unmo, 6. e
della socievolezza; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi. - 8.
Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi. Materialismo non
può spiegarla. 11. Person i ſicazione immaginosa del soprannaturale; 12. presa
sostanzialmente da simboli e miti di credenze religiose; 13. ma trasformate dal.
l'estro. 14. La personificazione, ritraendo l'uomo, ac cenna lo stato degli
artisti e de' tempi loro. Grecia, Roma, 15. Italia; suo scadimento; letterature
straniere.. 16. Anche nell' altre arti avviene lo stesso. Immaginazioni
tragiche e comiche Argomento. Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella?
3. Può il pessimo? — 15. Immaginazioni tragiche e comiche. - 5. Quando mai
nasce l'immagina zione tragica più specialmente? 6. Quando la comica? 7.
Condizioni dell'una, - 8. e dell' altra. La morte immaginata nell'arte, 10.
eidolori del senso, tragica mente; comicamente. 12. Deformità fisiche nel
rispetto tragico; 13. e nel comico. - 14. Le mostruosità nell'un rispetto, ·
15. e nell'altro, e come in ciò facilmente si trasmodi. Ordine de' Segni. Stile.
Pag. 176 1. Argomento. 2. Nozione generica dello stile. - 3. Nozione meno
generica. - 4. Nozione determinata. 5. Ne cessità di meditare lo stile. 6. Idem.
7. Ordine dello stile. Unità. - 8. proprietà, evidenza, 9. vivezza, for. mosità.
10. verosimiglianza. Legge sua universale. - 11. L'unione di dette qualità
forma il decoro. 12. Esempio di essa, - 13. Esempio del contrario. 14. La misura
nello stile. 15. Sunto. Armonia intrinseca dello stile e co ' propri segni.. 1.
Argomento. - 2.Unità del bello stile. 3. Si riscon tra nell'arte del dire;
ne'proverbj e rispetti, · 4. nelle sentenze, 5. nel periodo, 6. nell'armonia e
nell'unione del discorso. 7. Si riscontra nell' arti del disegno; nel
l'architettura, 8. ch'è un discorso anch'essa; - 9. nella scultura e nella
pittura, 10. simili pur esse al discorso; - 11. e nella inusica; 12. che ha
disegno perfetto, o unione d'armonia e di melodia. - 13. Proprietà de' se gni;
e come segni adoperino l'arte del dire, la musica, 14. l'architettura, e l'arti
figurative; 15. onde viene la proprietà dello stile. 16. Conclusione. Armonia
dello stile col pensiero.. 1. Argomento. 2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee
rispondere lo stile a integrità del pensiero; 4. e a varietà d'argomenti; - 5.
abbracciando l'universalità dell' argo mento, proprio, 6. e distinguendolo, per
poi bene com porlo. 7. Mancamento d'arte o di volontà impedisce tal perfezione.
8. Vivezza di stile, o moto, 9. nell'arte del dire, 10. nella pittura e
scultura, 11. nell'archi tettor3, 12. nella musica. 13, Formosità, - 14. anche
nello stile grande, e nel sublime. 15. Onde procede la deformità? 1Armonia
dello stile con la natura..... 228 1. Argomento. 2. Il bello stile corrisponde
alla natura dell'artista e a quella degli oggetti. 3. Non si possono separare
le due relazioni senz'errore e deformità. – 4. Avvi una parte relativa
all'artista; 5. e una parte relativa agli oggetti, e danno armonia. 6. La legge
di corrispondenza e di contrapposto ſa nascere le diverso specie del bello
stile in quei gradi che l'ordine ha varj nella natura. 7. Idem. 8. Nello stile
tenue an prevalenza i simili, 9. Qua lità principale di esso è la venusià. 10.
Nello stile mez. zano han prevalenza i diversi. 11. Qualità principale di esso è la naluralezza, 12. Nello stile grande
han preva lenza i contrarj. 13. Qualità principale di esso è la pe regrinità.
14. Nello stile sublime han prevalenza i contrapposli supremi. 15. Qualità
principale di esso è l ' ammirabilità. Arti del Bello speciali. Cap. XL. Come
si originarono le Arti speciali del Bello. Pag. 249 1. Argomento. — 2. Due
generi supremi dell'arte bella, cioè arti di suono e arti di prospettiva. 3.
Arte de' suoni parlati, e arte de' suoni armonizzati. 4. Arti prospettive di
spazio, e arti prospettive di figura. -- 5. Arti prospettive distinte in arti
di spazio imitato e di spazio naturale; in arti di figure imitate e di figure
naturali. 6. Onde l'arti del disegno son distinte dall'arti di naturale amenità
e dalla mimica e danza, le quali sono arti secondarie. 7. Arti ansiliari
dell'arti principali e delle secondarie. 8. Diver sità di segni sensibili
determinò diversità del significato, quanto al mondo esteriore, 9. e quanto al
mondo interio. re. 10. Stato implicito dell'arti: poesia; 11. arti del disegno
e musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bello fra loro; e s'esamina per la
poesia, per l'architettura, 13. per l'arti figurative, 14. e per l'arte
musicale. Di stinzione di ogni specie in ispecie minori. 15. Conclu sione. 16.
L'arte bella fa quasi un mondo novello. Ordine fra l’ Arti speciali del Bello......
1. argomento. 2. Criterio per giudicare i gradi dell'arti belle. 3. Segni
supremamente ideali della poesia. L'ordine loro è una invenzione distinta
dall'altra delle im magini. 5. Perfezione suprema de' significati poetici. 6 Ma
questa precedenza rende difficile al sommo il poetare buopo. 7. In che la
poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra, e perfezione ideale
del suo disegno. 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In che cosa l'archi
tettura è vinta dall'altre due arti del disegno. 11. Pit tura e scultura;
disputa di quale fra loro primeggj, antica. - 12. S' esamina quanto a ' segni,
13. e quanto al signi ficato di queste arti. 14. Musica; in che sta un suo sin
golare pregio, 15. da cui procede la potenza musicale; benche in altro rispetto
la musica resti- superata. - Della Poesia.... Pag. 283 1. Argomento;
definizione della poesia. -2. Come la poe sia somigli la filosofia. 3.
Consentono tutti nel divario fra considerare direttamente i sensibili esterni e
il conside rarne l'altinenza con l'anima. 4. Però l'idea che regola i poeti, si
è l'idea dell'uomo interiore, avvivata d'immagibi. Si riscontra ciò ne'
sensibili esterni, comuni alla musica e al segno e alla poesia; – 5, ne' sensibili
esterni, propri solo alle rappresentazioni poetiche; - 6. ne' sensibili inter
ni, che la sola poesia può prendere per oggetto immediato; - 7. e poi, nelle
cose di pura intelligibilità. 8. Tanto è più alta la poesia, quanto più rende
viva immagine del. l'uomo interiore; - 9. e, inoltre, quanto più rende imma
gine di ciò che l'uomo dev'essere; 10. perchè il poeta tende alle più élette
forme dell'anima; 11. e indi cerca immaginativamente di risolvere in armonia le
contraddizioni del mondo; 12. come si riscontra ne' poeti veri del tempo antico
e del nuovo, - 13. e anche ne' poeti scettici, ov'essi han vera poesia; 14.
talché, quest' arte rappresenta in immagini l'universalità dell'intelletto. 15.
E ogni ge nere perciò di componimenti nell'arte del dire può parteci - pare di
poesia. 16. Conclusione.Le specie della Poesia. Argomento. Tre modi principali
della poesia: espositivo, 3. narrativo, - 4. dialogico. sia par talora non
essere imitativa nè inventiva, se cade in soggetto reale. 6. Si scioglie la
difficoltà, distinguendo al. lora il soggetto reale dalla rappresentazione
immaginosa. 7. Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed il
soggetto. — 8. Idem. – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesia
espositiva, 10. o nella narrativa, - 11. o nella dialogica. 12. Anche il numero
musicale dello stile diversifica. 13. Idem. 14. Diversifica pure l'ori. gine
de' tre modi principali di poesia, l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poi
al drammatico il narrativo. • 16. Conclusione. 302 5. La poe Dell'idioma, 1.
Argomento. - 2. Lingua, in significato generale, è unità parlata della morale
unità d'un popolo; 3. e che mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè ha
sino nimi perfetti. 5. Le Parlate. 6. I Dialetti. - 7. Le Lingue. 8. Scelta fra
le tarlate. 9. Scelta fra' Dialetti. 10. Distinzione d'una lingua da ogni altra
lingua. 11. Uso di lingua parlata, e uso di lingua scritta; 12. iden tici
nell'essenza, e in che diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova, 14. e
come giova uso di ben parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma.
10. Con clusione. Arti del disegno. Pag 338. 1. Che cosa sono l'arti del
disegno - 2. Il disegno è fon damento alle tre arti particolari.. 3. Doppia
significazione del vocabolo disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de' corpi ha
relazione con la lor forma; 5. e può risguardarsi per natura, e per l'arti del
disegno, quasi accessoria. - 6. La forma ci palesa l'unità; 7. ch' esterna
dipende dall ' in terno delle cose, si per natura e si per arte. 8. Esempj di
ciò; e in che dunque consiste l'ordine ideato comune al l ' arti del disegno. –
9. Per acquistare il disegno, ci oc corre abito astrallivo degli occhi, - 10.
fantasia ferma e viva in ritenere la linea pura, 11. e intelletto esercitato a
distinguere, paragonare, comprendere i contorni; 12. nè basta vedere, ma
bisogna saper vedere o guardare; 13. e in ciò sta il cosi detto giudizio degli
occhi. - 14. Come si faccia l'esercizio nel disegnare. 15. Una regola princi.
pale per l'arti secondarie. 16. Conclusione. Architettura.... 1. Che cosa è
l'architettura. 2. Si originò dal convi. vere umano. - 3. Si distinse
dall'ingegneria per fine di bel lezza, 4. ritraendo l'immagine formosa del
consorzio umano, 5. Questa idea perció la rende inventiva; 6. e indi
l'architettura prende significato a ' suoi disegni, 7. e anche la loro unità;
8. ehe si palesa nelle proporzioni della massa, nel congiungimento delle linee,
9. e anche negli ornamenti. – 10. Com'espressione del consorzio uma no, quest'
arte abbraccia le altre arti del disegno; – 11. s' accorda co' luoghi abitati
dall ' uomo, e a sė li conforma; 12. imprime la bellezza sua nelle città
intere, - 13. nel l'intera patria d'una nazione, — 14. per ogni luogo di es sa;
15. e si distende a tutta la terra civile, com' efligie inica
dell'incivilimento. 16. Conclusione. S ulura..... 376 1. Che cosa è la scultura.
- 2. Principale soggetto al l'arti figurative si è l'aspetto umano. - 3. Più
proprio della scultura è la relazione de' lineamenti con la vita interiore,
anziché dell'uomo con la natura. -- 4. Indi all'arte sculto. ria il colorito e
accidentale, ec. - 5. Nè la scultura di tutto rilievo ha paesaggj, che
ristretti son' anche nel bassorilievo: - 6. è limitata nel figurare animali;
--- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8. Soggetto più proprio alla
scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si comprende la fisio. logica
e la fisica. 9. E perché si dica ciò della scultura piucchè della pittura,
distinguendo tra figura e forma. - 10. L'unità intera della immagine umana
comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le due arti nel nudo e
ne' panneggiamenti. 12. Limiti posti dal pudore. 13. Qual sia -dunque l'idea
esemplare dell'arte scultoria, 14. E come bisogni evitare ia essa, piucché
nella pittura, il freddo ed il generico;
-- 15. ma senza cascare nei vizj opposti, 16. Conclusione. Pittura.... Pag. 395
1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare alle immagini ed
a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la natura esteriore, come
rilevasi dal colorito; 3. e perciò dalla figura colorata e dal prospetto aereo.
- 4. Magistero essenziale della pittura è il colorito; – 5. ma non
contraſfacendo i rilievi della scultura, 6. nè gareggiando con le cose reali
pe' colorie per gli splendori, 7. nė pe' se goi di vitalità; gareggiamento
impossibile, - 8. e dannoso; 9. bensi eleggendo que' segni che sveglino i
sentimenti nell'anima nostra, come le cose di natura sogliono. 10. La pittura è
visione di fantasia. 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti, e in paesaggj.
12. e ne segni del con • versare umano, 13. e nell'unione verosimile di più
tempi e luoghi, 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani. 15. Conclusione.
16. Utilità di tutte l' arti del dia segno. Musica...... 415 1. Che cosa è la
musica. 2. Qual n'è l'idea regolatri ce. Relazione de' suoni col sentimento
umano. 3. Ragione anche fisiologica di tale attinenza. 4. E indi attinenza
principale di quest'arte con la voce umana. 5. Ma la relazione de' suoni col
sentimento é indefinita, 6. e però la musica può indefinitamente significare
ogni affetto. 7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli af. fetti,
8. e viene usata per significare più vivo l'esalta. mento comune alla poesia ed
all' arti del disegno. 9. Ciò apparisce altresi dal significato universale
d'armonia. 10. Però idea suprema e reggitrice della musica è, ch' essa renda
immagine dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si determina
nel concetto de' componimenti varj. 11. onde nasce la musicale unità, – 12. e
l'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori sulla na.
tura della musica. Sensisti e Positivisti assoluti, - 15. Sen timentali,
Aritmeticanti, Retoricanti. 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte l’ Arti
del Bello... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento. 2. Unità d'
obbietto, di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello. 3.
Perfezionamenti loro successivi, e legge di que sta successione. - 4. Si
risolve una difficoltà. 5. Prima si perfezionò la poesia; 6. indi
l'architettura; - 7. poi la scultura, e poi la pittura; — 8. Apalmente la
musica. 9. Aiuto che si porgono l'Arti; quale la poesia? – 10. quale
l'architettura, 11. l'arti figurative, - 12. la musica? 13. Si conferma l'unità
essenziale dell'Arti fra loro. -- 14. Ri torno del pensiero alle cose ragionate;
15 e 16. indi con clusione generale. DIALETTICA. La Filosofia e i Concetti
universali. Idea della Filosofia. Che cosa è la Filosofia? È scienza del pensiero, ma del pensiero in
atto di vita, e non soltanto delle leggi logiche astratte; e però è Scienza
della coscienza e dello spirito; Scienza degli oggetti connaturali al pensiero,
e però di Dio, dell'universo e dell'uomo; Scienza, per tanto, delle somme cause,
dell'ultime ragioni e de' primi prin cipj; Scienza, poi, della conoscenza,
della scienza e della verità. Perciò nell'idea di relazione s ' appuntano i
quesiti tutti della Filosofia; e ivi troviamo la sua più alta verità. Talchè la
Filosofia e Scienza di Dio, del mondo e del l'uomo nell'ordine loro uoiversale;
o, più breve, Scienza delle relazioni upiversali; e siccome queste forman l'
ordine, dunque altresì Scienza dell'ordine universale. Come in ogni altra Scienza, cosi nella
Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea superiore. - 12. Questa è
l'idea di relazione. - 13. Ciò richiede la tendenza e il bisogoo de' postri
tempi. – 14.Im portanza della Filosofia; danni d'una Filosofia separativa. —
15, Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. La Verità.... 1. Perché
dobbiamo esaminare l'idea universale di verità. 2. La verità è sempre entità
conosciuta. – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto. - 4. Si procede
relazione in relazione. L'unità dell'oggetto conosciuto si comprende, si
distingue, 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero che la verità
è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da una parte sola,
e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori metafisici; - 10. nello
Scet ticismo medesimo, e negli errori morali e delle Scienze fisiche. 11.
Sicchè l'errore confonde, separa, nega. 12. Jadi spieghiamo il progresso della
scienza e della civiltà, 13. o il regresso; 14. le invenzioni e le scoperte. –
15. esame dell'idea di verità ci mostra il costrutto semplice degli Univer sali,
presupposto da ogni conoscenza. - - L'Entità. Pag. 1. Si comincia dalla nozione
d'entità. — 2. Che cosa sono gli universali, - 3. Tre ordini d'universali: gli
analogici, 4. gli attributi metafisici, e le condizioni universali del creato.
- 5. L'uoiversale si è in ogni cosa e presentasi all'intelletto. - 6. L'idea d'
entità primeggia fra gli universali. La esami Darono gli Antichi, – 7. i Padri,
il Medioevo, e la Filosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli
Scettici e i Soggettivisti. 9. Questa idea non può pegarsi. Ma esaminandola,
bisogna evitare tre difetti. - 11. Si tripartisce: idea dell'essere comunissimo,
- 12. idea d'essenza, - 13. idea d'esistenza; – 14. com' apparisce anche da'
linguaggi, 15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità, ch'è di
tre specie. - 16. Conclusione. L'Ordine dell'entità.... t. L'idea d'ordine si
distingue nell'idea di relazione, d'atto della relazione e di correlazione. 2.
Che cosa è la relazione? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità è
un tutto di relazioni, benchè, quando si tratta di cosa fioita, non essenziali.
Ciò si rileva dal concetto d' essere, - 4. d'essenza e d'esistenza. – 5. La
relazione poi è, o intrinseca, - 6. od estrinseca (cioè ad intra, o ad extra ).
– 7. Ogni relazione si è atlo; anche le attineoze ideali o di ragione. - 8.
Conie si procedè per giungere a questa universalità dell'idea d'allo. Gli
Italioti, gl’lonici, Platone; 9. Aristotele; 10. i Padri, gli Scolastici, e il
Cartesio; 11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12. Correlazioni. Unità e
triplicità in ogoi cosa. -- 13. Dottrine aptiche su ciò. - 14. Il Dogma
cristiano della Trinità. - 15. Le correlazioni spiegano la legge universale de'
simili e de' contrapposti, 16. Conclusione. l conoscimento dell'Ordine.. 1. Nel
conoscimento dell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono, distinta
la triplice relazione della Verità col l'intelletto, benchè io significato
generalissimo ogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità. 2.
L'universalità del Vero corrisponde ai gradi dell' essere; e come li notarono
già i Filosofi. - 3. Cose non animate; 4. cose animate; 5. gl'intelletti, ove
la presenza dell'entità è manifesta. 6. La verità è relazione dell'entità con
gl’intelletti, cioè intelligibi lità. Che cosa è la Bellezza, cioè
l'ammirabilitd, con trapposta al Vero. Suoi gradi, 8. ne' corpi non animati,
Degli animati e negl'intelletti. 9. Che cosa è il Bene, cioè l'amabilità. Suoi
gradi, — 10. ne' corpi, negli animali e nella mente, 11. Assioma che deriva
dall'esame degli universali, - 12. e loro convertibilità mutua; – 13. la quale
si manifesta nella scieoza, nell'arte e nella vita, perché il Buono conduce al
Vero ed al Bello, - 14. e il Bello conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame
degli universali analogici abbiamo riscontrato le distinzioni già fatte dai
Filosofi antichi e recenti. - 16. Conclusione, e come il Bello morale sia
l'accordo del Vero, del Bello e del Buono. Attributi metafisici correlativi e
Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegli attributi metafisici, al quale ci porta
l'esame degli universali analogici. — 2. Che cosa s'intende per attri buti
correlativi metafisici. 3. Idee di questi attributi, tro vate nell'idea
d'entitd; 4. trovate nell'idea d'ordine dela Ľentità; - 5. trovate nell'idea di
conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degli attributi metafisici correlativi, e
l'idea di Dio, non sono correlazioni astratte; - 7. nè limiti soggettivi; - 8.
nè un ideale soggettivo; 9. nè, d'altra parte, sigoi ficano che Dio sia il
grado supremo degli esseri; – 10. nè la parte o il tutto; 1. nè Pessenza o la
sostanza delle cose contingenti. – 12. La correlazione degli attributi
metafisici viene rappreseotata dall'idea del possibile fra l'idea d'Eote e
l'idea d'esistente, o dall'idea d ' indefinito fra quelle d'Infinito e di
finito. - 13. La correlazione stessa fu pure significata dal Gen tilesimo, 14.
da' simboli suoi più notevoli, 15. e dalla simbologia naturale. - 16.
Conclusione. Cap. VII. Idea di Creazione.... 121 1. Possibilità razionale della
creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questa idea dell'atto creativo, cioè
di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distingue dall'idea di sostanza; 4. e
si riferisce ad un che, il quale comincia dal nulla quanto all'esistenza,
benchè non quanto alla potenza; 5. si riferisce, poi, ad un termine distinto
essenzialmente dalla cau sa, o ad extra. - 6. Più vera e più potente fra tutte
le cagioni è l'intellettiva. 7. La Causa creatrice si distingue dalle cause
naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste la pos 8. perchè il
soggetto, cioè la sostanza, si produce ad estra; 9. e perchè avvi efficienza
intellettuale assoluta: - 10. opde la Causa creatrice fu chiamata Verbo ia
tutte le Tradizioni sacre, e il mondo è arte di Dio; -11. la quale produce una
somigliaoza divina nell'universo, mentre Dio non somiglia i finiti e li
trascende. - 12. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazione nascono
dalla fantasia, - 13. e dallo sdegoare il mistero, comune ad ogni causalita; 14.
sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'età de' Padri e
de' Dottori, 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16. L'idea di
creazione ba tanta importanza, sibilità pura; - perchè risguarda la Causa
universale. CAP. VIII. Idee relative all'Entità della Natura....... 143 1.
Argomento; le condizioni dell' entità: Prima condizione della natura, per
l'essere suo, il quanto; 2. che si distia. gue nell'unità, 3. nel numero 4. (che
non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità. 6. Condizione seconda
per l'essenza, il quale; - 7. che si distingue nella varietà, 8. nella
contrarietà, 9. e nella somiglianza;. 10. più notevoli dove la oatura è più
alta. - 11. Terza condizione per l'esistenza, il quando; 12. che si distingue
nel momento, -13. nella successione, - 14. e nella durata; - 15. non
predicabili dell' Eternità. 16. Conclusione. il pine. - Idee relative
all'Ordine della Natura....... Pag. 1. L'ordine della natura viene dall'
attinenza della crea zione, 2. La relazione delle cose create ci dà la
dipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza, - 4. la causa, 5. e l'essenza
reale. - 6. L'Atto delle cose ci dà il come (quomodo); – 7. ossia il principio,
8. il mezzo, 9. e 10. Le correlazioni delle cose ci dàono il dove, che può
essere correlazione ancointellettiva, 11, e correle zione materiale; - 12.
ossia il punto, - 13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio, 15, che non
può essere infinito, ma è nell'infinito; 16. e il sublime si origina da cið.
Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento...... 1. Criterio della conoscenza;
ove si riscontrado: l'oggetto ideale, – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscere
il si mile per ilsimile, 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali,
e la conoscenza delle cose esteriori, 6. di noi stessi, degli altri uomini, -
7. e di Dio), - 8. c. il senti mento, in relazione del quale ogoi cosa dicesi
un fatto, ed esso medesimo ha questo pome. 9. Forma del bellezza; - 10. e qui
si riscontrano: la cosa formata, 11. l'idea esem plare, 12. e il gusto. - 13.
Legge del bene, ove si ri scontra il bene oggettivo, - 14. la felicità, - 15. e
l'utilitd. - 16. Conclusione. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. L'Enciclopedia....
1. Per determinare i quesiti della Filosofia, bisogna ve. dere le sue parti e
l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano, Ordine di formazione, ordine di
logica dipendenza. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per trovare la
distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. Quattro classi di conoscenze:
onde vengono la Teologia positiva, la Filosofia, le Matematiche e la Fisica. 6.
Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie particolari e applicate. 8.
Matematica. - 9. Fisica. - 10. Storia sacra, umana, na turale. – 11. Arti
filosofiche, matematicofisiche e storiche. 12. Tradizione perenne dell'
Eociclopedia. – 13. Errori che la guastano. 14. Pericolo dell'Enciclopedie a
dizionario, le quali spezzano la continuità del sapere. - 15. Divisione della
Filosofia in tre parti: la Dialettica, l' Estetica e la Morale. - 16.
Conclusione. La Dialettica. Che cosa è la Dialettica. È quasi un dialogo.
Esemplare unico dell'Arte logica è la natura, -se no e s'op v'è ignoranza. L'Arte
logica è osservazione di natura, - 6. se oo avvi leggerezza, impazienza e
preoccupazione appas sionata. – 7. È imitazione di natura, 8. se no avvi artifi
cio. – 9. È inveozione ordinativa, pop oggettiva, - 10. se no avvi l'assurdo. -
14. È per fine di verità, - 12. se no si confondono l ' arti, che per altro s'
accordano e s ' aiutano. 13. La Verità, com'oggetto dell'Arte logica, viene
deter minata dalle operazioni di questa, - 14. e però è ordine d'en tità
ripensato, 15. ragionato, — 16. e significato. La Critica interiore vera e la
falsa........ Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio, che paturale cono
scenza porge alla riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal
bisogno di cercar l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle
cognizioni la parte oggettiva e la soggettiva; - 3. e però è antichissima;
benchè a questa si contrapponesse Ja Critica eccessiva. 4. Esempj dell'una e
dell'altra nel Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si
può; e questa è critica smodata, o fuori di natura. 6. La riflessione
filosofica deve cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio
metodico. 7. Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza; pone,
qualunque sia l'intenzione de' Critici, alla virtù; 9. è causa di desolazione,
- 10. o di misera indifferenza. 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma
il oaturale co noscimento, 12. la forma di questo e la materia; 15. cioè la
forma naturale in relazione con gli oggetti, - 14. e la realtà degli oggetti
stessi, che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero. ·
15. Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo.
Cap. XIV. Verità connaturali al pensiero umano. 272 1. Tre requisiti delle
verità connaturali. – 2. Esistenza di noi stessi. - 5. Errore del Kant e de' Positivisti,
- 4. e loro confutazione. 5. Si riscontrano i requisiti della conoscenza
naturale nella coscienza di noi stessi. – 6. Notizia del mondo esteriore, – 7.
e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti, 9. e loro
confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovano nella
notizia del mondo. 11. Idea di Dio. - 12. Opinione del Kapt e de' Positivisti.
13. Confutazione, 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessi requisiti o
spontaneità, - 15.inconvertibililà e insepa rabilità. Da queste notizie di noi,
del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità della coscienza. 16. La
Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero e della scienza.
CAP. XV. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose. 294 1. Che cosa è la
forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti, onde
provenga. 3. Apparenza sensibile, - 4. corrispondente agli oggetti percepiti; –
5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione fra le qualità
primarie de' corpi e le secondarie; - 6. talchè verifi chiamo che l'apparenze
sensibili son segoi reali, realmente vera. - . corrispondenti alla realtà delle
cose. -7. Aoche le apparenze, che dano'occasione d'inganno, procedono da leggi
di natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle distanze. – 9. For me
intellettuali, corrispondenti all'entità e verità delle cose, ue' concetti, -
10. ne giudizi, -11. e oei raziocioj. 12. Armonia tra il conoscimento di ciò
ch'è o avviene deotro di noi, e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per i
segoi del l'anima del corpo; – 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso; -
14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna; —
15. e per la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. Principj armonici della
ragione... Pag. 318 1. Che sono i principj universali della ragione. — 2. Na
scono dalle idee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima classe,
corrispondente agli universali analogici. Per l'entitd si distinguono più
principj, riflettendo all ' idee d' essere, 4. e all' idee d'essenza e
d'esistenza. 5. Per l'ordine del l'entità, si distinguono, riflettendo all'idee
di relazione, 6. di atto della relazione e di correlazione. - 7. Per il cono.
scimento dell'ordine, si distinguono, riflettendo all' idee del Vero, – 8. del
Bello e del Buono. – 9. Seconda classe, cor rispondente agli attributi
metafisici correlativi. – 10. Terza classe, corrispondente alle universali
condizioni della Datora fioita. Si hanno: Per l'entità di questa, i priocipj di
quantild, di qualità e di tempo; 11. per l'ordine della natura, i principj di
derivazione o dipendenza, - 12. di modalità e di confinazione o del dove; – 13.
per il conoscimento dell'or dine, com ' esso è negl' intelletti creati, i
principj che risguar dano il criterio della verità, la forma della bellezza e
la regola del bene. – 14. In che stia l'utilità de' principj uni versali. – 15.
Due opinioni estreme ed erronee: l' una che li Dega, l'altra che li reputa
generativi di tutto il conoscimento. - 16. Conclusione. L'Osservazione......
340 1. Materie da trattarsi. — 2. Atteozione. - 3. Osservazio ne. – 4.
Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle verità d'espe rienza esteriore, cosi
per Arte logica naturale, 6. come scientificamente. 7. Si verifica delle verità
di esperieoza interiore, cosi per suggerimento di natura, 8. come per la
Scienza. 9. Si verifica delle verità intellettuali pure, 10. cioè negli
universali della Metafisica e delle Matematiche. 11. Si verifica nelle
conoscenze ricevute dall'autorità, 12. e ipdi vien la Critica, 13. Lo stesso
aodamiento si vede nel procedimento storico delle Scienze. -44. Idem,-15. Anche
nel procedimento della Letteratura. 16. E anche nell'Arte pedagogica. Metodo
che imita la Natura...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica: parte
sostanziale del metodo. 2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 541 -
secondaria. 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un contrappuoto
musicale. -7. Però non può essere nè solameote analitico, nè solamente sintetico.
8. Difetti del Puno e dell'altro, - 9. Il metodo compreosivo gli uoisce. 10.
Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi eccessiva o la sintesi
eccessiva. 11. Esempio del Gioberti. - 12. Il vero metodo è propriamente
dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze; 14. nell' Arti del Bello,
- 15. e nel ” Arti del vivere civile.. 16. Conclusione. L'invenzione dialettica.....
Pag. 381 1. Che cosa è l'invenzione scientifica, o che cosa è la Scienza
com'ordine meditato di conosceoze, - 2. Si comincia dalla comprensione
dell'oggetto per una definizione nominale; - 3. poi si viene all'analisi con la
divisione, – 4. con la tési e con l ' antitesi, con la prova dall'assurdo, e
con l'elimina zione; - 5. fochè si giunge alla definizione dialettica, che può
essere o intrinseca o per via disole relazioni. - 6. Poscia, passando alla
sintesi, abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questo mirabile
ordinamento è una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse; oode gli
Antichi dis. sero che saper vero è un sapere per le cagioni; - 8. cioè per
principj; - 9. e questo s'avveranella teorica degli universali, - 10. e nella
Scienza dell'uomo, dell'universo e di Dio; s'avvera nelle Scieoze civili e
storiche; Delle Matematiche, e nella Fisica. Indi si spiega l'invenzione degli
stromenti e delle macchine; 15. come altresi la ipotesi e l'intuizione
dottrinale. 16. Supto. vo. – IL FINE DELL’ARTE DIALETTICA. Argomento. Connessione logica. Che stato der
essere quello di chi cerca la verità, e DIFETTI CHE BISOGNA EVITARE. Si può
errare io ciò per leggerezza, o per una
preoccupazione. CHIAREZZA e difetti da evitarsi. Errori che procedopo da
leggerezza, e da preoccupazione,
prendendo per chiaro ciò che non è. Certezza; e difetti evitabili; badando
anche ip ciò di non errare per leggerezza d' assensi e per qual che
preoccupazione, stimando che sia certo l'incerto, e vice Connessione, chiarezza,
certezza, non possono realmente trovarsi che pella verità. Si concbiude: che
fine d'ogoi Scienza, e perciò anche della Filosofia, non è di dare a noi, quasi
mancanti d'ogni ragionevole conoscenza, un primo conoscimento della verità, si
l' ordine riflesso della co gosceoza e della verità: e poi, che L’ARTE
DIALETTICA È ALTRESÌ UN ABITO MORALE; e ancora, che L’ABITO DEL PARLARE meditato giova molto all'ordine del pensare
RAGIONATO E RETTO versa.. I Criterj della Verità o Leggi universali della
Dialettica. L'Evidenza, o il Criterio della Verità. Argomento, e qual sia il
disegno della Dialettica, e qual ragione v'abbia di trattare qui de Criterj; e
dottrina loro semplicissima. Il Criterio è uoa regola, perch'è un segno della
verità in relazione con l'intelletto. Non può negar si, fuorchè negando la
conoscenza; non può travisarsi, fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi; e vi
ha una dottrina costante sulla natura del Criterio. Il Criterio è un segno
apparte nente all'ordine della verità, ed è universale. II Criterio, perciò, è
l ' evidenza dell' ordine di verild; è quindi uno e moltiplice, ossia è un
ordine di Criterj; perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso, e
ne' suoi contrassegni universali; cioè coutrassegni d'amore e di fede, perchè
l'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. Il Criterio
vale altresi nelle cognizioni anteriori alla Scienza, 10. nè la Scienza può
disco noscerlo. 14. Nella Scienza, poi, l'evidenza precede il ragionamento,
l'accompagna, e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio
naturale si converte in evi deoza scientifica; non già perchè si comioci dal
dubbio; anzi non può cominciarsi da esso, perch'è un riconoscimento. – 13.
Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale;. 14.senza di che
quella è fuor di natura. - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un
ordine particolare; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio
indiretto e più ristretto. - 16. Conclusione. -L'evidenza del Teismo, come di
verità ordinatrice o di Criterio supremo.... 1. Perchè la verità di Dio
creatore sia Criterio compren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de' limiti è
scienza ne cessaria; e il Teismo ci avverte de' nostri limiti. 3. Questi sono
la natura stessa dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin telligibile,
soprannaturale, 5. intelligibile: 6. la verità di creazione fa serbare questi
limiti, e spiega il perchè del sovrintelligibile divino, –7. del
sovriptelligibile naturale, 8. e ci rende liberi e sicuri nello studio delle
cose intelligibili, che sono inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende
soddisfatto qualunque bisogno dell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono
a' bisogoi stessi. Teologia positiva, - 10. Filosofia, Matematica, — 11. Fisica,
12. Filosofia della Sto ria, Filologia e Critica. - 15. Quel Criterio spiega la
legge del progresso in Filosofia e il regresso sofistico. – 14. I siste mi,
opposti alla verità di creazione, ristringono la conoscenza riflessa, 15. e poi
l'apoientano. - 16. Conclusione. - - 543
- Sistemi opposti al Criterio della Verità, e pri mieramente il Panteismo....
Pag. 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo, e pro posito di
affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale, 4. pitagorico, - 5.
eleatico ed ionico; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici, - 7. che difendevano
il Paganesimo; 8. de' Reali nel medioevo, – 9. e dell'altre Sètte; - 10. del
Bruno e del Campanella 11. (sterili, se paragonati al Car tesio ed a Galileo ),
· 12. dello Spinosa (non paragonabile alla fecondità del Leiboitz), - 13. de'
Panteisti tedeschi, 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi, che balenano
dal Panteismo; 16. il quale, bensì, le travisa, e però nega i fatti più sublimi
della coscienza. II Dualismo. 493 1. Argomento. - 2. Io che il Dualismo è
peggio, e in che meglio del Panteismo? 5. Dualismo fra gl' Indiani. 4.
D'Anassagora, - 5. di Platone, -d'Aristotele, 7. degli Stoici. - 8. Dualismo
tra certi Filosofi maomettani. 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo; 10.
e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici;
- 14. talchè se n'occasionava, ne' tempi della Riforma, up Dualismo nuovo, non
antiteistico, macosmologico e antro pologico. – 12. Il Cartesio; – 15. ed
effetti delsuo Dualismo, segnatamente nel Malebranche, - 14. e nel Leibojtz;
15. o anche nell'Idealismo, nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori. 16.
Il Dualismo riduce i contrarj a contradittorj, - talchè rompe ogoi armonia. L '
Idealismo e il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e il Sensismo.
2. Cenno storico di questi sistemi. – 3. Io che propriamente consiste l '
Idealismo (e sbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli effetti del
Sensismo. - 4. Vizio principale degl ' Idealisti. 5. Nel Sensismo la coscienza
umana non riconosce sè stessa; 6. non l'intelletto, essenzialmente diverso dal
senso; - 7. non - 8. non l'idealità; 9. non la riflessione sopra di noi; 10.
non la religiosità; 11. non la certezza nella cogoizione de' corpi; 12. non la
Filosofia; si solamente la Fisica, - 13. ma falsata e con metodi non suoi. -
14. E sono alterate anco le Matematiche, - 15. com' altresi la Sto ria. - 16.
Sunto. - Lo Scetticismo......
Pag. 1. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e fra gl ' Italo greci; - 3.
nell'età Socratica e del medioevo; 4. nell'età moderna. – 5. Eclettici e
Mistici, che non riparano allo Scet ticismo, dacchè gli concedono di partire
dal dubbio. – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo, 8. e
Positivismo; – 9. e quindi Scetticismo metafisico, antimetafisico, - 11. che
bensi trova la Metafisica per tutto. – 12. Come la natura repugoi dallo
Scetticismo. 13. Con seguenze principali di questo. Desolazionee scherno. - 14.
Dif ficoltà pelle controversie, o Dommatismo scettico; abito di giudicare de'
fatti umani da sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il
pensiero. 10. e 15. e L'Amore della Verità... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo
pieno il Criterio? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza
della Verità. 2. Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono
scenza è affetto. -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturale
affetto. 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento,
l'accompagni e lo assicuri, e perciò bi sogna guardare a quell'impulso, 6. a
quella compagnia e a quel riposo; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali, che
di visero l'affetto dall'evideoza; 8. quanto gli Astratteggian ti, che
separarono l'evidenza dall'affetto. 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle
Matematiche ed io Fisica. - 10. Ufficio di quello in Filosofia, il quale
altresì ci mostra gli affetti con naturali, che corrispondono agli oggetti
della Filosofia stessa; - 11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi,
12. l'ammirazione affettuosa per l'ordine della natura 13. e gli affetti
religiosi. – 14. Quello è anche Criterio degli Studj critici, storici e
teologici. – 15. Nelle passioni l'affetto patu rale può facilmente riconoscersi.
– 16. Per l'affetto la scienza si converte in sapienza. salità; Il Senso
Comune... Pag. 1. Quando la parola serve di Criterio? - 2. Che cosa è il Seoso
Comune? Due sigoificati di esso, - 5. dal separare i quali vennero due opinioni
false, · 4. Limiti del Senso Co mune:. 5. i principj, 6. le immediate
percezioni, 7. e le immediate conclusioni. 8. Ufficio diretto e generale del
Senso Comune in Filosofia; non cosi nell'altre Scienze, 9. fuorchè dov'esse s'
uniscono alla Filosofia stessa. - 10. Obie zioni sull'esistenza del Senso
Comune, per la contrarietà delle opinioni. – 11. Obiezioni contro la
testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune, per la supposta indifferenza de'
vocaboli al si e al no; – 12. per il materiale significato primitivo di parole
che ricevevano poi un sigoificato spirituale. 13. Obiczioni sulla
ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio, qua sichè questo sia
credenza, non evidenza; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienza o scienza;
15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini.. 16. Sunto, e necessità
di ricondurre le Scienze alla natura, come le Arti del Bello. Tradizioni e
progressi nelle Scienze... 1. Criterio delle Tradizioni scientifiche. 2. Due
siguifi. cati del vocabolo Scienza. – 3. Dobbiamo verificare l'univer 4.
distinguendo i principj, i teoremi, i problemi, e gli errori. 5. L'unità del
consentimento non toglie la libera varietà. -6. Consentimento e progresso pe'
principj e ne' teo remi, -7. e ne' problemi. – 8. Le Sètte son dimezzatrici
della Verità; 99.. eppure confermano i teoremi, 10. e son’oc casione di
progresso, mostrando i mancamenti della Filosofia, 11. perfezionandone la forma,
12. e alcune dottrine particolari, - 13. e le loro conseguenze nelle dottrine
de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false: cioè i sosteoitori della sola
evidenza privata; – 15. e i sostenitori del solo criterio storico. - 16.
Conclusione. Relazioni fra le Scienze e la Religione..... 1. L'argomento, che
ora si tratta, è Glosofico di sua na tura, – 2. Due significati della parola
Religione. - 5. S'esclu de: che la Filosofia debba ricevere l'autorità senz' uo
motivo evidente di ragione; – 4. che, per l'esame, debba sospendersi la Fede;
5. che l'autorità del verbo religioso sia un Crite rio diretto per ogni Scienza;
- 6. che la Filosofia debba en trar pe' Misteri, o la Teologia nel ragionamento
filosofico; – 7. che sia lo stesso metodo e lo stesso fioe a’ Filosofi e a'
Teologi. - 8. Nel fatto, l'efficacia delle Religioni è universale sopra i
sistemi filosofici; 9. e sempre la Religione s’ è reputata upa Fede; 10.
Criterio è poi, se corrisponde alla coscienza; 11. talchè sia un'evidenza e una
credenza, cioè una credenza evidente. · 12. Fa quasi specchio all' uomo
interiore, - 15. che riconosce l'integrità dell'essere suo io quella. 14. Gra
vissimo errore del negare validità razionale lenza non filosofica. 15. Il
Criterio religioso sublima l'animo e lo ràs. serena, porgendo così le due
condizioni necessarie d'ogni me. ditazione più alta. 16. Sunto. Leggi speciali
della Dialettica. oi. - - Dell'Ordine, come suprema Legge razionale. Legge
suprema razionale. Leggi concrete o datu
rali, Legge soprema è l'ordine. Unione de' termi. Cercare questa unione,
rispetto agli oggetti, pelle operazioni, cosi dell'Arte bella e dell' Arte
buona, come dell'Arte dialettica. Cercare la somiglianza de' ter mioi, – le loro differenze, e le loro contrarietà,
escludendo i contradittorj. Ksempio tolto dalla teo rica de' Criterj. Errore,
deformità, male, sono disor dini. Ogni errore non altro è, che da una parte
soltanto risguar dare la verità, segregandola dal resto che le appartiene, e
senza cui non è più verità. - Gli errori e il male cadono d'ec cesso jo eccesso.
Meraviglie della ragione umana, che imita l'ordine della natura interiore ed
esteriore. Coo clusione. Ordine dell'idee Ripensamento dell'idee. L'idea, del
suo valore intimo, è sempre vera; quantuoque altresi per idea s’in. tenda lutto
ciò che con la riflessione s'afferma e nega; e allora l'idea può essere falsa.
Bisogna esaminare il positivo del l'idee; nè può darsi un'idea negativa per sè
medesima. 6. Poi bisogna esaminare l'ordine dell'idee con gli oggetti, e come
non possiamo pegar l'idea d’un oggetto, se igooriamo la sua intima essenza, nè
possiamo negare l'idea d'un fatto, se ignoriamo il comeavviene il fatto, ec.; e
bisogoa esa minare qual sia la natura dell'oggetto, coocepita per mezzo dell'
idee. - 8. Idee a priori e a posteriori? L'idee hanno fra loro uo ordine cbe va
riconosciuto; 10. talcbè, riflettendo a quello, si formano idee distinle,
adequale, chia -A1. e ci leviamo all'idea perfetta. Bisogna, in line, ch'
esaminiamo la forma concettuale dell'idee, 13. la loro estensione e
comprensione, 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale l'idea è un
esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può intendere
alcuni fatti maravigliosi della patura umana. Ordine della Memoria.. 1.
Argomento.La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee. 3.
Associazione dell'idee. 4. Come possono in unità raccogliersi le varie
associazioni, notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al
richiamo de' fantasmi e de'segoi. - 6. E anzi, abbraccia tutte le facoltà,
concorrenti nella Memoria, 7. e unità naturale del. 8. e l'unità morale del
genere umano. — 9. Que st' ordine, ch'è legge della Memoria, diviene regola. È
neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re,
dell' idee, molte cose. ſaomo, - considerare la coonessione dell'idee e i segni
seosibili per facil. mente richiamarle. - 11. Inoltre, acquistar l'abito della
ri flessione sull'ordine de' giudizj e de' raciocinj, per il pronto discorso
scientifico. 12. Singolarmente quell'abito è neces sario per la Memoria delle
parole. 15. Tadi procede la pa dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoità
coosapevole interna, occorre rammemorare il nostro passato. 15. Per unità
morale del genere umano poi, occorre la Tradizione, ch'è me moria. – 16.
Conclusione. Ordine de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento. 2. Co.ne dall'idee si
svolgono i giudizj; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati o
reali. - 4. Categorie, 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa
dottrina. - 7. Categorie oggettive, o se condo gli Universali; 8. Categorie
soggettive: 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee, giudizj universali,
ge nerali, particolari, singolari; - 10. II. quanto alle relazioni fra l'idee,
categorici, ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici, assertori, apodittici, -
12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori, - 13.
analitici e sintetici; - 44.III. quanto alla forma de'giudizj, affermativi,
negativi, limitativi; 15. IV. quanto alla relazione di più giudizj,
equipollenti, convertibili, contradittorj, contrarj e subcontrarj. 16.
Conclusione; e come sia necessario, giudicando, solle varsi all'idea distinta,
chiara, adequata, e quindi perfetta, di ciò che meditiamo. Ordine del
ragionamento.. 186 1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica. Idea media; e
come il raziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. –
4. Priocipio formale del raziocinio. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione
dal simile al diverso. – 7. Induzione dal diverso al simile. - 8. La diffe
reoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere? —
9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo, 10. e
dell'induttivo? - 11. Da essa viene la regola. 12. E, per opposto, dal violarla
vengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve
mai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento; - 16. oè la
materia di questo dall'ordine suo. C.: P. Utilità del ragionamento. 206 1.
Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto? 5. Che
cosa troviamo di nuovo per via del ragionamento? 4. Deduzione; 5. in Fisica, in
Ma. tematica applicata; – 6. altre scoperte, – 7. per equipollen za,
conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate.
– 9. Induzione, é sua certezza. --40. Induzioni fisiche. 11. Analogia. 12.
Ipotesi. – 13. In duzione metafisica. – 14. Due erroriopposti: l'uso di coloro
che immaginano la deduzione quasi generazione; 15. l'al tro di coloro che
negano il dedurre. 16. Conclusione. smi;
Unione e varietà de'Metodi.......... Pag. 227 1. Argomento. 2. La verità,
com ' ordine conosciuto, si trasforma in Metodo: può vedersi dalla Storia della
filosolia, 3. e delle Scienze fisiche; 4. talchè vana è la disputa se preceda
l'importanza de'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora si vede che il
Metodo risguarda il soggello e l'oggello, e ch'è psicologico ed ontologico
insieme, 6. cioè critico. - 7. Faria il Metodo; ma neile varietà c'è leggi
comuoi. 8. Le varietà poi derivano dalla natura dell'argomento, 9. taotoché
riesce assurdo il coofondere tra loro i Metodi; 10. e vba Scienze deduttive,
11. induttive,. 12, miste; 13. più sintetiche, o più analitiche. 14. I Metodi,
variando secondo la varietà delle cose, diversificano pure secondo la mente di
chi pensa la verità, 15. e secondo la mente di co loro, a cui la verità s '
espone. 16. Sunto. Abiti necessarj al ragionamento Metodo è abito, e richiede:
abito di virtù, abito intellettuale che disponga l'intelletto all'Arte
ragionativa, e abito dell'Arte. Abito morale, cioè amore della Verità. Bisogna
essere preoccupati solo da questo amore; unito alle virtù morali, e come dagli
abiti viziosi opposti s' of feoda il ragionaiento buono. Abito intellettuale
del rac coglimento, donde nasce il diletto della meditazione, e che porta con
sè l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine, e di ordinare
i proprj studj. Abito intellettuale dell'Arte, cioè il possesso delle regole.
41. e dell'ordine loro; 12 donde procede la necessità di tre atti razionali
abitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de' ragionamenti, a mezzo
e io fine; 13. il quale ultimo è importantissimo; 14. e indi viene il possesso
della ragione; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio della pewna e della
disputa; 16. purchè questa sia conveniente. L’ESPOSIZIONE. Iinportanza
dell'argomento, Ufbej della PAROLA: interno e SOCIALE. LA PAROLA s’unisce
strettamente al pensiero, ma non lo costituisce; bensi lo determina. Non
bastano i fantasmi, ma ci vuole IL SEGNO dell'idea, tanto più che IL DISCORSO
esterno aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva. LEGGE
DELL’ESPOSIZIONE si è la legge dialettica; ossia determinare con la lingua
l'ordine del pensiero; il che apparisce anche da' nomi che si dànoo a'termio i
della proposizione e del raziocinio, e al congiungimento de' termini; e poi, la
bellezza dello stile dottrinale accorda il Vero col Buono. Regola perciò è:
determinare coll'ORDINE DELLA PAROLA l'ordine del pensiero; in conformità
dell'idee e dell'idioma, donde si traggono le regole tutte grammaticali, e dello stile. Quindi è impossibile separare
la bellezza dell ' Esposizione dalla profondità e dall'ordine del pensiero. Se
non determiniamo con le parole il proprio concetto, in conformità dell'intimo
legame fra i concetti, e in conformità del linguaggic, vengono gravi errori. L’INTERPRETAZIONE
E L’IMPLICATURA (“He hasn’t been to prison yet”). L'Interpretazione. Argomento.
In quante maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero ALTRUI altrui.
Relazioni del DISCORSO con la lingua; e perciò la sappia, chi vuolesser critico;
tutti sapere ogni liogua, non si può pè giova; e allora valersi degl'interpreti
migliori. Relazioni del DISCORSO con la mente ALTRUI; e perciò stare al senso
letterale, quanto si puo; oon interpretare alla leggiera né cop troppo di SOTTIGLIEZZA,
non alterare né i difetti né i prenj; badare AI FINI che il testimone o lo
scrittore SI PROPONEVA – “what he meant, not what he means!” -- Relazioni del DISCORSO
con l' animo ALTRUI; e pero guardare alla capacità e alla veracità con
argomenti intrinseci ed estrioseci;: nè la capacità negare, preoccupati da
un'idea; nè, per la veracità, eccedere ne' due vizj opposti d'una Critica
adulatrice o caluoniatrice. Relazioni con la Società umana; e però con
l'incivilimento, con la Religione, con l
' uniune delle prove. Sunto, Metodi secondo le varie Discipline. Metodi speciali. Perchè i Metodi si
distinguono secoudo le Discipline varie?
Quanti sono i Metodi speciali, che procedono dalla relazione varia degli
oggetti con la mente? Ogni errore sostanziale di Metodo procede da un errore su
detta relazione. Gli errori de' sistemi sul Metodo, esaminati, rendono
testimonianza tutti insieme alla vera dottrina. La distinzione de' Metodi è
necessaria pell'Arte del Vero, come si distinguono l'Aiti speciali nell'Arte
del Bello; e chi oega la differenza de'
Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità; come nell'Arti
Belle, 8. cosi nell'Arte dialettica. 9. Connessione de' Metodi;. 10. e ciò si
vede anco nell' Arti del Bello. Hl. Ma la connessione non toglie poi la
distinzione, 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o collegatrici
diversifica; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza nelle Scienze
diverse; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più Scieoze. 15. Sunto.
- 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della civiltà. Cap. XLII.
Metodo degli Studj religiosi. 1. Argomento. 2. Proprietà del Metodo negli Studj
re ligiosi. – 3. Metodo storico circa i fatti; – 4. e guardare do v apparisca
propriamente la loro Storia. 5 Metodo joterpre tativo circa i fatti, -6, e le
dottrine, 7. Metodo filosolico circa la possibilità razionale de' fatti dividi,
8, e come gli . 505 - Avversarj neghino irragionevolmente questa possibilità; 9.
poi, circa la razionale convenienza in genere de ' fatti divini, ma esclusa
sempre la necessità; - 10. poi ancora, circa la ra zionale convenienza in
ispecie, cosi de preliminari della Fe de, 11. come nelle Verità misteriose. 12.
Unione del Metodo filosofico, dell'interpretativo e dello storico, per le
origini del Culto e per la sua universalità nel tempo, 13. per le sue relazioni
universali con le Scienze e con l'Arti, 14. con la Civiltà intera, - 15. e con
tutti gli altri Culti. Metodo teologico si distingue dagli altri Me. todi e vi
s'accorda.. Pag. 342 1. Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dal
filosofico, perchè muove dall'autorità, – 3. perchè risguarda il soggetto
medesimo in un rispetto differente, 4. perchè, quantunque abbia io sè una parte
filosofica, non è meramente filosofico. 5. Si distingue dal Metodo critico e
filologico, percbė storicameote e ioterpretativamente riconosciamo cause
sovrunane, l' Intelletto sovrumano, tini soprannaturali. 6. Si distingue dal
Metodo matematico, perchè risguarda la libertà divina e l'umana ne' fatti
religiosi. – 7. Si distingue dal Mo todo fisico; e tal distinzione ha
importanza eguale pe' Teologi, che non debbono considerare come il mondo è
fatio, - 8.6 pe ' Fisici, che non debbono considerare come il moodó fu fatto.
9. Il Metodo teologico s'accorda poi col filosofico; perchè il Teologo non deve
separare mai l'attinenza fra Teologia e Filo sofia che porge a quella le verità
prelimioari, l'analogie razio nali e l'ordinamento; - 10. pè il Filosofo deve
mai separare l'attinenza tra Filosofia e Teologia, che rende più autorevoli o
efficaci le verità razionali. – 11. II Metodo teologico s'ac corda col critico,
perchè il Teologo ha bisogno di guardare alla Storia universale e alla
Linguistica; — 12. il Filologo ba bi sogno diguardare alla Storia religiosa e
ai monumenti sacri. 13. S'accorda col matematico, per la severità del ragiona
mento, per molti esempj, per molte dottrine fisicomatematiche, per l'evidenza
del concetto d'infinità. – 14. S'accorda col fisi co, perchè il Teologo non
deve mai tenere la scoperta di cose na - 15. pė il fisico deve spregiare la
verificazione delle ipotesi, secondo le narrazioni sacre. 16. Sunto. Metodo
della Filosofia.... 361 1. Argomento. — 2. Proprietà del Metodo filosofico. – 3.
Raccoglimento nella coscienza. 4. Esame de' fatti interni, delle loro leggi e
cause. turali; - - 5. Delle relazioni con gli oggetti; 6. e però avvi una parte
del Metodo, asceosiva da'fatti agli oggetti stessi, e una parte discensiya
dagli oggetti a ' fatti. -7. Si distingue dal Metodo teologico, e dal critico o
filologico: 8. dal matematico, per la natura de' concetti, la natura degli
oggetti; – 10. dal fisico, per la natura de' fat ti, e per le relazioni loro
con gli oggetti, 11. e quindi per la ricerca delle classi loro, e leggi e cause,
e per i priocipi della ragione. - 12. Si accorda col Metodo teologico per l'esa
9. e per . - me della coscienza; 13. col critico o filologico, per lo stu. dio
dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nelle lingue; 14. col malematico,
per la speculazione di verità con ma teriali; – col fisico, per l'altigenze fra
le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto. CAP. XLV. Metodo della
Filosofia Civile.... Pag. 381 1. Argomento. — 2. Proprietà del Metodo nella
Filosofia Civile. Questa si fondi sopr'i fatti, – 3. badando alla notizia loro
precisa e al collegamento loro. 4. Studio delle cagioni; ma fuggendo di
prendere l'analogie per identità. - 5. Esame delle cagioni esteriori ed
interiori, non separabili, ma distinte. - 6. Le cagioni interiori hanno più
importanza: 7. ma senza trascurare l' esteriori. - 8. Si ascende alle leggi o
ragio ni. Leggi supreme della Scienza storica, della Politica, della
Giurisprudenza, dell'Economia. - 9. Le dette leggi non tol gono la libertà, -
10. come la libertà non toglie alle conse guenze proprie la necessità; 11.
tantochè in ciò risplende l'ordine della Provvidenza. – 12. Dopo l'esame
induttivo delle cagioni e leggi può farsi la deduzione, o probabile o necessa
ria, di ciò ch' è avvenuto e che può avvenire. 13. Questa Filosofia delle
ragioni o leggi, che governano le nazioni, non può trascurare il procedimento
storico; ma neppure si può, per questo, trascurare la teorica di quelle. - 14.
Talchè la Scienza civile ha due presupposti, la Storia e la batura. –15. Però
il Metodo suo si distingue da ogni altro, 16. e a tutti si upisce. Metodo
critico nella Storia. 401 t. Argomento. – 2. Esame de' fatti, Discipline che
aiutano in ciò la Storia: Cronologia e Geografia, – 4. Archeo logia,
Diplomatica, Statistica, Archeologia preistorica, Etno grafia. 5. Come si può
andare in eccessi con queste disci pline. - 6. Ipercritica. – 7. Esame delle
cagioni; e iodi lo Storico rifà la Storia entro di sè. 8. Cause finali, 9.
particolari, generali, 10. psicologiche, A1. divine. 12. Oggettività della
Storia; 15. e come ciò la renda bel lissima e ammaestrativa. – 14. Come lo
storico si distingua da ogoi altro Metodo; 15, e vi si accordi. 16 Sunto, CAP.
XLVII. Metodo critico nella Linguistica. 420 1. Proprietà del Metodo
interpretativo delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de' vocaboli. – 5. Come
bisogna valersi dell ' uso proprio nelle Lingue parlate, e come giovino i testi
moni dell'uso. A chi ricorrere per lo Lingue morte. Grammatica poi determina le
classi e le leggi de' vocaboli, 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica. –
6. Io che con siste la Filologia comparata. – 7. Utilità di essa, e da quali
estremi bisogna fuggire. 8. Il fine dell'esame filologico è interpretativo
principalmente; – 9. e ciò ne determina i con fini, i modi, 10. e le relazioni;
che sono massimamente due: con la Letteratura, 11. e con la Storia, - 42. E
iodi anche vediamo le indirelle relazioni della Linguistica; cioè con 4. La ca,
la Teologia. 13. con la Filosofia, 14. cop la Matemati 15. e altresi con la
Fisica, sempre distinguendosi da tutto ciò. 16. Sunto. Metodo matematico...
Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2. Quantità pore, cioè astratte
da ogni altra idea. – 5. Nel che, poi, bisogna di stinguere fra l'insegnamento
elementare ed il superiore. 4. Si cerchino le ragioni, sgombre da ogo' idea
straniera. 5. Idea dell'Infinito, distinto dall'indefinito matematico. - 6. Il
Cavalieri. – 7. Distiozione dal Metodo teologico, - 8. e relazioni con esso;
dal Metodo filosofico: e accordo con la Logica, onde l'insegnamento della
Matematica è razionale, 12. Distinzione dal Metodo critico, segnatamente dal
letterario, 13. e accordo. - 14. Relazione col Metodo fisico. 15. Come le
dimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti, e anche
possano dissestarli.. 16. Sunto. Metodo nelle Scienze fisiche. Argomento.
Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche, - 2. Prinia d'indurre si comincia
dall'Analogia; 3. cbe talora non può giungere all' Induzione, 4. Può essere
fonte di errori; o del troppo generaleggiare, 5. o del poco. – 6. Essa è di
molta difficoltà. 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione. Uffioj del senso e
dell'iotelletto. 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause, - alle leggi, 12. e però
al. l'ordine. Doppio errore de' Sensisti e degl ' Idealisti. 14. Frantendono
allri la luduzione, ch'è legittima e necessa ria, 15. e da cui siamo condotti
alla Deduziune. Suato. Cap. L. Segue del Metodo fisico; e Ordine fra le Scienze..
479 classi, 16. 1. Argomento. – 2. Abiti che prende la meote per gli Studi
fisici. – 5. Idem. 4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze. - 5. Guai,
se la Fisica è usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia: – 6.
de' fatti esteriori con fl'interiori. – 7. Confusione di linguaggio, e
dogmatismo. 8. Si confondono i bruti con l'uomo; – 9. la volontà con gli atti
meccanicamente determinati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie,
poi si pongono le trasformazioni di tutte le specie; -- 11. si confonde
l'ordine de' fini col piacere • con la materiale utilità. - Abiti cbe prende
l'intelletto per gli Studj religiosi; Filosofia; - 14. per le Matema. tiche; -
15.per la Gritica. 16. Conclusione generale. STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. Epoca
dell' èra pagana. Civiltà degl' Italici. Successione dei loro sistemi.. Scuole
italiche. Sistemi latini. CICERONE Giureconsulti romani. CIVILTÀ
DEGL'ITALICI. SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. Tre tempi dell'incivilimento italici;
i l'elasghi, la trasformazione loro negli Elleni, le colonie. - Il terzo è più
nolo; quali sono i suoi termini. Cinque cagioni più principali dell'unione fra
la civiltà orientale e l'italica: colonie, commerci, viaggi, lingue,
tradizioni. Tre opinioni sopr’esse; tutto dall'oriente, nulla e opinione media.
Dipendenza non generica nė volgare della filosofia italica; daʼsistemi orien
tali. La civiltà jtalica fiorisce primamente dove più vive le comunicazioni con
l’Asia e dove più ricco un anteriore incivilimento. l'ero quest'epoca si chiama
oriental italica. Questa è un'età di passaggio, fra le qualità orientali e il
tempo socratico. Si veda le attinenze lia filosofia italica religione e
civiltà. Quanto alla religione sacerdotale, se n'ha indizi per le memorie de '
Pelasghi, de ' Misteri e degli Orfici. Celebre passo di Erodoto sulla religione
de ' Pelasghi, e sul nome degli dèi posteriori ec., e conseguenze di ciò. Somigilianze
tra la religione pelasgica e quella de' Bragmani. Misteri: quelli di Samotracia
istituiti da 'Pelasghi; domma che s'insegnava segretamente e molto simile al
panteismo dell'India. Ciò pur anche ne’ misteri eleusini; panteismo naturale,
metempsicosi, immortalità, purificazione. - La teologia d’Eleusi non può
interpretarsi solamente in senso fisico. Testi monianze di lode que' Misteri
pel domma sull'immortalità. Le due anime; anch'in Omero ec. – Gli Orfici:
qualcosa di storico v'è circa Orfeo, benché con mistura di simbolo.-- La
dottrina che va sotto il nome d'Orfeo si raccoglie da tradizioni antiche e
da'versi orlici. Le tradi zioni attribuiscono a Orfeo una religione collegata
poi a'Misteri eleusini: cosmogonie orliche, somiglianti all'indiane. Quanto
a'versi orlici, que sli non appartengono a Orfeo; ma parecchi son certamente
molto antichi. Da varj ioni (che si riferiscono qui, apparisce il panteismo
naturale come ne ' Vedi. Passi che fece la religione tra l'Italogreci:
panteismo natu rale con molte tracce del Dio unico; adorazione degli astri,
massime nel volgo; teogonie, o emanazioni sempre più specificate e che prendono
attri boti e nomi distinti; individuazione ultima e volgare del politeismo,
specie per opere degli artisti e de' poeti, abbandonando quasi ogni simbolo.
Memorie sul combattimento fra le religiose tradizioni e il politeismo cre
scente. - La filosofia, dunque, prima sacerdotale; poi sacerdotale e laicale ad
un tempo; cedè inline al politeismo, rispettandolo, se non altro, come apparenza
o credulità popolare. — Questo resistere al male, e poi cedergli, si vede
ancora per l'altre parti della civiltà italogreca. La filosofia venne preparata
da molte cagioni, e però dovè fiorirvi assai presto, anzi chè cominciare a'
tempi di Talete molto dubbiosi. - La filosolia mosse da un ritorno sulla
coscienza morale Questa filosofia morale e religiosa fiori, prima di Taleto,
non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco; e se n'ha prove non dubbie. La
cuola pitagorica precedeva Talute; ma va di. slinto Pitagora dal Pitagoresimo.
- Molti argomenti di fatto e molte auto rità per mettere in saldo le antiche
origini di tal filosofia. Anche la scuola di Xenofane antecedė Xenofane stesso;
e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi la scuola cleatica e l'ionica,
infine i sistemi negativi. L'epoca dell'incivilimento italogreco si può distin
guere in tre tempi; de Pelasghi (o con qual altro nome si voglia chiamare que'
popoli primitivi); della trasforma zione di essi negli Elleni; delle colonie.
L'età de' pelasghi o degl’antichi abitatori d'Italia si perde nella notte de’ secoli,
ignoto il principio e la durata. È certo bensì, che quegl’abitatori vennero
d'Oriente, come se n'ha prova in tutte le memorie e ne’ linguaggi e nelle
reliquie dell'arti, e che i pelasghi, quantunque paruti barbari a Ecateo e ad
Erodoto e di barbaro dialetto, sono la più antica sorgente e più copiosa delle
genti e lingue e religioni elleniche (Balbo, St. d'It.; Cantù, St. univ.;
Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. de l'antiquité. Sembraron barbari,
perchè reliquie di popoli più segregati allora da'popoli nuovi, già molti
passati avanti. Fatto è che di là, ove i pelasghi abitarono, fan derivare i greci
la civiltà loro, dall' Elicona, dall'Olimpo e dal Pindo. Accadde poi e IN
ITALIA un cozzo di popoli. Qual cozzo, e di che popoli, è molto incerto agli
eruditi. Ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma più volte, che al lora con
trasformazione lunga e tempestosa i pelasghi si convertirono in elleni. Viene
poi l'età delle colonie; un rovesciarsi di genti greche le une sull'altre, un
invadere, un esulare, e indi un propagarsi di colonie, prima nell'Asia minore e
nell'isole, poi nella Calcide, nell'Eubea, in Sicilia e SULLE COSTE D’ITALIA, e
infine (propag gini di colonie da colonie) in Asia, in Tracia, sul Danubio e
nel Mar Nero. Questa terza età è propriamente storica. Dell'altre due il più va
ingombro di favole. La terza comincia, secondo l'Hofler assai temperato nelle
cronologie, sul secolo undecimo avanti l'èra nostra. (St. Univ.) In un'età così
lunga e operosa, e ch’ebbe così lunghe e ricche preparazioni, si forma la
civiltà e FILOSOFIA DEGL’ITALICI -- la quale, svolgendosi nelle colonie d’ITALIAe
dell'Asia minore, cedè poi al primato d' Atene; onde comincia una seconda età
di filosofia. Nell'epoca di che si parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa,
cinque cagioni principalmente mantenevano unite la civiltà orientale e l'ITLICA;
colonie, commerci, viaggi, lingue, tradizioni: Le colonie, nè dico solo
l'egiziane di Lelege, Danao, Cecrope ed altri, ma le prime venute dalla terra
degli arii e de' persiani, e l'ultime ellene che si spargevano per l'Asia
minore; i commerci, che com’appare in Omero, non cessarono mai tra ITALIA e le
coste dell'Asia. I viaggi per l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de FILOSOFI
d'allora, come Ritter non nega quelli di PITAGORA A CROTONE, Ritter negatore sì
voglioso. Le lingue, che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le
lingue le tradizioni d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in
torno a cui son tre le opinioni: da Erodoto fino a Creuzer la mitologia ITALICA,
la greca segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana.
Ma poi Müller, Voss e altri riferirono tutto ad origine greca. Guignaut (Note
al Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media. E questa si è
che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia com'anco radici
e forme generali delle lingue; ne può pensarsi altrimenti, dacchè ivi
coabitarono un tempo le genti ellene: ciò non impedì, nè mai l'im pedisce uno
svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle religioni: all'età
poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia minore, per l'Egeo e nel
Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vicini orientali scaturi la
fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta già in Esiodo ed in
Omero. Talchè (ponete mente, o signori),
se lo spargersi di colonie nell'Asia minore avvenne dall’undecimo all'ottavo
secolo incirca, e nel con tinente poi d'ITALIA e di Sicilia dall'ottavo al
sesto, que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare delle
tradizioni orientali fra gl’elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia nuova
degl'ITALICI. Non istarò dunque a disputare com’essa deriva più o meno
da’sistemi orientali, bastandomi ch'ella dipende per fermo da molte tradizioni
d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel riaccostarsi loro all'Asia. Che
tal dipendenza poi de' popoli d'ITALIA, nazione antichissimamente civili e
nella civiltà loro pertinaci, possa credersi affatto generica e volgare, cioè
senz'efficacia sull'educazione speculativa, giudicatene voi, o signori, che pur
vedete gli effetti odierni del comunicare le nazioni fra loro. Dove fu egli il
primo fiorire della civiltà ITALICA? nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia. Non
già in Grecia propriamente detta. Perchè mai, o signori? La ri sposta non par
malagevole. Prima che in Grecia, fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore,
appunto perchè più vicini all'Asia media, sorgente de' popoli e della civiltà;
e prima pure che in Grecia fiorì nella Magna Grecia, cioè in ITALIA, perchè ivi
più forse ch'altrove ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che
fanno ionio Pitagora e ionio Xenofane, venuti tra noi, dan segno come frequenti
e vive fossero le comunicazioni tra LE COSTE ITALIANE e l ' Asia minore. Dico
poi, ad ogni modo, che le colonie greche trovarono in ITALIA grandi semenze di
civiltà, nè però ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e
prosperare. Di fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto important. Prima,
che le tavole d'Eraclea, lette dl Mazzocchi, fan prova come i coloni greci
prendessero dagl'ITALIOTI misure e confinazioni agrarie. Seconda, che i Lucani,
i Bruzj, i Sanniti, dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e
riparatisi a’ monti, ne discesero poi, e le ributtarono (Hofler), talchè più
non resta in ITALIA dialetti greci (in PUGLIA ve n'ha, ma di colonie recenti e
fuggite dai Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari
non serbavano istituti civili. Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca
orientalita logreca (italogreca ITALIOTA per più brevità); greca, perchè
filosofia di colonie greche; ITALIANA perchè sorse più splendida in ITALIA e
con tradizioni italiane (italica chia marono pure i Greci, come Platone ed
Aristotile, la scuola pitagorica e di VELIA); orientale, perchè con origini e
comunicazioni asiatiche. Non si toglie a' Greci la loro eccellenza ' se notiamo
quel ch ' essi appresero; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse la
mira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bellezza e compimento;
essi il ricevuto per dieci lo ridussero a mille e quel mille lo insegnarono al
mondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'ITALIA nostra, o
signori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questa
filosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’Aristotile. L’ITALIA ricevè
dal 1 ° Oriente e da’Greci, l’ITALIA poi restituì alla Grecia e alla civiltà
de' secoli avvenire; e potè dirsi allora quel che poi disse PLINIO. Omnium
terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium in
toto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati:
avvaloriamoci, o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode. E
quest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio; ritiene
ancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altre
dell'età socratica. Così tra gl’ITALIOTI come tra gli Asiatici, abbiamo un
sistema religioso sacerdotale; ma ora si nasconde ne' misteri, e si separa
perciò interamente dalle credenze popolari che prevalgono. Tra gli uni e tra
gli altri la filosofia dipende dal sistema religioso. Ma ora si svolge in un
modo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità di
quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè ha
sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici; par come
un'eco de' tempi passati, più che voce vivente. E siccome la filosofia di
quest'epoca pigliò i germi da' misteri (Ritter), che hanno del panteismo
orientale, così ell'hanno del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con tendenze
più manifeste alla DIALETTICA che va per distinzioni anzichè per confusioni.
Poi, qui come là s' unì la poesia con la speculazione, ma più altresi se ne
distinse; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con una
enciclopedia d'episodj. Ed i poemi scientifici di VELIA (il Sulla Natura di
Parmenide) e di GIRGENTI (il Della natura di Empedocle) s'accostano alla prosa.
E qui come là v'è ncertezze storiche, meno per altro. Giacchè il più delle
incertezze cadono su' misteri e sulle origini pitagoriche, non già sulle scuole
posteriori. Premesso ciò, si veda, o signori, qual fosse in attinenza con la
filosofia la religione e la civiltà degl'ITALIOTI. Della religione, come
sistema sacerdotale, me ne passerò più breve che non feci per l'India, giacchè
(com ' ho detto) quel sistema era sul morire, e se n'ha meno ragguagli e meno
certezza. La religione sacerdotale ITALIOTA si può ricercare in tre modi: per
le notizie assai oscure dei Pelasghi, i quali tennero idee religiose più
primitive e più vicine alle orientali; per le notizie scarsissime de' Misteri;
per quelle degli Orfici. Essi e l'origine de' Misteri appartengono, credo,
all'età di combattimento e di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto
scrive che da loro non si metteva nome agli dèi; aggiunge che i nomi vennero
d'Egitto e che i pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la
decisione all'oracolo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi; e dice infine
che le nascite e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e
da Omero; tutte cose già ignote. Vuol notarsi com’Erodoto accenni pure che un
simbolo osceno gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il
senso ne' Misteri; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici
si mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente. Erodoto,
uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano
appreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero
e d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo
luogo così famoso? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedute
lontana dal politeismo; secondo, che quella si rappresentava co'sim boli
orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti;
terzo, che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un
che meno pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse agli
oracoli; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazione
si fece nell'in terno de' Misteri; quinto, che i nomi si suppongono venuti
d'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste
tradizioni; infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti,
non perchè già tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que'
poeti l'ordinarono (più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi
specificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo
attestano Ferecide e Acusilao in Strabone (Ed. Sturz ); dicendo che i Cabiri,
divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri
maschi e tre femmine. (Creuzer ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, non
solo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi (II, 5), ma
(com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i
simboli esterni. Come si spiegavano essi? Apollonio di Rodi serbò del vecchio
storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia. (Schol.
Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori? Similissimi a quelli dell'India.
S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros; la materia fecondata,
Aziokersa, o principio passivo; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos.
Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguono
dall'essenza universale, Azieros o Brahm? 0 piuttosto (giacchè l'
interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos e
Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio, rispon dono a
Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, come
non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda? tanto più che Casmilo rispon
derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni.
Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotracio
mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Trimurti. (Saint
Croix, sur le Mystères du Paganisme; Creuzer, V, 2. ) E risponde non meno a
quel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo si
distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponeva
la dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che ne
nasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere,
lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non
ritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia?
E forse su quelle divinità è, innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo
Zeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto a
Giunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietato
rigorosamente il propalarli, come dice Pausania (art. Beozia) e Apollodoro
(Argon. I), e come dimostra il Meursio (De Festis Græcorum). Pure, da'cenni
dell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale (com’ho
detto di sopra), e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima (forse col
ritorno all'essenza divina), e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il
panteismo naturale viene indicato da CICERONE (De Nat. Deor.), che diceva: come
le dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce
meglio per esse la natura delle cose che quella degli dèi. Che vuol egli dire? CICERONE
accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano,
in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova,
dunque, tale accusa, e viene confermato da molt' indizj, che la religione d'
Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi; di fatto, che si trattasse d'una fisica
soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla natura
esterna ce lo vieta lo stesso CICERONE. Egli scrive nel II “De Legibus”, che i
Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene,
perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vita
migliore; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone (Fedone) che
l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi, e dà a'buoni felicità eterna, cioè
un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma (Panegirico)
che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'alla
fine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai. Che poi gl'iniziati
s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio dimostra che
quelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità, e poi si
credevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane (Rane)
mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole: « Il sole e una luce
aggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole della
pietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavan
teleti (7: ) ett ), giacchè da loro veniva la perfezione della vita. Va notato
che la me tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo:
credevano gli antichi che il principio animale, principio di vita e di senso,
distinguasi sostanzialmente dal principio intellettivo; e che l'uno, cioè
l'animale, passi di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri
di secoli e in premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale o
divina. Però si di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, e
in China Hoen da Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone (dzepov)
o anche logo da psiche, e tra’ ROMANI “animus” da “anima”. Quindi l'anima
sensitiva s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che,
divisa dal corpo, ne teneva le apparenze, erane lo spettro od il fantasma,
vagante nelle notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in
Omero, allorchè Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti (Odiss.): «
D'Ercole mi s'offerse alfin la possa, Anzi il fantasma; però ch'ei de' numi
Giocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe,
di Giove figlia e di Giunone. » La terza fonte di notizie, cioè le memorie
orfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene
qualche costrutto; purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de
critici. S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad
Orfeo; ma, quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti della favola,
e un nome (al solito) rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno
qualcosa di reale e d'antico vi ha; perchè Ibico (in Prisc.) che fiorì presso
al 550 prima di Gesù Cristo, già ram menta Orfeo; lo rammenta Pindaro (Pith.),
anzi lo chiama padre de canti apdov Tr UTEP (Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr.
); lo rammentano ancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie
ateniesi. Da molti luoghi di Platone (Leg. VIII; Ione, Convito, Rep. 11)
apparisce che a tempo di lui eran divulgati già molti carmi col nome di Museo e
d’Orfeo; questi è citato nel Filebo e nel Cratilo; e si scorge che l '
espiazioni de’de litti appartenevano alle discipline orfiche. La dottrina che
va sott' il nome d’Orfeo si racco glie da tradizioni antiche e da versi orfici.
Quanto alle tradizioni antiche, elle attribuiscono tutte ad Orfeo una religione,
che istituita da lui si collegò quindi a Misteri d'Eleusi (Müller): e ciò
conferma il già detto sulla natura di quel sistema religioso. Si rileva poi
dagli antichi scrittori un sistema orfico di cosmo gonia, benchè sotto più
forme, e talora v'han messo la mano autori dell' èra cristiana. Creuzer ne dà
cinque di tali cosmogonie; rilevantissima quella di Ferecide Siro, pel quale
son tre i principj Zeus o Giove o Cronos o l'etere, il Caos o massa inerte
ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senza limiti. E qui voi scorgete, o
signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astra zione del tempo (come tra’
Persiani ), e dall'indefinito i due principj, l'attivo ed il passivo. Nella
cosmogonia che viene riferita da Atanagora e da Damascio, v’ha l'idea indiana
dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fa nete, amore o manifestazione
dell'armonia universale; e tal idea orfica viene rammentata negli Uccelli
d'Aristofane. Il mondo, poi, si rinnova per bruciamento (co me secondo
Eraclito, gli stoici, gl'Indiani e l'orgie eleu sine), in virtù di Dionisio
corrispondente a Siva. (Creuzer) Mi pare che il Maury ottimamente riduca le
teogonie o cosmonie orfiche a questo: Cronos genera i due principj, l'etere e
il caos; il caos in virtù dell' etere prende la forma d'uovo, avviluppato dal
l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, a cui segue la luce o
l'amore, quando l'uovo si spacca, ossia quando il germe involuto si svolge
nelle sue parti: queste le idee più principali che risultano dal paragone de'
più antichi testimoni. Ma i versi che ci restano sott'il nome d’Orfeo, son essi
autentici? Aristotile e Cicerone negarono già che i versi propalati fin
d'allora come d'Orfeo gli apparte nessero; e più n'è dubbio a' dì nostri,
perchè nei primi secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggia rono, e
molti se ne invento. Ma dice Mullachio (Fragm. Phil. Græc., ed. Didot.
Parisiis): Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt; talchè,
considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varie
testimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni
vetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che si
chiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi. Udite l'inno
insigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale e riferito
negli Schiarimenti (Tauchnitz): « Natura, diva madre universale, in tante guise
madre, celeste, venerabile, molto creante spirito (o cuor ), regina che tutto
domi indomata, tutto governi, in tutte parti splendi, onnipossente, ve nerata
in eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata,
antichissima,... comune a tutti, sola, incomunicabile, padre a te stessa senza
padre, che per maschia forza tutto sai, tutto dài, nodrice e regina di tutto;
feconda operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, delle
cose tutte vero padre e madre e nodrice e sostegno. Le quali ultime parole già
udimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, o
signori, ne' versi orfici? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padre
e madre, ossia, principio attivo e passivo; ell’è divina, perchè non è la
materia, sì l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità;
è senza padre, cioè senza principio; è primonata, cioè generata da sè stessa
con uscire all'atto dall'indefinita potenza; indi, ella è padre di sè stessa;
infine, si palesa con tre divine opera zioni, genera tutto, sostiene tutto,
distrugge tutto. In Clemente Alessandrino (Stro. V), in san Giustino (Co hort.
ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo, in Proclo, in Porfirio e in
altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo stesso
sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna qual sia
l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti degli
uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo; e che Dio tiene in
sè il principio, il mezzo e il fine. (Pr. Ev.) Riferirò un altro inno
ch’Eusebio tolse da Porfirio (Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23, e Bibliot.
del Didot, Framm. ec. p.6 ): « Primo e ultimo è Giove che splende col fulmine.
Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose. Giove è nato maschio,
Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata de 'cieli;
ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine. Unica forza e
unico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude tutte nel suo
corpo regale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e il giorno, e il
consiglio, e il primo genitore e nume del l'amore: contiene tutto ciò Giove
nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso irradia il
cielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e aurea d'astri;
e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio corno che
l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti a'
supremi dèi. Son occhi di lui il sole e la luna che corre di contro al sole. In
lui è mente verace, ed etere regale non sottoposto a morte, il quale col
consiglio muove e regge ogni cosa; e quella mente, perchè prole di Giove, non
può essere nascosta da niuna voce o stre pito o suono o fama. Così, egli beato
possiede e senso dell'animo e vita immortale, spandendo il corpo illu stre,
immenso, immutabile e con valida forza di brac cio. A lui son omeri e petto e
terga immani le ampiezze dell'aria; e con veloci e native penue precipitando,
egli vola intorno a tutte le cose. La terra, madre comune, ei monti che levano
l' alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la zona media i tumidi
flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il nume, sta nell' intime
radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e negli ultimi confini che
inaccessa ed immota spande la terra. Tutte le cose egli nasconde primamente nel
mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma luce con opera divina. » Tra le
figure poetiche non si può non vedere in quest'inni l'opera della riflessione
che affaticasi di scoprire e spiegare l'attinenza fra Dio e l'universo,
confondendola, per abuso d'induzione, con l'attinenza tra l'unità delle
sostanze e la moltiplicità c mutabilità de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia
se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero gli esordj dalle dottrine orfiche e
de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni pelasghe, cadessero nel panteismo.
Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla reli gione fra gl’ITALIOTE. Prima
è un tal panteismo natu rale, in cui le divinità sono le forze della naturu;
non le forze per altro simboleggiate, come interpretò poi la scuola de' Fisici
(Plutarco la distinse sì bene dall'an tica scuola de' Teologi), bensì le forze
naturali confuse con gli attributi divini. In quel panteismo, come nel Rig
Veda, gli dèi son poco determinati: differiscono poco gli uni dagli altri;
escono tutti e rientrano nel Dio unico (Creuzer, V, 4). Talche certi Padri
pensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio creatore, e tal culto
contrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria; Storia della F lofint.
17 2 ill 1 ma, veramente, non può chiamarsi un teismo, bensì un panteismo
naturale, dove nondimeno le tracce del l'unità di Dio si conservano così
spiccate da causare l'opinione ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe non
avevano un nome, dice Erodoto; e a dar loro un nome s ' opponevano le
sacerdotali tradizioni (Ispot 20091). E come narra Platone nel Cratilo che
prima si chiamò in genere 0: 9 le divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi,
ossia (forse) potenti; e ciò risponde agli dei complices o consentes degli
Etruschi. Poi, questo panteismo naturale si ristrinse più par ticolarmente (e
specie nel culto popolare) all'adorazione degli astri, dove più che in altro ci
apparisce la po tenza di Dio: e che sia così l'attestano Platone (Fileb. e
Crat. ) ed Aristotile (Met.). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo; e si
mantenne questo nel detto volgare: Giove che fa? per dire: che tempo fa? Ma il
panteismo naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni,
per ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima; e
indi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine,
allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne;
come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla
fecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo (Pausania ), della Venere
piramidale di Pafo, e co' due sessi (statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi),
dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste, di una dea a quattro
teste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efeso
e della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a poco
divennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti,
le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone,
s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi si
moltiplicarono all'infinito. Però, questa individuazione favoriva il politeismo
a volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo eccitava; e ambedue si
stabilirono più che mai con l'arti del disegno, che lasciati quasi del tutto i
simboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune qualità pro prie di
ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme tra maschili e
femminili di Bacco e d'altri dei, figura sacra dell'androgenia, quando
s'abbandono la rozzezza dello scarabeo (Winkelman, St. dell'arte ec. ); e tal
simbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasi
perfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuola
d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altro
efficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati. Vuolsi por mente
adunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchè
più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava la
tradizione? Ne' Misteri; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi? Dicono
le memorie antiche, i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sa
cerdoti, capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist.
Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo e
sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere; il che apparisce anco
nell'In die; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci al
contrario scapitò la classe sacerdotale che (l'accennano i racconti circa
Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi,
lasciando a' re tutto il resto; e così, a poco a poco, e tanto più quando
sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restò
solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento,
dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto che
la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che fa
intanto la filosofia? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenute
le tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico; poi, nell'
età che > il sacerdozio si separa e
s’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemi
come i pi tagorici, che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questa
filosofia, perciò, combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammenti
di Xenofane che derideva il fingere dèi a somiglianza nostra. Poi, dac chè il
concetto di Dio sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, e
gl' Ionj, gli Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro come
appa renza o come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negli
ordini tutti della civiltà. Di fatto; quando i governi regi si mutarono in
popola reschi, molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè i
Pitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda, i cui frammenti di leggi muovono
dal dimostrare che Dio è; ma in progresso la filosofia non potè resistere alla
li cenza, fu perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventarono
l'arte della parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti di
cavillo. Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte;
ma successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Magna Grecia in ITALIA e
l'Ionia caddero in mollezze di trista fama. Resisterono i primi sapienti, come
dimostra l'istituto pitagorico; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e già
Xenofane canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándare
all'ospite: quant'anni avevi tu quand' il Medo invase? » il Medo, o signori,
invasore della patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di
godere. Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ateneo rimprovera Platone,
perch'e' disse nel Sofista come Parmenide di VELIA ama Zenone di VELIA;
quasichè tal parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso. E la
filosofia, resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofisti
all'indifferenza tra bene e male; indifferenza molto diversa e peggiore
dell'indiana; chè questa è non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, in
grazia dell'unità sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro; ivi è
un'ombra di moralità, qui nessuna. Mostrate così l ' attinenze tra filosofia,
religione e ci viltà degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la
successione de' loro sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per
confessione di tutti, v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi; e
bisogna ri correre il più a Diogene Laerzio, autorità poco accettata. Le
congetture dunque son lecite; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul
definire l'età de' tempi remoti variano le tendenze degli Orientali e de'
Greci; que sti tirano al meno e quelli al più. Per che ragione? I Greci amando
la certezza de' fatti, li trasportano quanto più si può nel tempo storico, e
lontani dal favoloso; al contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de
se coli; effetto del panteismo. Premesso ciò, rammentate, o signori, che prima
dell'undecimo secolo avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e
allora co minciò l'età delle colonie; e da esse la più nota civiltà ITALIOTA.
Quali preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia? La civiltà pelasga, le
dottrine orfiche, i Mi steri; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti
per l'Asia minore (dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che
tempi erano quelli per l'Asia media? Rammentiamocene, o signori; erano i tempi
di splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedi
ed i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, che
date tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vita
civile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non
selvaggi come l' America, ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni
filosofi che? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a
tre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno
già in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare? A ogni modo,
tempi precisi non se n'ha; e poichè la critica devé supplire, parmi più
ragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco
probabili. La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla coscienza morale;
ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Sette
sapienti; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto: conosci te stesso.
Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità non
si dubita punto; e chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriore
a Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va'
discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione sulle verità morali, benchè
nascosta in afori smi. Così queste di Foclide: « Non dire mendacio, ma parla
sempre con verità. Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori. Non
disprezzare i poveri, nè voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tu
giudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lo
spirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie in
essa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo. » Or bene, io dico, e mi
sembra di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale e religiosa sorse e
fiori prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi mandro; perchè n'ho
prove storiche (come dirò), e per chè dalle tradizioni sacre orientali e
orfiche non si poté saltare in un subito alla materialità. Dove fiorì? Non in
Italia soltanto co ' più antichi savj della scuola ita lica, ma nell' Asia
minore altresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di
fatto, che che vo glia credersi delle tradizioni circa Pitagora e del suo
venire dall' Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane pure ne derivasse,
mostrano almeno che l'antichi tà non reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee
pitagoriche ed cleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni di spiritualità
che non i posteriori; e tal peggioramento non si può negare. Perchè dunque,
dimanderete, vien solo ricordata la scuola italica? La risposta è facile e il
caso è comune; si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò. y Ma la
scuola pitagorica o ITALIOTA, dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete,
cioè al panteismo materiale degl' Ionj? Mi sembra certo, purchè si distingua
Pitagora dal Pitagoresimo; questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una
scuola di filosofi; quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che
può essere prima o dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della
scuola nel suo nome rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son
diverse l' opinioni. Quanto a Pitagora, Meiners lo crede nato al 584 avanti
l'èra nostra; lo crede nato Lacher al 608. Come si determina ciò? Per autorità
non salde, e per vie di congetture. Talete poi, secondo Apollodoro, sa rebbe
nato il 640, anteriore perciò a Pitagora; dáta non senza incertezze. (Ritter,
St. della fil. ant.) Ma ecco il Niebuhr (St. Rom. I) che contrapponendo a
Polibio ed a Cicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile
la contemporaneità di Pitagora e di Numa; talchè andremmo più oltre che la data
di Talete. Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in ITALIA e Sicilia ZELEUCO E
CARONDA, legislatori l'uno di LOCRI e l'altro di CATANIA; e ne' frammenti di
quelle leggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa CARONDA DI LOCRI del
668; il Benteley, l'Heyne, il Saint Croix, Centofanti, del 730. Quando Pitagora
venne in Italia, in CROTONE, si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero
e di potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli: il che umanamente
non può accadere. La scuola dunque precedeva. Il personaggio di Pitagora,
l'istitutore insomma del Pitagoresimo, diventa un simbolo in gran parte; il che
dà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. Nella scuola pitagorica
è mescolanza di culto e di speculazione; e ciò indica il passaggio dall' età
teologicha (MYTHOS) alla filosofica o LAICALE (LOGOS), che in modo distinto
vengono più tardi. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola ITALIOTA,
il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione, corsero
pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un uomo,
tardi a un potente consorzio d'uomini. La storia di Pitagora, simbolico in gran
parte, ha natura di leggenda; e sogliono le leggende avvicinare tempi lontani.
Indi le confusioni dette di sopra. Nella
scuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità di
queste palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuiscono
in progresso, e appena si scorgono negl' lonj. I Pitagorici han forma di
consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta,
o signori, gl’usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichette
popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione e
l'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopre
solo differenze accidentali. Le tavole d' ERACLEA, lette dal Mazzocchi (come
accennai già), mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica
preparazione alla scienza. E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'ITALIA
recherò qui cosa che pare non fosse disputata fra' Greci, val a dire ch'essi,
come dice Taziano (Or. contra Greci) prendessero da’ TOSCANI la plastica.
Cousin dimostra con le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di
Sesto che Xenofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima
di Pitagora stando agli anni di Meiners. Ora, se la dottrina di Xenofane tenne
del Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro? Se
bisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica di
CROTONE e di VELIA vennero d'Ionia; men frechè in lonia correva un tutt'altro
pensare. Qui, prendendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima che
ne luoghi de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, come
sarebbe assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e là
non n'apparisse il focolare. Seconda, che piuttosto que' filosofi cercasser
favore in Italia, sé qui non preparato il terreno. Ma tutto si concilia, quando
il silenzio delle mete, in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il più
rinomato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse.
Dissero la scuola ionica, tacendo la scuola religiosa comune là ed a'
Magnogreci, O ITALIOTI, perchè più celebre qui; dissero i più famosi capi delle
scuole ITALIOTE, tacendo le lontane e recondite preparazioni. E ch'elle ci
fossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone di VELIA. Queste
opinioni sull'uno cominciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui. (Soffista.)
Brandis e Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innato
negl' intelletti. Al che ripugna Cousin e con ragione. Prima, qui si parla
storicamente e non teoreticamente. Poi, se volesse allu (lere a germi naturali
e senz' origine, come mai, anzi, parlerebbe Platone di cominciamento anteriore?
(te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov). De primi Pitagorici non v'è scritti;
scrissero i più vicini al tempo di Socrate; e ciò per l'uso degl'insegnamenti
orali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle dottrine religiose.
Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi orientali. Nella scuola
ionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete, scrivesse versi,
probabilmente prose (Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys.
); il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di stabilire la novità. L'uso
di non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita gorici, spiega ben anco il
perchè sembrò più recente « lella scuola ionia il pitagoresimo: più recenti
erano le scritture, non la loro filosofia. Recherò infine (lue singolari
testimonianze di Padri greci, d'Ermia verso la fine del secondo secolo, e d'
Eusebio dottissi mo ne' libri originali della greca filosofia. Ermia, dun que,
nell'opera Derisione de' filosofi gentili enumera le contrarie opinioni loro
sull'anima, sul bene, sull'immortalità, sulla divinità e sui principj del mondo;
e poichè ha.rammentato varj filosofi, viene a Pitagora e lo distingue dagli
altri così: egli d'antica nazione. Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per
antichità, è notabile assai. Eusebio, poi, più espressamente nelle Preparazioni
evangeliche dice: che Pitagora nacque a Samo O IN TOSCANA o altrove, ma non
greco, e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ITALICA di
TOSCANA (ETRURIA) E CROTONA succedette la ionica e la di VELIA. Anzi anche Flavio
rammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui, Ferecide Siro, Pitagora e
Talete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità di Niebuhr,
di Cousin, di Gioberti (nel Buono), di Poli (Appendice al Manuale del
Tennemann) e di Centofanti (Pitagora), e che non hanno in contrario argomenti
positivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi fanno sicuro
che il pitagoresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda l'altre scuole;
poi venga la di VELIA, e come più affine alla prima, e come precedente a
Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale; succeda loro l’ionica,
quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua continuazione che
s'accompagna (com' accade) con l'altre; e vengano infine, su che non ha dubbio,
le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione. vole ne SCUOLE
ITALCHE. Causa interiore del Pitagoresimo è la necessità d'una riforma morale:
da ciò l'esame di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona.
Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile, per
mezzo della filosofia. - Parti non dubbie nelle memorie degl'istituti
pitagorici. Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi. Quali documenti
abbiamo certi sulla scuola italica. - Il Carme aureo i antico.- Le notizie che
ci danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettate
con leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica, suo fine e metodo. —
Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'idee
matematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismo
matematico; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numero
rappresentava l'attinenze o l'armo. nia; indi il simbolo musicale. Due furono i
significati del numero, it simbolico ed il reale. Verità del metodo matematico;
suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto: esempi varj. – Si cercò
le leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a
Dio, causa, ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj
delle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza. -Questo è l'unità.
– L'unità bensi presa, non come parte d’un tutto, ma in senso generale. - A Dio
non si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso; Dio è sopruni
tà; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva. Si dimostra co ' do cumenti
che il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il
vero ed il falso. - L’unità, come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si
determina. — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. —
Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo, come i
contrarj in atto, e ridotti all'armonia da Dio. - L'uni tà generale o la monade
che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora
sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec. L'anima è numero, ed
è nel corpo come Dio nel mondo; è l'armonia del corpo. La verità è l'uno e il
numero; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso. — Dio, ragione
prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dio
è il numero per eccellenza, e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto alla
scienza, si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero e
armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritorno
all'essenza pri ma. --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismo
naturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle
col panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane: Dio è uno;
sommo potere; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito né
in quiete nè in moto; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulla
divenire qualcosa: Dio è il tulto. — Indi segui che il mondo è apparenza. –
l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e
condanna il secondo. Muove dall'idea generale d'essere; Dio si fa più
indefinito che in Xenofane. – Tutto è idea. Melisso fa Dio più indeterminato
ancora, chiamandolo un qualcosa. -- Gli attributi della moralità non più
appariscono. – Panteismo materiale de gl'Ionj: nasce in condizioni opportune. -
Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto, ch'è la materia
eterna divina, dotata di pensiero. – Diversità nel concepire tal moto fra '
dinamici e i meccanici. E la causa prima del moto la posero diversamente in
quella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa. – Talete ba dello
spirituale anco ra; la grossolanità materiale viene crescendo. Anassayora vide
l'assur dità del panteismo, e prese il dualismo; ma non détte troppo alla mente.
— Idealismo ateo di Protagora; materialismo di Democrito; le due forme di
scetticismo particolare. Scetticismo universale di Gorgia ec. Misticismo
d'Empedocle; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico. — Due
schiere d’uomini; gli atei e i l'itagorici di quel tempo: interpreta zione
storica, e interpretazione fisica della mitologia. Qual è mai, o signori, la
causa interna del Pitagoresimo? La necessità d'una riforma morale; necessità
profondamente sentita da uomini ornati, quanto la gentilità comporta, di grandi
virtù. Il conosci te stesso e esame di coscienza morale negli istituti
pitagorici, e fondamento altresì di speculazione; chè, nella coscienza
e'trovarono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto
crescente della religione, de costumi e della libertà, al quale s'oppone il
Pitagoresimo, e inoltre (com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commerci
d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riforma
religiosa e morale, da cui venisse la civile; e criterio a tutto ciò désse la
Scienza. Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrini
mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto (Ritter ) e
la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa si
tentò co’riti e dommi segreti; la morale con l'opporsi a tre vizi, voluttà,
superbia ed avarizia, ed esercitando anima e corpo nella musica e nella GINNASTICA;
la civile, domando la licenza con abiti disciplinati ossia con l'autorità (curos
pz) e con la vita comune. Il discepolato morale prepara così alle speculazioni,
e, preparato, s'eleva l'alunno a gradi più alti e più liberi. (Centofanti,
Pitagora; Puccini.) Circa Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella Magna
Grecia in ITALIA, poco v'ha di sicuro e con mescolanza di simboli; pare
tuttavia che un fondamento storico v’ha e ch'egli e uomo di molta dottrina e
virtù. Per la dimenticanza in che vennero le colonie di Magna Grecia in ITALIA e
tutte le antichità italiche dopo le conquiste di ROMA, e per la guerra feroce
contro i Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla; li sappiamo bensì a lor tempo
in molta riverenza. Si rammentano con più certezza LISSIDE, CLINIA, ED ARCHITA
cittadini DI TARANTO in Magna Grecia, EURITE E FILOLAO o di TARANTO o di CROTONE.
ARCHITA, il più celebre di tutti, capitana più volte gli eserciti, e non ha mai
la peggio; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso, famoso per
invenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri d'agricoltura. La
scuola pitagorica venne atrocemente perseguitata; molti fra gli scampati, o si
rifuggirono in Grecia o si sbandarono in ITALIA. Sembra che l'odio movesse da
opinioni politiche, parteggiando essi per GL’OTTIMATI; ma chi badi alla
segretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopolo
attizza le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgerà
che trattasi qui, come per Anassagora e per Socrate, del politeismo volgare
geloso e persecutore. Gli scritti col nome di TIMEO, d'ARCHITA e d'OCELLO
LUCANO sono apocrifi, e i frammenti di BRONTINO e d'EURISAMO; ma non quelli di
FILOLAO (vedili nel libro di Boecckh su FILOLAO, e Ritter); i quali col carme
aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola ITALICA, ne dánno
contezza. Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto al Carme
aureo, e's'attribuì a FILOLAO, a EPICARMO, a LISIDE, a EMPEDOCLE di Girgenti,
da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per LISIDE; e: mostra, comunque, che
ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondo
l'usanza di molti critici odierni, neghi l'autenticità pel dubbio di tre’ sole
parole, che a lui non paiono antiche; e antiche le dimostra il Mullachio. (Fragm.
Phil. Græc. Didot). Le relazioni che ci danno del pensar pitagorico gli
Alessandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione; chè in loro la critica
è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli antichi; tuttavia dire
come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli Alessandrini si descrive, non i
meriti fede per le grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negli
Psilli di Timone Fliasio che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici: « E tu, o
Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti con
gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il TIMEO. (Fragm.
Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la filosofia antica, come
la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj dell'essere, del conoscere
e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è ragione e legge, vediamo
bene da tutte le loro memorie che occupò quegl'intelletti for temente. Fine
della filosofia parve loro ed a tutti gli antichi, la liberazione degli errori
e de' mali comuni, ma con tal divario dagl'Indiani, che la speculazione dovesse
congiungersi all'operosità civile. Metodo di filosofare fu il matematico; cioè
l'applicazione d'idee matematiche alla natura universale, così esterna come
interna, e al suo principio. Onde mai tal metodo? quali cagioni gli dettero im
pulso? Già negli antichi v'ha inclinazione di filosofare a priori sul mondo
(sebbene l'esperienza, anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici), perchè
mancavano gli stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re cato
altresì nella fisica; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non si
comportavano in tempo, che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti.
Inoltre l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze più
antiche, perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali scienze s’aveva
necessità tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano terreni,
asciugano paduli, e scavano canali. Più, la discordia tra' politeisti e il mono
teismo - antico fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e di
moltiplice, come anche si scorge nel vecchio Testamento. Infine, tempo é spazio
ci danno la quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi,
lo spazio e massime il cielo (onde l'uranismo), e il tempo (onde l’Aherene de'
Persiani, il Crono de Greci, il Saturno de' Latini), talchè le tradizioni
orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a quel modo di
filosofare. I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del tre, del dieci
e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di Dio. Ma si vuol
credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni? ossia, ch'e'sti
massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più? In altre parole, il
Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico? No, sicuramente; Aristotile lo
spiega chiaro dicendo: ch'essi stimarono le cose una imitazione de'numeri
(μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet.). Imitazione, dunque; a leggi di
numero, cioè, rispondono le cose; e la mente ritrova l'une nell'altre; e in
questo è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava pe'
Pitagorici, levato il composto? Restava la monade. E che cos'era la monade?
Forse un'astratta unità, o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e di
Leucippo? No; ma l'essenza ch'è una forza: il concetto di forza o d' attività
prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Di
fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non la
continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito? Ciò resulta da molti
riscontri, ma singolarmente dallo specchio de contrarj (di cui parleremo).
Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio; causa è l'anima; e
causa d'ogni armonia è l'unità. (Frag. di FILOLAO; Siriano, Com. Met. d '
Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant.; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita) Quindi,
pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria rappresentavano
l'attinenze; cioè, significavano il rispetto d'una cosa all'altra, e d'uno
all'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale; da ciò i lor simboli
musicali. Si dica pertanto, o signori, che per la scuola italica eran due i
significati del numero; significato simbolico e reale. È significato reale
quando noi diciamo: Dio è uno e le creature sono moltiplici; e così dicevano
essi che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogni
perfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a significare gli
oggetti; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio e
le creature; così parlavano più spesso i Pitagorici. Al lora si fa come
l'algebrista un linguaggio figurativo. assai comune agli Orientali; e ciò
toglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità?
Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o
d'essenza o d'accidenti o di parti, di gradi o di potenza o di atti; e tutto,
dunque, è capace di numero e di misura. Per altro, le leggi matematiche non
hanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come
Galileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto
crescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come
dalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse
procedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere
la realtà contingente; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu
dere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali
a cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella
caduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello
vi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la
scuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche
applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita; del metodo sperimentale
di Polo ci ragguaglia Aristotile (Met.); le dottrine musicali d'allora fan
supporre molti esperimenti; Erodoto scrivche i medici italiani erano i più
reputati; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodo
astratto ebbe il diso pra. Così, rappresentando il principio, il mezzo ed il
fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa; però Filo lao divideva il mondo
in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso, perchè si compone
sommando i suoi quattro numeri primi? ebbene, dieci i pianeti. Cin que i corpi
regolari nella geometria? dunque altrettanti gli elementi, e ciascun d'essi n '
ha la figura; la terra ha il cubo, il fuoco la piramide, l'aria l'ottaedro,
l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e dunque, altresì cinque i sensi.
Se i quattro numeri primi, sommati tra loro, fanno il dieci; e se i quattro
numeri pari (2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri dispari (1, 3, 5, 7), sommati, fan
tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o quadernario dovrà riscontrarsi nelle
cose; e quattro, per esempio, sono i gradi della vita: minerale, pianta,
animale e uomo; e, ne' corpi, il punto è unità, la linea è qualità, la super
ficie è triade, il solido è quadernario, si compone, cioè. di quattro punti.
Questo metodo, applicato alle cose dell'esperienza, riuscì arbitrario non di
rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò il concetto per l'astrazione dell'
indefinito; pure, accompagnato come fu da tradizioni buone, da molte virtù
morali, da preziose osservazioni interne ed anco esterne, ed eccitando la
speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e profonde verità. Quel metodo
era (com’ac cennai): trovare le leggi mentali della quantità geome trica e
arimmetica effettuate nella realtà e salire con queste alla prima cagione, alla
prima ragione ed alla prima legge. Però dice FILOLAO che l'intendimento mate
matico è il criterio di verità. La prima cagione dell'essere, che è ella mai?
Sic come i Pitagorici voller trovare i principj delle cose e il principio de
principj, così precede il quesito: che son mai tali principj? Risponde
Aristotile: « I Pitagorici, educati nelle matematiche, dissero i numeri esser
prin cipj delle cose. » (Met.) cioè tutte le cose si ridu cono a leggi supreme
di numero, e queste leggi costi tuiscono la loro essenza. Or bene, che cos' è
la prima cagione? È il primo principio, per Filolao; è la causa che antecede
ogni altra causa, per Archita: « quam Are chytas causam ante causam esse
dicebat, Philolaus rero omnium principium esse affirmabat. » (Siriano, alla
Met. Storia della Filosofi. - 1. 18 l'
Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il primo principio è
tale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme aureo (Fragm. Phil.
Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero? Il numero per
eccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza? Vediamolo. Il moltiplice fa
supporre l’unità; e l'unità n'è sem pre il principio; così abbiamo solido,
superficie, linea, punto; questo è il principio della linea, della superficie e
del solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il numero per
eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza. (Aless. Afrod. Comm. alla Met. d '
Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza. L'unità,
idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità, e quale
idea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è compo sto
d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto. Diciamo
ancora: una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione; ecco l'unità gene
rica che abbraccia ogni numero, considerato come unità. Nel primo caso, l'unità
è l'elemento della pluralità; nel secondo, è la forma mentale che fa capaci di
compren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in tal senso
l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia ogni
numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne'
detti significati? No; Dio non è il compo nente della moltiplicità; nè Dio è un
che generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dir
così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali della
Trinità son soprannumero. (S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare il
moltiplice, nulla più; e chi confonde l'analogia di tali concetti col
significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofia
e la teologia. Si domanda, per tanto: la scuola pitagorica usò que' concetti
nel signi ficato vero? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui è
imperatore sommo e duce, uno, eterno, permanente, immobile, simile a sè stesso,
diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che solo conosce l'essenza
eterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una e
singolare causa, astratta « la tutte le cose, e superiore alla dualità de'
principi, la quale vedremo più qua: « Ante duo principia unam et singulam
causam, et ab omni abstractam præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de'
Pitagorici sia nel senso buono? Bertini interpreta più benignamente che si può
certe opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare; e tuttavia
conclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto
al disopra del mondo; ma il fato della logica li forzava sovente ad
immedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole
dir mai fato della logica? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati
certi principj. Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo,
non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza? Era, appunto, il
concepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza; e questo in
grazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari,
e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la
scuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di
tutte le cose (Arist. Met. I ); l'essenza delle cose chiamata eterna (la FILOLAO;
che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia,
e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio; aggiunse, che tal numero è
legame all'eterna durata del mondo; anzi (e questo val più ), esso legame
produce sè stesso. (V.framm. i FILOLAO nel Ritter. St. della Fil. ant.)
Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTES
PITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unità
generica, in cui s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari e
dispari, femmina e maschio, male e bene, e via discorrendo; contrarj che si
distinguono attualmente quando il potenziale viene all'atto, e l'illimitato si
limita, e l'essenza universale (conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) si
determina mano a mano ne' fenomeni. Dubitò il dotto Bertini che s'intendesse
da' Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare che
Dio la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e '
tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo. Di
fatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari ed
impari; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, e
però non si contengono in Dio. Si risponderà: noi n'abbiamo un'idea più chiara.
Va bene; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universo
infinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinito
lo pigliavano per l'inde finito o potenziale; e quindi, il finito sembrò a loro
il perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio delle
contrarietà in dieci antitesi (dispari e pari, finito e infinito, uno e più,
quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ), fatto da qualche Pitagorico;
e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. (Arist.
Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre, come il mondo era la decade, cioè la pienezza
d'ogni grado d ' entità, e così Dio; che riceveva nome d'ogni numero, unità,
diade, triade, quadernario (o solido), set tenario, decade. Dimodochè pe
Pitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ), il
quesito della causa pri venne a quest' altro: Come si limiti 1 illimitato;
ossia, pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse nel
determinare in atto la potenzialità prec sistente: talchè Filolao pone tre
principj, l’illimitato. il confine, e la causa (το απειρων, το πέρας, το αίτιον
). Il che parve in due modi: i Pitagorici, com’i pan teisti ionj e indiani,
dissero che quel potenziale sta in Dio; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, ed
è la mate ria informata da esso. Nella scuola italica, poi, la im plicitezza
de' concetti adombrò alte verità; Dio (per ma esempio), legame del tempo e
dello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza, vuol dire
benissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser vatore fa
l’unione del moltiplice disgregato: però Dio è l'armonia dell'armonie. Che
cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti i contrarj. Che
cos'è l'universo? I con trarj in atto, e ridotti da Dio all'armonia. Come
l'unità generica non diviene numero se non si distingua in unità determinate o
particolari, così la monade suprema non genera il mondo se non si distingua in
monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori, a formare il numero?
L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la distinzione, considerata
mentalmente, non è forse un concetto negativo e indeterminato, dacchè si
gnifichi che l'una cosa non è l ' altra? Or bene; e pen savano essi che a
formare l'universo ci voglia le unità o monadi particolari, poi la loro
distinzione; ossia, come (lice Aristotile, elementi positivi da un lato,
elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere d'elementi si fa tempo e
spazio; nel tempoi momenti e la distinzione di un momento dall'altro, cioè
gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione d’un punto dall'altro cioè
il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione del vuoto; ossia
distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria ne’polmoni. I due
elementi, il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno la diade o il pari;
l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al numero pari (per
esempio il tre), fa il dispari. Ed ecco, o signori, l' unità nell'altro senso
ch'io spiegava di sopra, cioè nel senso non generico ma particolare di compo
nente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio; le unità nel senso
particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si diceva da’ Pitagorici che
il pari è illimitato, illimitato perchè il vuoto e l'intervallo (o la
negazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere distinzione da' punti
e da’ momenti all' indefinito. Si diceva per contrapposto che il dispari è
limitato, giacchè chiude l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o
tra due monadi, riduce in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto
che ha principio, mezzo e fine. Voi capite, o signori, come per la teorica
de’toni e degl' intervalli si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il
quale, venendo dall'essenzá eterna come necessario svolgimento d'attività, non
ha reale comin ciamento, è ab eterno; comincia sì, ma quant' al nostro pensiero
(-o iniyocav), ossia il pensiero nol può con cepire altrimenti. Nè s'avvidero
essi che se il pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op
posto è irrazionale. Che cos'è l'uomo nell'universo? Un'anima razionale che sta
nel corpo come in u sepolcro, dice FILOLAO. L'anima è numero e armonia (Plut.
De plac. phil. IV, 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpo
e n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la
sentenza che l ' ani ma è armonia, combatte i materialisti che ponevano l'anima
com'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, a
mo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'ani
ma è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico; ma ne’
Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che come
Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na (V.
Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delle
emanazioni tutte, il corpo. Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione som
må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità, così la verità è
l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia; talchè come il numero fa la
misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno all'altro,
così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie degli enti e
con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi? Il simile col simile; però
distinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due parti (Cic.
Tusc. IV, 5 ); l'intelletto è divino e si conosce per esso (benchè in modo
relativo, dice Filolao) la divinità della natura; il senso è terrestre, e si
conosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del
conoscimento è dunque Dio; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la
ragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti, ma perche Dio è
numero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall'
intelletto. (V. il Cou sin e lo Stalbaum, ambedue nel commento al TIMEO) Però,
avvertite, o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia
vero concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò che
conosciamo. Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò
dev'essere ed accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista; si
credè di trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, come
le pro prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità
razionale (eccetto la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e
le matematiche) sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sità
un altro per attinenza; ad esempio, data la per cezione, non può non essere il
corpo, o data la volontà negli uomini che son razionali, non può non essere la
libertà. L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni da
un'idea, anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e non
altro; o anco è sola contingenza. (V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sono
numero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed
armonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. (Arist. Met. I.) Il bene è
misura, il male è dismisura: da ciò quel detto pitagorico: « La misura è
ottima, pétpov Žpustov. » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per
eccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per
armonie matematiche e musicali, così la volontà; e indi nasce la virtù, ch'è
numero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti (Carme aureo,
57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città.. (Fragm.di
LUCIANO OCELLO ) Allora l'anima si va conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos to
delov ); la disforme da Dio passa in corpi diversi con la metempsicosi od è
punita nel Tartaro; la conforme a Dio ritorna nell'essenza ond'ella emanò. »
Sarai, dice il Carme aureo, un Dio immorta le, incorrotto, non sottoposto a
morte (v. 71: ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ έτι θνητος). Signori, chi non
mirerà, in mezzo a quell'ombre, la luce di sì alte dot trine? Ma, tralignando i
tempi, la filosofia traligno. Il sistema pitagorico è, quant'a'principj, un
pantei smo naturale; perchè l'unità per eccellenza vi comprende lo spirito e la
materia, distinti poi come tutte l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare
il Pitagoresimo alla contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad
dizioni? Dicendo che non conosciamo l'essenza in modo diretto: quasichè importi
tal conoscenza per escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la
contrad. dizione, escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento, e
così creò un panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G.
Cri. sto, venne assai tardi a VELIA città di Magna Grecia. L'idealismo suo
nasceva prima di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più
cagioni; pri ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo
naturale; poi, perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora
pendevano i Dorj non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea);
scetticismo voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofone
anch'esso, e in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico,
benchè com prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali, però Xeno fane,
vissuto a lungo in Ionia, venuto poi in Italia, mostra nell'ontologia
l'idealismo italico, ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse in
versi, e ne resta frammenti, da cui, com'anche da Platone e da Aristotile, si
rileva le sue opinioni. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per le
invasioni Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in VELIA; e visse più che
centenne. (Censorino.) Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, non
simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re. Ma si deve, o
signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio è
uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente;
però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio, Xenofane la provò benissimo
per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, che
per la scuola italica l'unità o la monade o l'entità (vocaboli equivalenti) è
forza, è un'energia. Ciò pure affermò Xenofane; e però Dio, ch'è l'ente, è
sommo po tere (20 % TELY ): quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimo
per l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo per
l'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva
com’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero di
segnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto;
che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità?
In che senso la nega egli Xenofane, e contro chi? Nel senso d'illimitato o
indefinito che si determina con atti successivi; contro i Pitagorici pe' quali
Dio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta
perennemente, benchè immutato nell'essenza: for s'anche, dove Xenofane accenna
il moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo
ste all'ITALICHE più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le
contrarietà fra cui Aristotile notò (come vedemmo) il moto e la quiete,
ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito
(indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra
verità, in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore?
No; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso
nell'applicazione: Dio non può nascere. Va bene; ma per chè? udiamolo, signori;
il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, MELISSO e GORGIA, attribuito ad
Aristo tile, non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adunque: Dio non
può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulla
divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere; ma il
non ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente; che può non
essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente.
Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente in
significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla; ma ciò
che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che ne
conchiudeva Xenofane? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà pure
causalità nessuna; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile. (ch'è
dun que il resto? o quel che ci pare in continua mutazione? Fenomeno,
apparenza, illusione, e nulla più; talchè la fisica che si fa con l'apparenze è
illusoria, non è scien za. Però egli disse in un verso: « Queste cose (del
mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. (Plut.
Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio ne'
Psilli. (Fragm. Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto concetto:
che Dio o l'ente è tutto, o intero. (Fragm. di Xenoph.) Che vuol egli dire?
Cerchiamolo. Che idea vi dà, o signori, l'infinità? Certo, pienezza d'es sere,
cioè che ivi non ha mancamento. Ma tal pienezza significa forse il tutto? No,
chè tutto è idea relativa: tutto, implica parti; e quindi ogni tutto può essere
più o meno, come numero ch'egli è; nè numero assoluto si dà; mentre assoluto è
l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il mondo com'un tutto e
confonde l'infinità (come pienezza d'essere) con l'universo. Così accadde agli
Eleati; e però Aristotile scriveva di Xeno fane: « Contemplando egli il tutto
del mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente e
il tutto (ey to y uzi có Tiv). Che si concludeva mai da questo? Poichè al tutto
non manca nulla, e l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbe
aggiun gimento: quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza creatrice
aggiungasi all'infinità. E però vedete, che dove gli Eleati pareva negassero l
' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio; perchè si piglia Dio
com'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta da sapere
che foss'egli per Xenofane l'ente o Dio. È ragione assoluta, intelletto
essenziale. (Fragm. di Xenoph.) Che v'ha dunque più di pitagorico negli Eleati?
Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale, divina ed
immutabile; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si continuò in PARMENIDE,
e ZENONE. Di PARMENIDE di VELIA dice Plutarco (Adv. Colot.) che détte alla
patria leggi avute in grande amore. Zenone di VELIA, scolare di Parmenide, amo
di cuore la patria, e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne da uomo
il supplizio: Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì PARMENIDE DI
VELIA, fu uomo di Stato, e capitano gl'ITALIOTI contro Pericle. Questi gli
Eleati (VELINI) più famosi. L'opinioni di PARMENIDE vi son date assai chiare
ne' frammenti del suo poema. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) E che si trova in
quelli fin da principio? I due aspetti, già separati da Xenofane: l'ente, che
unico è; e il non ente o l'apparenza, che non è: non è, o signori, in modo
assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scrive PARMENIDE,
di filosofare: 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70 ury; vedi anche
il Parm. di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma l'ente e si nega
il non ente o l'apparenza; o, al contrario, porre che l'ente non è c che sia di
necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive così la via degli
Eleati o VELINI da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si fermavano
a considerare il moto delle cose. Ebbene, che concetti ha egli Parmenide
allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è? Gli stessi di Xenofane:
l'ente è conosci bile con la sola ragione, ingenito, non mobile, tutto (cudow )
unigeno, eterno; non fu nè sarà, perchè ora è tutto insieme; non può esser nato,
perch'è assurdo che l'ente non sia; non divisibile, somigliante a sè stesso
intera mente, riempie ogni cosa; la dura necessità (dir.n ) lo stringe in
vincoli (ossia egli è necessario; necessità di Dio trasferita da' panteisti al
mondo ed alla volontà uma na ); egli non è infinito (atedrventov ), non bisogna
di nulla, ed è lo stesso il pensare e ciò che si pensa. (Framm. e segnatamente
v. 66-94.) In che PARMENIDE differì da Xenofane? Quegli ha forma più
scientifica di speculare, perchè comincia dall'idea universale dell'essere, e
la contrappone al non essere. (Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi che
Parmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella severità dialettica, così nella
perfezione dell'idea ili Dio? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio,
ragione pura, santità essenziale e provvidenza, lo sco lare poi con un vizio
più rilevato d'induzione si fermò al concetto dell'essere generale, nè
v'apparisce punto la personalità divina: sicchè Parmenide non avversa come
Xenofane la mitologia, anzi l'accetta qual credenza po polare. In man di lui,
perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E questa idealità condusse PARMENIDE
(sembra un paradosso ), come anco Xenofane alla confusione lel senso e
dell'intelletto. Quanto a Xenofane apparisce da un verso di lui in Sesto
Empirico; e quanto a PARMENIDE, lo notò espresso Aristotile (ppovaly usy tér vistn512).
Mentrechè il sensista dice: la sensazione è idea e tutto: l'idealista dice:
l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge contraddizione nuova: se intelligenza e
senso son tut t'uno, come potrà egli il senso darci l'illusione? Ep pure, ZENONE
DI VELIA non pare ch'altro volesse co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare:
com’abbandonandoci all'apparenze del moto e del moltiplice, cadiamo sem pre in
contraddizioni. E la parte negativa di tal sistema s'accrebbe in Melisso che (notate,
o signori) muove dal l'ente indeterminato come PARMENIDE, ma lo significa in
modo più indeterminato ancora, chiamandolo un qual cosa. (V. Fragm. Phil. Græc.
Didot; De Xenophau Melisso et Gorgia; Arist. de Soph. Elenchis, e Plat.
Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che Dio è infinito,
negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio nè fine. (Fragm.
2. ) E ciò va bene; ma pare che qui terminasse l'infinità nel concetto di
Melisso; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta d'entità, e pero dotato
d'efficienza crea trice e pensiero puro; anzi l' indeterminatezza di quel
l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto e della bontà di Dio, e
l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. (Ritter, Bertini.) Così
da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da ' Pitagorici di CROTONE agli
Eleati o VELINI Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo a
conciliare i contrari, e Aristotile fa inventore di quella ZENONE DI VELIA, che
si sa da Diogene Laerzio aver composto dialoghi. Se la scuola pitagorica
seguitò, ma con forme più filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità,
gli Eleati ne presero la parte ideale; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è
perciò la setta men filosofica. In che ci viltà? Tra'costumi voluttuosi della
Ionia, e in quelle città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de
Persiani. E se voi mi domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero
professati? Rispondo, che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati
a Mileto nel l'Asia minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa
nulla; o sappiamo d' Eraclito ch'era superbo, duro e solitario. Di Talete
stesso, bench’ Erodoto ricordi un consiglio di lui agl' Ionj, Platone (Teetete)
dice ch' ei s'astenne da' pubblici negozj. Qual diversità dalla storia de
Pitagorici ! non ci meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. (Fragm.
Philos. Græc. Didot, 1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso
luto. E che cos'è l'assoluto? La materia del mondo. unica entità, eterna,
divina, dotata di pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè
Anassagora, ebber ciò di comune; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286
PARTE PRIMA. liani materiali che succedettero agl' ideali. Ma gl' Ionj
diversificarono tra loro nel concepire il moto dell'uni verso; chi, come Talete
e Anassimene, Diogene d'Apollonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico; chi,
come Anassimandro e Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario:
cercaron tutti la prima cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si fa
con isvolgi mento di forze vive, come gli animali e le piante; pe’miec canici
la produzione non ha se non forme apparenti. mutandosi solo le particelle
inerti come ne’minerali. La dottrina vera comprende le due opinioni; perchè la
cau salità modale trae sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica );
benchè quest'atto poi non ci dia sempre una specie o un individuo, come nella
generazione degli animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. A
ogni modo, tal dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice; e
gl’lonj, negando che dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità che
non operi sopr'un soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità non
può dirsi assoluta, ma condizionata. Questo in genere; venendo poi a
specificare la causa prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altra
cosa che più parve trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo i
dinamici, o quasi elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua,
Anassi mandro in una natura media (udtaču puçev ), e però lo chiama principio
(apua), Anassimene nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria.
Ma, badate, o si gnori, nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, son
proprio ciò che ne vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato in
cose visibili secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità,
come l'acqua che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tutto
vivifica e distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male in
peggio. Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale; però dice
che tutto è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo CICERONE (Quest.
Tusc.), professa l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confuso
ed implicato: vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica più
antica, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed
agl' Italioti; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla
natura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin
cipio, in cui tutto ritorna è infinito, perchè l'origine o il cominciare non
termina mai (tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov. Fragm. Phil. Græc.; Didot);
però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da'
pesci. Anassimene seguitò quella via; nè altrimenti Eraclito, benchè questi,
che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX, e Clem. Alex. Strom. I ), désse
alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si
discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla
ragione prima. Qual è la ragione del conoscere? questa, che il principio
conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose
conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale
gl'Ionj ne parlassero poco; e ciò sta col materialismo loro; Eraclito bensì
pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della
patria; Achelao nega ogni legge necessaria; e il giusto e l'ingiusto fa nascere
dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchè
materiale e salvo poche verità, una fisica buona. All'assurdità del panteismo
volle rimediare Anassagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra,
però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice; sicchè s'apprese
al dualismo; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al tri
Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina in
ordinare, il mondo. (Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava: Tutte le cose
erano insieme; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert.) E così
distinse Dio, o la mente (vojv), dalla natura; e questa pose in particelle
simili, omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o
che rice von poi di mano in mano (2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in
parte lo seguì, ma peggiorando; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi
ordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta
bili ordinatrice la mente; ma questa non va esente di materialità (Fragm. Phil.
Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori,
alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo? La negazione
degli scettici, particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte
l'opinioni de' Pitagorici e di VELIA, ben chè non anco terminate (come va
sempre), e già comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un
tempo le sette degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da
Protagora (di cui nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone );
colui, non si sa quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra. Il
principio d’un suo libro cominciava: Degli dèi non so nulla; e Timone Fliasio
scrive, che Protagora quantun que dicesse ignorarli, osservò la legge ossia le
cerimo nie legali (Fragm. Phil. Græc.): nella osservanza della legge i sotisti
posero moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj: tutto si muta; e
con gli Eleati: tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra; perchè
se nulla r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza. Vedete, o signori,
come l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni
già dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò: se tutto muta,
nulla è in sè stesso; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera; vere
l'apparenze contrarie, veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si
pensa, e l'anima è la somma dei diversi pensieri (Condillac, Kant), e il fine
del discorso sta nel produrre l'appa renza: qui è il sostanziale dell'arte
sofistica. Che vi pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi: tutto è vero quel
che si pensa? Quasi contemporaneo, ma un po'dopo è Democrito d'Abdera, nato per
Apollonio il 460, e per Trasillo il 470; talchè, se fiorito con Protagora il
444. ciò sarebbe avanti a' 16 od a'26 anni; impossibile il primo caso, non
verosimile il secondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi.
Sa degl'Ionj, perchè materialista, tiene bensì degli Eleati, perchè muove dal
concetto dell'ente; e dice: unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel
seno; dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono le
qualità; e poiche il simile si conosce col simile (τα όμοια ομοιών είναι
apestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengono
le figurette o immaginette dei corpi; rozza fantasia che male s'attribui ad
Aristotile. E Dio che cosa è per Democrito? Compiacendo alle plebi, egli finse
dèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte; vero ateismo. (Fragm. Phil.
Græc. Di dot.) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500; ma poichè
il materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in tal
maniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò allo
scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse: affermò che tutto si
muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entità
delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza; chi giunse a tal
punto, risoluta mente, espressamente, e GORGIA DI LEONZIO (V. Dial. di Platone
col nome di lui, e altri dialoghi); perchè scrisse un libro sul non ente, cioè
sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può conoscersi o se si
conosce non può significarsi. Con Protagora e GORGIA v ' ha una schiera che la
Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e simiglianti. Chi erano
costo ro? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In che ci viltà vennero? In
età di corruzione. Che frutto recarono? Dicon gli antichi: pessimo nell'arte,
nella scienza e nel l'educazione della gioventù; benchè, come si vedrà, fossero
occasione di qualche miglioramento. Ma ecco fiorire verso que' tempi (V. Tavole
del Storia della Filosofia. - I. 19 Krug) un uomo che vuol riparare a tanta
dubbietà. Chi? Empedocle di GIRGENTI. Con che? col misticismo a cui s'ac
compagna (come accade sulla fine dei sistemi) un fare d'ecclettico. (Fragm.
Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema (népe ouro ) e da' detti d'
Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema d'Empedocle non è già fisico
solamente; Dio per lui è mente santa incor porea: e nè un pretto dualismo,
perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o fisiche: e nè un pretto pan
teismo, perchè si distingue la mente divina e gli atomi: che cos'è dunque?
Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade agli ecclettici; e così
di lui pensa rono gli antichi: alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico,
Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo, con Democrito e con
Anassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empe
docle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste da
sacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi; egli pone la mente, umana
in parte ed in parte divina; quella c' illude, questa (come dice il Ritter) dà
un santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal è
l'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grande
stima Empedocle; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco.
Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti;
onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia. Così terminò quest'epoca, ed
ebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era il
piacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora;
Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggior
parte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia: gli
dèi furono uomini indiati, non altro. La scuola fisica poi degl'Ionj, più
tralignati, la interpretò fisicamente: gli dèi son le forze uniche della natura
EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE. Moltitudine
di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al
quarto secolo dell'era stessa, sullo spartimento delle quali non sono chiari
gli storici. Criterio per la distinzione del. l'epoche, e quindi per
l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio, le dette scuole si
spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue; 1º negli eruditi;
2 ' negli scettici; 3 ne ' sistemi grecoasiatici: tutti formano la fine
dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori. La seconda
classe, o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė, cioè l'epoca quarta. È
un'epoca nuova, per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi di
Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura e
la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta la
mente in fatti gravi e giornalieri. Allora può la riflessione volgersi alla
coscienza e contemplarvi l'uomo, – Il pensiero de ' Romani si distese
all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italiani
merce i Romani. Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano in
Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica. I germi antichi di
questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma la
filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca, declinando,
avea lasciato salve ben poche verità, e perché Roma cadde in servitù. Cicerone
e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina. Cice rone
si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile'
sistemi greci, di comporle in ordine chiaro, d'applicurle praticamente, e che
se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu
copiatore de ' Greci, ma pensò di suo. Non pare da distinguere i suoi libri (com
' alcuno pensa) in popolari e dottrinali. Libri logici, fisici e morali.
Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia: la
coscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri
criterj secondari, tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella si
manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a
’ Platonici, a' Peripatetici, agli Stoici, agli Accademici: rigettato
assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico, ma per un
ordine di principj; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi; e
da tale studio inferi tre verità, che gli furono regolatrici: 1º che l'uomo sta
sopr' all ' altre cose; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al
corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio. Talche delini
la filosofia: scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste (off.):
l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che.
Va seguito i principj spontanei, naturali, universali della ragione: ecco
l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi, ei potè co gliere
poche verità; queste affermò, nel resto sospende il giudizio. Esem pio, il
finale de natura Deorum. Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla
legge e sulla libertà; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina
e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre; ossia, egli è certo su'prin cipj
e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per cezioni
esteriori. Dualismo. — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica
dell'operare bellissima; legge naturale, eterna; Dio n'è la fonte; re. -. chi
non ammette Dio, non può ammettere la legge. — Il dovere. Gradi degli officj.
Quel ch'è giusto in sè stesso. Utile apparente, e utile vero; questo è
conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale;
Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone.
Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi greco-latini
– LATINO – ROMANO. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare
fino al quarto secolo dell' era stessa, troviamo una moltitudine di scuole, lo
spartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici. Taluno le piglia
tutte insieme (e vi comprende gli Alessandrini) come una sequela de sistemi greci
anteriori; e così non pone ad esse un'epoca distinta. E per fermo se tutte le
dette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi,
mancherebbe la ragione del porle da sè, o del farne più classi. La ragione
d'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta,
da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento
di essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire.
Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e
potente: la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più.
Applicando tal criterio all' età sovraccennata, par chiaro che i sistemi vi si
distinguano in due parti; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella
greca e come termine di essa; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità
sue proprie, o un'epoca quarta, benchè i siste mi dell'epoca terza la
precedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano: tanto è vero che la sola
divisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca
greca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un
lato v'ha le scuole di pretta erudizione; le quali non iscopersero nulla, nè
rinnovarono nulla; gli Stoici eruditi; i Platonici eruditi, com’Areio Didimo,
Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro; i Peripatetici eruditi o
commentatori d'Aristotile, come Alessandro d'Afrodisio; i Medici, eruditi
anch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo
scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano
a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la
causalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causare
nol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa
spiegarlo. Da un terzo lato ancora, mescolati i Greci con gli Asiatici per le
conquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di ROMA vediamo un
congiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la
setta degl’Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il
panteismo asiatico, già cominciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio
Tianeo e in Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi,
benchè distinti dalla scuola d'Alessandria (e fa male chi li confonde), in
sostanza cominciaron l'avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento.
Gl’Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova? No,
perchè i metodi sono affatto dell'età socratica, e i principj gli stessi. Lo
scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo.
L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma
scientificamente non è. Proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio,
non già da'me todi scienziali; piacque la misticità orientale, richiesta già
dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gl’alessandrini facciano un'età da sè;
ma più attenta consi derazione m'hacondotto ad altro parere. La seconda parte
sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o LATINA O ROMANA. Introdotte le
scuole di Grecia in ROMA comincia ivi un ordine proprio di concetti per
efficacia delle tradizioni ITALICHE e per la civiltà di ROMA. Talchè, ripeto,
avvi un'epoca quarta, o de sistemi LATINI ROMANI; nuova per le riforme tentate
da CICERONE e per la novità dei iureconsulti, che hanno efficacia sì viva e
universale nella civiltà europea; e anco perchè CICERONE serve più che i greci
alla filosofia cristiana de' padri latini e dei dottori, i quali per via di lui,
piucchè in modo immediato, sanno l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio
generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla;
degli scettici dissi già nel passato. De'sistemi grecorientali poi si dee
trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana, perch' essi combatterono la
sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de'
sistemi LATINI ROMANI, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che
in ROMA a nascesse tardi la filosofia. Nasce quando la riflessione si volge
alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'ideale
universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto. Ma quando un popolo,
come IL ROMANO, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o a
guerre esteriori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolari
di guerra e d'illustri memorie (come gli accenna LIVIO. Ma non si possono dare
filosofia. In que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura
dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fa il filosofo. Indi la
rozzezza de’ROMANI, talchè narra LIVIO, che lo storico più antico e FABIO
PITTORE a' tempi d'Annibale. Ma quando ROMA ha esteso la dominazione a tutta
Italia e oltre, allora IL ROMANO non vide più solo innanzi a sè le contese de'
vicini, e le contese del foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande
nazione e il genere umano. Così l'idea di ROMA si appresenta in relazione con
tutta l'Italia e l’Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' ROMANI si
dilata. Si allarga fuori del cerchio de' fatti particolari. Il quirita si sente
più chiaramente e figlio di ROMA, e italiano, e uomo, tanto più che a poco a
poco LA CITTADINANZA ROMANA si estese a tutta Italia. A’tempi di Storia della
Filosofia. – 1. e alle 24 2 as 2 CICERONE non rimane quasi più possedimento in
ITALIA non assegnato a'cittadini per via di colonie; il qual fatto, unito
all'altro che già notai de’ primitivi abitatori ricaccianti le colonie greche,
spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i
pochi Greci di PUGLIA non sono gl’antichi), non già ellenici come in Grecia
moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie di ROMA, aiutate
dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formano così l'unità naturale,
o la consanguinità della nostra nazione; nazionalità naturale determinata
da'naturali confini del nostro paese, e che si manifesta nell'unità formale de
dialetti, o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la
politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre; ma lasciando
a’municipj un'im magine di ROMA, consoli, senato e popolo com'a FIRENZE (Malespini
e Villani), e concedendo a que municipj amministrazione lor propria; indi
vennero i nostri comuni del medio evo. Roma e l'ITALIA, considerate in
relazione col mondo, formarono nelle menti romane com'un archetipo di perfezione.
Il vecchio PLINIO (giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia. Omnium terrarum
alumna et parens, omnium terrarum electa; una cunctarum gentium in toto orbe
patria. E VIRGILIO, lodando magnificamente l'ITALIA nel secondo delle Georgiche,
non si ristringe a Roma, e dice. Hæc genus acre virumi, Marsos pubemque
Sabellam Adsuetumque malo Ligurem, Volcosque verutos Extulite.” E Virgilio finisce
con quell'alte parole. “Salve, magna parens, Saturnia tellus Magna virum.” Giunto
un popolo a questa larghezza di sentimento e di riflessione, possiede
l'idealità necessaria per la filosofia. Non lo stringono più le necessità
de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze, considera la natura
dell'uomo e delle cose. Questo svolgimento di coscienza per la riflessione
venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'ITALIA. Qui, più
ch'altrove nell'antichità, e sacro il connubio; e gli affetti di famiglia
v’ebbero consistenza per molti secoli. La stessa mitologia nostra, come dice
Polibio, rigetta le nefandezze de' simboli elleni. Or bene, gli affetti di
famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità suprema della
legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se VIRGILIO, benchè imiti
Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti che governano il poema;
ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una disposizione di
provvidenza rispetto a’ Romani; poi, nel concetto di patria ch' è Roma; in
quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto, come la Grecia ), cioè di
tutte le genti italiane, non solo consanguinee (schiatta italica), ma dimoranti
pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da ROMA (nazionalità
politica): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal principio alla
fine; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli affetti, con la quale
il poeta mantovano prepara la poesia cristiana. Sicché, quand' io leggo in
alcuni libri ch'a Virgilio manca un'idealità propria, prego da Dio la fine di
certe passioni che impediscono la equità de' giudizj. Però, mentre allargavasi
il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà; le quali, per altro,
s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente romana che ch'ella fosse
e in qualunque modo si ragunasse da prima, certo è, che s'ella fu rozza per le
necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra popoli molto civili; ebbe
accanto la Magna Grecia e l'ETRURIA, e le tante città de’ SABINI e del LAZIO.
Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili anco tra popoli rozzi? NUMA
vien detto alunno di Pitagora; ' e l'anteriorità di quello è spiegata
dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai, Dice CICERONE. “Romuli
autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis fuisse cernimus.” (De rep.):
e Agostino scrive nella “Città di Dio” che Romolo e venuto non “redibus atque
indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis.” Plinio cita le belle
pitture d'Ardea più antiche di Roma. I Romani predarono dalla sola Volsinia
2,000 statue. Bolsena in Fenicio significa città degli Artisti (Cantù, St. Univ.)
Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi de cemvirali si prendessero di
Grecia (tradizione falsa per le leggi che s'attengono a' costumi di Roma, vera
probabilmente quant'al modo d'ordinarle ), e se aggiungo altresì la perfezione
che graduatamente il gius positivo ha dal gius onorario, mi capacito che nel
seno di ROMA cresce un germe di civiltà e però di filosofia, da venire a compimento,
quando se ne offerisse la occasione. E questa occasione, testimonio la storia, è
sempre qualcosa d' esterno. L'occasione a Romani venne da Greci conquistati. Ed
ha il proprio segnale nell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene
babilonese. CATONE si sforza di cacciare le sette greche. Invano, il terreno
era preparato. E la pianta fiorisce. Ben è vero che la speculazione puramente
filosofica non dura a lungo, ma prosegue a fecondare il diritto. E la qual
brevità ha due cagioni principali. I sistemi greci, che aveano menato tant'
oltre la FORMA LOGICALE della filosofia, quant'alla MATERIA poi l'aveano
lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo; talchè si richiede uno sforzo più
che umano a rilevarla: poche verità si conservavano intatte da ordirvi la
scienza. Quindi, o rimane solo a far opera d'eruditi e d'accozzatori, come gli
ecclettici d'allora; o bisognara trar fuori quel poco di certo, che non da
soggetto a copiose speculazioni. In secondo luogo, allorchè ROMA venn'a
maturità di pensiero, cadde in servitù che isterili la letteratura e la
scienza. Quindi, i sistemi latini ROMANI si riducono il più alla filosofia di CICERONE,
e alle scuole de' Giureconsulti. I filosofi anteriori a CICERONE seguirono i
Greci pressochè interamente. LUCREZIO ripette quasi le dottrine del Giardino;
ma nondimeno LUCREZIO mostra la coscienza di romano, allorchè, facendo
materiale l'anima, pur conta fra gl’elementi costitutivi di essa un elemento
innominato, quasi animo dell'anima. “Nobilis illa vis, initum motus ab se que
dividit ollis, Sensifer unde oritur primum per viscera motus.” (De Nat.). E, quando
stabilì negl’elementi un moto spontaneo per ispiegare la libertà E quando
celebra la divinità della natura con versi stupendi e la santità del matrimonio.
SENECA non si parte dal PORTICO, benchè fa professione di non ispregiare
nessuna scuola. ANTONINO, com’Epitetto, ha lasciato aurei precetti, ma senza
ordinamento di scienza. CICERONE, al contrario, istitue speculazioni proprie,
che certo hanno forza nell'universalità de' Romani culti e nella
giurisprudenza. Io dunque parlo di CICERONE e de' Giureconsulti. Fin d'ora io
dico che CICERONE si propone di sceverare (con un principio superiore) le parti
vere e certe de sistemi greci dalle false od incerte, di comporle in ordine
chiaro, d'applicarle alla vita privata, e ch'elle confere all'eloquenza. Questa
filosofia di CICERONE suol chiamarsi ecclettica; e chi la intenda per metodo
compositivo e logicamente ordinato, passi. Ma dice male chi la pigliasse per
una scelta a caso, senz’un principio interiore e ordinatore. Nessuno puo negare
che ciò distingua le speculazioni di Tullio dall' ecclettismo de' Greci
mentovati poco fa, i quali ragunavano nella memoria, ma non componevano nel
pensiero; e lè distingue pure da’migliori sistemi dell'epoca antecedente,
perchè CICERONE li giudica con libertà e li trasceglie. Nè si può mettere in
dubbio l'efficacia di CICERONE – non MARC’ANTONIO, chi lo assassina -- su'secoli
avvenire. I Padri e i Dottori lo studiarono molto; e Agostino, da uomo grande
che riconosce il vero ed il bene onde che venga, scrive nelle Confessioni. Hic
liber -- cioè la lettura dell'Or tension -- mutuvit affectum meum, et ad te ipsum, Domine,
mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia.” Pare che CICERONE
trade la schiatta da quel Tullo Azio, che regna gloriosamente su’ Volsci (Plut.
in Cic.). E quegli se lo tene per certo, sicchè dice ne' libri Tuscolani, che
Ferecide era antico -- fuit cnim meo regnante gentili: indi la smania di
comparire tra gli otti mati. Lasciate le scuole, udì Filone accademico; ma
insieme pratica Mucio, personaggio assai versato nella politica, e principale
tra’senatori, imparando da lui scienza di leggi; e milita con SILLA tra’ Marsi (Plut.).
Sente anche Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene segue Antioco accademico,
e non trascura Zenone all’Orto. Anda poi in Asia, e si ferma a Rodi, per esser
ammaestrato dallo stoico Posidonio. Favella con tal passione e con voce si
concitata, che gli reca danno alla salute. In Sicilia e pretore giusto, umano,
amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, CATONE stesso chiama Cicerone padre
della patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di CLODIO, vi
rientra poi come in trionfo. Gli furon trionfo tutte le vie d'Italia, per le
quali CICERONE passa. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria di
GIULIO CESARE e la tirannia di MARC’ANTONIO. MARC’ANTONIO lo manda a trucidare,
e Cicerone porse il collo alla spada (Plut.) Ama la famiglia con tenerezza.
Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Come
CICERONE intende la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a
Quinto fratello. Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità,
e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo
schietto e buono. Scrive a PETO. “Sii persuaso, che giorno e notte non altro
cerco, non altro penso, se non che i miei cittadini sien salvi e liberi. Non
lascio opportunità d'ammonire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui,
che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita, stimo di aver
finito preclaramente. (Ad fam.) Non pecca d'orgoglio, ma di vanità; si lodava
spesso, e questo aizza gl'invidiosi, e a lui diminusce rispetto. Faceto, morde
non di rado altrui, e, senza volere, s'accatta nemici; ma in lodare i meriti
veri abbonda con allegrezza e con liberalità d'uomo sincero e benevolo. Parve
talora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prende due
mogli, ripudiando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta. Loda
e invidia gli uccisori di GIULIO CESARE. Loda prima GIULIO CESARE troppo, ma
non l'opere mai. Dice Capponi (Archivio Storico ): Ma chi fosse più di me
severo a Tullio, pensi com'egli animosamente comincia la sua vita d'oratore e
la compiesse gloriosamente. Assalse nella difesa di Roscio d'Amelia un
Crisogono liberto di Silla ch'era affrontare SILLA medesimo. Principe nella
città e guida e anima del Senato, combatte MARC’ANTONIO e incontra la
morte.Oratore, accusa sempre gli scellerati, difese qualche volta i non
innocenti. FILOSOFO, stette per lo più dalla parte del vero. Bensì approvò il
suicidio, l'assassinio de' tiranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità, e
la schiavitù. Uomo di stato, cerca troppo la lode, ma insieme la grandezza e il
bene della patria. Scrive d'eloquenza, ed e oratore sommo. Scrive di filosofia
morale, ed e uomo dabbene. Scrive di cose civili, ed e gran cittadino. Ecco i
fatti principali e virtù e difetti che spiegano LA FILOSOFIA DI CICERONE. È impossibile non vedere in CICERONE tre forti
amori, di gloria, di patria e di famiglia. E' reca in tutto ciò un'ardenza di
cuore, la quale ha talvolta del molle, ma la tenerezza è temperata da un senso
vivo d'onestà e di decoro. (V. le Lettere scritte in esilio.) Ude tutte le
scuole, e però raccoglie il meglio; ma con iscelta libera e ordinata, perchè
uomo libero ed T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, segue,
più che non facessero le scuole greche, il precetto socratico di badare nella
scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle
dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come fa CICERONE.
Badando al bene, odia la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prende
il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, coll’Orto non volle
mai pace. Un po' vano, pompeggia assai nelle parole; il che gli scema vigore
qua e là. Ma nella filosofia va semplice e spedito. Uomo universale, senatore e
console di Roma, cerca l'universalità negli; e questa filosofia da a 'Romani
l'idea di tutto il sapere. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e
per bramosía di favori popolari, combatte nella “Divinazione” le falsità del
culto, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio dei filosofi del Portico,
non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni, rimorso da coscienza non
confessata, dirò io, e lo credo. Taluno da quelle parole di CICERONE ad Attico:
ATÓMp492 sunt; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo” (Ad
Att., XII, 52). Deduce ch'esso i libri filosofici traduce, non li facesse di
suo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso, in tempi che gli autori greci
erano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di
greco, quali ATTICO e BRUTO, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice
(De fin. 1, 3): Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le
dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e
un ordine nostro di scrivere. E dice altrove (De off. I, 2): Ora seguiremo e in
tal soggetto il PORTICO principalmente, non come interpreti (non ut
interpretes); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudizio
e arbitrio nostro ci parrà.” Allora, io affermo che Cicerone non poteva dire
una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco. Eragli studio
comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco an 10 1:. bi lice. li 1 tes 377 (In Cic. ). E così un greco antico, più
che i moderni non greci, distingue bene i libri tradotti come il Timeo
da'propri di Cicerone. L ' opere di lui distingue Ritter in filosofiche o
riposte ed in popolari. A me non sembra; sì scorgo chiara la distinzione del
DIALOGO SPECULATIVO, come i libri accademici, dagli scritti che hanno un fine
pratico, ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai
non vede un ordinamento scienziale? E se CICERONE rispetta gli dèi più qui che
altrove, pensiamo che ciò s'usa da tutti i filosofi, quando essi non
ispeculavano direttamente sulla divino. Mi pare, poi, manifesta la distinzione,
e più principale: tra la FILOSOFIA NATURALE (De natura Deorum, De divinatione
), LA LOGICA -- Academicorum, Topica, De inventione, De oratore etc. – LA
FILOSOFIA MORALE (Tusculanorum, De officiis, De finibus, De senectute, De
amicitia, De legibus, De republica, De fato. Quantunque in ciascuna classe si
trovino mescolate più o meno le dottrine, non già divise assolutamente. L'
Ortensio poi è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone,
imitando Socrate, tornò a'principj e al fondamento del sapere. Quegli, come
questi, si trova in mezzo a una confusione di sistemi, e, come Socrate, chiama
i suoi al conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il
rimedio alle superbie d'ipotesi vane e il principio della sapienza vera. Quand'
io dico che CICERONE imito Socrate, già non lo paragono a lui, nè come filosofo
glielo fo uguale, sì discepolo; dico bensì, che il tornare a'principj è in
tutte le cose rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino; e chi rinnova,
è istitutore novello e cominciatore d'un'epoca propria. E se CICERONE non
riuscì a tanto come Socrate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da
imputare. La scienza e la civiltà del Paganesimo cadeno, e sempre più CICERONE
le trova quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che CICERONE,
come Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Ama con grand' amore la
filosofia, 2 ! la pre 18 MA Tha U.
>> TH e ne scrive lodi magnifiche in ogni suo libro; anzi l' Ortensio e
composto da lui per esortazione a filosofare; e nondimeno quand' ei volgevasi
attorno, e sente le strane opinioni di tante sette, esclama: Niente si può dire
di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. (De div.) Ammone
per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento di
noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, non
presuntuosa (minime arrogans: De div. II, 1 ). Ripeta il precetto che sta sul
tempio d'Apollo, nosce te ipsum, e dice: Essendo tante e sì grandi cose che si
scorgono nell’uomo interiore da quelli che voglion conoscere sè stessi, madre
loro e educatrice è la Sapienza (De off.). CICERONE invita a fermar l'occhio in
questa evidenza interiore, dove tante verità si veggono chiare -- quæ inesse in
homine perspiciuntur. In questa coscienza di noi stessi, CICERONE come Socrate,
più di Socrate forse perchè ROMANO, sente l'uni versalità del vero, distinta
dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro
sociale e religioso, relazioni universali anch'esse; e però CICERONE inculca
sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta
ragione (De off.); e contro L’ORTO fa valere gli affetti più generosi
dell'animo (ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in
sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri
Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di un
divino e l'immortalità dell'anima umana; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici Noi
più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono
cose non molto discordi dal pensar della gente. (Proem.) – cf. Grice,
“Philosopher’s Paradox” -. E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei
raccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tradizioni universali de
filosofi e le divine. Inoltre, d'ottime autorità intorno a tal sentenza --cioè
l'immortalità dell'anima -- possiamo far uso; il che in tutte le que HIE ale Di
D. 4 stioni e dee e suole valere moltissimo -- in omnibus causis et debet et
solet valere plurimum. E prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ) -- la
quale, quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ),
tanto più forse discerneva la verità. » (Tusc.) E tra filosofi, che CICERONE
cita, preferisce appunto FERECIDE, come antico, antiquus sane; e indi ne
conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici; il nome de'quali,
egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S
16). E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia e un dono, ma quanto a
sè, una invenzione degli dèi. Philosophia vero omnium mater artium, quid est
aliud, nisi, ut Plato ait, donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26. ) Nel che
s'accenna il principio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da
questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansa gli eccessi d'ogni maniera. IL
PORTICO, per esempio, la cui morale severità CICERONE approva e segue, dice,
che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne fa
un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù; e però IL PORTICO,
se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù
e disperarne come BRUTO morente. CICERONE al contrario riconosceva una più
umile sapienza e virtù, che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere
comune. (De amic.) IL PORTICO, crede CICERONE, indiando la natura, di poter
trarre le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tenta VARRONE per
testimonianza d’Agostino – “Città di Dio”. Ma Cicerone le deride (De nat. Deor.).
Mena buono all’ACCADEMIA, al LIZIO, e al PORTICO, che la più alta felicità
dell'intellettuale natura sia la contemplazione (Hort. in Agost. De Trinit.). Ma
in questa vita, ei dice, la contemplazione senza la pratica delle virtù è nulla
(De off.); e quindi censura Platone che scrive: Il savio non essere obbligato a
civili negozi. (De off.). IL PORTICO, per alterezza di ragione, spregia il
corpo e i beni corporei. Ma Cicerone dice:
11 he COL iti be 111 15:-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura. Noi
siam anima e CORPO. Non possiamo spregiar il corpo, nè si dee imitare
que'filosofi, che accorti d'un che superiore a'sensi ne spregiano la
testimonianza. Con che l'accoccava pure agl’Accademici. (De fin.). IL PORTICO
nega l'efficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svile ogni piacere. CICERONE
invece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che le
temperate giocondità son utili e buone. (De sen., De fin.). IL PORTICO,
concependo la virtù con altezzosa rigidità, stimano uguali tutti i malvagi e
tutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene. CICERONE confuta in più
luoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è mancare a posta,
altro è nell'impeto di passione. (De off.) Se nella morale ei tenne dal PORTICO,
rigettate le loro esagerazioni, in logica, metodo filosofico e analisi di
concetti stette per l’ACCADEMIA giacchè, come dissi altrove, la riforma del
filosofare comincia sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la
temperanza; perchè, dove l’ACCADEMIA (a quello che ne sappiamo) nega ogni
verità e CERTEZZA nel percepire le cose e ammetteno solo una verosimiglianza,
uguale per tutte le opinioni. CICERONE invece ne' fondamentali principj e nelle
verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li stima
probabili, non ugualmente, sì convarietà di gradi; e al probabile opponeva quel
ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole: Vorrei che fosse ben chiaro il
nostro pensare; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato
sempre in errori, e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o
questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del disputare, ma del
vivere altresì? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e
alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi, diciamo probabili alcune e
alcune improbabili. (De off.) Qui si scorge, che il dubbio di Cicerone non cade
punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul domma fisico
e morale del PORTICO. E nel libro delle Leggi dice” « Preghiamo poi, che questa
Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti;
perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sembrano ordinate e composte con
assai aggiustatezza, recherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma
cacciarla non oso.La qual conclusione mostra, ch'ei non rigetta in tutto i
dubbj, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagl’ACCADEMIA allor chè
dice. Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire
piuttosto quel che non è, che quel che è. (De nat. Deor.) Nel vivere nostro, e
massime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni non monta già poco il sapere
quel ch’una cosa non è; significa sapere che il divino non è come noi, che il
divino o l'animo nostro non sono CORPO, che il fine dell'uomo non è la voluttà;
negazioni pregne d'affermazione, implicita si ma certa. E chi vuole stimare
quanto merita il ritegno di CICERONE, anc' allora ch ' ei parla di probabilità
negli officj particolari -- non mai nella legge suprema -- pensi l'assurdità
del panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica,
l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile; e s'accorgerà, che se
Socrate meritò lode dicendo, contro l’arroganza de' sofisti. Io so di non
sapere, merita pur lode il nostro CICERONE d'averlo imitato in tanta corruzione
di filosofia e di costumi. E quindi ei non ha dubbiezze contro L’ORTO. Dice a
loro: che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato; nè la
voluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De
fin.) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso.
Il piacere stesso non cato per sè, ma per noi (De fin.). Il dovere ha da
cercarsi per sè stesso. E la dottrina dell’ORTO, se consentanea a sè, non
lascia luogo al dorere. (De off. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, con
che 01. Jo (dine interno di principj si faceva? Già ho detto, che Cicerone
ritorna al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E
ho accennato, che ivi egli trova l'uomo non solitario, ma in relazione conl
divino, con gli altri uomini e col mondo. Però esclama: « In questa
magnificenza di cose, in questo cospetto e conoscimento della natura, o dèi
immortali, oh quanto conoscerà sè stesso l’uomo; il che c'impose Apollo Pizio! (De
off.) Per via della coscienza, s'accorse Cicerone in modo chiarissimo di tre
verità: prima, che l'uomo sta sopra l'altre cose; poi, che la ragione dell'uomo
prevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra il
divino con le sue leggi. Viene da ciò la definizione della sapienza o della
filosofia nel II libro degli Officj (S2): scienza delle cose divine ed umane e
delle cagioni di queste; definizione più determinata che non l'altra ne' libri
Tuscolani (V. 3), dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone
stringe la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento
ragionato del divino e dell'uomo e de’sommi principj. CICERONE capisce, come
nella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva: « È malagevole
sapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto. » (Tusc.
II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione.
Bisogna riflettere a noi stessi; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue
da' bruti e dalle al tre cose; nella ragione troviamo i giudizj spontanei,
naturali, evidenti, universali. Questi fa d'uopo seguire. Ecco il principio
ordinatore della scienza e della virtù. Il tempo, scrive Cicerone, cancella i
capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. Opinionum
enim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat (De nat. Deor.). Ma questi
giudizi erano avviluppati in una moltitudine di sistemi. Però, quanto alla
teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco. Chi potrebbe mai condannarlo
d'insipienza? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè
del quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma. Le sue indagini hanno
per fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo
e l'immortalità dell'anima umana (Ritter). Quanto alla divinità, egli non ne
dubita punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna
legge della giustizia (De leg.). Ma intorno alla natura di Dio non afferma gran
cosa. Del metodo di lui, su tali materie, porg' esempio il libro De natura
Deorum. Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico.
L'accademico nega il dio animale degli Stoici, e termina dicendo: « Questo io
diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella
sia oscura e piena d'intrigate difficoltà. » Lo stoico poi combatte l '
epicureo. Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa
conclude? E' dice: la disputazione di COTTA (Accademico) sembra a VELLEIO (Epicureo)
più vera. A me l'altra di BALBO (Stoico), più verosimile. Cicerone, adunque,
mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli
Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da
quella ragionando sul divino. Pur tuttavia non sa nulla giudicare assolutamente
sulla natura del divino stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le
dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza
della divino (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ), la legge morale e il
libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Crisippo, ch'ogni
proposizione è vera o falsa necessariamente (De fato); le opinioni verosimili
si hanno ne' libri di FILOSOFIA NATURALE, dove apparisce dubbj sulla natura del
divino e dell'anima, e sulle relazioni del divno con l'universo, e quindi sulla
prova fisica della divinità provvidente; ne' libri logici, finalmente, su '
principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta,
beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori
percepite da ' sensi. Anche Kant pose
superiore la certezza dell'argomento morale ad ogni altra certezza. Ma Kant
celebra quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione pura o
teorica o speculativa. Cicerone, al contrario, non la nega mai, anzi la
magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj
accertati. Dunque Cicerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva
conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la
certezza; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la
verisimiglianza. In ciò solo fu accademico; e non pienamente nem men qui, come
avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la necessità
della materia alla libertà divina; e che cadesse nel semi-panteismo, facendo
divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; ma
più da queste parole. Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili e
caduche, le prese da generazione mortale. Ma l'animo è generato dal divino (De
off.), e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone il
divino, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détte
il divino all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanza
dell'affermare in quello ut opinor; tant'era l' ecclissamento delle principali
verità sul finire del Paganesimo! Quant'alla teorica del conoscimento, CICERONE
distingue l'intelletto dal SENSO. Lo distingue tanto, che come Platone e
Aristotile, trovando un'immagine del divino nella mente nostra, la identifica con
esso. Anzi nel testimonio del SENSO non pone più autorità ch ' una
verisimiglianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il quale il divino e la
mente son divisi dal resto. E per la logica si valse d'Aristotile, come si ha
dal libretto de' Topici. È stupenda la teorica dell'operare; perchè ivi reca
Cicerone più che altrove le verità universali raccolte dal testimonio della
coscienza; e vi reca quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre le
spatse verità con un principio più alto. Qual principio? Il rispetto della
ragione, che, in quanto conosce la verità, è retta ed è regola delle nostre
operazioni. Bisogna seguire, ei dice con gli Stoici, la natura, non l '
arbitrio delle passioni. Ma la natura nostra è ragionevole; dunque ogni atto
nostro dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. (De off. I, 28, 29.
) E questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una legge
naturale ed eterna del bene. « La legge (così Cicerone) è la ragione somma,
insita nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario.
(De leg.) Questa legge è nata da tutti i secoli, primache fosse scritta legge
alcuna, o che qualche città fosse istituita. Questa legge viene dal divino,
perch' ell ' è divina; e chi non ammette il divino, non può ammettere la legge
eterna e naturale. La legge è la ragione
divina partecipata a noi; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di
questa è società, però noi siamo primamente consociati coll divino. E poich'
ell' è comune a tutti gli uomini, noi in secondo luogo formiamo la società del
genere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina,
e a Dio sovrap potente » (parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et
præpotenti divino. . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini
(soli essi fra gli altri animali) han qualche notizia del divino, nè v'ha gente
sì fiera che, ignorando qual divino adorare, pur non sappia che ve n'è uno. Noi
dunque siam nati alla giustizia; e il gius non è costituito per opinione, ma
per natura. Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascun
di noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina,
ma nella facoltà del sapere è uguale. Dalla legge si genera il dovere, che va
quindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi può
essere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità.
(De off.) Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in
ogni atto un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in
private, nè in forensi, nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che,
nè Storia della Filosofia. 25 se pattuisci con altrui; non v ' ha momento di
vita che possa mancare di qualch 'officio; e nell'adempirlo è tutta l'onestà,
nel trascurarlo la turpitudine. » (De off.) Nell'adempire gli officj stanno le
virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù,
se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle
cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso (De off. I, 4); sicchè «
nella universale so cietà son varj i gradi degli officj; onde si può sapere ciò
che si conviene a ciascuno; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi
alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » (De off.)
Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna in
sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustifica
nemmeno l'amore di patria. (De off.) Egli distingueva poi l'utile apparente
dalla virtù: ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà; e quand'
apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta.
(De off..) L'utilità è l'effetto, non il fine della virtù. (De amicitia) E
dalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se
niuno la conoscesse: « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. »
(De off.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza: «
l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo (De off.); e
come il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così il
decoro della onestà è la convenienza con la natura. » (Ib. 28. ) Però, come i
Greci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026, il solo buono è bello, così
Cicerone (come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice: quod
honestum sit, id solum bonum esse: onorabile è solamente ciò ch ' è buono. (Paradox.
I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la
virtù. nascono le leggi positive; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di
tutte le leggi (habes legis proemium, De leg.). « È stoltissima cosa (segue
Cicerone contro l’Orto) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle
leggi de' popoli. E che? dunque, anco le leggi de'tiranni?... Ma v'ha un unico
gius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è
la retta ragione di comandare e di proibire: e chi la ignora, è ingiusto, o
ch'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi
scritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da
misurare con la utilità, trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo
creda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò
che per utilità è stabilito, da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da
natura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La
legge naturale ha da regolare il diritto pub blico, quello delle genti e il
privato; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra, sui
trattati. sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il
giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana: dopo
averne narrato l'umanità ne’secoli primi, aggiunge che questa diminuì a poco a
poco, e dopo le vittorie Sillane cessò; e quindi esclama: jure igitur plectimur
« a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo
scontata per se coli. De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi
argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep.) Che fa adunque la
filosofia di Cicerone? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e
splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza; gli dettò
que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci, eletti e
temperati; que' libri rettorici, che sono un codice dell'arte per comune
giudizio; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica,
dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione
platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi. Però, quand' io sento uno
storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui
non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più
che dell'insolito, sia desiderosa del vero. La giurisprudenza è scienza
filosofica, perché riguarda gli alti umani o personali. La giurisprudenza
positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale. Si cerca, quindi,
lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche, e
quanto alla materia. Quattro età del gius romano. Prima età: consuetudini. È
difficile determinare qual parte avesse la civiltà, e quindi la scienza, in
que' primi germi del diritto. Ma vestigi di sapienza ve n'ba. Che cosa abbia di
vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole. La materia di esse certo è
romana. Probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio. Seconda età:
si pubblica il segreto delle azioni. La giurisprudenza, perciò, viene alla
gioventù dalla puerizia. Ma crebbe in modo segnalato allorché, sul cadere del
sesto secolo di Roma, si propaga ivi la filosofia. Il settimo se colo è quello
di Cicerone. Si prova con l'autorità di Cicerone, che allora si lero a grande
stato la giurisprudenza per lo studio della filosofia. Allora si conceve l'idea
d'un codice -- idea che vuol abito filosofico delle universalita. Terza età: la
signoria de’ Romani, dilatandosi a tutta Italia, fa pos sibili le scienze.
Cittadinanza romana a tutti gl 'I taliani. Gius italico che da il dominio
quiritario, e il diritto de’ comizii anche per deputati ec. Colonie romane per
tutta Italia. Si determina bene il concetto del paese italico. Gius equo e
buono. Altra cagione della fiorente giurisprudenza; giureconsulti, per lo più,
non sono causidici. Un'altra: l'emulazione in filosofia con gl’oratori. Cenno
su’ principali giureconsul ti. Loro virtù. Com'apparisca dagl’autori, ch’essi
citado ne' frammenti, lo studio loro ne’ poeti, negli oratori e ne ' filosofi.
Si paragona que’ giure consulti a' matematici per tre ragioni. Vigore delle
conseguenze. Cura nel l'evitare contraddizioni. Metodo induttivo e deduttivo.
L'efficacia della filosofia non si ristringe alla forma logica. Passa alla
materia. Tale influsso non apparisce solo da prove particolari, ma più ancora
dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e (salvo
qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, e
perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale. Distingueno la
scienza del diritto dall'arte. Però s'elevano al concetto della filosofia vera,
rigettando gli eccessi: la speculazione de’ giureconsulti è contenuta nel vero
da' dettami di senso comune e dal fine pratico. Distinzione del diritto in jus
naturale, ius gentium et ius civi. Si
mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de’ diritti
naturali. Non accettabile, quanto alla servitù, la nozione del gius civile. Ma
i giureconsulti ROMANI diceno la servitù non secondo il gius naturale, e riconosceno
un fatto. Come la parola “ius” non esclude l'idea d'un diritto eterno. E si
distingue dalla espressione “legge.” Poi, si ha ne’ giureconsulti ROMANI l'idea
precisa del diritto eterno e del diritto naturale. L'efficacia della filosofia
si mostra nella giurisprudenza per via del diritto onorario, per via del
diritto ricevuto, e per l'interpretazione de ' giureconsulti. Molte novilà
introdotte dal gius ricevuto. La virtù e la vera FILOSOFIA de' giureconsulti ROMANI
si fa sentire per fino nel loro stile. Si reca un saggio della loro sapienza e
brevità elegante. Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de'
giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cerca la comprensione finale.
Parlato di Cicerone, è da parlare de' giureconsulti romani. La giurisprudenza è
una scienza che e una parte della FILOSOFIA perchè risguarda gli atti umani o
personali. La giurisprudenza procede dalla FILOSOFIA MORALE, che abbraccia la
scienza de' doveri e quella de' diritti naturali. La giurisprudenza POSITIVA
non altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili
generalità del diritto eterno. Però, se LA FILOSOFIA entra in tutte le scienze
com'ordinamento di concetti e di giudizj, entra poi nella GIURISPRUDENZA ROMANA,
non solo com'ordine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle
ragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svolgimento di LA GIURISRPUDENZA
ROMANA, per l'impulso di LA FILOSOFIA ROMANA, nel doppio aspetto della FORMA
LOGICA e della materia. La storia di quella e distinta bene dall' Hugo in
quattro età nella sua “Histoire du Droit Romaine.” La prima va dall'origine di
ROMA fino a le XII tavole, cioè fino alla repubblica. La seconda fino a CICERONE.
La terza fino ad OTTAVIANO. Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare. La quarta eta, fino a GIUSTINIANO. Età di
fanciullezza, di gioventù, di virilità, e di vecchiaia. Il giureconsulto
Pomponio c'insegna (Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma, ne' primi tempi, si regge
SENZA LEGGE nè diritto stabile -- cioè per CONSUETUDINE. La CONSUDETUDINE forma,
dice Forti (“Istituzioni Civili”), il diritto privato con l'autorità degli
esempi, cioè de' fatti ripetuti, e forma con gli accordi de'potenti il diritto
pubblico. Così il potere assoluto del padre, del marito e del padroni è da'
giureconsulti risguardato sempre per CONSUETUDINARIO, ed anche l'uso delle
clientele. Quanta parte ha la civiltà, e con la civiltà la scienza, in
que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si
remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano
scritti, perchè le serba con la lingua loro la stirpe greca. Ma de’ LATINI
PRISCHI e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote. Ogni
lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è, tuttavia, che, almeno
gl’etruschi sono molto civili. Sembra non si possa dubitare che il sangue loro
si mescolasse nel popolo di Roma -- benchè l'Hugo lo nega. Ma LUCIO FLORO, parlando
della guerra sociale, dice chiaro. Quantunque la chiamiamo guerra “sociale” a
diminuirne l'odiosità. pure, se stiamo al vero, quella e guerra *civile* -- giacche
il popolo romano, avendo mescolato insieme gl’etruschi, i latini e i sabini, e
traendo da tutti un sangue solo – “unum ex omnibus sanguinem ducat” -- , è di
più membri un corpo e di tutti è una unità (Rer. Rom.) Lerminier nella sua “Philosophie
du Droit” riscontra con molto acume in VIRGILIO la prima origine de' tre
popoli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche. Lodando l'agricoltura,
VIRGILIO dice cosi. Questa vita tennero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello.
Così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fa la bellissima di tutti
gl'imperi, Roma; e una, si circonda d'un muro i sette colli (Georgiche). Fatto
è che a taluno par vedere i *tre* popoli nelle tre tribù del primo popolo
romano, rammentate da Livio – TRIBU I: i Rannesi o Latini, -- TRIBU II: i Tarsi
o Sabini, e TRIBU III: i Luceri o Etruschi (Warnkoenig, “Histoire du Droit Romaine”).
Momen (Storia Romana) nega tal mescolanza. Ma Momsen non da le prove.
Probabile, a ogni modo, che quel nuovo comune di Roma. sorto fra ’comuni vicini,
si mescolasse pure di genti vicine. O si conceda dunque con Niebuhr la
preminenza agl’etruschi, o concedasi a’ latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle
cose romane lo dettero i primi – gl’etruschi. Ciò spiega, come in tanta
rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio come il popolo latino LATINO DEL
LAZIO si possede un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti.
Questo io dico per mostrare che le prime consuetudini ed istituzioni hanno
qualche ragione di civiltà, e riuscirono buon fondamento alla giurisprudenza
perfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione
da’magistrati (magistratus populi romani) che stabilivano il diritto, da'
giudici (judex, arbiter ) che giudicavano del fatto (Hugo) -- distinzione che a
poco a poco détte occasione al gius onorario. È noto che il reggimento di Roma
sott’i re e, più, ne' principj della repubblica, e degl’OTTIMATI, cioè, aristocratico.
Indi la opposizione civile dei PATRIZI colla plebe per avere un gius equo -- opposizione
che, divenuta incivile o violenta, rovina la repubblica, come la prima ne forma
la grandezza. La PLEBE dimanda leggi scritte per contenere l'arbitrio de' PATRIZI,
e si promulga la legge di le XII tavole. Narra il giureconsulto Pomponio, che
queste si raccolsero in Grecia, interprete d'esse l'efesio Ermodoro (Fr. 4, D.
De Orig. Juris.). Certamente, PLINIO il vecchio (“Hist. Nat.”) rammenta come
serbata fino a lui la statua fatta per decreto a questo Ermodoro. Talchè la
tradizione non pare favolosa in tutto. Ma è certo altresì che in le XII Tavole,
per quanto ne conosciamo, non si ha traccia del diritto che non e romano.
L’essenza – l’essenziale -- giudizj, patria potestà e connubio, eredità e
tutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro -- e cosa tutta
romana, come dice Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri come Warnkoenig.
Ma io credo abbisognasse l'opera di quel greco erudito per meditare questa o
quella vecchia CONSUETUDINE, e RIDURLA A CONCETTI determinati ed a’lor capi
principali, ufficio di riflessione addestrata. Nè ciò avrebber saputo I ROMANI,
dati all'armi anzichè agli studj. Ecco
il per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta d’Ermodoro,
trae in ammirazione Tullio. CICERONE scrive ne' libri “De Oratore”. Se ne
adirino pur tutti, io dirò quel che sento: a me, il solo libricciuolo di le XII
tavole, par superi (se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche
de' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità. Quanto
prevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, intenderà facile
chi le nostre leggi romane paragoni a quelle di Licurgo, di Dracone e di
Solone. È incredibile, di fatto, quant'ogni altro diritto civile, salvo il
nostro romano, sia in colto e quasi ridicolo. (De Or.) Le quali parole
attestano tre cose: l'antichissima civiltà di quelle genti che formano Roma, e
che vi recano le proprie tradizioni, benchè si dessero, poi, a vita agreste e
guerriera; la falsità che il gius civile romano procede ài Grecia ne' suoi
particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolge da principj
non rozzi ne poco pensati. I ROMANNO danno la sostanza, i Greci probabilmente LA MERA FORMA LOGICA, per GENERE E SPECIE – cioè,
ordinamento di codice. Da le XII tavole nasce la necessità d'interpretarle per
disputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro
applicazione. Di qui, come dice Pomponio venne il diritto civile non scritto o
l'autorità dei prudenti, e le azioni delle leggi (“legis actiones”). Ma tutto
ciò e un SEGRETO de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, la
libera giurisprudenza passa dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai accadde
tal cosa in modo più segnalato? A Roma si propaga il filosofare. Il secolo
posteriore è appunto il secolo di CICERONE. Or bene, la giurisprudenza,
cresciuta lentamente crebbe rapidamente. Allora proprio noi riscontriamo i
giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto
alla natura degl’atti umani in sè e nell' esteriori attinenze. Scrive CICERONE
la “Topica”, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di TREBAZIO, come
si ha dal proemio di quel saggio, ov'è scritto. “Non potrei, adunque, con te,
che me ne pregavi spesso, benchè timoroso di noiarmi, come scorgevo facile, stare
in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del
diritto. Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrivo a memoria nella
mia navigazione, e dopo il viaggio ti ho mandate.” Il qual saggio è notevole
molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giurisprudenza. E di SERVIO
SULPIZIO, primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato
da' giure consulti posteriori, ecco che scrive CICERONE, amico di lui. “Si
stima, o BRUTO, che grand'uso del gius civile s'avesse da SCEVOLA e da molt'
altri, ma l'arte da que st' unico, cioè da SULPIZIO -- al che non sarebbe giunta in lui la scienza
del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna spartire le materie
composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire con le
interpretazioni l'oscure; e così a veder prima ben chiaro le cose ambigue, poi
a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero dal falso, le
conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque reca tal arte (massima di
tutte l'arti ), quasi luce in tutto ciò che dagli altri si rispondeva o si
faceva confusamente. (De CI. Orat.) Con le quali parole mostra CICERONE la
forma di scienza che si prese dal diritto in virtù della LOGICA. E la FORMA
scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, leva le menti alle
generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza
del diritto. E il segnale n'è questo; che al termine dell'età seconda, cioè sul
fiorire della filosofia a Roma, GIULIO CESARE e POMPEO ebber disegno d'un
codice; disegno, che mostra l’uso e la stima degli universali astratti da ogni
caso particolare, ordinati poi secondo GENERI E SPECIE -- giacchè un codice val
quanto in istoria naturale un ordinamento PER CLASSI. Pare che SERVIO SULPIZIO effettuasse
un alcun che di somigliante a impulso di Cicerone, il quale alla sua volta ne'
libri delle leggi mostra un saggio di codice pel diritto pubblico, e al
trettanto promise pel diritto privato. Nè qui entro in disputa fra due scuole
alemanne, l'una che, con Savigny, sostiene il danno de’codici. Laltra che ne
difende l'utilità. Dico a ogni modo (nè si contrasta ) che un codice non si fa
senz'abito di speculazioni filosofiche. L'averlo pensato in Roma e tentato a
quel tempo, chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a
compimento nella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero. Il
dilatarsi del dominio romano a tutta Italia prepara il campo alla filosofia. I
Romani, sentendosi non più solo romani, ma italiani e uomini, la loro coscienza
si chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di
questo fatto non v' ha dubbio di sorta. Dopo la guerra sociale, per LA LEGGE
PLAUZIA e LA LEGGE GIULIA DE CIVITATE SOCIORUM e data, come nota Haubold nella
sua “Tavola cronologica per servire alla St. del Diritto”, a tutte le città
italiche CITTADINANZA ROMANA -- eccetto i Lucani e i Sanniti. Poi consegueno la
cittadinanza i galli oltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani. La ottenne
tutta perciò la Gallia cisalpina. (Framm. L. de Gallia Cisalpina). In tal modo,
come scrive Savigny, dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero
parte del popolo sovrano (St. del Dir. rom). Questo gius italico da dominio
quiritario, o dominio solennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte
l'imposte dirette, libero governo municipale delle città italiane (ivi),
diritto d'intervenire a'comizj o di mandarvi deputati. Talchè l'Italia, a '
tempi romani, con l'unità politica suprema serbò le unità politiche secondarie,
che si chiamavano socio confederati. E questo accadde perchè i romani hanno già
fatto l'unità naturale della nazione col mescolamento de’ sangui, spargendo
ovunque le colonie (com'osserva Forti), nè per sei secoli ne mandaron mai fuori
d'Italia. (Ist. Civ.). L'Italia, dice Hugo, non si considera mai una provincia;
chè le provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma
suddite (Hist. du Dr. Rom..) I romani, allora, si levarono con la mente
all'unità naturale del territorio, come vediamo ne' Digesti. Al Fr. 99, $ 1 de
Verborum significatione è scritto. Dobbiam credere provincie continue le unite
all'Italia, come la Gallia cisalpine. Ma e la provincia di Sicilia più si ha da
tenere per continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto. “Continentes
provincias accipere debemus eas, quæ Italiæ junctæ sunt, ut puta Galliam: sed
et provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modico
freto Italia dividitur” Ulpiano. E al Fr. 9, D. de Judiciis et ubi etc., si
dice.Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia. “Insulæ
Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie.” A questo concetto sì pieno
vennero i romani tra gli ultimi tempi della repubblica e i primi del PRINCIPATO,
cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana,
con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza. Si aggiunga poi, che
le sevizie de' principi cadevano in Roma su'patrizi più sospetti, ma quel
reggimento temperavano istituti repubblicani e ordini civili equi. Se no, come
dice Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscissero
mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e come
ALESSANDRO SEVERO ha un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiari
giureconsulti, FABIO cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri.
(Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1, § 1-5. ). E tanto è vero, che la notizia del “gius equo”
e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provincie, finita
la guerra civile, non e punto legale, anzi contr'alle leggi; perchè, secondo le
costituzioni come dice Warnkoenig, le provincie stano bene, le imposte sono
lievi, lo stato pacifico, molto dell'amministrazione in mano di quelle (il che
scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e senato
li minacciavano con le leggi repetundarum, tornate vane per corruzione
de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom.) Tali cagioni principalmente formarono la
sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici,
ma scioglievano questioni di diritto in generale. E ciò indica sempre più e la
natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da interessi
particolari, progredisse continuamente. (Cic., De CI. Orat.). Poi, l'emulazione
degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsulti
che ne volevano serbare la severità, incita questi a gareggiare in isplendore
di filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Così
da una disputa tra l'oratore CRASSO -- contemporaneo al padre di Cicerone -- e MUZIO
SCEVOLA giureconsulto sull'interpretare i testamenti o a rigore di parola, o
secondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in
quest'ultimo senso, ripresa da Forti, ma e forse meglio approvata da Cuiacio.
Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la
illustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetudini di Roma,
indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale del Portico,
che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro
scienza; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è
spiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte
uomini onorandi. Nomino dapprima QUINTO MUZIO SCEVOLA, assassinato a’tempi di MARIO.
Dice POMPONIO che Muzio costitue primo il decreto civile, disponendolo per capi
di materie (“generatim”) in XVIII libri. SERVIO SULPIZIO riduce il diritto a
stato di scienza. SULPIZIO e prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim
provero che gli fa MUZIO SCEVOLA d'ignorare le leggi del proprio paese, egli
oratore e patrizio. Sostenne la repubblica. Avversa i Triumviri. La repubblica
gli alza una statua. Abbiamo di que' tempi ALFENO VARO e OFELIO, ambidue
discepoli di SERVIO, e TREBAZIO (a cui la Logica di Cicerone) e un altro MUZIO
SCEVOLA – PONTIFICE -- e CASCELLIO. Muzio non accetta da Ottaviano il consolato.
Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri; e
a chi lo consiglia si temperasse rispondeva, “Son vecchio e senza figliuoli.” LABEONE,
il cui padre e morto a Filippi, rifiuta il consolato da OTTAVIANO anch'egli, e
serba spiriti antichi. Dice Pomponio: Ageio Capitoni si détte moltissimo agli
studj. Divide l'anno in modo che sta sei mesi a Roma co' discepoli (“cum
studiosis”), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lascia XL volumi, che
i più s'usano ancora. Ateio CAPITONE (segue Pomponio) persevere nell'antico. Ma
LABEONE, che molto medita nell'altre parti della sapienza (“qui et in cæteris
sapientiæ operam dederat”), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina
comincia innovare molto” (Fr., D. De Or. Jur. ). I cinque giureconsulti più
celebri e più recenti (lasciando gli altri) sono: EMILIO PAPINIANO, PAOLO,
GAIO, ULPIANO, E MODESTINO. PAPINIANO, familiare di SETTIMIO SEVERO e
principale nel governo, stette per GETA contro il suo fratello CARACALLA, e
volendo costui una difesa legale del fratricidio. PAPINAINO la nega e venne
ucciso. Scrive “I fatti,” che le dono la pietà, il buon nome e il pudore
nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noi
uomini dabbene non possiamo farli (Fr. D. De servis exportandis etc.). Gl’altri
quattro illustrano, come dice, il consiglio di ALESSANDRO SEVERO. I
giureconsulti, massime della terza età, levano a stato di scienza le loro
discipline. Ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filosofia, ma
eziandio in lettere; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci;
com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto e,
come notai de' tempi di CICERONE, che la giurisprudenza prende forma logica
tanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico, dice
Hugo, la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nessuno più di
quelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni. Cioè per vigore di
conseguenze da principj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni -- che
Gaio dimandava “inelegantia juris” -- , e pel metodo distintivo e compositivo,
induttivo e deduttivo ad un tempo -- distintivo e induttivo salendo alle specie
generali del diritto; compositivo e deduttivo traendone con brevità ed evidenza
le illazioni. Il gran Leibnitz, insigne filosofo, scrive nell' Epist. “Io
ammiro l'opera de Digesti, o, meglio, i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è
presa. Ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici. O che tu
guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire. Ma questa efficacia della
filosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrare
nell'interno, giacchè, com'avvertii, materia della giurisprudenza son gl’atti
umani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolare
ma generale. Quindi, coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o del
Portico o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare
l'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gl’eruditi,
che i più de'giureconsulti tolsero dal Portico l'argomentare per analogia,
l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, LA SOTTILE DIALETTICA che
conviene al foro, e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi
egregiamente al gius civile. Ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così
disposto bene secondo le leggi del pensiero, e, salvo qualch'errore de' tempi, così
con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni
esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili,
come si ha dal codice Napoleone: e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria,
vi fanno su studj esimj e perseveranti. E perchè si chiarisca il filosofare
intimo de' giureconsulti, guardiamo la nozione, ch'e'si fanno della
giurisprudenza e della filosofia. Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive. Dand'opera
al gius, occorre prima sapere onde ne venga il nome. “Gius” è chiamato da
giustizia. Perchè, come Celso lo define elegantemente, il gius è l'arte del
buono e dell'equo. Però siamo chiamati, con ragione, sacerdoti della giustizia.
Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono e
dell'equo; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dalle
contrarie; desiderosi di far buoni gl’uomini, non per timore delle pene, ma
eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori, se non m'inganno, di vera e
non simulata filosofia. Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui a
rigore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filosofia morale. Ma se
badiamo al concetto che avevano di questa gl’antichi, e al generarsi la scienza
del diritto dall'altra del dovere, ci formeremo idea chiara del come
intimamente e FILOSOFICA LA GIURISPRUDENZA ROMANA. Secondo i sistemi filosofici,
sommità di perfezione umana è LO STATO ROMANO. Talchè la morale s'ordina alla
politica. Concetto vero per l'attinenze esteriori, falso e pagano quant'
all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia se i giureconsulti romani definino
il gius civile come la morale. Lo definano così, perchè, a sentimento di tutti
gl’antichi, le due scienze si mescolavano in una. Noi con più ragione le
distinguiamo, ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza
de' primi principj e dell' uomo -- dimenticanza ignota agl’antichi, che però
svolgeno razionalmente il diritto e non lo maneggiano materialmente. Notate
ancora che nel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle
Istituzioni poi la giustizia è definita: Costante e perpetua volontà di rendere
a ciascuno il suo diritto: e se la giurisprudenza è definita; Notizia delle
cose umane e divine e scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1, Inst. De
just. et jure, si vuol fare la stessa osservazione detta di sopra; e noto con Cuiacio,
che in tal luogo la giurisprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o
scienza, e com’abito della VOLONTA, secondo l'antica filosofia. E la filosofia
la pensano essi, non senz'alta speculazione, ma contenuta nel vero da' dettami
del senso comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'eternità del
diritto -- come osserva Vico nella “Scienza Nuova” -- allorchè dissero: Il
tempo non muta nè scioglie i diritti: “Tempus non est modus costituendi vel
dissolvendi juris.” E, quando discernano il diritto naturale dal positive,
nello stesso tempo rigetteno gl’eccessi del Portico, come l'eguaglianza della
imputazione; finalmente derisero le stranezze, l'ipocrisie, l'avarizia di
quelle sette in età di scadimento. Così sente Ulpiano, che distingue filosofia
schietta dalla mascherata; e nel Fr. 6, § 7, D. al Tit. De his quæ in
testamento delentur, è schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e
nel Fr. 1, § 4, D. de extraordinariis cognitionibus etc., dove si stabilisce gl’onorarj
delle professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, vantando di
spregiare le mercedi, n'andano a caccia. I giureconsulti poi mostrno tre specie
di diritti: jus naturale, gentium, et civile; distinzione che non si vuol
confondere con l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile;
e chi non vi badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La
distinzione praticamette divario tra leggi proprie di Roma (jus civile) e
istituzioni comuni a ogni popolo non selvatico (jus gentium vel naturale). L’altra
è distinzione più speculativa e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et
jure, D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il
privato in diritto naturale, che natura insegna a tutti gl’animali, come la
procreazione de’ figliuoli; in diritto delle genti, del quale, tra gl’animali, hann'
uso gl’uomini soli, come la religione verso il divino, l’obbedire a' genitori e
alla patria: in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'accusa Ulpiano
d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità; ' e sì che
Piccolomini da qualche secolo fa, come Warnkoenig, nota che qui, secondo le
dottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono
dalla natura animale, quelli che vengono dalla razionale, e gl’altri che pone
la comunanza civile. Non s'intende già che una bestia -- detta da'
giureconsulti cosa, non PERSONA – ha diritto, ma che le potenze animali
dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti, come li generano
le potenze razionali. Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceverata
l'animalità dalla razionalità. È da confessare invece, che il diritto civile si
define per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti; e
s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulis
juris. Ma tuttavia meritan lode i giureconsulti, che se non condannarono la
servitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e
di Aristotile. Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale e istituito
dalla divina provvidenza, come insegna il Portico (De Jur. Nat. Gen. et Cir.);
nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti. Poi, essi
definino il gius civile qual e in fatto allora. Osservo di passaggio che il
chiarissimo Conforti nel l'annotazioni a Stahl (“Storia della Filosofia del
Diritto”, Torino) opina con altri, che i romani non avessero idea del diritto
eterno, perchè jus viene da “iubeo”, comandare; dove la parola diritto, e le
simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o di
rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensa forse al come definisce
la parola Jus Forcellini (Voc. ad V.). Gius è tutto ciò che in generale vien
costi tuito da leggi o naturali, o divine, o delle genti o civili -- Jus est
autem universim id, quod legibus constitutum est etc. Si nomina con altro nome
equità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi
norma e regola degli atti umani. Sicchè I ROMANI chiamano “ius” un che
costituito da una legge qua lunque. Così distingueno la legge da ciò che ne
procede, e ch’è l'EFFETO DEL SUO COMMANDO. Cicerone (Rep. et De Leg.) adopera
legge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si è
in quell'assioma de romani già citato: Il tempo non muta nè scioglie i
diritti; conobbero, dunque, i romani la santità del diritto fuori del tempo,
cioè nell'eternità, o nel suo fondamento assoluto. Inoltre vedemmo che il gius
civile si distingue dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza
origina il diritto onorario, di cui parla Forti se non con molta novità, certo
con più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati. E io ritrarrò in breve la
sentenza di lui, e n'usce la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la
filosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dico che il gius
onorario contene gli editti del urbano e del peregrino, e quelli degli edili e
proconsoli e propretori delle provincie -- edictum provinciale. Pare che il
gius predetto, almeno in modo segnalato, principiasse per chè Cicerone nella
seconda Verrina dice. Postea quam jus prætorium constitutum est. Hugo dimostra,
contro Heinneccio, che tal diritto ha forza di legge; poichè, tra gli altri
argomenti, Cicerone non contrasta nelle Verrine che L’EDITTO DI VERRE SIA LEGGE
da tenere, ma lo accusa di averlo infranto VERRE stesso, o conformato non
secondo ragione (Hugo, Hist.). Or dunque, i pretori rendevano giustizia
ne'civili negozi, gli edili per le convenzioni de' mercati e per LA POLIZIA
DELLA CITTA. E tanto gli uni che gl’altri, quando pigliavano i magistrati,
mandano fuori un editto, ove stabilivano le forme del giudizio e LE MASSIME -- ottimo
istituto in repubblica popolare. Non mutano il gius, ne determinano
l'applicazione. Eccone gli esempi. In primo luogo, salva LA FORMA LEGALE,, si
supponga che i contraenti hanno pattuito o per inganno, o per errore, o per
timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi
uguale per tutti. Quindi i pretori statuiron una MASSIMA PER L’EFFICACIA CIVILE
DELLA MORALITA NEGL’ATTI, scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione
della legge e i mezzi legali. Perchè QUESTA O QUELLA MASSIMA d'equità si
recassero ad effetto. I codici moderni han composto di questa o quella MASSIMA
le lor legge universale. Allora, dice Forti, gli editti de' magistrati sono uno
de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente ai
bisogni civili. Sicchè, quant'alla moralità degli atti, trovarono i magistrati
l'ECCEZIONI perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore,
per violenza; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le dette
obbligazioni, od a ripetere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. In
secondo luogo, la legge, definito il diritto e ordinatane la sanzione, lascia
a'magistrati il modo d'effettuarla. Per esempio, la legge stabilice i modi
d'acquistare la proprietà, ma non i modi della sua difesa; che più torna
necessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietà
de'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio -- onde
nacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenziano
a capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va'
discorrendo (Ist. Civ., L. I. S. 1). Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a
formare un'altra maniera di gius -- ioè il diritto ricevuto -- “jus receptum”.
Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza
della buona fede, costringeno i magistrati a giudicare di que'contratti, non
secondo la nude parola della legge, sì a lume di naturale onestà; come le
clausale, si lodate da CICERONE uti ne propter te, fidemre tuam captus,
fraudatusne sim; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione (De
Off.). I giureconsulti si dano all'interpretazione; e poi chè questa o
considera la legge in sè, o L’ATTO DELLA VOLONTA UMANA, così la filosofia di
que'sapienti gl’aiuto all’un fine con le spiegazioni delle parole e con la
definizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa:
gli aiutò all’altro fine co giudizi sulla moralità dell’ATTO, e con le regole
per interpretare l'altrui volontà. Gravina così accenna le novità del gius
ricevuto. Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti a
poco a poco e come di soppiatto l'asprezza della legge, sono venute le regole
di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi, l'uso dei
codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili, perchè
procedono dall’equa e utile interpretazione, le stipulazioni aquiliane, autore
AQUILIO giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la regola
catoniana, la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e
moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da
essi vernero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela
dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome
di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto (De ortu et progr. I, Civ., C. )
Tale acume di riflessione disciplinata reca i giureconsulti per fino ad un
computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agl’alimenti
(come si vede Fr. D Ad Legem Falcidiam ). Cosa notabile molto, perchè fa
supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti. La virtù e la vera
filosofia de' giureconsulti le sentiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo
alle ampollosità di SENECA e degli altri si tien semplice e puro.. Nelle
Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' compilatori greci e de' copisti.
Ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali
maestri di latinità. Termino recando un saggio di tal sapienza ed elegante
brevità, in alcune regole di gius dall' ultimo titolo de' Digesti. I diritti
del sangue non posson finire per niuna legge civile (Fr.). Sempre nelle cose
oscure s' ha da tenere il meno. Sta in natura che le comodità d'una cosa seguan
colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può col
tempo sanare. Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' è
legato. Però l ' obbligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudo
consenso con altro consenso. Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non si
stima. Vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza. Nessuno può
trasferire altrui più diritti che non ha. Sempre nel dubbio son da preferire le
sentenze più benigne. L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti che
il defunto. È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o
ammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da cose
evidentemente vere a evidentemente false. Quante volte l’espressione in un
discorso PARE rendere DUE sensi, prendasi quello ch'E PIU ADDATO AL DA FARE. Non
si dà benefizio per forza. Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno.
In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equità. Ne’discorsi AMBIGUI è
il più da guardare all'INTENDIMENTO DI CHI LI FA. Nelle cose oscure si badi al
più verosimile, e a ciò che accade più spesso. Il timore vano non è buona scusa.
Per l'impossibile non c'è obbligo che tenga. Le cose proibite da natura non
sono convalidate da legge nessuna. Per gius di natura nessuno dee farsi più
ricco a danno altrui. Per gius civile i servi si stimano nulla. Non per diritto
naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali. Quando l'impero si foggia
all'orientale, la giurisprudenza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno “la
indigesta mole de’ digesti” e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza.
Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia latina di CICERONE
e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quello
apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nelle
speculazioni, fuggire tutti gl’eccessi delle sette, componendone, guidati dalla
coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari, mi sembra, che veramente
dopo la dialettica distintiva de' greci, tendevano I ROMANI alla comprensione
finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta della
filosofia. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due
importanti ambiti della sua produzione teorica: e opere di argomento retorico;
(le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il
primo di questo ambito, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, l'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so- cio-politico, volta a definire la figura dell'oratore
perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla
scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut- to ciò che
costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la
problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato,
quanto dato per scontato: esso si confi;:ura come un vasto campo di competenza
che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso
personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi
del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio- nes
oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla
caratteristica di prendere in considerazio- ne e di sistematizzare la gran massa
delle nozioni che com- pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di
que- ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa- rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguijta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2.1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di
Cicerone e con- densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino
a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro- vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare
è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an- tecedente
che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione
verso i segni involontari (l'im- pallidire, l'arrossire, il balbettare
dell'imputato) come indi- zi di colpevolezza. Infine compare la classica
divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi-
noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto
con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni
proposta da Cice- rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap-
pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar- gomentazione),
cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per
confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa
che si esco- gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera
probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in"un mo- do necessario
(necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il
normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio
il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che
viene depositato nel dossier dell'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a
questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa
debole (probabili- ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon-
strans). 9.2.1.1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così
definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi
né essere pro- vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono
esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se
respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., I, 86). Come
Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il
conseguente sono legati da una re- lazione inscindibile (cum priore necessario
posterius cohae- rere videtur, De inv., I. 86). Il rapporto di rinvio non
necessario viene poi cosi defini- to: "Probabile è poi ciò che suole
generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé
qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De
inv., I, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri:
(i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da
Aristotele attribuito peculiarmente al1'eik6s (verisimile). E infatti i primi
due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eik6s:
"Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del
giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di
generalizzazio- ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet.,
1357a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari,
era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 CICERONE), che non
sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semefon aristotelico. 9.2.1.2
L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar- tizione dei
segni non necessari, accanto al credibile (credibi- le), all'iudicatum
(giudicato) e al comparabile (paragonabi- le). Se le ultime tre nozioni
appaiono distinte in base a crite- ri estrinseci (e scompariranno nelle
trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni
abbastan- za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no-
stri sensi e indica (significat) un qualcosa che sembra deri- vato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più
sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il
pallore", "la fuga", "la polvere". Si tratta, come si
vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e
generalmente non vo- lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio-
nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio- ni, come dimostra
il caso dell'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,
vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.
Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo- sta nel De inventione
(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae
sono un'opera della tarda matu- rità di Cicerone, nella quale la
classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e
peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si
sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa- mente
latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati argumentatio~ Né questo
è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca,
si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si
esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane
l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche
dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico
I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in
particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti
la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia
(verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il
verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Pari.
or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo
particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali' eik6s aristotelico,
di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante. La nata propria rei
viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e
indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si
tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche
dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da alla nozione di
fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno proprio era la
caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i
leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per
le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere di necessità e
si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui
rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono,
poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali necessaria (•ea quae aliter
ac discuntur nec fieri nec probari pos- sunt"I es.: ·se ha partorito, è
stata con un uomo" probabilis (•quod !ere solet fieri aut quod in opi-
nione μositum est") es.: ·se è madre, ama suo figlio" signum
credibile indicatt.:m comparabile ("quod sub sensum aliquem cadit, et
quiddam significat, quod ex ipso .!'rofectu.m .est"I. es.: sangue , fuga ,
"pallore", "polvere" vestigia facll) non compaiono più come
sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono ur.. ruolo autonomo. Infine
viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo- ghi estrinseci"
(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechno1) e "luoghi
intrinseci" (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1),
che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata
nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto,
accanto alle testimonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli,
gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti
onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione
orda- lica e antichissima dell'amministrazione della giustizia; tut- tavia è
anche un indizio di un continuo riaffiorare del para- digma divinatorio
all'interno dei fatti semiotici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per
quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di
Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile
con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare
dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81;
Lanza 1979: 105). 9.2.2.1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani
sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli
che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere
tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae
rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è
"ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la
gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno
corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico
e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che
non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica
il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno
necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo
proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari-
stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere,
come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del
coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno
proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non
può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I,
12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di
fatto), dei quali vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue,
grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor- so
contraddittorio, tremore [...]. gli indizi materiali della premeditazione, le
confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Part. or., 39). Cicerone non definisce qufsto tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di "fenomeni avvertibili con i sensi"
(ibidem), caratte- ristica condivisa anche dai signa del De inventione (I, 48),
in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor- nificio (Rhet. ad
Her., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigia f acti siano più in
relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili
(verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria
abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le
caratteristi- che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate-
goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekméria quanto dagli eik6ta.
Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (114), dove ricorrono esempi
analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come
consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica
che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre
Aristotele condannava i semefa da un punto di vista episte- mologico per la
loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico- noscerne l'efficacia qualora si
presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi
schematizzare la classificazione cicero- niana nelle Partitiones oratoriae
(cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la
retorica giudiziaria alla divina- zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si
avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente
accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una
distinzione tra aspetti che sono eminente- mente congetturali e altri aspetti
che sono invece naturali o coniectura -- I --vestigia facti osigna
verisimili& notae propriae rerum c•quod plerumque ita r11·1 es.:
·adolescenza- incllnazione alla libidine· c•quod numquam aliter fit certumque
declarat•) es.: ·tumo-fuoco· 1•sensu percipi potest") es.:
·sangue-uccisione• dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o
congettu- rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di-
vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con- gettura) e
divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole- micamente rileva (De div.,
Il, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera
diametralmente oppo- sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e
la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di- verse ed
entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi dell'indagine giudiziaria,
mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di- vinazione. In linea,
infatti, con un vasto gruppo di intellet- tuali della sua epoca, educati ai
metodi di indagine della fi- losofia greca, a fondamento razionalistico, e
contempora- neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una
distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per
lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta
come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione
dello stato ste~so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli
elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa,
dev'essere respinta, anche per- ché non venga limitata la libertà del cittadino
romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi
argomenti nel De natura deo- rum, nel De fato e, soprattutto, nel De
divinatione. Que- st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e
il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie
storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni
di Cicerone contro la teoria soste- nuta da Quinto sono particolarmente
interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo
semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale
del segno. 9.2.3.1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di
Quinto, gli dei si pongono come fon- te dell'informazione e come emittenti nei
processi di comu- nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata-
ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro- cesso
comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla
divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars,
ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia- listi,
ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere),
interpretes monstrorum et fu/gurum (inter- preti dei fatti prodigiosi e dei
fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti
delle stelle), in- terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di
tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione
l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una
sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un
contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di
questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i
fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau- se ed effetti, senza
soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos
divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da
parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità
(De div., l, 125-127). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico
che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non
dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quanto prima è accaduto" (De
div., I, 127). Questo fa sì che gli uomini, attraverso l'osservazione attenta,
colgano il mo- do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere
direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi
caratteristici (signa tame.1causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è
possibile tramandare memoria dalle con- nessioni passate, si crea un vero e
proprio codice basato sul- la iteratività. Si può schematizzare così il
processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla
iter attività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di
divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque
tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione
divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte
di questo tipo le forme di preveggenza derivan- ti da invasamento profetico,
cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico
·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri-
patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no- minati, De div., II,
100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una
volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che
la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo
del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una
parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
emittente divino - Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione
presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso
segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano
frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un
certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a
ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata
da ra- gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.,
II, 74).segno interno - evento futuro •➔ ricevente
umano 9.2.3.3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori
Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi- nazione si basano su
argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale
Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere
semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se- gni non siano
veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti
rispetto a dei conse- guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli
presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche
scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica
previsionale del contadino e dell'astronomo) e la divinazione. In entrambi i
casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre
le pratiche pro- fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati- che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade- re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) 1 e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip-
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes- sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello all'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono
altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico:
(i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte
(De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa
identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a
quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De
div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni
ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv)
in certi casi l'interpretazione è motivata da ra- gioni di faziosità politica e
quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). Nel suo libro Semiotica
e filosofia de/linguaggio Eco osservava come la semiotica, proprio nel mo
mento storico in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina e
vedendosi riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio in
questo volgere di seco lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di una
serie di dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la sua
crisi. Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale è
anche leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella della
semiotica come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi preannunci,
progetti, ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso la
riflessione teorica degli ultimi duemila cinquecento anni. La proposta
d i Eco è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovi
giustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni e
le reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere a
ritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico:
diverrebbe così possibile su perare i crampi linguistici che sono alla base
delle attuali de finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppo
angusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando escono
dai sistemi verbali). Il presente lavoro costituisce un tentativo di accogliere
il suggerimento di Eco e si propone di indagare le pratiche se miotiche delle
origini e la riflessione teorica sul segno, che sono state elaborate dal mondo
antico e che ci sono state consegnate dalla tradizione letteraria, filosofica,
medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di un
filo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini fino almeno al IV se
colo d.C. e che porta alla costituzione di una nozione di se gno abbastanza diversa
da quella proposta dalle teorie del Novecento. La maggior parte, infatti, delle
dottrine del segno che so no state elaborate in questo secolo - sia in ambito
linguisti co, a partire dal Cours saussuriano, sia in ambito più gene
ralmente semiologico - si fondano su due presupposti, che risultano del tutto
assenti nella riflessione classica su questo soggetto: l. il modello di segno,
sul quale l'intera indagine semiologica viene articolata, è quello del segno
linguistico; 2. il tipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le due
facce del segno è quello dell'equivalenza (p=q). Da que st'ultima assunzione
dipende il fatto che la nozione di signi ficato più diffusa fino a qualche
anno fa nelle teorie seman tiche fosse quella che lo vedeva come sinonimia o
come de finizione essenziale. A partire, infatti, dallo strutturalismo
hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica com ponenziale e
interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine linguistico -
o se si preferisce, la forma del l'espressione di un segno- è sentito come
equivalente a una serie di figure del contenuto, o marche semantiche, espresse
a loro volta metalinguisticamente da altrettante forme lin guistiche (ad
esempio luomol ="essere animato" + "uma no" +
"maschio" + "adulto"). Una indagine sul modo in cui nasce e
si articola nell'anti chità classica la riflessione sul segno ci permette di
scoprire che, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha
omologazione dei vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma
che, anzi, le due teorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno
non linguistico) procedono in maniera parallela, senza interconnettersi. Ne è
un esempio chiaro il fatto che Aristotele adoperi il termine symbolon per
indicare il segno linguistico e le espressioni smefon o tekmrion per indicare
quello non linguistico. La saldatura avverrà molto più tardi, in Agostino, ma,
in questo caso, sarà l'espressione linguistica a essere sussunta sotto la
categoria più generale e già costituita del segno non linguistico. Per quello
che riguarda il secondo punto, le pratiche se gniche che la tradizione ci ha
tramandato e le teorie classi che prevedono un funzionamento del segno non
secondo lo schema deli'equivalenza, bensì secondo quello deli'implica zione
(p:Jq); per citare un esempio celebre, che percorre l'intera tradizione antica
da Aristotele a Quintiliano, pas sando per gli stoici, un caso paradigmatico
di segno è: "Se una donna ha latte, allora ha partorito". A questo punto
è già possibile un confronto. Il modello antico, implicaziona le, appare non
solo molto più interessante rispetto a quello equazionale, ma certamente molto
più, per così dire, attua le: infatti è in corso nella ricerca contemporanea
una revi sione di paradigma, che tenta di superare le semantiche co siddette
"a dizionario" (che funzionano secondo il modello dell'equivalenza)
per passare alla proposta di semantiche "istruzionali" (che
funzionano secondo il modello dell'im plicazione). Tuttavia, l'interesse di un
lavoro di ricostruzione delle teorie semiotiche dell'antichità non è limitato
soltanto al re perimento di materiale sommerso, finalizzato, magari, alla
costituzione di un quadro da mettere in confronto con quel lo attuale. C'è un
interesse intrinseco anche nell'osservare come i campi nozionali, e la
terminologia associata a essi si siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo
preso for ma a partire da situazioni di usi linguistici originariamente molto
più magmatici. Anche in questo caso bisogna citare Aristotele come il primo che
impone dei confini netti a ter mini e concetti, che sono stati usati sino alla
fine del V seco lo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocrati
cum) con una oscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione
aristotelica, espressioni quali semefon, aitia, prophasis, tekmrion, eikos, non
solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di termini che
ammettevano una parziale sovrapposizione e in tercambiabilità (Lioyd). Ugualmen
te, il riferimento culturale di certe espressioni era stato, pri-ma di
Aristotele, eterogeneo e diverso: smafno, a esempio, come ci mostra il
frammento 93 (Diels-Kranz) di Eraclito era il verbo che indicava la rivelazione
oscura del dio di Del fi; tekmairomai, poi, denotava in generale il procedere
at traverso un ragionamento congetturale, ma nei tragici e nei lirici veniva
usato in riferimento alla pratica dell'interpreta zione divinatoria; smefon,
infine (o la sua variante omerica séma), era il termine più complesso di tutti,
indicando, fin dalle origini, una molteplicità di cose, dall'indizio al segno
di riconoscimento, al prodigio divino, fino a essere usato come termine
generale per il segno divinatorio (Bloch 1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr.
it. 477). È innanzitutto alla divinazione, all'astronomia e, tramite queste,
all'arte della navigazione, che la problematica del segno viene in origine
connessa. Come testimonianza di tale connessione, si può ricordare la
cosmogonia di Alcmane in cui all'origine del mondo compare la dea marina Teti,
accompagnata da tre perso naggi divini: da una parte P6ros (''la via") e
Tékmor ("il segnale", "il punto di riferimento");
dall'altra Sk6tos ("l'oscurità"). Come sottolineano Detienne e
Vernant, Tékmor svolge un ruolo fonda mentale: "Nell'oscurità [sk6tos]
del cielo e delle acque in origine confuse, egli introduce vie [p6roll
differenziate, che rendono visibili sulla volta celeste e sul mare le varie
dire zioni dello spazio, orientando una distesa prima sprovvista di ogni
tracciato, di ogni punto di riferimento, aporon kai atékmarton". I
naviganti devono congetturare (tekmafre sthal), sulla distesa indifferenziata
del mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la fanno loro intravedere,
fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento. In questo modo i
naviganti gettano un ponte tra il visibile e l'invisibile. Con Aristotele, i
termini del vocabolario semiotico, che avevano mantenuto fino ad allora il
riferimento alla sfera del sacro (e che continueranno a essere usati in tal
senso fuori dagli ambienti filosofici e razionalistici), vengono pie gati a un
uso esclusivamente profano (Lanza 1979: 107). Tuttavia, se si perde il
carattere sacro delle origini, qual che traccia rimane ed è leggibile in
trasparenza, se è vero che Aristotele, nella sua delimitazione dei campi
concettua li, riserva l'espressione smeion al segno che non dà certez za e
che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espres sione tekmrion al segno
sicuro): qui, quello che era stato il segno ambiguo della rivelazione divina,
diviene il segno am biguo del modello conoscitivo razionalistico. Se il
paradigma semiotico affonda le sue radici nelle pra tiche "non
scientifiche" della divinazione e della medicina magica (la
"iatromantica"), tuttavia lentamente depura, nel corso dei secoli,
queste origini da tutto ciò che in esse c'era di irrazionale e di non
controllabile (anche se sempre, al di fuori delle teorizzazioni della
filosofia, rimarranno usi magmatici e irrazionali di questo paradigma, come
dimo strano, a esempio, le opere di Artemidoro di Daldis o di Elio Aristide
sui segni onirici). Se si tiene presente quest'ottica, non è più sorprendente
osservare che la forma proposizionale e implicazionale che gli stoici danno al
segno ("Se c'è cicatrice, c'è stata piaga") si ritrova identica nelle
tavolette divinatorie mesopotamiche a partire dal III millennio a.C. Anche gli
antichi babilonesi esprimevano il segno attra verso un periodo ipotetico,
formato da una protasi, intro dotta dalla congiunzione summa (equivalente alla
ei greca, che introduce il condizionale stoico), e da una apodosi: es se,
rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la sua
interpretazione ("Se il polmone è rossastro a destra e sinistra - vi sarà
un incendio,) (Bottero 1974). In ambiente greco, una saldatura tra segno
divinatorio e forma logica deli'implicazione la si trova testimoniata in uno
dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. In que st'opera, alcuni
prestigiosi personaggi discutono sul signifi cato di un oggetto, avente la
forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio di Delfi. Tra essi, Teone
propone un'interpretazione della E ricorrendo al nome che nella lin gua antica
questa lettera riceveva, e cioè ei. Teone assimila poi questo nome alla
congiunzione ipotetica ei (''se") e mo stra che tale congiunzione svolge
nella dialettica un ruolo essenziale, in quanto serve a esprimere il rapporto
logico per eccellenza, quello che si ha nei condizionali del tipo "Se è
giorno, c'è luce" (esempio, questo, che era tra i più classi ci della
logica semiotica stoica). Teone sottolinea, infine, che il dio di Delfi,
Apollo, è un dio "molto amante della dialettica", tanto è vero che i
vaticini presuppongono la for ma del condizionale, p--: q, che è la forma
stessa che assu mono i fenomeni dell'universo (e qui il richiamo è alla teo
ria stoica della "simpatia universale"). Certo, quello che risulta
dal testo di Plutarco (scritto pro babilmente all'inizio del II secolo d.C.) è
al massimo che la teoria stoica del fato e della divinazione si fondava su base
logica (il destino consisteva in una serie interconnessa di condizionali). Ma
se l'ipotesi da porre fosse quella esatta mente contraria? Se, cioè, lo
strumento così asettico e ra zionale della logica traesse in realtà le sue
origini dall'ambi to divinatorio? Come dimostra la sua stretta connessione con
i segni e la divinazione presso gli stoici (Goldschmidt; Verbeke). Un enorme
cammino è tuttavia stato compiuto dai testi divinatori babilonesi alla logica
stoica: la forma proposizio nale rimane la stessa, ma nel caso degli stoici è
stata depura ta non solo di ogni carattere sacrale, ma anche di ogni ele
mento contenutistico . È lì solo per il calcolo proposiziona le. Nel caso
degli antichi mesopotamici, invece, il contenuto della protasi permetteva di
inferire il contenuto dell'apodo si mediante più o meno complicati processi di
analogia e giochi tropici (il "rossore" del polmone permetteva di
infe rire "incendio" per un tratto semantico comune). Infine una
disamina sulla riflessione semiotica antica per mette di scoprire come il
dibattito sui segni, sulla loro natu ra e sulla loro classificazione si sia
attestato a livelli sor prendentemente alti, come è il caso della discussione
sui condizionali in seno alla stessa scuola stoica (tra Diodoro, Filone e
Crisippo) o della disputa tra stoici ed epicurei sul rapporto tra antecedente e
conseguente nei segni (di cui puntualmente ci informa il De signis di
Filodemo). La discussione di carattere semiotico, insomma, si riferi sce
sempre a (o si identifica decisamente con) il quadro più generale o più
fondamentale del problema della cono scenza. Sarà poi nel mondo romano che
queste problematiche di ordine conoscitivo generale verranno piegate alle
esigenze più pragmatiche della conoscenza giudiziaria: il problema dei segni si
identificherà con quello delle metodiche per as segnare un maggiore o minor
valore di prova agli indizi pre sentati in un procedimento processuale. La semiotica
verrà messa al servizio dell'arte del detective, in ciò prefigurando uno degli
aspetti più singolari deIl'interesse contemporaneo nei confronti dei paradigmi
indiziari (Eco e Sebeok 1983). Sarà, infine, con Agostino (nel IV secolo d.C.)
che la teo ria del segno fornirà un paradigma anche per la teoria del
linguaggio, permettendo di unificare in un'unica categoria anche i segni
verbali. Desidero ringraziare i molti amici che hanno letto e di scusso con me
parti di questo lavoro. Tra coloro che mi hanno offerto preziosi suggerimenti
critici vorrei ricordare Bernardini , Borutti , Crevatin, Fabbri,Manuli, Marmo,
Tabarroni, Vegetti, e Violi. Per molte delle idee e per l'impostazione
generale del libro sono debitore a Um berto Eco, che ha seguito e incoraggiato
il lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a Amedeo G.
Conte, che ha rivisto una precedente versione del mano scritto, e dal quale ho
ricevuto una infinità di preziosi con sigli. Quanto agli errori e alle
imprecisioni, ne assumo inve ce totale responsabilità. C'è un campo specifico
in relazione al quale tutte le cul ture antiche riconoscevano l'eccellenza e
il magistero dei popoli mesopotamici: quello della divinazione. Non ci si può
nascondere tuttavia, a questo proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla
cultura moderna nei confronti delle pratiche che rientrano in questo campo è
fortemente svalutativo: esse, infatti, rappresentano un pa radigma che si pone
esattamente agli antipodi di quello che normalmente è assunto come il paradigma
scientifico. Ma ci sono almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla
divinazione mesopotamica come a qualcosa che merita più di un interesse puramente
occasionale o erudito. In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, come
sug gerisce Carlo Ginzburg (1979), ai rapporti tra paradigma
"divinatorio" e paradigma "scientifico" come a qualcosa di
molto più complesso di quello che si assume di solito e che non comporta
affatto una svalutazione del primo termine. Infatti, per Ginzburg, il paradigma
divinatorio (definito an che, a seconda dei contesti in cui si manifesta, come
"indi ziario", "semeiotico", "venatorio"),
costituisce un modello di sapere specifico, caratterizzato dali'aspetto
qualitativo: e cioè basato sulla conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso
della congettura. Ciò gli permette di giungere a risul tati notevoli, in tutte
quelle aree del sapere che lo utilizzano privilegiatamente (al di là della
mantica, sicuramente, an-che la medicina, la filologia e cosi via, su su fino
alla detec tion, la connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per que sto
deve pagare il prezzo di una ineliminabile dose di aleato rietà. Si tratta, in
realtà, di un sapere del tipo che Peirce (1980; 1984) avrebbe definito
"abduttivo", in contrapposi zione al modello del sapere quantitativo
che fa uso della de duzione come metodo di ragionamento. In secondo luogo
bisogna ricordare che in Mesopotamia la divinazione subisce un lungo processo
evolutivo che dalla fondamentale e primaria tendenza a inferire le cause dagli
effetti (procedimento tipico dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di
più i tratti generalizzanti e aprioristici, in modo da gettare le basi per una
vera e propria scientifici tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211).
Ciò che risulta di maggiore interesse, dal punto di vista della ricostruzione
storica di una disciplina semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio
si pone proprio il segno in una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti,
costituisce anzitutto uno schema di ragionamento inferenziale, che permette di
trarre alcune conclusioni a partire da certi dati. È interessante notare come
il segno divenga centrale nel l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto,
partendo dal campo della divinazione, si estenderà in seguito anche alel altre
pratiche culturali e discipline, come la medicina e la giurisprudenza, e
arriverà ad articolare, unificandola sot to il suo modello, la totalità del
sapere. Si raggiungerà dun que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, a
livello molecolare, funzionerà secondo lo schema, unificato e for male, del
segno divinatorio, anche se contenuti di volta in volta differenziati verranno
utilizzati per dargli corpo. Pos siamo già accennare (anche se vi torneremo su
in seguito con maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella cultura
mesopotamica dal modello segnico: quella di un pe riodo ipotetico in cui una
certa conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo stato
di cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è
"segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p,
allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nella
fase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo lo
schema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui,
una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce le
differenze: nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere gli
elementi materiali (o contenutistici) che permettono il pas saggio dalla
protasi all'apodosi; in quello della semiotica stoica, invece, le inferenze
sono rese possibili unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo,
nonostante queste profonde divergenze e al di là del problema, che pure si
pone, degli eventuali debiti specifici della cultura greca nei confronti di
quella mesopo tamica a questo proposito,1 è interessante verificare la pre
senza dello stesso schema segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quella
greca e quella mesopotamica) e due ambiti culturali (la divinazione e la
filosofia) per altri versi tanto distanti tra loro. 1. 1 Divinazione e
scrittura Il fatto che quella mesopotamica sia essenzialmente una civiltà della
scrittura costituisce senz'altro uno dei presup posti per capire il tipo di
divinazione sviluppatosi in Meso potamia e le ragioni della sua ampia
diffusione: è la scrittu ra, infatti, che in Mesopotamia fornisce la forma e
il mo dello per tutta una serie di attività intellettuali, prima fra tutte
quella deli'interpretazione dei segni inviati dagli dei. La lettura
dell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono qui per diretta
ispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in atto neli'interpretazione
dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione alla grande importanza
assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che il modello ri sultato
egemone è quello della divinazione tecnica (Bouché Leclercq 1 879-82 : vol .
l, 1 11 e 274), quello cioè basato sulla interpretazione di segni che si
realizzano esternamente al l'uomo e che richiedono l'intervento esplicativo
degli spe cialisti. Per comprendere il ruolo che la coppia scritturaloralità
gioca negli orientamenti divinatori è sufficiente mettere in relazione la
civiltà mesopotamica con quella greca. Que st'ultima, come noto, è una cultura
essenzialmente orale, dove la scrittura si sviluppa in un periodo relativamente
re cente e non costituisce un fenomeno autonomo rispetto al parlato, bensì,
essenzialmente, una sua riproduzione in ca ratteri fonetici. In stretta
connessione con il carattere orale della cultura, in Grecia risulta egemone
proprio il modello della divina zione ispirata, in cui il dio parla ali'uomo
attraverso un profeta, avvertito come suo portavoce, secondo il celebre esempio
della divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E non è poi un caso che la
società greca non abbia favorito, come avviene invece in Mesopotamia, la
nascita e la presen za stabile di una classe sacerdotale preposta
ali'interpreta zione specialistica sia dei segni della scrittura sia di quelli
della divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la scrittura, per
un verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un dispositivo dotato
di meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato. Le prime
attestazioni della scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine del IV
millennio e l'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è
pittografica, in quanto fatta di segni che intendono designare ciò che
raffigurano: a esempio la rappresentazione di una testa di bovino, trac ciata
nei suoi contorni, ma perfettamente identificabile, in dicava in prima istanza
"il bue"; ma, per una sorta di am pliamento semantico del segno,
esso indicava anche "la vac ca" e "il bestiame grosso".
Ugualmente il disegno schemati co di un piede aveva anche il significato di
"stare in piedi" e quindi quello di "immobile", di
"camminare", di "parti re", fino ad arrivare addirittura a
quello di "portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e
significati non si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un
lavoro interpretativo piuttosto complesso per controlla re i processi di
ampliamento o di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che
si complicavano attraverso nuove associa zioni derivanti dalla
giustapposizione di segni diversi: il se gno del pane messo accanto a quello
della bocca dà il pro dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua
accanto a quello deli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo
ac canto a quello del cielo significa "pioggia". Più curioso an
cora è il caso del segno della montagna che, giustapposto al segno indicante la
donna, produce il senso "la schiava", in quanto le montagne
delimitavano a est e a nord la regione, e una donna portata da un paese situato
oltre la montagna era una straniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque
complicati meccanismi enciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può
osservare anche che, nella sua forma più anti ca, quella cuneiforme è una
scrittura di cose (Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di
passare attraverso il linguaggio verbale per designare gli oggetti della
realtà. La sua autonomia rispetto alla realizzazione verbale è tota le, tanto
è vero che i segni possono essere compresi da per sone che parlano lingue
diverse e, del resto, sono pronun ciati in modo diverso in ciascuna di queste
lingue come av viene, a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I
Mesopotamici si dimostrarono molto legati a questa "scrit tura di
cose" e non l'abbandonarono neppure quando ven nero fatti notevoli passi
avanti verso il fonetismo con l'in venzione della scrittura sillabica. In
effetti, circa un secolo dopo la sua prima scoperta, i segni della scrittura
pittografica avevano cominciato a subi re un processo di scollegamento dalle
"cose" che designava no, per essere collegati più direttamente alle
"parole" con cui il linguaggio verbale designava i medesimi oggetti.
Il ca rattere monosillabico di molte parole e l'alta percentuale di omonimi,
avevano favorito questo processo. Un esempio interessante del fenomeno, che è
anche il più antico, è quel- lo del segno della fr H 1--- , che viene a in-
dicare non più solo "la freccia" ma anche "la vita": la me
diazione è stata dali'omonimia tra le parole designanti i due concetti,
pronunciate entrambe ltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare
il processo: pronuncia l ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l
::rafico HH H'VA questo punto per arrivare a un alfabeto sillabico per fetto
sarebbe stato sufficiente eliminare tutti gli ideogram mi indicanti parole per
lasciare soltanto i segni di sillabe, sorta di unità minime infinitamente
reimpiegabili. Invece i Mesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni
presi nel loro valore fonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro
precedente valore pittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che
derivano da questa organizzazione della scrittura, per la divinazione.
Anzitutto, come abbiamo visto da alcuni esempi, la scrit tura pittografica ha
la caratteristica essenziale di tessere una rete sottile e complessa di
rapporti tra le cose: abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e
legami inso spettati. Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che
porta a guardare anche alle cose del mondo reale come in nescanti un analogo
processo semiosico: non solo, quindi, l'abbinamento pittografico del segno
della montagna e di quello della donna indicheranno "schiava", ma
anche lo stesso abbinamento osservato nella realtà, oppure in un so gno,
porterà a trarre una inferenza analoga. È proprio un meccanismo inferenziale di
questo tipo che si pone alla base della divinazione. La seconda conseguenza è
connessa con il carattere spe cialistico delle conoscenze richieste per
l'interpretazione della scrittura: i caratteri cuneiformi non sono accessibili
a tutti, dato il sistema di cifrazione cosi complesso. Si crea al lora una
sorta di aristocrazia di esperti capaci di interpretare i segni della
scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'in terpretazione dei segni
mandati dagli dei, la casta degli in dovini baro, i quali hanno come emblema
della loro corpo razione proprio la tavoletta e il calamo. 1.2 La scrittura
degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978: 1227), in Meso potamia
"parlare di una scrittura degli dei non è una meta fora". Infatti
quella cultura proietta nel campo teologico lo stesso modello di organizzazione
che vede operante nel campo della burocrazia statale. Come ii re diffonde il
suo potere dal centro alla periferia attraverso una capillare e sviluppatissima
rete amministrativa che trasmette i suoi or dini scritti indirizzati ai
sudditi, così gli dei si servono della scrittura per far conoscere agli uomini
i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; solo che "l'unica
tavoletta a lo ro misura è l'universo intero" (ibidem). Sama e Adad,
gli dei della divinazione, sono per un ver so come il sovrano che
notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti; per un altro
sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, la ratifica sulla
tavolet ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque, in questa
concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sono il supporto
materia le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, come vie ne
testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani pal a Sama5: "Tu
scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come (altrettanti) segni
cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizione degli
astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta" dagli
astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre sagio
consistesse letteralmente in un segno di scrittura trac ciato nelle pieghe del
fegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "ante
litteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra il
sistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scrittura
degli dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. È
possibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati di
vinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimi
elenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e da
un'apodosi. La protasi è in trodotta dall'espressione summa (equivalente alla
congiun zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essa
costi tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essere
interpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi tuisce
!'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in terpretazione
del segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecniche
divinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giorno
della sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'un
tratto)- vi sarà siccità-e-arestia nel paese. Fisiognomonia Se un uomo ha il
pelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame ranno. Oniromanzia Se un uomo
sogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi glio. Lecanomanzia Se, dal
centro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano due "ponti", uno
maggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met terà aJ mondo un figlio
maschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il polmone è rosso-vivo a
destra e a sinistra - vi sarà un in cend io. 1.4 PASSAGGIO DALLA PROTASI
ALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la sostanza aromatica) sulla
brace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra, e non verso sinistra -
avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona (solamente) verso sinistra
e non verso destra - il tuo avversario avrà la meglio su di te. Questi esempi
permettono già di fare due osservazioni a proposito del meccanismo semiotico in
essi instaurato. In primo luogo la struttura del segno è espressa in termini di
rapporti tra proposizioni e non tra singole unità lessicali o tra un
significante e un significato in senso saussuriano. Questo fa sì che i segni
non verbali e gli eventi acquisiscano subito un'importanza predominante, in
quanto trovano ap punto nella proposizione il modo migliore di essere
espressi. In secondo luogo il rapporto che c'è, all'interno di cia scun segno,
tra la protasi e l'apodosi è di tipo implicativo, intendendo però questo
termine come designante un'infe renza ancora abbastanza generica: come
vedremo, all'inter no della scuola stoica, invece, l'interesse si accentuerà
pro prio sul tentativo di definire il nesso implicativo che caratte rizza il
segno e a questo proposito si accenderanno diver genze che alimenteranno una
lunga e complessa discus sione . 1.4 n passaggio dalla protasi all'apodosi
Messi di fronte ali'enorme massa delle proposizioni divi natorie documentate
dai trattati mesopotamici può sembra re che regni la più completa casualità
nel movimento che re gola il passaggio delle protasi-presagio alle relative
apodo si-oracolo. A ben guardare, però, è possibile rintracciare al cune
linee generali che consentono di mettere un po' d'ordi ne in un coacervo
altrimenti amorfo e di cogliere alcuni principi di regolazione. Sono
rintracciabili in realtà tre casi teorici di passaggio non casuale dalla prima
alla seconda proposizione: Il primo tipo di passaggio è connesso al principio
del co siddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi strano eventi
che si sono verificati effettivamente secon do una concomitanza temporale.
Questo genere di mec canismo si trova nei cosiddetti "oracoli
storici", caratte rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato,
anziché al futuro; essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario
di divinazione. 2. 3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso
alla possibilità di un gioco di associazioni tra elementi della protasi ed
elementi dell'apodosi: naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco
fonetico sui signifi canti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo
tipo di passaggio tra le due proposizioni è con nesso alla presenza di codici
che prevedono una serie esauriente e completamente specificabile di casi. In
realtà, nella fase più recente della storia della divina zione mesopotamica, i
trattati subiscono un'evoluzione nel la direzione della sistematicità e
dell'astrazione. Il sistema astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo
prende il sopravvento anche sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furia
classificatoria dei Mesopotamici guarda più ali'e saurimento di tutti i casi
astrattamente possibili che non al la loro concreta possibilità di verifica.
Avviene così che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipenda
dallo schema astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracoli
storici" e l'empirismo divinato rio Sommersi, e quasi fossilizzati,
nell'insieme delle decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici ci
hanno con servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero non
grande, ma significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisi
interna, all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati più
recenti. 1 . 4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi
presentano infatti quattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica
apodosi al passato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad
avvenimenti storici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre
fonti, risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono
menzionati sono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad
(ca. 2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula
amat "(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli
al tri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo
è doppia, se vi sono tre Ro gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sono
scavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degli
abitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii fu)
fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il)
presagio del l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fa
riferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si può
ipotizza re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di stanti
cronologicamente dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi,
il punto fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato delle
coincidenze "significative", a po steriori, tra un particolare stato
di cose considerato ornino so e un evento della storia: tali coincidenze
avrebbero as sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questa
ipotesi, che risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio
(Bouché-Leclercq 1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fatto
che spesso i Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il gioco
delle coincidenze si sia potuto stabi lire: Quando il mio paese si è rivoltato
contro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così
disposto. 20 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce
la forma assunta dal fegato reale esaminato durante un rito di estispicina:
esso registra la coincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un
evento storico di importanza determinante, cioè la rivol ta contro l'ultimo re
del periodo neosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo
divinatorio" si spinge anche ol tre, ipotizzando che alla base stessa
della scoperta della di vinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze
tra la se rie di presagi e quella degli oracoli; ipotesi che può essere
avvalorata dal fatto che tutti gli "oracoli storici" possono essere
cronologicamente situati nel periodo delle origini del la divinazione
mesopotamica. Nella istituzione stessa della pratica divinatoria si sarebbe
vicini, così, a una forma del principio del post hoc, ergo propter hoc, per cui
qualsiasi evento che fuoriesce in qual che maniera dal corso
"normale" e che è seguìto da un altro evento, considerato a sua volta
eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimo una coppia inscindibile.
Il colle gamento tra i due eventi, una volta stabilito, diventerebbe
irresolubile; e il secondo evento, se non propriamente cau sato dal primo,
risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fatto viene qui elaborato
è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause dagli effetti, che è tipica
dell'ab duzione. È vero che in questo caso si arriva a conclusioni che ci
appaiono assurde, a causa di un errore fondamentale nell'applicazione del
metodo: infatti quello che viene preso come risultato (o effetto) (una certa
ben definita disposizio ne del fegato) che si presume essere il caso di una
certa re gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), in realtà non è affatto
tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo di fronte a un'abduzione.
Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nes sun interesse della
divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi degli oracoli storici lo
fanno è appunto perché la fi losofia che sta dietro a questo tipo di oracoli è
che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti, una volta che sia sta ta
inferita la regola che spiega un certo risultato, è possibile tenere a
disposizione tale regola per successive applicazioni deduttive. 1 .4
PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con gioco associativo tra
protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame non casuale tra pro tasi
e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativi tra elementi contenuti
nella prima ed elementi contenuti nella seconda proposizione. È operante qui in
maniera evidente il modello della scrit tura cuneiforme. Abbiamo infatti visto
che essa tende a creare o suggerire una rete di relazioni tra cose non diretta
mente in contatto. Sappiamo come l'interpretazione di un segno della scrittura
cuneiforme apra la strada a una catena di veri e propri interpretanti: la
rappresentazione ideografi ca dell'orecchio, a esempio, non solo significa
"ascoltare", ma anche "obbedire", "apprendere'',
"il sapere", "l'intelli genza". Ugualmente possono entrare
in corto circuito se mantico due ideogrammi omografi o che differiscano per
pochi tratti del significante. Cosi abbiamo due tipi di gioco associativo : l .
quello sui significati; 2. quello sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui
significati Il rapporto che si instaura tra protasi e apodosi nel caso di un
gioco associativo sui significati è quello che si ha tra un "cifrato"
tropico, e una sorta di "chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni
esempi: Se il 29 del mese di Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di
sole - il re morirà, duramente punito da Sam mortalità gene rale. Se un
parto-anormale è doppio, con due teste, l'una saldata al l'altra, e otto
zampe, ma una sola colonna-vertebrale - il paese sarà precipitato nella
confusione per effetto delle dispute inte stine . Se un cavallo cerca di
accoppiarsi con un bue - riduzione del l'incremento del bestiame. Nel primo
esempio )'"eclisse di sole" può essere conside rata una metafora
rispetto alla "morte del re"; del resto la metafora deli'eclisse come
segno della morte di un sovrano si catacresizzerà ed entrerà in una lunga
tradizione mantica anche greco-romana. Nel secondo esempio compare pure una
metafora complessa: infatti la protasi parla del corpo di un unico animale
(''una sola colonna-vertebrale"), che però ha organi doppi ("due
teste", "otto zampe"); viene al lora istituito un parallelo con
l'organismo statale (''il pae se"), unico, ma dilaniato e reso doppio
dalle "dispute inte stine". Il terzo esempio presenta un caso di
accoppiamento tra due animali di specie diverse, destinato dunque alla infe
condità, il quale simbolizza una "riduzione dell'incremento del
bestiame": la protasi ha la funzione (dal punto di vista della produzione
segnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296; Eco 1984: 47), che vale per l'intera
classe. In generale, questi esempi mostrano come la logica che regola il
rapporto tra protasi e apodosi è dell'ordine del simbolico. Naturalmente molto
spesso la relazione tra il ci frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché il
linguaggio figu rato è dipendente dal contesto culturale: è verosimile che in
molti casi operino associazioni che per la distanza spazio temporale tra le
culture non possiamo più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamo
ora alcuni esempi di oracoli in cui nella protasi ci sono elementi che
differiscono per pochi tratti del signifi cante da elementi correlati
nell'apodosi: Se piove (zunnu iznun) nel giorno (della festa) del dio della
città - quest'ultimo sarà adirato (zenl) contro di essa. Se la Vescichetta
biliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante (na!Jdat). - Se la Vescichetta
biliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà freddo (kU$$U). 1 .4
PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma è aderente (emid) -
aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa sì che un fatto,
indica to da una parola con un certo suono, sia considerato segno di un altro
fatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I codici sistematici Il
terzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e apodosi è quello legato
alla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è possibile registrare
nella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica per cui, dall'epoca
delle origini al periodo più recente, il modo di porre il rap porto tra
protasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra zione. Il culmine di tale
processo porterà alla creazione di codici che prevedono una casistica generale
ed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il principio del
l'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo modo deduttiva,
che fa dipendere dalla configurazio ne generale del codice l'inferenza del
singolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II millennio, la
documentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma registra la
presenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte sistematiche
e spesso molto dettagliate, di segni di vinatori.s La sistemazione in
trattati, questo nuovo aspetto della di vinazione nel II millennio, ha come
tratto saliente quello di risultare funzionale al raggruppamento di diversi
segni ora colari in relazione a un unico oggetto, considerato ornino so.
Quest'ultimo veniva scomposto nell'intera gamma delle sue parti o variazioni,
ciascuna delle quali veniva a essere il tema di una singola protasi. Si
registra, in effetti, una mi nuziosa opera di pertinentizzazione del reale: se
un oggetto risulta esteso e divisibile, per ognuno dei singoli aspetti
identificati, viene costruita una coppia presagio-oracolo. Ecco come, a
esempio, in un trattato di estispicina, una sin gola porzione del fegato, la
cosiddetta "Porta del Palazzo", viene esaminata: Se, sulla
Soglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova una fessura - . . . Se,
sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una fessura è segnata per il
lungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, si trova
una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, una
fessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo della Porta del Palazoz , si
trova una fessura - ... Come si può vedere, tutte queste protasi
risultano co struite su un principio strutturale di opposizioni binarie tra
Ila Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo, tra jde stral e
jsinistral , tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj . È dunque
proprio il sistema, inteso in un senso strutturali stico ante litteram, a
prendere il sopravvento . Non vengono registrati più solo i casi che sono stati
effettivamente osser vati, ma tutti i casi virtualmente possibili, in
relazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte. Questo fatto
diviene particolarmente evidente quando in contriamo in un trattato delle
protasi che prendono in con siderazione fino a sette Vescichette biliari per
uno stesso fe gato: la logica del sistema (basata in questo caso sulla rego
la: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma perfino sulla
verisimiglianza. Una cosa analoa avviene quando, all'ini zio del trattato di
teratomanzia Summa izbu, vengono pre viste, per un neonato perfettamente
umano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse, che il
neonato as somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a un bue,
a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi rittura, a un corno di capra
o a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la divinazione cambia
radicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al la ricerca di eventi
ominosi, ma alla costruzione degli s-co dici (Eco 1975; 1984: 266) delle
sequenze di protasi; a parti- 1.5 ESPLICITAZIONE DELLE REGOLE DI
CODIFICA 25 re da queste sequenze verrà costruito il codice vero e pro prio di
abbinamento con le serie di apodosi. In questo sen so, anche se non formulate,
varranno regole generali del ti po: "ogni volta che trovi il numero x
nella protasi, assegna la caratteristica y all'apodosi"; cosi, a esempio,
se l'indovi no incontra in un evento-protasi il numero sette, che il siste ma
abbina costantemente, poniamo, alle caratteristiche del la
"perfezione" e della "totalità", può dare come oracolo
"vi sarà Pimpero". Sono del resto molte le regole di codifica non
espresse, ma costanti, come a esempio quella per cui tutto ciò che è a destra è
connesso con un auspicio favorevole, mentre tutto ciò che è a sinistra, esprime
un augurio contrario. Oppure quella per cui è possibile "cambiare di
segno", come in alge bra, alla predizione in base al contesto: a esempio,
un pre sagio di per sé sfavorevole, se messo in rapporto con la sini stra,
diventa favorevole, o viceversa. In questo senso l'apodosi diviene deducibile
dalla prata si, in quanto basta osservare le caratteristiche sistematiche che
in essa sono contenute per inferirla: è il trattato che for nisce in realtà la
regola (anche senza esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile per
l'indovino trovare il risulta to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazione
delle regole di codifica Se nei trattati del II millennio si assiste al
superamento della fase empirica a favore di una ristrutturazione della di
vinazione su base sistematica e deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione,
per quanto largamente operanti, rimango no implicite. Nei trattati del I
millennio si assiste a un'ulteriore evolu zione della divinazione, che porta
ali'esplicitazione delle re gole stesse della codifica. Ciò è testimoniato dal
grande trattato di aruspicina del I millennio, che aveva un capitolo in cui
erano formulati i va lori essenziali di certe caratteristiche espresse dalle
protasi. Il testo era disposto non più su due, ma su tre colonne. La 26
l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima riguardava il presagio, o meglio la
caratteristica che appariva ominosa nell'oggetto preso come segno. Di solito si
trattava di una qualità, espressa o da un aggettivo ("gros so") o da
un sostantivo astratto ("lunghezza") oppure, an cora, da un verbo
all'infinito ("essere piegato verso il bas so"). Nella seconda
colonna veniva registrato il valore fon damentale dell'oracolo, come a esempio
"gloria", "poten za", "vittoria". La terza
colonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, tale
che nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna e
neli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec cone un esempio:
Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun ga da arrivare fino alla
Strada il principe riuscirà nella campa gna che avrà intrapreso. È evidente
qui l'ulteriore progresso compiuto nella dire zione dell'astrazione: abbiamo
infatti la vera e propria pre sentazione della chiave del deciframento dei
segni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulle
tre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò che
vi è di arbitrario nell'abbina mento tra protasi e apodosi viene dichiarato
fornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione non
si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla
dico tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità e
particolarizzazione degli oraco li più antichi si contrapporrà l'estrema
semplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no. 2.
LA DIVINAZIONE GRECA 2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratiche
divinatorie costituisce il primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nella
Grecia anti ca si parla di segni. Il termine semefon, che si incontra qui per
la prima volta, è un nome di genere, che indica un segno divinatorio di tipo
qualsiasi e comprende anche il responso oracolare, costituito in realtà da un
testo verbale.1 Accanto a esso, come sue specificazioni relative ad ambiti
particolari della divinazione (o, potremmo dire, a particola ri manifestazioni
di sostanza dell'espressione), si trovano vari altri termini; tra essi oion6s
che indica etimologicamen te il segno dato dal volo degli uccelli; phasma, che
si riferi sce inizialmente ai presagi che si possono trarre dai fenome ni
atmosferici, ma che si estende in seguito alle visioni in ge nere; téras, che
costituisce l'equivalente deli 'espressione la tina prodigium e sta a indicare
qualsiasi fenomeno o avve nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso,
che pos sa essere preso come base per una interpretazione divinato ria (Bioch
1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosa
sta per qualcos'altro, o meglio è assunto come base per un procedimento di
inferenza. Nonostante che in Grecia la divinazione come pratica ef fettiva
abbia avuto un'importanza abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorio
ha dato origine a una tradizio ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nel
punto di origine mitico del processo di conoscenza. 28 2. LA DIVINAZIONE
GRECA Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca pace di
interpretare il segno proveniente dagli dei, è preci puamente un sapiente, e
il tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica con
un'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Al
contrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura mente
superiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co me suggerisce anche
l'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cui
viene indicato un movi mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo
(Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamo
l'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle cose
che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato":
Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru tatori di
uccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòs
id ta t 'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta) , l e aveva guidato verso Ilio le
navi degli Achei l con la sua arte di vinatoria, che Febo Apollo gli aveva
concesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il carattere
generale e to tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è una
conoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordine
filosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nel
passo indica l'oggetto di conoscen za dell'indovino Calcante, rimarrà immutato
nella tradizio ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele,
come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenza
filosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumento
attraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera del
l'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento di
mediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo.
Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), il
luogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano. Ma il
dio parla un linguaggio che non è quello dell'uomo. La parola del responso
oracolare, a esempio, è umana solo come suono, ma non produce alcun significato
se le viene applicato il codice del linguaggio verbale degli uomini. C'è dunque
una difformità nell'espressione dei contenuti della conoscenza che separa
l'uomo dal dio; ma c'è anche una più radicale differenza nelle modalità stesse
della conoscen za. Il dio padroneggia il tempo attraverso la "vista"
simul tanea e del passato, e del presente, e del futuro: la sua anni scienza
deriva appunto dal fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo,
secondo l'espressione usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede
"l'occhiata che conosce ogni cosa". L'uomo, al contrario, può vedere
solo il suo presente, mentre gli sono irrimediabilmente sottratte le altre
dimen sioni del tempo. Solo il dio può permettergliene l'accesso; ma la
visione deve essere tradotta in parole, in quanto l'uo mo accede alla
conoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a esempio, la memoria del
passato è garantita dal racconto che traduce la visione panoptica delle Muse
(Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è colui che rivela
all'uomo il futuro traducendo in parole la "visio ne" che il dio gli
comunica; ma proprio in questa traduzio ne il messaggio perde di perspicuità
(Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1). Per questi motivi il segno
divinatorio è enigmatico, oscu ro e per lo più incomprensibile. Per decifrarlo
c'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia diverso dal soggetto nel quale
si è compiuto il processo di comunicazione e di tra sformazione della
conoscenza. Platone individua due distinte figure, rispettivamente "l'uomo
mantico" (colui che riceve la visione) e il "profeta" (colui che
interpreta le parole pronunciate dal primo duran te l'estasi). Il celebre
passo del Timeo, che propone tale di stinzione, in sé costituisce un piccolo
trattato teorico della divinazione quale se la rappresentavano i Greci, e
presenta con grande perspicuità la tradizione del segno divinatorio come segno
non direttamente decodificabile: Vi è un segno sufficiente che il dio ha
dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone
dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica.
Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedi ta dal sonno
o dalla malattia, oppure che egli l'abbia deviata es sendo posseduto da un
dio. Ma appartiene all'uomo assennato il ricordare le cose dette (tà rhthénta)
nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il
riflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tà
phasmata) al lora contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un signifi
cato e a chi indichino (smalnel) un male o un bene futuro o passato o presente.
A chi invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare le
apparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima:
soltanto a chi è assen nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e
conoscere se stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a
interprete delle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu ni li
chiamano divinatori, ignorando del tutto che essi sono in terpreti delle
parole pronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla
divinatori. La cosa più giusta è di chia marli profeti, cioè interpreti di ciò
che è stato divinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si
pone il verbo smafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo
si presenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira to, del testo
divinatorio. Il soggetto grammaticale di smal no è costituito dai due termini
che indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose dette"
e "le visioni contem plate", ma il responsabile della produzione di
questi segni è "la natura divinatrice ed entusiastica", cioè il dio
stesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come indica anche
l'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è che un
canale di trasmissione o un portavo ce. E perché il significato arrivi fino al
destinatario c'è biso gno di un complesso procedimento di interpretazione.
Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato a un certo
numero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un processo di
comunicazione e a uno di inter pretazione, possiamo leggere il passo platonico
secondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue parti): 30
soggeno •te cose dette'" "le visioni contemplate'" il dio l'uomo
invasato significato - destinatario "'un male o un bene futuro o passato o
presente'" trice ed entusia- stica· 2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1
---------------- - - - - - - - - - - - , '"la natura divina- l
l'uomo processo di interpretazione del segno , effe"uato da
personaggi con un sapere specializzato, a favore del destinatario "'i
profeti'" Il verbo smafno, dunque, non ha il banale senso di
"si gnificare", nel senso deli'instaurazione di un rapporto tra un
piano dell'espressione e un piano del contenuto all'inter no di un segno. Esso
sembra piuttosto riferirsi al processo di comunicazione stesso che il dio
attiva nei confronti del l'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il
verbo sembra riferirsi alla situazione per cui il dio "indica attraverso
segni (enigmatici)" all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco nosciuto
. A confermare l'uso del verbo smafno con questo senso nei contesti divinatori
si trova una lunga tradizione che risa le almeno a Eraclito, al noto frammento
93 dell'edizione Diels-Kranz (tr. it. 1974). È stato Romeo (1976) che, in una
lucida e complessa analisi del frammento, ha messo in evi denza questo
significato del verbo smafno, arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento)
smafnei (oggetto) (scopo) enunciatore- segno -- canale -- l! 2. I.A
DIVINAZIONE GRECA Il ··•Hno• c du: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né
nasconde il ,•.un pnJ.•,ac•o, rna lo indicaattraversosegni(smalner)4 rourro una
lunga tradizione che rendeva la forma verbale sl'nuJinei con
"significa" o con altre espressioni che avevano l'cffcllo di rendere
contraddittorio o incomprensibile l'inte ro frammento. Si viene qui a
profilare un'opposizione tra due tipi di lin guaggio, che hanno
caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il linguaggio umano,
caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata decifrabilità (e possiamo
fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio sia circoscritto da entram
bi i termini della coppia oppositiva "dischiudo [/égO]"/"na
scondo [krfptO]": l'uomo o svela completamente il suo pen siero, usando
il linguaggio, oppure lo nasconde del tutto, non esternandolo in parole).
Dall'altra parte c'è un diverso tipo di linguaggio, quello attribuito
direttamente al dio nel frammento di Eraclito (e indirettamente nel passo
platoni co), che è indicato dal verbo semafno e che ha le caratteristi che
opposte dell'oscurità e della non immediata decodifica bilità. Il dio non
concede all'uomo una rivelazione comple ta, né gli nega totalmente la
conoscenza: gli fornisce piutto sto, attraverso il segno oracolare, una base
di inferenza sul la quale l'uomo dovrà lavorare per giungere a una conclu
sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via da seguire con il
ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la cultura letteraria e
filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co me oscuro e
ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti ca di
Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con siderato come
"l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto
(quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), e
contemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messa
in luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalità
speci fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti va, oltre
che come teoria. Essa si connette al diverso ruolo 2.0 DIVINAZIONE E
CONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e in
quella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de stino è
concepibile come una successione lineare di avveni menti (rappresentato
metaforicamente dal filo delle Par che), i quali si connettono tra loro
apparentemente senza che possa essere attribuito loro un senso globale. Questa
successione acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine,
quando cioè il destino "si compie". È solo a questo punto che esso
diventa intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriori
sviluppi, anche gli avveni menti passati ai quali non si era saputo dare un
senso. Fino a quel momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen tale
ignoranza: anzi, è proprio questa ignoranza a caratte rizzare l'esistenza
umana. A livello degli dei, al contrario, il destino di ciascun uo mo è
presente e intelligibile in ogni momento nella sua tota lità. Esso infatti è
stabilito in maniera irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima della
nascita di ogni uomo. La divi nazione trova il suo spazio proprio in questo
scarto di cono scenza che si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e in
ulti ma analisi anche ogni altro tipo di segno divinatorio) si sup pone che
riveli all'uomo, quando è ancora in vita, proprio il significato segreto del
suo destino, mentre questo sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solo
dopo la morte. Tuttavia, se la divinazione compisse la sua funzione pro fetica
sino in fondo, se cioè abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esiste
tra l'uomo e la divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenza
che distingue l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destino
più di quanto lo nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito.
L'oracolo lo lascia intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà a
indovinare attraverso un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non è
più intelli gibile di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sono
rivolti all'oracolo. Così, la logica della divinazione fa in modo che con
l'ambiguità del segno venga reintrodotta, a livello umano, quella
"opacità" circa il destino che l'anni scienza divinatoria avrebbe il
compito di attenuare, se non di eliminare del tutto. 14 2. LA DIVINAZIONE
GRECA 2. 1 llue tipi di divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passo
platonico del Timeo, come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a un
tipo di divinazione che vie ne di solito definita "ispirata": essa
rientra all'interno della categoria generale della mantik atechnos, della
divinazione cioè che non richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messa
in opera e per questo, talvolta, riceve anche il nome di "divinazione
naturale" (Cic. , De divinatione). Il carattere specifico di questo tipo
di divinazione è quel lo per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi
di ma nifestazione esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge
direttamente l'individuo attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si
comunica a un profeta-portavoce che emette un responso (normalmente un testo
verbale). Per usare l'e spressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo
di divi nazione "endosemiotica". Secondo questo modello funzionava
il più noto e presti gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in
cui la Pizia, la sacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co stituito da
un testo verbale. Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei
termini del linguaggio na turale, il suo senso non era decodificabile mediante
la sem plice applicazione delle regole del codice linguistico a livello
denotativo. Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di
responsi, fraintesi proprio per la pedissequa applicazione di questo codice
senza far ricorso a regole più complesse (come quelle di tipo
retorico-tropico). 2. 1 .2 La divinazione artificiale Il secondo tipo di divinazione
è la mantik technik, defi nita, a seconda dei commentatori, come
"congetturale", "induttiva", "deduttiva" o
"artificiale". Era basata suli'a nalisi dei segni (visibili,
acustici, sensibili) che si realizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che
potevano essere spontanei (come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co
me il lancio dei dadi o l'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione
mette in gioco una lo gica particolare, basata sull'ipotesi che esistano
rapporti di omologia e di corrispondenza tra il microcosmo, rappresen tato dal
fenomeno preso come segno, e il macrocosmo, rap presentato dall'ordine
generale dell'universo (J. Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo
proposito vengono isolate delle porzioni di spa zio - che possono essere, a
esempio, le regioni del cielo per l'astrologia, come pure la superficie del
fegato della vittima sacrificale per l'estispicina - che vengono caricate di
valore simbolico e deputate a funzionare da specchio dell'ordine cosmico
generale. Negli spazi così delimitati è possibile leg gere la configurazione
futura degli eventi, sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali
sono invece sottoposti, e per sopprimere appunto la quale il consultante si
rivolge al la divinazione. Si creano così due serie, quella delle
configurazioni strut turali interne al testo segnico e quella degli eventi a
cui tali configurazioni rimandano; tra le due si stabilisce un vero e proprio
codice di corrispondenza, che permette di passare immediatamente dal segno al
suo significato. Ne vediamo un esempio molto semplice nel seguente passo di
Omero: Dico che un cenno ci dette il Cronide superbo l il giorno che sulle navi
veloci in cammino salivano gli Argivi l a portare stra ge e morte ai Troiani l
tuonando da destra, mostrando segni di buon augurio. (//., Il, 351-354) In
questo caso la volta celeste viene costituita come spa zio significativo, come
microcosmo in cui sia possibile leg gere i segni del destino. Questo spazio
viene articolato in una struttura binaria che oppone due regioni, la destra e
la sinistra: a ciascuna di esse viene abbinato un valore seman tico
(ldestral--+"buon auspicio", !sinistra!-+"cattivo auspi
cio"). Una più articolata configurazione del significato de- 36 2.
LA DIVINAZIONE GRECA riva dalla circostanza di enunciazione, cioè dalla sua
rela zione con la domanda esplicita (o implicita, come in questo caso) che
l'interrogante pone alla divinità·. Nel passo omeri co la circostanza di
enunciazione è la partenza della spedi zione per Troia, e la domanda implicita
concerne la riuscita dell'impresa: dunque il tuono che proviene dalla regione
de stra del cielo viene a significare "buona riuscita dell'impresa dei
Greci contro Troia". Infatti, per quel che riguarda l'individuazione del
signifi cato ultimo del segno, tutti i sistemi divinatori si basano su un
equilibrio più o meno stabile tra le strutture formali del codice che
permettono di cifrare in maniera completa l'av venimento prodigioso e
insolito, e la molteplicità delle si tuazioni concrete a cui tale
avvenimento-segno può riman dare nei contesti specifici. Nell'esempio omerico
il codice è così semplice da essere diventato patrimonio comune, tanto che non
si fa cenno della presenza di un indovino, per decifrare il segno. Di so lito
non è così per la divinazione artificiale, il cui carattere "tecnico"
risiedeva proprio nel fatto che per l'interpretazio ne dei segni era
necessario fare ricorso alla conoscenza spe cializzata di personaggi
depositari di un sapere che verte sulle regole di decodifica. L'indovino è
infatti essenziale nel caso, appena più com plesso, riportato da Plutarco
nella Vita di Dione (24). L'a neddoto riguarda la spedizione effettuata nel
357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante la quale si verifi cò
un'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter pretare quel segno,
dichiarò che esso annunciava che qual cosa che era stato splendente fino ad
allora, si sarebbe oscu rato: non poteva, dunque, che trattarsi del regno
tirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere sotto l'attac co
portatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima determina il signi
ficato degli abbinamenti del codice e la seconda quello deri vante dalla sua
applicazione alla situazione concreta. Inol tre l'indovino Miltas si avvale di
una tecnica più sofisticata, che fa ricorso anche alle trasformazioni
retoriche: la rela zione tra il macrocosmo della luna che viene oscurata
dal- 2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e il microcosmo del regno
di Dionigi destinato a soccombere è mediata dall'elemento comune !splendore!
con cui si designa in modo proprio una qualità della luna e in modo figurato
una proprietà del regno di Dionigi. Esistevano poi codici notevolmente
elaborati già al sem plice livello degli abbinamenti, come a esempio il codice
dell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate le vi scere degli
animali, in particolare il fegato, del quale si os servavano l'aspetto e la
posizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8 Per quello che riguarda
la cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui venivano effettivamente
realizzati gli abbinamenti tra gli elementi significanti e quel li a cui essi
rinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in uno studio molto interessante e
completo sulla divinazione in Platone, ha segnalato un passo del Timeo (71 a-d)
in cui, nonostante non si parli direttamente di estispicina, si descri ve un
fenomeno che con essa ha molti punti di contatto. Il passo illustra i processi
che si determinan9 quando l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lascia
la sua impronta, "come in uno specchio", sul fegato che è la sede
dell'anima appetitiva: questo permette di vedere riprodotte nel fegato (nei
suoi aspetti via via diversificantisi) le impressioni la sciate dali'anima
razionale. La specularità è, però, solo metaforica perché si verifica no in
realtà dei processi di codificazione molto forte, che fanno pensare ai
meccanismi della "comunicazione biochi mica" . In definitiva il
fegato viene a costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva legge
i contenuti intelligibili, di venuti sensibili attraverso un processo di
codifica. Esso co stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se in
modo molto particolare, l'assetto del macrocosmo costitui to dali'anima
razionale. Si può presumere che i codici dell'estispicina funzionasse ro in un
modo analogo a quello descritto per i processi di comunicazione
"intrapsichica" illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platone
scaturisce una delle più reci se condanne che la Grecia classica abbia
espresso nei con fronti della divinazione artificiale. Tale condanna si
trova 38 2. LA DIVINAZIONE GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b)
e del Fedro (244 c-d). Nel primo di questi, in particolare, è contenuta una
condanna dell'epatoscopia: infatti Platone, che accetta la possibilità di
leggere sul fegato molti segni quando questo è contenuto in un organismo
vivente, sostiene che esso non può rivelare niente di sicuro agli uomini,
quando è privato della vita e non è più sottoposto all'influsso luminoso del
l'anima razionale. Più generale e radicale è la condanna della divinazione
tecnica nel Fedro. In quel testo Platone fa l'elogio della fol lia, di cui
considera la divinazione una specie, e separa la mantica ispirata ed
entusiastica da tutte le altre forme di in vestigazione del futuro. In
particolare la "mantica", nel senso ristretto, viene contrapposta
alla "oionistica", cioè la divinazione mediante l'osservazione dei
segni dati dal volo degli uccelli. La ragione della discriminazione è chiara:
nella divina zione tecnica la ragione umana pretende di sostituirsi ali'i
spirazione divina. Per indicare che in questo modo non si raggiunge che un
grado molto pallido e incerto di conoscen za, Platone inventa addirittura una
connessione etimologi ca tra "oionistica" e olsis (''opinione")
("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli uccelli [. . .] fu
chiamata 'oio noistica', che i moderni, rendendola solenne con un omega,
dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi rata, invece,
la conoscenza deriva all'uomo da una posses sione divina e questo è garan.zia
di verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra smafnein e tekmal resthai, il
primo verbo indicando, come nel Timeo e in Era clito, il dono della conoscenza
elargita dal dio, mentre il se condo indica la congettura puramente umana.
Questa op posizione richiama il motto di Alcmeone: Delle cose invisibili e
delle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma agli uomini tocca
procedere per indizi (tekmafre sthal) . (Diels-Kranz, 24 b l) su cui avremo
occasione di tornare. 2.2 DUE MODELLI DI DIVINAZIONE ORACOLARE 39 I
passi platonici non esemplificano soltanto l'opinione del filosofo ateniese, ma
si pongono altresì in linea con la scelta di fondo compiuta da tutta la civiltà
greca nei con fronti della divinazione ispirata. Infatti, per quanto in Gre
cia venissero praticate anche forme di divinazione tecnica, a esse è stata
sempre riservata un'importanza secondaria, mentre l'attenzione si è concentrata
soprattutto sulle forme della divinazione oracolare, che si esprimevano
attraverso la parola. D'altra parte questo fenomeno deve essere messo in rela
zione con il fatto che la civiltà greca è essenzialmente di tipo orale; in essa
la scrittura è non soltanto un fenomeno recen te, ma del tutto dipendente dal
parlato, che essa tende a ri produrre foneticamente. In altre civiltà, come
quella meso potamica o quella cinese, la scrittura è molto più antica e
funziona come un sistema autonomo rispetto alla lingua, presentando a suo modo,
attraverso i segni grafici, quelle realtà che la lingua presenta in altra
maniera: in queste ci viltà la scelta compiuta nei confronti del tipo di
divinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli della divinazione
oracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra l'immagine che della
divinazione oracolare propongono i testi letterari e il modo in cui essa veniva
praticata effettivamente nei santua ri a essa adibiti. J.-P. Vernant (1974)
parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età classica, infatti, la
divinazione come pratica effettiva ha una rilevanza marginale nel regime della
polis. Infatti l'oracolo viene consultato non per ottenere una predizione sul
destino, ma per prospettargli, in forma di alternativa, un certo corso di
eventi che si ha intenzione di intraprendere e per domandargli se la via sia
libera o pre clusa.9 Si instaura a questo proposito un vero e proprio dialogo
tra il consultante e l'oracolo (Crahay 1974): quest'ultimo ri sponde
innanzitutto alla domanda che è stata posta in for- 40 2. LA DIVlNAZIONE
GRECA ma chiusa, predicendo al consultante se farà o non farà una determinata
cosa. Il consultante pone poi all'oracolo una seconda domanda, in forma aperta,
ma limitata a una con dizione rituale di successo: in sostanza, esso domanda
al l'oracolo quali ostacoli debbono essere rimossi perché l'im presa
prospettata giunga a buon fine. È interessante a que sto punto vedere come la
formula usata di solito dall'oraco lo nell'emanare il consiglio di carattere
rituale rispecchi quella che veniva usata per redigere le decisioni dell'assem
blea sancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion kai ameinon éstai (''sarà
più conveniente e preferibile"), pro prio come nei decreti deli'assemblea
si usano formule che pongono l'accento sulla "preferenza" tra le
opinioni, piut tosto che sull'intimatività della decisione. Ciò è indice del
fatto che nella civiltà greca è il modello della discussione as sembleare che
si proietta sulla divinazione, e non viceversa come avveniva nella civiltà
mesopotamica. Ed è interessante che in questo modello di divinazione non si
trovi alcuna traccia di risposta ambigua o oscura. Ambiguità e oscurità si
trovano solo nel secondo model lo, quello "teorico,, della divinazione
oracolare, presente in tutta la letteratura scritta, da Erodoto ai poeti
tragici, ai fi losofi. Esso costituisce la rappresentazione che la cultura
della città si dà della divinazione. Secondo·questo modello, l'oracolo viene
consultato non per ottenere un consiglio, ma direttamente sul destino. Ciò
determina la supposizione che l'oracolo sia onnisciente, in quanto deve
conoscere sia lo sviluppo futuro degli eventi, sia, nel contempo, il passa to,
in cui si situano le remote origini delle sorti attuali e fu ture
deli'indi\iduo o del gruppo consultante. La logica a cui questo modello
risponde non è più bina ria: l'oracolo deve qui impegnarsi a ridurre a una
sola, spe cifica, opzione l'infinità dei possibili. Il responso oscuro e
ambiguo reintroduce, del resto, l'in certezza che caratterizza la condizione
umana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei racconti oracolari dei testi
let terari, la profezia sembra sempre inadeguata rispetto al cor so preso
dagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il "compiersi" della
sorte si incarica di fare chiarezza e di de- 2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI
RACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi, la polisemia del testo
pro fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti oraco lari
Naturalmente, per capire come la nozione di smefon si sia sedimentata nella
cultura greca, per vedere quale sia il nucleo semantico con cui il termine
indicante il segno è sta to consegnato alla tradizione filosofica, il
riferimento ali'u so di smefon nei testi letterari è altrettanto importante
quanto il suo significato nelle pratiche divinatorie effettive. Soprattutto nei
testi di Erodoto e dei tragediografi è pos sibile vedere come costantemente
venga tematizzato il pro blema interpretativo che il segno oracolare pone:
l'oscurità del segno è in principio legata alla difficoltà, che diviene
immancabilmente impossibilità, di risolvere tale problema. Si deve però dire
che in primo luogo l'uomo è accecato dal la hjbris, e palesa la sua scarsa
ricettività alla parola della profezia in vari modi: la dimentica, non ne segue
le diretti ve, sbaglia la modalità di consultazione; alla fine, però, il suo
errore fondamentale è quello di scegliere sempre il ter mine errato
dell'alternativa posta dal segno ambiguo. Se la sua colpa è, dunque, un peccato
di tracotanza, il suo errore è un errore di conoscenza, e ha un carattere squi
sitamente semiotico. Ancora una volta compare l'opposizione "linguaggio
umano"/"linguaggio divino": l'uomo infatti interpreta sempre la
profezia secondo il proprio codice, non tentando mai di intendere la parola
della rivelazione come cifrata in un altro linguaggio, quello appunto della
divinità. In termini semiotici, in tutti i racconti sul tema della divi
nazione oracolare, l'uomo interpreta invariabilmente il te sto in modo
letterale, mentre questo dovrebbe ricevere una lettura secondo quello che
potremmo definire modo enig matico.10 Infatti, l'idea fondamentale che i
racconti oracolari sug geriscono è che esista sempre nella profezia un senso
secon- 42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è nascosto e che costituisce il
vero e unico significa to del segno: è la scoperta di questo secondo senso,
scartan do il primo, che qui chiamiamo interpretazione secondo il modo
enigmatico. Invece l'uomo coinvolto nell'interpreta zione, data la sua
incapacità di attingere la sapienza divina, compie proprio il gesto contrario,
scartando la possibilità di un senso non letterale. Vi sono tuttavia diverse
forme dell'errore di interpreta zione. (i) La prima consiste nella incapacità
di assegnare un senso al testo, o meglio, di adeguarlo a circostanze reali no
te: non si trovano oggetti a cui le parole della profezia pos sano essere
riferite e il testo appare totalmente assurdo. (ii) La seconda forma di errore
consiste nel riferire la profezia a oggetti reali, ma erroneamente
identificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che l'errore sia dovuto a
una omoni mia o a un equivoco (e quest'ultimo è ulteriormente suddi
visibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il seguente schema:
Interpretazione secondo il modo
enigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~ so errato per omonlmia
per equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di credenza 2.3
L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora alcuni racconti
oracolari in cui sono esem plificate queste modalità di errore. L'incapacità
di assegnare un senso al testo profetico si ha in vari racconti nei quali
vengono utilizzati meccanismi re torici, tra cui alcuni di tipo metaforico. È
naturale che, quando il veicolo metaforico viene interpretato "letteral
mente", si ottenga una assurdità sul piano del senso, a me no che non si
immagini un mondo possibile, diverso da quello reale, in cui i muli possano
diventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti di rosso. Il consultante, che
prende in considerazione soltanto il mondo reale, si trova in difficoltà ad
assegnare un senso e una denotazione a testi siffatti. Ma vediamo che cosa
succede nel primo di questi racconti. È Erodoto a narrarci la storia degli
abitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti a un notevole grado di
ricchez za con le loro miniere d'oro e d'argento, decisero di consul tare
l'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con servare a lungo la loro
prosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno, il pritaneo sarà bianco
e bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è bisogno di un uomo accor
to per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo rosso" (Herod., Hist.
, III, 57). La storia continua narrando del l'arrivo di una nave dei Sami,
della loro ambasceria per chiedere denaro e del saccheggio che questi ultimi
fanno dell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea l'incapacità manifestata dai
Sifni di dare un senso al testo ("l Sifni non furono capaci di com
prendere l'oracolo"); per loro il testo, e in particolare, si presume, le
espressioni "agguato di legno" e "araldo ros so", sono
prive di senso, perché appunto essi si fermano a un livello letterale di
interpretazione. In realtà il dio gioca con vari meccanismi tropici: innan
zitutto con una doppia enallage1 1 (è il legno [ = nave] che anticamente è
rosso, come spiega Erodoto, ed è l'araldo [ = gli ambasciatori] che organizza
un agguato), complican do poi il testo con meccanismi metonimici (legno per
nave, il singolare araldo per il plurale ambasciatori). Un secondo esempio di
mancata comprensione si trova in un episodio di quel lungo e complesso
"romanzo oracolare" 2 . LA DIVINAZIONE GRECA t·hc
l·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal l ' oracolo di Delfi se la
sua monarchia sarebbe durata a lun o . La Pizia risponde: "Quando un mulo
sarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi delicati, fuggi lungo l'Ermo sassoso,
non indugiare e non temere di essere vile" (Herod., Hist., l, 55). Anche
in questo caso, l'interpretazione che viene data alla profezia sceglie il senso
letterale: Creso ritiene, di con seguenza, impossibile che venga a verificarsi
uno stato di cose che soddisfi alla descrizione della frase "un mulo sarà
re dei Medi"; la conclusione che egli trae da questa impossi bilità è che
sia altrettanto impossibile che il suo regno abbia una fine. Sarà poi il dio
stesso a spiegare al re il suo gioco metafo rico, quando ormai i fatti si
saranno compiuti e Creso sarà caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il
"mulo" è, in ef fetti, Ciro, e il passaggio è mediato dalla
proprietà "sangue misto", che è condivisa sia dal termine
metaforizzante sia dal termine metaforizzato: ·sangue misto• / Tanto maggiore è
la cecità di Creso se si pensa che l'ele mento comune è doppiamente
esemplificato in Ciro, in quanto figlio "di madre nobile e di padre di
oscuro lignag gio" e "di madre meda e di padre persiano", come
il testo di Erodoto non manca di sottolineare. Vale la pena di rilevare che
l'interpretazione del senso fi gurato è un'operazione realmente più difficile
di quello che si potrebbe immaginare, fatto che giustifica in qualche ma niera
gli insuccessi dei consultanti. Essa è legata a cono scenze enciclopediche
locali, oltre che ai meccanismi retori ci che su quelle conoscenze si
applicano. Ciò è tanto più ve ro se si considera che è impossibile anche per
il lettore mo derno fornire l'interpretazione del testo profetico quando il
testo letterario non ci informa sulle relative porzioni di enciclopedia. Ciò
avviene, a esempio, nel racconto oracolare di Arcesilao (Herod., Hist., IV,
163-164) in cui, accanto a scambi metaforici tra "anfore" e
"uomini", tra "torri" e "forni" che vengono
spiegati dal prosieguo della narrazio ne, compare l'espressione "il tuo
più bel toro" che rimane inspiegata ed è anche per noi incomprensibile.
Vediamo ora il caso in cui il testo appare interpretabile secondo un percorso
di senso letterale, in cui cioè sia rin tracciabile un corso di eventi
corrispondente a esso, senza però essere quello inteso dalla profezia.
Consideriamo in particolare il caso in cui l'errore interpretativo sia dovuto a
omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dal costante frain tendimento,
caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise. Si tratta di una storia in
cui i vari segni si collega no tra di loro in una catena di rimandi interni.
Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi (fratello di Cambise) era già
tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbe in sogno questa visione: gli
parve che un messo, giunto dalla Persia, gli annunciasse che Smerdi, seduto sul
trono regale, toccava con la testa il cielo. Temendo perciò che il fratello
meditasse di ucciderlo per impadronirsi del regno, mandò in Persia Prexaspe, che
gli era fedelissimo fra tutti i Per siani, a uccidere Smerdi. (Herod., Hist.,
III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in cui la storia continua narran do le
stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci viene raccon tata la ribellione in
Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali, che si chiamava anch'esso Smerdi,
era stato collocato sul trono. Quando Cambise viene a conoscenza di questo
fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la storia non finisce qui: Dopo che
ebbe pianto e si fu afflitto di tanta sciagura, Cambise balzò a cavallo per
muovere al più presto verso Susa contro il Mago; ma, mentre saliva in arcione,
gli cadde il puntate del fo dero della spada, che rimasta nuda lo ferì alla
coscia. Colpito così nello stesso punto in cui aveva trafitto il dio egizio
Api, il 2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\ iudicando mortale la sua ferita,
domandò ancora come si chiarnassc la città dove si trovavano e gli risposero
che si chia rnava Ecbatana. Ora, molto tempo addietro, a lui che l'aveva
consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto che sarebbe morto ad Ecbatana ed
egli aveva interpretato che sarebbe morto, vec chio, ad Ecbatana di Media,
dove aveva tutti i suoi beni, men tre l'oracolo aveva inteso di indicare
Ecbatana di Siria. Pertan to Cambise, come ebbe saputo il nome della città,
sotto il dupli ce colpo della rivolta del Mago e della ferita, rinsavì e, com
prendendo finalmente il divino responso, esclamò: "Qui è desti no che
muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist., III, 64) La rivolta del
Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni, in quanto permettono a
Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere, finalmente senza più
ambigui tà, l'oracolo, di non rimanere più prigioniero dei giochi di parole:
la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suo fratello e Smerdi
Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Media ed Ecbatana di
Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione a cau sa di un
equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varia natura.
L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca è senz'altro
quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchetto Edipo viene
insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la sua paternità e
decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale gli predice che
ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma dre (Soph., Oedipus tyrannus,
787-798). L'equivoco riguar da le assunzioni di crede...zza: Edipo non sa che
i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, ma crede che sia no
Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine di stornare gli
avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto per andare in
direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio il destino che
gli è stato annun ciato. Altre volte l'equivoco riguarda lo sca1nbio
diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda a consul tare
congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di Anfiarao 46 2.3
L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare guerra
ai Persiani. I due oraco li, concordemente, predicono che "se avesse
mosso contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero" (Herod.,
Hist., l, 53). Creso interpreta il responso come facente rife rimento alla
distruzione dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito, sarà
proprio il suo impero a subi re tale destino. A sviare il re dalla giusta
interpretazione in terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione di
Creso che, dal momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma la
sua prospettiva. E, ovviamente, nella pro spettiva di Creso, il grande impero
da distruggere non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravedere
in questo esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipica
deli'enigma: una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti va, da
parte del dio nei confronti dell'uomo quando gli po ne un problema
interpretativo da risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cui
l'ora colo di Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegea
con le funi (Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in terpretano il riferimento
alle funi come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle ai
conquistatori e, di conse guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtà
esse sono inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quanto
serviranno agli Spartani , ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurare
le terre che dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato il
responso è klbd los che, nel suo senso traslato, significa
"ambiguo", "fal so", "ingannevole", ma nel suo
senso base fa riferimento alla carica estranea che adultera il metallo
prezioso. Ciò che ne risulta, come nei casi presi in considerazione, è la com
mistione di due metalli, uno buono e uno non, che fa lucci care come oro ciò
che oro non è. Analogo meccanismo, infine, si trova negli aneddoti, ri portati
da Diodoro Siculo (Biblioteca, XVI, 91-92; XX, 29), nei quali viene annunciato
a un generale che pranzerà o alloggerà nella città che sta assediando; queste
cose si verifi cheranno, ma la prospettiva non sarà quella del vincitore bensì
quella del prigioniero. 48 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come
sfida: divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che
si cela dietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata mente il
segno divinatorio all'enigma vero e proprio, an ch'esso oscuro e insolubile e,
mitologicamente, espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. È
stato Colli ( 1 975 : 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione,
l'enigma e l'altra faccia di Apollo, quella mi nacciosa e distruttrice. 1 2
Apollo, infatti, non è soltanto di vinità benefica che dona agli uomini l'arte
mantica e la me dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Queste
in dicazioni assumono un valore direttamente semiotico quan do si scopre che
la freccia di Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzi
di espressione della me desima potenza del dio e che possono avere anche lo
stesso funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda ro (0/ymp.,
II, 83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quanto
interprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in terprete raccoglie una
sfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi che
abbiamo visto nei rac conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscire
a vin cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segno
oscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbi
sulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciò
viene confermato anche da un'analisi diacroni ca del "genere"
enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazione
con i due ben precisi carat teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomo
e dell'aspet to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dal
contesto sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso della
quale attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storia
deli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino ad
approdare al l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra due
opinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, inteso
a 2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatorio
come dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi più
salienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempio
di apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mito
della Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im pone agli abitanti di
Tebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi non
riesce a risolverlo è divo rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e il
solo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella prima
evoluzione deli'enigma, già in età arcai ca, la lotta tra un personaggio divino
e uno umano, si spo sta a quella tra due personaggi umani, che però conservano
ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono due divinatori. Questa
fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara tra Calcante e Mopso.
Calcante propo ne a Mopso di "indovinare" quale è il numero di
frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino. Mop so dà
una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci mila di numero, la
loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non rientra
nella misura") di fron te alla cui esattezza Calcante viene colpito da un
"sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte alla sapienza,
ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenuto dell'enigma
passa in secon do piano, come dimostra la banalità deli'oggetto che deve
essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti stica che si
poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto ai rischi
mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quando l'enigma si
umanizza completamente, anche il suo testo assume un as setto formale
elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anziché non
designare niente (come av viene di norma in un caso del genere), designa
altresì qual cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda ri
guardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero i
suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di lo
è patria di 2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglierà
morto; ma tu guardati dall'e nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunse
ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla
riva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato
nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero:
"Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo
portiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano
preso li avevano uc cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li
portava no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig ma,
morì per lo scoramento. (Arist., Dept., fr. 8) Nel frammento compaiono ancora
gli elementi dell'enig ma che abbiamo già incontrato: la sfida circa un
oggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che non si di
mostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma elaborata di
una contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere. Più
precisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie
"abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato -
portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50
·abbiamo preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamo
preso'" SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato• 2.5 AGONISMO,
DIALETTICA, RETORICA 51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contrad
dittori ("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra in
relazione di congiunzione con un singolo termine della se conda coppia
("abbiamo lasciato"/"portiamo"), ma in mo do diverso da
quello che ci si attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso,
lo portiamo" e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato").
Invece nell'enigma ri sultano congiunti termini che logicamente sono in opposi
zione contraria: "quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia to" e
"quanto non abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, come
sappiamo, assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado di
sciogliere questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigma
mette in evi denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si sta
bilizza sulla forma della contraddizione apparentemente in solubile.
L'ulteriore e ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi di
Colli (1975), alla nascita della dialet tica. 2.5 Agonismo , dialettica,
retorica La dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terreno
stesso dell'agonismo: essa si presenta come di scussione tra due persone su un
qualsiasi argomento cono scitivo; su questo campo comune si instaura una gara
desti nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussione
segue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone una
domanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione.
L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questo
punto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosi
confutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi mento può
richiedere anche una serie molto lunga e artico lata di successive domande e
risposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alla
dimostrazione. 52 2. LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il
linguaggio dialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo
elitario. l)ccisi vi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar si con
l'accrescersi della cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime
democratico; infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e
si connettono con il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita
mente e la dialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si
trasforma in retorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte
spirito di competizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non
c'è bisogno di un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due
contendenti: la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione
stessa, in quanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha
contraddetto la tesi che prima affermava. Nel caso della re torica, invece,
l'agonismo è molto più diretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a
giudicare quale è stato il migliore discorso; manca nella retorica una sanzione
intrin seca (come c'è nella dialettica) e per questo deve aggiungere un
elemento emozionale, legato all'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e
interpretazione persuasiva Il processo evolutivo che abbiamo descritto è
iniziato con il segno divinatorio come sfida conoscitiva posta dal dio al
l'uomo ed è approdato, nel punto del suo massimo allonta namento, alla
competizione conoscitiva della dialettica e della retorica. Ma proprio a questo
punto il cerchio sembra chiudersi tornando al punto iniziale, con
l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa, dei metodi della
discussione dialet tico-retorica. È molto indicativo , a questo proposito , un
passo di Ero doto, in cui assistiamo a una sorta di conciliazione appunto tra
la divinazione, con la sua tipica concezione deterministi ca del mondo, e
l'eloquenza politica, legata a una visione mobile della vita, che sottopone
ogni cosa a una incessante 2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA
53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi, trovandosi di fronte alla
minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfi degli ambasciatori per
consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Pizia li affrontò con
l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsi per vinti, gli
Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im plorando un responso più
favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino a che non
l'avessero ottenu to. La Pizia accettò di emettere un secondo responso: Zeus
concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno sia inespugnabile, il
quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, la cavalleria e le
forze di terra che arrivano in massa dal continente, ma ritìrati, volgi le
spalle; verrà il giorno in cui po trai tenere testa. O divina Salamina, farai
perire figli di donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di
Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d i Erodoto mostra chiaramente
come i l segno divinatorio, il responso oracolare, innanzitutto non venga
accolto con atteggiamento fatalistico. l messaggeri non si accontentano del
primo responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciando di non muoversi dal
santuario fintanto ché non abbiano indotto il dio a mitigare il suo atteggia
mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, il testo erodo teo mostra bene
come il segno oracolare sia sottoposto a una discussione. Infatti i messaggeri,
una volta ottenuta la risposta, la trascrivono e ripartono alla volta di Atene
per riferire il responso all'Assemblea. La forma della discussione che si svolge
davanti aiPAs semblea è quella tipica della dialettica. Il segno oscuro sca
tena un processo interpretativo che prevede varie possibilità di percorso. Ma,
anzitutto, dialetticamente, si presenta co me una dicotomia tra due soluzioni
opposte e mutualmente escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli, anticamente
fortifica ta con una palizzata, perché a essa alludeva il dio con l'e
spressione "muro di legno"; (ii) allestire una flotta, perché il dio
intende riferirsi (sma(nein), con quella espressione enigmatica, a una barriera
di navi. 54 2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della contraddizione è
fatto proprio da un gruppo: (i) "alcuni anziani" (affiancati dai
cresmologi) so stengono il primo termine; (ii) "altri" (tra i quali
compare Temistocle) assumono il secondo. Per ora siamo solo alla presentazione
del problema: è poi necessario sviluppare una dimostrazione che porti a
contraddire una delle due tesi. La discussione segue il secondo corno del
dilemma; è co me se si dicesse: "Ammettiamo che l'interpretazione giusta
sia quella che consiglia di allestire una flotta. Quale con traddizione
comporta questa interpretazione?". I cresmologi fanno notare, a questo
punto, che accettare il secondo corno del dilemma comporta una contraddizione
con quella parte del testo che predice a Salamina di divenire causa della morte
di molti uomini. Accettare la giustezza di questo sottoproblema posto dai
cresmologi comporterebbe l'autoconfutazione della tesi principale. Si è però
nel frattempo verificato uno spostamento del li vello tematico della
discussione: a questo punto, per avere ragione sulla tesi dei cresmologi, è
sufficiente dimostrare in.. fondata la loro obiezione. È appunto quello che fa
Temistocle, negando che l'obie zione dei cresmologi comporti una reale
contraddizione. E anche in questo caso il ragionamento procede per assurdo e
prende in considerazione una questione di prospettiva: se infatti avessero
ragione gli avversari con il dire che Salami na (metonimia per "battaglia
con la flotta") avrebbe causa to morte agli Ateniesi, e se anche questa
seconda parte della profezia fosse rivolta, come la prima, ancora agli
Ateniesi, il dio non avrebbe attribuito all'isola l'epiteto di
"divina", ma di "sventurata". In altre parole, c'è
contraddizione tra l'epiteto "divina" usato per Salamina e
la morte degli Ate niesi. Dunque questa seconda parte del responso,
contenen te una predizione di morte, deve essere intesa come rivolta ai
nemici. Non sfuggirà che in questa seconda fase della discussione il metodo
dialettico va impercettibilmente sfumando in quello più propriamente retorico.
Conclusivamente Temistocle propone una interpretazio ne che tende più a
persuadere in positivo della validità del 2.6 DIVINAZIONE E
INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio ragionamento che non a dimostrare la
falsità della tesi fondamentale degli avversari. Infine interviene il giudi
zio dell'uditorio, elemento fondamentale appunto del di scorso retorico, per
sancire la vittoria di uno dei due con tendenti. Il testo dice che gli
Ateniesi "giudicarono preferì bile (hairetbtera)" la spiegazione di
Temistocle rispetto a quella dei cresmologi. Al discreto della logica binaria
del l'alternativa dialettica, succede il continuo della logica gra duata del
preferibile. La discussione può aver fatto perdere di vista che oggetto di
dibattito è un vaticinio del dio di Delfi. Ma non a caso. La logica, appunto,
che viene fatta intervenire neli'interpre tazione del responso divinatorio è
esattamente la stessa che guida le assemblee politiche. E del resto non è senza
significato il fatto che in questo contesto gli avversari di Temistocle siano
dei "cresmologi", cioè interpreti specializzati dei responsi divini,
ed è notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma paradigmatica di come
nella Grecia della polis sia la razionalità politica a im porre i suoi metodi
alla divinazione e non viceversa. In definitiva, il carattere di oscurità
attribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio ali'orientamento fon
damentalmente orale e dialettico della cultura greca: con ferma il segno
stesso come dispositivo scatenatore di inter pretazioni, da sondare con la
procedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno rinvia a una realtà
altra da sé, nascosta e ambi gua, ma alla quale si può arrivare se ci si
impegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti: procedura che, lungi
dali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt tiva. In questa
prospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che erano due sue
caratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la concezione
della verità come ri velazione: la verità come a-ltheia, intesa come caduta
dei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo di Erodoto non sono
gli indovini con la loro vi sione panoptica a rivelare il senso nascosto del
segno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto è sempre 56
2. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai suoi derivati,
equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la congettura e
l'abbandono della vi sione che permetteranno di far evolvere il segno dal
campo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI E PROCESSI
SEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora interessati
dell'ampio e magmatico cam po della divinazione, dove abbiamo visto emergere
le prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con la nascita
stessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra grande area di
manifestazione di un pensiero se mioticamente orientato, che sorge prima e in
maniera indi pendente dalla ricerca filosofica in senso stretto: la medici na
greca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale dei processi semiosici,
si possono registrare anche le prime vere e proprie elaborazioni teoriche
intorno al segno e all'infe renza (Vegetti 1976: 49 ss.). In seguito, la
riflessione semio tica sarà consegnata direttamente alla filosofia e alla
retori ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli esempi che
filosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il segno (esempi
spesso di carattere medico, talvol ta fisiognomico) sia nella scelta di un
modello di funziona mento logico del segno secondo lo schema "Se p,
allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che vedremo
trasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. A
differenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lo
più indirette e disorganiche, la medi cina greca può contare su una ricca
documentazione, rap presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1
un 58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario di
testi (circa un centi naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e le
teorie medi che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unico
autore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2
né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presenti
all'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi di
versi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che è
dato riscon trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio della
medicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine del
pensiero greco, che si affianca sen z'altro alla ricerca filosofica e alla
storiografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi di
interscam bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen siero
socratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip pocratiche,4 ed è
stato sottolineato il debito che la storio grafia scientifica, inaugurata da
Tucidide nell'ultimo scor cio del V secolo, ha contratto nei confronti della
téchn ip pocratica. Ciò che la medicina aveva da offrire tanto alla filosofia
quanto alla storiografia era un modello di sapere specifica mente semiotico,
articolato sul doppio livello rappresenta to, da una parte, da una solida
struttura formale (il loghi smos, cioè il ragionamento inferenziale, nei suoi
due mo menti abduttivo e deduttivo) e, dall'altra, da un orienta mento di
base empirico.6 Come vedremo meglio in seguito, il segno medico costi tuisce
proprio il prodotto del ragionamento inferenziale ap plicato alla ricorrenza
dei fenomeni, i quali in tanto acquisi scono senso, divenendo segni, in quanto
sono riconducibili appunto al loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi A
differenza del medico moderno, che legge i segni in funzione della diagnosi, il
medico antico elaborava il suo ragionamento in funzione della prognosi. Un
intero trattato 3. l AMBIGmTÀ DELLA PROONOSI 59 del C.H. , Ilprognostico,
è specificamente dedicato a questo problema. Eccone il passo iniziale e
programmatico: Quanto al medico, mi sembra che la cosa migliore sia che egli
pratichi la previsione; infatti, con una conoscenza e dichiara zione
preventiva, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, pas sati e futuri, e
con una puntuale esposizione di quanto gli infer mi tralasciano di dire, egli
conquisterà maggiore fiducia di po ter conoscere le condizioni dei malati,
così che gli uomini si ri solvano ad affidare se stessi al medico. (cap. 1)7
Dal passo si può osservare che la prognosi non è concepi ta come previsione di
eventi soltanto futuri, ma coinvolge anche elementi di conoscenza che
riguardano sia il presente sia il passato:8 il medico deve avere la capacità di
descrivere anche quei sintomi, o quei fatti in generale, che gli ammala ti
tralasciano di esporre. Dal procedimento descritto nel Prognostico non sono
assenti scopi chiaramente manipola tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, il
medico mira ad ac quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli ad
affidarsi alle sue cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsi
con i crismi della scientificità e dell'obiet tività, si ponga non tanto lo
scopo del rispecchiamento del la realtà (nosologica in questo caso), ma quello
della sua manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca so,
anche di "segni efficaci" come uello della retorica in cantatoria di
Gorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice riferimento al
passa to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso isola to, ma
ricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la medicina, nel
Lachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con l'analoga
formula usata per individuare il procedimento divinatorio (Brtescu 1 975: 46) .
1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele menti comuni tra
la medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti medici del C.H.
sottolineano esplicita mente e con forza la distanza e i punti di divergenza.
A 60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del libro Il regime
nelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche discordanti dei
cattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione divi natoria.
L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il segno divinatorio è
ambiguo, può significare due cose dia metralmente opposte, e perciò è lontano
da quel piano di oggettività al quale aspira la scienza medica. Anche l'autore
del Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando le loro
predizioni miracolose, che li rendono simili agli in dovini, e contrappone
orgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla congettura:
Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou manteU.somat),
ma scriverò i segni (smeia) attraverso i quali si deve congetturare (tekmafresthat),
tra i malati, quali guariran no e quali moriranno, quali guariranno e quali
moriranno in poco o in molto tempo. (cap. l) L'inferenza divinatoria
(manteuein) è direttamente con trapposta alla congettura (tekmairesthaz). La
violenza con cui i medici polemizzano contro la divinazione e la netta presa di
distanza rispetto a essa è sicuramente indizio del fatto che essi tentavano di
imporre un nuovo e autonomo paradigma epistemologico, una "semiotica
profana"; ma è indizio, anche, del fatto che il rischio di confusione o di
fraintendimento era ancora presente. Sotto certi aspetti la medicina
ippocratica appare effetti vamente come la continuazione di una medicina
preceden te, popolare e antichissima, impostata su basi magiche (Parker 1983:
213 ss.). Certi settori della terminologia de nunciano chiaramente questa
situazione: Pimportanza cen trale, nel C.H., della katharsis
("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche dello
iatr6mantis "medico-indo vino" e dei purificatori apollinei come
Epimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, era
in origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta dini di Atene che
regolarmente il 6 di Targelione, o anche in 3.2 MEDICINA E SEMIOTICA
MAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, fla
gellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimonia
di purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo di
autodifferenzia zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magico
doveva assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati più
interessanti del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storia
della semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica,
dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi ché
esporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentata
dall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fonti
letterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione e
per la medicina: entram be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo
e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197
a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la
divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due
pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite
come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle gamento esse lo
trovano nella figura antichissima dello ia tr6mantis, il medico-indovino, che
unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie.
L'appellati vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; ma
passa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che uniscono
al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle
purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del lo
iatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia gnostica: trattandosi
di un veggente, egli è in grado di indi viduare la causa nascosta di una
malattia, causa che è da at tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale.
In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità 62 3. I SEGNI NELLA
MEDICINA GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di un
medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il
mondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presente
stato di contaminazione; in se guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis può
indicare gli stru menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione
è ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, Alessandro
Poliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) è
piena di anime; ed essi le conside rano demoni ed eroi e pensano che siano
essi a inviare agli uo mini i sogni e i segni premonitori (smefa) e le
malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da
pa scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca tartiche e
apotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere.12
Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se miologia sacra
abbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che
affliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fonte
dell'informazio ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini i
segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so gni) dai quali si
rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo
si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a
produrre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotro
paiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu le verbali
incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma le: si tratta di segni
linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il
soprannaturale, dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendono
agire sul mondo e non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semiotica
sacra Prenderemo ora in considerazione le critiche rivolte alla 3.3 LA
CRITICA ALLA SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico ed
epistemologi co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in due
direzioni: l . contrapporre alla nozione di "sacro" quel la di
struttura naturale (phjsis) e di causa razionale (pro phasis); 2. mostrare
l'inconsistenza sul piano logico del ra gionamento sotteso dalle procedure
della medicina magica, apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basato
sul tekmérion (che qui compare già con il senso di "prova", di
"segno sicuro") (cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuole
contestare è la conce zione di un'origine divina della malattia; e questo vale
tanto per il "male sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunque
altro tipo di morbo. Sotto accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosa
che si riconduce all'intervento divino. In ef fetti, il termine hier6s, anche
se in greco si specializzò molto presto in senso religioso, in origine non
apparteneva alla sfera olimpica, ma era legato a una concezione animistica:
hier6s è tutto quello in cui si rivela una vitalità prodigiosa e magica, e una
malattia è sacra in quanto inviata da una for za soprannaturale. Lo stesso
termine iasthai, "curare" (da cui iatr6s "medico"),
originariamente doveva indicare un curare come "un ristorare, un ridonare
le forze attraverso appropriate operazioni magico-mediche" (Ramat 1962:
20). In effetti, l'idea della malattia come riconducibile a un intervento
diretto "del piano verticale della trascendenza su taluni punti di quello
orizzontale della causalità naturale" (Vegetti 1976: 291) appare mettere
fuori gioco ogni idea di regolarità dei fenomeni ed escludere,
contemporaneamente, la possibilità di controllo su di essi e di previsione. La
no zione di "natura", che l'autore del trattato contrappone a quella
di "sacro", viene a reintrodurre proprio la regolarità nel movimento
di cause ed effetti, rendendo possibile l'im postazione della medicina su basi
scientifiche. Inoltre, se la nozione di phjsis individua la struttura oggettiva
e omoge nea di ricorrenze tra cause ed effetti, quella, correlata, di
pr6phasis (in altri casi aftion, aitle) rimanda al momento della spiegazione
del singolo fenomeno. 64 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme di
argomentazione logica e il "tekmérion" Tuttavia il punto di maggior
forza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi avversari consiste nelle
modalità di ar gomentazione logica che adotta: facendo un esplicito ricor so
al tekmrion (''prova", "segno sicuro") egli riesce a indi
viduare delle contraddizioni interne al sistema della medici na magica e a
confutarla. Vediamone subito un esempio: E v'è un 'altra grande prova (méga
tekmrion) che questa non è più divina delle altre malattie; insorge ai
flegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi: mentre, se fosse più divina
delle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senza
distinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13 L'argomentazione assume la
forma rigorosa di quello che in seguito sarà chiamato nzodus tollens, cioè
"Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''. In altre parole
l'autore del A-lale sacro ragiona così: "Se questa malattia fosse più
divina delle altre (p}, essa dovrebbe colpire indistintamente tutti (q); ma
questo non si verifica (perché colpisce i flegma tici, ma non i biliosi)
(non-q); ne consegue che essa non è più divina delle altre (non-p)". Si
deve rilevare che l'autore utilizza la non verità del conseguente nel modus
tollens (''che la malattia non colpisce indiscriminatamente tutti") come
segno (teknzérion "segno sicuro", "prova") della non verità
dell'antecedente (''che l'epilessia non è più divina del le altre
malattie"). Naturalmente bisognerà aspettare Aristotele prima che il
nzodus tollens come schema ragionativo venga teorizzato e che venga fornita una
definizione rigorosa di teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dare
un'analisi formale di questo schema argomentativo e di dire che ogni schema
argomentativo deve essere considerato come un segno. È in teressante,
tuttavia, che già l'autore ippocratico leghi l'e spressione tekmrion (che da
Aristotele in poi assumerà ine quivocabilmente il significato di "segno
inconfutabile") con 3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo schema
inferenziale del modus tollens: logica e semiotica vengono già a trovare un
punto di convergenza e di saldatu ra. Saldatura che con gli stoici sarà
totale. 3.5 La vista e gli altri sensi Tuttavia la contrapposizione tra una
semiologia sacra e una profana non si basa soltanto sulla capacità, che la se
conda possiede, di utilizzare un ragionamento rigoroso e di fare ricorso a
segni che si inquadrino in uno schema logico inferenziale. Come ha mostrato
Lanza (1979: 103), un altro importante elemento di divergenza tra il paradigma
divina torio e quello della medicina ippocratica è dato dal diverso ruolo che
la vista gioca nei processi di conoscenza. Nella divinazione e nella medicina
magica la vista ha una parte fondamentale, in quanto è fonte primaria, e in
qual che modo unica, dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, dio
della divinazione, è nelle parole di Pindaro co lui che possiede
"l'occhiata che conosce ogni cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti è
sottratto alla sua vista nel passato, nel presente e nel futuro; a lui
appartiene il "dominio del tempo". L'uomo può conoscere solo ciò che
contingente mente capita sotto il suo sguardo. Solo l'indovino e il poeta
possiedono una seconda vista, che permette loro di vedere anche ciò che è al di
là delle limitazioni cui sono sottoposti i comuni mortali; per questo spesso i
primi sono ciechi, per essere ricettivi a questa vista; e un'analoga
limitazione delle facoltà percettive si verifica anche nell'attività onirica,
du rante la quale la raccolta di stimoli esterni si attenua fin quasi a
scomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi no, poi, la visione si
tramuta in parola, diventando il segno che supplisce alla mancanza di presenza.
Questa concezione comporta una dipendenza del segno dalla divinità e una di
cotomia tra ciò che è percepibile con la vista e ciò che non lo è. Ma un primo
superamento della dipendenza dalla divi nità per la conoscenza dell'invisibile
si ha nel famoso motto di Anassagora "Vista dell'invisibile è ciò che
appare" (6psis ad/On tà phainomena) (D-K, 59 B 21a). Il fenomeno
viene 66 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi alla divinità.
La vista tuttavia rimane cen trale. Caratteristicamente in un trattato medico
arcaico. Malattie delle donne, al cap. 60, si dice che attraverso il dito il
medico "vedrà" il modo di presentarsi del collo dell'u tero.
Certamente le opere del C.H. procedono sul cammino aperto da Anassagora, ma
contemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di importanza nel
processo di cono scenza. Ci sono ragioni specificamente inerenti alla téchn
ippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un ridimensionamento,
del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar te si dice esplicitamente che
"delle malattie alcune hanno se de in luoghi non celati alla vista, e non
sono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e sono molte" (cap. 9).
Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il medico trae congetture da
segni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi no gustativi: è attraverso
l'intera gamma della tipologia se gnica che il medico può elaborare la sua
previsione, percor rendo il tempo anche nella dimensione di un passato e di un
futuro che sono nascosti. Non solo, ma avviene che, quan do i segni non si
presentano spontaneamente, il medico giunga a "forzare la natura" per
costringerla a fornire degli indizi (cap. 13). A questo punto è possibile
tentare un riesame dell'oppo sizione visibile/invisibile nel momento in cui
essa passa dal la divinazione, che l'aveva inventata, agli altri ambiti del
sapere. La ritroviamo, a esempio, in ambito giuridico, con l'anti tesi tra
"beni apparenti" e "beni non apparenti" che, secon do la
penetrante analisi di Gernet (1968: tr. it. 399 sgg.), si configura come
opposizione tra i beni materiali (fondiari e patrimoniali soprattutto) che si
possono percepire, e i credi ti in genere, "invisibili" (a esempio,
i crediti nei confronti di un banchiere presso cui si è depositato del denaro).
Poi, nell'ambito strettamente filosofico, l'opposizione assume un carattere
squisitamente antologico, dando vita a una duplicazione dei livelli di realtà.
In Eraclito, a esempio, il "nascosto" costituisce la realtà vera in
contrapposizione all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiara
traccia nei 3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti: "L'armonia
che non si vede è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B 54) e "La
natura ama nascon dersi" (D-K, 22 B 123). Come si può osservare, mentre
nella divinazione il "visibile" richiamava apertamente la funzio ne,
tutta fisiologica, svolta dali'organo della vista, una vol ta avvenuta la
trasposizione in altri campi questo legame si attenua. Di fatto scompare quasi
del tutto nella scienza, do ve visibile e invisibile vengono concepiti come
due mondi, la cui comunicazione è garantita non dalla vista, ma dalla
congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il carattere semiotico della
rivoluzione effettuata dal pen siero ippocratico è stato messo in luce da
Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti dei medici
ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, ha mo
strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodo
semiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico",
tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa in
qualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come una
filosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè una
indagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch). La
natura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifesta all'osservatore,
ma presenta un duplice aspet to: esso è, contemporaneamente, molteplice,
perché si com pone di una infinità di fenomeni, e unitario, in quanto cia
scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ogni altro
frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro, è
l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper correre il
cammino della phjsis che porta, per via analogi ca, dal singolo fenomeno
all'arch. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come se
qualsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo metodo
del riconoscimento di campioni: un frammento sta costan- 68 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente omoge
nea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si impone a
partire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio semiotico
della congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo gli dci
hanno cono scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare (lekmaf
resthal). (Diog.Lart.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre per i filosofi ionici e per la
medicina dei postulati c'era continuità tra i principi della natura, i suoi
fenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni, con lcmeone nasce una
frattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il mondo del l'esperienza non si dà
a conoscere spontaneamente, non è più trasparente. Proprio sulla frattura
inaugurata da Alc meone si impernia il metodo semiotico. Essa conduce alla
necessità di sostituire il procedimento dell'analogia con uno basato
sull'indizio: la conoscenza umana assume per princi pio il tekmafresthai, il
procedere per indizi e congetture. Ciò che la medicina ippocratica svilupperà,
e che è ancora assente in Alcmeone, è l'inquadramento del metodo conget turale
in una struttura logica compiuta. 3.7 Metodo analogico e metodo semiotico A
questo punto è possibile domandarsi quale forma assu ma la metodologia della
ricerca congetturale nei trattati ip pocratici. Una prima risposta a questa
domanda può essere cercata attraverso un'analisi della polen1ica che, a questo
proposito, ha opposto Regenbogen (1930) a Diller (1932) nella prima metà di
questo secolo. In questa polemica ritro viamo una contrapposizione tra
"metodo semiotico" e "me todo analogico"; ma in un senso
sensibilmente diverso da quello esaminato finora, in quanto la nozione di
"analogia" era assunta in un senso lato, molto vicino alla nozione se
miotica di "omomatericità".15 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO
SEMIOTICO 69 In questo secondo caso la nozione di "analogico" viene
assunta in un senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismo
tra un fenomeno da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguente
possibilità di inferenza dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipo
de scritto costituisce, secondo Regenbogen, il carattere specifi co della
metodologia di ricerca utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sulla
procreazione, Sulla natura del bam bino, Sulle malattie I V: in questi testi
vengono spesso messi a confronto processi di tipo non osservabile con processi
osservabili e i primi vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, come
si verifica a esempio quando viene isti tuito un parallelo tra lo sviluppo del
feto e quello delle pian te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di un
uccello (Littré 1839, VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at tiene
di fatto al principio di Anassagora secondo cui ciò che appare permette di
avere una visione anche di ciò che è invi sibile, e applica questo principio
sistematicamente. Il para gone con l'oggetto visibile, su cui si basa
l'analogia, viene visto come una prova deli'oggetto di partenza. Il
procedimento analogico non è limitato ali'ambito me dico-biologico, ma se ne
possono rintracciare esempi chia rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto
(Hist., II, 33), quando parla del Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cui
lunghezza gli sono sconosciuti, sostiene: "a quanto io ri tengo,
congetturando (tekmair6menos) dalle cose note quelle ignote, (il Nilo) muove da
una longitudine eguale a quella da cui muove il Danubio". Il ragionamento
è il se guente: il corso del Danubio è conosciuto dalle sorgenti alla foce, e,
posto sullo stesso meridiano, nella concezione di Erodoto, scorre nella
direzione opposta a quella del Nilo, cioè da nord a sud verso il mar Nero, così
come il Nilo scor re da sud a nord verso il mar Mediterraneo; il Danubio, in
fine, è il fiume maggiore dell'Europa, come pure il Nilo lo è dell'Africa. Dati
questi elementi, si può immaginare il corso del Nilo in analogia con quello del
Danubio. Secondo Diller (1932: 17), tuttavia, l'analogia non riesce a coprire
tutti i casi di inferenza dal visibile all'invisibile, e porta a questo
proposito un certo numero di esempi, tra i 70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINA
GRECA quali l'inferenza sperimentale contenuta al cap. 8 del tratta to Le
arie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole dimo strare che le acque che
provengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le qualità di leggerezza, di
limpidezza e di dolcez za, mentre conservano quelle di pesantezza e di
torbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo proposito di versa re,
durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo averla misurata, di
esporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente va messa di nuovo
al caldo e fatta scioglie re: misurandola, ci si accorgerà che la sua quantità
è molto diminuita. Questa è una prova (tekmrion) del fatto che, gelando,
l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e delicata e dimostra,
contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua proveniente dalla neve e
dai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekmrion e si basa sulla istitu
zione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà. Ma, giustamente,
Diller mette in dubbio che si tratti an che di un procedimento analogico: in
effetti l'unica analo gia che vi si può istituire è che per una piccola
quantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse leggi che valgono
per l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello che avviene
nell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto :
tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte sul
tutto. Comunque, per Dil ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza che
non è ana logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che abbiamo
visto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al l'interno del
processo che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo sia
chiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondo
Diller, l'au tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che la
parte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo,
quella che è più densa e più torbida sedi menta: la prova (tekmrion) è data
dall'osservazione di co loro che soffrono di calcoli alla vescica, i quali
espellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi da si
condensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è che
qualcosa di 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibile
viene spiegato attraverso dei fenomeni per cepibili. Però questi fenomeni non
sono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essi
stabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rap
porto che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in ferenza
semiotica (propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamente
al procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe stato
poi quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente per
Diller, mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So sein" di un
processo o di uno stato sconosciuto quella se miotica indizia del suo
"Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie
(1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazione
dal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Le
arie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processi
esplicati vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferire
le cause da fenomeni osservabili), sia una induzio ne analogica. Molto
interessante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3 ss.)
del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto la teoria
(elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien te umido
e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci tà di respiro (pneuma) che
si apre una breccia verso l'ester no: esso emette un soffio e, in una seconda
fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questa teoria,
l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget ti, in cui si
verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanze
commestibili. Viene poi descritto il com portamento del legno quando brucia:
esso espelle aria cal da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliato
e, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei due
movimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno al
legno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noi
vediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (eklo
ghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza 72 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, allora
non-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo vimento
contrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno al
legno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi a
illustrare lo stesso tipo di comporta mento negli altri esempi di analoga e
procede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione:
"tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fanno
entrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostiene
che i fenomeni descritti devono essere con siderati come "prove
necessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nel
procedimento conoscitivo messo in scena nell'esem pio precedente possono
essere messi in luce tre diversi ele menti . Anzitutto si ha l'istituzione di
un'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello sperma
neli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è una
inferenza semiotica (che è pro priamente quella di cui parlava Diller,
chiamandola "infe renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenza
causale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempio
l'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le gno) alla sua causa
ovvero alla natura del processo. È inte ressante notare che inferenze di
questo tipo sono molto fre quenti nei trattati considerati e che l'espressione
che designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è smefon. In terzo luogo,
si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale, che è intesa come
valida anche per il pri mo termine (quello da dimostrare) dell'analogia. In
com plesso si può dire che il valore probante dell'analogia consi ste nel
fatto che essa permette di convalidare una proposi zione di partenza (relativa
a fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni concernenti fatti
analoghi, ma os servabili, che sono considerati come esempi di una legge va
lida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra analogia, principio
generale ed enunciazione di partenza con il seguente diagramma: 3.8 LA
SEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio generale esemplifica/
tt(" , , conferma /// '' /' > analogo illustra asserzione di pertenza
3.8 Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel gruppo di opere del C.H.
dove vengono maggior mente approfonditi gli aspetti teorici della medicina
(Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Ilprognostico, Il regi me nelle
malattie acute, Male sacro, Le epidemie l e III e le maggiori opere
chirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo do più chiaro, la formulazione
della metodologia/semioti ca, quella appunto a cui si riferiva Diller (1932) e
che Lonie (1981) individua come procedimento di "inferenza causa
le". In questo paragrafo cercherò di approfondire in che co sa consiste
tale metodologia, indipendentemente dagli altri procedimenti che possono
esserle associati, come abbiamo visto che avveniva con l'analogia. Nelle
opere che abbiamo sopra menzionato viene innan zitutto aperto il problema del
significato dei dati di osserva zione.17 Il singolo fenomeno (hékaston), non
essendo più collegato con (né riconducibile a) una presunta unità della natura,
come nella physiologhla, ha bisogno di essere inter pretato, cioè riconnesso a
un sistema di riferimento. È a questo punto che inizia il procedimento
inferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento essenzialmente abduttivo:
18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo lo, che si presenta
ali'osservazione del medico, sia un caso di una qualche regola generale. Si
prova, cioè, a pensare che lo hékaston, di per sé insignificante, possa essere
consi derato come un smeion, un segno che rimanda a un siste- 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA ma, e dal quale riceve senso. Questo primo momento ascen
dente, di costruzione del sistema di riferimento, viene segui to da un secondo
movimento, discendente, di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido e
funzionante, può essere pro vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segno
si trasfor ma così in tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando lo
schema proposto da Eco (1984: 41) per l'abduzione si po trebbe cosi illustrare
il processo: codice eziologico e/o prognostico: r------------, son: h,jksston
(singolo fenomeno) : l risultato l -- 1 r - - - - - - - - - - -, l l regola
1 l ------------_j l l lL - - - - - - - - - - - - - 1 .------------l
L Vegetti (1976: 49) mette molto bene in luce questo dupli ce movimento
abduttivo-deduttivo della téchnippocratica: "Ciò d'altro canto conferiva
alla funzione dello hékaston, spogliato dai privilegi 'metafisici', una dignità
nuova. Esso infatti era, da un lato, chiamato ad essere segno, smeion,
sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di inferenza, era supposto
appartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di 'prova', tekmirion,
sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto sulla possibilità
di trovare conferma ___________..J 1 l 74 3.9 LA STRUITURA FORMALE DEL
SEGNO 75 negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi, per la téchn
ippocratica, come un movimento - 'dialettico' - che procedendo dallo hékaston
posto dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di 'esperienza'
scientifica), lo tra sforma in smefon, mediante un'inferenza logico-concet
tuale (loghism6s) e poi in prova o tekmrion, per conclude re, se il circolo si
fosse saldato, nella capacità di compren sione e di intervento pratico su
sempre nuovi hékasta". Sicuramente lo schema di riferimento che il medico
deve costruire è un codice, ma di tipo particolare: è infatti pro babilistico.
Come ha messo in evidenza Di Benedetto (1966 e 1986: 132), i testi del C.H.
sono disseminati di espressioni che indicano una tendenza o una probabilità
quali "la mag gior parte", "i più", "molti",
"soprattutto", "spesso", "tal volta" ecc. Questo
non significa che i medici della collezio ne ippocratica non siano impegnati
nella costruzione di si stemi di riferimento costanti e funzionanti
generalmente. Semplicemente la logica del hoi pleistoi ("la maggior par
te") si sostituiva alla logica del ptintes ("tutti"). Del resto,
proprio il carattere probabilistico contraddistingue l'infe renza abduttiva o
ipotetica rispetto a quella strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formale
del segno La nozione di smeion ("segno", "sintomo") è una
delle nozioni centrali nei testi del C.H. La struttura formale at traverso la
quale il segno è introdotto è relativamente co stante, in quanto prevede
l'inquadramento in uno schema implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vista
linguistico, molto spesso p e q sono rap presentate da proposizioni (o da
sequenze di proposizioni), il cui collegamento costituisce un periodo
ipotetico, come possiamo vedere da un brano tratto dal cap. 9 del Progno stico
: 76 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ma bisogna osservare anche gli altri
sintomi (smefa): se (n) in fatti il malato sembra sopportare favorevolmente il
male, oppu re, oltre a questi, mostra qualche altro dei sintomi salutari, c'è
speranza che il male si risolva in ascesso, sicché l'uomo soprav viva, pur
perdendo le parti annerite del corpo. In questo esempio la prima parte
dell'implicazione è co stituita da una sequenza di due proposizioni
condizionali introdotte da n ("se"), che si riferiscono a dati di
osserva zione (protasi), mentre la seconda parte presenta un perio do
complesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se il riempimento
semantico della protasi con dati di osser vazione, ovvero elenchi di sintomi,
è relativamente costan te, l'apodosi può contenere anche una enunciazione
diagno stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data la centralità
della prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a podosi può contenere anche
(e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica. 3. 10 Moduli
espressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che serve molto
spesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la ma lattia
stessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi moduli di
presentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e in quelli
egiziani.19 Il mo dello implicativo nei testi assiro-babilonesi prevede la pre
senza di una protasi, introdotta da §umma ("se", "nel caso
che"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da un'a podosi
contenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di un uomo ha
una infiammazione, le sue tempie so no afflitte da SA.ZI (?) con turbamento
dei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento, obnubilamento,
disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto pianto, tu devi
tritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon data, setacciare,
quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di rose,
radere a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre giorni.2
3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa del modulo
assiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se non si
parla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li vello semantico
è sostituito direttamente il livello praxeolo gico:21 il segno (propriamente,
l'antecedente del condizio nale) suggerisce, senza mediazione, un
comportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal volta
rappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera peutici, che sono
anche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) del
trattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di
attestazioni spora diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati
sulla relazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il
trattato Sulle affezioni in terne, dove il modulo espressivo di presentazione
della ma lattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat ti
composto di tre elementi strutturali: (A) una prima pro posizione (o serie di
proposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomeno
interno, non visibile, da conside rarsi come "la causa" della
malattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressione
tade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentata
la sin tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza serie
di proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene molto
spesso che la parte A sia sdop piata in due: At (le cause dirette dei
sintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio,
tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nel
petto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verifica
soprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez):
tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e febbre;
dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che una
pietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse con un
ago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e subito si
cauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186, 3-10) 78 3.
l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo modulo dal punto
di vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi ("Se A,
allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause), ma deduttiva.
Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già preliminarmente
ricostruito, delle cause che possono produrre determinati sintomi. Questo è il
punto di vista del trattatista: nella pratica il medico risalirà invece dai
sintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle affezioni interne presenta
anche una sezione prognostica (D), collocata tra B e C oppure dopo C: il testo
citato continuava con "In que sto modo il malato sarà molto presto
guarito". Un altro termine di confronto per i moduli della medici na
greca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le formule che questi ultimi
adoperano sono diverse da quelle della medicina assiro-babilonese in quanto
hanno anche una se zione dedicata alla diagnosi. Come Vincenzo Di Benedetto
(1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise in tre elementi
strutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla congiunzione
"se", presenta la sintomatologia come il risul tato di un
esame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa in
rilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una terza
sezio ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia mo un
esempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tu esamini
un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sono
appesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere la
mano sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto le
tue mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non per
mette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli un
rimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). In
questo caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma tologia costituisce il
punto di partenza per ricostruire il qua dro eziologico, cioè una realtà
nascosta che deve essere in terpretata a partire dai dati esterni
disponibili. 3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli,
attraverso i quali si definisce la pre sentazione della sintomatologia medica,
costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma più
spesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche rà di definire la
struttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primo
compiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue
opere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio,
ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come invece
avverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi losofiche successive. Si
possono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana lisi dei contesti in
cui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico di
sfondo abbastanza omo geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altra
certi aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta no un
carattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorie
Enguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi.
4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizione
divinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cui
si instaura una comuni cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71
a - 4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene anche
usato il ver bo smafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi natorio
non indica tanto il "significare", quanto l"'inviare un
segno", vero tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere un
testo verbale, come il responso della Pi zia di Delfi, o anche un testo
visivo, come lo sono le imma gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impresse
nel fegato che funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può anche
essere rappresentato da un evento na turale, come il volo degli uccelli; ma in
questo caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunica
zione è troppo mediata per avere davvero alore e produce più opinione che
conoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca so della comunicazione più
efficace con il soprannaturale è quello del "segno demonico" di
Socrate, che si manifesta come una "voce" interna (Fedro, 242 b-e;
Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1 .2 Il segno come
"impronta nell'anima" In una seconda serie di contesti il segno
appare come im pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un segno l'impron
ta lasciata da un sigillo. Questa accezione è presente nel Teeteto (191 a - 195
b), dove, per la soluzione di problemi epistemologici, viene sviluppata la
metafora dell'anima co me blocco di cera, su cui vanno a imprimersi i segni
prodot ti dalle sensazioni (tOn aisthseon smefa). Questi segni, quando sono
incisi profondamente, costituiscono la base per le elaborazioni della memoria e
per la formazione della retta opinione. In effetti si crea falsa opinione in
tutti quei casi in cui gli uomini si dimostrano incapaci di "assegnare
ciascuna cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di far combaciare il segno
impresso nell'anima con la nuova sensazione, in quanto il rapporto che si viene
a stabilire nel rinnovato processo per cettivo è lo stesso che si instaura tra
"copie e originali" (apotypOmata kaì tjpous) (194 b). 82 4.
PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema della memoria, che abbiamo
trovato accennato a proposito dei segni impressi nell'anima nel Teeteto,
ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a), quando l'at tenzione di
Platone si focalizza sui segni della scrittura. Nel mito che Socrate racconta,
infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio egizio Theuth offre al re
di Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto l'Egitto perché, secondo il
dio, essi sarebbero stati "una medicina per la sapienza e la memoria"
(Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza riserve il dono di Theuth,
convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto a
quello previsto dal dio, indebolendo la memoria: gli uomini "fidandosi
dello scritto richiamerebbero le cose alla mente non più dalPin terno di se
stessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol) estranei" (Fedro, 275
a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a una con trapposizione tra
"le parole scritte" e "il discorso scritto nell'anima":
quest'ultimo è "vivente e animato", è scritto con la scienza ed è
capace di selezionare i buoni destinatari; le parole scritte, invece, hanno
solo l'apparenza della vita, ma in realtà sono capaci di dire una sola cosa e
sempre la stessa, al pari delle immagini pittoriche che, se interrogate, "mantengono
un maestoso silenzio"; inoltre si rivolgono in discriminatamente a tutti.
Ma, posto il primato del discorso scritto nell'anima, si istaura tuttavia una
relazione semiotica tra i due termini: come propone Fedro, le parole scritte
possono essere consi derate "un'immagine (eldolon)" del discorso
scritto nell'a nima (276 a); ciò nonostante esse rimangono segni estrinse ci,
capaci solo di "rinfrescare la memoria di coloro che già sanno" (277
e). Si possono rappresentare questi rapporti se miotici con un triangolo (cfr.
p. 83). La linea tratteggiata indica il fatto che per Platone le pa role
scritte, di per sé, non permettono la vera conoscenza, che deve essere mediata
dal discorso interiore, ma produco no solo opinione (275 b). 4.1.4 Il
segno come inferenza 4.1 I SEGNI discorso scritto nell'anima 83 immagini
{ 8 /d lJI B ) parole scrrtte oggetti della conoscenza Infine, una serie di
contesti ci presenta un uso del termine "segno" (stmeion, in
alternanza con tekmrion) come indi cante un fatto, un evento, uno stato dal
quale si può inferi re un altro fatto, evento o stato secondo il modello già
in contrato nella divinazione mesopotamica e nella medicina greca (p::)q). Nel
Teeteto (153 a), a esempio, si dice che il fatto per cui il movimento e lo
sfregamento producono il calore e il fuo co, i quali a loro volta producono
tutte le altre cose, è un se gno sufficiente (hikanòn stmeion) per argomentare
che il moto produce l'essere e il divenire, mentre la quiete produ ce il non
essere e il perire. Negli stessi termini si parla di se gno nell'Epistola VII
(332 c), dove il fatto di avere o meno degli amici viene presentato come il più
grande segno del carattere virtuoso o vizioso di una persona. Ancora, nel
Gorgia (520 d-e) si definisce un bel segno (ka/òn stmeion) del successo
ottenuto il fatto che chi ha reso un servigio ri ceva un adeguato
contraccambio. In tutti questi casi il se gno è espresso da una proposizione
legata da un rapporto implicativo con un'altra proposizione. Ma, su questa
accezione basilare, si innesta l'idea del st- 84 4. PLATONE mefon come
segno che serve a distinguere una certa cosa da tutte le altre. In un passo del
Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno distintivo del sole, sufficiente
(hikan6n) per co noscerlo, è dato dal fatto che esso è il più risplendente tra
tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. Natural mente la forma
logica sottesa a questa formulazione super ficiale è quella implicativa
("Se un corpo celeste che gira in torno alla terra è il più risplendente
di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo punto Platone si interroga
sul valore episte mologico della conoscenza attraverso i segni, chiedendosi se
cogliere il segno distintivo di una data cosa (''il segno onde la cosa di cui
si domanda differisce da tutte le altre", 208 c), significhi cogliere
anche la ragione (/6gos) di quella stessa cosa. L'interrogativo non è di
piccola importanza e si può notare che esso riapparirà in Aristotele sotto
forma di ricer ca dei rapporti tra il "segno" e la "causa"
di un fenomeno. E, come farà Aristotele, anche Platone qui distingue il se gno
dalla ragione di conoscenza (/6gos epistms), soste nendo che il segno
contribuisce al formarsi della retta opi nione, ma non della conoscenza. 4.2
La teoria del linguaggio 4.2. 1 Carattere semiotico della concezione lingui
stica di Platone Nella speculazione successiva a Platone, la teoria del se gno
e quella del linguaggio verranno a costituire due ambiti completamente
separati, che considereranno diversi gli og getti delle rispettive indagini,
chiamandoli con nomi diversi (in Aristotele, a esempio, il segno linguistico
sarà sjmbo lon, e non smefon). Nella filosofia platonica, invece, que sta
divaricazione non si è ancora affermata, ma, al contra rio, si può notare che
la sua teoria linguistica ha un caratte re spiccatamente semiotico. 4.2
LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 85 In generale, nella cultura greca, il segno è
concepito come un elemento percepibile che rimanda a (o permette di giun gere
alla conoscenza di) un elemento che non è manifesto (adlon, aphanés ecc.); come
abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina e, prima ancora, della
divinazione, il segno costituisce la mediazione tra il piano delle cose acces
sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili. Proprio con questi
caratteri si presenta il segno linguisti co nei dialoghi platonici
(soprattutto nel Crati/o e nel So/i sta): esso è d/Oma
("rivelazione") di un oggetto non perce pibile (sia esso un
"significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata).
Costantemente il verbo smafno ("signifi co", "manifesto
attraverso segni") si alterna al verbo d/60 (''rivelo",
"manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a un
contenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passo
del Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/a
on6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag gio) di rendere
evidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que sto proposito li paragona ai
segni gestuali dei muti, che so no capaci di indicare (smalnein) le cose con
le mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo impossibilitati a
manifestarle (dlot2n) con il linguaggio verbale. A più riprese nel corso del
Crati/o viene affermato il compito semiotico di "rivelazione" (d/Oma)
che hanno gli elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazione
effettuata dai nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo renz e
Mittelstrass 1967: 8): questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intorno
agli oggetti (Sofista, 262 d), men tre soltanto i nomi "corretti"
rivelano gli oggetti come sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il carattere
di rivelazione che riveste il nome a costituire il suo criterio di correttezza.
Nel Sojzsta (262 a) il nome è definito espressamente "se gno vocale"
(smefon tis phonis), espressione che è usata come equivalente a d/Oma e la cui
funzione è quella di ma nifestare l'"essenza" della cosa nominata:
"lo direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni fonici (tii
phonii [.. .] dlomaton) che indicano l'essere di qualche cosa" (So- fista,
261 e). 86 4. PLATONE Particolari combinazioni di questi "segni
vocali" danno luogo agli enunciati (/6go1), facendo scattare un livello su
periore. In effetti, nel Sofista viene preso in considerazione il problema che,
in termini aristotelici, sarà descrivibile co me opposizione tra
"semantico" e "apofantico". In Plato ne, questa si
presenta come opposizione tra il livello ono mazein ("nominare") e
il livello légein ("enunciare") (262 d). I singoli segni vocali,
siano essi on6mata ("nomi") o rhimata ("verbi"),
manifestano un contenuto nel momento in cui nominano qualcosa. Le corrette combinazioni
di que sti segni vocali si situano a un diverso livello, perché, oltre a
manifestare un contenuto, lo presentano come "essere il ca so" o
"non essere il caso" di un determinato evento, stato o processo, cioè
ne costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986: 199-200). 4.2.2 La teoria
linguistica del "Cratilo" Il problema fondamentale che viene
affrontato nel Crati lo è quello della "correttezza dei nomi". Esso
è posto fin dali'inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratilo
a Ermogene e per la quale Socrate è scelto come giu dice. Complessivamente,
nella discussione, Cratilo sostiene una tesi che possiamo definire
"naturalista", mentre Ermo gene una tesi
"convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più stratificate
e presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo livello di
discorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del linguaggio che
possiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto di convenzione e
nasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza preliminare delle
cose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non presup pone
alcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un secondo
livello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomeno
trascurando il momento diacronico della formazione del linguaggio e
focalizzando il rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa a
cui esso è 4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. In
questo caso tanto Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione,
sostenendo che i nomi sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u nica
differenza tra le due posizioni consiste nel fatto che per Cratilo la
correttezza dei nomi segue una legge naturale, mentre Ermogene sostiene il
carattere convenzionale delle regole che stabiliscono la correttezza, e adduce
come prova il fatto che i nomi possono essere cambiati a piacere, senza
disturbare tale rapporto. Un terzo livello di discorso, che scaturisce
direttamente dal precedente, è quello che riguarda l'estensione della vali
dità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del nome è
"universale", vale tanto per i Greci, quanto per i barbari. Per
Ermogene, invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata alla
comunità linguistica particolare che ha adottato la convenzione. Si possono
distribuire questi dati su una matrice: Ermogene
Cratilo atto della nomina- zione primordiale frutto di accordo n aturale sempre
presente sempre presente correnezza basata su leggi con- venzionali basata su
leggi naturali validità del rap- porto di correnezza limitata alla comu- nitè
inguistica particolare universale Come abbiamo visto, entrambi i
contendenti danno per scontato il carattere di correttezza dei nomi rispetto
alle co se. Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa alla do manda su
chi garantisce la correttezza. La legge naturale, 88 4. PLATONE che ne è
responsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si stabilisce tra il nome e
gli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna importanza ciò che gli
utenti del nome ne pensano. Al contrario, la convenzione, che per Ermogene è
garanzia di correttezza del nome, è una regola che riguarda gli utenti del
nome, senza che venga presa in alcuna consi derazione la natura dei portatori
del nome stesso (Kretz mann 1971: 127). 4.2.3 Il problema linguistico e la
dialettica Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo, nel dialogo è presente
anche una terza teoria, sviluppata dallo stesso So crate attraverso la
confutazione delle posizioni dei due con tendenti. Socrate, come al solito, è
portavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per cui egli rifiuta entrambe
le altre posizioni sono da connettersi con la concezione generale del metodo
della filosofia che propugna Platone. Infatti, se Cratilo o Ermogene avessero
ragione, la via della dialettica, come mezzo per raggiungere la conoscenza,
risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6). Platone prevede il
linguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi losofica, ma pensa anche che
la verità vada cercata nelle co se e non nel linguaggio stesso, come suona
appunto la con clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene e di Cratilo
mettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente in quale
modo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria
"convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui la
convenzione e l'accordo costituiscono il cri terio di correttezza dei nomi
(384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e non
è quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er mogene
sostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo è
quello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome con
un altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto meno
giusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-
4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento di
focalizzazione e a preci sare che chiunque può operare questo cambiamento di
no mi, non solo una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta una
dottrina degli idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con la
parlata di un solo uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in un
soggettivismo totale; tanto che Socrate non manca di met terlo in parallelo
con il relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumpty
position", come è stata arguta mente chiamata (Weingartner 1969: 7), fa
perdere al lin guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile la
dialettica, in quanto non permette di distinguere tra enun ciati veri ed
enunciati falsi. Tuttavia anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan to
perentoriamente, a una impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora una
teoria che ha le caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nome
rivela la natura della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione è
totale o è un nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an che
per una piccola parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essere
niente di più che "il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzo
percuotendolo" (430 a). Poiché per Cratilo la produzione linguistica
sembra dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in certi altri a dei
nonsensi, in entrambe le evenienze la dialettica verrebbe ri dotta a uno
strumento sprovvisto di senso. Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciasse
con il chiedersi "Che cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere,
nel corso del dibattito, la conoscenza dell'entità sotto indagine. Si
presenterebbero allora due possibilità: (i) se l'espressione !giustiziai
rivelasse naturalmente l'oggetto, che nomina, la ricerca finirebbe prima di
cominciare; (ii) se invece essa fosse analoga al "ru more prodotto da un
vaso di bronzo percosso", la domanda stessa non avrebbe senso. La
dialettica, per quanto debba giungere a giudizi veri, deve avere la possibilità
di enunciare giudi.zi falsi, che devono essere corretti nel corso del dibatti
to. Ed è appunto questa possibilità che viene eliminata dalla teoria di
Cratilo. 90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome come strumento Uno dei punti
fondamentali del dialogo platonico è costi tuito dalla ricerca di un criterio
oggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciati
quanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente questo scopo, Socra te sposta
temporaneamente il discorso dal piano linguistico a quello ontologico,
affermando che le cose (pragmata) hanno in loro stesse una stabile essenza e
non dipendono dal giudizio soggettivo (386 e). Una tale caratteristica di
oggettività è attribuita da Socra te anche alle azioni (praxeis), che al pari
delle cose (pragma ta) sono delle specie di enti (onta). Infatti, dal momento
che ci aspettiamo che le azioni abbiano certi effetti, esse non possono essere
compiute arbitrariamente. Ma, per Socrate, anche il dire (légein) e il
denominare (onomazein, che è una parte del dire), costituiscono delle forme di
azione e, di con seguenza, devono essere compiute in maniera non arbitra ria.
Possiamo illustrare questa serie di divisioni attraverso il seguente schema:
enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni (prAxtJis) /\ dire (/(lgein)
/\ Nel resto del dialogo l'intuizione che il dire e il denomi nare
costituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior mente sviluppata, ma
rimane comunque una importante in dicazione di una possibilità di sviiuppo in
senso pragmatico che avrebbe potuto avere la linguistica greca. In questo
contesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio ha un legame oggettivo con la
realtà, commisurato con il fi- denominare (onomAzein) 4.2 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una comunicazione efficace, è perseguito
attraverso il paragone del nome con uno strumento (orga non): proprio come la
spola serve a sceverare la trama del tessuto, così il nome è "uno
strumento didascalico e sceve rativo dell'essenza" (388 c). In altre
parole, in primo luogo, i nomi operano una tassonomia della realtà, separando
gli oggetti del reale, in maniera tale da rispettare le loro nature (Kretzmann
1971: 128); in secondo luogo i nomi permetto no di comunicare questa
tassonomia. 4.2.5 Forma ("eldos") e materia del nome Se lo scopo dei
nomi è quello di far acquisire la conoscen za delle cose e di comunicarla agli
altri, è necessario che chi ha denominato la realtà (il "nomoteta",
personificazione di un'autorità linguistica accettata), categorizzandola in una
certa maniera, già ne possedesse una conoscenza prelimi nare. In effetti, per
garantire la correttezza dei nomi, il nomo teta ha agito come il costruttore
di spole. Come quest'ulti mo guarda ali'eidos ("forma",
"idea") della spola, così il nomoteta, per costruire il nome, guarda
al "nome in sé", cioè alla forma ideale del nome (389 b; 390 a). Allo
stesso titolo, come non ogni materiale è adatto alla costruzione di uno strumento,
ma è necessario usare la ma teria che meglio si adatta alla forma (a esempio
il ferro per il trapano e il legno per la spola, e non viceversa), ugual mente
sarà necessario che i nomi siano costruiti con suoni e sillabe, piuttosto che
con altro materiale, se devono com piere bene la loro funzione. Tuttavia non
sarà necessario che la forma fonica (direm mo: di superficie) dei nomi sia
identica per tutte le lingue, ma ciascuna lingua suddividerà in modo diverso il
conti nuum sonoro (nello stesso modo in cui non ogni fabbro adopera lo stesso
ferro per lo stesso strumento atto allo stesso scopo) (389 e). In questo modo
Platone spiega la di versità delle lingue, le quali pure, indistintamente,
sono or ganizzate in maniera da rispettare i medesimi modelli. Ciò 92 4.
PLATONE che varia da lingua a lingua è la materia, da interpretarsi co me la
configurazione superficiale di nomi e di sillabe che as sume ciascun nome. Ciò
che rimane costante è laforma (eidos, idéa) del nome che conviene a ciascuna
cosa (390 a). Un modo di pensare a questa forma è quello proposto
dali'interpretazione di Kretzmann (1971: 129-130), che la identifica con la
funzio ne e lo scopo essenziali a ciascun nome, di separare le cose e di
separarle in maniera da rispettare le loro giunture natura li. In questo modo,
a esempio, il nome greco l hippos l o quelli barbari lchevall, lcavallol,
lborsel, lPferdl ecc. saranno tutti corretti se riusciranno a ritagliare la
realtà se condo le "naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre
supposto che tali giunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come
si vede, Platone qui sta affrontando una questione che potremmo definire
"hjelmsleviana",1 e così potremmo parlare, più che di funzione, come
fa Kretzmann, di forma e sostanza, di espressione e contenuto, come fa
Hjelmslev: la forma espressiva (la materia di Platone) può variare da lingua a
lingua; ma, affinché il nome sia quello giusto, è ne cessario che la forma del
contenuto (l'eidos o idéa di Plato ne) ritagli la materia del contenuto
secondo le medesime ar ticolazioni. Cosi l hippos l , l cheval l , l cavallo l
, l borse l , l Pferd l saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti
nuum materiale del contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettro
relativo agli animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi
l'elaborazione dei nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta
tassonomia del continuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il
metodo della divisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al
dialettico, personificazione dell'autorità scientifica e filo sofica,
giudicare se il lavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d). 4.2
LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo
l'interpretazione di Donatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel
Crati/o due diverse teorie seman tiche, che si riferiscono, la prima a una
situazione di lin guaggio ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio
come realtà storicamente data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto
del dialogo (393 d), infatti, Socrate so stiene che ciò che è veramente
importante per il nome è di significare (smalnein) l'essenza della cosa (ousfa
tofl prag matos), la quale viene chiaramente espressa (dJoumén) dal nome. Una
volta che il nome esprime l'essenza della co sa, non ha nessuna importanza se
vengono aggiunte o tolte delle lettere al nome. L'esempio che viene portato è
quello del nome di una let tera dell'alfabeto, il bita: esso nomina la lettera
l b l , ma a essa aggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha (lal); nonostante
queste aggiunte, esso nomina correttamente il l b l , in quan to fa comparire
il "valore" della lettera che doveva essere nominata. Un analogo
ragionamento vale per tutti i nomi: essi sono corretti se nominano l'essenza
della cosa di cui so no nomi. Il significato è, dunque, identificato con
questa essenza della cosa. Più avanti (394 b-e) Socrate introduce un altro
concetto, quello di djnamis ("valore"), che sembra anch'esso identifi
carsi con il significato. Infatti egli sostiene che chi è vera mente pratico
di nomi guarda al loro valore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte
né da trasposizioni di let tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte"
= "signore della città") e Héktor (''Ettore" = "che tiene saldo"),
pur avendo in comune solo la lettera l t l , significano la stessa cosa (tau
tòn smalne1). Dunque il significato del nome è dato da entrambi gli ele menti,
l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome: essi di fatto coincidono,
in quanto il nome, attraverso il suo significato, deve esprimere la cosa che
nomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome, significato e cosa con il se
guente triangolo: 4. PLATONE essenza della cosa = In effetti , come l03),
per Platone il nome non "rispecchia" la cosa, ma solo la sua essenza,
ed è questa la ragione per cui possono esserci nomi diversi per lo stesso
oggetto. Del resto, per rispecchia re l'essenza della cosa, il nome deve
"associare l'individuo al genere cui appartiene" (ibidem); fatto che
corrisponde a quanto avevano sottolineato Lorenz e Mittelstrass (1967: 6- 8),
con la loro attribuzione di una funzione predicativa al nome. Il significato
specifico del nome, la sua dynamis, consiste allora neli'assegnare ciascuno
degli oggetti al con cetto appropriato, o al genere che gli compete. Ed è
rispetto a questa operazione che si può valutare oggettivamente la correttezza
o meno del nome. Se ci soffermiamo a considerare i risultati della teoria del
significato esposta nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta la
dimostrazione di Socrate è rivolta a mostrare la coincidenza della struttura
linguistica con quella logico-on tologica: il linguaggio, attraverso i nomi,
ritaglia il reale se condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmente
pre senta. Così, imitando e rappresentando la struttura della realtà, il
linguaggio costituisce una mediazione tra il mondo delle idee e quello
sensibile. Del resto il nome rappresenta il genere stesso che può essere
predicato di ciascuna cosa e che, inafferrabile in natura, si concretizza nella
materia fo nica. dynamis nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 98
1 : 94 4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo,
l'identità descritta nella prima parte del dialogo non costituisce per Platone
un dato di fat to, ma un obiettivo ideale. Infatti dalla parte finale del dia
logo, che segue la digressione etimologica scaturirà una se conda e ben
diversa teoria semantica. 4.2.7 La seconda teoria semantica In effetti,
l'analisi etimologica svolta da Socrate nella parte centrale del dialogo, e la
congiunta riflessione sull'ori gine del linguaggio, erano state intraprese per
dimostrare la sostanziale identità tra la struttura linguistica e quella anto
logica, in generale, e tra l'essenza dell'oggetto e la djnamis, in particolare.
Ma il risultato a cui esse approdano è esatta mente l'op,posto: il linguaggio
non rispecchia la struttura oggettiva del reale , ma piuttosto è espressione
dell'idea che del reale si è formato il nomoteta. Il significato, dunque, viene
a essere identificato con la rappresentazione del reale che si forma nel
soggetto (Di Ce sare 1981 : 131), rappresentazione che è il risultato delle
opi nioni, sensazioni, impressioni che vengono esercitate sul soggetto dagli
oggetti della realtà. Pagliara (1956 a: 73) ave va del resto individuato
questo passaggio da una prima a una seconda teoria semantica come analisi di
due aspetti di stinti del fatto linguistico: (i) il rapporto tra il
significante e l'oggetto, nella prima parte del dialogo; (ii) il rapporto tra
il significante e il significato, nella seconda. In base alla seconda teoria,
il triangolo che illustra i rap porti tra nome, significato e cosa dovrebbe
avere una parti colare struttura (cfr. p. 96). Il linguaggio, dunque, non rispecchia
il mondo delleidee, cioè l'essenza delle cose, ma piuttosto il mondo empirico:
esso costituisce una realtà storica, che contiene la visione del mondo che
avevano i primi nomoteti, quando tentarono di dare un ordine al reale,
classificandolo e categorizzando lo, proprio servendosi dei nomi come
"strumenti sceverati vi". Ciò non esclude, tuttavia, che si potrebbe
arrivare a un adeguato rispecchiamento della realtà mediante il linguag-
96 4. PLATONE rappresentazione soggettiva = significato nome gio, qualora si
raggiungesse una completa conoscenza delle cose. Di particolare interesse
risulta poi il fatto che è prevista una precisa funzione mediatrice dell'anima,
grazie alla qua le la teoria platonica si avvicina a quelle moderne, in cui il
linguaggio viene riconosciuto come fatto psichico. Platone raccoglie qui
l'eredità dei sofisti, che unici tra i filosofi pre cedenti avevano insistito
sulla dimensione psichica del lin guaggio, in contrapposizione a quanti
prevedevano la possi bilità per il reale di essere rispecchiato nel linguaggio
in ma niera diretta e senza mediazione. 4.2.8 La mimesi La prima parte del
dialogo era stata dedicata alla confu tazione della teoria convenzionalista.
L'ultima parte è inve ce dedicata alla confutazione della teoria del
rispecchiamen to sostenuta da Cratilo. Già la sezione centrale, dedicata al
l'etimologia, ha portato alla conclusione che il linguaggio costituisce una
rappresentazione soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice la tesi di
Cratilo. Tuttavia Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la tesi di
quest'ultimo, solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria mente
una definizione del nome come "imitazione con voce cosa
4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui che imita nomina
con la voce ciò che imita" (423 b-e). Quel che è interessante è che anche
l'imitazione sembra avere, in linea generale, un carattere semiotico: infatti
l'imi tazione "svela" (dloi) l'essenza della cosa. Ma quello di
imitazione non è un concetto pacifico e So crate lo indaga in tre diversi
ambiti: (i) nel ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel caso del
rispecchiamento "metafisi ca". Esaminiamo il primo caso. Tanto il
ritratto quanto il nome possono essere messi a confronto con l'oggetto che
imitano. Per Socrate si verifica allora il fenomeno per cui certi elementi
presenti nell'origi nale possono risultare trascurati, come pure elementi
assen ti possono risultare aggiunti. La copia ha dunque un carat tere di
iconicità, ma presenta variazioni all'interno di un continuum. Questo, per
Socrate, è lo stesso fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale a
sottolineare il loro carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione,
in quanto pensa che i nomi debbano avere un carattere di so miglianza
assoluta, in mancanza della quale non sono affat to tali. Ecco in schema le
due posizioni: Socrate Cratilo rapporto
..nome/oggetto• iconico icon ico carattere della mimesi continuo discreto
A questo punto Socrate introduce l'argomento del dop pio: se nella
mimesi tutti i caratteri deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbe
una imitazione, ma una occor- 98 4. PLATONE renza identica dello stesso
oggetto. Non si sarebbe dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione,
ma di un vero e proprio doppio, in una situazione in cui è impossibile
stabilire quale è il rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole,
il nome possiede un carattere segnico pro prio in virtù di questa sua
dissimiglianza rispetto all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, che
abbiamo definito come "ri specchiamento metafisico", pone in primo
piano il tema dell'imitazione che il singolo suono compie di un singolo
frammento della struttura del reale. La parola sklrots, che significa
"durezza",ontrariamente a quanto ci aspette remmo se i suoni
rispecchiassero in tutto le essenze delle co se, contiene al suo interno un
/ambda ( I I I ), che esprime "mollezza" e "scivolosità".
Dunque la parola imita la "du rezza" solo in parte, mentre in parte
se ne discosta. Con ul teriori esempi, poi, Socrate mira a negare anche
un'altra ipotesi, più fondamentale filosoficamente: quella secondo cui nel
linguaggio venga rispecchiata la veduta eraclitea del la realtà come eterno
flusso e movimento (41 1 c; 436 e); ciò infatti non si verifica perché, come
sottolinea Socrate, nel linguaggio molte voci lessicali presentano la realtà
come perfettamente immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la convenzione Dalle critiche
che Socrate muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce una proposta positiva.
Avendo infatti osservato che il nome sklrots (''durezza") è inesatto, in
quanto con tiene nel suo significante elementi che non corrispondono alla
qualità della cosa designata, Socrate osserva anche che, nonostante ciò, esso
adempie perfettamente alla sua funzio ne comunicativa: infatti i Greci si
intendono quando tale nome viene usato. La responsabilità di questa
comprensione è attribuita da Socrate ai due fenomeni dell'uso (éthos) e della
convenzio ne (xynthk): questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto
tra i due utenti del nome, ma si rintracciano 4.3 TEORIA LINGUISTICA
DELL'«EPISTOLA Vll» 99 anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto,
cioè al livello denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no me sia
"rivelazione" (d/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, ma
viene solo spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto di
somiglianza tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b).
Platone, tuttavia, non sostituisce semplicemente una con cezione
convenzionalista a una in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui la
situazione ideale rimane quella in cui i nomi sono immagini che riproducono
l'essenza degli og getti nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturale
che rendono necessario il ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto il
punto in cui i commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismo
di Ermogene e il na turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deve
rilevare anche uno spo stamento nella funzione assegnata al segno linguistico:
c'è una accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quella
cognitiva. Il linguaggio non è uno strumento abba stanza valido per la
conoscenza della realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrere
una via più diretta: quel la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso però
si configura come un ottimo strumento per il buono svolgersi della co
municazione interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"Epistola
VII" Un'interessante trattazione degli elementi coinvolti in una teoria
del significato la si può trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito a
Platone, ma la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio (Edelstein
1966). A molti è sem brato che essa non contenesse niente di veramente non pla
tonico, e a ogni modo presenta un interesse intrinseco che induce a farne
oggetto di un'analisi particolare. Nella sua parte centrale, la lettera
contiene un passo teo rico (342 a - 344 d), in cui vengono indagati gli
elementi che permettono di raggiungere e trasmettere la conoscenza. Si tratta
anche, allo stesso tempo, di elementi che intervengo- 100 4. PLATONE no
nel processo di semiosi. Il primo di questi è il nome (onoma); il secondo la
definizione (/ogos); il terzo l'imma gine (efdo/on); il quarto la conoscenza
(epistm); il quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale
(althos 6n) (342 a-b). Questi elementi , secondo P interpretazione di Morrow
(1935: 68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una parte
si possono collocare i fattori che costi tuiscono gli strumenti di conoscenza:
i nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizione
diame trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra gli
strumenti e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist mt, che Morrow
interpreta come "apprensione soggettiva", e che è ulteriormente
suddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta opinione (a/ths
doxa), conoscenza (epistm) (ritorna curiosamente come nome di una specie,
quello che è il nome dell'intero genere) e ragione o intuizio ne (noas), del
quale ultimo Platone precisa che è il più vici no al quinto fattore. Nella
lettera si dice che questi tre elementi, che compon gono complessivamente
l'epistémt e che devono essere con siderati come un unico grado, non risiedono
"né nelle voci, né nelle figure corporee, ma nelle anime (en
psychais)", fat to che, come Platone sottolinea, li distingue sia
dall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il richiamo ali'ani ma,
che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato all'anima nella
seconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare questa nozione di
epistm alla nozione di si gnificato; fatto che del resto può venir confermato
se leg giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so prattutto
aristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà en tii
psychr) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque elementi sul
triangolo se miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto l'interesse del
passo è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli strumenti di
conoscenza. E, per suggeri re come si può ovviare a questo inconveniente,
Platone ela bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di Peirce della
semiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola at- 4.3 TEORIA
LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione soggettiva ( epistml)
3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l intuizione (noùs) l
conoscenza (epistmlJ} l retta opinione (allfths d6xa) 6. oggetto conoscibile
(gnst6n) e veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempio
stesso che fa da filo conduttore al discor so platonico. Si tratta
deli'esempio del "cerchio", non a caso di carat tere matematico. Non
è difficile per Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio l
non è un oggetto del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, ma
è un'entità di altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando
attraverso l'intera serie dei gradi preliminari e, so prattutto attraverso un
processo di continua sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo
continuamente fra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si
può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la cono scenza"
(343 e). Ciascun elemento, di per sé incompleto (co me lo sono gli
interpretanti di Peirce), contribuisce al rag giungimento della conoscenza se
inserito in questo processo instancabile di sostituzione e di confronto. Questo
processo di continua sostituzione permette di ovviare all'imperfezio ne degli
strumenti. 102 4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione del
nome è dovuto al fatto che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio sto
ricamente dato esso non è l'immagine della cosa che nomi na, ma è legato alla
convenzione. Questo, secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, in
quanto potremmo dell usare l'espressione l linea retta l per riferirei alle
cose circo lari e l'espressione l cerchio l per designare la linea retta,
senza provocare cambiamenti nelle cose stesse (343 a-b). Si può ricorrere
allora alla definizione del cerchio come "quella figura che ha tutti i
punti distanti dal centro" (342 b); ma anch'essa, per quanto aggiunga
qualcosa, risulta composta di nomi e di verbi e dunque presenta difetti ana
loghi a quelli incontrati a proposito dei nomi. Tra l'altro, sottolineare che
la definizione è "formata di nomi e di ver bi" significa accentuarne
il carattere di significante, piutto sto che quello di significato. Essa è
semplicemente un'altra espressione, che può essere sostituita, nel processo
conosci tivo e/o semiosico, al nome. Del resto, alla possibilità di una
sostituzione tra nomi, Platone aveva già accennato, presupponendo
l'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo l (strongylon), l
circolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene aggiunto dal terzo
livello, quello rappresentato dagli eldola ("immagini"). Qui il
cerchio è conosciuto come "quello che si disegna e si cancella, che si
costruisce al tornio e che perisce" (242 c). Si tratta della so
stituzione di un interpretante iconico ai precedenti interpre tanti verbali:
per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono necessarie solo le spiegazioni
verbali, ma anche le illustra zioni e le astensioni. Anche a questo livello la
conoscenza presenta un carattere incerto, in quanto incontra oggetti in cui
l'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla qualità (tò poi6n 11), cioè da
proprietà accidentali e contrarie, talvolta, alla vera natura del suo referente
metafisica: infatti per ogni punto del cerchio può essere costruita una
tangente (343 a), tale che, isolando quel brevissimo tratto, non si saprebbe se
esso fa parte di un cerchio o di una retta (Taylor 1912: 361). Il passo teorico
deli'Epistola VIl si chiude ritornando su un concetto assai vicino a quello
della semiosi illimitata, an che se ovviamente modulata in chiave platonica:
"mentre 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascun
elemento (nomi , definizioni , immagini visive e per cezioni), in dispute
benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri,
avviene che l'intuizione e l'intellezione di ciascuno brillino a chi compie
tutti gli sforzi che può fare un uomo" (344 b-e). La metafora dello "sfregamento",
con cui il passo si av via alla conclusione, è funzionale sia all'idea
epistemologica dell'improvviso accendersi e brillare deli'intuizione, sia an
che all'idea semiotica che il senso finale non lo si ottiene at traverso
l'immediata e semplicistica sostituzione di un signi ficante con un
significato, ma attraverso una strategia di mosse successive e ripetute, come
sono quelle appunto del processo di semiosi illimitata. LINGUAGGIO E SEGNI IN
ARISTOTELE 5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia
del se gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du revolezza.
Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica
che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche
professio nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con
getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o
pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz zato per tutto il V secolo
termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici,
nella storiogra fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle
esi genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini
e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza
(1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in
quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro se e
rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e
della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del la Retorica e in generale nelle
opere che trattano di argo mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond
(1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico semiotico
gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie gati senza speciali
sfumature di significato. Ciò non con traddice, tuttavia, il fatto che la
revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e
abbia inau- 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solida
tradizione, che continuerà nella trattati stica successiva, fin nella retorica
romana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si
limite ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma
entreranno anche nel vivo delle concezioni pro fonde coinvolte dal sapere
congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale
tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico
della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del
futuro era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in
entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega
alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella
classificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele
individua in primo luogo due ca tegorie di destinatari dei discorsi: colui che
osserva (theo ros) e colui che decide (krits). Il primo agisce nella dimen
sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di scorso
epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi re nelle altre due
dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice
(dikasts) decide sul passa to; il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul
futuro.2 Co me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio ne è
totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento
aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con
le tre dimensioni del tem po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate
agli am biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria
del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo
fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che
riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della
teoria del linguag- }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della
teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto
rilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato
per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se gni":
anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono
stati pochi coloro che sono arri vati ali'eccesso di pensare che essi
potessero fornire il mo dello anche per gli altri tipi di segno. In
Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio
ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno
vengono denomi nati smeia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del
segno propriamen te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un
in teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del
problema delle modalità di acquisizione della co noscenza, mentre il simbolo
linguistico è connesso princi palmente al problema dei rapporti che si
instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli
stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo ria
del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche ma a tre termini: i
suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le
quali, a loro volta, sono le im magini degli oggetti esterni: Ordunque, i
suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che
hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte
(graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le
lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me desimi;
tuttavia, suoni e lettere risultano segni (smela), anzi tutto, delle affezioni
dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini
(homoi6mata) di oggetti (pragma ta), già identici per tutti. (Arist., De int.,
16 a, 3-8) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter mine
smeia come apparente sinonimo di sjmbola non si gnifica affatto che le due
espressioni siano intercambiabili: 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO
107 in realtà in questo passo Aristotele usa il termine smefon in un'accezione
debole, che ci conferma appunto la tenden za a un uso sfumato delle espressioni
del lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione del sistema
di demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa smeia per dire
che l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio
deli'esistenza parallela di affezio ni dell'anima. A ogni modo, è possibile
costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo
tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri
(nomat8) rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( sn ti phntl
(prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il
rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati
d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo
sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi
in maniera diversa a se conda delle varie lingue e culture, esattamente come
avvie ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og getti
c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i
primi sono le immagini dei secondi. Bi sogna precisare che sarebbe scorretto
identificare in manie ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi
del lin guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà
108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da
Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra
due en tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si
gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin guistica. In
Aristotele troviamo invece un rapporto conven zionale tra elementi del
linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non
appartengono al lin guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre
ri levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce
nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma
continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale
la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in
parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della
voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen ta
aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che
cosa intende Aristotele con l'espressio ne tà en tii phonii? A questa domanda
vi sono risposte di verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che
Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu re dà
al termine "significante" quando spiega la natura del segno
linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii
doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres sioni
linguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no ma (nome), rhima
(verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis
(negazione); le ra gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi
elemen ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven gono
definiti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr. , 16 a, 25; 24
b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni
della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara mente la veste fonica e
il carattere di "significante". Tutta- 5.1 TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui
Aristote le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem bra
diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare
le possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà.
Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca bilità tra i due
ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità
del linguaggio nei confron ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto
il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul
vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici
perseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al
vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari
stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri to (D-K, 68, B 5,
1). Le ragioni che permettono la specializ zazione di questo termine nel senso
di indicare le espressio ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua
etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna
delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una
medaglia, una moneta) in ma niera intenzionale, affinché possano servire, in
un momen to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una
certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat to che le due metà
riescano a combaciare perfettamente vie ne a indicare la presenza di un
rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di
amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla
congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una
situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra,
senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna
parte pre suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri
spondenza, l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si gnificato di
"ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel
contesto della teoria linguistica aristote lica la parola sjmbolon
all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a
indagare su una possibile 1 10 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE
specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca so del segno,
i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono
sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che
necessaria mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i
due termini sono perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal
III secolo a.C. al III d.C. sia attestato anche nel senso di
"ricevuta", talvolta redatta in duplice copia: le due parti hanno,
per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente neli'uso
che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De
interpreta/ione: i nomi ono simboli degli stati d'animo nel preciso senso che
si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro e
una perfetta intercam biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso
(Be lardi 1975: 199). In quanto sjmbolon, il nome non è più dloma
("rivela zione"), come lo era per Platone: in Aristotele il nome è
"suono della voce significativo per convenzione" (phon s mantik katà
synthkn) (De int., 16 a, 19). Questo marca il passaggio da una linguistica che
conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che
non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per
Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano"
qualcosa di non percepibile (l'essenza del l'oggetto o la djnamis), per
Aristotele esse sono simboli che stabiliscono convenzionalmente una pura
relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio ne
che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3 Il linguaggio degli
animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet te di
distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali,7
questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii) interpretabili.
Già la nozione di "voce" (phon) presenta alcune interes- 5. 1
TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi particolarità. Nel De anima si
dice che un suono può essere definito una "voce" quando: (i) sia
emesso da un es sere animato (II, 420 b, 5); (ii) sia dotato di significato (s
mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani mali, per quanto
definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta via le due precedenti
caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci emesse dagli uomini sono due
fattori: (i) non sono convenzionali (e di conseguenza non possono essere né
simboli né nomi), ma sono "per na tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii)
sono agrammatoi, cioè "inarticolabili" o "non combinabili"
(ibidem, e Pot., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del
resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del
carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici
(adiafretoi, "invisibili") possono articolarsi in uni tà più grandi
dotate di significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili,
ma non combinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare
riassuntivamente i caratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai
suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano -
per convenzione - elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili -
lettere - elementi dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali
- per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi
che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare,
tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal
verbo dlofìsi (''rivela no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma
l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel
caso del linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri mo piano il carattere
semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la
loro causa. 1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le
"affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico della
significa zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di pathmata en
tii psychi. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di
"significato", troviamo invece un'entità psichi ca, qualcosa che non
è posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti del
linguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, pur
configu randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si tratta
piuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so no identici per tutti,
fatto che connette la teoria del lin guaggio con una sorta di psicologia
sociale, se non addirit tura universale, piuttosto che individuale (Todorov
1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi guità che
si trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. Infatti
Aristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata)
degli oggetti esterni: con ciò in tende che tra gli oggetti e le entità
psichiche c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia.
Tuttavia, poi, per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti,
l'espressione noma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma,
in questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot to certe condizioni,
possono essere veri o falsi. Da ciò con segue che i nomata vengono concepiti
come forme di giu dizio . Si tratta di due nozioni completamente diverse, e il
fatto che venissero entrambe messe in rapporto con le medesime espressioni
linguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si nonimico, che risultava
aporetico. In realtà, come ha messo in evidenza Belardi (1975: 109), nessuna
delle due nozioni esaurisce da sola il livello della rappresentazione psichica,
ma esse rimandano a due facoltà differenti dell'anima: i pathtnata rimandano a
una facoltà passiva dell'anima, quella di subire impressioni dagli oggetti del
mondo ester no; i nomata rimandano a una facoltà attiva, quella di ela borare
giudizi. Questa relazione è del resto confermata dal 5.l TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 113 rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nel
quale non vengono discussi solo i pathimata, ma anche le altre fa coltà. 5.1.5
Semantico e apofantico Non si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se,
di necessità, breve) a una distinzione che si affaccia, nel pensiero
linguistico di Aristotele, tra la categoria del "se mantico" e
quella dell'"apofantico". Nel De interpretatione (16 a, 9 e sgg.)
viene aperta la problematica circa la diffe renza tra phasis (il semplice
"detto") e kataphasis (!'"affer mazione"). I nomi (ma così
anche i verbi) in sé costituisco no un "detto", ma non possono da
soli costituire un'affer mazione o una negazione. Correlatamente, vengono
distin ti due tipi di rappresentazioni mentali (noimata): l . quella "che
prescinde dal vero e dal falso"; 2. quella "cui spetta
necessariamente o di essere vera o di essere falsa". Ciò che in realtà
viene a essere contrapposto è la nozione di significato rispetto a quella di
condizioni di verità. Al primo tipo di rappresentazione, infatti, corrispondo
no i nomi (e anche i verbi) presi da soli, i quali possono avere un
significato, ma non hanno condizioni di verità. Ciò è provato da Aristotele
mediante la scelta di un caso particolare: il termine "ircocervo"
(traghélaphos). Esso "si gnifica bensì qualcosa" (cioè una
commistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma non può essere detto vero
o falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce qui Aristotele indivi dua
appunto la dimensione della semanticità pura, regolata da leggi diverse da
quelle della referenzialità. Al secondo tipo corrispondono, invece, quelle
entità che hanno la dimensione linguistica della proposizione: è quan do si
passa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile parlare di
verità o di falsità. È solo in questo caso che diviene possibile parlare di
apofanticità come dimensio ne aggiuntiva (non contrappositiva) rispetto a
quella se mantica. Ma qual è il mezzo specifico per passare dalla
dimensio- 1 14 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne semplicemente
semantica a quella apofantica? Non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del
verbo come predi cato. Del verbo Aristotele valorizza essenzialmente la fun
zione predicativa, quando, parlando del giudizio, riduce il verbo a !copula +
predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli infatti, "tra
dire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De int. , 21 b, 9-10).
In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto in funzione
predicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il verbo possa
esplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a qualcos'altro
(cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio ne predicativa non
può dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16 b, 19-25).
L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi stenza di una certa
cosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il ricorso
all'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è capace
di affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25): "Pertanto,
quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è segno
dell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola ta del verbo non
è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il verbo possa
avere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri termini
dell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere l è
indizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale di
un predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx èl
, nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1 La
definizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag gio, in
Aristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica e
retorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nella
Retorica. 5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione di
segno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesse
epistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento di
conoscenza, che deve servire a condurre l'at tenzione dei soggetti conoscenti
a operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969:
91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di un
meccanismo formale che presiede al suo fun zionamento. La definizione generale
del segno (smeion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passo
esistono di verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); ma
quella che sembra individuare nel modo più soddisfa cente il significato del
passo è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppure
quando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente,
queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura che
abbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificità
deIl'interpretazione di Pre ti, che restituisce al passo aristotelico tutta la
sua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriori
sviluppi, a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metteranno
in luce. Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta zioni del
passo concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevede
l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'a
poco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione,
questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovato
operante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, e
particolarmente in questa defini zione, il segno coincide con uno dei termini
dell'implicazio ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida in
particolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizione
aristotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questa
definizione, che viene a configurare il rap porto segnico come "Se q,
allora p", comporta, ai fini della 116 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN
ARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver sione da
"p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto che
conferisce alla nozione di se gno il carattere di problematicità e che conduce
all'instau razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuole
filosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa ranno esplicitamente
riferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsi
an che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, di
un'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio,
l'implicazione materiale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione
aristotelica venga richiesta la con dizione "Se non-q, non-p"
("q, o non-p"), cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta
che verrà dagli stoici consi derata necessaria per la validità del segno. Al
di là di questo si deve anche notare che nella defini zione (e in genere
nell'intera trattazione) del segno condot ta da Aristotele è riscontrabile
un'ambiguità di fondo nel modo di concepire i due termini del rapporto
implicativo. Per un verso, infatti, essi costituiscono dei fatti (o delle
proprietà) (e non a caso una parola centrale della definizio ne è tò pragma
"il fatto"). Aristotele del resto dà esempi di questo genere:
"il mostrare che una certa donna è gravida attraverso il fatto che essa ha
il latte"; il segno è "l'aver lat te", che appare appunto
essere l'espressione di un fatto o di una proprietà. Per un altro verso il
segno è concepito come una proposi zione, in quanto un segno può costituire la
premessa da cui si sviluppa un sillogismo: "Un segno, invece, vuole essere
una premessa dimostrativa, o necessaria o fondata sulla opinione" (An.
Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, la definizione di segno come proposizione, che
può costituire una premes sa in un ragionamento infcrenziale, è abbastanza
centrale in Aristotele. Infatti il ruolo fondamentale che egli attribui sce al
smefon è proprio quello di essere uno degli elementi che forniscono premesse a
quel particolare tipo di siilogi smo che è I'entimema. 5.2 LA TEORIA DEL
SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segni Nella nozione di entimema coesistono due
aspetti com plementari, che la tradizione successiva svilupperà talvolta
separatamente. Da una parte l'entimema può essere consi derato un sillogismo
tronco, in cui una delle premesse è mancante, perché ritenuta nota o ovvia.9
DalPaltra, l'enti mema viene considerato un sillogismo che tende alla per
suasione, e non alla dimostrazione; in quanto tale non è ne cessario che le
sue premesse siano vere, ma soltanto che sia no probabili (hos epì tò poly).
Aristotele sviluppa esplicita mente il secondo aspetto delle definizioni
parallele dei Pri mi analitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica (1, 1357 a,
30- 32) . Dunque il segno trova la sua principale applicazione nel l'ambito
del discorso persuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di proposizione,
entra nel meccanismo dell'en timema e vi svolge il ruolo di
"protasi", di premessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima
distinzione tra la no zione di smeion e quella di eikos "verosimile"
o "probabi le"), pur imparentate per il fatto di poter figurare
entrambe come premesse negli entimemi. Ciò che contraddistingue la nozione di
eikos è essenzial mente il suo carattere probabilistico, che lo lega irrevoca
bilmente all'opinione, rimuovendolo in una zona del sapere piuttosto insicura,
lontano dalla possibilità di una dimo strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenza
dal conseguente Per quello che riguarda la nozione di segno, la situazione è
diversa e senz'altro molto più complessa. In effetti il s meion non costituisce
una categoria semplice, bensì una classe composita che prevede al suo interno
tipi con carat teristiche molto differenziate tra loro. Ma, prima di porre
l'accento sulle differenze interne, è forse possibile osservare che qualcosa
unisce i vari tipi di segni rispetto alla nozione di eikos: invece che sulla
probabilità, nel caso del segno 118 5. LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELE
l'attenzione è concentrata sul carattere di "consequenziali tà". Il
ragionamento inferenziale, basato sui segni, procede tipicamente ek ton
hepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè a inferire la causa
dall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia applicazioni corrette sia
applicazioni inganne voli. ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b,
1-5) che Aristotele sviluppa chiaramente la teoria del ragiona mento per
conseguenze: quest'ultimo porta a conclusioni ingannevoli come, a esempio, nel
caso in cui qualcuno, avendo osservato una volta che la terra è bagnata dopo la
pioggia, volesse concludere in generale che, se la terra è ba gnata, allora è
piovuto. Un secondo esempio di ragiona mento per conseguenze dato da
Aristotele concerne le pro prietà, anziché gli eventi, come avveniva in quello
prece dente: se qualcuno, avesse sperimentato che il miele ha la proprietà di
essere giallo e volesse conciudere che qualcosa è miele partendo dalla
proprietà che ha il colore giallo, cor rerebbe il rischio di scambiare per
miele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In tale contesto Aristotele giunge a
identificare de cisamente questo tipo di inferenza con quello specifico del
segno: "Nei discorsi retorici, del pari, le dimostrazioni trat te da
segni si fondano sulle conseguenze" (ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a
questo punto tornare agli Analitici e com prendere meglio perché Aristotele
proceda innanzitutto alla distinzione fondamentale tra due tipi di segni: il
tekmrion, segno "necessario" o "inconfutabile",10 e il
generico s meion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima
distinzione (che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità,
poiché vi sono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati vo
di Aristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppo
possibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può
utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni
possibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avere inferenze
che partono da un segno sulla prima, sulla secon da o sulla terza
figura. 5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . l
Il tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrare
nei dettagli tecnici di questa distin zione, vale la pena di rilevare
preliminarmente che ben di verso è il valore epistemologico che Aristotele
attribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè il
tekmrion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza figura,
cioè i generici smefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipica
illusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav viene di
credere che ci sia possibilità di conversione tra ra gione e conseguenza,
senza che questo sia di fatto giustifi cato: dunque, in questi casi,
l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura.
Nel primo caso, invece, cioè con il tekmrion, si ha un ti po di inferenza che
parte anch'essa dalle conseguenze, co me dimostra l'esempio "se una donna
ha latte, allora essa è gravida", in quanto l'"avere latte"
costituisce sia una con seguenza dell'essere gravida, sia un segno di tale
fatto; tut tavia, al contrario che nei casi precedenti, sembra esserci
possibilità di conversione tra causa ed effetto; o, come sug gerivano le
osservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra essere previsto da
Aristotele, in questo caso, un ti po di implicazione più stretta che non
l'implicazione mate riale. Possiamo vedere ora come Aristotele sviluppa
l'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima fi gura:
Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha latte, si
fonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat te. Poniamo che A
indichi "esser gravida", che B indichi "aver latte", che C
indichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11 120 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel comune schema
illustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha latte" c
"donna" c "donna" In questo esempio il segno "avere
nello schema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio dal punto
di vista esten sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente fi
gura per illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere gravida l
. A "essere gravida" 2. 8 "avere latte" si predica di si
predica di 3. A sipredicadi "essere gravida" latte" non solo è
medio lo abbiamo riportato, 5.3 n MECCANISMO LOGICO 121 5.3.2 La
seconda e la terza figura del sillogismo e i "semeia" Nella seconda e
nella terza figura il termine medio è il le game che consente Pinferenza, ma
non occupa, né nella formula né estensionalmente, la posizione centrale. Questo
fa sì che l'etichetta di "maggiore" e "minore" sia
"arbitra ria nella seconda o nella terza figura, a qualunque dei due
termini si voglia dare il nome di maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it.
1973, 123). Del resto è indubbio che il punto di vista adottato da Aristotele
nella trattazione che egli fa delle premesse sia quello estensionale. Legata a
questo punto di vista è di cer to la svalutazione della seconda e della terza
figura. Passiamo ora ad analizzare il tipo di segno che si svilup pa in un
sillogismo basato sulla seconda figura: "Se una donna è pallida, allora
essa è gravida". Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presunta
prova che una donna risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppa
attraverso la seconda figura. In realtà, dato che il pallore è una
determinazione conseguente delle donne gravide, e che tale determinazione
appartiene altre si a una certa donna, si crede allora provato che questa
donna sia gravida. Indichiamo con A "la nozione di pallore", con B
"l'essere gravida" e con C "donna". (An. Pr., Il, 70 a,
20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza di questo
sillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A "essere
pallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8 "chi è
gravida" C "questa donna" C "essere gravida" "questa
donna" 122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE In questo caso il
segno "essere pallida", che è anche il medio, ha la posizione di un
estremo e si predica contem poraneamente dei due termini "essere
gravida" e di "donna". 12 Aristotele condanna questa inferenza
come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo qui di fronte al ca so
più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze. Una conferma di questa
condanna la si trova anche nel pas so corrispondente della Retorica (1, 1357
b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che ha la febbre".
Anche que sto esempio di segno dà origine a un sillogismo sulla secon da
figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha la posizione
dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini "avere la
febbre" e "uomo". Nella definizione di questo tipo di segno data
nella Reto rica vengono aggiunte due particolarità interessanti rispetto a
quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che il se gno è confutabile
anche se esso risultasse vero (kàn althès i1): viene dunque prevista la
possibilità di costruire un'infe renza che risulti conforme alla verità, anche
se questo è so lo un caso, si direbbe, accidentale; ciò deriva dal fatto che
il sillogismo èformalmente scorretto, ma ci sono casi in cui esso porta,
nonostante tutto, a conclusioni materialmente vere (Plebe 1966); (ii) la
seconda particolarità consiste nel l'accennare al fatto che questo tipo di
segno instaura una relazione "dall'universale al particolare": ciò è
probabil- mente da mettersi in relazione al fatto che è proprio il ter mine
estensionalmente maggiore a svolgere la funzione di medio, e che si predica
prima di una classe, poi di un indi viduo . Vediamo ora un segno dal quale si
sviluppa un sillogismo basato sulla terza figura. Ecco la definizione che ne
viene data negli Analitici: D'altro canto la presunta prova che i sapienti sono
eccellenti - poiché Pittaco è eccellente - si costruisce attraverso l'ultima fi
gura. Poniamo che A indichi "la nozione di eccellente", che B indichi
"i sapienti", che C indichi "Pittaco". Risponde in tal ca
so a verità il predicare di C tanto A quanto B; senonché la pre- 5.3 IL
MECCANISMO LOGICO 123 messa BC non viene enunciata, perché risaputa, mentre
Paltra è assunta espressamente. (An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, più
precisamente, è la protasi del condizionale "Se Pittaco è eccellente, i
sapienti sono eccellenti " . Su di es so si sviluppa un sillogismo che
può essere rappresentato dalla formula: l . 2. 3. A si predica di "essere
eccellente" c "Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi è
sapiente" 8 "essere sapiente" si predica di A si predica di
"essere eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco",
che ha la posizione del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismo
costruito su questo tipo di segno vie ne condannato in quanto confutabile
(/jsimos). Del resto Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (come
quello in seconda figura) anche nell'evenienza in cui esso conduca a una
conclusione accidentalmente vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica
(I, 1357 b, 10-11), viene precisato che esso instaura un rapporto che va
"dal partico lare all'universale"; anche in questo caso è la
posizione del medio, che qui è il termine estensionalmente minore, a sug
gerire questa determinazione ad Aristotele; in effetti si par te dalla
proprietà di un individuo particolare per conclude re che tale proprietà
appartiene a un'intera classe di cui l'individuo fa parte. 5.3.3 La
classificazione Una volta stabilita una distinzione fra i tre tipi di segno
sulla base della posizione che prende il medio in ciascuna 124 5.
LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure, Aristotele procede a una
ricapitolazione gene rale, dove consolida le distinzioni terminologiche e
ribadi sce la diversità della potenza conoscitiva in relazione a cia scun
tipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro", "prova") viene
riservato a quei segni che prendono realmente la posi zione del termine
intermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di vista
estensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura); invece il
nome generico s meion viene lasciato a quei segni che all'intero sillogismo
hanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup pano delle
inferenze in seconda e terza figura) (An. Pr. , Il, 70b, 1-6). Rispetto a
quanto abbiamo già detto, è necessario ag giungere una precisazione sulla
nozione di éndoxon, che ca ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato
sul· tekmi rion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia
lettici che danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da
premesse che sono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni
che sono "condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da
tutti, dai più o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono
queste, del resto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente
una tesi (Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analoga
classificazione che distingue tra il segno necessario (anan kaion),
corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces sario m anankaion),
corrispondente al generico s meion, 3 e ulteriormente suddivisi in "segno
che si trova in rapporto dali'universale al particolare" (da mettersi in
rela zione ai segni in seconda figura del sillogismo) e "segno che si
trova nel rapporto del particolare ali'universale" (da met tersi in
relazione ai segni in terza figura). La classificazione aristotelica può allora
essere disposta sullo schema della pagina seguente: premesse da cui
derivano gli entimemi / eik6s smelon (segno) ("probabile",
"verisimile") - è tmdoxon ("fondato sulla opinione") es.:
"è amato -ama" ·è invidioso -detesta• m'S snsnkslon ("'non
necessario") - è éndoxon ("fondato sulla opinione") snsnkslon
(..necessario") tekm"érion ("prova") - è IJ/yton
(..inconfutabile·) - è il medio di un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha
latte-è gravide" "ha la febbre -è malata" t6 ksth '
kéksston pr6s t6 ksth61on ("dal particolare all'universale") rl)
ksth6/on pr6s rl) kstll méros ( ·dall'universale al particolare") - è
lyron (..confutabile") - è medio in un sillogismo - è lyton
(..confutabile") - è medio in un sillogismo in 3• figura es.:
"Pittacco è giusto-i sapienti sono giusti" in 2• figura es.:
..respira rapidamente-ha la febbre" "è pallida -è gravido"
126 5 . LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un sistema particolare di segni
non linguisti ci: la fisiognomica La particolare concezione che Aristotele ha
del segno, come cosa o fatto che serve a condurre l'attenzione del sog getto
conoscente su un'altra cosa o fatto, permette di por tare in primo piano un
tipo di conoscenza che si ottiene in modo indipendente dal linguaggio verbale.
Ciò conduce a un'evidente valorizzazione dei sistemi di segni non lingui stici
. Aristotele, infatti, nei Primi analitici, dopo aver esposto la teoria del
segno, propone un'interessante, quanto curio sa applicazione a un tipo di
segni molto speciali: quelli del la fisiognomica. Neli'esempio dato si tratta
di risalire da un segno visivo a un tratto del carattere: le grandi estremità
del leone vengo no assunte come segno del suo coraggio. Tutto l'interesse di
Aristotele è concentrato su due punti: da una parte egli tende ad acquisire una
conoscenza circa l'ordine psichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i
sensi; dall'altra tende a stabilire il legame più stretto pos sibile tra due
fatti che l'esperienza gli mostra associati (in questo caso: grandi estremità e
coraggio), come presuppo sto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per
dare validi tà al suo esempio di fisiognomica Aristotele propone di fa re tre
assunzioni: 1 4 (i) che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente
il corpo e l'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioè
dell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbia
un'affezio ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si può
osservare, Aristotele, con queste assunzio ni, tenta di razionalizzare e di
dare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui non
c'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto per
cepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or dine
dell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destino
legato a quel carattere). Per Aristo tele vi può essere corrispondenza fra un
tratto fisico e un 5.4 LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché
qualsiasi affezione trasforma con temporaneamente corpo e anima, proprio come
avviene nel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solo
nell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi bilità interna. Ma
come avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischio
deli'ambiguità. È proprio per elimina re quest'ultima evenienza che Aristotele
propone le sue ul teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare in
due casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman dano a un'unica
affezione (fenomeno che potremmo avvi cinare alla sinonimia): l'unico rimedio
epistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè che
un unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbia
più affezioni, in maniera tale che si rimane in decisi su quale sia quella a
cui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): la
soluzione pro posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere qua
le sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera da
riferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente le
tre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomica
una scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi lire
che per il leone le grandi estremità sono il segno del co raggio (An. Pr., II,
70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che si
svolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire,
però, anche un altro versante dell'ar gomentazione che si colloca
geneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stata
posta. In effet ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che una
certa affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni;
contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso ciata la caratteristica di
are grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno del
coraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logico
che verrebbe qui a configurarsi segui rebbe lo schema: 128 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandi
estremità" 3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica di
si predica di si predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandi
estremità" Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir ce
costituirebbe una induzione, ma di un tipo talmente "ti mido da perdere
totalmente la caratteristica ampliativa pro pria dell'induzione genuina"
(1984: 210). Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele non
segue in effetti questo ragiona mento perché non riesce ad accettare come
valido dal pun to di vista logico un procedimento che risulta privo di ga
ranzie. Così è costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto mai
aleatorio segno del coraggio in uno schema an cora una volta deduttivo. In
altre parole, l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandi
estremità deve tra mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Ari
stotele è tutto rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questo
venga manifestato dalla presenza di gran di estremità, e viceversa. In termini
tecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottiene
quando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se gno e
ciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine è
esattamente uguale a quella del secon do. Da qui la necessità (puramente
logica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione:
solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questo
punto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio si
trasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il
"coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaiono
costantemente provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giusti
ficare l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie ne così
il segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo
(An. Pr., II, 70 a, 32-38): l . 5.5 SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A
si predica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi
estremità" B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi
estremità'' "leone" "essere coraggioso" "leone"
Ma ciò che Aristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i
dati di partenza della deduzione stes sa poggiano su una precedente inferenza
a carattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima
della presentazione dello schema formale, tutto il ragiona mento è rivolto a
stabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno di qualcos'altro.
Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo in seguito può essere
verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del sapere segnico In effetti la
diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenza che si può ricavare dai
segni è molto marcata. Infatti, nella concezione aristotelica, anche quando tra
i due termini del segno vi sia un legame necessario, la cono scenza del
termine non noto sembra imporcisi dall'esterno, senza che si riesca a
comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici (1, 75 a, 28-36) oppone
il ragionamento basato sull'essenza a quello basato sulsegno; quest'ultimo
infatti viene definito come ragionamento che si fonda sulle determinazioni
accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con il primo tipo è possibile
arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che la conoscenza attraverso
il segno sia totalmente esterio re. In certi casi, che sono quelli dei segni
necessari, il segno permette di risalire alla causa: così la constatazione del
fat to che una donna ha latte permette di risalire alla causa, cioè al suo
essere gravida, come pure l'accertamento della 130 5. LINGUAGGIO E SEGNI
IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalire allo stato di ma
lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamento non arriva a
forni re una vera e propria scienza dei fatti, in quanto quest'ulti ma si
ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento at traverso il segno parte
invece dall'effetto e permette soltan to l'affermazione del fatto, cioè dello
h6ti ("che"), senza condurre alla comprensione delle cause, cioè del
di6ti ("perché"). Nel capitolo 13 dei Secondi analitici Aristotele
insiste sul fatto che la dimostrazione veramente scientifica non consi ste
nella scoperta o nella conclusione della causa, ma essa è scientifica proprio
in quanto parte dalla causa; in quel con testo viene infatti fondata la
distinzione tra "il sapere che qualcosa è" e "il sapere perché
qualcosa è". In effetti alle scienze dello h6ti viene riconosciuto un cer
to diritto di esistenza; tuttavia esse vengono considerate in feriori in
quanto portano sui fatti, senza raggiungere la co noscenza del necessario e a
malapena quella dell'universale. Ma quali sono queste scienze dello hoti? Dagli
esempi che Aristotele fornisce si direbbe che si tratta eminentemente di
scienze indiziarie, basate sui segni e fornite di un carattere fortemente
ipotetico in contrapposizione ad altre che invece hanno carattere deduttivo.
Tra questi esempi Aristotele cita il caso dell'astronomia (astrologhfa), nome
condiviso sia da una certa scienza nau tica (nautik) sia da una scienza basata
su fondamenti ma tematici (mathmatik). Solo la seconda è scienza delle cau
se. Ugualmente Aristotele contrappone la medicina alla geometria: infatti, nel
caso delle ferite circolari, spetta al medico di sapere che esse guariscono più
lentamente, men tre spetta all'esperto di geometria conoscere il perché di
questo fatto. Dunque abbiamo medicina e scienza della navigazione contro
matematica e geometria: il senso della scelta aristo telica contro il segno
non potrebbe essere più chiaro. È interessante osservare come per Aristotele
sia possibile anche sviluppare un ragionamento dello hoti oppure uno del dioti
all'interno di una stessa scienza. La differenza che 5.5 SVALUTAZIONE DEL
SAPERE SEGNICO 131 contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa un
ragio namento dello h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa su
premesse immediate (che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere la
causa prima e prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse im
mediate, la deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto,
ma dal più noto di due termini, en trambi riferiti al fatto. In altre parole,
la differenza specifi ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dalla
causa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotele
fornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione tra
il non sfavilla re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mo
stra come attraverso questi due termini sia possibile svilup pare due tipi di
ragionamento di diverso valore epistemolo gico . Da una parte è infatti
possibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Se
non sfavillano, so no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamento
dello hoti e si può osservare che in questo contesto il "non
sfavillare" è tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusio
ne, cioè la loro "vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sul
segno non parte dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituita
dalla loro vi cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come ter
mine medio, per arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non venga
mai realmente conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamento
quello che deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si ha
in questo caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia,
dal momento che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto;
for malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termine
che indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'è
un rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in vertire i termini
del secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, come
precisa il com mentatore del testo aristotelico Filopono: 132 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta la
causa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quando
si dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co lorito
pallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna ha
partorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci varie
cause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9)
L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se gno (dal pallore al
parto) viene qui messa in risalto preve dendo il caso che un effetto possa
avere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potrà
essere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil logismo del
di6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effetto
potesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorso
di risalita dali'effet to alla causa. D'altra parte, però, secondo il
con1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè in
cui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibile
risalire dal fatto che una donna ha partorito (co me effetto e segno) al fatto
che essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria,
poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi lop., in
Ana/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica che
contraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistente
nel fatto che il primo è tipico del emplice osservatore dei feno meni, non
specialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An. Post. , I l ,
79 a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e il segno in
generale sono oggetto di una svalutazione epistemologi ca, in quanto nella sua
concezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio alla ricerca e
all'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione semiotica del sapere.
Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), per Ari stotele la
scienza "n'est elle pas principalement recherche, mais possession; les
Analytiques n'apportent guère d'indi cations sur la recherche: il décrivent la
science achevée, qui 5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133 descend des causes aux
effets et coincide absolument avec le dynamisme des choses - conception
singulièrement con fiante, on le voit, qui pose en principe la connaissance
par faite de la réalité". 5.6 Deduzione e abduzione Non si deve tuttavia
pensare che questa posizione teorica corrisponda esattamente alla pratica di
ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempio nelle opere scientifiche.
Né, d'altra parte, si deve accettare enza riserve l'asserzione ari stotelica
circa il carattere assolutamente deduttivo delle scienze del di6ti. Come ha
mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele trovare il perché di un certo fenomeno
significa trovare un buon termine medio che spieghi quel fenomeno: ma questo
termine medio può essere, in certi casi, anche molto ardito e sofisticato, e
non corrispondere a nessuna conoscenza già accertata. Esso può essere, cioè,
una "ipote si" nel senso peirceano. È illuminante, a questo riguardo
, il ragionamento svilup pato da Aristotele nel trattato Parti degli animali,
in cui, a proposito degli animali provvisti di corna, vengono regi strati
alcuni "fatti sorprendenti" bisognosi di spiegazione. A esempio: (i)
che tutti gli animali con le corna hanno una sola fila di denti, cioè mancano
degli incisivi superiori (663 b - 664 a); (ii) che tutti gli animali con le
corna hanno quat tro stomaci (674 a-b); (iii) che tutti gli animali con
quattro stomaci mancano degli incisivi superiori (674 a) ecc. Il problema che
ha di fronte Aristotele, in questo caso, è quello di spiegare la ragione per
cui, innanzitutto, agli ani mali con le corna mancano gli incisivi superiori.
Come sot tolinea Eco, Aristotele "deve porre una Regola tale che, se il
Risultato che vuole spiegare fosse un Caso di questa Re gola, tale Risultato
non sarebbe più sorprendente'' (1983: 239). E del resto, secondo Peirce, quando
una circostanza "strana" si spiega supponendo che essa sia il caso di
una certa regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesi o abdu zione .
134 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questi termini procede
Aristotele, supponen do che, nel caso considerato, probabilmente, la materia
du ra è stata deviata dagli incisivi superiori alla testa con lo scopo di
formare le corna. A sua volta, la mancanza di in cisivi superiori è causa
dello sviluppo di un quarto stomaco ed è il medio dal quale si sviluppa un
ulteriore sillogismo. Espresso nei termini del sillogismo (nella
formalizzazione peirceana adottata da Eco) il primo ragionamento si rico
struisce così: Regola = Tutti gli animali devianti (cioè che hanno deviato la
materia dura dalla bocca alla testa) mancano degli in cisivi superiori.
Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato. Risultato = Tutti gli
animali con le corna mancano degli in cisivi superiori. La "deviazione
deUa materia dura" costituisce contem poraneamente il medio del
sillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette giustamente in
risalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un feno meno è
così come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non differisce in
niente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due casi c'è un
lavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono "sor
prendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e prima del li
vello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un livello
abduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre nel caso
che debba costruire delle defi nizioni scientifiche: definire il perché di un
fatto sorpren dente "significa stabilire una gerarchia di collegamenti
cau sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida ta solo
quando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi sce come previsione di
successive modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il mancato
riconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta ad Aristotele
di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel contempo, la
produttività dello stesso sapere segnico. 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO E
LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è quella che
nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione
semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av
venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di stinti tra di loro:
da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche
un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza
della terna "significante", "significato", "oggetto
esterno"); dal l'altra, una teoria del "segno" proposizionale,
connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica
trovano però un pun to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame
con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica
stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica
tra le entità che condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata)
e quelle entità che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può
dire che di solito l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli
individui che hanno la caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di
possedere altresì una resistenza nel tem po. Questi, appunto, sono i corpi e
solo essi vengono consi derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del
linguaggio, quan to in quella del segno proposizionale, accanto alle entità
corporee vengono prese in considerazione anche delle entità incorporee, quali i
lekta. 136 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI Per il momento è
invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo concerne il
destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate
semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una
"esistenza derivativa'' (Long 197I a: 89-90). Il secondo pos sibile
equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra riamente a quello che ci
attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano
"corpi" an che le qualità, in quanto venivano considerate come
materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi tuiscono
stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza
di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto
disposizioni esistenti di materia (Rist I969: 52-55). Si profila, a questo
punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di
"particolare": quest'ultimo viene carat terizzato come un oggetto
materiale, che ha una forma defi nita come condizione necessaria e sufficiente
della sua esi stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un
oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I a: 76). È proprio su
questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria
semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della
verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei
"particolari", ed è con nesso a una teoria della percezione. Così,
si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im magini (phantasfa1)
prodotte nella mente dagli oggetti ester ni danno luogo a una percezione vera
se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto,
le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si gnificato degli
stoici, come si sa che avevano una parte im portante anche nella teoria del
significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come
fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un
"particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo
caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par lando
intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il
suo riferimento. 6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del
linguaggio 6 . 1 . 1 Il triangolo semiotico Il passo di Sesto Empirico che
contiene i lineamenti fon damentali della teoria linguistica stoica si trova
proprio in un contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla
verità. È importante sottolineare che per gli stoici una teoria del la verità,
cioè la ricerca delle basi per una verifica delle pro posizioni, non può
essere elaborata in maniera indipenden te da una concezione della struttura
del mondo e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto.
Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa "significata" (tò
smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine nel mo vimento del
pensiero. Della prima opinione sono stati i porta bandiera gli stoici col
sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò
smainomenon), quella signi ficante (tò smafnon), e
quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn chanon), e che, tra queste, la cosa
significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella
significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce
pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente
(paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur
ascoltando la voce che lo indica, non lo compren dono; infine,
ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione
in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e
ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto significato
o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso. 2 (Sext.
Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli
stoici il fe nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui to
nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si può osservare che compaiono i
termini "significante" e "significato" (come è dato trovare
anche nella teoria mo derna di Saussure), ma non quello di "segno":
come anche 138 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon
(significato) lekt6n ( detto) tmsm lnon (aignificente) tynchAnon in
Aristotele, la nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che
non è quello strettamente linguisti co. Si può notare anche che l'esempio che
viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro
prio. In secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che
individuano la significazione sono tre e com prendono anche l'oggetto, che
propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli
è solo parziale: soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si
gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. 6. 1 .2 Il
"lekt6n" come "asserzione" Un caso assolutamente a sé
costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo,
chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se
conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del
linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande
interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un
confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente) 6.1 LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO 139 Nella stessa posizione del triangolo della
significazione Ari stotele poneva delle entità psicologiche, che venivano
consi derate le medesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci
dice Sesto nel passo riporta to, ha caratteri completamente diversi, in quanto
i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren dono . Come
rileva Todorov (1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste
innanzitutto nel fatto che, mentre l'en tità presa in considerazione da
Aristotele si situa a livello della mente dei locutori, quella considerata
dagli stoici si si- tua direttamente al livello del linguaggio: Todorov
interpreta il lekt6n come la capacità del primo elementodi designare il terzo.
Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'e sempio dato è un nome
proprio, che ha una capacità di de signazione come gli altri nomi, ma è molto
controverso se abbia un senso; la risposta che di solito si dà a questo inter
rogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni l Dio ne
l e vedono l l Dione l l , ma sono incapaci di connettere il suono con il suo
oggetto di riferimento. Comprendere, dun que, come avviene appunto nel caso
dei Greci, consiste pro prio nel percepire la connessione tra la parola che
viene pro nunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77)
identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura
come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in
questo caso, la tra duzione più propria di lekt6n è "ciò che è
detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di
"giudizio" che quella di "stato di cose significato da una
parola o da una serie di parole".3 L'idea che i lekta si potessero
configurare come "affer mazioni intorno agli oggetti" emerge da una
testimonianza di Seneca (Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cui viene delinea to
uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una
proposizione ( l Catone cammina l ), laddove Sesto proponeva solo un nome ( l
Diane l ). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Cato
ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso 140 6. LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ), che è un
"incorporale". Tale asserzione è propriamente il lekton, del quale
termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: enuntiatum
("enunciazione"), effatum ("affermazione"), dictum
("asserzione"). Dato che l'esempio proposto da Seneca è una
proposizio ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come
possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4
Infatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com pleta possono
essere veri o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti tra il "lekt6n" e il
pensiero Nel modello aristotelico della significazione le espressioni
linguistiche sono i simboli degli stati psichici (pathmata en tiipsychi1) elo
dei pensieri (noimata). In questo modo non viene operata una chiara distinzione
tra la nozione di "si gnificato" e quella di "pensiero".
Tale concezione ricompa re del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden e
Ri chards (1936: tr. it. 37), i quali disegnano un triangolo se miotico in
cui figura al vertice superiore la nozione di "thought"
("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In
effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene si ricava una
nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente
con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto: [Gli stoici]
affermano che il /ekton è ciò che sussiste in confor mità con una
rappresentazione razionale (loghik phantasia) e che una rappresentazione
razionale è quella secondo cui il rap· presentato (phantasthén) può essere
espresso in parole. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70) In termini del tutto
analoghi si esprime Diogene (Vitae, VII, 63), usando anche le stesse
espressioni. Cosi, da en trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici
operassero una distinzione netta tra i lekta, che rappresentano il livello del
"significato", e le "rappresentazioni razionali"
(loghikaì 6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamo
definire come delle forme di atti vità intellettiva o dei pensieri;
quest'ultime entità sono pe culiari della specie umana6 e possono,
ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo infatti si riferisce
l'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i
due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione.
Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se sto: "I take this
difficult passage to mean that the /ekton is defined as the objective content
of acts of thinking (no sis)" e aggiunge anche "or, what comes to the
same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap
profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla
prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è
tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma
questa nuova relazione, che ve niamo scoprendo attraverso le testimonianze di
Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo
stessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12), quando aveva messo in
relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In
effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in
conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen to
appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto
con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente
contraddizio ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degli
esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici.
Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i lekta, essendo
incorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo che
faccia in qualche modo da sup porto ad essi e che permetta la loro
esprimibilità". Il proble ma diviene allora quello di stabilire se a fare
da supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività della
mente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu zione
(i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per la
soluzione (ii). Ugualmente, tra gli 1 42 6 . LA TEORIA DEL LINGUAGGIO
DEGLI STOICI interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole a fare da
supporto ai lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come
dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu bile tuttavia filologicamente,
in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per
ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du
plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da un lato il
verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at tività intellettuale, in
assenza della quale non è possibile che si diano i significati; dall'altra il
risultato dell'attività intel lettuale ha bisogno dei suoni della voce
significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con
seguenze dal fatto che i lekta siano definiti da una parte co me contenuti
delle rappresentazioni razionali e dali'altra come significati delle parole:
conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra
i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si
gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere
disgiunti l'uno dall'altro.13 A questo punto possiamo comprendere la seconda
asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e
il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la
stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è
dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la
phantasia ha un ruolo assoluta mente primario, in quanto non è possibile,
senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della cono
scenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e
l'attività di pensiero (n6sis): "infatti la rap presentazione viene per
prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime
in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della
rappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no
zione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter no".16
Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla
considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui viene
detto che il criterio di veri- .. In questo 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143
una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della
comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati
sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria
linguistica del si gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il
"lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finora
incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una
nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un
fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici
sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa
sì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se fllÌOtica stoica si verifichi
una saldatura "di diritto" tra la 0ottrina del linguaggio e la
dottrina dei segni. Infatti, "per ché ci siano segni occorre che siano
formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una
sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui
stica" (ibidem). Occorre tener presente che gli stoici non di cono ancora
che le parole sono segni (sarà Agostino il pri (110 a fare una simile
asserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra la coppia
smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta
ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non
verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera
implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene
data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è
una proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou menon) in un
condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del conseguente
(ekkalyptikòn tou ligontos). E di- 144 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI
STOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il
condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo
più avanti le varie problematiche che ven gono presentate in questo passo. Per
il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un
lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap porto di
implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo
schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il
segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso pe_rmette di
raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno
appartiene a un campo che è di stinto sia da quello logico sia da quello
semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi
che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma so lo quella
proposizione che permette di scoprire il conse guente (cioè che permette
l'accesso a una nuova conoscen za). Su questo torneremo tuttavia più avanti.
Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la
stessa di quella di Aristotele, assolu tamente diverso è il tipo di
inquadramento logico. È nor mallnente accettato che Aristotele pratichi la
logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò
comporta che l'attenzione venga spostata: (i) dalla so stanza degli eventi
(Todorov 1 977 : 21), per quanto concerne il punto di vista antologico; (ii)
dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto
concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare
un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che,
invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gli avvenimenti espressi
da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza,
tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel
vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "essa ha
latte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "essa
concepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 104-106) ... . Essi chiamano
antecedente la prima proposizione 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 145 via
fornisce alcuni esempi di segno (come quello della Reto rica, I, 1357 b,
16-18: "Se essa ha latte, essa ha partorito"), in cui vengono presi
in considerazione eventi e non sostan ze. Ma nella filosofia aristotelica la
teoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto rientrare nel
procedi mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene
confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia lettici, se non è un
tekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul
sillogismo perfet to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle
scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale:
dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla
scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gli
epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è
noto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che, a proposito della
teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un
anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di
Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera,
il Tripo de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag gio
. Per Nausi fane, infatti , il discorso filosofico (basato per Aristotele sul
sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti mema) presentano in realtà la
stessa struttura logica. In en trambi i casi è necessario distinguere tra la
"conseguenza" (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon)
e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il
sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di
partire da cose presenti (hyparchonta) per giun gere in maniera metodica alle
cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di
consequenziali tà", di implicazione o implicitazione,19 comune appunto a
filosofia e retorica. 20 Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò
ton enargOn) alla comprensione del le cose oscure (adla) per mezzo del segno
come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de
gli stoici (come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità
di passaggio 146 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di
"dogmatici"). Non solo, ma come prova della centralità della
semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno:21 fatto che
testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che
conferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a ridurre o trasfor mare
il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno: A)
"comune" e "proprio" Nella semiotica stoica si registra la
scomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo
termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi nati smeia.
Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono del sillogismo e
della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia,
al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune"
(koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era
specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica,
sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una
definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se gno si trova nel
trattato semiotico di Filodemo (l secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) per
nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non
percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che
crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta
usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi
risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è
necessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che
noi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dente
di cui è segno. 22 (Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nelle
scuole postaristoteliche nel ri tenere il segno comune come non valido e
nell'accettare in vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di
Filo- 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 147 demo si ricava che una differenza
peculiare consiste nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene
definito co me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto
da quello comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il
segno necessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria con
l'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel
segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma può
anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza
di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri
no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda
e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dal
pallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla
bontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se
gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una
conclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientifica
ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi
stemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,
la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita
delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B)
"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il
suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto
riprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno
preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del
segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra
segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due
maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno
quello che sembra rive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare
segno an- 148 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che
serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in sieme con esso. In
maniera propria si dice segno quello che è in dicativo di una cosa avvolta
nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera
contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione,
in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e segno
proprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo (ibidem, 143); e
poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono
oscure, egli propo ne di distinguere preliminarmente le cose in
"manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente
quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le
cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla
conoscenza in maniera diretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che è
giorno e che io sto di scorrendo"23 quando io faccio realmente queste
cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han no una natura
tale da non arrivare alla nostra comprensio ne (kata/psis), come a esempio
"se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli
di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose
oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta
divengono, per certe cir costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio
è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene.
Atene, visibile per sua natura, diviene tempora neamente invisibile a causa
della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una
natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen sabili (noto1).26
Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si
pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in
quanto le cose manifeste ven gono comprese in maniera non mediata e le cose
oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio
attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle
ultime due categorie. Ma i tipi 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sono
diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora neamente oscure si colgono
attraverso i segni rammemora tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni
indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo
costoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri
indicativi (endeiktika). Chia mano segno rammemorativo quello che, osservato
insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se
quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata
osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente,
come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel
segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente,
pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così,
per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp.
Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso
ciazione costante tra cose comunemente osservate in con nessione empirica.
Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo
tipo si distribuiscano se condo la tripartizione28
contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel
caso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in
"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il
fatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segno
rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del
precedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è
segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno
sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono
di risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai
"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei
segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,
che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei
"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente
schema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure non
danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno
luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la
distinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativo
solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne
trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso
Sesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto con
l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento
logico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto
importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto di
vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra
segno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tra
l'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenza
di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un
segno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della sua
struttura ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel
"condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno che
abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di
tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa
"connesso" o "connessione". Il suo significato lo gico ci
viene chiarito da Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea mente 6.2
LA TEORIA DEL SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", in
cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è
giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no
zione di condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto,
dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è
affine alla moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, allora
q"; infatti la validità o in validità dell'asserto condizionale "Se
p, allora q" dipende dal valore di verità deli'antecedente e del conseguente
di esso. 33 Sesto, in due passi paralleli, camente "quel condizionale che
non comincia dal vero e fi nisce nel falso" e fcrnisce una tavola dei
valori di verità del tutto conforme a quella che la logica contemporanea preve
de per l'implicazione materiale: p q ·se p, allora q• valido vero vero
falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto accenna anche a un
disaccordo tra i logici stoici a pro posito del criterio per giudicare un
condizionale valido:34 esso corrisponde a ciò che è stato definito dai Kneale (
1 962: tr. it. 154 e sgg.) "il dibattito sulla natura dei
condizionali", che animò le discussioni di logica ali'epoca degli stoici.
Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se- definisce come
valido uni valido 152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI gno come
antecedente (prokathegoumenon) in un condizio nale valido. In effetti, come fa
rilevare lo stesso Sesto,3s i ti pi di condizionale valido sono tre nella
tavola dei valori di verità corrispondente all'implicazione materiale (V V; F
F; F V); il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del segno
sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo in
casi particolari. Ora, in effet ti, un segno non può non essere espresso da
una proposizio ne vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui es
so rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso (F F; F V), in quanto
hanno un antecedente falso. Dunque l'uni ca possibilità è relativa al primo
tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero e finisce nel vero.36
Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca· rattere che il
segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp tik6n) del conseguente. In
effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento
in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è
formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia, secondo Sesto,37 non si
realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto
entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per sé evidenti. Il primo termine
del condizionale non è rivelatore del secondo. In effetti, per comprendere la
vera natura del segno bisogna passare dal piano strettamen te logico a uno più
generalmente epistemologico. Il segno, per gli stoici, non solo deve avere una
corretta costruzione dal punto di vista logico, individuabile nella
implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche possedere il carat tere
di dispositivo che permette di accrescere la cono scenza.38 Come già in
Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggia su un livello logico,
ma si inquadra in un'ottica co noscitiva. Gli esempi di carattere medico
denunciano l'ori gine di quest'ottica. In generale il segno deve permettere il
passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso, come "egli ha
sputato cartilagine bronchiale", a una cono scenza di molto più difficile
accesso, come "egli ha una pia ga nel polmone". Tuttavia, ciò che la
teoria del segno ac quisisce, passando dalle mani dei medici a quella dei
filoso.. 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solida struttura dal punto di
vista logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette.
6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionali Quanto ampio e difficoltoso
fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano logico, per
stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo dimostra
l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura dei condizionali"
(Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico: "Tutti quanti i dialettici
sono generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando
il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul
come e quando esso segua, e propongono criteri rivali" (Adv. Math., VIII,
12). Riferendosi a questo dibattito, Sesto elenca quattro crite ri che erano
stati proposti per stabilire la validità di un as serto condizionale: (i)
quello di Filone Megarico; (ii) quello di Diodoro Crono; (iii) quello della
srsnartsis attribuibile a Crisippo; (iv) quello della émphasis. 9 Sulla disputa
si può tuttavia fare un'osservazione genera le preliminare. Il punto di
partenza, infatti, come fa notare Martha Hurst (1935: 492), è una relazione già
conosciuta, nel senso che essa è riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece
costituisce lo scopo è una definizione di questa rela zione di
consequenzialità (akolouthla) in termini formali. Nel corso dell'intero
dibattito sulla natura dei condizionali i logici antichi si sono concentrati
sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può possedere proprietà
auto nome, essendo dotato di significato, non è stato preso in considerazione
se non nella misura in cui poteva essere pro vato che esso coincideva con il
definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due livelli e spesso
sono stati scelti esempi che ambiguamente erano in grado di elucidare sia la
relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione logica che essi
tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a comprendere meglio
questo modo di pro cedere un paragone con i metodi della logica contempora-
153 154 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea. I logici
contemporanei, infatti, sono in genere interes sati unicamente al definiens,
cioè alla relazione che essi pos sono stabilire in simboli, senza riguardo
alla questione se tale relazione sia identica a quella che è ampiamente cono
sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella di una espressione
di implicitazione ("fol/owing", Hurst 1935: 492). A esempio Peirce e
Russell erano interes sati alle proprietà della implicazione materiale
indipenden temente dal fatto che essa riproducesse il significato "usua
le" di "implica" ("implies"). Così pure Lewis era
interessato al sistema della implicazione rigida senza sostenere che l ' im
plicazione rigida rappresenti il significato di "implica". Questa
differenza nel modo di procedere tra antichi e moderni comporta un'ulteriore
differenza formale: mentre i logici antichi erano interessati a dare un'unica
definizione, i moderni lo sono a fornire due definizioni: quella di "im
plicazione materiale" e quella di "implicazione rigida". 6.2.4.2
L'implicazione filoniana Filone è il primo esponente della scuola
megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero
funzionale dell'espressione "Se p, allora q": secondo lui,
un'espressione condizionale è valida se, e solo se, non co mincia con il vero
e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà
del criterio di consequen zialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro
del l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il con dizionale
è valido, corrispondente ai tre esempi seguenti: (i) "Se è giorno, c'è
luce" (VV); (ii) "Se la terra vola, la terra ha le ali" (FF);
(iii) "Se la terra vola, la terra esiste" (FV). Come sottolineano i
Kneale (1962: tr. it. 157), è probabi le che Filone avesse in mente l'uso
dell'espressione "Se p, allora q" nei ragionamenti e che volesse
attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale
con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'inter pretazione
proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale requisito. 6.2 LA
TEORIA DEL SEGNO 155 6.2.4.3 L'implicazione diodorea Diodoro Crono era il
maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere
forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que
st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst 1935: 435 n.). La
critica che Diodoro muove all'interpretazione filonia na insiste proprio sul
carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degli esempi di
condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt
, possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio,
l'asserto "Se è giorno, io sto conversando" sarebbe considerato vero
da Filone se si dessero le condizio ni , in un tempo t , per cui fosse giorno e io stessi conversan
do. Diodoro invece dimostra che esso è falso, sostenendo che non c'è niente
nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la definizione di
Filone. Infatti esso potrebbe essere pronunciato anche in un tempo t2, quando
fosse giorno, ma io rimanessi silenzioso. In questo caso es so avrebbe la
forma invalida VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una
concezione secondo la quale un condizionale è valido quan do "non ammise,
né ammette di cominciare con il vero e fi nire con il falso".40 L'esempio
che egli dà è "Se non esisto no gli elementi atomici delle cose, allora
esistono gli ele menti atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha
l'ante cedente sempre falso e il conseguente sempre vero: ciò ba sterà a
escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico
caso in cui il condizionale sarebbe non valido.41 6.2.4.4 L'"implicazione
connessiva" ("synartesis") di Cri sippo La terza concezione di
condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi
moderni (Mates 1 56 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI 1949 a;
Bochenski 1951 e 1956), corrisponde alla implica zione rigida di Lewis o
comunque a una forma di implica zione necessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In
maniera con corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con c e z
i o n e v i e n e r i p o rt a t a d a D i o g e n e ( Vi t a e , V I I , 7 3 )
: " È v e r o un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon)
del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden te, come a esempio
'se è giorno, c'è luce' ". Il nome del sostenitore di questa concezione
non ci è sta to lasciato da chi la riferisce; ma vi sono prove che essa ap
partenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller 1978: 18-19). La nozione di
"incompatibilità", messa in scena da que sta definizione, è molto
interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Martha
Hurst (1935: 495), commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di
incompatibilità e anche, più in generale, quella di
"consequenzialità" (jollowing), non possono essere espresse in
termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le
proposizioni in virtù di pro prietà che esse avrebbero al di fuori della
relazione: al con trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che
sussi stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare
questa conclusione di M. Hurst con le osservazioni di Preti (1956: 13), il
quale so stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della synar tsis
"sembra alludere a qualcosa di ancora più forte (della strict implication
di Lewis): alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione
sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De
signis. In effetti in quel testo (come vedremo meglio nel capitolo spe-
cificamente dedicatogli) è presentato come genuinamente stoico il metodo
inferenziale della "contrapposizione" (ana skeu), che appare analogo
a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per "contrapposizione"
è quella in cui la negazione del conseguente comporta la negazione del
l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità del condizionale
"Se il primo, allora il secondo" è garantita dalla verità del
corrispondente condizionale "Se non il se condo, non il
primo".42 6.3 CONCLUSIONI 157 Preti sottolinea le affinità tra la
synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con
l'anteceden te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la ne
gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece dente), e in
entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la
precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto
più forte, che ten de a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o
in una forma di L-implicazione. 6.3 Conclusioni Nel passaggio dalla teoria
aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento
di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni categori che nel
sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as serto condizionale.
Contemporaneamente si registra un'ac centuazione del carattere, già presente
in Aristotele, di con sequenzialità necessaria che la relazione segnica è
chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve
presentare un carattere cogente. Ci sono due ragioni di questo aspetto
necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura
della ra gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio ne
della metafisica stoica (De Lacy 1978: 208). Per il primo punto è Sesto43
stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli
animali per la sua capacità di "discorso interno " (16gos
endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare
dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità
(akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto
la forma: "Se questo, allora quest'altro". Così l'esistenza del segno
si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al
secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse
costituito da una catena ininter rotta di eventi, legati tra loro da rapporti
di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto
di- 158 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI pendenti daiPordine
razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità
necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa
consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli
eventi.44 L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e
sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col locata sulla
relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause
ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa
accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi
nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle ga certi
avvenimenti presenti e altri che avverranno.4Ora, per quanto la razionalità
degli uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei,
tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che
lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"),46 men tre ai primi è
preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi
caratteristici delle cause ("signa [.. . ] causarum et notas") degli
eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto
av verrebbe per gli dei, i condizionali degli uomini intorno al futuro mancano
di necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a
quello della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria.
Ma questa, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia
sufficiente a definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è
giorno, c'è luce»47 il giorno non potrebbe essere considerato un segno della
luce in quanto entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in ferenza non può
provare nulla. La verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come
sembra richiesto nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo
della caratteristica di permettere di scoprire una nuova co noscenza. Il segno
stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello
deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per
collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore
dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presen- 6.3
CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma
nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella
semiotica stoi ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che
l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui
parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di
un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti
anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un
segno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque , il
secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentato
dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. La
presenza dei pori è un fatto oscuro per natura: infatti essi possono soltanto
essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il
microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun ge, come argomento
rafforzativo delle premesse nel ragio namento precedente, un'ulteriore
argomentazione:49 - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il
corpo. - Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso.
La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di
contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente.
Infatti se al condi zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie
del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre
attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra
attraverso un corpo 160 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI applichiamo
il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e
non poroso) :>p (un li quido non vi può scorrere attraverso), espressione
che è alla base della premessa del secondo ra gionamento di Sesto. Essa
permette di sviluppare un ragio namento corrispondente al modus tollens, che
convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli
stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la
contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a
priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno
produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la
relazione anche nel caso di verità fattua li, poiché parte dall'assunzione che
il fatto oscuro per natu ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò
che è evi dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse
quale viene rivelato essere. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O Introduzione
Contemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolo
della semiotica antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardini
dell'epistemologia epicurea, in fatti, è il principio semiotico del
congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non percepibili
con i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della metafisica epicurea (cioè
l'esistenza degli atomi e del vuoto, le configurazioni e le ragioni dei
fenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso inferenze semiotiche che partono
dai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia) dei fenomeni celesti ce li
forniscono alcuni fenomeni che accadono presso di noi, e che si vede dove e
come avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte
maniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro rifiutava il ragionamento
deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo vuoto e privo di
utili tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica che si sviluppa a
partire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli epicurei divennero i
portabandiera di un metodo di ragiona mento qualificabile come "induzione
semiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si posero in polemica
con gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato del I secolo a.C. ,
il Perì smelon kaì smeioseon (Sui segni e sulle infe- 162 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO renze), redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, è
dedica to, del resto, al dibattito intercorso fra stoici ed epicurei sul tema
dell'inferenza semiotica.1 Epicuro, così, e la scuola epicurea nel suo insieme,
pro pugnano la possibilità di elaborare giudizi che siano oggetti vamente
validi su fenomeni non direttamente conosciuti at traverso l'esperienza, sulla
base di inferenze elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene,
allora, quello di stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limiti
tali giudizi pos sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioè
ve ri o falsi) e di fornire le basi per poter dire se certe asserzio ni
corrispondano effettivamente ai fatti che esse descrivo no. Si fa strada
quindi la nozione di "criterio di verità", che costituisce la cornice
di sfondo all'interno della quale si col locano tanto la teoria deli'inferenza
semiotica quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità è
non uni co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 esso
comprende le sensazioni (aisthseis), le affe zioni (path), le preconcezioni
(prolpseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo, l'evidenza
immediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi
("antici pazione", "preconcezione") in particolare,
giocano un ruo lo fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria del
l'inferenza3 sia nella teoria del linguaggio;4 in questo modo essi
costituiscono un elemento di connessione tra le due teo rie. Tuttavia ciò non
è ancora sufficiente a permettere un'articolazione comune tra segno
inferenziale e segno lin guistico, che rimangono ancora una volta oggetti di
due in dagini separate. Si ricorderà che anche per gli stoici la teoria del
segno lin guistico, chiamato smafnon, nasceva ali'interno di una di scussione
sul criterio di verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segno
inferenziale, chiamato smefon, non aveva al cun punto di contatto con il
precedente se non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettava
il carico di essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità della
semiotica epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine
percettiva, che si collega al criterio di verità, 7 . l CRITERIO DI
VERITÀ ED EPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi
interessanti per una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi
seguenti esamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e
deli'immagine percettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria
deli'inferenza se miotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio,
dall'al tra. Gli sviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato
De signis di Filodemo saranno esposti , data la loro ampiezza, a parte nel
prossimo capitolo. 7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea
L'impostazione generale della filosofia di Epicuro, dal punto di vista
epistemologico, è un tentativo di fondare la conoscenza su basi puramente
empiriche. In primo piano vengono posti i fatti o gli oggetti; ma anche le
parole essen zialmente costituiscono una via per giungere alle cose. In questo
modo si presentano per la filosofia due metodi di ri cerca: (i) uno orientato
alla conoscenza che proviene dalle parole; (ii) l'altro a quella che proviene
direttamente dalle cose.s Tuttavia il primo è considerato un processo prelimi
nare rispetto al secondo, e spesso la conoscenza che si ottie ne attraverso
gli strumenti del linguaggio, come quella che si produce attraverso le
proposizioni, è vuota e inganne vole.6 Il fondamento ultimo della conoscenza
sono i criteri di verità, i quali sono in grado di procurare all'uomo niente
meno che l'imperturbabilità.7 Essi sono dunque posti alla base stessa della
filosofia generale di Epicuro; del resto essi erano trattati in un'opera
perduta, intitolata Canone, in cui era contenuta la materia propedeutica
rispetto all'intero si stema dottrinario.8 Se noi pensiamo alla verità in termini
moderni , cioè come una funzione delle proposizioni, corriamo il rischio di non
comprendere il pensiero di Epicuro. In effetti, nella lingua greca in generale,
l'aggettivo althés ("vero") può servire tanto a qualificare la verità
di una proposizione, quanto a indicare ciò che sussiste di fatto o che è reale.
In Epicuro, in 164 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO particolare,
l'aggettivo "vero" implica un'effettiva consape volezza di qualcosa.
Si giustifica così la sua applicazione al le sensazioni e alle affezioni, in
quanto dire che una certa sensazione (o una certa affezione) è vera equivale a
dire che essa fornisce un indizio effettivo su un fatto reale, renden docene
consapevoli.9 Prima di passare in rassegna le varie forme del criterio di
verità, è necessario sottolineare fin d'ora come esso sia fun zionale a una
teoria dell'inferenza semiotica. Infatti esso tende a stabilire delle verità
basilari riguardanti le cose per cepibili, che servono a loro volta come punto
di partenza per fare inferenze intorno alle cose non direttamente rag
giungibili con i sensi.10 7.2 Le forme del criterio di verità Epicuro, dunque,
considerava come criteri di verità le sensazioni, le p[econcezioni (o
prolessi), le affezioni (o sen timenti). 1 1 Nel paragrafo 82 della Lettera ad
Erodoto veni va fatto cenno anche alla enargheia ("evidenza immediata, o
"chiara visione"). Riferendosi a questi passi, Long (1971 b: 116) fa
una interessante proposta circa l'organizzazione interna delle forme del
criterio di verità. Suggerisce infatti di ordinarie in modo gerarchizzato: in
primo luogo ci sono le affezioni e le sensazioni; poi l'evidenza immediata;
infine le preconcezioni. Secondo Long, le prime due hanno un va lore di verità
puramente soggettivo, se prese da sole, e devo no essere coordinate
all'evidenza immediata e alle prolessi, per giungere a costituire un criterio
oggettivo. Le affezioni e le sensazioni comportano la consapevolez za di
qualcosa, e la loro "verità" consiste proprio in questa
consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Si possono riprodurre le
relazioni tra le forme del criterio di verità se condo il seguente
schema: 7.3 TEORIA DEI SIMULACRI 165 criteri di veritè consapevolezza consapevolezza soggettiva
oggettiva ll affezioni sensazioni evidenza 7.3 Teoria dei simulacri
prolessi Finora abbiamo considerato il processo conoscitivo dalla
parte del soggetto che prova una sensazione o ha una affe zione in relazione
agli stimoli esterni. Se consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta,
cioè partendo dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu ro aveva elaborato
una vera e propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse per
una semiotica dell'ico nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad Erodoto
Epicuro inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce zione
degli oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti nuazione degli
efflussi di atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto e
per tutto identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Queste
configurazioni prendono il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a una
velocità estremamente alta e possono penetrare nei no stri organi di senso o
nella nostra mente, e lì produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esatta
del corpo da cui i simulacri sono stati emanati. Il processo può essere sche
matizzato così: oggetti - - - - - - - -
simuh1cri - - - - - - - - .-.. immsgini mentali (stertJmnia)
(sfd"lJfs) (phsntssfst) 166 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO
Quella di Epicuro può essere definita una teoria "causa le" (Long 1
97 1 b: 1 1 7) della percezione, in quanto gli ogget ti sono responsabili
dell'esistenza dei simulacri e questi ulti mi causano direttamente il formarsi
delle immagini nella mente. Si deve però dire che le immagini sono una diretta
conseguenza dei simulacri, ma solo secondariamente una conseguenza degli
oggetti, dai quali possono anche essere difformi. In effetti la continuità del
processo può essere interrotta al livello del passaggio dell'efflusso dagli
oggetti esterni ai simulacri . Questi ultimi , sebbene di solito risultino
delle co pie esatte degli oggetti, talvolta possono subire delle modifi
cazioni per il fatto di entrare in collisione con altri atomi nel passaggio
attraverso l'aria e possono anche ridursi in di mensione nel momento in cui
entrano in una persona (in quanto, anche in questo caso, entrano in collisione
con altri atomi). 1 3 Epicuro è, con questa teoria, impegnato a rendere conto
del fatto che gli oggetti, visti da vicino, presentano certe di mensioni,
mentre ne presentano altre, molto minori, se visti da lontano, senza entrare in
contraddizione con il principio che la sensazione è garanzia di verità in ogni
caso, e ci si troverebbe di fronte veramente a una contraddizione se la
phantasfa fosse un'immagine dell'oggetto, mentre in realtà è un'immagine del
simulacro (ekiOion). Sesto Empirico sembra riportare correttamente il pensie
ro di Epicuro quando cita, a questo proposito, l'esempio della
"torre": Così io non oserei dire che la vista suggerisca il falso per
il fatto che a grande distanza essa vede la torre piccola e rotonda e a di
stanza accorciata la vede più grande e quadrata, ma direi piut tosto che la
vista suggerisca il vero, perché l'immagine ricevuta dai sensi, quando le
appare piccola e di una certa forma, è real mente piccola e di quella
determinata forma, per il fatto che i li miti appartenenti ai simulacri
(eldola) vengono cancellati dal passaggio attraverso l'aria. (Sext. Emp., Adv.
Math., VII, 208-209) 7.4 TEORIA DELL'ERRORE E DELL'OPINIONE 167 In
effetti, ciò che i sensi recepiscono è il flusso di atomi che si stacca
dall'oggetto e che costituisce il suo simulacro e non l'oggetto stesso. Tale
flusso, passando attraverso l'a ria, si altera nella sua configurazione,
producendo la diver sità delle immagini che si hanno dello stesso oggetto.
Cosi ogni immagine mentale (phantasfa) è effettivamente vera perché è relativa
non all'oggetto, ma a ciascuno dei simula cri dell'oggetto, che sono diversi
in relazione alla distanza percorsa per raggiungere il soggetto che percepisce.
L'importante è non identificare il simulacro che si produ ce nelle vicinanze
dell'oggetto con quello che si ha in una vi sione a distanza. 7.4 Teoria
dell'errore e dell'opinione Il tema deli'inferenza semiotica diventa sempre più
cen trale nel campo dei processi percettivi quando si abbandona il terreno
sicuro della sensazione per esplorare quello insi dioso delle opinioni, in cui
si può verificare l'evenienza del l'errore. Se gli uomini si attenessero soltanto
alle loro sen sazioni e si limitassero a descrivere le loro immagini mentali
(phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di errore. Ma ciò non avviene, e
l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla sensazione qualche processo
mentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5 1), chiama "secondo
movimento" (al l klnèsis). Long (1971 b: 1 18) identifica questo
"secondo movimen to" proprio con il processo di elaborazione
deli'opinione. Infatti Epicuro dice che esso è "connesso" con il
primo mo vimento (cioè la semplice apprensione di immagini), ma, a differenza
di questo, "ammette una distinzione": quella tra il falso e il vero.
Il primo movimento, cioè l'apprensione di immagini, non ammette alcuna
distinzione di questo gene re, perché è prodotto da cause esterne, ovvero dai
simula cri; il secondo movimento, invece, consistendo nell'aggiun ta di un
giudizio che noi facciamo su queste immagini, può ricevere conferma o
attestazione contraria. Si può così sche matizzare il processo: 168 7.
INFERENZA E LINOUAOQIO IN EPICURO processo conoscitivo / apprensione di immagmi
lphsntsstik epiboli'J sempre vera opinione (d6xs) conferma e non
attestazione contraria vera attestazione contraria e non conferma falsa
In effetti, se, sulla scorta di una visione distante e oscura, io dico,
traducendo in parole le mie sensazioni: "Quella ha le apparenze di una
torre rotonda" , io parlo in maniera veri tiera; ma se dico: "Quella
è una torre rotonda", il mio giu dizio è disconfermato nel caso che,
avvicinandomi, riceva l'immagine di una torre quadrata. In definitiva, le
immagi ni sono tutte vere mentre le opinioni sono alcune vere e altre false.
14 Quello che comunque risulta è il carattere congettu rale dell'opinione. 7.5
La congettura È naturale che all'interno di una teoria dell'opinione uno spazio
privilegiato venga dedicato alla congettura. Infatti, in generale, la
congettura consiste proprio in un'ipotesi co noscitiva su una dimensione che
va oltre ciò che può essere colto attraverso i sensi. L'opinione, come la
concepisce Epi curo, è associata esattamente a queste caratteristiche, consi
stendo appunto in un giudizio che prevede l'impegno del soggetto su qualcosa
che attende conferma. Ci sono alcune parole chiave che definiscono il processo
conoscitivo attuato attraverso l'opinione. La prima è pro- 7.5 LA
CONGETTURA 169 sménon, "ciò che attende conferma", 1 5 che è appunto
l'og getto sul quale si esercita il giudizio. Una seconda e una terza parole
chiave, collegate tra loro da una relazione di antonimia, sono epimartjrsis
"attesta zione" e antimartjrsis "attestazione contraria" o
"conte stazione". Tuttavia, il sistema di Epicuro per la conferma o
la disconferma di una certa opinione non gioca su due, ben si su quattro
termini: c'è infatti conferma quando si ha "at testazione" o
"non contestazione"; c'è disconferma quando c'è
"contestazione" o "non attestazione". Si viene cosi a
creare un vero quadrato semiotico: attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis)
non contestazione (ouk sntimsrtyrsis) ( sntimsrtyrlJsis) non attestazione (ouk
epimsrf'jrlJsis) in cui, per Epicuro, due termini (o quelli della deissi
positi va, o quelli della deissi negativa) congiuntamente sono ne cessari per
decidere di un'opinione. 1 6 Tuttavia ciascuno dei quattro termini è idoneo a
stabilire la validità di un'opinione. Infatti nella teoria semiotica ri
portata nel De signis da Filodemo, il criterio per decidere sulla validità di
un'inferenza induttiva sarà rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero
dal non conflitto del l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel
quadrato di Epicuro sorge il problema di stabilire un criterio per definire in
che cosa consista il termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è
rintracciabile nella enargheia ("l'eviden za", "la chiara
visione"), come ci dice Sesto: 170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN
EPICURO Ed è attestazione (epimartjris) una apprensione, conseguita mediante
evidenza (di' enarghefas), del fatto che l'oggetto opi nato è appunto quello
che precedentemente veniva opinato, co me, ad esempio, se Platone da lontano
incede verso di me, io congetturo ed opino, a causa della distanza, che si
tratti di Pla tone, e, quando egli mi si è accostato, viene attestato che si
trat ti eli Platone, mercé la soppressione della distanza, e la confer ma si
è avuta in virtù della stessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In
effetti Epicuro era ben consapevole del fatto che si possono commettere degli
errori neli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione
e, probabil mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura
e semplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo la
congettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo.
Di conseguen za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e le
immagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare le
congetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi in
considerazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se miotica si
esercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto i
sensi (adlon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo è
relativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessi
processi percettivi ed è illustrato dal l'esempio, riportato da Sesto, del
vedere in lontananza Pla tone che si avvicina, e poter solo congetturare che
si tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita la
congettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di stintamente.
Tuttavia, questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, la
conferma del dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremo
questo tipo in ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su cose
assolutamente escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nel
senso fliù classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si tratta
di risalire dali'esistenza del moto (cioè di 7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171
un elemento percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di un
elemento non percepibile, adlon). È la ti pica relazione logica di
implicazione (chiamata da Sesto akolouthfa) tra un antecedente e un
conseguente. Chiame remo questo secondo tipo di processo inferenza al non per
cepibile. 7.6 L'inferenza da segni L'inferenza al non percepibile è una tipica
inferenza da segni. Infatti in molti casi, come quello che abbiamo visto,
"Se c'è moto-+c'è vuoto", non è possibile conoscere diret tamente
l'oggetto sul quale viene fatta l'inferenza ("il vuo to"), ma lo si
deve attingere attraverso un segno ("il mo to"). In effetti, anche
per Epicuro, l'inferenza da segni è connessa con la possibilità di ampliare i
limiti della cono scenza oltre la sfera degli oggetti sensibili. È proprio
grazie a una teoria dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce a
superare i limiti del proprio radicale empirismo, aprendo la via anche alla
conoscenza di fenomeni non per cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel De
signis di Filode mo (fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscen
ze ottenute tramite inferenza, altrettanto sicure di quelle di rette. Un
programma conoscitivo di questo tipo presuppone un'epistemologia che divide gli
oggetti in quattro categorie, in maniera del resto non molto diversa da quanto
avveniva nella semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi):
"quegli oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di una
rappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316).
Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che una
certa persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei adla):
"quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciuti
nel presente, né saranno conosciuti nel futu- 172 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im possibilità di
conoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo genere
sono inconoscibili, co me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la no
stra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenza
umana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei adla): "quegli oggetti che
sono oscuri per la propria natura, ma che si stima vengano conosciuti per mezzo
di segni e di dimostrazio ni" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 319). Gli
esempi so no gli atomi e il vuoto infinito. L'esistenza degli atomi e del
vuoto era postulata da Leucippo e da Democrito su basi puramente razionali, ma
Epicuro insisterà, in con formità con il suo empirismo, che possono essere
cono sciuti attraverso l'inferenza analogica. (4) Oggetti che attendono
conferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti immediatamente oltre la
nostra esperienza (Ep. Hdt. , 38), la cui conoscibilità è limitata da fattori,
quali la distanza nello spazio o il loro essere situati nel futuro. Come si può
vedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti attraverso l'inferenza
sono quelli che apparten gono alla terza e alla quarta classe. Essi sono da
porre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui abbiamo già parlato.
L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli oggetti appartenenti alla
quarta classe, quelli "che attendono con ferma". L'inferenza al non
percepìbile, invece, verte intorno agli oggetti appartenenti alla terza classe,
cioè è rivolta alla co noscenza di quegli oggetti che sono "oscuri di per
sé" e che non arrivano mai a essere esperiti dai sensi . In questo caso il
metodo di verifica assume una forma indiretta: la "non at testazione
contraria" (ouk antimartjresis). Il vuoto, come abbiamo visto, non è
verificabile per esperienza diretta, ma gli epicurei sostengono che la sua
esistenza non è in contra sto con nessun fatto conosciuto, 1 9 mentre la sua
negazione 7.7 LA PROLESSI 173 entra in conflitto con l'esperienza
empirica del movimento, che richiede il vuoto per attuarsi. Il cuore del
ragionamento basato sulla non attestazione contraria consiste nel fatto che,
quando si hanno due proposizioni contraddittorie in torno a qualcosa che non è
percepibile, e una di esse risulta falsa in base a una prova empirica
(nell'esempio preceden te, la non esistenza del vuoto, in quanto entra in
conflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere conside rata
vera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o
"anticipazione" o "preconcezione") costi tuisce il secondo
dei due criteri di verità che abbiamo defini to "oggettivi". Essa ha
un ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Per
esempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca vallo o un
bue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto una
volta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) In
effetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio ne in senso proprio,
cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si sta
vedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggetto
pre ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva mente
percepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentemente
un'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3.
effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attuale
sensazione. Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concetti
che si sono formati in seguito a numerose esperien ze relative agli oggetti
esterni. Esse hanno due caratteri fon damentali: (i) sono strettamente legate
alla memoria di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Come
concetti, le prolessi non necessariamente corri spondono a singoli oggetti
esterni, ma costituiscono piutto- 174 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN
EPICURO sto il tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc
correnze. Ciò, del resto, è strettamente collegato al fatto che esse
rappresentano un test di verità: solo possedendo il concetto generale di
"uomo", si può decidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia
un'occorrenza particolare di esso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi
costituiscono anche una condizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto
al livello della decodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una
parte, l'atto di pronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente
dell'ascoltatore un'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente,
hyfootetagménon, a quel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire
che la pre senza di un significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina
mento con un significato. Dall'altra, il Iocutore deve posse dere una
preconcezione di ciò che intende esprimere, altri menti non gli sarebbe
possibile dire niente: in questo caso, il locutore codifica un significato
presente nella sua mente per mezzo di un artificio espressivo (un
"nome"). Nella teoria epicurea la prolessi sembra coinvolta in ogni
caso nella formazione dei concetti. Infatti Diogene dice che "tutti i
concetti (epfnoia1) sorgono dalle sensazioni, o per diretta esperienza, o per
analogia, o per somiglianza, o per combinazione, con una certa collaborazione
anche da parte del ragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug
gerisce di identificare con le prolessi la prima classe di con cetti, cioè
quelli che sorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le
prolessi sono alla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del
segno linguistico sensibil mente diversa da quella che è normalmente
attribuita agli epicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar
co.21 Questi ultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin guistica di
Epicuro solo due fattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o
voce, ph(Jn) e la cosa designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui
Plutarco e Sesto 7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi
nella teoria del significato linguistico è imputabile al fatto che essi non
vedono nella teoria epicu rea niente di simile al lekt6n stoico, che è
contemporanea mente incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale.
Ciò non impedisce, tuttavia, alle protessi di avere la stes sa funzione dei
lekta stoici, cioè di costituire un elemento di mediazione tra le parole e le
cose. Di conseguenza, la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere
così rico struita: prolessi nomi cose Del resto, se a Epicuro fosse
attribuita una teoria lingui stica secondo cui le parole si riferiscono
direttamente alle cose, senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in con
traddizione tutta la sua dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gli
uomini credono erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti ed
esprimono verbal mente questa credenza, se non esistesse il livello
concettuale delle prolessi, non ci sarebbe niente che corrisponde alla
proposizione "Gli dei sono malevoli nei confronti degli uo mini". La
presenza della prolessi come elemento mediatore tra le parole e le cose può
rendere conto di molte asserzioni false e di asserzioni su cose che non
esistono. Ciò che gli uo mini fanno, pensando agli dei come malevoli, è una
falsa supposizione, ovvero un concetto non derivato dali'ogget to, cioè dagli
dei stessi. La centralità della protessi nella teoria linguistica epicu rea è
dimostrata anche dal fatto che essa deve essere identi ficata anche con quel
particolare significato che è il "signifi- 176 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO cato basico" o "primario" (proton ennoma),
di cui si parla nella Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti gli
altri significati che possono essere considerati derivati da esso.22 7.9
L'origine del linguaggio La teoria linguistica in Epicuro è connessa con quella
del l'origine stessa del linguaggio, che è discussa principalmen te nella
Lettera ad Erodoto (75-76).23 Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gli
uomini han no sviluppato nel corso della loro evoluzione, passando at
traverso due stadi distinti. Nel primo stadio il linguaggio esprime una
relazione con la realtà che potrebbe essere defi nita naturale, mentre nel
secondo una relazione che potreb be essere definita convenzionale. In effetti
Epicuro, nella polemica phjsisln6mos, assume una posizione mediana e molto
particolare, rifiutando sia l'idea che ci sia stato un unico datore di nomi,
sia l'idea (per altro sostenuta dagli stoici) che le parole si accordino in
maniera naturale alle co se. Esaminiamo più in particolare come è descritto il
pro cesso di nascita e sviluppo del linguaggio nella Lettera ad Erodoto . In
una prima fase l'attività linguistica degli uomini non è affatto diversa dai
processi naturali quali tossire, starnuti re, gemere ecc.: infatti gli uomini
emettono suoni, simili a parole, sotto lo stimolo involontario e naturale delle
affe zioni (path) che provano e delle immagini (phantasmata) che si formano in
loro. Il linguaggio primitivo costituisce una reazione istintiva all'arnbiente,
e la tesi di Epicuro sem bra essere, in relazione a questo stadio, a pieno
titolo quella naturalista. Ma, a ben guardare, essa presenta qualcosa di più.
Infatti ha sempre costituito un problema, per i sosteni tori della tesi del
naturale accordo tra le parole e le cose, spiegare la diversità delle lingue:
qui Epicuro non evita que sto aspetto del problema,24 ma lo integra nella sua
teoria. La diversità delle lingue è diretta conseguenza della diver sità degli
ambienti in cui i vari popoli si trovano e in relazio- 7. l0 EPICURO E
TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, le
lingue va riano perché le cose variano da regione a regione. Inoltre gli
uomini, accorgendosi che si producono suoni diversi in re lazione alle
affezioni e alle immagini prodotte dagli oggetti, trovano utile usare questi
suoni come nomi-etichette degli oggetti. A questo punto interviene il secondo
stadio nel processo evolutivo del linguaggio, in cui vengono introdotti degli
ele menti di convenzione. Questi ultimi si instaurano sotto una duplice
spinta: da una parte c'è un movimento che tende a razionalizzare il linguaggio,
rendendo le espressioni ambi gue, createsi naturalmente "più chiare"
e "più concise"; dal l'altra c'è l'operato degli "uomini
colti", i quali tendono a introdurre concetti relativi a cose che vanno
oltre la perce zione e che dunque non hanno potuto essere nominate at
traverso il processo naturale. Come sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativo
deliberato di introdurre processi di semplifi cazione nell'evoluzione del
linguaggio corrisponde al desi derio di rendere conto dei processi astratti,
come quelli in cui la relazione uno e uno tra parole e cose non è più soste
nibile. Ciò avviene sostanzialmente in due casi, che sono le gati all'intera
problematica linguistica di Epicuro, cioè (i) nella formazione dei termini
generali e (ii) nei processi di metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione
"physis/nomos" Dopo aver esaminato la teoria epicurea dell'origine
del linguaggio, è possibile ritornare al triangolo semiotico e analizzare quali
relazioni siano implicate tra i vari termini, in rapporto con altre posizioni
della tradizione linguistica. Un primo confronto può essere stabilito con
Aristotele. Spesso gli studiosi hanno suggerito una dipendenza della teoria
linguistica di Epicuro da quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti 1960:
476), o almeno una stretta somiglian za (Long 1971 b: 121). In effetti nel De
interpreta/ione (16 a) Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagi
ni provenienti dalle espressioni sensoriali derivate dalle cose 178 7.
INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come
le protessi di Epicuro derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contatto
tra le due teorie, tuttavia maggiori sono, secondo Sedley (1973: 20), le
divergenze. Anzitutto, per Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le
stesse affezioni mentali, ma le rappresentano attraverso espressioni
linguistiche diverse. Per Epicuro, invece (come abbiamo visto a proposito
dell'origine del linguaggio), le forme linguistiche sono diverse perché le
affezioni mentali (path e phantasmata, ambedue inclusi negli aristotelici
pathmata) sono diverse da popolo a popolo, in relazione ai diversi ambienti
naturali. Ma ci sono anche altri elementi di divergenza tra Aristotele ed
Epicuro. Per il primo, infatti, nessun nome preso di per sé ha funzione
apofantica, cioè nessun nome può essere detto vero o falso; inoltre nessuna
espressione diviene un simbolo se non in seguito a conven zione. Per Epicuro,
invece, i nomi di oggetti individuali comportano verità o falsità, come
avveniva, del resto, an che nel Crati/o platonico; inoltre, una certa
espressione, che può essere anche un semplice rumore, può essere usata co me
un simbolo, per quanto in assenza di elementi conven zionali, come avviene
negli stadi primitivi della comunica zione. Un secondo confronto può essere
stabilito poi anche con la posizione platonica. Sicuramente in Epicuro non è
pre sente alcuna posizione simile a quella della prima teoria se mantica di
Platone,25 adottata in seguito anche dagli stoici, secondo la quale il nome è
una lista abbreviata delle pro prietà dell'oggetto a cui si riferisce.
Platone, infatti, vede le parole primitive come una rappresentazione fedele
delle proprietà dell'oggetto, quasi che tutto il vocabolario fosse
deliberatamente costituito da onomatopee. La posizione naturalistica di Epicuro
si limita a sostenere che, ali'interno di ciascun linguaggio, ogni nome ha un
uso corretto quando viene impiegato per denotare l'oggetto, o la classe di
oggetti, a cui è stato associato nel momento del la sua origine naturale.
Tuttavia, nonostante questa distin zione, ci sono forti elementi di
convergenza tra la posizione platonica e quella epicurea, in quanto in entrambe
i nomi 7.l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 179 hanno alla loro
origine un valore cognitivo, che viene par zialmente obliterato attraverso i
cambiamenti del linguag gio nel corso del tempo.26 Per Platone il recupero del
senso originario delle parole avviene attraverso l'etimologia, stra da sulla
quale lo seguiranno anche gli stoici. Epicuro ritie ne, invece, che la
relazione originaria del linguaggio con gli oggetti percepibili sia stata
oscurata soprattutto da processi metaforici e, per recuperare il valore
epistemologico origi nario dei nomi, suggerisce di ricercare "la prima
immagine" (prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa prima immagine è da
identificarsi con la prolessi, cioè con il concetto che si è formato alla prima
percezione dell'oggetto e che è stato as sociato al nome. In conclusione,
rispetto alla teoria di Aristotele e alla pri ma teoria semantica di Platone,
si può dire che Epicuro as sume una posizione intermedia. Per Aristotele i
nomi sono simboli e sono convenzionali. Per Platone, invece, i nomi sono delle
icone degli oggetti e sono naturali. Per Epicuro i nomi sono simboli, come per
Aristotele, in quanto non riproducono le proprietà degli og getti, ma sono
naturali, come per Platone, nella loro origi ne, coincidente con il primo dei
due stadi evolutivi del lin guaggio . Gli elementi di convenzionalità si sviluppano
soltanto in seguito, nel secondo stadio. Questa posizione intermedia di Epicuro
spiega perché non venga fatto ricorso all'etimolo gia, come invece avviene in
Platone e negli stoici, e, pur tut tavia, si chieda di tenere presente
"la prima immagine": in realtà, la corrispondenza biunivoca tra il
nome e "la prima immagi ne" si fonda non sulla forma, ma sulla
origine natu rale . 8. IL ''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione
Dopo Epicuro la teoria del segno trovò un ampio svilup po negli scritti dei
suoi seguaci. Un trattato del I secolo a.C.,1
ilPerìsmet'Onkaìsmei8seon(Suisegniesulleinfe renze)2 di Filodemo, testimonia
ampiamente del grado di raffinatezza e di complessità che la teoria del segno
aveva raggiunto in seno alla scuola epicurea. Si tratta di un'opera composta
probabilmente a uso della scuola epicurea di Er colano, della quale Filodemo
fu uno dei più importanti esponenti. Il De signis non costituisce un vero e
proprio trattato metodologico, né un'esposizione sistematica della teoria epicurea
del segno, ma riporta la polemica allora in corso fra stoici ed epicurei
sull'inferenza da segni e su varie tematiche semiotiche a essa connesse. Il
trattato è diviso in quattro sezioni, nelle quali sono esposte le
argomentazioni di tre maestri epicurei, Zenone di Sidone, Bromio e Deme trio
di Laconia,3 a favore della teoria epicurea del segno e contro le critiche a
essa mosse dagli esponenti della scuola stoica. Il trattato è di grandissima
importanza semiotica, perché tanto gli stoici quanto gli epicurei costruivano
la loro teoria logica sull'inferenza da segni. Nel confronto le due teorie si
illuminano a vicenda. Inoltre il De signis dibatte una serie di problemi che
ancora oggi sono al centro della discussione semiotica. Del resto, per la sua pertinenza
semiotica, que st'opera aveva attirato anche l'interesse di Charles
Sanders 8.l RELAZIONE SEGNICA «A PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, che
ne aveva affidato l'approfondimento e l'analisi all'allievo Allan Marquand; di
quest'ultimo ci rimane un saggio sulla logica semiotica degli epicurei.4 8.1 La
relazione segnica è "a priori" o "a poste riori"? Al
centro del trattato di Filodemo si colloca il contrasto fondamentale tra le due
scuole circa il modo di concepire il rapporto che si instaura tra i due termini
della relazione se gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che
vede tale relazione come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei,
invece, sostengono che tale relazione è a poste riori e interamente fondata su
basi empiriche. Il punto di vi sta epicureo, in effetti, è che per poter
stabilire una relazio ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessario
aver os servato più volte i due termini in un qualche tipo di con giunzione
(sia essa spaziale, temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabilisce
in seguito ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Di
conseguenza, il me todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analo
gia (ho katà tn homoi6tta tr6pos), cioè un "metodo stret tamente empirico
e basato sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certe
congiunzioni costanti, dal le quali noi inferiamo ugualmente delle similarità
e delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398).
In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio ne segnica, stoici ed
epicurei sviluppano anche due differen ti teorie sulla verifica della validità
logica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnica
basata sulla contrapposizione (anaskeu), secondo cui la negazione del
conseguente comporta la contemporanea negazione del l'antecedente. A esempio,
nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto", gli stoici sostenevano che
la negazione della cosa si gnificata ("c'è vuoto") implicherebbe
anche la negazione del segno (''c'è moto"). Si tratta di un metodo di
verifica as solutamente a priori e astratto, al quale gli epicurei con-
182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un metodo completamente
empirico. Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo a priori è possibile
fino a che non sia stata costruita un'inferenza su base empi rica: l'esistenza
del vuoto, nell'esempio precedente, è inferi ta a partire dalla osservazione
empirica che non si verifica il moto senza l'esistenza congiunta del vuoto, e
da una conse guente generalizzazione.5 Ciò significa che il principio astratto
degli stoici può esse re formulato soltanto dopo che l'inferenza è stata
costruita su base empirica e con il ricorso a un ragionamento analogi co. Così
gli epicurei sostengono che il metodo della con trapposizione poggia,
inconsapevolmente, sul fondamento ultimo dell'analogia epicurea. In questo modo
le verità ne cessarie, che gli stoici consideravano analitiche e a priori,
sono in realtà stabilite attraverso l'induzione. Gli epicurei prospettano un
punto di vista secondo cui la logica dedutti va è susseguente a una logica
induttiva in ordine di svilup po: la prima dipende infatti dalla seconda (De
Lacy 1978: 221). Se questa idea è chiaramente espressa nel trattato di
Filodemo, non ci si deve tuttavia aspettare una discussione articolata sulle
relazioni tra la logica formale e deduttiva da una parte, e logica induttiva e
metodo empirico dall'altra. Anzi, a ben vedere, nel corso del trattato,
entrambi i prota gonisti della discussione tendono a confondere due cose che
la logica moderna avrebbe piuttosto tendenza a tenere di stinte: da una parte,
il metodo per la costruzione di un'infe renza segnica; dall'altra, il criterio
per la verifica della sua validità (Martinelli 1 986) . Così , il metodo di
costruzione deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio è
più precisamente quello della inconcepibilità (adianosfa). Tuttavia la
distinzione non è così forte, in quanto sia il me todo sia il criterio sono su
base empirica: in effetti, nel di battito, gli stoici tenderanno ad attaccare
il metodo per in validare il criterio e viceversa. 8.2 Contrapposizione vs
inconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali, l'opposizione
8.2 CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si stabilisce tra il criterio
stoico della contrapposizione e quello epicureo della inconcepibililà. Data
l'inferenza p-:Jq il criterio della sua verifica secondo la contrapposizione
stoica è esprimibile come il che equivale a dire che, negando per ipotesi il
conseguen te, anche l'antecedente risulta negato. La prova dell'infe renza,
dunque, avviene su base formale e non empirica. Il criterio della
inconcepibilità epicurea, invece, prescinde da considerazioni formali ed è
basato sull'analogia empiri ca. Esso viene così illustrato nelle parole di
Filodemo: Ma talvolta l'inferenza non è provata essere vera in questo mo do (
= per contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire che il
primo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non abbia
tale proprietà, come per esem pio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è
un uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che "Se
Socrate non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché, attraver
so la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma perché non è
possibile che Socrate non sia un uomo e Plato ne sia un uomo; e questa
inferenza appartiene al metodo dell'a nalogia . (col. XII, 14-31=cap. 17) Dal
punto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile come
impossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettiva
mente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono un
contenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza di
un operatore modale nella 184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formula
del criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmente
modale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come la
concepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentati
come contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione in
casi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si dif
ferenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi le cercare una
risposta a questo interrogativo soffermando ci sull'esempio che viene
riportato da Filodemo di inferenza verificata con il metodo
dell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo"
Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia.
Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè la
proprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto che
potrem mo esprimere come: u {P) u {S)
in cui "u" è la proprietà di "essere un uomo",
"P" è "Plato ne" e "S" è "Socrate".
Questo aiuta a capire che cosa intendano esattamente con "analogia" e
con "inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. In
effetti, mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.nto in comune tra i
due membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene essenziale
per gli epi curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di vista
logico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà condivisa
dai soggetti delle due proposizioni membri del l'inferenza, ci permette di
dire che la logica usata dagli epi curei non è la stessa di quella usata dagli
stoici: mentre que sti ultimi si servono della logica delle proposizioni, gli
epi curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un certo punto di vista
più simile a quella aristotelica. 8.2 CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ
185 A distinguere il metodo della contrapposizione da quello
dell'inconcepibilità è dunque l'ambito di applicazione: le proposizioni nel
primo caso, le proprietà nel secondo. Lo scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare
che l'inferenza ha un carattere di necessità. Ora non c'è nessun problema a
considerare necessaria la relazione stoica verificata dalla contrapposizione,
in quanto il metodo adottato è aprioristi co. Ci sono maggiori problemi,
invece, come gli stoici sot tolineano, a considerare necessaria l'inferenza
analogica. A ogni modo, per gli epicurei le relazioni segniche vengo no
scoperte empiricamente e, se la ricerca è ben condotta, la relazione tra il
segno e l'oggetto a cui il segno rimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo
stesso dell'inconcepibilità è un metodo empirico, in quanto una certa cosa è
inconcepi bile solo nei termini della nostra esperienza. Le inferenze
verificate dall'inconcepibilità sono basate sull'analogia tra il segno e ciò a
cui esso rimanda: "Un oggetto che non ab bia niente in comune con ciò che
appare è inconcepibile" (col. XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze
su ciò che va di là dell'esperienza sono basate sull'analogia con le proprietà
che presentano le cose ali'interno deli'esperienza. Se non è possibile
verificare di rettamente la presenza di quelle proprietà negli oggetti non
percepiti, si ricorre alla prova indiretta della non incompati bilità (ouk
antimartjrsis) con i dati empirici.7 L'inferenza che viene presa in
considerazione è la seguente: Se gli uomini che noi conosciamo direttamente,
una volta deca pitati muoiono, senza che ricrescano nuove teste, allora tutti
gli uomini, dovunque, una volta decapitati muoiono e non ricre scono nuove
teste. Il primo membro del condizionale è considerato segno del secondo. Tra i
due membri si stabilisce un elemento co mune, e l'inferenza è propriamente
un'induzione: l'espe rienza ripetuta dell'associazione tra decapitazione da
una parte e morte congiunta alla non ricrescita della testa dal l'altra, porta
alla generalizzazione di questa associazione, in modo da poter fare inferenze e
previsioni anche in casi 186 8. IL «DE SIONIS» DI FnODEMO non
precedentemente osservati, o non osservabili in asso luto. Inoltre, poiché è
impossibile verificare l'inferenza sui casi non osservabili , gli epicurei la
ritengono veri ficata basando si sulla non incompatibilità con i casi che
cadono nel domi nio deli'esperienza. La condizione è tuttavia quella di sce
gliere i casi giusti, che sono quelli che appartengono allo stesso genere: a
esempio, per inferire la non ricrescita delle teste, è necessario non basarsi
sulla ricrescita dei capelli o delle unghie (coli. XIII, 20 - XIV, 2 = cap.
18). 8.3 Segni comuni e segni propri La disputa sui metodi di verifica
dell'inferenza si lega alla discussione sui tipi possibili di segno. Tanto gli
stoici quan to gli epicurei distinguevano tra segno comune (koinòn s mefon) e
segno proprio (fdion smefon). Definivano il segno comune come quella entità che
può esistere anche in assen za di un'entità cui dovrebbe rinviare (a esempio,
nell'infe renza "Se quest'uomo particolare è ricco, allora è buono"!
la ricchezza può sussistere anche se non sussiste la bontà). Definivano poi il
segno proprio come quell'entità che può esistere solo se esiste un oggetto non
percepibile a cui essa rinvia (a esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è9vuoto",
il moto può esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli epicurei erano
d'accordo con gli stoici nel rifiutare i segni comuni come basi inaffidabili di
inferenze, ma non concordavano sul fatto che ogni caso di segno proprio fosse
anche un caso (come sostenevano gli stoici) di segno stabili to per
contrapposizione, cioè stabilito aprioristicamente. Per essi era possibile
stabilire dei segni propri usando un criterio empirico, come è quello
dell'inconcepibilità.10 Se consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è un
uomo, allora anche Metrodoro è un uomo " ci troviamo di fronte a un segno
proprio costruito per ana- 8.3 SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia,
cioè sull'osservazione di una proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare
che Metrodoro non abbia esatta mente negli stessi termini. In altre parole si
può dire che, posto l'accordo tra le due scuole sulla validità dei soli segni
propri, gli stoici costituivano un oggetto come segno a par tire dal
conseguente (ovvero dal rinviato), mentre gli epicu rei lo costituivano a
partire dall'antecedente. È l'oggetto che compare nell'antecedente, infatti,
che nella semiotica epicurea viene associato a certe proprietà (costantemente
osservate) e diviene segno di un altro ogget to non percepibile a cui vengono
attribuite le proprietà del primo. Tuttavia, il primo oggetto X deve avere
almeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto deve avere almeno una di
queste: la proprietà comune diviene il segno della presenza della seconda
proprietà che può non essere perce pibile direttamente nel secondo oggetto. A
esempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt = "essere un
uomo" p2 = "non poter avere la ricrescita della testa, una volta
tagliata" sarà sufficiente che un altro individuo Xt abbia la proprietà Pt
perché gli si possa attribuire anche la proprietà p2. Le condizioni della
validità generale di questa inferenza sono due: (i) che l'associazione tra le
due proprietà nel pri mo membro dell'inferenza sia costante; (ii) che tale
associa zione non si stabilisca tra proprietà casuali. Come vedremo in
seguito, si tratta di scegliere delle proprietà che siano "es
senziali". Rimane da fare una considerazione generale sul tipo di segno
proposto dagli epicurei: esso sembra costantemente configurarsi come segno
iconico, in quanto, in termini peir ceani, rimanda al suo oggetto in virtù di
una somiglianza o per avere alcune proRrietà in comune con esso (Peirce 1980:
140; Eco 1973: 51). 1 188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4 Critica
stoica all'induzione epicurea Gli stoici non accettano la validità
dell'inferenza basata su un criterio induttivo, come proponevano gli epicurei.
A essa contrappongono inferenze segniche basate sostanzial mente su due tipi
di criterio: (i) la tautologia; (ii) la L-impli cazione. 12 Seguiamo lo
sviluppo dell'argomentazione degli stoici. Essi prendono come punto di partenza
una tipica in ferenza induttiva, o analogica, epicurea: "Se gli uomini
tra di noi sono mortali, allora tutti gli uomi ni lo sono''. Per gli stoici
l'inferenza cosi formulata è inaccettabile. Per acquisire validità, essa deve
essere riformulata secondo l'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato.
Vedia mo il criterio definito come tautologia. Gli stoici sostengo no che,
per rendere valida l'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere
necessaria la relazione tra i due mem bri, entrambe le proprietà prima
considerate devono essere contenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono
così di riformulare l'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini
tra di noi sono mortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli
tra di noi sotto tutti i ri spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono
eventualmente mor tali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere
tautologico dell'inferenza è sottolineato dagli stoici stessi, i quali
sostengono espressamente che "la con clusione appresa attraverso questo
segno non differisce dal segno a partire dal quale si trae l'inferenza
(smeioume tha)".14 Infatti viene assunta la premessa che entrambe le
serie di entità (cioè sia gli uomini che si trovano tra di noi, sia gli uomini
che sono in luoghi sconosciuti) hanno non so lo la proprietà comune di essere
"uomini", ma anche con temporaneamente quella di essere
"mortali". 8.5 RISPOSTA EPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE 189
L'assunzione nella premessa dello stesso carattere di "mortalità" che
dovrà essere anche oggetto di inferenza è, per gli stoici, condicio sine qua
non della necessità dell'infe renza. L'inferenza sarà valida, dunque, solo se
totalmente analitica o tautologica. Vediamo ora l'argomentazione stoica contro
l'induzione secondo il criterio definito L-implicazione. In questo secon do
caso gli stoici propongono di riformulare l'inferenza epi curea di partenza in
maniera tale che il carattere di "morta lità" da inferire sia
contenuto nella definizione stessa di "uomo". Per esprimere l'idea
che la parola luomol implicita semanticamente tutto un insieme di proprietà che
una defi nizione metterebbe in luce, essi introducono le espressioni hii
"in quanto" e kath6 "nella misura in cui". L'inferenza
riformulata secondo questo principio assume la forma se guente: Dal momento
che gli uomini tra di noi, in quanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono
uomini, sono mortali, anche in qual siasi altro luogo gli uomini sono
mortali.ts in cui la semplice espressione l uomo l è data come implici tante
la proprietà "mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che
l'attribuzione della proprietà di essere "mortale" a l uomo l , se
avviene in qualsiasi altro modo diverso da questo, come appunto fanno gli
epicurei, rende vana l'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore
dell'induzione La sostanza della replica epicurea è che il sistema stoico, per
quanto appaia analitico e a priori, tuttavia poggia in ul tima analisi su una
base induttiva. In realtà, secondo gli epicurei, la necessità della relazione
inferenziale è costruita sull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa
del fatto di non vedere mai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la
presenza del vuoto, che noi arriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il
moto segno del vuoto.16 Cosi è 190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base
empirica che viene stabilito il sistema di necessità lo gica a priori alla
quale fanno ricorso gli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria
tra due termini, espressa at traverso il test della contrapposizione, può
essere verificata solo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun
zione tra di essi. Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405),
"le ipotesi sul livello logico e teoretico sono formulate sulla base di
informazioni intorno alla connessione di termini da ti dali'osservazione
deli'esperienza dei sensi. La validità di queste ipotesi, di conseguenza,
dipende dalla loro corri spondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel
compren dere tali fatti, come pure dalla loro interna coerenza o com
patibilità dell'uno con l'altra". Se questa è la sostanza della replica
epicurea alle critiche stoiche sull'induzione, vale però anche la pena di
analizzare la risposta specifica17 alla seconda critica stoica. Infatti, in
relazione alla L-implicazione, gli epicurei, ribaltando l'ar gomento stoico,
sollevano una questione interessante: la de finizione di uomo in quanto
mortale è non il punto di par tenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di
arrivo di ri petute inferenze induttive. In altre parole, si costruisce la
definizione di uomo in quanto tale, come comprendente an che la proprietà di
essere "mortale" in conseguenza di due serie di informazioni: (i) le
informazioni che ci fornisce la storia sulle vite degli uomini che ci hanno
preceduti; (ii) le informazioni che ci derivano dali'esperienza diretta dei no
stri contemporanei. Così gli epicurei pongono l'equivalenza tra la proposizione:
(a) "Gli uomini , in quanto uomini , sono mortali " (che è la formula
suggerita dagli stoici, e che indica dedutti visticamente il fatto che nella
nozione di "uomo" vi è com presa la proprietà "mortale"),
e la proposizione: (b) "Gli uomini con questa proprietà (di essere
mortali) sono uomini"18 8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 191
che è la formula epicurea, la quale suggerisce in qual modo venga costruita la
definizione. In sostanza, gli epicurei sem brano sostenere che la definizione
di "uomo" viene costrui ta mediante un'accumulazione di proprietà
che sono rileva te mediante un metodo analogico in entità che sono9deno
minate in un certo modo, in questo caso, luominil.1 8.6 Proprietà essenziali e
proprietà accidentali Un altro interessante problema che emerge nella disputa
tra stoici ed epicurei è quello della distinzione tra proprietà primarie e
proprietà secondarie. Questa distinzione risale a Democrito, che è stato il
primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non è affatto banale e ancora
oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre a un'analoga distinzione. Gli
epicurei affrontano l'argomento per rispondere a una critica stoica che attacca
il metodo dell'analogia mostrando il rischio che si corre neli'applicarla a
proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizione o generalità. Infatti, so
stengono gli stoici, allo stesso modo in cui viene universaliz zata la
concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" e la proprietà
"mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per la concomitanza
osservata tra "uomo" e "di breve vita": il ri schio è che,
così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà anche agli abitanti
del monte Athos, che nell'anti chità erano proverbialmente considerati
longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sono spinti a
elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioè peculiari a
certi individui) e proprietà che sono costan ti (cioè rintracciabili in ogni
individuo). L'inferenza corret ta sarà quella che parte dalle proprietà
costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenza di proprietà va
riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogi ca, la
rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe riscono moltissimo
rispetto alla lunghezza della vita (essen do alcuni di breve vita e altri
longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza della
variazione, fare cor rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini di
ecce- 192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sono
appunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei ad
andare ancora più a fon do su questa strada è l'attacco stoico a proposito di
inferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. La
provocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel la metafisica
epicurea, hanno la proprietà di essere "incolo ri" e
"indistruttibili"; però essi hanno anche la proprietà di essere
"corpi", a cui, nell'esperienza, sono associate le pro prietà
opposte (cioè "colorati" e "distruttibili"). Queste so no
le due inferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do vrebbero fare,
applicando correttamente il metodo analo gico: (l) "Dal momento che tutti
i corpi della nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi,
anche gli atomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi
nella nostra esperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli
atomi devono essere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto
interessante, per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la
necessità di fare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si
applica, e proprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce
selettivamente sulle proprietà e non in modo ca suale.23 In secondo luogo, la
replica epicurea è interessante per ché modula la precedente distinzione in
termini teoricamen te più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che
possiamo definire essenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei parlano
di certe proprietà che i corpi hanno pro prio "in quanto corpi" (hei
somata), che essi mantengono in ogni occasione: prima fra tutte la proprietà di
"opporre resistenza al tocco". Questa è dunque una proprietà essen
ziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono strettamen te legate alla
natura dei corpi e che possono variare a secon da delle condizioni: si tratta
di proprietà accidentali, che i 8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI
193 corpi hanno "in quanto partecipano di una natura opposta a quella
corporea e non resistente",24 come a esempio la di struttibilità o il
colore, il quale ultimo è tanto accidentale che scompare nelle condizioni di
buio. Possiamo schematizzare queste due serie di proprietà at traverso una
tabella: proprietè entitè corpi A B proprietè accidentali (in
quanto partecipano di una nature opposta) ..distruttibilitè• ·colore• (in
quanto tali) ·resistenze al tocco· proprietè essenziali Gli epicurei
precisano molto chiaramente che le inferenze induttive generalizzanti non
dovranno partire dalle proprie tà della colonna B; ma niente impedirà di fare
inferenze ge neralizzanti, con il metodo dell'analogia, partendo dalle
proprietà della colonna A.25 A conferma di questo schema si può riportare
l'esempio del "fuoco'',26 per il quale, accanto alla proprietà essenziale
di bruciare, viene elencata una serie di proprietà variabili peculiari ai vari
tipi: 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà essenziali proprietà
accidentali (koin6ttes) (idi6ttes) ·di lunga o corta durata• ·non tutte le
sostanze sono bruciate nello stesso modo· ·facili o difficili da spegnere ·
·duri o teneri· •di colore variabile a seconda del combustibile· Nella sezione
di Bromio27 viene anche prevista una specie di topica per individuare la
ripartizione delle proprietà: in fatti, ai fini della correttezza delle
inferenze, le proprietà es.. senziali (o comuni, koin6ttes) e quelle
accidentali (o pecu liari, idiOttes) devono essere analizzate nei vari campi o
ca tegorie che sono di pertinenza di un oggetto: nelle sostanze, nei poteri,
nelle qualità, negli attributi, nelle disposizioni, nelle quantità, nei numeri.
Lo scopo di questa topica appare essere quello di giustifi care inferenze
universalizzanti ali'interno di categorie omo genee: infatti, a esempio, pur
essendoci un'infinita varietà di esseri umani e di cibi che li nutrono, se si
considera il fie no rispetto alla categoria dei "poteri", si troverà
che esso ha due proprietà costanti: "di non nutrire gli esseri umani"
e "di non essere digerito da essi".28 Perciò, al di là delle diverse
caratteristiche che questo og getto potrà presentare (diversi colori, diversa
consistenza, diverso grado di maturazione ecc.), potremo fare con sicu rezza
l'inferenza che da nessuna parte si troverà del fieno che abbia la proprietà di
nutrire gli uomini e di essere da lo ro digerito. Ma che cosa sono
propriamente per gli epicurei quelle proprietà degli oggetti ''in quanto
tali", che abbiamo defini to proprietà essenziali? Dai precedenti esempi
(e da altri analoghi) appare chiaramente che esse sono , per loro , le
------------------- 194 propnettt r entità ! fuochi 8.6
PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 195 proprietà definitorie di un oggetto,
cioè quelle che concor rono alla sua definizione essenziale. Abbiamo visto che
per gli stoici una definizione viene co struita analiticamente, attraverso una
ricognizione delle proprietà implicite nella nozione da definire: un individuo,
in quanto è uomo, ha la proprietà di essere mortale. Per gli epicurei le cose
vanno nel senso opposto. La defi nizione di una nozione viene costruita per
accumulo delle proprietà comuni a certi individui. Di conseguenza, tra le
proprietà comuni (o essenziali) rilevate empiricamente e le proprietà che fanno
parte della definizione, non c'è diffe renza. Lo dimostra anche l'uso della
particella hi ("in quanto") che viene utilizzata (come vedremo meglio
più avanti) nelle espressioni definitorie. Rimane aperto il pro blema se sia
possibile costruire empiricamente una defini zione annotando le proprietà
comuni a una classe di ogget ti, o se il processo non sia in qualche maniera
viziato (alme no in parte) proprio dalla preliminare esistenza di definizio
ni che rimandano alla lingua come struttura globale interde finita e/o
storicamente stratificata. Questa seconda ipotesi sembra in parte prospettarsi
con la definizione di l uomo l . Per gli epicurei, infatti, la pro prietà
"mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es senziale o definitoria
di l uomo l . Si deve però notare che es sa fa parte della definizione di l
uomo l già in una lunga tra dizione che risale per lo meno ad Aristotele.
Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale mortale provvisto di
ragione" (Top. , V, l , 128 b, 35-36). Gli stoici poi lo defi nivano come
"animale razionale mortale" (Epictetus, Diss. II, 9, 2). La
tradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale provvisto di
sapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È probabile,
dunque, che definizioni di questo genere co stituissero un'implicita guida
nella stessa ricognizione empi rica delle proprietà comuni a una serie di
oggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di un'inferenza al non
perce pibile . 196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7 Modalità di
inerenza delle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato di Filodemo
si parla di proprietà co muni o essenziali, queste vengono congiunte al
soggetto me diante le particelle héi, kath6, par6, che equivalgono nel si
gnificato alle espressioni italiane "in quanto", ''nella misura in
cui". Esse vengono a indicare una condizione restrittiva nell'inferenza al
non percepibile, come abbiamo visto nel l'esempio della natura degli atomi
come "corpi in quanto tali", o degli uomini come mortali "nella
misura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio sono elencate
quattro accezioni fondamentali di queste particelle, che rimandano a quattro
modi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo la prima accezione,
le proprietà possono es sere viste come conseguenze necessarie (ex ananks
synépe tar): come esempio di conseguenza necessaria del fatto di essere
uomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere soggetti alla
malattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra individuare un
tipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono chiamate fat
tuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii) Nella seconda
accezione, le proprietà sono individua te come essenziali alla definizione o
alla concezione fonda mentale (prolessi)33 di un certo oggetto. Questo si
verifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto corpi,
hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è un
animale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo equativo:
l'estensione del primo termi ne viene a coincidere con quella del secondo. Nel
caso del l'esempio di l uomo l , l'equivalenza definizionale viene data in
termini di genere ("animale"), più differenza specifica
("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sono
vi ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e sempio:
"L'uomo nella misura in cui è uomo, muore".34 8.8 CONCLUSIONI
197 L'autore sembra individuare qui delle proprietà che nelle teorie
contemporanee sono state definite semantiche, anali tiche o proprietà secondo
il modo E : "uomo,, infatti, è in cluso nella classe più vasta di
"mortale". Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica
a comporre il seme ma corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione
della quarta accezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita
dagli esempi che il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è
folle, è massimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui è
affilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli di, sono
indistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade verso
il basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietà
che implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece la
conget tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempi
farebbero pensare al rapporto se miotico della connotazione, inteso come
significato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato da
un codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie tà
ineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, sia
secondo quella della semiotica contempora nea (cfr. p. 198). 8.8 Conclusioni
Se gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im palcatura logica,
gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie di
specificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta ed
effettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di
proprietà, i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol tre a questi
temi gli epicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui
i fenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, come
condizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza di
proprietà che variano da individuo a individuo, ma negano 198 8. IL «DE
SIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea Marquand
conseguenza 1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione o
proprietè fattuali o sintetiche essenziale (protessi ) proprietà
equivalenti al soggetto 3. concomitanza proprietà semantiche o
analitiche 4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che nei
fenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunque
superi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così non
si potrà infe rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tanto
resistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o che
passino attraverso le pareti, come quelli co nosciuti passano attraverso
l'aria. La giustificazione di que sto fatto viene data dal metodo
deli'inconcepibilità: "è in concepibile che ci sia un ogetto che non
abbia niente in co mune con ciò che appare". 5 Nel De signis vengono
anche affrontati i problemi con nessi ai vari tipi di inferenza: da classe a
classe; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti questi
problemi so no collegati a un tema che è costante nella semiotica epicu-
8.8 CONCLUSIONI 199 rea: quello delle garanzie di validità di
un'inferenza. A esempio, un'inferenza scorretta è quella che porta a concludere
che tutti gli uomini sono bianchi, partendo dal l'osservazione che gli uomini
greci lo sono, o che, al contra rio, porta a concludere che tutti gli uomini
sono neri, par tendo dali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In effetti,
simili inferenze sono errate perché non sono frutto di "una accurata
supervisione di tutti i casi percepibili".36 Ciò che, dal punto di vista
logico, avviene in casi di questo genere è che si tenta di applicare ali'intera
classe o genere (quello de gli "uomini") una proprietà che di volta
in volta è caratteri stica di una sottoclasse o specie (quella dei
"Greci" o, ri spettivamente, quella degli "Etiopi"). In
effetti, per garantire il massimo di sicurezza, gli epicu rei pongono alla
base del loro metodo per costruire inferen ze una teoria della progressiva
inclusione semantica tra in dividui, specie e generi, cioè una teoria delle
classi. È infatti legittimo fare inferenze tra membri (classi o in dividui
particolari) i quali si situino a un livello analogo o che siano il più
possibile vicini e simili. Naturalmente que sto non significa che l'inferenza
debba essere fatta esclusi vamente tra membri che si situano esattamente allo
stesso livello, altrimenti l'induzione perderebbe molta della sua forza, ma
nella maggior parte dei casi viene previsto un mo vimento ascendente di
generalizzazione.37 Una teoria delle classi è implicita anche nella trattazione
epicurea dei casi unici, elaborata ancora una volta in rispo sta a una critica
stoica. In effetti gli stoici avevano tentato di attaccare il metodo
deli'analogia ricorrendo ali'argomen to deli'esistenza in natura di casi
unici, che non presentano analogia con alcun altro fenomeno: a esempio, in
mezzo al la stragrande quantità di pietre che esistono nella nostra
esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace di atti rare il ferro;
ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at tirare la paglia; infine, non
c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha il perimetro e l'area espressi
dallo stesso nu mero.38 Secondo gli epicurei, però, le critiche degli stoici,
invece di inficiare l'inferenza analogica, in realtà la rafforzano. 200
8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrare questo, gli epicurei ricorrono al
metodo di ridurre ad altrettante classi gli oggetti unici. Così, essi dico no,
se alcuni magneti attirassero il ferro e altri no, l'inferen za per analogia
sarebbe inficiata; ma poiché così non avvie ne, è possibile inferire le
proprietà degli altri magneti a par tire dal magnete che cade sotto la nostra
percezione.39 Molti ancora sarebbero i punti particolari da prendere in
considerazione, per mostrare il modo con cui gli epicurei tentano di
dettagliare la teoria del segno. Ma quello che in definitiva caratterizza la
semiotica epi curea è il suo richiamo a un completo programma empirista (che
era condiviso, tra l'altro, anche dai medici empirici). Tale programma
comprende tre tappe fondamentali: (i) os servazione; (ii) storia; (iii)
inferenza da simile a simile. I pri mi due momenti del programma permettono di
individuare le "proprietà essenziali", e quindi di passare al terzo
mo mento, che è quello della ricostruzione del processo semioti co vero e
proprio. Nei primi due momenti, infatti, vengono suggerite delle condizioni sui
fenomeni da osservare per ottenere le pro prietà costanti: essi devono essere
"molti", devono essere diversi tra di loro (''vari") e,
contemporaneamente, devono essere "omogenei".40 Il terzo momento,
infine, combina le proprietà deli'enciclopedia semantica con le leggi della
logi ca (che per gli epicurei sono quelle della logica delle classi). In
questo compromesso, appunto, tra i concreti suggeri menti in vista della
produttività empirica e il tentativo di mantenere il massimo rigore formale
deve essere individua ta l'originalità della proposta epicurea. 9.
RETORICA LATINA 9.0 Introduzione L'interesse per la problematica semiotica nel
mondo ro mano fa parte di quel processo di costante e progressiva ac
quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III secolo a.C. Ma,
nel passaggio dal mondo greco a quello ro mano, il paradigma semiotico
abbandona il campo della fi losofia in senso stretto, per installarsi, in
maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la conoscenza
attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole postaristoteliche, il
modello stesso della conoscenza in generale e, a partire dagli stoici, aveva
trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica, una delle branche più
astratte della filosofia, in quanto sotto partizione della stessa logica.
Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente orientati in direzione
pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del paradigma se miotico,
ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più congeniali, del dibattito
politico e giudiziario, dibattito de stinato a essere condotto con gli
strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi conto, nel modo più
chiaro, del cambiamen to di prospettiva, basta mettere a confronto
l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardi della retori
ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo importante
trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei segni; ma,
come era già avve- 202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi analitici, aveva
tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella dei tipi di
sillogismo. Cosi fa cendo, aveva indicato un percorso ben preciso: la logica
stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de vono rimanere un
punto di riferimento anche quando l'inte resse si sposta, come nel caso della
retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni referenziali
a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatistica retorica roma
na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori ca non occupa
più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è
la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è
quello di contri buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo
quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del De
oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia ramente l'opinione di Cicerone
circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene
detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma
non di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il
"corona mento" della filosofia, dalla quale non può essere
dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec nica
capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen siero già formato. Come
mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone
agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si
parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente
bene se non quando si parla ve ramente bene. Tuttavia la retorica,
indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra
che essa è organiz zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di
di scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del l'assemblea
(politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo
riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono
essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri
cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che 9.l LA
«RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti
in forma or nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita zione
del discorso: gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca
nel cuore della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove
che convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato.
Le prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e
si inseriscono nel pro gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo
dei due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro gramma è il
commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio
o sulla sua forza proba toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia,
come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare
l'espressione "prova" per indicare le probationes (pf steis)
retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno tazione scientifica la
cui assenza appunto definisce le "pro ve" retoriche. Tuttavia, un
merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di
dare una classifi cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza
argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni
autore ha assolto in ma niera particolare, proponendo una classificazione che
non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi
paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li nee secondo le quali i tre
grandi autori della trattatistica re torica romana, cioè Cornificio (autore
della Rhetorica ad Herennium) , Cicerone e Quintiliano , ricostruiscono nelle
rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia scuno secondo
diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una
documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati
del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium , attribuita un tempo a
Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi
asse gnata a Cornificio (Calboli: 1969). 204 9. RETORICA LATINA La
problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della
constitutio coniecturalis dove, per verifica re se sia stata commessa o no una
determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col
pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret tamente a cui i segni
devono rimandare non è il fatto o rea to, che è ovviamente noto, ma l'agente
responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un
certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed
è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi
reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla
spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma
insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del
fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la
verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione
nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può
scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La
retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una
fiducia incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo
e l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti
pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura le in sei parti,
sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità),
conlatio (confronto), signum (pro cedimento indiziario), argumentum (segno),
consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). 9. 1 . 1 La probabilità
Troviamo qui una terminologia in parte familiare, in quanto probabile può
essere considerata la trasposizione la tina di eik6s, e signum quella di
smefon, per limitarci solo a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni
latine so- 9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi
dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò
attraverso cui si dimostra che era utile commettere il crimine e che l'imputato
non si è mai astenuto da comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi
nizione nella quale non rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la
nozione di probabile è connessa alla caratteriz zazione psicologica
dell'individuo in questione (''Se [l'accu satore] dirà che ha agito per
denaro, mostri che egli è sem pre stato avaro, se per una carica, ambizioso;
così potrà far combaciare il difetto congenito con il motivo del crimine",
Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua ulteriore suddivisione in causa e
vita, oscilla tra la nozione di "movente" e quella di
"precedenti". 9.1.2 Il procedimento indiziario La nozione di signum
viene definita da Cornificio come "ciò che serve a mostrare come è stata
cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione (del crimine)" (II, 6). Non
ritro viamo nemmeno qui la nozione greca di smeion. Piuttosto il signum
costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia ri, di pertinenza
dell'investigatore, che permettono di rico struire il fatto scomponendolo,
come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine separata: sul
luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di por tare a
esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il segno Una
nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la sua
definizione non è ancora molto elo quente ("Argumentum è ciò attraverso
cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e con un so
spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci tolgono ogni
dubbio che si tratti del segno come singolo fe nomeno percepibile, che rimanda
a un fatto non conoscibile 206 9. RETORICA LATINA direttamente; la sua
struttura è quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico:
"Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza,
significa che è stato uc ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova
del sangue sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit to,
significa che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum
viene suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità,
con temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente
del segno; classificazione, questa, che risale al la retorica prearistotelica
(si trova a esempio nella Rhetori ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e
giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili
Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli (1969: 232)
mette in relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice
Cornificio, dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e
gli innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è
giunti a interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab bia titubato,
sia caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa,
che sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle
reazioni fisi che non controllabili, dei segni involontari che possono ve
nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo
(come il senso di colpa). Questi se gni, per quanto non siano facilmente
dissimulabili, sono pe rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti
l'avvoca to difensore può intervenire sulla loro presenza sostenendo che
l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del pe ricolo e non per la
coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac cusatore può intervenire
sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato aveva a tal
punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza, ragione che rende
l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno cenza"
(ibidem). probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem
alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l argumentum
consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207
9. 1 .5 La classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il
procedimento indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico
gioca su vari li velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della
premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il
probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più
di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii)
in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli
ar gumenta: essi mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii)
in terzo luogo c'è quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che
si traggono dal comportamen to dell'imputato osservato in un momento diverso e
succes sivo rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare
complessivamente la classificazione della materia congetturale effettuata da
Cornificio con il se guente schema (Curcio 1900): - locus - tempus -
spatium - consequens Se messa a paragone con quella della Retorica
aristoteli ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno
coerente e non saldamente fondata. Tuttavia, con temporaneamente, appare molto
più aderente alla materia instans conscientiae - signe confidentiae -
signa innocentiae 208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad
applicarsi e non priva di una logica inter na nel suo seguire i segni
deli'imputato in un percorso che parte dal momento precedente il crimine e
culmina nel pro cesso . Cornificio discute anche della forza argomentativa dei
se gni, quando propone di organizzare in una struttura logica gli argomenti
trovati. E, a questo proposito, nota che ci so no dei segni che non
garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver partorito, poiché
porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal momento che è
pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di
segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono
sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una
quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li
rifiu ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in
gran numero ("se però vi si aggiungono an che tutti gli altri, tali segni
hanno un certo peso per accre scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone
Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti
della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere
che parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di
questo ambi to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so cio-politico, volta a definire la figura
deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo
di 9.2 CICERONE 209 competenza che rimane implicito sullo sfondo e
affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima
persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi,
il De inventione, le Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse
tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio ne e
di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com pongono l'apparato
tecnico della retorica. Un limite di que ste opere, in generale, è
rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che
raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel De inventione, e che spesso non
trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di
queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la
ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De
inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con densa
l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi
naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni aspetti della
concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è
presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an tecedente
che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione
verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il balbettare
dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare la classica
divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi
noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto
con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni
proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap
pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar gomentazione),
cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per
confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa
che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera
210 9. RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in .
un mo do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se
non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa
definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato
trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a
qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra
una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e un'inferenza
necessaria (necessarie demon strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non
necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo
necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vato diversamente da come
viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con
un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è
luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi
di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re lazione
inscindibile (cum priore necessario posterius cohae rere videtur, De inv., l.
86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini to:
"Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla
comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia
esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone
mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello
doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente
all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che
Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio",
"Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In
essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che per Aristotele
definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio,
"Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio" (De inv. , 9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello
stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La
categoria di signum, poi, compare come una sottopar tizione dei segni non
necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum (giudicato) e al
comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in
base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il
signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan za particolare:
"Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no stri sensi e indica
(significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto stesso, e che può
essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e
tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. ,
I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la
fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi,
intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo
lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio nale; ma niente vieta
che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra il caso deli'indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la
nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare
la classificazione propo sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2
"Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della
tarda matu rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia
semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato
giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei
modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi
(qui chiamati 212 9. RETORICA LATINA argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori
élut quod in opi nione positum est") es.: .. "pallore'",
..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di
un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac
discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è
stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig
nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"',
Sa è madre, ama suo fi\]lio --- ---
- l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine
viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi estrinseci"
(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi
intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che
veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei
Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino
posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli
oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici,
interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una
concezione orda lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut
tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorio
all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. 9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in
ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L
,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva:
"Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete
udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai
segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il
verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli
argomenti intrin seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di
cau sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di
segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni
caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che
accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è
incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri
sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili stico e
generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non
si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co me il fumo indica il
fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi dentemente, del segno necessario,
come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che
riman da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari stotele il
segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad
esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio
(An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva
carat tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se
non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli
indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali
214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di
sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor so
contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le
confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratte ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione
con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile)
(Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma
non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli
ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate goria dei semefa
aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo
delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i
vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,
cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva
appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava
i smefa da un punto di vista episte mologico per la loro insicurezza, Cicerone
è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero
(coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione
cicero niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla
divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina zione.
Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla
conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo
luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente
mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o trt•)
(·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza
inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l -----
verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt
certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche
corrisponde la distinzione tra di vinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione naturale. Infine, come
Cicerone pole micamente rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione
sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo sta, proprio come
avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto
due interpretazioni di verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i
metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei
confronti della di vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di
intellet tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi
losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora neamente impegnato in
politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e
superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione
appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti
dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la
superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che
inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta,
anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo
impegno di gestione della repubblica. 216 9. RETORICA LATINA Cicerone
affronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto,
nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra
l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi
sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le
osservazioni di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sono
particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a
un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una
concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale"
Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon te dell'informazione
e come emittenti nei processi di comu nicazione divinatoria, dei quali gli
uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione,
il pro cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è
costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è
legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata
a specia listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle
viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter preti dei fatti prodigiosi
e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi
(interpreti delle stelle), in terpretes sortium (interpreti delle combinazioni
di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione
l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una
sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un
contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di
questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i
fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se ed effetti, senza
soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos
divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per intero da parte
degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De
div., I, 125-127). 9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista l'esistenza
di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una
gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre
quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso
l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si ripetono e, pur
non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne
gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem).
Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con nessioni passate, si
crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività. Si può schematizzare
così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato
sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo
di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque
tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione
divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte
di questo tipo le forme di preveggenza derivan ti da invasamento profetico,
cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico
·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri
patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div. , II,
100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una
volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che
la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo
del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una
parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento
futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i
segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi
nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale,
mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia
veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come
se gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come
degli antecedenti rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto
a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le
tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la
tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In
entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi;
ma, mentre le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia
che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).
9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la
divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di
uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83); (ii) si
verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente,
per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio
so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione
avviene a posteriori e così toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente
e conseguente (De div. , II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è
motivata da ra gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De
div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del
regime politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re torica
divenisse inutilizzabile come mezzo di agitazione po litica e sociale: per
questo, da strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita
Cicerone, era divenuta so prattutto materia teorica. In questo quadro
Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte retorica nella maniera
migliore e più completa di chiunque altro e contemporanea mente registra il
processo di cadaverizzazione che l'elo quenza stava subendo. Nella sua
Institutio oratoria (ca. 93-95 d.C.) tratta un programma completo del ciclo
educativo del perfetto orato re, in cui la competenza semiotica ha una
posizione di rilie vo. Gran parte degli elementi che compongono l'opera di
Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio tica; ma nella
lnstitutio è presente anche una sezione speci ficamente dedicata ai segni,
come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica. Vaie anche nel caso
di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli altri trattatisti di
retorica, e cioè che la ri flessione sul segno è saldamente inquadrata
all'interno del l'ottica giuridica con cui viene trattata la materia. I segni
in fatti fanno parte delle probationes artificiales, cioè delle 220 9.
RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars) dell'oratore saprà trovare per far
assolvere o condannare un imputato. D'altro canto, le pro bationes
inartificiales sono quegli elementi che derivano dali'esterno del processo e
vengono consegnati ali'oratore insieme al suo dossier. Il seguente schema ne
mostra l'inventario completo: 9.3. 1 Orientamento della retorica di Quintiliano
probstiones (prove) i n a rt i f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi)
rumores (voce pubblica) tormenta , quaesita ( inter rogatorio sotto tortura)
tabulae (scritture, atti, contratti ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia
(testimonianze) a rt i f i c i s l e s formale Va pure detto che la
retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento giuridico, ne presenta anche
uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la materia il più possibile in
termini logici e formali (anche se è stato rilevato che Quinti liano non si
trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy 1969). Così tutti e tre i
tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono inquadrati in un
reticolo di relazioni lo giche vicine al genere deli'implicazione, ovvero del
rappor to "se p, allora q". Infatti il meccanismo di avvaloramento
signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di ragionamento) exemplum
(esempio) ed epistemologico 9.3 QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere
una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il
concludere dalPesse re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È
giorno, dun que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa
che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno");
(iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q)
(''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non essere
qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi
non è un uomo") (lnst. or. , V, 8, 7). Analizzati ali'interno di questa
griglia, i segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei
conse guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di
rendere esplicita, in quanto attinta direttamen te dalla tradizione della
retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti
anche molti esem pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito,
si è unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i
trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento,
Quintilia no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di
calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi bilità di
acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo
proposito: "Aristotele, inte ressato ad argomentazioni che in qualche
modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva
distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se gni deboli. Gli
stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il
problema. Sarà Quintiliano, inte ressato alle reazioni di un'udienza forense,
a cercare di giu stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica,
ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua sivo' ". A
proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia no fa una precisazione
preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in
quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco
gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre,
se esi rimandano a un significato inequi- 222 9. RETORICA LATINA
vocabile, scompare la possibilità di argomentazione; se, in vece, essi sono
ambigui, non sono delle prove ma necessita no essi stessi di prove (lnst. or.,
V, 9, l). Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut to in
necessari e non necessari. 9 . 3 . 2 I segni necessari l signa necessaria sono
quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non possunt"
(lnst. or. , V, 9, 3), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera
necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekmria
della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta smefa), ovvero
legati inscindibilmente ai conseguen ti. L'informazione che se ne ricava è
sicura e incontroverti bile . La furia classificatoria, tipica del mondo antico,
porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in base al
fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato ("Se
una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente (''Se
soffia un forte vento sul ma re, si formano su di esso le onde"), nel
futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9,
5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti po di
classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono relazioni
segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la relazione di
necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se respira, allora
vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è
possibile, come in "Se cammina, si muove", "Se ha partori to,
si è unita con un uomo", "Se è ferito al cuore, morirà",
"Se si è raccolta la messe, si è seminato", "Se è stato ferito
dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or. , V, 9, 7). Quintilia no sembra
sollevare qui il problema della "conversazione" (antistréphein), che
per Aristotele (An. Pr. , 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè
dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa". 9. 3 QUINTllANO
9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette
in corri spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei
fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40),
potendo essere altrettanto convincen ti di un segno necessario, dipendono dai
codici e dalle sce neggiature che una certa comunità registra come
"buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al
l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con seguente:
firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se
sono genitori, amano i propri fi gli"; propensius (molto probabile), come
"Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno
successivo"; non re pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante
con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è
stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un
grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos
sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in gran
numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or. , V, 9, 8), poiché ricostruiscono una
tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali
Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or., V, 9, 8) Quintiliano parla del
signum senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e
vestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga
considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece denti (segni
necessari e verisimiglianze), come del resto av veniva nella fonte
aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda
ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa
Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione
vestigium e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire
l'uccisione, spinge a stabilire un paral- 224 9. RETORICA LATINA lelo con
i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice roniane, dove compariva
lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria
degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I
l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso
cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9),
sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che
parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria
(quella dci signa non necessa ria == eik6ta) venivano classificati fatti o
proprictfi che forni vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile
dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente
sicuro che arriverà a domani); nella cate goria dei signa sono classificati
fatti che sono insicuri per ché ambigui (una macchia di sangue su una veste
può ri mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare
del sangue di una vitti1na durante un sacrifi cio). La classificazione,
allora, dovrebbe essere così formu lata: necessaria relazione necessaria tra
a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita
con un uomo· l ------- signa non necssaria verisimiglianze non
conva!idabili scienti ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà
fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se
macchia di sangue, allora omi cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega
anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di
verisimiglianza (e non si gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora
e che 9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma
non necessari, Er magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché
vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti liano ha una
certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto
deboli come elementi pro banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo
come se gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si
traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano
allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la
condizione tipica della semiotica giuridi ca, in perenne dialettica tra la
forza oggettivamente proba toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di
fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica
semiotica generale, non c'è al cun problema a considerare come segni
"tutte le conseguen ze che si traggono da un fatto". Le proprietà
che l'enciclo pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono
tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno
poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella
forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono
i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un
poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente
intuito dalla retori ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da
Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer
tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura
li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco mandando, nel
secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a
vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin guaggio
Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa
saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una
altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di
lin guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande
importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte
dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il
trattato giovanile De dialectica (387 d.C.): in esso sono riassunti molti dei
principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi pio che la
conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra verso segni (Simone 1969:
95). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia na da quella
stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco gliendo e formalizzando una
lunga tradizione di origine so prattutto medica e mantica, consideravano
propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il
fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri ta. Agostino, invece,
per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni
non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc.,
ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene rale
segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le
parole", De Magistro, 4.9). 10. 1 STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In
secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e nunciato il punto di
congiunzione tra il significante (semaf non) e il significato (semain6menon),
elemento che comun que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve
ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum
(''parola"), l'elemento in cui significante e signifi cato si fondono, e
considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver
sufficientemente assoda to che le parole [verba] non sono nient'altro che
segni [si gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si
gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare
che cosa significhino le singole paro le", De Mag., 7.19). In terzo
luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due
caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna
sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria
del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si gnificati si
trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore)
(Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72). 10.1 n triangolo semiotico e la
stratificazione ter minologie& È del resto con l'analisi della nozione
stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa
nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche.
Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere
in corrispondenza con i moderni con cetti di significato, significante e
referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus)
della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene
pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal
punto di vista della trasposizio ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito
come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo
luo- 228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita
come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op
pure che sfugge alla percezione (De dialect. , cap. V). È così possibile
ricostruire il triangolo semiotico nei se guenti termini: dicibile vox
articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista
del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi cazione.
Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi sione terminologica in
corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i)
può infatti avve nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente
(fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione
metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire
che la parola, intesa co me combinazione del significante e del significato,
abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso
denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È
precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva to Baratin ( 198 1 ),
costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella
del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di
léxis (si gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por tatore
di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui stici antichi.
10.2 RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis;
ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli stoici, bensì quello
che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che
definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato
costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà strada tra le
lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al tra. Questa sua
particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di
un significato (in contrappo sizione alle lettere e alle sillabe che non lo
posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen so
completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e nunciato
alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima
assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti solo all'enunciato. In
particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la
parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per
ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore".
E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in
quanto tale alla percezione sensi bile, presenta anche qualche cosa alla
percezione intellet tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di
equivalenza e relazione di im plicazione Ponendo l'accento sulla parola,
anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e
cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad
avere una concezione semiotica del linguag gio; per Platone, infatti, il nome
era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero
dell'es senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il
rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe raltro con la soluzione
che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come
una rela zione di significazione: il nomt "significa" una cosa
(nozio- 230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno
di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della
parola come segno, si producono alcune modificazio ni teoriche, conseguenti
allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche
precedenti a quella di Agosti no il rapporto tra le espressioni linguistiche e
i loro conte nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La
ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri guardava la
possibilità di lavorare direttamente sul linguag gio, in sostituzione degli
oggetti della realtà, dato che il lin guaggio veniva concepito come un sistema
di rappresenta zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario,
il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin via era stato concepito come una
relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso
fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha
suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e
quella linguistica possono essere illustra ti da uno schema in cui il livello
implicazionale si regge su quello equazionale: onIE=>c
__________________ m_E:! c dove E indica "espressione", C
"contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente
a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello
della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso
mai la dic tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u
nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile
(significato), unità che diviene segno di qualcos'al tro (livello ii).
10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI 231 10.3 Conseguenze dell'unificazione
delle prospet tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co me
sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro varsi a disagio
all'interno del quadro implicativo. Essa in fatti costituisce un sistema
troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata
per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano,
a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma na. Infatti
l'implicazione semiotica era aperta alla possibili tà di percorrere l'intero
continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del
resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere
peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere
un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun que altro
sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della
lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e
che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui
stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec cellenza. Ma
quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto
culminante, si è ormai venuto a per dere il carattere implicativo, e il segno
linguistico si è cri stallizzato nella forma degradata del modello
dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito
come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante
conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione
della dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto ché
il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito nei termini
dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile della
conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di
segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra
implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse
sono segno. Tutta la grande tradizione sernio- 232 10. AGOSTINO tica, del
resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza
ulteriori mediazioni, alla conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il
problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione
rispetto alla questione se il linguag gio fornisca o meno , di per se stesso ,
informazioni sulle co se che significa. 10.4 Linguaggio e informazione
Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici
nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il
figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio:
(i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo rare), sia
propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente informative
e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del
destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del
dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella
informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le
parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza
che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del
dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua
prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in sieme
di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: (i) il primo caso è
quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che
si rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno 10.5
COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE 233 in questa evenienza si potrà parlare di
un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag. , 10.33). Alla fine Agostino
conclude invertendo il rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo
che è necessario co noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter
dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa
sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente
platonica, e a es sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual
mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente
della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è
necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma
se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci
permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle
cose puramente intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino
individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla
rive lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia
tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con
questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio
è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno
rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi
mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci
spingono a cercare (De Mag. , 1 1 . 36) . 10.5 Espressione e comunicazione del
verbo inte riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per
uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove
problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema
dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella
profondità dell'ani mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli
uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter 234 10.
AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che
si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte
Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non
appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un
segno quan do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio ne dei
destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una
parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso;
dall'altra esso è determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli
oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a
Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si
trovano qui gli embrioni del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà
nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia
rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia na, che è
individuabile anche nello schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42):
oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore -
esteriore - esteriore pensato proferito sa pere 10.6 Le
classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2),
che se la semiologia agostiniana presenta un aspet to "teologico",
connesso al problema del verbo divino, tut tavia possiede anche un ben
individuato e autonomo aspet to laico, che prende in considerazione i
caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto
le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto
nel trattato De doctrina Christiana (397 d.C., l . 2. 3. 4. 5. secondo il
modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni
naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni
conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra slato
secondo la natura del designato: segno/cosa 10.6 LE CLASSffiCAZIONI 235 con
aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977:
43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino
sottopone la nozione di se gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino
giustappone quel lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene
ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del
tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una
classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è
possibile ricostruire tale classifica zione ordinandola secondo uno schema
arboriforme (Ber nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio
(Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è
totalmente a inclu sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può
osser vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb bero
comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca te sotto il ramo principale.
Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione
inclusiva da ge nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro
la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen do la
categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9).
genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME ------ segno udibile di cose (funzione
denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti
qualcosa verbale (voce articolata) differenze ( s i g n i fi c s b i l i
s l non significanti nome in senso particolare non verbale
(gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si,
ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili
(funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus) SIGNIFICANTE
delle .. AES" 10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1
"Res" e "signa" La prima relazione interessante è quella
tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e
segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co me ontologica,
bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo
è libero di as sumere come segno una res che fino a quel momento era
sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in
termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho
chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di
qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr.
Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo, cosciente del la pervasività dei
processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè
gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né
quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen., XXVIII, I l); né
quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)".
L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi
essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ. , l, IV, 4). Le cose
di cui si usa sono tran sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere
a qual cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in
considerazione per se stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino
propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono
signifi cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo
momento anche quest'ultime possano essere assun te con funzione significante.
Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago stino propone
questa definizione di segno nel De doctrina Christiana (Il, l, 1): "Il
segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di
per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro".
238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni verbali e non verbali Nel nostro albero
porfiriano abbiamo deciso di ricostrui re la principale suddivisione
agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre
opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa
decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana (Il, IV, 4) in
cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene:
"Infatti di tutti quei se gni, di cui ho brevemente abbozzato la
tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo
avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto
riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema
modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della
divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale
di perce zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è
quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene
che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro
ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito,
pochissimi dagli al tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i
segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel li, fondamentalmente
estetici, emessi dagli strumenti musi cali, come il flauto e la cetra, o anche
quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente,
ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio ne dominante,
anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il
primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di
essi vuole ester nare" (Dedoctr. Christ., II, III, 4). Tra i segni
percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i
movimenti corporei degli attori, le ban diere e le insegne militari, le
lettere. 10.6 LE CLASSIFICAZIONI 239 Infine vengono presi in
considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi,
come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I, 2). Ne sono
esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che
rivelano, inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti ,
Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i
segni linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in
questa classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno
quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo
crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli
animali tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e
come del resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J.
Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367;
Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben
precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto
il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa
data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura
di que sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov
(1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto
semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni
intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione,
possono essere messi in corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della
combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali,
ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici
che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello "istruzionale" Uno dei
punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla
ricerca dei modi in cui si può stabi lire il significato dei segni. Tale
indagine è condotta soprat tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una
conce zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi
tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato
di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri
segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito
puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa
concezione del significato si rende possibile sol tanto nel momento in cui
viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa
Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago stiniana
si apre così, come ha messo in evidenza Eco (1984: 34 e sgg.), verso un modello
"istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un
esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso
virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.
, II, 3). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto
si cerca il significato. l0.7 SEMIOSI ILLIMITATA 241 L'indagine comincia
da l si l , di cui si riconosce che espri me un significato di
"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato un
altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si
passa, poi, a lni hi/1 , il cui significato viene individuato come
!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La
struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti
x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni
tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,
è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che
la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è
ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice
a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in
generale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamente
documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. A
esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno
implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi
eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in
cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di
Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.
la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona
(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri
cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che
"la scrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso
il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3
Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso
notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios
(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era
clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera
morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un
trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,
come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca
pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero
(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle
fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie
contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. Si potevano contare oltre cento oracoli per
tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti
tavolette. 244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario
dell'azione oracolare compiuta da Crahay (1974: tr. it. 220) risulta che alcuni
vocaboli presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un
segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi
si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo
con segni") e l'ag gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime
l'idea di un'informazio ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si
opera un confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la
divinazione al centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il
modello formale anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla
medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr . anche //. , I I I , 277 . Per i passi
citati sono utilizzate, nel corso del l'intero testo, traduzioni correnti,
talvolta parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo
(1976: 86): "The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses
nor hides his thought, l but indica tes it through signs". s Infatti la
divinazione è indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente
legato alla sapienza. La sapienza del dio è totale e simul tanea e non ha
bisogno di essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo mini egli concede,
invece, solo la frammentazione della parola oracolare, oscura e
incomprensibile, in quanto in essa la sapienza divina appare come follia
dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone ritiene essere l'essenza
stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo gia di
mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro che la sapienza vista
dal l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la presenza di possibili
procedi menti anche di cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle
sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano
perdere il carattere di ca sualità ed essere sottoposti a un processo di
istituzionalizzazione, come av veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si
interpretavano i segni dati dallo stormire del vento tra le fronde di una
quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il tubare e il volo dei
piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un gong). Per gli
oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per una disamina
generale e approfondita dei vari ti pi di divinazione i testi basilari sono
Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8 "Lobo",
"vescichette" e "porte" erano i termini tecnici designanti
par ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione prendevano come segni
da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b
32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della consultazione oracolare ci sono
note attraverso un cer to numero di iscrizioni epigrafiche, provenienti
principalmente da Delfi e da Dodona; cfr. Parke-Wormell ( 1 956) e Fontenrose (
1 978) . 10 Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla nozione di enigma,
come era presente nella cultura greca: esso comportava, come vedremo NOTE
245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del dio all'uomo), sia
la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine, l'idea che il primo
senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine "modo", poi,
pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un unico meccanismo, ma di
una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei, che vanno dalla
banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di prospetti va
(metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa naturalmente
riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco ( 1 984). Pur
troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur
avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per
la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si gnificante
e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi stenti ecc.)
che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem brato
appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il
meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla
Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen. , VI): la sa cerdotessa di
Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se guendo l'ordine
sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo glie al vento, che
scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti
incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile
l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi
antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed
esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco,
quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome
suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è
sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue
frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli 1 975 : 1 8) .
1 1 Per una nozione complessa e articolata della nozione di "verità"
nel mondo antico, si veda Detienne (1967). In particolare, sulla concezione di
a/theia come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune
al poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne
(1967, tr. it. 99). CAPITOLO 3. 1 D'ora in avanti ci riferiremo al Corpus
Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente, per una documentazione completa
sulla medicina gre ca, dovrebbero essere prese in specifica considerazione
almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste ultime, appartenendo a
un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a una tradizione
filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo
studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo
svolgendo . Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia
attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo 246 NOTE 3 Si
possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto
il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter ne, il libro
II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar caica del
trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato
di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della
medicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati
in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me todologici
della medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire
convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi
ri sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti
autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460
e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà
del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4
Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967:
78). 6 Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati ca
non arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni
ci atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal volta apportandovi
delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita
una distin zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel
passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis,
cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami
(1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si
deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai
verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente ",
anziché con un si gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate
avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr.
Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male
sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella
testa, Le articola zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.).
10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri
calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si
dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi
pro cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale
la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica,
animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds
(1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento
magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr.
it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di
sfug gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano
è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della
comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini
e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio
assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del = NOTE 247
trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol
/ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do
vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen
do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse
di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti.
1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son
no di cui parla Platone nel Timeo (7 1 e) e a1la diminuzione dei turbamenti
nell'aria che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di
vinatione per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco
(1975: 295): per "omoma tericità" si intende il fenomeno per cui
"l'oggetto, visto come pura espres sione, è fatto della stessa materia
del suo possibile referente". 16 Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e
Wenskus (1983). 17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18
Sull'abduzione si vedano Thagard (1978); Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni
(1983); Bonfantini (1985); Peirce (1984); Eco (1984). 19 Di Benedetto (1986) ha
messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra i moduli espressivi
di presentazione della malattia nella medi cina greca e quelli dei trattati
mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be nedetto-Lami (1983). 2° Cfr.
Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione, cfr. Conte ( 1
986) . CAPITOLO 4. 1 Cfr. Hjelmslev (1943). CAPITOLO 5. 1 Cfr. Arist., An. Pr.,
Il, 70 a-b; Rhet., 1, 1357 a-b. 2 Cfr. Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3
Cfr.Arist.,Deint.,16a;An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa nozione cfr. Di Cesare
(1981 : 161). s Cfr. Eco (1984: 6-7; 1987: 75). 6 Cfr. Heinimann (1945). 7 Cfr.
Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco (1987). 8 Emerge qui, per quanto
nebulosamente, il tema della doppia articola zione del linguaggio umano, che
verrà poi sviluppato in epoca contempo ranea da André Martinet (1960). 9 Anche
se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica
(1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti mema come
sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici 248 NOTE
(Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi
smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel
secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente
"neces sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non
necessario" (mè anankafon) (Rhet., I, 1357 b, 4). 1 1 Lo stesso punto di
vista e la stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della
Retorica (l, 1357 b, 16-18). 12 Quanto al carattere di confutabilità di questo
tipo di segno, Aristote le così commenta l'esempio dato negli Analitici;
"D'altra parte il sillogi smo che si sviluppa attraverso la figura
intermedia risulterà sempre confu tabile (ljsimos), senza eccezione. In
realtà, quando i termini si comporta no come si è detto sopra, non si
costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida è pallida, e se
inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che
questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1
"(Dei segni) quello necessario è la prova, quello non necessario non ha un
nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni
da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è tale è la
prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la proposizione
enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie ne dimostrata
e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar ('prova') e pé ras
Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet. , l , 1357 b, 4-10). Si
deve tuttavia segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di
stinzione tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di
questi termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza
distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un
terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le
Blond (1939, ried. 1973, 241, n.). 14 Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!.
Cfr. Arist., An. Post., II, 98 b, 25-30. CAPITOLO 6. 1 È del resto sulla base
delle immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su
certi tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka talptikaì phantasfai, che
viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci
atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose
determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono
il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi gnucci
(1965 e 1966); Sandbach (1971 a, e 1971 b); il capitolo "The crite rion
of truth" di Rist (1969). 2 Cfr. anche Sext. Emp. , A dv. Math. , VII I ,
69-70. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo
/éghein. 6 Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long (1971 a: 83). 7 Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9
Cfr. Diog. Lart., Vitae, Vll , NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che,
come sostiene Diogene Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra
il "proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei
suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da
significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp.,
Adv. Math. , VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la
traduzione "what is said" rispetto a quella propo sta da Mates e dai
Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene rale e
permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica
quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione,
risalente al Crati lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a
dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto
dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come
"'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr.
Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in
completi e incompleti; cia scuno dei due tipi dava luogo a una
sottoclassificazione, anche molto com plessa, che non prenderemo qui in
considerazione; si veda a questo propo sito Mates (1953: 11-26). 63. 1° Cfr.
Mates (1953: 1 1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi ficato delle
parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di
intension di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier (1909:
114-125). 13 Cfr. Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di
verità la fornisce Sesto (A dv. Math. , VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo
nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate
sono vere e certe altre sono false". Sul problema del criterio di verità,
cfr. Rist (1969: 133-151); Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17
Cfr. anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda,
a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone,
Th., 190 a (206 d); Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno"
(endiathetos /6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment
(prophorikòs 16gos), è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo
dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math. , VIII, 275-276): "(Gli
stoici) dicono che l'uomo differisce da gli animali irrazionali a causa del
discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi,
pappagalli e gazze pronunciano suoni arti colati"; cfr. anche Pohlenz
(1959, 1: 61-62). trattazione di Conte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione
italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21
Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al genere è, a quel che
pa- 250 NOTE re, un segno"; cfr. anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il
testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy
(1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale
tripartizione verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il
capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext.
Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156. Al di
là del carattere pole mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché,
citando "medici" e "fi losofi", fissa i due punti estremi
di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale
interesse da parte dei medici (come, poi, di mostrano anche i numerosi esempi
di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico
del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34 Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248;
Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp.
Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11 Cfr. Sext.
Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Cfr. Sext.
Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi derazione solo i primi
tre criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla scuola
megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math.,
VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del condizionale diodoreo,
che non possiamo qui prendere in considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di
Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che
affrontano l'argomento in una successione cronologica e teo rica. "2 Cfr.
Phil., De signis, XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi
ai paragrafi del testo greco, sono messi in correlazione con il segno " =
" ai capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276; 287.
Cfr. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli
(1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402)
osserva molto opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le
médecin de cet organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de
prophète, un de vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe".
46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127. 49 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv.
Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180: "D'altronde
anche la dimo strazione è, in linea generale, un segno, giacché essa è
considerata come di svelatrice della conclusione". 1 Il testo di
Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora disponibile
nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi citeremo
quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il prossimo
capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic., EpistulaadHerodo
tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi K.D.), XXIV. 3
Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat.,
XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971 b: 1 14)
sostiene che un simile rap porto tra linguaggio e pro/essi è presupposto anche
nella Ep. Hdt. , 37-38. Cfr. Diog.
Laert., Vitae, X, 34. 6 Cfr. Epic., Ep. Pyth., 86-87. 7 Cfr. Epic., Ep. Hdt.,
82. 8 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31. 9 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 9.
1° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 32. 11 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31. 12 Cfr.
Epic., Ep. Hdt., 46. 13 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt. ,
38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il sostantivo da
esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato negli scritti di Epicuro,
avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. 18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math. ,
VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il criterio della "non
incompa tibilità" con i fatti conosciuti è centrale nella teoria
dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert.,
Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus
Colo tem, 1119f. 22 Si deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta
il problema semantico in Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo
abbiamo trattato qui e recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di
Plutarco, sostenendo che non esiste nella filosofia linguistica epicurea un
livello spe- 252 NOTE cifico del "significato" in termini
intensionali. 23 Cfr. Sedley (1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si
discosta da quello di Arrighetti (1960: 66-67). 24 Come veniva evitato, nel
Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate. 2Cfr. capitolo relativo
a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d, 435 c; cfr. Sedley
(1973: 20). CAPITOLO 8. 1 La data di composizione del trattato, che è
controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il
titolo greco, essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget tura
di T. Gompers; altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo
a esso nella sua versione latina De signis; cfr. De Lacy ( 1978: 1 1-I4). 3
Nella prima sezione vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle
critiche stoiche; nella seconda viene esposta la versione di Bromio del
l'enumerazione e confutazione di Zenone degli argomenti contro l'inferen za
empirica; nella terza viene riportata l'enumerazione di Demetrio di La conia
degli errori comuni degli antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione,
che espone una seconda lista degli errori degli oppositori, è anoni ma, ma,
con molta probabilità, è anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand
1883; Deledalle 1984.
Cfr.Phil.,Designis,coll.VIII,32-IX,3=cap.13).Ilriferimentobi
bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima
la colonna e il numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero
del capitolo corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy
(1978). 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta
il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45, e col. XXXVII,
12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9 Cfr. col. I,
12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980: 140), del
resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla
possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale
sembra riproporre, in epoca contem poranea, una tematica simile a quella
stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni:
"Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og getto che essa denota
semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello
stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef fettivamente, sia che
non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona
non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19. NOTE 12
Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. 13 Cfr. col.
II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8=cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 = cap.
6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni
stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 = capp.
23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18
Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai
"dogmatici" sul problema della defini zione come combinazione di
attributi, a esempio "animale", "mortale",
"ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico,
Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 =
cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli.
XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll.
XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col.
XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda
antichità le de finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di
Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac.
Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale
mortale, provvisto di intelli genza e razionalità" (Adv. Math., VII,
269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18
Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=cap. 20. 40
Cfr.coli.XX,32-XXI,3=cap.35. coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130
e sgg.). Groupe p. (1970: 100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 = cap.
52. XXXIV, 11-15=cap. 52. XXI , 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII,
23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1 A questo proposito Cicerone parla di
"regolarità della ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla
"sorte" (fortuna) (De div. , I l , 1 8). 253 254 NOTE CAPITOLO
10. 1 In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio;
a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione
verbum in due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso
metalinguistico della pa rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione
ampia di "parola", co me "segno di ciascuna cosa che, proferito
dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura
della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è
messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica:
Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le
due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è
prodotto nell'animo per mezzo della parola [di cibile]". La dictio,
inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa
d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito,
in termini propo sizionali, come un antecedente che rimandava a un
conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr.
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Divinazione e razionalità, Einaudi, Torino, 1982) 276 RIFERIMENTI
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Swimming-Pool Library. Conti.
Grice e Contri: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del Napoleone di Hegel –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Cazzano di Tramigna). Filosofo. Grice: “I like Contri – he reminds me of my days at Rossall!
Of course Contri is interested in Hegel – “a la ricerca del segreto sofisma di
Hegel” – and attempts to reveal it as Stirling never could! But Contri is also
interested in ‘il bello’ – being an Italian! – The interesting thing is that he
goes back to Italy – Aquino! He has a good exploration on ‘verum’ in Aquino,
too, which reminds me of Bristol, Revisited!” Allievo di Zamboni,
elabora una minuziosa critica alla logica di Hegel di cui mise in rilievo le
incongruenze gnoseologiche e metodologiche che portano alla errata concezione
hegeliana della realtà come vita dell'idea. Rovesciando l'immanentismo
hegeliano, scopre un mondo di realtà sviluppando una concezione di filosofia
della storia che denomina “storiosofia”. Studia a Verona. Si laurea a
Padova. Discepolo fervente di Zamboni, di cui accolse e sostenne la dottrina
della gnoseologia pura. In alcune occasioni si descrisse come elaboratore in
contemporanea al suo maestro Zamboni di alcune teorie, collegate all’estetica
ma non solo. Insegna a Bologna. Zamboni fu espulso dall'Università Cattolica
con la motivazione di allontanamento dalla ortodossia tomistica e con accusa di
non conformità al Magistero della Dottrina Cattolica Romana. C. definì la
posizione della Cattolica con il termine da lui coniato di “archeo-scolastica”.
La posizione “archeo-scolastica” della Cattolica di Milano, di una conoscenza indimostrata,
a priori, dell’essere e degl’esseri era bersaglio di critiche da parte di
filosofi cristiani e non che la ritenevano inadeguata nell’ambito del pensiero
moderno. Contri sostenne che la dimostrazione della conoscenza dell’essere e
degl’esseri data dalla Gnoseologia Pura di Zamboni superava definitivamente
tali critiche e ridava certezza dimostrata della conoscenza e dell’esistenza di
Dio. Accusa di plagio Gemelli per aver pubblicato nella monografia Il mio
contributo alla filosofia neoscolastica (Milano) pagine già scritte da Mercier
e Wulf, senza indicare le citazioni. Gemelli diede le dimissioni da Rettore
della Università Cattolica ma rimase in carica. Insegna Bologna. Il prof.
Ferdinando Napoli, Generale dei Barnabiti, cultore di scienze naturali, venne
depennato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, allora presieduta dal
Gemelli. Venne dato ordine di non pubblicare articoli a firma di C.. Continuando
la difesa della dottrina di Zamboni, fondò la rivista quadrimestrale di
polemica e di dottrina neoscolastica “Criterion”. Il confronto con l’Università
Cattolica di Milano continuò negli anni successivi con relazioni a numerosi
congressi di cui C. da resoconto sulla rivista. Insegna a Ivrea. Sulla
rivista Criterion apparvero intanto i saggi del C. sui suoi studi hegeliani che
prelusero all'opera definitiva dLa Genesi fenomenologica della Logica
hegeliana. Partecipa attivamente agli organi culturali del fascismo. Sscrisse
su giornali quali Il Secolo Fascista, Quadrivio, Il Regime Fascista, Il
meridiano di Roma e La Crociata Italica. Contri si avvalse della tribuna
offerta da queste testate per promuovere i suoi studi filosofici e critica
filosoficamente l’ ebraismo di Spinoza, di Durkheim e di Bergson. Insegna a Milano
e tenne conferenze su studi hegeliani. Sorse una disputa con Zamboni in seguito
all'articolo Il campo della gnoseologia, il campo della storiosofia, in
risposta alla pubblicazione del Contri Dallo storicismo alla storiosofia. Prese
parte attiva a congressi tomistici internazionali e a congressi
rosminiani. Partecipa attivamente alla “Missione di Milano”, lanciata
dall’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini. Come riconoscimenti
ai suoi studi conseguì alcuni premi fra i quali uno indetto dall'Angelicum sul
tema “Quid est veritas”, e una segnalazione all'Accademia dei Lincei per
l'opera: Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, Milano, LSU. Discepolo
e geniale continuatore di Zamboni. Così potrebbe definire la situazione
filosofica di oggi. Il mondo del pensiero, perduta la bussola non teologica
d'orientamento, è costituito da una miriade di metafisiche che cozzano le une
contro le altre tanto da definirsi che heghelianicamente come il divenire in
sè, che è puro fenomenismo. A tale fenomenismo corrispondono molteplici
fenomenologie. Per esempio quella di
Heidegger, afferma che il reale è un solo, una totalità onniafferrante
(Hegel direbbe begriff), tanto come essere quanto come niente. Anche Hidegger
poi tenta la via della salvezza ammettendo la realtà del mondo esterno come di
un che, che resiste al soggetto, ponendosi nel solco del pensiero di Zamboni.
In questo modo Hidegger tocca il problema che si volle e che si vuole eludere:
la realtà del mondo esterno. Esistono queste realtà, come la mia realtà, indipendentemente
dal pensarle? Per dare risposta a questo interrogativo cruciale, è necessaria
la gnoseologia pura. La gnoseologia secondo C., scoprì la risoluzione
definitiva del problema della certezza della conoscenza umana. Essa permise di
risolvere il problema dell'esistenza di Dio, riavvalorando criticamente le
cinque vie della dimostrazione Aquino. Sono meriti del metodo filosofico di
Zamboni il poter affermare la sostanzialità del mio “io” personale, la mia
realtà individua e dimostrare l'esistenza di Dio, trascendente, personale. Il
metodo zamboniano distingue gli elementi della conoscenza umana tra la
sensazione, che e sempre oggettiva, e lo stato d'animo e tra questi
"quello stato d'animo che è anche atto: l'attenzione". Ogno stato
d'animo e sempre soggettivo. La gnoseology riesce a cogliere la realtà del
proprio “io”, nei suoi atti e stati. Essi sono reali, perché immediatamente
presenti all'”io”, e se sono reali gli accidenti dell'io, perché essi sono modo
di essere dell'io, reale è l'io, come sostanza, cui essi ineriscono. Perciò
dall'immediata certezza della realtà degli accidenti di un ente si giunge alla
certezza della realtà sostanziale dell'io." La critica alla posizione
della neoscolastica di Gemelli, Olgiati e Masnovo sulla conoscenza indimostrata
dell'ente e la soluzione tramite la gnoseologia pura. Rispetto alla dimostrazione
della realtà dell'ente, si fonda così nell'esperienza immediata ed integrale il
concetto di essere e ‘esseri’ che non è più necessario assumere acriticamente,
come qualcosa di razionalmente immediato, pena l'impossibilità di una logica
razionale. L'assunzione acritica del concetto di essere ed esseri è propria del
neotomismo dell'Università Cattolica, che in un suo autore, Masnovo, perviene
alla sua massima teorizzazione nel "mio hic et nunc diveniente atto di pensiero".
Ma con questo l'essere e gli esseri è solo pensato e ammesso acriticamente come
pensiero, è un presupposto, mentre nella gnoseologia zamboniana è il risultato
di un processo di astrazione, che deriva da una realtà immediatamente presente
all'autocoscienza dell'io, che non ha la natura del pensiero, non è pensiero
essa stessa, ma qualcosa di diverso. Si può pertanto uscire dalla formula
logica della ragion sufficiente, che è sempre e comunque razionalista e riduce
al razionalismo anche il neotomismo. Nell'ambito dell'esperienza immediata ed
integrale si scopre invece non la ragion sufficiente, ma la sufficienza ad
esistere o no. E la fondazione ed il ripensamento delle prove dell'esistenza di
Dio, e in particolare della terza via tomistica, diventano inoppugnabili.
Nessuno più può dubitare dell'esistenza del sufficiente ad esistere, che è
Dio." Secondo Peretti la fondazione gnoseologica della metafisica è
il più grande merito di Zamboni. L'ambiente filosofico dell'Università Cattolica
non accetta la gnoseologia zamboniana e fonda la metafisica sul concetto di
ente, assunto acriticamente, come un presupposto indimostrabile. Esso finì per
identificarsi con l'ente di ragione (ens rationis), non sfuggendo all'insidia
hegeliana, che lo aveva dialettizzato sia come essenza che come esistenza. La
dialettica negativa di Hegel produsse ben presto nella corrente neotomista di
Milano (ma anche in altre università cattoliche) i suoi effetti devastanti. Aveva
messo in guardia i neotomisti dalla fraus hegeliana, che si svela nell'antitesi
(contra-posizione) come negazione. Seguendo la metodologia gnoseologica,
Contri affronta Hegel, il "padre del fenomenismo" compiendo una
minuziosa e sistematica analisi della fenomenologia hegeliana. Dopo averle
individuate ha messo in rilievo le incongruenze gnoseologiche e perciò
metodologiche che sfocia nella concezione della realtà come vita dell'idea,
presentandola come uno svolgimento dialettico del ‘begriff’, come qualche cosa
che non mai in sé, ma diviene eternamente in sé e per sé. C. resa evidente
questa impostazione, anima del fenomenismo, e scoperta nella deficienza
gnoseologica e pertanto metodologica, derivata dall'impostazione razionalista
ed empirista che al fondo dello stesso criticismo, rovescia l'immanentismo
hegeliano, che si gli scopre non più come mondo di idee, ma di realtà, di cui
ognuna è altro del suo altro, in un ordito cosmologico, di cui la storia
dell'uomo rappresenta l'essenza. Ed ecco la storiosofia, che reclama,
al posto dell'immanentismo gnoseologicamente insostenibile, la
trascendenza della trama di questo ordito, che a questo punto in sé e per sé
non può più essere spiegato (si ricordi che l'anima della spiegazione hegeliana
è la "negazione"!). Tale trascendenza prova l'esistenza di un Dio
trascendente, che ha concepito la trama creando le realtà ordito di questa
trama, di realtà in reciproca relazione, in cui non c'è membro che sia fermo.
In questo ordine si risolvono in modo nuovo i rapporti tra le realtà, che per
esempio tra l'anima e il corpo, superando così gli scogli di una spinosa
questione di eredità aristotelica, di grande importanza anche oggi, in cui le
realtà terrene e spirituali non trovano la sintesi equilibratrice. La
storiosofia rappresenta uno sviluppo del metodo di Zamboni, considerandolo la
via per rinnovare tutta la filosofia poiché esso non è storicismo filosofico,
non è naturalismo, è avanti positivistico, non è speculazione, ma metodo
appunto, (metodo) che da secoli la filosofia europea ha cercato, perdendolo
oggi nella disperazione del momento." Altri saggi: “Il concetto
aristotelico della verità in Aquino” (Torino, SEI); “Gnoseologia” (Bologna,
L.Cappelli); “Il concetto d’armonia” (Bologna); “Il tomismo e il pensiero
moderno secondo le recenti parole del Pontefice, Bologna, Coop. tipografica
Azzoguidi): “Del bello” (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina); “La filosofia
scolastica in Italia nell' era presente” (Bologna, Cuppini); “L’essere e
gl’esseri” (Bologna, C. Galleri); Un confronto istruttivo: Mercier, Gemelli, De
Wulf ed altri ancora, Bologna, C. Galleri); “Pane al pane: riassunto d'una
situazione, Bologna, Costantino Gallera. “Neo-scolastici e archeo-scolastici”
(palaeo-scholastici) sulla rivista Italia letteraria; “Il segreto sofisma di
Hegel” (Bologna, La Grafolita), “Mussoliniana: il discorso del duce” (Bologna,
La Diana scolastica); “Gnoseologia pura di A. Hilckmann; Il segreto di Hegel di
S. Contri, Bologna, Stabilimento Tipografico Felsineo); “Hegel, Ivrea, ed.
Criterion); “La genesi fenomenologica della logica hegeliana” (Bologna,
ed.Criterion; Ambrogino o della neoscolastica, dialogo filosofico,
Bologna); “La soluzione del nodo centrale della filosofia della storia,
Bologna, Criterion); “Complementi di storiosofia, Bologna, Criterion); “Punti
di storiosofia, Bologna, Criterion; Lettera a S.S. Pio XII sulla filosofia
della storia, Bologna, Criterion; Il Reiner Begriff (=concetto puro) hegeliano
ed una recensione gesuitica, Bologna, Criterion; Dallo storicismo alla
storiosofia. Lettura prima, Verona, Albarelli; I tre chiasmi della storia del
pensiero filosofico. Inquadratura unitotale della controversia sulla
storiosofia, Milano, ed. Criterion); “Rosmini” (Domodossola, La cartografica C.
Antonioli); Ispirazione da dei” divina della S. Scrittura secondo
l'interpretazione storiosofica” (Milano, Criterion); “La sapienza di Salomone,
Milano, ed. Criterion; “La riforma della metafisica” (Milano, ed. Criterion); Filosofia
medioevale. Raggiungere la forma nuova, Fiera Letteraria; Punti di
trascendenza nell'immanentismo hegeliano, alla luce della momentalità
storiosofica” (Milano, Libreria Editrice Scientifico Universitaria); “Rosmini”
(Milano, Centro di cultura religiosa); “Posizioni dello spiritualismo
Cristiano: La dottrina della poieticita in un quadro rosminiano” (Domodossola,
Tip. La cartografica C. Antonioli); “Assiologia ed estetica”, Theorein; Posizione
dello spiritualismo cristiano. La dottrina della poieticità, in un quadro
rosminiano, Rivista rosminiana; Heidegger in una luce rosminiana: la favola di
Igino e il sentimento fondamentale, Domodossola, La cartografica); Missione di
Milano. Chiosa storico-filosofica, Ragguaglio); “Heidegger in una luce rosminiana,
Rivista rosminiana); La coscienza infelice nella filosofia hegeliana” (Palermo,
Manfredi); “Husserl edito e Husserl inedito” (Palermo, Manfredi); “Kierkegaard:
profeta laico dell'interiorità umana”; “Saggio di una poetica vichiana” (Milano,
Il ragguaglio librario); La fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Rivista
rosminiana; L'unità del pensiero filosofico, Sapienza; Il pluralismo filosofico
nell'ambito di una concezione cristiana, Sapienza; In margine al centenario
dantesco, Sapienza; La negazione come principio metodologico di unificazione
speculativa, Theorein; Vita e pensiero di Hegel, Rivista rosminiana; Possibilità
di un accordo tra la dottrina rosminiana del sentimento fondamentale e le
concezioni moderne sull'inconscio, Rivista rosminiana; Morale e
religione nella Fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Palermo); “Parallelo
tra Hegel e Rosmini, Palermo, Mori); “Metafisica e storia, Palermo, Mori); “Il
sofisma di Hegel” (Milano, Jaca book). “Il caso Contri”; “Gnoseologia”;
noseologia, storiosofia; Contri, Note mazziane; La propedeutica metafisica
hegeliana al problema del pensare e la lettura rosminiana di S. Contri, Contri
tra gnoseologia e storiosofia, Punti di trascendenza in S. Contri, in Sophia,
Crociata Italica, Fascismo e religione nella Repubblica di Salò, L'Estetica di
Benedetto Croce. Certi gestiscriveva la Vanni Rovighiche gli furono
rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi
in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di
difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere
politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte
alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben
più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di
grande ingegno e di purezza adamantina: Zamboni, un gesto che non può non
essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in
bocca. Contri, (Circa il volume di Croce 'La storia come pensiero e come
azione. Siro Contri Presidente dell' Istituto di Cultura Fascista. CONDOTTA POLITICO-MILITARE
ESPRESSA DAI FATTI UNIVERSALMENTE NOTI, I QUALI CELEBRANO COTANTO
LA SINGOLARITÀ DI BONAPARTE. Paralello degli uomini ipiù celebrati
dalla Storia dei Secoli. ]N"on è del mio proposito il qui
premet- tere alle azioni di NAPOLEONE le cau- se che
rivoluzionarono la Francia, e i fatti che a danno proprio, o di
altrui operarono i Francesi, poiché questi sono noti a tutti, o se
qualcuno' vi è, che non li sappia, da quelli stessi, che io dirò,
operati da Lui, meglio si rileverà la gran- dezza degli altri
distinguendosi troppo bene riunite in un solo quelle grandi
ia qualità, con le quali si va a riordinare, e regolare
in pace il cittadino, come in guerra a vincere e superare
l'inimico. Nè vi voleva di meno: conobbe BONA- PARTE
opportunamente, che non si ha la pace, se non si fa la guerra, che non
può tornare all'ordine il Francese, se non è vittorioso, subito che
la gloria di aver vinto altrui richiama, per goder dei frut- to, al
dovere di vincere se stesso se non si dipende? Col dipendere dagl'ordini
di BONAPARTE nel campo di battaglia, si volò dal Francese alla
vittoria: che me- raviglia, se all'un fatto autorevole per- ciò
riesci agevole inculcare con altri i doveri di giustizia, nell'osservanza
de' quali, rimesso l'ordine pubblico, si passò ad unire a quelli di
conquista i frutti preziosi della pace. Troppo è singolare
NAPOLEONE BONAPARTE nella storia dei secoli. Quegli uomini che
arrichirono di beni, che fornirono di gloria la Patria, ed i re-
gni, di cui erano signori, di cui erano cittadini, con le loro imprese in
guerra, con i loro consigli in pace, daranno a me tutto quel meglio
che ciascuno di essi possedeva parzialmente, per provarlo riunito
in BONAPARTE a riordinare la Francia, a pacificare V Europa.
Non si vuol qui osservare l'ordine dei fatti, nei quali BONAPARTE
si mostrò da prima grande Capitano, ma presa sib- bene l'epoca del
Consolato tanto glorioso per Lui, e dove Egli si mostrò grande
politico, si faranno servire i fatti nell 9 uno, e nell'altro stato
operati all'espres- sione di quella condotta, la quale prati- cata
da Lui solo, celebra veracemente la sua Singolarità. Dirò
pertanto, con tutto che io non ignori, che Giulio Cesare fu l'uomo
in Roma, il quale più d'ogni altr'uomo del- le storie antiche può
dare a me una qualche simigliala di NAPOLEONE in Francia, pure i
fatti che me lo descrivo- no per grande, non sono quegli stessi che
ora mi dimostrano grandissimo BONAPARTE. 11 ritorno di GIULIO CESARE dal
Governo della Spagna non è simile a quello di BONAPARTE dopo V
occupazione dell' Egitto; Cesare trovò la Repubblica Ro- mana
divisa in due fazioni, una di GNEO POMPEO, e l'altra di MARIO CRASSO. BONAPARTE
trova la Repubblica non divisa in fazioni, ma in tanto disor- dine e
confusione, che più non è divisi- bile, poiché l'eccesso dell'anarchia
pro- duce la serie indefinita delle divisioni sempre rinascenti e
rovinose; pure non altri vi fu, se non che Egli, tanto poten- te,
che la divise per trarla dalla sua confusione. GIULIO CESARE vien
pregato da ognuno dei due rivali a farsi del suo partito, e Cesare si fa
mediatore di pace. BONAPARTE non pregato va da se a
rimproverare d'ingiustizia, e di oppres- sione i Governanti, e a nome del
Popolo Francese ingiustamente oppresso intima la loro destituzione.
Digitized by Google iS Giulio
Cesare si fa pacificatore di chi voleva la pace. BONAPARTE
assicura la pace a fron- te di coloro che volevan la guerra.
Giulio Cesare dee vincere con la per- suasione due nemici, che
erano nel se- no della Patria a promovere con la di- visione
l'interna discordia. BONAPARTE dee vincere con la for- za i
nemici esterni della Francia, e dee persuadere la Francia in disordine
della necessità di un nuovo ordine di cose per felicitarla.
Giulio Cesare accetta l' incarico di mediatore non per servire, ma
per regna- re; perchè coll'esser così fra Crasso e Pompeo, ambidue
li vedeva dipendenti da Lui; regna chi non dipende, non di- pende
chi giudica, e quello che giudica si fa arbitro dei due nemici: non
voleva Cesare con la sua dipendenza rendere più forte uno dei
rivali, ma voleva col pretesto della sua mediazione indeboli- re
ambidue. Trattò la pace non per unirli fra di loro, ma per unirli a se, non
per- chè fossero amici, ma perchè fossero di- sarmati.
BONAPARTE instruito dei disordi- ni della Francia e delle sue
perdite, con eroica risoluzione veste il carattere di guerriero, di
'pacificatore; si mostrò così al Consiglio dei Cinquecento, dove era
maggiore l'autorità, e dove erano tanti che volevano governare; non si
ritiene da dirli indegni di quest'ufficio, quando per due anni
avevano così male governa- ta la Francia. Il rimprovero di un
simile delitto, la fermezza di chi rimprovera, ed il coraggio,
avvilì e disperse i delin- . quenti, (molto più di Trasibulo che
cac- ciò d'Atene i trenta suoi tiranni): si rimi* se allora
BONAPARTE al voto del Popòlo Francese, che lo acclamò Liberatore; ed
assicurato di lealtà, annunziò il Con- solato, e la sua Costituzione.
Fatta la pace fra Pompeo, e Crasso per opera di Cesare, tutti due
concorse- ro a farlo Console, e in tutto il tempo n
Consolato il di Lui Collega non compar- ve mai a palazzo.
Si vide BONAPARTE Primo Console, e gli altri due furono sempre con
Lui nel Consolato. Se fu solo Cesare a comandare fu con
usurpazione. Se ha BONAPARTE nel comando la primazia, glie la
concede la costituzione: Cesare non soffriva che gli applausi
di buon governo fossero attribuiti ad al- cun altro che a Lui: per tal
modo andava avvezzando Roma al governo di un solo, e disponeva gli
animi ad approvare nel Consolato la Monarchia. BONAPARTE
sebbene il primo nel Consolato, ed il maggiore nella autorità; è
però sempre insieme con gli altri a go- vernare; non sprezza l'opera altrui,
non sfugge l'altrui consiglio, e vuole che tut- ti abbiano parte al
merito della sua bon- tà, della sua aggiustatezza; non vuol cam-
biar governo nei momenti che tanto si opera per stabilirlo; tutto quello
che si fa, si fa per conoscere, 3e il Francese può essere buon
repubblicano: il grido della libertà democratica non è un voto
vale- vole per la esclusione della monarchia; quantunque siansi
veduti i Francesi ele- trizzati andare incontro alla morte per
vendicare la libertà; si deve dar ciò alla forza di quel barbaro terrore
difuso per avvilimento universale con la op- pressione
dell'innocente; sostenuto con la franchigia ed esaltazione del
malva- gio per accrescere il numero dei terrori- sti; non già ad un
maturo consiglio, ad una risoluzione giudiziosa, unanime, uni-
versale, che però il procedere di BONA- PARTE fu assai prudente per
richiamare all'ordine i Francesi in rivoluzione, e metterli
veracemente in libertà, col co- stituire la forma di un buon
governo. Cesare ha finito il Consolato. BONAPARTE viene
dichiarato a Vita Primo Console. Cesare dopo il Consolato si
elesse il Governo delle Gallie dove andò con E-sercito, e fece guerra a
molte nazioni. Vide pesare che le fazioni lo potevano fare il primo
della Repubblica, ma non bastavano a farlo padrone, per cui era
necessario un esercito: come armarsi però senza scoprire il suo disegno?
Ecco l'arte di Cesare; si armò per servizio della Re- pubblica, la
servì valorosamente per po- terla signoreggiare, la esaltò per
poterla opprimere: nel regnare l'arte del segreto non è tacere, ma
consiste in rivelare una intenzione verisimile che nasconda la
vera, ma che non sia la principale: la più fina simulazione del mondo
consiste nel sapersi ben servire della verità. BONAPARTE fu
fatto Primo Console non dalle fazioni, ma dal voto libero di una
gran nazione: i meriti della guerra, e quelli maggiori della pace
precedettero la sua perpetuità nel Consolato; non ser- vì alla
Francia per signoreggiarla, non la esaltò per opprimerla, quando con
averla levata da suoi disordini, e fatta amica di tutte le nazioni
5 non cercò di escludere i tanti dall'onore di questa grand'opera, i
quali ora sono con Lui nel governo vi- gilantissimi per conservarla.
Per dare però una maggior rilevanza al paragone di BONAPARTE con
Giulio Cesare, mi farò a tracciar questi nè suoi principj per
condurmi così a provar me- glio la singolarità dell'altro; e giusta
la diversità di tante sue virtuose azioni, mi farò pure a dir di
quelli, i quali nei bei secoli della Grecia, e di Roma onorarono la
loro patria, perchè i più valorosi nell' arte della guerra, i più
sapienti nel go- verno dei popoli tra coloro tutti, che il
precedettero, scorrendo la vita de' me- desimi, dimostrerò, senza
osservare l'or- dine dei tempi, giacché non è ciò del mio soggetto,
riunite in BONAPARTE le grandi virtù di tutti quelli celebratis-
simi nella storia delle nazioni. CeSare nella sua più fresca età
passò la prima volta a militare sotto Marco Minucio GermOj allora
Pretore in Asia., e mandato in Bitinia all'assedio di Mitiiene, la sola
città che ricusava sottomet- tersi ai Romani, si distinse tanto
nella sua presa, che meritò diverse corone civiche, le quali davansi a
chi aveva sal- vata la vita ad alcun cittadino
romano. BONAPARTE che nel principio della Rivoluzione Francese
trovavasi in Parigi tutto intento a coltivare i grandi suoi ta-
lenti nella scuola militare, e nella vera filosofia, fu mandato
all'assedio di Tolo- ne Ufficiale in una compagnia d'artiglie- ri,,
allora di soli ventitre anni, ed ivi le prove del suo valore furono tanto
lumi- nose e così sollecite, che i Rappresen- tanti del popolo ivi
presenti, non tarda- rono a promoverlo Generale di Brigata, nel
qual posto più d'ogn'altro suo pari si mostrò esperto nell'arte
difficilissima di condur i soldati alla vittoria; e singo- larmente
intrepido si rendette in quei terribili momenti di assalto, sotto
l'im- peto del quale ebbe a tornar Tolone in potere dei Repubblicani. Giulio
Cesare fu accusato da L. Vezio cavalier romano complice nella
cospirazione di Catilina. BONAPARTE fu accusato, e fatto ar- restare
a Nizza dal Convenzionale Befroi come terrorista. Il terrore allora era
di- retto a dominare sugli uomini per disor- dinarli, per
perderli. La Congiura di Catilina si volgeva a fare un
dominatore di Roma per felici- tarla. Il Valore mostrato
nell'armi da BONAPARTE mosse l'invidia di tanti ad accreditarne
l'accusazione. Fu accusato Giulio Cesare di troppa parzialità
per Lentulo, Gabinio, Cetego, Statilio capi dei congiurati. Questi
per salvar la vita ebbe bisogno di un CICERONE; fuggì gli occhi di tutti;
si rinserrò nella propria casa timoroso d'incontrare nuovamente il
risentimento dei Padri. BONAPARTE va da se a Parigi per fa-
re delle rimostranze al Comitato di salute pubblica contro una simigliante
ingiustizia, ha cuore di orare la propria causa in faccia a quel
Tribunale istesso eret- to per distruggere gli innocenti; e non
avendo più dove ricorrere per denegata giustizia, chiede il permesso di
ritirarsi a Costantinopoli, perchè soverchiamen- te delicato, non
vuol vivere a fronte di un'accusa troppo ingiusta. Il
patrocinio delle Vestali, l'amor del Popolo tant'altre volte come in
questa capriccioso, perchè mosso dall'ingenita avversione al volere
dei grandi, richiama Giulio Cesare al suo uffizio. Affidato
BONAPARTE al patrocinio più sicuro della sua giustizia, attende da
filosofo il momento propizio alla sua gloria, poiché il Vendemiatore
vide BONAPARTE col comando di un corpo numeroso di linea tanto ben
disposto, e regolato, trarre dall'estremo periglio la Convenzione,
e salvar Parigi dal furore di un nuovo disordine, che urtando libe-
ramente, poteva nelle sue rovine aprire la tomba a tutti i Cittadini :
un'operazione tanto salutare, li procurò dei potenti amici, li meritò la
pubblica ammirazio- ne, la riconoscenza nazionale; in questo giorno
egli trionfò di tutti i cuori: gli amici lo amavano teneramente, lo
temevano grandemente gl'inimici : il suo trion- fo fu molto dissimile a
quello di Mario, di Siila, di Cesare, e di Pompeo; questi volevano,
trionfando, signoreggiare, ed avvilire tutti i Romani: BONAPARTE
riponeva nella grandezza dei Francesi, e nella maggiore loro felicità il
suo trionfo, la sua gloria era di vincere., lasciando alla nazione di
trionfare. La prima azione di questo Giovine Guerriero fu
quella di sostenere nella Patria i diritti delle supreme podestà
contro un forte partito dei suoi, il qual voleva nella morte dei
Governanti assi- curare al disordine la sua dominazione, che è
quanto dire, a Lui viene affidata la grande impresa di frenare, di
avvilire gl'inimici interni della Patria, che sono i più potenti, i
più terribili, perchè i più sicuri di unire alla forza aperta i
funesti progressi di una domestica prodizione. Per tutto questo era
mal sicuro dell'istes^ ssl sua vita, perchè Comandante di tanti
altri armati troppo facili a cedere alla se- duzione di alcuni di quelli,
coi quali ol- tre ad aver comune la patria, erano del medesimo
sangue, divisi soltanto di sen- timento per la formazione di questo,
o dell'altro Governo* pure BONAPARTE superiore ad ogni pericolo,
va, come si disse, condotto dal suo genio a farsi il terrore dei
sediziosi, il salvatore dei Go- vernanti: molto più grande questa
im- presa di quella di Petrejo contro Catili- na, poiché questi
comandava all'aperto a piè dell'Alpi i suoi Armati, dove la co-
gnizione del luogo, e la sua ampiezza dava al Capitano in caso di perdita
il piano per una gloriosa ritirata. Quando per BONAPARTE il campo
di battaglia era Parigi; aveva pertanto comune con gl'inimici
gFistessi ostacoli, i medesimi pericoli, che anzi si facevano maggiori per
Lui; perchè doveva esser sempre nel sospetto, che quella immensa
popo- lazione rivoluzionata, inquieta per l'in- certezza di un
felice destino, potesse fornire ad ogni momento di un maggior
numero di soldati le legioni dei ribelli: con tutto questo le sue
disposizioni fu- rono così giudiziose, il suo coraggio tan- to
sorprendente, che con poco sangue sparso vinse interamente la fazion
nemi- ca, e levò ad essa ogni speranza di risor- gere, per tornare
contro di Lui a nuova pugna. Egli adunque, come Filopemene mandato
a guerreggiare contro gFistessi Greci suoi, non si disse per Lui
ventura il trionfar di loro, ma una soda virtù, mentre quelli, che
eguali han tutte le co- se, non possono che per virtù primeggia- re
sugli altri, e distinguersi più di loro. Se fu capace BON APARTE di
trionfa- re sugl'istessi suoi Francesi, e ciò non per se, ma per il
solo bene dei vinti, ra- gion voleva, che i Governanti ad una prova
tanto singolare d'amore, scegliesscio Lui Comandante in Capo dell'Armata d'Italia,
siccome gl'interpreti sicuri del voto universale dei Francesi, per
aprire cosi un nuovo campo di gloria ai suo valore, ed assicurare a loro
il bene della vittoria sugl'esterni nemici della
Francia. NAPOLEONE va senza ritardo al luogo, ^ove lo attende la
grandezza de' suoi destini; quivi essendo si mostra a tutti i suoi,
come Marc'Autonio mirabi- lissimo nella idea delle sue imprese, le
concepisce quali dovevano essere nel- la mente di un regnante; e più di
Marc" Antonio l'eseguisce con facilità, mentre questi mancava
di una pronta attività per una felice esecuzione. È dunque BO-
NAPARTE, dove nasce l'Appennino e mancan l'Alpi, fra strette gole ed
inacces- sibili dirupi, in quei luoghi istessi prati- cati altra
volta con bravura da un Fla- minio, da un Postumio celebratissimi
Capitani di Roma; quivi egli è a fronte di un inimico, che si avanza
vittorioso da Voltri per battere Monteligino, ulti- mo trinceramento
repubblicano, di dove poi andar più oltre con maggior spedi- tezza,
perchè minori gli ostacoli del luo- go, ed arrivare una volta a por piede
sul terreno Francese, per risvegliare così, ed animare il partito
nemico delia liber- tà. Con tutto questo che pareva tanto prossimo
ad eseguirsi, BONAPARTE nelle concepite disposizioni guerresche, ve- de
sicura l'occupazione dell'Italia; e più oltre andando, non vede tanto
incerto l'approssimarsi alla Capitale dell'Alema- gna: le grandi
distanze, gl'infiniti perico- li, che si frappongono, non lo
distraggo- no un momento dal porsi sulle mosse per dar principio
all'opera, e giungere ad occupare la grandezza del suo fine: i modi
sono presti per vincere; in caso di mancanza, sono pronti gli altri per
trarre dalla sua difesa gli utili di una grande vittoria. Sagace
nella previdenza di tutte le cose, passa con risolutezza dallo
stato di difesa, a quello di offesa; e mentre si occupava rinimico a
vincere le resisten- ze del Capo di Brigata Rampon, BONA- PARTE,
seguitato dai prodi Generali Berthier, e Massena, dirige le truppe
dei suo centro, e della sua sinistra sul fian- co, e alle spalle
degli Alemanni. Questa manovra tanto difficile nel luogo., ed eseguita
sugl'occhi di un inimico vigilantis- simo, preparò la memorabile vittoria
di Montenotte, e la decise; poiché simile ad Alessandro, e a Pirro
nella prestezza delle disposizioni, nell'impeto, e violen- za del
conflitto, divise il corpo di Beau- lieu dagli Austro-Sardi; e mentre
batteva un corpo, l'altro era tenuto a bada, e poi piombando su di
questo, ambedue furon vinti, disordinati, dispersi; la conseguen-
za di ciò fu l'essersi reso padrone del Cairo, di Dego, e della posizione
impor- tantissima di santa Margherita, per cui trovossi al di là
delle cime dell'Alpi, su i declivi, che guardano la bella Italia.
La impresa non fu strepitosa soltanto per essere stata eseguita nel breve
corso 3o di quattro giorni, ma perchè opera di
un Capitano di soli ventisette anni, come Pompeo nell'Affrica
contro Domizio della Fazion Mariana, e Jarba Re de' Mori suo
aleato, per cui questi ebbe da Siila, al- lora Dittatore in Roma, il
titolo di Gran- de. BONAPARTE però più grande di Pompeo per aver
superatigli ostacoli del- la natura in un con quelli opposti
dall'ar- te militare la più studiata, la più per- fetta.
A che ricordarsi più con meraviglia del passaggio dell'Alpi fatto
da Anniba- le? sebben'egli partito dal Rodano con la sua armata di
Numidi, e di Spagnuoli per passar le Gole transalpine, e le Alpi*
per nove giorni di cammino fino alle sue vet- te combatter dovesse
ad ogni passo i Gal- li che in imboscata e con prodizione at-
traversavano, estremamente molesti, la sua gita; e negli altri sei giorni
impiegati nella discesa, niuno essendovi più, che il molestasse,
pure le nevi altissime, i ghiacci, e le bufere rendessero tanto
più malagevole, e pericoloso il suo tragitto: ciò non pertanto più
maraviglioso fu il salire, e il discendere di BONAPARTE, quando in
questo si deve aggiugnere il dover vincere passo passo un inimico,
che in un momento era pronto alla di- fesa, e nell'altro prontissimo
all'Offesa; per cui gli avvenne di essere una qualche volta
respinto; lo che sembrava, e ciò a tutti, una volontaria ritirata,
tant'era presto a riprendere il combattimento con più veemenza, e
risoluzione; come chi, per accrescere il colpo contro le mura
nemiche, par si discosti per levar più alto l'ariete, e la mazza ferrata
a far maggiore la gravità del colpo, e più sol- lecita la sua
distruzione: ed è per questo che il General Augereau forza le Gole
di Millesimo; Menard, e Joubert discac- cian l'inimico da tutte le
posizioni di quei contorni; ma l'inimico è sulle altu- re a
riprenderne delle nuove, e più for- midabili per cui i Francesi in ogni
ora sono chiamati a nuovi disastrosissimi conflitti essi vi vanno
non un movimento pronto, ben regolato e risoluto, in ogni luogo perciò
sormontano il potere dell'inimico. Dopo fatiche così ecceden- ti,,
e sì luminosi vantaggi più non si teme della vittoria; in fatti quando
sugl'albo- ri del sesto dì della battaglia Beaulieu gli attacca,
supera il villaggio del Dego, respinge il general Massena per tre
vol- te assalitore, Victor, e Lannes per ordine di BONAPARTE
piombano sulla sini- stra dell'inimico; ma l'inimico è più for- te;
le truppe repubblicane vacillano per un istante; indi ritornano
all'assalto; raddoppiano il coraggio, e Dego è nuova- mente in lor
potere. Il piano delle ope- razioni dei diversi corpi d'armata è
trop- po concorde perchè il risultato non la- sci mai d'essere
utilissimo al loro avan- zamento: i suoi capi sono sempre insie- me
a combinare su d'un piano troppo attivo e giudizioso, mosso e regolato
dal capo supremo, che lo ideò, che lo compose. La valle pertanto di
Borimela, e quella del Tanaro sono aperte ai repubblicani; le
trincee di Montezimo, e di Ceva sono superate; passano questi il Tanaro,
e ri- nimico è in piena ritirata per la strada del Mondovì: sul far
del giorno i due eserciti sono a fronte l'uno dell'altro; co- mincia nel
villaggio di Vico la zuffa, Fio- rella, e Dammartin attaccano con
impe- to il ridotto, che cuopre il centro del ne- mico, questi
abbandona il campo, passa la Stura, e si pone fra Cuneo, e Chera-
sco entro un recinto bastionato; Masse- na si muove contro, e rovescia le
gran guardie nemiche. Dopo questa operazio- ne i Francesi si
trovano vicino a Turino: il General Colli propone una sospen- sion
d'armi; BONAPARTE vi acconsen- te con la condizione, che vengano a
lui rimesse Cuneo, e Tortona; il Re non sa non approvarlo, e
BONAPARTE con ciò dà alla sua armata in Italia una situazio- ne
sicura ed imponente, e vede aperta senz'altri ostacoli la sua
libera comunicazione con la Francia. Ogni giorno pertanto crescono gli armati,,
BONAPAR- TE gl'impiega al passo del Pò nella gran- de battaglia di
Lodi; con marce, e con- tromarce cuopre air inimico i veri suoi
movimenti, si fa strada tra l'Adda, e il Ticino per dirigere la sua
marcia sopra Milano, mentre Beaulieu ingannato, si affaticava a
fortificarsi tra il Ticino, e la Sesia. Il resultato di queste felici
ope- razioni non aveva in se tutto, che si vo- leva, per andare
senz'altro intoppo dritto dritto alla capitale della Lombardia. Sono
eccellenti le disposizioni del generale inimico per apporne dei nuovi. Questi
ritardarono la marcia, non l'impe- dirono', Beaulieu col suo corpo
d'armata dall'opposta parte dell'Adda guarda con numerosa
artiglieria l'estremità del pon- te di Lodi, che lo cavalca per
l'estensione di cento tese; non volle tagliare il ponte, lusingandosi
cosi di meglio diri- gere il fuoco alla distruzione di tanti ne-
mici insieme strettamente riuniti al suo passaggio. Il soldato francese,
sotto un tanto Duce, conosce il grande pericolo, ma troppo è
animato a superarlo; vede che il passo del ponte è angusto e mici-
diale, ma ad impadronirsene ve li spro- na l'onore, e gl'interessi della
patria: la morte di alcuni aprirà il varco a molti, si muoja,
dicevan essi, purché si vinca. Quanti mai sono che vogliono essere
i primi, contenti di assicurare ai supersti- ti col loro sangue gli
utili d'una gran- de vittoria: il secondo hattaglione de'ca-
rahinieri precede l'armata francese ser- rata in colonna: i prodi si
presentano sul ponte, il fuoco dell'inimico è tanto ter- ribile e
continuato, che la testa della colonna stette in forse per alcuni momen-
ti a fronte di un sì alto pericolo, e se un solo istante di più
s'indugiava, tutto era perduto:Berthier, Massena, Cervoni, Du- prat
si precipitarono alla testa delle trup- pe, e fissarono la fortuna ancor
vacillan- te: l'inimico nell'istante è rovesciato, l'Adda è aperta
alla cavalleria, la vitto- ria è definitivamente decisa. Più di
Cesare glorioso BONAPARTE poiché quello sostenne il ponte sul Aisne
contro Galba, che con le sue forze nu- merosissime tentava superarlo;
quando l 'a i t ro acquistò il ponte di Lodi contro gli Alemanni,
che lo guardavano tanto for- ti: Noyon atterrita apre le porte a
Cesa- re. Milano festeggiante incontra BONA- PARTE; in quello Noyon
teme il suo ti- ranno; in questo Milano ama il suo bene- fattore:
Cesare vinceva per far schiavi i vinti: BONAPARTE trionfa per farli
li- beri. Dalle divisate azioni guerresche chi non vede
riunito in BONAPARTE il co- va ^gio, l'operativa prontezza di
Marcel- la; ìa circospezione, ed il provedimento Fabio Massimo?
Conobbe troppo be- > bON APARTE la importanza delle <e
imprese; e potè dire molto avanti to quello, che solo aveva pensato
di . Si valse opportunamente dei suoi .ta^i con non lasciarsi alle
spalle al- trui inimico: vinto uno dalle sue armi, gli altri
maravigliati, ed atterriti dalle sue vittorie fecero delle proposizioni
di pace, che furono accordate con i vantag- gi dovuti al vincitore;
i quali però non portavano il vinto ad un odioso avvili-
mento. Riunì BONAPARTE in queste opera- zioni la esecuzione
dei pensieri di Mar- cello in Siracusa; di Fabio Massimo nella capitale
de' Tarentini, popolazioni da loro debellate. Marcello per
trattato leva molti bel- 1 issimi simulacri, perchè servissero di
ornamento alla sua patria; la quale siuo allora non aveva, ne avuti, nè
veduti ab- bigliamenti cosi gentili ed isquisiti. Fabio Massimo trasse
fuori denari e ric- chezze, lasciando ai Tarentini i loro nu- mi
sdegnati che eran di marmo. Marcello fu applaudito dal popolo e
condannato dagli uomini di probità. Fabio Massimo fu celebrato da
questi, e non curato dagli altri. Siro Contri, «Il regime fascista».
Siro Contri. Contri. Keywords: il Napoleone di Hegel, del bello, il bello, assiologia,
poetica vichiana, Mussolini, discorso, duce, logica di Hegel, filosofia
dell’essere, l’essere e gli esseri, Hegel contraddetto, il bello, pulchrum,
archeo-scolastici, paleo-scolastici, Aquino, aristotele, il vero, l’errore di
Croce, l’equivoco di Croce, percezione del bello, l’armonia e il bello, del
storicismo alla storiosofia, storiosofia o filosofia della storia,
interpretazione dommatica di Aquino, la negazione di hegel, il concetto puro di
Hegel, la negazione come metodo in Hegel, nihilismo e negazione in Hegel,
l’errore di Hegel, il sofisma di Hegel, Gentile e il bello. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Contri” – The Swimming-Pool Library. Contri.
Grice e Corbellini: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del darwinismo politizzato –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Cadeo, Cardeo). Filosofo italiano. Grice: “I like Corbellini; of course he has to defend
science versus what he calls – alla Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy, which he
calls ‘il paese della pseudoscenza’ – I thought that was Oxford!” I sui
interessi riguardano la grammatical del vivente, la storia della medicina e la
bioetica. Insegna Roma. Si laurea con “L’epistemologia evoluzionistica”.I suoi interessi
di studio hanno riguardato la storia e la filosofia della biologia
evoluzionistica, delle immunoscienze e delle neuroscienze, per includere poi
anche lo studio della storia della malaria e della malariologia in Italia,
delle ricadute della genetica molecolare, delle implicazioni dell’evoluzione e
l'evoluzione. L'approccio storico-epistemologico all'evoluzione trovato una
sintesi nella ricostruzione della storia delle idee di “salute” e malattia e
delle trasformazioni metodologiche a cui è andata incontro la ricerca delle
spiegazione causale della salute. La sua ricerca si è orientata anche verso
l'esame delle radici delle controversie bioetiche. Difende un'idea non
confessionale della bioetica, che ha radici filosofiche in uno scetticismo
morale radicale, naturalistico e non relativista (Bioetica per perplessi. Una
guida ragionata, Mondadori). Coltiva anche
un interesse per la percezione sociale e il ruolo della scienza nella
costruzione del valore civile. Sostiene che l'invenzione e l'espansione del
metodo scientifico hanno consentito e favorito l'evoluzione del libero mercato
e della stato di diritto, ovvero che la scienza ha funzionano come
catalizzatore nella costruzione e manutenzione dei valori critico-cognitivi e
morali che rendono possibile il funzionamento del sistema liberal-democratico. Altre opere: “Nel Paese della Pseudoscienza.
Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie?
Sperimentazione e diritti animali” (Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del
cervello: un'introduzione alla neuro-etica” (Milano, Mondadori Università,;
Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla cura alla scienza” (Milano,
Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi democrazia, Torino, Einaudi); “Perché
gli scienziati non sono pericolosi” (Milano, Longanesi); “La razionalità
negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con Giovanni Jervis), Torino,
Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina basata sull'evoluzione” (Roma-Bari,
Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino, Einaudi); “Breve storia delle idee di salute
e malattia” (Roma, Carocci); “La grammatica del vivente. Storia della biologia
e della medicina molecolare” (Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero
immunologico” (Bollati Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione;
Dall’etica medica alla bioetica; Il senso morale umano e le controversie
bioetiche; 3. Sperimentazione sull’uomo e consenso informato; Scelte di fine
vita; Scelte di inizio vita; Medicina genetica; Sperimentazione animale; Medicina
dei trapianti e definizione di morte; Etica della ricerca responsabile;
Medicina rigenerativa e staminali; Neuroetica; Etica ambientale e OGM; Etica
della comunicazione scientifica, della percezione della scienza e del «gender»;
Indice dei box; Indice analitico; Indice dei nomi. Come nota C. nella
prefazione all’edizione italiana del libro di Ru- bin, il tentativo di
applicare l’approccio evoluzionistico alla filosofia politica spesso rischia di
venire frainteso. Il fraintendimento più comune e pericoloso deriva dalla
mancata distinzione tra il darwinismo politicizzato e la politica darwiniana:
il primo è costituito, come è accaduto nel caso del “social darwinismo”, dall’nterpretazione
strumentale e priva di coerenza logica o di basi scientifiche delle idee
darwiniane per difendere qualche particolare ideologia politica»; la seconda,
invece, consiste nell’«uso delle conoscenze evoluzionistiche sulla natura umana
per meglio comprendere le origini delle preferenze politiche individuali, la
loro distribuzione sociale e le dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e l’ambiente
attuale. Ridley si mostra ben consapevole del rischio di trasformare la politi-
ca darwiniana in ideologia. Questo, tuttavia, non gli impede di avanzare alcuni
suggerimenti di politica economica Cfr. Skyrms, The Evolution of Social
Contract, e Festa “Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali e filosofia
della politica”, Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto, consenso). Alcune
immani tragedie che hanno segnato la storia degli ultimi due secoli sembrano
dovute, almeno in parte, all’ignoranza – e, talvolta, alla ne- gazione – di
alcune caratteristiche essenziali della natura umana. Per esempio, Ridley osserva
che Marx vagheggia un sistema sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo
stati degli angeli, ed è fallito perché siamo invece degli animali. Singer, Una
sinistra dawiniana. Politica, evoluzione e CO0OPERAZIONE, Torino, Edizioni di
Comunità, Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint Academic,
Rubin, La politica secondo Darwin; Corbellini, “Politica darwiniana vs
darwinismo politicizzato”, prefazione a Rubin, La politica secondo Darwin; Ridley.Origini.Virtu.indd
Le origini della virtùsi vedano soprattutto gl’ultimi tre capitoli del saggio –
che gli sembrano compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva
filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche,
che non sarebbe inappropriato chiamare anarco-liberalismo. Tale prospettiva,
ispirata dalla grande fiducia di Ridley negl’ISTINTI CO-OPERATIVI e altruistici
degl’esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine politico-economico
nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico è ridotto ai minimi
termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che immaginava un mondo di liberi
individui. Non sono così ingenuo da pensare che ciò possa accadere da un giorno
all’altro, o che qualche forma di governo non sia necessaria. Ma metto se-
riamente in dubbio la necessità di uno Stato che decide ogni minimo dettaglio
della nostra vita e si attacca come una gigantesca pulce alla schiena della
nazione. D’altra parte, Ridley si rende conto che, mentre le soluzioni
politico-economiche da lui favorite si accordano con alcune tendenze evolutive
umane, confliggono però con altre. Per esempio, egli osserva che certe
istituzioni economi- camente adeguate nella società moderna, come la proprietà
privata, possono entrare in tensione con le tendenze primi- tive
all’egualitarismo, alla redistribuzione e al rifiuto dell’accumulazione di
ricchezza. L’analisi dei conflitti tra le moderne istituzioni politico-economiche
e le nostre ten- denze primitive è uno degli argomenti centrali del già citato
libro di Rubin.Le “Imperfezioni umane” di Pani e C. Covato Mailing Le
“Imperfezioni umane” di Pani e C. Fornire un punto di vista innovativo, cioè
evoluzionistico, di tutto quello che riguarda la salute e le disfunzioni
comportamentali, e suggerire qualche punto di vista originale sul perché
nonostante le dissonanze evolutive, la condizione umana è globalmente
migliorata. È questo l’obiettivo del libro dal titolo “Imperfezioni umane.
Cervello e dissonanze evolutive: malattie e salute tra biologia e cultura”
(Rubbettino), scritto da Luca Pani e C., Roma, Centro studi americani a Via
Caetani. Dopo i saluti di Messa, direttore Centro studi americani,
interverranno alla presentazione moderata da Micaela Palmieri (Tg1) monsignor
Lorenzo Leuzzi, Vescovo ausiliare di Roma, Mingardi, direttore generale
Istituto Leoni, Ippolito, professore di storia della Filosofia a Roma. Negli
ultimi vent’anni una nuova ipotesi di lavoro si è fatta strada in ambito medico
sanitario, definita nel mondo anglosassone «evolutionary mismatch» (dissonanza
evoluzionistica) – raccontano gl’autori -. Questa teoria assume, in pratica,
che l’ambiente nel quale la nostra specie ha acquisito i suoi tratti adattativi
sia drammaticamente cambiato in un tempo troppo breve perché predisposizioni o
tratti genetici e fenotipici dell’organismo fossero in grado di adeguarsi, per
selezione naturale, alle novità”. Le conseguenze di queste dissonanze?
“Disfunzioni o disturbi o rischi che richiedono un approccio medico”. “Il
libro è diviso in tre parti – spiegano Pani e Corbellini – Si inizia con
un’illustrazione dei presupposti di qualunque strategia motivazionale, cioè dei
meccanismi che sono alla base del piacere e delle ricompense, e da cui deriva –
in ultima istanza – la possibilità di acquisire nuove conoscenze che consentono
di affrontare le incertezze psicologiche che si accompagnano a qualunque comportamento
esplorativo. La riflessione prosegue con esemplificazioni di risposte
comportamentali che in particolari (o mutate) condizioni si manifestano come
malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo specifico al comportamento
alimentare e discute l’esempio più eclatante di dissonanza evoluzionistica: il
mismatch metabolico. Gl’ultimi due capitoli affrontano una serie d’imperfezioni
e predisposizioni comportamentali umane che scaturiscono da compromessi
evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel contesto dell’adattamento
evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali determinati dall’evoluzione
culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori fenomeni
disadattativi”. Nel dettaglio gli autori descrivono le dissonanze create
dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda cicli del sonno, accesso al
cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento sociale, oppure di
comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o l’altruismo; ma anche
le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi capitoli del volume
emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive e innovazioni che
hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili cambiamenti
comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica che sussista
nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale, la capacità
di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative disponibili, senza
essere condizionati da fattori fisici o biologici di qualunque genere. Si
assume, in altri termini, che le persone maturino una cosiddetta “agenticità”,
cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di consapevolezza degli
effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla base dei processi
neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi fisiche che li
governano. Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti modi e da
diverse prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica, etc.
Nel corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato strutture cerebrali
che ci fanno appunto credere di essere liberi e poter decidere in completa
autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario
successo di animali sociali Negli ultimi decenni le neuroscienze
cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio, con una
quantità crescente di prove, la visione classica di libero arbitrio, aprendo un
dibattito scientifico ancora in corso. Qual è la sua posizione
all’interno del dibattito? La mia posizione è che il libero arbitrio è
una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle
neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il libero
arbitrio, allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo
immaginare. Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della specie,abbiamo
sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto credere di essere liberi e
poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il
nostro straordinario successo di animali sociali. Il libero arbitrio è
un’illusione, ma un’illusione molto produttiva. L’intuizione di ritenersi
liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di autoinganno, come tante
altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel tempo è stata
socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso
individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne derivano anche
per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base di un sistema
di obblighi. Ovviamente questa strategia è modulata da specifiche condizioni
ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa illusione si può
espandere e diventare la base di sistemi anche molto progrediti per qualità di
vita, come quelli occidentali, mentre in altri ambienti di vita sarà più
adattativo che tale intuizione e illusione non maturi neppure, o maturi in
forme che sono funzionali a all’accettazione di un comportamento
consapevolmente eterodiretto. L’intuizione di ritenersi liberi è
una forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente addomesticata per
inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di
responsabilità Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale?
Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano? In
che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze?
Non è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del
cervello che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che
controllano la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che alcune
condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con le
proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione di
un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio in
generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone; ovvero
che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere
parentale o reciproco. Mentre situazioni contrarie all’ordine morale
appreso socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente
reazioni di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o
disprezzo). Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali
con altre persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un
calcolo razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o
calcolata. Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione
entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare.
Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che
mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti,
che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo
le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o
diverse. In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza
ed entrano in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche
livello, e quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla
base della funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono
far scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle
prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando
che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere
deleterie. In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo
praticamente uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe
spiegare come ci siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi
decisionali tribali od oppressivi. Credits to Unsplash. Parliamo del
legame tra violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto dall’aggressività
nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili determinanti genetiche
del comportamento aggressivo? L’aggressività, come la cooperazione,
è stata un fattore chiave per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra
specie. Come tutti i tratti, l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono
persone geneticamente più predispostedi altre all’aggressività. È
verosimile che la selezione sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni
della cooperazione in alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo
socio-culturale che nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul
pianeta, e soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato
lo stato di diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta
contro la criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai
stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in
generale, rispetto a oggi. Pinker ha dimostrato questo fatto in un
dettagliatissimo e acuto saggio, “Il declino della violenza”. Nella
storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non
solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi E per quanto
riguarda la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello
maschile, cervello femminile e comportamento aggressivo? Le differenze di
genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente
l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente
aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto
alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul
piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente
aggressive anche più dei bambini. Queste differenze, come altre, dipendono
verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e rispondono a
strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente dell’evoluzione.
Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile dipende molto dai
contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e culturali che influenzano,
ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci sono prove concrete del fatto
che il patriarcato e la sua istituzione giuridica sono fattori importanti per
la persistenza della violenza maschile ai danni delle donne, e del fatto che
ridurre il dominio maschile attraverso delle adeguate politiche sociali riduce
la violenza maschile e che la cooperazione tra donne riduce la violenza
maschile sia contro le donne sia contro altri uomini. Parliamo ora delle
differenze individuali nel controllo degli impulsi. Non ci sono moltissimi
dati, ma uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel cervello
quando si fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa ritardata,
ovvero come viene rappresentata dinamicamente nel cervello la svalutazione del
ritardo quando si sta aspettando e anticipando una ricompensapossibile che è
stata desiderata e scelta. La corteccia prefrontale ventromedialemanifesta
uno schema caratteristico di attività durante il periodo di ritardo nel
ricevere la ricompensa, oltre a esercitare un’attività modulatoria durante la
scelta, che è coerente con la codificazione del tempo durante il quale avviene
una svalutazione del valore soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta
uno schema di attività simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi.
Un profilo contrastante di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata
osservata nella corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone
pazienti, cioè non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e
corteccia prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire
come – influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato
ventrale. Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e
l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future
ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo
post-scelta. Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi
lasci citare ancora Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e
agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura». La vera libertà,
è autonomia e indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è
tanto più liberi e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del
nostro cervello, altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono
autonomo e meno soggetto o costrizioni esterne. Credits to
Unsplash.com Quali sono le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e
dei fattori ambientali sulla capacità decisionale (anche ai fini dell’imputazione
penale)? Può condividere con noi qualche caso di studio? Casi di
studio ce ne sono diversi, ma quelli al momento più esemplari riguardano gli
effetti delle varianti alleliche del gene della mono-amin-ossidasi A, detto
anche “gene del guerriero”, in quanto collegato all’aggressività su basi
osservazionali mirate. In sostanza, le persone con la variante che produce meno
mon-amino-ossidati A. rispondono in modi più aggressivi e violenti, rispetto a
chi esprime livelli più alti. Il fatto interessante è che se queste
persone predisposte all’aggressività sono state allevate in ambienti
accoglienti, esprimono un’aggressività minore rispetto a omologhi genetici
cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati sperimentali in ambito psicologico
e di economia comportamentale dimostrano che le aggressioni hanno luogo con
maggiore intensità e frequenza, quando provocate in un contesto sperimentale,
soprattutto in soggetti con una bassa attività di mono-amino-ossidati A. Gli studi sperimentali mostrano anche che il mono-amin-ossidati
A è meno associato con la comparsa dell’aggressione in una condizione di bassa
provocazione, ma predice più significativamente il comportamento aggressivo in
una situazione molto provocatoria. Esiste ormai una letteratura
sterminata anche sui casi di persone con anomalie morfologiche e funzionali
dell’amigdala che regolarmente esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non
provano emozioni negative quando provocano sofferenze in altri individui. Si
conoscono inoltre casi di tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano
la personalità individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in
quanto un tumore cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali. La memoria
del testimone: in particolare, come si accerta l’attendibilità della
testimonianza e quali sono i principali metodi di verifica? Il sistema
giudiziario si fonda sulla memoria: interrogatorio/confronto, testimonianze,
ricordo dei giurati al momento di discutere il verdetto. Ma la memoria umana è
falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a
false memorie. Gli stati emotivi influenzano la qualità della memoria. La
nostra storia personale influenza il modo in cui ricordiamo. Gli psicologi e
gli esperti studiano soprattutto il problema della testimonianza oculare,
perché in ben tre casi su cinque le identificazioni si rivelano
sbagliate. Esistono diversi metodi di controllo/verifica e volti a
ridurre gli errori nelle testimonianze. Uno di questi analizza per esempio
l’accuratezzadella testimonianza oculare e delle modalità di interrogatorio del
testimone, per arrivare a una probabilità relativa al caso. Il
sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma la memoria umana è falsata: il
cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false
memorie. Esiste anche un diritto alla riservatezza per i nostri ricordi.
Nel senso che se io non intendo comunicare a qualcuno un ricordo, ho diritto a
tenerlo per me. Un giudice deve avere forti ragioni per forzare l’accesso alla
mia memoria, ed è comunque tenuto a rispettare i miei diritti fondamentali se
ci prova. Se davvero si riuscirà a costruire affidabili brain lie detector,
macchine della verità con accesso alle memorie cerebrali, si configurerà un
problema sul fronte di normare i limiti del diritto di un giudice far rilevare
impronte mnestiche del nostro cervello, i ai fini di un’indagine processuale.
Non tanto per la riservatezza del dato di interesse, cioè se un imputato o un
testimone mentono o dico la verità nel caso in specie, ma per il fatto che
quell’accesso può rendere noti dei fatti che non hanno rilevanza con l’indagine
e che potrebbero danneggiare la persona. Inoltre, alcuni farmaci e
tecnologie possono potenziare la memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito
consentire a o incentivare alcuni attori del procedimento giudiziario (giudici
e giurati) a potenziare le loro memorie ai fini di un più efficiente
funzionamento del sistema? La morale ha, o potrebbe avere, un fondamento
biologico? La morale ha un fondamento biologico. La morale serve a tenere
insieme i gruppi umani sociali, e ha creato le premesse sociobiologiche per
l’affermarsi della religiosità quale sistema di controllo incorporato nelle
persone e alimentato socialmente per garantire che i valori morali adattativi
in società meno complesse delle nostre siano mantenuti e trasmessi. In
prospettiva: quali sono a suo avviso i possibili intrecci tra acquisizioni
neuroscientifiche e diritto penale? Quale impatto potrebbero avere sugli
attuali meccanismi di attribuzione della responsabilità e di applicazione della
pena? Su questo punto la penso come chi ha detto che con l’arrivo delle
neuroscienze, nel diritto, cambia tutto e non cambia niente. Vale a dire che il
concetto di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione
(caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati,
perché privi di basi teorico-fattuali. Mentre si potrebbe affermare un concetto
consequenzialista(utilitarista) della concezione della pena, più vicino al
diritto positivo. Il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo
di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono
destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali In
Italia, come vengono accolte dalla magistratura le evidenze neuroscientifiche?
E a livello internazionale? L’Italia è all’avanguardia, se così si può
dire, nell’uso di prove neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in
particolare, Trieste e Como, riconobbero il ruolo causale di tratti
neurogenetici nel comportamento delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno
sconto di pena. Le sentenze italiane sono state accolte con allarme in
diversi contesti internazionali. Ma c’è poco da fare: se queste conoscenze e
tecnologie acquisiranno una base sperimentalmente solida e consentiranno di
prevedere con buona attendibilità le predisposizioni a commettere reati, è
inevitabile che entreranno a far parte dello strumentario di lavoro dei
giudici. Tuttavia, esiste un’ambivalenza in Italia, come in altri paesi,
verso l’uso delle prove neuroscientifiche. Intanto in Italia non tutti i
giudici hanno ancora chiaro cosa sia una perizia neuroscientifica e ignorano
criteriepistemologicamente validi e formalmente definiti per scegliere periti
che apportino davvero prove scientifiche e controllate nel contesto di un
dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione abbia in sentenze recenti
fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole di ammissibilità delle
prove nei processi statunitensi. Inoltre, si tratta comunque di definire
cosa implica una diminuita imputabilità per colui che commette un reato, in
quanto le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo di funzionare del
cervello e dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è meno libero di
altri e quindi anche meno responsabile, e quindi le sanzioni dovrebbero essere
volte a ridurre al minimo le probabilità di reiterazione del o dei reati. Il
riferimento è al noto scritto di Greene, J. Cohen, For the law, neuroscience
changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci. Ricerca
Storia del pensiero evoluzionista aspetti storici dell'evoluzionismo Lingua
Segui Modifica Evoluzione CollapsedtreeLabels- simplified.svg Meccanismi e
processi Adattamento Deriva genetica Equilibri punteggiati Flusso genico
Mutazione Radiazione adattativa Selezione artificiale Selezione ecologica
Selezione naturale Selezione sessuale Speciazione Storia dell'evoluzionismo
Storia del pensiero evoluzionista Lamarckismo Charles Darwin L'origine delle
specie Neodarwinismo Saltazionismo Antievoluzionismo Campi della Biologia
evolutiva Biologia evolutiva dello sviluppo Cladistica Evoluzione della vita
Evoluzione molecolare Evoluzione degli insetti Evoluzione dei vertebrati
Evoluzione dei dinosauri Evoluzione degli uccelli Evoluzione dei mammiferi
Evoluzione dei cetacei Evoluzione dei primati Evoluzione umana
Filogenetica Genetica delle popolazioni Genetica ecologica Medicina
evoluzionistica Genomica della conservazione Portale Biologia La prima
traccia dell'idea di un'evoluzione biologicadegli esseri viventi è la teoria
sull'origine della vitaattribuita ad Anassimandro di Mileto. Gli animali ebbero
origine nell'acqua, dove erano tutti simili a pesci; con il tempo sono saliti
sulla terraferma dove, liberati dalle scaglie, hanno continuato a vivere. Tale
fu anche l'origine dell'uomo. Con l'avvento del Cristianesimo, e fino almeno
all'evo moderno, l'indagine scientifica fu dominata dall'impianto filosofico
essenzialista di derivazione aristotelica, nel quale la possibilità stessa della
conoscenza si fonda sulla fissità della specie; inoltre, l'evoluzione non si
armonizza con la Genesi e non trova collocazione in un sistema di riferimento
che considera le specie immutabili perché perfette, in quanto create ex nihilo
da Dio. Nel XVII secolo, col riaffiorare delle antiche concezioni, la parola
evoluzione cominciò ad essere utilizzata come riferimento a un'ordinata
sequenza di eventi, particolarmente quando un risultato si trovava, in qualche
modo, già dall'inizio contenuto all'interno di essa. La storia naturale si
sviluppò enormemente, mirando ad investigare e catalogare le meraviglie
dell'operato di Dio. Le scoperte effettuate dimostrarono l'estinzione delle
specie, che fu spiegata dalla teoria del catastrofismo di Georges Cuvier,
secondo cui gli animali e le piante venivano periodicamente annientati a causa
di catastrofi naturali per poi essere rimpiazzate da nuove specie create dal
nulla. In contrapposizione ad essa, la teoria dell'Uniformitarismo di James
Hutton, del 1785, ipotizzava un graduale sviluppo della Terra, il cui aspetto
non era dovuto ad eventi catastrofici ma a un lento processo perpetuatosi
attraverso gli eoni. Darwin, nonno di Charles, avanza delle ipotesi sulla
discendenza comune affermando che gli organismi acquisivano "nuove
parti" in risposta a degli stimoli e che questi cambiamenti venivano
trasmessi alla loro discendenza; nel 1802 suggerì la selezione naturale. Nel
1809, Jean-Baptiste Lamarcksviluppò una teoria simile (l'"ereditarietà dei
caratteri acquisiti"), la quale ipotizzava che tratti
"necessari" venissero ereditati col passaggio da una generazione alla
successiva. Queste teorie di trasmutazione furono sostenute in Gran Bretagna
dai Radicali come Robert Edmond Grant. In questo periodo l'opera di Thomas
Malthus, Saggio sul principio della popolazione, influenzò il libero pensiero
mostrando come l'incremento della popolazione mondiale fosse correlato a un
eccesso nelle risorse disponibili. Varie teorie furono proposte per
riconciliare la Creazione biologica con le nuove scoperte scientifiche, incluso
l'attualismo di Charles Lyellsecondo cui ogni specie aveva un suo "centro
di creazione" ed era progettata per un particolare habitatil cui
cambiamento portava inevitabilmente alla sua estinzione. Charles Babbage
ritenne che Dio avesse creato le leggi per un programma divino che operava per
la produzione delle specie e Owen seguì Johannes Müller nel pensiero che la
materia vivente avesse un'"energia organizzativa", una forza vitale
(Lebenskraft) che, dirigendo lo sviluppo dei tessuti, determinava l'arco di
vita degli individui e delle specie. AntichitàModifica GreciModifica
Ipotesi secondo cui un tipo di animale, perfino l'essere umano, potesse
discendere da altri tipi di animali erano state formulate dai filosofi greci
Presocratici. Anassimandro di Mileto suppose che i primi animali vivessero in
acqua, durante una fase umida del passato della Terra, e che i primi avi
viventi a terra della razza umana dovevano essere nati in acqua, e aver passato
solo una parte della loro vita sulla terraferma. Intuì anche che il primo umano
della forma conosciuta oggi doveva essere stato il figlio di un altro tipo di
animale, perché l'uomo ha bisogno di un lungo periodo di accudimento per
raggiungere l'autonomia. Empedocle di GIRGENTI; intuì che quello che noi
chiamiamo nascita e morte degli animali sono solamente il mischiarsi e il
separarsi degli elementi che formano "l'infinita tribù delle cose
mortali". Più in particolare, i primi animali e le prime piante erano
simili alle parti divise che formano quelli che vediamo oggi, qualcuna delle
quali sopravvisse unendosi in differenti combinazioni, e poi mescolandosi di
nuovo, finché "tutto riuscì come se fosse stato fatto di proposito, lì le
creature sopravvissero, essendo accidentalmente composte in modo
corretto". Altri filosofi diventarono più importanti nel Medioevo, fra cui
Platone, Aristotele, ed esponenti della scuola stoica di filosofia, credevano
che le specie di tutte le cose, non solo viventi, fossero state stabilite da un
progetto divino. Epicuro dell’ORTO ha anticipato l'idea della selezione
naturale. Il filosofo romano e atomista LUCREZIO espone queste idee nel suo
poema De rerum natura (Sulla natura delle cose). Nel sistema Epicureo, si è
ipotizzato che molte specie siano state generate spontaneamente da Gea in
passato, ma che solo le forme più funzionali siano sopravvissute e abbiano
avuto progenie. Gli epicurei non sembrano aver anticipato l'intera teoria
dell'evoluzione come la conosciamo oggi, ma sembra che abbiamo postulato una
teoria abiogeneticaseparata per ciascuna specie, piuttosto che postulare un
singolo evento abiogenetico con la differenziazione delle specie a partire da
uno o più organismi progenitori originari. Cinesi Antichi pensatori
cinesi come Zhuang Zhou, un filosofo taoista, hanno espresso varie idee su come
le specie biologiche si siano diversificate. Secondo Joseph Needham, il Taoismo
nega esplicitamente la fissità delle specie biologiche, e filosofi taoisti
ipotizzano che le specie abbiano sviluppato diversi attributi in risposta ad
ambienti differenti. Il Taoismo insegna che gli esseri umani, la natura e il
cielo sono in uno stato di "trasformazione costante" noto come il
Tao, una visione della natura in contrasto con quella più statica tipica del
pensiero occidentale. Romani Il poema di Lucrezio De rerum natura
fornisce la migliore spiegazione superstite del pensiero dei filosofi epicurei
greci. Esso descrive lo sviluppo del cosmo, la Terra, gli esseri viventi, e la
società umana attraverso meccanismi puramente naturalistici, senza alcun
riferimento al coinvolgimento soprannaturale. De rerum natura potrebbe aver
influenzato le speculazioni cosmologiche ed evolutive di filosofi e scienziati
durante e dopo il Rinascimento. Il suo punto di vista è in forte contrasto con
le opinioni di filosofi romani della scuola stoica come CICERONE, Seneca, e PLINIO
il Vecchio che avevano una visione fortemente teleologica del mondo naturale
che ha influenzato la teologia cristiana. CICERONE riporta che la visione
peripatetica e stoica delle natura riguarda fondamentalmente il produrre vita
"capace di sopravvivere nel migliore dei modi", cosa data per
scontata tra l'élite ellenistica. Agostino. Agostino in un dipinto di Lippi In
linea con il precedente pensiero greco, il vescovo e teologo del IV secolo,
Agostino di Ippona, scrisse che la storia della creazione nel libro della
Genesi, non doveva essere letta troppo alla lettera. Nel suo libro De Genesi ad
litteram ("Sul significato letterale della Genesi"), ha dichiarato
che in alcuni casi le nuove creature potrebbero essersi originate attraverso la
"decomposizione" di precedenti forme di vita.[9] Per Agostino — a
differenza di quelle che considerava le forme teologicamente perfette degli
angeli, il firmamento e l'anima umana — le "piante, uccelli e la vita
animale non sono perfetti… ma creati in uno stato di potenzialità".[10]
L'idea di Agostino che le forme di vita siano state trasformate
"lentamente nel corso del tempo" ha spinto padre Giuseppe
Tanzella-Nitti, docente di teologia presso la Pontificia Università della Santa
Croce di Roma, a sostenere che Agostino abbia suggerito una forma di
evoluzione. Osborn scrisse in From the Greeks to Darwin (1894): "Se
l'ortodossia di Agostino fosse rimasta una dottrina della Chiesa, la scoperta
dell'evoluzione sarebbe avvenuta molto prima di quanto non abbia fatto,
certamente nel corso del XVIII invece del XIX secolo, e la controversia su
questa verità della Natura non sarebbe mai sorta… Chiaramente la creazione
diretta o istantanea di animali e piante sembrava essere insegnata dalla
Genesi, Agostino lesse questo alla luce del nesso di causalità primaria e il
graduale sviluppo da imperfetto a perfetto spiegato da Aristotele. Questo
influente insegnante ha così tramandato ai suoi seguaci pareri strettamente
conformi alle vedute progressiste di questi teologi del nostro tempo che hanno
accettato la teoria evoluzione. In Storia della lotta della scienza con la
teologia nella cristianità (A History of the Warfare of Science with Theology
in Christendom, 1896), dove Andrew Dickson White scrisse sui tentativi di
Agostino di preservare l'antico approccio evolutivo alla creazione:
"Per secoli una dottrina largamente accettata era che l'acqua, la
sporcizia, e le carogne avevano ricevuto il potere dal Creatore per generare
vermi, insetti, e una moltitudine di piccoli animali; e questa dottrina era
stata accolta con particolare favore da Sant'Agostino e molti dei padri
fondatori, in quanto solleva l'Onnipotente dal creare, Adamo dal nominare, e
Noè dal vivere nell'arca con queste innumerevoli specie disprezzate. In De
Genesi contra Manichæos, Agostino dice: "Supporre che Dio creò l'uomo
dalla polvere con le mani è molto infantile… Dio non plasmò l'uomo con le mani
né soffiò su di lui con la gola e le labbra…" Agostino suggerisce in altri
lavori la sua teoria dello sviluppo degli insetti dalle carogne, e l'adozione
della vecchia teoria dell'evoluzione, mostrando che "alcuni animali molto
piccoli non possono essere stati creati nei giorni quinto e sesto, ma possono
essere stati originati in seguito dalla putrefazione della materia." Per
quanto riguarda l'agostiniana De Trinitate ("Sulla Trinità"), Andrew
White ha scritto che Agostino "…sviluppa finalmente l'idea che dietro la
creazione di esseri viventi c'è qualcosa di simile a un'evoluzione, di cui Dio
è l'autore ultimo, che opera attraverso le cause seconde; e, infine, sostiene
che alcune sostanze sono dotate da Dio del potere di produrre alcune classi di
piante e animali.. Una pagina del Kitāb al-Hayawān (libro degli animali) di
Al-Jāḥiẓ La filosofia islamica e la lotta per l'esistenzaModifica Anche se le
idee evolutive di greci e romani si estinsero in Europa dopo la caduta
dell'Impero romano d'Occidente, non furono abbandonate dai filosofi e scienziati
islamici. Nell'Epoca d'oro islamica, dall'VIII al XIII secolo, i filosofi
esplorarono nuove idee nel campo della storia naturale, quali la trasmutazione
dal non vivente al vivente: "dal minerale al vegetale, dalla pianta
all'animale, e dall'animale all'uomo. Nel mondo islamico medievale, lo studioso
al-Jahiz(776 -868) scrisse un libro sugli animali nel IX secolo, dove descrive
la catena alimentare.[16] Nel 1377, Ibn Khaldun scrisse il Muqaddimah in
cui afferma che gli esseri umani si sono sviluppati dal "mondo delle
scimmie", in un processo attraverso il quale "le specie diventano più
numerose". Alcuni dei suoi pensieri, secondo alcuni commentatori,
anticipano la teoria biologica dell'evoluzione. Nel primo capitolo si legge:
"Il mondo con tutte le cose in esso create ha un certo ordine e la sua
solida costruzione mostra nessi tra cause ed effetti, combinazioni fra alcune
parti della creazione ed altre, trasformazioni di alcune cose esistenti in
altre, in uno straordinario reticolo senza fine. Aquino in un dipinto di Carlo
Crivelli Durante il Medioevo, la cultura classica greca decadde in Occidente.
Tuttavia, il contatto con il mondo islamico, dove i manoscritti greci erano
stati conservati e ampliati, ben presto portò a un'ondata massiccia di traduzioni
latine nel XII secolo, che re-introdussero in Europa le opere greche, nonché
quelle del pensiero islamico. La maggior parte dei teologi cristiani
credeva che il mondo fosse progettato secondo una gerarchia immutabile, la
grande catena dell'essere o scala naturae, che influenzò il pensiero della
civiltà occidentale per secoli. Altri teologi erano più aperti alla possibilità
che il mondo si fosse sviluppato attraverso processi naturali. AQUINO si spinse
oltre il pensiero di Agostino nel sostenere che i testi sacri come la Genesi
non dovessero essere interpretati in modo letterale, poiché ciò si poneva in
conflitto con quello che i filosofi naturali avevano imparato sul funzionamento
del mondo naturale, e li vincolava dallo scoprire nuove cose[non chiaro].
L'Aquinate pensava che l'autonomia della natura fosse un segno della bontà di
Dio, e che non vi era alcun conflitto tra il concetto di un universo
divinamente creato, e l'idea che l'universo si potesse essere evoluto nel tempo
attraverso meccanismi naturali.Tuttavia, Tommaso contestava i sostenitori di
Empedocle, che sostenevano che l'universo avrebbe potuto svilupparsi anche
senza un obiettivo di fondo.[21] Rinascimento e IlluminismoModifica
Comparazione di uno scheletro umano con uno scheletro di uccello ad opera di
Pierre Belon La filosofia meccanica di Cartesio incoraggiò l'uso della metafora
dell'universo come macchina, un concetto che avrebbe caratterizzato la
rivoluzione scientifica. Alcuni naturalisti, come Benoît de Maillet, produssero
teorie che sostenevano che l'universo, la Terra, e la vita, si erano sviluppati
meccanicamente, senza una guida divina. Nel 1751, Pierre Louis Maupertuis virò
verso un'idea più materialista, scrivendo che le modifiche naturali si
verificano durante la riproduzione e si accumulano nel corso di molte
generazioni, producendo razze e specie nuove; una descrizione che ha anticipato
il concetto di selezione naturale.[22] La parola evoluzione (dal latino
evolutio, "srotolare, svolgere") è stata inizialmente utilizzata in
riferimento allo sviluppo embrionale; il suo primo impiego in relazione allo
sviluppo della specie è venuto nel 1762, quando Charles Bonnet la ha utilizzata
per il suo concetto di "pre-formazione", in cui le donne portavano
una forma in miniatura di tutte le generazioni future. Il termine ha poi
guadagnato gradualmente il significato più generale di crescita o sviluppo
progressivo. Più tardi nel XVIII secolo, il filosofo francese Georges-Louis
Leclerc, conte di Buffon, uno dei più importanti naturalisti del tempo, ha
suggerito che le specie erano in realtà solo delle varietà ben delineate,
prodotte dalle modifiche, dovute a fattori ambientali, di un organismo
originale. Ad esempio, credeva che leoni, tigri, leopardi e gatti di casa
potessero avere tutti un antenato comune. Leclerc ha inoltre ipotizzato che le
circa 200 specie di mammiferi conosciute in quel periodo potessero essere
derivate da solo 38 forme animali originali. Le idee evolutive del conte erano
però limitate; credeva che ciascuna delle forme originali fossero sorte per
generazione spontanea e che ognuno fosse stata modellata da "muffe
interne" che limitavano la quantità di cambiamenti possibili. Le opere di
Buffon, Histoire Naturelle (1749-1789) e Époques de la nature (1778), contengono
teorie ben sviluppate sull'origine materialista della Terra; la sua messa in
discussione della fissità della specie è stata estremamente
influente.[24] Un altro filosofo francese, Denis Diderot, scrive che le
cose viventi possono essere sorte per generazione spontanea, e che le specie
sono in uno stato di costante evoluzione attraverso un processo in cui nuove
forme di vita sorgono continuamente, e possono sopravvivere o meno in base al
caso; un'idea che può essere considerata un'anticipazione parziale della teoria
della selezione naturale.[22] Tra il 1767 e il 1792, James Burnett, Lord di
Monboddo, incluse nei suoi scritti, non solo il concetto che l'uomo era disceso
dai primati, ma anche che, in risposta all'ambiente, le creature avevano
trovato metodi di trasformare le loro caratteristiche in lunghi intervalli di
tempo.[25] Il nonno di Charles Darwin, Darwin, pubblicò Zoonomi, dove suggerì
che "tutti gli animali a sangue caldo sono sorti da un filamento
vivente".[26] Nel suo poema Tempio della Natura (1803), Erasmus ha
descritto il progredire della vita dai minuscoli organismi viventi nel fango
fino a giungere alla biodiversità moderna.[27] La nascita della teoria di
DarwinModifica All'Università di Edimburgo, durante gli studi, Charles Darwin
fu coinvolto direttamente negli sviluppi della teoria evoluzionistica di Robert
Edmund Grant, ispirata dalle idee di Erasmus Darwin e Lamarck. In seguito,
all'Università di Cambridge, i suoi studi di teologia lo convinsero ad
accettare le considerazioni di William Paley sul "disegno" di un
Creatore, mentre il suo interesse nella storia naturale aumentò grazie al
botanico John Stevens Henslow e al geologo Adam Sedgwick, entrambi fermamente
credenti in una creazione divina e nell'antico uniformismo della terra. Durante
il viaggio del Beagle, Darwin si convinse della fondatezza dell'attualismo di
Lyell e cercò di conciliare le varie teorie creazionistiche con le prove che
riuscì ad evidenziare. Al suo ritorno, Richard Owen dimostrò che i fossili che
Darwin aveva trovato, appartenevano a specie estinte mostranti relazioni con
delle specie viventi in alcune località. John Gould rivelò con sorpresa che gli
uccelli completamente diversi ritrovati nelle Isole Galápagos erano, in realtà,
13 specie diverse di fringuelli (conosciuti ora, volgarmente in tutto il mondo,
come i Fringuelli di Darwin). Schizzo di un albero filogeneticodisegnato
da Darwin negli appunti preparatori del suo First Notebook on Transmutation of
Species. Dagli inizi del 1837 Darwin
meditò sulla trasmutazionein una serie di appunti segreti. Si occupò inoltre
della selezione artificiale delle razze domestiche, consultando William Yarrell
e leggendo un opuscolo scritto da un amico, Sir John Sebright, il quale
commentava come "con un severo inverno, o una scarsità di cibo, attraverso
l'uccisione degli individui deboli e malaticci, si avessero tutti i migliori
effetti della più abile selezione". Nel 1838, in uno zoo, vide per la
prima volta una scimmia antropomorfa: il bizzarro comportamento di un orango lo
impressionò per la somiglianza con quello di un "bambino dispettoso"
e, dalla sua esperienza sui nativi della Terra del Fuoco, lo portò a pensare
che non ci fosse poi un grande abisso tra gli uomini e gli animali, a dispetto
della dottrina teologica che considera solo la specie umana possedente
un'anima. Nel tardo settembre del 1838 Darwin cominciò a leggere la sesta
edizione del Saggio sul principio della popolazione di Malthus, con la quale
ricordò la dimostrazione statistica secondo cui la popolazione umana,
riproducendosi al di sopra dei propri mezzi, competesse per la sopravvivenza.
In questo periodo tentò di applicare per primo questi principi alle specie
animali. Darwin applicò nella sua ricerca il pensiero liberista sulle leggi di
Natura, considerando la pura lotta per la vita priva di sostegni esterni. Dal
dicembre 1838 intravide una somiglianza tra il concetto della selezione
artificiale e la Natura Malthusiana che selezionava, attraverso il cambiamento,
le varianti da eliminare, in modo che ogni parte delle nuove strutture
acquisite fosse pienamente pratica e perfetta. L'origine delle
specieModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
L'origine delle specie. La sintesi evolutiva modernaModifica Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Neodarwinismo.Anassimandro di
Mileto afferma che dall'acqua e dalla terra riscaldate sarebbero nati dei pesci
o degli animali molto simili a pesci; in questi concrebbero gli uomini, e i
feti vi rimasero rinchiusi fino alla pubertà. Quando questi si spezzarono,
allora finalmente ne uscirono uomini e donne che potevano già nutrirsi."
(Censorino, De die natali) ^ "[Anassimandro] dice pure che da principio
l'uomo fu generato da animali di altra specie." (Plutarco, Doxa) ^ Franco
Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Colin A. Ronan, The Shorter Science
and Civilisation in China: An Abridgement by Colin A. Ronan of Joseph Needham's
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non è stato un mago", su huffingtonpost.it, Huffington Post, 27 ottobre
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Khaldūn, Chapter 1: "Sixth Prefatory Discussion, in Muqaddimah. ^ Ian C.
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Scientific Society of Brussels. ^ Tommaso d'Aquino, Commentario al "De
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Secret Histories of Scotland, Edinburgh, Erasmus Darwin, Zoonomia o Le leggi
organiche della vita, Londra, Joseph Johnson, Erasmus Darwin, Tempio della
Natura , ossia L'origine della Società: Un poema con note filosofiche, Londra,
Joseph Johnson, 1803. Voci correlate Evoluzione Creazionismo Dibattito fra
creazionismo ed evoluzionismo Altri progettiModifica Collegamenti
esterniModifica ( EN ) Storia del pensiero evoluzionista, in Catholic
Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Portale
Biologia Portale Filosofia Portale Storia L'origine
delle specie saggio di divulgazione scentifica di Charles Darwin
Darwinismo teoria dell'evoluzione proposta da Charles Darwin
Evoluzionismo teista dottrina. In the few years of the pre- Christian
period that remained the teaching of Empedocles, and of Epicurus as the
mouthpiece of the y atomic theory, was revived by LUCREZIO in his “De Rerum
Natura.” Of that remarkable man but little is recorded, and the record is
untrustworthy. LUCREZIO died by his own hand, Jerome says, but of this
there is no proof. It is difficult, taking up LUCREZIO’s wonderful poem, to
resist the temptation to make copious extracts from it, since, even
through the vehicle of Munro's annotations, it is probably little
known to the Oxford pupil in Literae Humaniores in these evil days of
snippety philosophy. But the temptation must be resisted, save in
moderate degree. With the dignity which his high mission inspires, LUCREZIO
appeals to us in the threefold character of teacher, reformer, and poet. First,
by reason of the greatness of my argument, and because I set the
mind free from the close-drawn bonds of your Roman superstitions; and next
because, on so dark a theme, I compose such lucid verse, touching every point
with the grace of poesy. As a teacher, LUCREZIO expounds the doctrines of
The Garden (L’Orto) concerning life and nature. As a reformer, LUCREZIO attacks
the Roman superstitions. As a philosophical poet, LUCREZIO informs both the
atomic philosophy and its moral application with harmonious and beautiful verse
swayed by a fervour that is akin to religious emotion. Discussing at the
outset various theories of origins, and dismissing these, notably that which
asserts that things came from nothing — "for if so, any
kind might be born of anything, nothing would require seed," LUCREZIO
proceeds to expound the teaching of the atomists as to the constitution
of things by particles of matter ruled in their movements by unvarying
laws. This theory LUCREZIO works all round, explaining the processes by
which the atoms unite to carry on the birth, growth, and decay of
things, the variety of which is due to variety of form of the atoms and
to differences in modes of their combination; the combinations being
deter- mined by the affinities or properties of the atoms
themselves, " since it is absolutely decreed what each thing can and
what it cannot do by the conditions of Nature." Change is the law of
the universe;. what is, will perish, but only to reappear in another
form. Death is "the only immortal"; and it is that and
what may follow it which are the chief tormentors of men. " This
terror of the soul, therefore, and this darkness, must be dispelled, not
by the rays of the sun or the bright shafts of day, but by the
outward aspect and harmonious plan of Nature." LUCREZIO explains
that the soul, which he places in the centre of the breast, is also formed
of very minute atoms of heat, wind, calm air, and a finer essence, the
pro- portions of which determine the character of both men and
animals. It dies with the body, in support of which statement LUCREZIO
advances XVIII arguments, so determined is he to " deliver those who
through fear of death are all their lifetime sub- ject to
bondage." These themes fill the first three books. In
the fourth he grapples with the mental problems of sensation and
conception, and explains the origin of belief in immortality as due to
ghosts and appari- tions which appear in dreams. " When sleep
has prostrated the body, for no other reason does the mind's
intelligence wake, except because the very same images provoke our minds
which provoke them when we are awake, and to such a degree that we
seem without a doubt to perceive him whom life has left, and death and
earth gotten hold of. This Na- ture constrains to come to pass because
all the senses of the body are then hampered and at rest throughout the
limbs, and cannot refute the unreal by real things." In
the fifth book Lucretius deals with origins — of the sun, the moon, the
earth (which he held to be flat, denying the existence of the antipodes);
of life and its development; and of civilization. In all this he
excludes design, explaining everything as pro- duced and maintained by
natural agents, "the masses, suddenly brought together, became the
rudiments of earth, sea, and heaven, and the race of living
things." He believed in the successive appearance of plants
and animals, but in their arising separately and di- rectly out of the
earth, " under the influence of rain and the heat of the sun,"
thus repeating the old speculations of the emergence of life from
slime, " wherefore the earth with good title has gotten and
keeps the name of mother." He did not adopt Empedocles's theory of the
" four roots of all things," and he will have none of the
monsters — ^the hippo- griflFs, chimeras, and centaurs — ^which form a
part of the scheme of that philosopher. These, he says, ** have
never existed," thus showing himself far in advance of ages when
unicorns, dragons, and such-like fabled beasts were seriously believed to
exist. In one respect, more discerning than Aristotle, he accepts
the doctrine of the survival of the fittest as taught by the sage of GIRGENTI.
For he argues that since upon "the increase of some Nature set
a ban, so that they could not reach the coveted flower of age, nor
find food, nor be united in marriage," ..." many races of
living things have died out, and been unable to beget and continue their
breed." LUCREZIO speaks of GIRGENTI in terms scarcely less
exaggerated than those which he applied to Epi- curus. The latter is
" a god " who first found out that plan of life which is now
termed wisdom, and who by tried skill rescued life from such great
billows and such thick darkness and moored it in so perfect a calm and in
so brilliant a light, ... he cleared men's breasts with truth-telling
precepts, and fixed a limit to lust and fear, and explained what
was the chief good which we all strive to reach." As to GIRGENTI,"
that great country (Sicily) seems to have held within it nothing more
glorious than this man, nothing more holy, marvellous, and dear.
The verses, too, of this godlike genius cry with a loud voice, and make
known his great discoveries, so that he seems scarcely bom of a mortal
stock." Continuing his speculations on the development of
living things, Lucretius strikes out in bolder and l.^
original vein. The past history of man, he says, lies in no heroic
or golden age, but in one of struggle out of savagery. Only when "children,
by their coaxing ways, easily broke down the proud temper of their
fathers," did there arise the family ties out of which the wider
social bond has grown, and soft- ening and civilizing agencies begin
their fair offices. In his battle for food and shelter, " man's
first arms were hands, nails and teeth and stones and boughs broken
off from the forests, and flame and fire, as soon as they had become
known. Afterward the force of iron and copper was discovered, and the
use >^. ' of copper was known before that of iron, as its
nature is easier to work, and it is found in greater quantity. With
copper they would labour the soil of the earth and stir up the billows of
war. . . . Then by slow steps the sword of iron gained ground and the
make of the copper sickle became a byword, and with iron they began
to plough through the earth's [soil, and the struggles of wavering man
were rendered equal." As to language, " Nature impelled them to
utter the various sounds of the tongue, and use struck out the
names of things." Thus does Lucretius point the road along which
physical and mental evolution have since travelled, and make the whole
story subordi- nate to the high purpose of his poem in deliverance
of the beings whose career he thus traces from super- stition. Man "
seeing the system of heaven and the different seasons of the years could
not find out by what causes this was done, and sought refuge
in handing over all things to the gods and supposing all things to
be guided by their nod." Then, in the sixth and last book, the
completion of which would seem to have been arrested by his death, LUCREZIO
explains the law of winds and storms, of earth-quakes and volcanic outbursts,
which men " foolishly lay to the charge of the gods," who
thereby make known their anger. So, loath to suffer
mute, We, peopling the void air, Make Gods to whom to impute
The ills we ought to bear ; With God and Fate to rail at, suffering
easily. And what a motley crowd of gods they were on whose
caprice or indifference he pours his vials of anger and contempt! The tolerant
pantheon of Rome gavie welcome to any foreign deity with respectable
credentials; to Cybele, the Great Mother, imported in the' shape of a
rough-hewn stone with pomp and rejoicings from Phrygia 204 b. c; to
Isis, welcomed from Egypt; to Herakles, Demeter, As- klepios, and
many another god from Greece. But these are dismissed from a man's thought
when the prayer or sacrifice to them had been offered at the due
season. They had less influence on the Roman's life than the crowd of
native godlings who were thinly disguised fetiches, and who controlled
every action of the day. For the minor gods survive the changes in
the pantheon of every race. Of the Greek peasant of to-day Mr. Rennel
Rodd testifies, in his Custom and Lore of Modern Greece, that much
as he would sliudder at the accusation of any taint of paganism,
the ruling of the fates is more immediately real to him than divine
omnipotence. Mr. Tozer confirms this in his Highlands of Turkey. He
says: " It is rather the minor deities and those as- sociated with
man's ordinary life that have escaped the brunt of the storm, and
returned to live in a dim twilight of popular belief. In India, Lyall
tells us that, " even the supreme triad of Hindu allegory, which
represents the almighty powers of creation, preservation, and
destruction, have long ceased to preside actively over any such
correspond- ing distribution of functions. Like limited monarchs, they
reign, but do not govern. They are superseded by the ever-increasing
crowd of godlings whose influence is personal and special, as shown
by Mr. Crooke in his instructive Introduction to the Popular Religion
and Folk-lore of Northern India. The old ROMAN CATALOGUE of spiritual
beings, abstractions as they were, who gfuarded life in minute
detail, is a long one. From the indigitamenta^ as such lists are called,
we learn that no less than forty- three were concerned with the actions
of a child. When the farmer asked Mother Earth for a good harvest,
the prayer would not avail unless he also invoked " the spirit of
breaking up the land and the spirit of ploughing it crosswise; the spirit
of furrow- ing and the spirit of ploughing in the seed; and the
spirit of harrowing; the spirit of weeding and the spirit of reaping; the
spirit of carrying com to the barn; and the spirit of bringing it out
again." The country, moreover, swarmed with Chaldaean astrolo-
gers and casters of nativities; with Etruscan harus- pices full of "
childish lightning-lore, who foretold eve'tits from the entrails of
sacrificed animals; while in competition with these there was the
State-sup- ported college of augurs to divine the will of the gods
by the cries and direction of the flight of birds. Well might the
satirist of such a time say that the place was so densely populated with
gods as to leave hardly room for the men." It will be
seen that the justification for including Lucretius among the Pioneers of
Evolution lies in his two signal and momentous contributions to the
science of man; namely, the primitive savagery of the human race, and the
origin of the belief in a soul and a. future life. Concerning the first,
an- thropological research, in its vast accumulation of materials
during the last sixty years, has done little more than fill in the
outline which the insight of LUCREZIO enabled him to sketch. As to the
second, he anticipates, well-nigh in detail, the ghost-theory of
the origin of belief in spirits generally which Her- bert Spencer and Dr.
Tylor, following the lines laid down by Hume and Turgot (see p. 255),
have formulated and sustained by an enormous mass of evidence. The
credit thus due to Lucretius for the original ideas in his majestic poem
— Greek in con- ception and Roman in execution — has been obscured in the
general eclipse which that poem suf- fered for centuries through its
anti-theological spirit. Grinding at the same philosophical mill,
Aristotle, because of the theism assumed to be involved in his
" perfecting principle," was cited as " a pillar of the
faith" by the Fathers and Schoolmen; while Lucre- tius, because of
his denial of design, was “anathema maranatha.” Only in these days, when
the far-reach- ing effects of the theory of evolution, supported by
observation in every branch of inquiry, are apparent, are the merits of
Lucretius as an original seer, more than as an expounder of the teachings
of GIRGENTI and L’ORTO, made clear. Standing well-nigh on the
threshold of the Chris- tian era, we may pause to ask what is the sum
of the speculation into the causes and nature of things which,
begun in Ionia (with impulse more or less slight from the East), by
Thales, ceased, for many centuries, in the poem of Lucretius, thus
covering an active period of about five hundred years. The caution not to
see in these speculations more than an approximate ap- proach to
modern theories must be kept in mind. There is a primary substance which
abides amidst the general flux of things. All modern research
tends to show that the various combinations of matter are formed of some
prima ma- teria. But its ultimate nature remains unknown. 2.
Out of nothing comes nothing. Modern science knows nothing of a
beginnings and, moreover, holds it to be unthinkable. In this it
stands in direct opposition to the theological dogma that God
created the universe out of nothing; a dogma still accepted by the
majority of Protestants and binding on Roman Catholics. For the doctrine
of the Church of Rome thereon, as expressed in the Canons of the
Vatican Council, is as follows: " If any one confesses not that the
world and all things which are contained in it, both spiritual and
mental, have been, in their whole substance, produced by God out of
nothing; or shall say that God created, not by His free will from
all necessity, but by a necessity equal to the necessity whereby He loves
Himself, or shall deny that the world was made for the glory of God: let
him be anathemaJ' The primary substance is indestructible. The
modern doctrine of the Conservation of Energy teaches that both matter
and motion can neither be ere- ated nor destroyed. The universe is
made up of indivisible particles called atoms, whose manifold
combinations, ruled by unalterable affinities, result in the variety
of things. With modifications based on chemical as well as
mechanical changes among the atoms, this theory of Leucippus and
Democritus is confirmed. (But recent experiments and discoveries show
that reconstruction of chemical theories as to the properties of the atom
may happen.) Change is the law of things, and is brought about
by the play of opposing forces. Modern science explains the changes
in phenomena as due to the antagonism of repelling and attracting
modes of motion; when the latter overcome the former, equilibrium will be
reached, and the present state of things will come to an end.
6. Water is a necessary condition of life. Therefore life had its
beginnings in water; a theory wholly indorsed by modern biology, Life
arose out of non-living matter. Although modern biology leaves the origin
of life as an insoluble problem, it supports the theory of
fundamental continuity between the inorganic and the organic.
Plants came before animals: the higher organ- isms are of separate sex,
and appeared subsequent to the lower. Generally confirmed by modern
biology, but with qualification as to the undefined borderland
between the lowest plants and the lowest animals. And, of course,
it recognises a continuity in the order and succession of life which was
not grasped by the Greeks. Aristotle and others before him believed that
some of the higher forms sprang from slimy matter direct. 9.
Adverse conditions cause the extinction of some organisms, thus leaving
room for those better fitted. Herein lay the crude germ of
the modern doctrine of the survival of the fittest. Man was the last to
appear, and his primi- tive state was one of savagery. His first tools
and weapons were of stone; then, after the discovery of metals, of
copper; and, following that, of iron. His body and soul are alike compounded
of atoms, and the soul is extinguished at death. The science of
Prehistoric Archceology confirms the theory of man's slow passage from
barbarism to civili- zation; and the science of Comparative Psychology
de- clares that the evidence of his immortality is neither stronger
nor weaker than the evidence of the immortality of the lower
animals. Such, in very broad outline, is the legacy of sug- gestive
theories bequeathed by the Ionian school and its successors, theories
which fell into the rear when Athens became a centre of intellectual life
in which discussion passed from the physical to those ethical
problems which lie outside the range of this survey. Although Aristotle,
by his prolonged and careful observations, forms a conspicuous exception,
the fact abides that insight, rather than experiment, ruled Greek
speculation, the fantastic guesses of parts of which themselves evidence
the survival of the crude and falsei deas about earth and sky long
prevailing. The more wonderful is it, therefore, that so much
therein points the way along which inquiry travelled after its subsequent long
arrest; and the more apparent is it that nothing in science or art, and
but little in theological speculations, at least among us Westerns, can
be understood without reference to Greece. Approxi-Namb. Place. mate
Speciality. Thales. Miletus.Cosmological (Ionia).Ae Pri f Water.Substance
Anaximender. the Boundless. Anaximenes.Air. Pythagoras. Samos Numbers: the
Ionian a Cosmos built coast). up of geometrical figures or(Grote, Plato)
generated out of number. Xenophanes. Colophon. Founder of the (Ionia).
Eleatic school. Heraditus. Ephesus Ionia Fire. Empedocles. Agrigentum Fire,
Air,Earth, (Sicily). And Water ruled by Love and Strife. Anaxagoras.
Clazomenae (Ionia). Nous. Leucippus Democritus. Abdera. Formulators of the
Atomic Thrace Theory Aristotle. Stagira (Macedonia).
Naturalist. i Epicurus. Samos. Expounder of the Atomic Theory and
Ethical Philosopher. LUCREZIO. Roma Interpreter of Epicurus and
EMPEDOCLE DI GIRGENTI: the first Anthropologist. Gilberto Corbellini. Keywords:
darwinismo politizzato, Dawkins’ selfish gene – read selfish gene – medicina in
Roma antica -- evoluzione, emergentismo, biologia filosofica, grammatical del
vivente, cooperazione, altruismo, razionalita, utilitarismo, darwinismo
sociale, evolluzione, filosofia dell’evoluzione, progresso ed evoluzione.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corbellini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cordeschi: la ragione
conersazionale e l’implicatura conversazionale della logica della guerra –
filosofia italiana – Luigi Speranza (L’Aquila). Filosofo italiano. Grice: “Cordeschi is fine if you are into how we can
model a pirot from an automaton – Descartes’s old idea!” -- Roberto Cordeschi
(L'Aquila) filosofo. Si laurea a
Roma sotto Somenzi. Si appassiona subito alla storia della cibernetica, di cui
Somenzi fu tra i primi studiosi e contributori in Italia. Con la co-supervisione
di Radice discute una tesi sui Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a
Morino, Avezzano, Torino, Roma, e Saerno. Altre opere: “Turing” – homo
mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale);
“La cibernetica in Italia” (Roma: Scienze, Istituto della Enciclopedia
Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza Artificiale. Sapere; “L’intelligenza
meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a internet: etica e politica tra mondo
reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico al corpo sintetico. Roma: Carocci);
“Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione Banca Agricola Mantovana); “Natura,
machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia delle macchine: dalla cibernetica
alla robotica bellica” (Roma: Armando); “Rap-resentare il concetto: filosofia e
modello computazionale”. Sistemi Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il
metodo sintetico e la scienza cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove
prospettive nell’Intelligenza Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma:
Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani), “Quale coscienza artificiale?
Sistemi intelligenti, “Adattamento” e “selezione” nel mondo della natura”
(Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa
al Documento di Dartmouth, Sistemi Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e
Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli; “Forme e strutture della
comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia dell’intelligenza
artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca, SWIF. Una lezione per
la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo e modelli nella Scienza
Cognitiva. Forum SWIF. C Vecchi problemi filosofici per la nuova Intelligenza
Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia dell’Intelligenza Artificiale e
Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio Somenzi Quaderno Filosofi e Classici
SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale per le discipline della comunicazione.
Roma: Carocci. L’intelligenza Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci);
“Naturale e artificiale” (Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale.
Psicologia, filosofia e macchine intorno alla cibernetica, Milano-Bologna:
Dunod-Zanichelli); “Pensiero meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi
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fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e
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un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale: Menti,
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calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia
meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione
umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori
Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e
Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno
Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del
concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della
Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli “sperimentalisti”.
Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro una recensione
crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la risoluzione dei
problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica e critica della
psicologia, Manuscript. La psicologia tra scienze della natura e scienze dello
spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi, a cura di. Gli studi di
psicologia in Italia: Aspetti teorici scientifici e ideologici, Quaderni di
storia critica della scienza. Nuova serie. 9, Pisa: Domus Galileana); Una
critica del naturalismo: note sulla concezione crociana delle scienze. Critica
marxista; Introduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Predicati. In: CIntroduzione
alla logica. Roma: Editori Riuniti. Elementi di logica matematica. Roma: Riuniti);
Bilancio dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La filosofia di Leibniz:
esposizione critica con un’appendice antologica. Roma: Newton Compton Italiana);
Filosofia e informazione. Padova: La Cultura; Validità e reiezione nella logica
aristotelica. Il problema della decisione. Report: Storia della Filosofia
Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript. In generale, nella implicatura
robotica c’è la tendenza a ricorrere al vocabolario delle rappresentazioni solo
quando, per così dire, non se ne può fare a meno, ovvero, più precisamente,
quando si lascia il livello puramente reattivo nel quale il lessico delle
rappresentazioni sarebbe banale, per passare a quello topologico e, a maggior
ragione, a quello metrico o delle mappe cognitive. Due robot puramente reattivi
sono capaci di risolvere alcuni compiti per i quali, nella ricerca su animali
(la squarrel Toby di Grice), si erano invocate rappresentazioni complesse come
le mappe cognitive. Questi stessi robot reattivi, man mano che si riducono le
restrizioni sull’ambiente, diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli
stessi compiti, che possono essere risolti solo da agenti dotati di stati
interni (attitudine psicologica) ai quali essi riconoscono lo status di
rappresentazioni. La massima sarebbe in questi casi quella di esaminare tutti i
modi possibili di spremere l’ultima goccia di informazione dal livello reattivo
prima di parlare dell’influenza della rappresentazione, modello del mondo o
mappa sul comportamento intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni,
una volta ammesse, le opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei
punti di vista ormai usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza
naturale, classica o nouvelle che sia. Si può parlare di rappresentazione anche
per i pattern connessionisti, a patto di distinguere la relativa computazione.
La rappresentazione e solo simbolica, quale che sia la loro complessità, e un
pattern connessionista, non essendo considerato simbolico, non e una rappresentazione.
Si parla di una rappresentazione che possono essere di diversa complessità e
accuratezza, esplicita (spliegatura) o implicita (impiegatura), metrica o
topologica, centralizzata o distribuita. E in generale si parla di ra-presentazione
simbolica quando si è in presenza di un costrutto dotato di proprietà ritenuta
analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni polemiche da parte di alcune
tendenze dell’IA nouvelle identificano nell’Ipotesi del Sistema Fisico di
Simboli il paradigma linguistico per eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un
confronto di qualche anno fa tra sostenitori e critici di questa ipotesi mostra
come questa interpretazione sia quanto meno opinabile. Sarebbe opportuno
tenerne conto, per evitare di porre in un modo troppo sbrigativo l’identificazione
tra simbolo e il concetto piu generale
di segno in IA classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi
che stanno alla base della costruzione di un modello di conversazione, tra i
quali quello della natura della rappresentazione. Mi riferisco
all’interpretazione in termini di un sistema di elaborazione simbolica
dell’informazione (dunque in termini di un sistema fisico materiale di simboli)
di sistemi tradizionalmente non considerati tali, come quelli proposti dai
teorici dell’azione situata. L’idea di simbolo che sta alla base di questa
ipotesi è che un simbolo è un pattern che denota, e la nozione di denotazione è
quella che dà al simbolo la sua capacità rappresentazionale. Il pattern puo
denotare altro pattern, sia interni al Si veda per una formulazione
particolarmente esplicita (Gallistel). Detto in breve, tali proprietà
riguardano, tra l’altro, la produttività, ovvero la capacità di generare e
capire un insieme illimitato di frasi, e la sistematicità, ovvero la capacità
di capire ad esempio tanto aRb quanto bRa. Fodor ne ha fatto la base per la sua
controversa ipotesi del “linguaggio del pensiero” Per una introduzione
all’argomento, si veda (Francesco). Per pattern si intende, come sarà più
chiaro nel seguito, una struttura fisica, biologica o inor- ganica, che può
essere oggetto di processi computazionali—codifica, decodifica, registrazione,
cancellazione, cambiamento, confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in
un calcolatore e nel sistema nervoso, anche se in quest’ultimo caso non
sappiamo nei dettagli come. Questa tesi provocò diverse reazioni (si vedano
Cognitive Science). Si noti che nelle intenzioni di Simon e Vera la tesi non
comporta che ogni pattern sia dotato di meccanismo sistema che esterni ad
esso (nel mondo reale), e anche stimoli sensoriali e azioni motorie. Processi
tanto biologici quanto inorganici possono essere simbolici in questo senso e,
dal punto di vista sostenuto da Simon e Vera, i relativi sistemi sono sempre
sistemi fisici di simboli, ma a diversi livelli di complessità. Per esempio,
nel caso più semplice che riguarda gli organismi, anche l’azione riflessa
(subcorticale) è un processo simbolico: la codifica di un simbolo provocata da
un ingresso sensoriale, poniamo la bruciatura di una mano, dà luogo alla
codifica di un simbolo motorio, con la conseguente rapida effettuazione
dell’azione, in questo caso il ritirare la mano. Più precisamente, l’idea è che
“il sistema nervoso non trasmette certo la bruciatura, ma ne comunica
l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la brucia- tura] viene trasmesso
al midollo spinale, che a sua volta trasmette un simbolo ai mu- scoli, i quali
esercitano la contrazione che consente di ritirare la mano.” Nel caso degli
artefatti, già il solito termostato è un sistema fisico di sim- boli, sebbene
particolarmente semplice: il suo livello di tensione è un simbolo che denota
uno stato del mondo esterno. Come ho ricordato, anche Brooks ha finito per
riconoscere alle rappresentazioni un loro ruolo nel comportamento dei suoi
robot, se non altro alle rappresentazioni “relati- ve al particolare compito
per il quale sono usate” (i “modelli parziali del mondo”), quali potrebbero
essere, a diversi livelli di complessità, quelle usate da agenti naturali come
Cataglyphis o da agenti artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra
ri- cordato. Simon e Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come
sistemi fisici di simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto
sofisticata, anche se specializzata a un compito particolare. Ma essi includono
tra i sistemi fisici di simboli anche artefatti molto più semplici, come il
ricordato termostato, e agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al
livello del taxon system (che, seguendo Prescott, era stato definito come una
catena di associazioni consistenti in coppie <stimolo, risponsa>).
Secondo i due autori, i primi robot alla Brooks sono (un tipo relativamente
sem- plice di) sistemi fisici di simboli: anche l’interazione senso-motoria
diretta di un agen- te con l’ambiente nella misura in cui dà luogo a un
comportamento coerente alle rego- larità dell’ambiente, non può essere
considerata se non come manipolazione simboli- ca. Ho ricordato sopra il
semplice comportamento reattivo di Allen, che tramite sonar evita ostacoli
presenti in un ambiente reale. In questo caso, i suoi ingressi sensoriali danno
luogo a un processo di codifica, e i costrutti in gioco (i simboli, secondo la
definizione sopra ricordata) che risultano da tale interazione sensoriale, e
poi motoria, dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni interne (degli
ostacoli esterni da evitare) in un senso non banale: l’informazione sensoriale
captata dal robot è converti- ta in simboli, i quali sono manipolati al fine di
determinare gli appropriati simboli motori che evocano o modificano un certo
comportamento. L’assenza di memoria in questo tipo di agente comporta che
l’azione sia eseguita senza una rappresentazione esplicita del piano e
dell’obiettivo che orienta l’azione stessa (senza pianificazione), ma non che
non ci sia attività rappresentazionale simbolica. Qual è la natura di questi
simboli, di queste rappresentazioni simboliche? denotazionale, cosa che
evidentemente renderebbe banale questa definizione di simbolo: ci sono pattern
che non denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla sufficienza della
denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di rappresen-
tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici si tratta
di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la relazione funzionale
del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero per il solito
termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi connessionisti, o che
includono sistemi connessioni- sti), tali rappresentazioni (analogiche) hanno
carattere temporaneo (senza intervento di memoria) e distribuito (non sono
sottoposte a controllo centralizzato). In questi casi, una rappresentazione
certo imprecisa ma sufficientemente efficace è fornita da un sonar sotto forma
di un pattern interno fisico (un pattern di nodi della rete, nel caso di un
sistema connessionista): essa denota o rappresenta per il robot un ostacolo o
una certa curvatura di una parete o di un percorso. Una volta che tale pattern
venga comu- nicato a uno sterzo, esso determina l’angolo della ruota sterzante
del carrello del robot. Per quanto diversa a seconda dei casi, è sempre
presente un processo di codifica- elaborazione-decodifica non banale, che
stabilisce una ben precisa relazione funziona- le tra il sistema e l’ambiente,
e spiega il comportamento coerente dell’agente nell’interazione con il mondo.
Non parlare di rappresentazioni interne, e limitarsi a dire che un agente
“intrattiene certe relazioni causali con il mondo, non spiega come tali
relazioni vengano mantenute. E’ del tutto ragionevole sostenere che un agente
mantiene l’orientamento verso un oggetto tramite una relazione causale (Grice,
“La teoria causale della percezione”) con esso e che tale relazione è un
pattern di interazione, ma non ha senso pensare che tale pattern venga prodotto
per magia, senza un corrispondente cambiamento di stato rappresenta- zionale
dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo senza una rappresentazione
interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più complesse, che sono alla base
di un’attività non semplicemente percettiva diretta, sono presenti in altri
casi, quando entrano in gioco la me- moria, l’apprendimento, il riconoscimento
di oggetti e l’elaborazione di concetti, la formulazione esplicita di una mappa
o di piani alternativi, sotto forma di rappresentazioni off-line, e ancora. In
molte di queste attività “alte” intervengono rappresentazioni esplicite,
linguistiche e metriche, ma se si riconosce che la cognizione richiede questo
tipo di rappresentazioni, è difficile mettere in dubbio che tali attività non
condividono con attività più “basse” come la percezione, sulle quali esse
vengono elaborate, il meccanismo denotazionale, sia pure in una forma minimale.
A meno di restringere arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo,
non c’è ragione di riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai
costrutti della semantica denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si
possa sottoscrivere questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di
rappresentazione] è effettivamente minimale, tale da rende- re le
rappresentazioni più o meno ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz-
zato che si è evoluto o è stato progettato in modo da coordinare il suo
comportamento con le caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni
nel regolatore, nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento
di Bechtel al regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne
faceva il prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica
della co- gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a
feedback negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi
rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik,
che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli
la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina
calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non
entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle Simon
e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della
realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente.
Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale
che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di
codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica,
molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli
ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si
conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di
questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra
ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da
quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono
essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come
livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato
sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il
funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che
con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da
un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso
sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa
in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi
termini: “Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un
robot behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona
una attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa
base di dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere
confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della
sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di
tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o modificano
direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se distinguiamo il
livello della realizzazione fisica da quello della sua modellizzazione, quella
che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del mondo” rilevanti per l’azione
è descritta in modo adeguato da un opportuno sistema di regole di produzione, e
tramite tale sistema un certo comportamento di una sua creatura può essere
evocato o modificato nell’interazione con l’ambiente. E questo modello (a
regole di produzione) delle regolarità comportamentali di diversi livelli
dell’architettura della sussunzione può essere implementata in un dispositivo
che, grazie all’elevato grado di parallelismo, presenta doti di adattività,
robustezza e rispo- sta in tempo reale paragonabili a quelle di un dispositivo
behavior-based. In questo senso, le regole di descrizione danno una modellizza-
zione adeguata del comportamento di un agente situato. Oltre alle risposte
automatiche, che nel caso dell’azione riflessa o “innata” e di quella reattiva
possono essere rese attraverso un’unica regola di produzione (qualcosa che
corrisponda a una relazione comportamentista S→R), esistono le azioni automa-
rappresentazioni, al ruolo dell’utente degli artefatti e alla natura della
spiegazione cognitiva. L’articolo di Bechtel contiene una disanima efficace di
questi problemi, rispetto a posizioni diverse come quella sostenuta da Clancey
contro la tesi di Vera e Simon. In breve, le regole di produzione hanno la
forma “se... allora”, o CONDIZIONE → AZIONE. La memoria a lungo termine di un
sistema fisico di simboli è costituita da tali regole: gli antecendenti
CONDIZIONE permettono l’accesso ai dati in memoria, codificati dai conseguenti
AZIONE. tizzate a seguito dell’apprendimento, quando cioè le regolarità
relative a un certo comportamento sono state memorizzate, o quelle che
comportano una relazione “di- retta” con il mondo tramite le affordance alla
Gibson. Un esempio sono le risposte immediate che fanno seguito a
sollecitazioni improvvise o impreviste provenienti dall’ambiente Ora i teorici
dell’azione situata (e, come si è visto, i nuovi robotici) insistono sul fatto
che questi casi di interazione diretta con l’ambiente si svolgono in tempo
reale, senza cioè che sia possibile quella presa di decisione, diciamo così,
meditata che ri- chiede la manipolazione di rappresentazioni e la
pianificazione dell’azione. Si pensi all’esempio di Winograd e Flores
dell’automobilista che, guidando, affronta una curva a sinistra. In primo
luogo, secondo i due autori, non è necessario che egli faccia continuamente
riferimento a conoscenze codificate sotto forma di regole di produzione—non è
necessario riconoscere una strada per accorgersi che è “percorribi- le” (la
“percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella relazione diretta agente-
ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa dall’agente, per così dire,
senza pensarci (senza pensare di posizionare le mani, di contrarre i muscoli,
di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a sinistra ecc.). Tutto ciò
avviene automaticamente e immediatamente, dunque senza applicare qualcosa come
una successione di regole di produzione “se p, q”. In conclusione, la tesi è che
non è possibile modellizzare questo aspetto della presa di decisione
istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che comporta
codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni, regole di
produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores è la
teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha a
che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul serio
la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della
razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti
interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione
ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in
generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative
pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno
piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze,
aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea,
non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi
elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso
l’apprendimento, la formazione di schemi automatici di comportamento (di
risposte motorie, nell’esempio di sopra), finiscono per determinare
l’esclusione immediata di certe alternative possibili (come, nell’esempio della
guida, innestare la marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia,
frenare ecc.), e tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza
dell’ambiente stesso (fondo strada bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella
terminologia di Gibson sono invarianti dell’ambiente che vengo- no “colte”
(picked up) dall’agente “direttamente” nella sua interazione con l’ambiente
stesso, e “direttamente” viene interpretato come: senza la mediazione di
rappresentazioni e di computa- zioni su esse. Un esempio sono i movimenti
dell’agente in un ambiente nel quale deve evitare oggetti o seguirne la
sagomatura e così via: un po’ quello che fanno i robot reattivi di cui ho
parlato. L’esempio del termostato è ricorrente in scienza cognitiva e in filosofia
della mente dai tempi della cibernetica. E’ evidente che definire sistemi
fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del tipo dei robot di Brooks,
come vedremo) comporta rinunciare al requisito dell’universalità per tali
sistemi (sul quale si veda Newell). aspettative pertinenti.17 Secondo le
stesse parole di Simon “il solutore di problemi non percepisce mai Dinge an
sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i propri pre- concetti” (Simon).
Di norma, dunque, l’informazione considerata dall’agente non è collocata in uno
spazio bene ordinato di alternative, generato dalla formulazione del problema:
tale informazione è generalmente incompleta, ma è pur sempre sostenuta dalla
conoscenza della situazione da parte dell’agente. La proposta è, dunque, che la
modellizzazione a regole di produzione di un’azione del genere, e in generale
di una affordance, è un simbolo che, via il sistema percettivo di codifica,
raggiunge la memoria del sistema per soddisfare la CONDIZIONE di una regola di
produzione esplicita. In questo modo, soddisfatta la CONDIZIONE, si attiva la
regola, e la produzione (la decodifica) del simbolo di AZIONE avvia la risposta
motoria. Da questo punto di vista, le affordance sono rappresentazioni di
pattern del mondo esterno, ma con una particolarità: quella di essere
codificate in un modo particolar- mente semplice. Nell’esempio di sopra, una
volta che si sia imparato a guidare, la regola è qualcosa come: “se la curva è
a sinistra allora gira a sinistra”.Questa regola rappresenta la situazione al
livello funzionale più alto nel quale la rappresentazione che entra in gioco è
“minima”. Un termine del genere, a proposito delle rappresentazioni, lo abbiamo
visto usato da Gallistel, ma per Simon e Vera il termine rimanda alla forma
della regola indicata, che può essere rapidamente applicata: in questo caso,
cioè, non c’è bisogno di evocare i livelli “bassi” o soggiacenti, quelli
coinvolti con l’analisi dettagliata dello spazio del problema e con
l’applicazione delle opportune strategie di soluzione, che comportano
computazioni generalmente complesse, sotto forma di successioni di regole di
produzione. Questi livelli intervengono nelle fasi dell’apprendimento (quando
si impara come affrontare le curve), e possono essere evocati dall’agente
quando la situazione si fa complicata (si pensi a una curva a raggio variabile,
che rivela la complessità dell’interazione codi- fica percettiva-decodifica
motoria). E tanto un apprendimento imperfetto quanto una carenza, per i più
svariati motivi, dell’informazione percettiva rilevante possono anche
ostacolare l’accesso ai livelli soggiacenti che potrebbero dare luogo alla
risposta cor- retta (non tutti coloro che hanno imparato a guidare riescono ad
affrontare tutte le curve con pieno successo in ogni situazione possibile).
Insomma, in questa interpretazione di Simon e Vera l’interazione in tempo reale
dell’agente con l’ambiente è data non dal fatto di essere non simbolica e di
non poter essere modellizzata mediante regole di produzione, ma dal fatto di
non dover accede- re, per dare la risposta corretta, alla complessità delle
procedure di elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti a quello alto. E’
nell’attività cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si elaborano piani e
strategie di soluzione di problemi, che viene evidenziata la consapevolezza
dell’agente. Simon e Vera ponevano infine un problema che riguarda i limiti
degli approcci reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e che mi sembra
condivisibile: “E’ tuttora dubbio se questo approccio behavior-based si possa
estendere alla soluzione di pro- blemi più complessi. Le rappresentazioni non
centralizzate e le azioni non pianificate possono funzionare bene nel caso di
creature insettoidi, ma possono risultare insuffi- cienti per la soluzione di
problemi più complessi. Certo, la formica di Simon non ha 17 Su questo tipo di
comportamento, che può essere visto in termini di “percezione attesa”, si veda bisogno
di una rappresentazione centralizzata e stabile del suo ambiente. Per tornare
al nido zigzagando essa non usa una rappresentazione della collocazione di
ciascun gra- nello di sabbia in relazione alla meta. Ma gli organismi superiori
sembrano lavo- rare su una rappresentazione del mondo più robusta, una
rappresentazione più complessa di quella di una formica, più stabile e tale da
poter essere manipolata per astrarre nuova informazione”. La successiva
evoluzione della robotica sembra confermare questa osservazione. Wikipedia
Ricerca Entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale Dichiarazione di
guerra dell'Italia verso gli alleati nella seconda guerra mondiale 1leftarrow
blue.svg Voce principale: Storia del Regno d'Italia. A seguito dell'attacco
tedesco contro la Polonia, il capo del governo Benito Mussolini, nonostante un
patto di alleanza con la Germania, dichiarò la non belligeranza italiana.
L'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale avvenne con una serie di atti
formali e diplomatici solo dopo nove mesi,, e fu annunciata da Mussolini stesso
con un celebre discorso dal balcone di Palazzo Venezia. Durante i nove mesi di
incertezza operativa, il Duce, impressionato dalle folgoranti vittorie
tedesche, ma conscio della grave impreparazione militare italiana, restò a
lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte contrastanti fra loro,
oscillando tra la fedeltà all'amicizia con Adolf Hitler, l'impulso a rinnegarne
la soffocante alleanza, la voglia di indipendenza tattica e strategica, il
desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia e la brama di essere ago
della bilancia nello scacchiere della diplomazia europea. Mussolini annuncia
la dichiarazione di guerra dal balcone di Palazzo Venezia a Roma
AntefattiModifica Gli attriti con la Francia e l'avvicinamento alla
GermaniaModifica L'ambasciatore francese in Italia André François-Poncet.
Il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop incontra a Roma MUSSOLINI e il
ministro degli esteri italiano CIANO. Durante il colloquio, Ribbentrop parlò di
un possibile patto di alleanza fra Germania e Italia, argomentando che, forse
nel giro di tre o quattro anni, un confronto armato contro Francia e Regno
Unitosarebbe stato inevitabile. Alle molte domande di Mussolini, il ministro
degli esteri tedesco spiegò che esisteva un'alleanza fra inglesi e francesi, i
quali avrebbero cominciato insieme a riarmarsi, che esisteva un patto di
assistenza reciproca fra sovietici e francesi, che gli Stati Uniti d'America
non erano nelle condizioni di intromettersi in prima persona e che la Germania
era in ottimi rapporti con il Giappone, concludendo che «tutto il nostro
dinamismo può dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la ragione
fondamentale per cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso
tempestivo. Il Duce non sembrava convinto e iniziò a tergiversare, ma
Ribbentrop catturò la sua attenzione affermando che il mar Mediterraneo, nelle
intenzioni di Adolf Hitler, sarebbe stato posto sotto il totale dominio
italiano, aggiungendo che l'Italia aveva in passato dimostrato la sua amicizia
verso la Germania e che adesso era «la volta dell'Italia di profittare
dell'aiuto tedesco. L'obiettivo di Hitler, cogliendo l'importanza strategica di
avere Roma dalla propria parte, consisteva nel ridurre il numero dei potenziali
nemici in una futura guerra, scongiurando l'eventuale avvicinamento dell'Italia
a Francia e Regno Unito, il che avrebbe significato il ritorno al vecchio
schieramento della prima guerra mondiale e al blocco marittimo che aveva
contribuito a piegare l'Impero tedesco di Guglielmo II. L'incontro fra
Ribbentrop, MUSSOLINI e CIANO, però, si concluse con un momentaneo nulla di
fatto. Dopo la conferenza di Monaco del 1938 la Francia si era
riavvicinata all'Italia, inviando a Roma un suo ambasciatore nella persona di
André François-Poncet, e Mussolini ritenne di poter approfittare del periodo di
buoni rapporti per farle tre richieste riguardanti il mantenimento della
particolare condizione degli italiani in Tunisia, l'ottenimento di alcuni posti
nel consiglio di amministrazione della compagnia del Canale di Suez e un
arrangiamento relativo alla città di Gibuti, che era il terminale dell'unica
ferrovia esistente per Addis Abeba, all'epoca capitale dell'Africa Orientale
Italiana. Infatti, gli obiettivi del Duce non comprendevano la conquista di
territori europei. Il primo ministro inglese Chamberlain e il suo ministro
degli esteri, lord Halifax, si recarono a Parigi e ultimarono i dettagli per la
collaborazione militare tra Francia e Regno Unito, mentre i rapporti fra Italia
e Francia iniziavano a deteriorarsi. Il successivo 30 novembre, durante un
discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, il ministro degli esteri
Ciano pronunciò un discorso durante il quale, accennando alle rivendicazioni
irredentistiche italiane, venne interrotto dalle acclamazioni Nizza!, Savoia!,
Corsica!, partite da una trentina di deputati. In quel momento, nella tribuna
diplomatica, assisteva alla seduta anche l'ambasciatore francese André
François-Poncet, arrivato a Roma da appena una settimana. Una manifestazione
simile si verificò il giorno stesso in piazza di Monte Citorio, dove un
centinaio di dimostranti esternò le stesse acclamazioni. Nonostante la parvenza
di spontaneità, si era trattato di iniziative organizzate da Ciano e da Achille
Starace, i quali, chiedendo molto di più delle tre richieste di Mussolini per
poi fingere di accontentarsi del poco ottenuto per via negoziale, avevano
inscenato le manifestazioni per impressionare François-Poncet, il quale infatti
avvisò immediatamente Parigi dell'accaduto.[8] Il governo francese gli ordinò
allora di chiedere spiegazioni e arrivò alla conclusione che, se la situazione
era quella, una futura guerra contro l'Italia sarebbe stata inevitabile. La
sera stessa, durante una seduta del Gran consiglio del fascismo, Mussolini
prese però le distanze da quanto accaduto in aula, dato che l'Italia aveva da
poco ripreso buone relazioni con la Francia e che la protesta era stata
intrapresa a sua insaputa. François-Poncet chiese a CIANO se le grida dei
deputati potevano rappresentare gli orientamenti della politica estera italiana
e se l'Italia riteneva ancora in vigore l'accordo franco-italiano. Ciano,
dissimulando la propria paternità su quanto accaduto, rispose che il Governo
non poteva assumersi la responsabilità delle affermazioni dei singoli, ma che
le riteneva un chiaro campanello d'allarme del sentire comune nazionale, e che
era auspicabile, secondo la sua opinione, una revisione dell'accordo. Di fronte a risposte così poco rassicuranti,
la Francia iniziò ad aspettarsi un attacco italiano. Tuttavia, lo stato d'animo
dei vertici militari d'oltralpe era improntato all'ottimismo: il generale Henri
Giraud affermò infatti che un eventuale conflitto sarebbe stato, per le truppe
francesi, «una semplice passeggiata nella pianura del Po», mentre altri
ufficiali parlavano di un'azione militare «facile come infilare un coltello nel
burro. Il primo ministro francese Édouard Daladier, irrigidendo la propria
posizione nei confronti dell'Italia, affermò che non avrebbe mai ceduto ad
alcuna pretesa straniera, facendo così sfumare anche la speranza di
accoglimento delle tre richieste del Duce su Tunisia, Suez e Gibuti. Lo Stato
Maggiore francese, fin dal 1931, aveva disposto dei piani per l'invasione
militare dell'Italia, ampliandoli dopo ma il generale Alphonse Georges fece
notare che nessuna azione sarebbe stata possibile contro l'Italia se, sulla
Francia, fosse pesata una minaccia tedesca. Mussolini decise di aderire al
patto italo-germanico, comunicando a Ribbentrop il proprio impegno. Secondo
Ciano, il Duce si convinse ad accettare la proposta tedesca a causa della
comprovata alleanza militare tra Francia e Regno Unito, dell'orientamento
ostile del governo francese nei confronti dell'Italia e dell'atteggiamento
ambiguo degli Stati Uniti d'America, che mantenevano una posizione defilata, ma
che sarebbero stati pronti a rifornire di armamenti Londra e Parigi. Il maresciallo
Pietro Badoglio, ribadendo la linea mussoliniana tracciata l'anno precedente,
riferì allo Stato Maggiore Generale il contenuto di un suo colloquio avuto con
il Duce due giorni prima, durante il quale «il Capo del Governo mi ha
dichiarato che, nelle rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto
parlare di Corsica, Nizza e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le
quali non entrano nel suo piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non
intende porre domande di cessioni territoriali alla Francia perché è convinto
che essa non ne può fare: quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare
una eventuale richiesta (e ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra -- e
ciò non è nelle sue intenzioni. Gli sforzi sostenuti per la guerra d'Etiopia
del 1935-36 e per il supporto alla guerra civile spagnola del 1936-39avevano
comportato spese eccezionali per l'Italia, le quali, unite alla limitata
capacità produttiva dell'industria, alla lentezza del riarmo e alla scarsa
preparazione dell'esercito, spinsero il Duce ad annunciare al Gran consiglio
del fascismo, il 4 febbraio 1939, che il Paese non avrebbe potuto partecipare a
un nuovo conflitto. La firma del Patto d'AcciaioModifica Italia e
Germania, rappresentate rispettivamente dai ministri degli esteri Ciano e
Ribbentrop, concretizzarono la proposta tedesca dell'anno precedente e
firmarono a Berlino un'alleanza difensiva-offensiva, che Mussolini aveva
inizialmente pensato di battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più
prudentemente chiamato Patto d'Acciaio. Il testo dell'accordo prevedeva che le
due parti contraenti fossero obbligate a fornirsi reciproco aiuto politico e
diplomatico in caso di situazioni internazionali che mettessero a rischio i
propri interessi vitali. Questo aiuto sarebbe stato esteso anche al piano
militare qualora si fosse scatenata una guerra. I due Paesi si impegnavano,
inoltre, a consultarsi permanentemente sulle questioni internazionali e, in
caso di conflitti, a non firmare eventuali trattati di pace
separatamente.[16] Pochi giorni prima, Ciano aveva incontrato Ribbentrop
per chiarire alcuni punti del trattato prima di firmarlo. In particolare la
parte italiana, conscia della propria impreparazione militare, voleva
rassicurazioni sul fatto che i tedeschi non avessero intenzione di iniziare a
breve una nuova guerra europea. Il ministro Ribbentrop tranquillizzò Ciano,
dicendo che «la Germania è convinta della necessità di un periodo di pace che
dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni»[17] e che le divergenze con la
Polonia per il controllo del Corridoio di Danzica sarebbero state appianate «su
una strada di conciliazione». Siccome la rassicurazione di nessun conflitto armato
per quattro o cinque anni faceva arrivare al 1943 o al 1944e, quindi,
coincideva con la previsione di Mussolini del 4 febbraio 1939 di essere
militarmente pronto per il 1943, il Duce diede il suo assenso definitivo per la
firma dell'alleanza.[17] Vittorio Emanuele III, nonostante la decisione di
Mussolini, continuò a manifestare i propri sentimenti antigermanici e il
successivo 25 maggio, al ritorno di Ciano da Berlino, commentò che «i tedeschi
finché avran bisogno di noi saranno cortesi e magari servili. Ma alla prima
occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono».[18] Dal 27 al 30
maggio il Duce fu impegnato nella stesura di un testo indirizzato ad Hitler,
successivamente passato alla storia come memoriale Cavallero dal nome del
generale che glielo consegnò ai primi di giugno, nel quale venivano inserite
alcune interpretazioni italiane del Patto da poco stipulato. Nello specifico,
Mussolini, nonostante ritenesse inevitabile una futura «guerra fra le nazioni
plutocratiche e quindi egoisticamente conservatrici e le nazioni popolose e
povere», ribadì che Italia e Germania avevano «bisogno di un periodo di pace di
durata non inferiore ai tre anni» allo scopo di completare la propria
preparazione militare, e che un eventuale sforzo bellico avrebbe potuto avere
successo. Ciano si recò al Berghof, vicino Berchtesgaden, per un colloquio con
Hitler. Quest'ultimo, parlando del Corridoio di Danzica, prospettò un eventuale
confronto armato circoscritto a Germania e Polonia qualora Varsavia avesse
rifiutato le trattative proposte dai tedeschi, specificando che, in base alle
informazioni in suo possesso, né Parigi né Londra sarebbero intervenute.
Inoltre, il Cancelliere tedesco accennò a delle trattative segrete in corso con
l'Unione Sovietica per un'alleanza. Ciano ricordò che era stato definito, alla
firma del Patto d'Acciaio, di far passare alcuni anni prima di intraprendere
azioni belliche, ma il Führer lo interruppe dicendo che «li avrebbe attesi,
secondo quanto era stato concordato. Ma le provocazioni della Polonia e
l'aggravarsi della situazione» avevano «reso urgente l'azione tedesca. Azione
però che non provocherà un conflitto generale. Hitler chiede al Capo del
Governo italiano di quali mezzi e di quali materie prime avesse bisogno per
riuscire a prendere parte a un'eventuale nuova guerra. Nella speranza che il
Paese ne fosse esonerato, il Duce rispose con una lunghissima lista
appositamente abnorme e impossibile da soddisfare, talmente esagerata da essere
definita da Galeazzo Ciano «tale da uccidere un toro. L'elenco - soprannominato
Lista del molibdeno a causa delle 600 tonnellate richieste di questo materiale
- comprendeva, fra petrolio, acciaio, piombo e numerosi altri materiali, un
totale di quasi diciassette milioni di tonnellate di rifornimenti e specificava
che, senza tali forniture da ricevere subito, l'Italia non avrebbe potuto
assolutamente partecipare a una nuova guerra. Il Führer, nonostante il sospetto
che Mussolini lo stesse ingannando, rispose dicendo che comprendeva la precaria
situazione italiana e che poteva inviare una piccola parte del materiale, ma
che gli era impossibile soddisfare per intero le richieste nostrane.[21]
Il 30 agosto la Germania inviò alla Polonia un ultimatum per la cessione del
Corridoio di Danzica e la Polonia ordinò la mobilitazione generale. La mattina
del giorno successivo, nonostante la situazione fosse già disperata, Mussolini
si offrì come mediatore presso Hitler affinché la Polonia cedesse pacificamente
Danzica alla Germania, ma il ministro degli esteri inglese Halifax rispose che
tale soluzione era inaccettabile. Appresa la notizia, nel pomeriggio dello
stesso giorno il Duce propose allora a Francia e Regno Unito una conferenza per
il successivo 5 settembre, «con lo scopo di rivedere quelle clausole del
trattato di Versaglia che turbano la vita europea».[23] Mussolini,
precedentemente, aveva già tentato di instradare la situazione nell'alveo di
una soluzione diplomatica. Ciano, nel suo diario, in più momenti annotò che il
Duce «è d'avviso che una coalizione di tutte le altre Potenze, noi compresi,
potrebbe frenare l'espansione germanica»;[24] «Il Duce sottolinea la necessità
di una politica di pace»;[25] «[...] si potrebbe parlare col Führer di lanciare
una proposta di conferenza internazionale»;[26] «Il Duce tiene molto a che io
provi ai tedeschi che lo scatenare una guerra adesso sarebbe una follia [...]
Mussolini ha sempre in mente l'idea di una conferenza internazionale. Il Duce
raccomanda ancora ch'io faccia presente ai tedeschi che bisogna evitare il
conflitto con la Polonia [...] il Duce ha parlato con calore e senza riserve
della necessità della pace»;[28]«Vedo nuovamente il Duce. Tentativo estremo:
proporre a Francia e Inghilterra una conferenza per il 5 settembre»;[29] «[...]
facciamo cenno a Berlino della possibilità di una conferenza».[30] Durante la
sera del 31 agosto, però, Mussolini venne informato che Londra aveva tagliato
le comunicazioni con l'Italia. La scelta della non belligeranzaModifica
Truppe tedesche, il 1º settembre 1939, rimuovono una sbarra di confine tra
Germania e Polonia All'alba del 1º settembre le forze armate tedesche,
utilizzando come casus belli l'incidente di Gleiwitz, diedero inizio alla
campagna di Polonia, varcandone il confine alla volta di Varsavia. Mussolini,
avendo firmato solo tre mesi prima l'alleanza con il Reich, fu messo di fronte
alla scelta se scendere o meno in campo a fianco di Hitler. Ricevuta notizia
dell'attacco tedesco e conscio dell'impreparazione italiana, la mattina dello
stesso giorno il Duce telefonò subito all'ambasciatore italiano a Berlino,
Bernardo Attolico, chiedendo che Hitler gli mandasse un telegramma per
sganciarlo dagli obblighi del Patto, in modo da non passare per traditore agli
occhi dell'opinione pubblica. Il Führer rispose immediatamente, in modo molto
cortese, accogliendo senza problemi la posizione dell'Italia, dicendo che
ringraziava Mussolini per l'appoggio morale e politico e rassicurandolo sul
fatto che non aspettava il sostegno militare italiano. Il telegramma, però,
probabilmente per punire la beffa italiana della Lista del molibdeno, non venne
pubblicato da alcun quotidiano del Reich e non venne trasmesso alla radio,
facendo successivamente nascere, nell'opinione pubblica tedesca, una crescente
ostilità nei confronti degli italiani, percepiti come inaffidabili e traditori
del Patto.[32] Galeazzo Ciano riferì che Mussolini, avendo percepito questa
crescente avversione, ancora il 10 marzo 1940 disse a Ribbentrop di essere
«molto riconoscente al Führer per il telegramma nel quale questi ha dichiarato
che non aveva bisogno dell'aiuto militare italiano per la campagna contro la
Polonia», ma che sarebbe stato meglio «se questo telegramma fosse stato
pubblicato anche in Germania».[33] Non potendo scegliere la neutralità
per non tradire l'amicizia con Hitler, nella seduta del Consiglio dei Ministri
delle 15:00 del 1º settembre 1939 il Duce rese nota ufficialmente la posizione
di non belligeranza.[34]La mancata consultazione dell'Italia da parte della
Germania prima dell'invasione della Polonia e prima della firma del patto
Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica,
comunque, secondo l'interpretazione italiana erano violazioni dei tedeschi
dell'obbligo di consultazione fra i due Paesi, previsto dal testo del Patto
d'Acciaio, consentendo perciò a Mussolini di dichiarare la non belligeranza
senza formalmente venir meno ai patti sottoscritti. Il 2 settembre
Mussolini ripropose l'idea di una conferenza internazionale: inaspettatamente,
Hitler rispose dichiarandosi disposto a fermare l'avanzata tedesca e a
intervenire in una conferenza di pace cui avrebbero partecipato Germania,
Italia, Francia, Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica. Gli inglesi,
tuttavia, posero come condizione inderogabile che i tedeschi abbandonassero
immediatamente i territori polacchi occupati il giorno prima. Galeazzo Ciano
riportò nel suo diario che «non tocca a noi dare un consiglio di tale natura a
Hitler, che lo respingerebbe con decisione e forse con sdegno. Dico ciò ad
Halifax, ai due Ambasciatori e al Duce, e infine telefono a Berlino che, salvo
avviso contrario dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima
luce di speranza si è spenta».[30] Secondo lo storico Renzo De Felice: «Così,
nelle prime ore tra il 2 e il 3 settembre, sulle secche dell'intransigenza
inglese forse più che su quelle dell'intransigenza tedesca [...], naufragò la
navicella della mediazione italiana».[35] Il 3 settembre Regno Unito e Francia,
in virtù di un trattato di alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla
Germania. Il 10 settembre l'ambasciatore Attolico, facendo riferimento
all'accordo fra Hitler e Mussolini per una non immediata entrata in guerra
dell'Italia e al telegramma di conferma di Hitler, comunicò che nel Reich «le
grandi masse popolari, ignare dell'accaduto, cominciano già a dar segno di una
crescente ostilità. Le parole tradimento e spergiuro ricorrono con
frequenza».[36] Il successivo 24 settembre, a conferma
dell'impreparazione italiana, il Commissariato Generale per le Fabbricazioni di
Guerra sondò il grado di approntamento delle Forze Armate, ricevendo come
risposta dagli Stati Maggiori che, salvo imprevisti, la Regia Aeronautica
sarebbe riuscita a ripianare sufficientemente le proprie carenze entro la metà
del 1942, la Regia Marina alla fine del 1943 e il Regio Esercito alla fine del
1944.[37] Inoltre l'economia italiana risultava fortemente danneggiata dal
blocco navale alle esportazioni tedesche di carbone, imposto da Regno Unito e
Francia e dall'applicazione del diritto di angheria, il quale prevedeva che
Londra e Parigi potessero non solo attaccare il naviglio nemico, ma anche
controllare il naviglio neutrale (o non belligerante) e porre sotto sequestro
merci e navi neutrali (o non belligeranti) provenienti da una nazione nemica o
dirette verso di essa. Dall'agosto al dicembre 1939, infatti, gli inglesi
fermarono a Gibilterra e a Suez, con vari pretesti, 847 navi mercantili e
passeggeri italiane (cifra poi salita a 1.347 navi al 25 maggio 1940),
rallentando fortemente i traffici di qualsiasi merce nel Mar Mediterraneo,
arrecando grave danno alla produttività nazionale e peggiorando i rapporti fra
Roma e Londra.[39] Durante l'inverno il Regno Unito fece sapere di essere
disposto a vendere carbone all'Italia, ma ad un prezzo stabilito
unilateralmente da Londra, senza garanzia sulle tempistiche di consegna e a
patto che l'Italia rifornisse di armamenti pesanti Regno Unito e Francia.[40]
Siccome l'accettazione di una simile proposta avrebbe comportato il crollo
delle relazioni fra Italia e Germania e una sicura reazione di Hitler, Galeazzo
Ciano comunicò il rifiuto del governo italiano. La cronica mancanza di carbone
e di approvvigionamenti causata dal blocco navale anglo-francese, però, minava
fortemente la stabilità nazionale e rischiava di portare il Paese all'asfissia
economica. La Germania intervenne, rifornendo l'Italia del carbone necessario e
rendendola così ancora più dipendente da Berlino, anche se la fornitura era
molto rallentata perché, per aggirare il blocco marittimo, doveva obbligatoriamente
avvenire via rotaie dal passo del Brennero. Per i generi di prima necessità,
invece, l'Italia sopperì parzialmente mediante l'estensione delle politiche
autarchiche adottate ai tempi della guerra d'Etiopia.[41] Gli esorbitanti costi
di gestione dell'Africa Orientale Italiana, uniti ai suoi magri guadagni,
stavano però rivelando che la conquista dell'impero era stata più un aggravio
che un beneficio per le casse dello Stato.[42] Per quanto riguarda le risorse
umane, le truppe italiane risultavano impreparate sotto ogni aspetto:
nonostante le «otto milioni di baionette» millantate da Mussolini, la
stragrande maggioranza dei soldati italiani non era motivata da alcun odio
contro inglesi e francesi, non era addestrata a impieghi specifici come l'assalto
a opere fortificate o l'aviotrasporto ed era cronica la mancanza di munizioni,
mezzi motorizzati e indumenti adatti.[43] Il Duce, a conoscenza della
crescente ostilità dei tedeschi nei confronti degli italiani,[32] aveva paura
di una possibile ritorsione di Hitler vincitore e si era posto il problema di
quale sorte, in caso di vittoria tedesca, il Führer avrebbe riservato
all'Italia qualora questa si fosse sottratta ai suoi doveri di alleata.[44] Il
generale Emilio Faldella, infatti, testimoniò che «più si profilava
l'eventualità della vittoria germanica, più Mussolini temeva la vendetta di
Hitler».[45] Sulla situazione, poi, pesava la questione dell'Alto Adige, una
zona di territorio italiano popolata prevalentemente da abitanti di lingua e
cultura tedesca che, nonostante le rassicurazioni sull'inviolabilità dei
confini, Hitler avrebbe potuto sfruttare come casus belli, nell'ottica
pangermanista di unificare tutte le popolazioni di stirpe germanica, per
annettere quel territorio al Reich e per invadere militarmente l'Italia
settentrionale.[46]Addirittura, il Duce fu anche sfiorato dall'idea che
convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Il 30 settembre
1939, infatti, alludendo alla scarsità delle riserve di carburante necessarie per
la guerra, commentò che, senza tali scorte, non sarebbe stato possibile
impegnarsi «né col gruppo A né col gruppo B», facendo perciò supporre che,
almeno in linea teorica, il Duce non escludeva a priori un ribaltamento delle
alleanze.[47] Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei
tedeschi e preoccupato da una loro eventuale calata nella Penisola, il
successivo 21 novembre Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo
Alpino del Littorioanche sul confine con il Reich, nonostante l'alleanza fra
Italia e Germania, creando il Vallo Alpino in Alto Adige. La zona,
massicciamente fortificata a tempo di record, venne poi soprannominata dalla
popolazione locale "Linea non mi fido", con evidente riferimento
ironico alla Linea Sigfrido.[48] Il problema della non
belligeranzaModifica La bandiera da guerra tedesca e la bandiera italiana
sventolano insieme Gli esiti della campagna di Polonia, contraddistinta da una
serie di impressionanti e fulminee vittorie dei tedeschi, contrastavano con la
condizione di non belligeranza italiana, mettendo implicitamente in risalto il
fallimento della politica militarista che Mussolini aveva condotto durante
tutto il suo governo e dando l'inaccettabile impressione che l'Italia potesse
essere considerata, in sede internazionale, come un Paese debole, ininfluente,
secondario o codardo.[49] Il Duce era infatti convinto che, nonostante
l'insufficienza militare nostrana, l'Italia non avrebbe potuto astenersi dalla
guerra. Secondo il cosiddetto Promemoria segretissimo 328 del 31 marzo 1940,[N
1][50] infatti, l'Italia non poteva restare non belligerante «senza
dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di
una Svizzera moltiplicata per dieci». Il problema, secondo Mussolini, non
consisteva nel decidere se il Paese avrebbe partecipato o no al conflitto,
«perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto
di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile,
compatibilmente con l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra».[49]
Nello stesso testo, il Duce tornò a riflettere sull'opportunità di denunciare
il Patto d'Acciaio e di schierarsi al fianco di Londra e Parigi, concludendo
però che si trattava di una strada non praticabile e che, anche «se l'Italia
cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non
eviterebbe la guerra immediata colla Germania», ritenendo uno scontro con il
Reich un'eventualità più disastrosa di un conflitto contro Francia e Regno
Unito.[49] Nonostante ciò Mussolini stesso covava la speranza, ormai
flebile, di riuscire ancora a riportare la situazione nell'alveo delle
trattative diplomatiche, credendo possibile una sorta di ripetizione della
conferenza di Monaco del 1938. Per alcuni mesi il Duce restò infatti dubbioso
fra tre possibili alternative:[51] fungere da mediatore in una riconciliazione
per via negoziale fra tedeschi e anglo-francesi, in modo da ottenere da tutti
qualche sorta di ricompensa, oppure rischiare e scendere in guerra al fianco
della Germania (ma solo quando quest'ultima sarebbe stata a un passo dalla
vittoria finale), oppure condurre una sorta di guerra parallela a quella della
Germania, in piena autonomia da Hitler e con obiettivi limitati ed
esclusivamente italiani, che gli avrebbe consentito di sedersi al tavolo dei
vincitori e di raccogliere qualche guadagno con il minimo sforzo, essendo
costretto a centellinare le poche risorse disponibili,[52] e senza perdere la
faccia.[53] Scartata la prima ipotesi, dal momento che le richieste di
trattative avanzate da Hitler erano state respinte, Mussolini si orientò allora
sulla seconda e sulla terza, in realtà strettamente interconnesse fra loro,
maturando questa convinzione almeno già dal 3 gennaio 1940, quando scrisse una
lettera al Führer per comunicargli che l'Italia avrebbe preso parte al
conflitto, ma solo nel momento che avrebbe ritenuto più favorevole:[54] non
troppo presto per evitare una guerra logorante, e non troppo tardi da arrivare
ormai a cose fatte.[55] Nella stessa lettera, però, nonostante l'impegno a
entrare in guerra, Mussolini dimostrò di nuovo la propria titubanza, suggerendo
contraddittoriamente a Hitler di trovare un accomodamento pacifico con Parigi e
Londra, in quanto «non è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio gli
alleati franco-inglesi senza sacrifici sproporzionati agli obiettivi».[56] Il
10 marzo 1940, dopo un incontro con il ministro degli esteri tedesco
Ribbentrop, il Duce confermò questa linea, come risulta dal contenuto di una
sua telefonata con Claretta Petacci intercettata dagli stenografi del Servizio
Speciale Riservato.[N 2] Nella telefonata, Mussolini parlò dell'eventuale
entrata dell'Italia in guerra come di un fatto ineludibile, senza però
precisare come e quando.[57] I dubbi sul da farsiModifica Mussolini
e Hitler nel 1940 Il 18 marzo Mussolini e Hitler si incontrarono per un
colloquio al passo del Brennero. Secondo Galeazzo Ciano, l'obiettivo del Duce
era dissuadere il Führer dal proposito di iniziare un'offensiva terrestre
contro l'Europa occidentale.[58] L'incontro, invece, finì in un lunghissimo
monologo del Cancelliere tedesco, con il Duce che a stento riuscì ad aprire
bocca. Fra marzo e aprile Hitler intensificò la sua pressione psicologica su
Mussolini, mentre il fronte antitedesco sembrava crollare in una serrata
sequenza di vittorie germaniche. Le Forze Armate del Reich, mettendo in atto
l'efficace tattica del Blitzkrieg, travolsero infatti la Danimarca (9 aprile),
la Norvegia (9 aprile-10 giugno), i Paesi Bassi (10-17 maggio), il Lussemburgo
(10 maggio), il Belgio (10-28 maggio) e iniziarono l'attacco alla Francia. I
vertici militari italiani prevedevano, secondo il generale Paolo Puntoni, la
«liquidazione della Francia entro giugno e dell'Inghilterra entro luglio». Le
folgoranti vittorie tedesche, unite alle risposte tardive e inefficaci di
inglesi e francesi,[59]fecero rimanere gli italiani col fiato sospeso, tutti
più o meno consapevoli che dal conflitto sarebbero dipese le sorti dell'Europa
e dell'Italia, e causarono in Mussolini una serie di reazioni contrastanti che,
«con gli alti e bassi tipici del suo carattere», continuarono ad accavallarsi,
rendendolo incapace di prendere una decisione che sapeva di dover prendere, ma
alla quale cercava di sottrarsi.[60] A chi gli chiedeva un parere
sull'eventualità che l'Italia restasse fuori dal conflitto, Mussolini,
riferendosi all'attacco tedesco in corso in quei mesi, rispondeva che: «se gli
inglesi e i francesi reggono il colpo ci faranno pagare non una, ma venti
volte, Etiopia, Spagna e Albania, ci faranno restituire tutto con gli
interessi».[61] Il 28 aprile papa Pio XII inviò un messaggio al Duce per
convincerlo a restare fuori dal conflitto. Galeazzo Ciano, riferendosi al
messaggio, annotò sul suo diario che: «l'accoglienza di Mussolini è stata
fredda, scettica, sarcastica».[62] Il 6 maggio il re Vittorio Emanuele III,
accennando alla «macchina militare ancora debolissima», sconsigliò l'entrata in
guerra, raccomandando al Duce di rimanere nella posizione di non belligeranza
il più a lungo possibile.[63]Contemporaneamente la diplomazia europea si
impegnò per evitare che Mussolini scendesse in campo al fianco della Germania:
per impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto rischiava di essere decisivo
per piegare la resistenza francese e avrebbe potuto creare grosse difficoltà
anche al Regno Unito. Il 14 maggio, su insistenza francese, il presidente degli
Stati Uniti d'America Franklin Delano Rooseveltindirizzò al Duce un messaggio
dai toni concilianti, il quarto da gennaio, per dissuaderlo dall'entrare in
guerra. Due giorni dopo anche il primo ministro inglese Winston Churchill seguì
l'esempio, ma con un messaggio più intransigente, in cui avvertiva che il Regno
Unito non si sarebbe sottratto alla lotta, qualunque fosse stato l'esito della
battaglia sul continente. Il 26 maggio partì un quinto messaggio di Roosevelt
al Duce.[64] Tutte le risposte di Mussolini confermarono che voleva
rimanere fedele all'alleanza con la Germania e agli "obblighi
d'onore" che essa comportava, ma privatamente non aveva ancora raggiunto
la certezza sul da farsi.[65] Pur parlando continuamente di guerra con Galeazzo
Ciano e con gli altri suoi collaboratori,[66] ed essendo profondamente colpito
dai successi tedeschi, almeno fino al 27-28 maggio (se si esclude un'improvvisa
convocazione dei tre sottosegretari militari la mattina del 10 maggio) non
risulta che il numero dei colloqui con i responsabili delle Forze Armate avesse
avuto alcun incremento, e nulla faceva presagire un intervento a
breve.[67] Mentre i francesi si aspettavano un lento avanzare della
fanteria tedesca attraverso il Belgio, o al massimo un improbabile attacco
frontale contro le fortificazioni della Linea Maginot, circa 2.500 carri armati
tedeschi penetrarono in Francia dopo aver attraversato in modo fulmineo la
foresta delle Ardenne, una regione collinare caratterizzata da profonde vallate
e da fitti arbusti che Parigi riteneva, fino a quel momento, del tutto inadatta
a essere attraversata da carri armati. Alla sorpresa di un'azione tatticamente
così brillante seguì il rapido e totale collasso delle Forze Armate francesi,
che fece nascere la convinzione, nei vertici militari italiani, che il Regno
Unito non sarebbe stato in grado di fronteggiare da solo un attacco tedesco e
che sarebbe stato costretto a scendere a patti con Berlino e che gli Stati
Uniti non avrebbero avuto la volontà né il tempo utile di impegnarsi
direttamente nel conflitto, dato che non lo avevano fatto neanche per salvare
la Francia e per servirsi di essa come una testa di ponte sul continente
europeo.[68] Inoltre, la maggioranza dell'opinione pubblica statunitense era
contraria alla guerra e Franklin Delano Roosevelt, impegnato nella campagna
elettorale per le elezioni presidenziali del 1940, non poteva non tenerne
conto.[69] Il direttore dell'OVRA, Guido Leto, dispose la raccolta di
indiscrezioni, informazioni riservate e intercettazioni telefoniche per sondare
i sentimenti degli italiani nei confronti della guerra, allo scopo di creare
uno spaccato il più aderente possibile alla realtà da sottoporre al Duce, che
chiedeva un quadro completo della situazione.[70] Secondo tali relazioni, «i
nostri informatori segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore
frequenza ed ampiezza, uno stato di timore - che andava diffondendosi
rapidamente - che la Germania fosse sul punto di riuscire a chiudere assai
brillantemente e da sola la tremenda partita e che, di conseguenza, noi - se
pure ideologicamente alleati - saremmo rimasti privi di ogni beneficio per
quanto aveva tratto colle nostre aspirazioni nazionali. Che, a causa della
nostra prudenza - di cui veniva attribuita la responsabilità a Mussolini -
saremmo stati, forse, anche puniti dal tedesco e che, quindi, se ancora in
tempo, bisognava bruciare le tappe ed entrare subito in guerra».[71] Leto,
inoltre, aggiunse che «pochissime voci, e non certo di politicanti delle due
parti avverse e con debolissimi echi nel paese, si levarono ad ammonire sulle
tremende incognite che la situazione presentava».[71] In questo clima, perciò,
anche Mussolini si convinse che l'Italia potesse «arrivare tardi», in quanto
era opinione comune[72] che il Regno Unito avesse i giorni contati e che la
conclusione della guerra fosse ormai prossima.[73] A nulla servirono le
opposizioni del re e di Pietro Badoglio, motivate dall'impreparazione del Regio
Esercito e da un giudizio prudente sulle vittorie tedesche in Francia.[74] Il
sovrano, inoltre, pose l'accento sull'importanza che avrebbe potuto avere nel
conflitto un eventuale intervento armato statunitense, che sarebbe stato
foriero di numerose incognite.[75] Dello stesso avviso era anche il principe
ereditario Umberto di Savoia. Galeazzo Ciano scrisse nel suo diario: «Vedo il
Principe di Piemonte. È molto antitedesco e convinto della necessità di rimanere
neutrali. Scettico, impressionantemente scettico sulle possibilità effettive
dell'esercito nelle attuali condizioni, che giudica pietose, di
armamento».[76] Secondo Mussolini, invece, le rapide vittorie tedesche
erano il presagio dell'imminente fine della guerra, per cui l'insufficienza
effettiva delle Forze Armate italiane assumeva ormai un'importanza
trascurabile.[77]Accanto al suo timore che l'Italia non avrebbe ricevuto alcun
beneficio nella futura conferenza di pace qualora il conflitto fosse terminato
prima dell'intervento nostrano,[61] nacque in Mussolini la convinzione che gli
fosse necessario «solo un pugno di morti»[78] per potersi sedere al tavolo dei
vincitori e per avere diritto a reclamare parte dei guadagni, senza la
necessità di un esercito preparato e adeguatamente equipaggiato in una guerra
che, secondo l'opinione pubblica nella tarda primavera del 1940,[59] sarebbe
durata ancora solo poche settimane e il cui destino era già scritto in favore
della Germania.[75][79] L'entrata in guerra dell'ItaliaModifica Ultimi
tentativi di mediazioneModifica Il presidente statunitense Franklin
Delano Roosevelt A fine maggio, nei giorni in cui i tedeschi vincevano la
battaglia di Dunkerque contro gli anglo-francesi e il re del Belgio Leopoldo
III firmava la resa del proprio paese, il Duce si convinse che fosse arrivato
il «momento più favorevole» che attendeva da gennaio ed ebbe una decisiva
virata verso l'intervento: il 26 ricevette una lettera dal Führer che lo
sollecitava a intervenire e, contemporaneamente, un rapporto inviato a Roma
dall'ambasciatore italiano a Berlino Dino Alfieri, che era succeduto a Bernardo
Attolico, su un suo colloquio con Hermann Göring. Quest'ultimo aveva suggerito
all'Italia di entrare in guerra quando i tedeschi avessero «liquidata la sacca
anglo-franco-belga», situazione che si stava verificando proprio in quei
giorni. Entrambi produssero nel dittatore una forte impressione, tanto che
Ciano annotò nel proprio diario che Mussolini «si propone di scrivere una
lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la seconda decade di
giugno». Ogni settimana, di fronte all'ampiezza della vittoria tedesca, poteva
essere quella decisiva per la fine della guerra e l'Italia, secondo Mussolini,
non poteva farsi trovare non in armi.[80] Lo stesso giorno, in un estremo
tentativo di scongiurare la partecipazione italiana al conflitto, il primo
ministro inglese Winston Churchill aveva, previo accordo con il suo omologo
francese Paul Reynaud, inviato al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano
Roosevelt la bozza di un accordo, che quest'ultimo avrebbe dovuto
successivamente trasmettere al Duce. Secondo tale documento, conservato presso
i National Archives di Londra con il nome Suggested Approach to Signor
Mussolini, Regno Unito e Francia ipotizzavano la vittoria finale della Germania
e chiedevano a Mussolini di moderare le future richieste di Hitler.[81] Nello
specifico, secondo questa proposta di accordo, Londra e Parigi promettevano di
non aprire alcun negoziato con Hitler qualora quest'ultimo non avesse ammesso
il Duce, nonostante la mancata partecipazione italiana al conflitto, alla
futura conferenza di pace in posizione uguale a quella dei
belligeranti.[81] Inoltre, Churchill e Reynaud si impegnavano a non
ostacolare le pretese italiane alla fine della guerra (che principalmente
consistevano, in quel momento, nell'internazionalizzazione di Gibilterra, nella
partecipazione italiana al controllo del Canale di Sueze in acquisizioni
territoriali nell'Africa francese).[81]Mussolini, però, in cambio avrebbe
dovuto garantire di non aumentare successivamente le proprie richieste, avrebbe
dovuto salvaguardare Londra e Parigi frenando le pretese di Hitler vincitore,
avrebbe dovuto revocare la non belligeranza e dichiarare la neutralitàitaliana e
avrebbe dovuto mantenere tale neutralità per tutta la durata del conflitto.
Roosevelt si dichiarò personalmente garante per il futuro rispetto di tale
accordo.[82] Il 27 maggio l'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, William
Phillips, recò a Galeazzo Ciano la missiva, indirizzata a Mussolini, con il
testo dell'accordo.[83] Lo stesso giorno il governo di Parigi, per rendere la
proposta di Roosevelt ancora più allettante, mediante l'ambasciatore francese
in ItaliaAndré François-Poncet fece sapere al Duce di essere disponibile a
trattare «sulla Tunisia e forse anche sull'Algeria».[81] Secondo lo
storico Ciro Paoletti, «Roosevelt prometteva per un futuro incerto e lontano.
Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato più
presidente? L'Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni
seguenti, delle notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919,
come ci si poteva fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga
scadenza, fatte per di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva
presentarsi alla rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una
Francia al collasso, da un'Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa
avrebbe potuto fargli subito dopo la ormai certa vittoria in Francia - e assai
prima di qualsiasi intervento americano - una Germania trionfante».[82] Secondo
gli storici Emilio Gin ed Eugenio Di Rienzo, inoltre, il Duce non avrebbe mai
accettato di sedersi al futuro tavolo delle trattative di pace, accanto a un
Hitler trionfante, solo "per concessione" degli Alleati, senza aver
combattuto, in quanto la sua figura in sede internazionale ne sarebbe uscita
debolissima e la sua autorità, paragonata a quella del Führer, sarebbe stata
del tutto irrilevante.[81]Galeazzo Ciano, nel suo diario, alla data del 27
maggio riportò infatti che Mussolini «se pacificamente potesse avere anche il
doppio di quanto reclama, rifiuterebbe».[84] La risposta a William Phillips,
infatti, fu negativa.[83] Gli atti formali e l'annuncio pubblicoModifica
La folla, radunata di fronte a Palazzo Venezia, assiste al discorso sulla
dichiarazione di guerra dell'Italia a Francia e Gran Bretagna Il 28 maggio il
Duce comunicò a Pietro Badoglio la decisione di intervenire contro la Francia
e, la mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i quattro vertici
delle Forze Armate, Badoglio e i tre capi di Stato Maggiore (Rodolfo Graziani,
Domenico Cavagnari e Francesco Pricolo): in mezz'ora tutto fu definitivo.
Mussolini comunicò ad Alfieri la sua decisione[85] e il 30 maggio annunciò
ufficialmente a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra mercoledì 5
giugno.[86] Mesi prima, in realtà, il Duce aveva ipotizzato un'entrata in
guerra per la primavera 1941, data poi avvicinata al settembre 1940 dopo la
conquista tedesca di Norvegia e Danimarca e ulteriormente accorciata dopo
l'invasione della Francia, fatto che faceva presagire un'ormai imminente fine
del conflitto.[55] Il 1º giugno il Führer rispose, chiedendo di posticipare di
qualche giorno l'intervento per non costringere l'esercito tedesco a modificare
i piani in corso di attuazione in Francia.[87]Il Duce si mostrò d'accordo,
anche perché il rinvio gli permetteva di completare gli ultimi preparativi. In
un messaggio del 2 giugno, però, l'ambasciatore tedesco a Roma Hans Georg von
Mackensen comunicò a Mussolini che la richiesta di posticipare l'azione era
stata ritirata e, anzi, la Germania avrebbe gradito un anticipo.[88] Il
Duce, tramite il generale Ubaldo Soddu, chiese a Vittorio Emanuele III che gli
venisse ceduto il comando supremo delle forze armate che, in base allo Statuto
Albertino, era detenuto dal sovrano. Secondo Galeazzo Ciano il re avrebbe
opposto notevole resistenza, finendo con il concordare una formula di
compromesso: il comando supremo sarebbe rimasto in capo a Vittorio Emanuele
III, ma Mussolini lo avrebbe gestito in delega. Il 6 giugno il Duce, scontento
di questa soluzione e irritato dalla difesa del sovrano delle proprie
prerogative statutarie, sbottò: «Alla fine della guerra dirò a Hitler di far fuori
tutti questi assurdi anacronismi che sono le monarchie».[89] Volendo evitare
l'entrata in guerra venerdì 7 giugno, data che era stata superstiziosamente
considerata di cattivo auspicio,[90]si giunse a lunedì 10 giugno. Galeazzo
Ciano fece convocare per le 16:30 a Palazzo Chigi l'ambasciatore francese André
François-Poncet e, secondo la prassi diplomatica, gli lesse la dichiarazione di
guerra, il cui testo recitava: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che
l'Italia si considera in stato di guerra con la Francia a partire da domani 11
giugno». Alle 16:45 dello stesso giorno venne ricevuto da Ciano l'ambasciatore
britannico Percy Loraine, che ascoltò la lettura del testo: «Sua Maestà il Re e
Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la Gran
Bretagna a partire da domani 11 giugno».[91] Entrambi gli incontri si
svolsero, secondo i diari di Galeazzo Ciano, in un clima formale, ma di
reciproca cortesia. L'ambasciatore francese avrebbe detto che considerava la
dichiarazione di guerra come un colpo di pugnale a un uomo già a terra, ma che
si aspettava una tale situazione già da due anni, dopo la firma del Patto
d'Acciaio fra Italia e Germania, e che comunque nutriva stima personale per
Ciano e non poteva considerare gli italiani come nemici.[N 3][92]L'ambasciatore
inglese, invece, sempre secondo Ciano avrebbe partecipato all'incontro restando
imperturbabile, limitandosi a domandare educatamente se quella che stava
ricevendo dovesse essere considerata un preavviso o la vera e propria dichiarazione
di guerra.[93] Preceduto dal vicesegretario del Partito Nazionale
Fascista Pietro Capoferri, che ordinò alla folla il saluto al Duce, alle 18:00
dello stesso giorno Mussolini, indossando l'uniforme da primo caporale d'onore
della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, di fronte alla folla
radunatasi in Piazza Venezia, annunciò, con un lungo discorso trasmesso anche
via radio nelle principali città italiane, che «l'ora delle decisioni
irrevocabili» era scoccata, mettendo al corrente il popolo italiano delle
avvenute dichiarazioni di guerra.[94] Di seguito, l'incipit e explicit
del discorso: «Combattenti di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere della
rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno
d'Albania. Ascoltate! Un'ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra
patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già
stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. [...] La
parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già
trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E
vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia
all'Italia, all'Europa, al mondo. Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra
la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!».[95] Le reazioni
dell'opinione pubblicaModifica La prima pagina de Il Popolo d'Italia
dell'11 giugno 1940 La notizia fu accolta con entusiasmo dai gruppi industriali
italiani, che vedevano l'inizio del conflitto come un'occasione per aumentare
la produzione e la vendita di armi e macchinari, e da una buona parte dei
vertici fascisti, nonostante le più alte personalità del regime avessero in
precedenza espresso scetticismo sull'intervento italiano e avessero abbracciato
la linea di condotta tracciata da Mussolini il 31 marzo 1940, che prevedeva di
entrare in guerra il più tardi possibile allo scopo di evitare un conflitto
lungo e insopportabile per il Paese. In ogni caso, fra le personalità che
avevano espresso dubbi - se non veri e propri atteggiamenti ostili -
sull'intervento militare italiano, nessuna palesò pubblicamente la propria
opposizione al conflitto e sulla scrivania del Capo del Governo non vennero
recapitate lettere di dimissioni. La stampa italiana, condizionata da
censura e controllo imposti dal regime fascista, diede la notizia con grande
enfasi, utilizzando titoli a caratteri cubitali che facevano uso entusiasta di
citazioni del discorso e manifestavano completa adesione alle decisioni prese:[96]
«Corriere della Sera: Folgorante annunzio del Duce. La guerra alla Gran
Bretagna e alla Francia. Il Popolo d'Italia: POPOLO ITALIANO CORRI ALLE ARMI!
Il Resto del Carlino: Viva il Duce Fondatore dell'Impero. GUERRA FASCISTA.
L'Italia in armi contro Francia e Inghilterra. Il Gazzettino: Il Duce chiama il
popolo alle armi per spezzare le catene del Mare nostro. L'Italia: I dadi sono
gettati. L'ITALIA È IN GUERRA. La Stampa: Il Duce ha parlato. La dichiarazione
di guerra all'Inghilterra e alla Francia. Bertoldo: Londra non sarà piena di
tedeschi, ma fra poco sarà piena di italiani.» L'unica voce critica che
si levò, oltre ai giornali clandestini, fu quella de L'Osservatore Romano: «E
il duce (abbagliato) salì sul treno in corsa». Questo titolo fu accolto con
grande disappunto dai vertici italiani, tanto che Roberto Farinacci, segretario
del partito fascista, in un commento alla stampa affermò che: «La Chiesa è
stata la costante nemica dell'Italia».[96] Il capo dell'OVRA, Guido Leto,
prendendo atto della reazione dell'opinione pubblica italiana, riferì che:
«Come nell'agosto del 1939 la polizia rilevò e riferì il quasi unanime dissenso
del paese verso un'avventura bellica, così nella primavera del 1940 essa
segnalò il rovesciamento della pubblica opinione presa da un ossessionante
timore di arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo operò come un
termometro: non determinò, né influenzò, né menomamente alterò la temperatura
del paese, ma semplicemente la misurò».[71] Hitler, venuto a conoscenza dell'annuncio
pubblico, inviò immediatamente due telegrammi di solidarietà e ringraziamento,
uno indirizzato a Mussolini e uno a Vittorio Emanuele III, anche se,
privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto avrebbe
preferito che l'Italia attaccasse a sorpresa Malta e altre importanti posizioni
strategiche inglesi anziché dichiarare guerra a una Francia già sconfitta.[N
4][95] In sede internazionale l'intervento italiano contro la Francia fu
visto come un gesto vile, al pari di una pugnalata alle spalle,[97] in quanto
l'esercito francese era già stato messo in ginocchio dai tedeschi e il suo
comandante supremo, il generale Maxime Weygand, aveva già impartito ai
comandanti delle forze superstiti l'ordine di ritirarsi per mettere in salvo il
maggior numero possibile di unità.[98] Il giudizio di Churchillsull'ingresso
dell'Italia nel conflitto bellico e sull'operato di Mussolini fu affidato al
commento pronunciato a Radio Londra:[99] «Questa è la tragedia della storia
italiana. E questo è il criminale che ha tessuto queste gesta di follia e
vergogna». Quando venne raggiunto dalla notizia dell'intervento italiano contro
un nemico ormai sconfitto, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano
Roosevelt rilasciò a Charlottesville una dura dichiarazione
radiofonica:[100]«In questo 10 giugno, la mano che teneva il pugnale l'ha
affondato nella schiena del suo vicino». Piani di guerraModifica
L'entrata in guerra fu la notizia principale su tutti i quotidiani italiani
dell'11 giugno 1940 I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo
Stato Maggiore dell'esercito nel febbraio 1940 e prevedevano una condotta
strettamente difensiva sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da
iniziare solamente in condizioni favorevoli) in Jugoslavia, Egitto, Somalia
francese e Somalia britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la
dislocazione delle forze disponibili, non di piani operativi, per i quali
veniva lasciata al Duce piena libertà di improvvisazione.[101] I vertici
militari riconobbero l'inadeguatezza del Paese ad affrontare una guerra ma,
allo stesso tempo, non presero posizione dinanzi all'intervento, ribadendo la
loro totale fiducia in Mussolini.[102] L'approccio del Duce al conflitto appena
iniziato dall'Italia si concretizzò in direttive più o meno frammentarie, che
egli indirizzava ai vertici militari: furono formulate richieste di operazioni
nei teatri più disparati, mai trasformatesi in scelte precise e piani concreti.
Venivano a mancare, in questo quadro, una strategia complessiva e di ampio
respiro, obiettivi reali e un'organizzazione razionale della guerra.[102]
Ciò fu evidente fin da subito, quando, il 7 giugno, lo Stato Maggiore Generale
notificò che: «A conferma di quanto comunicato nella riunione dei Capi di Stato
Maggiore tenuta il giorno 5 ripeto che l'idea precisa del Duce è la seguente:
tenere contegno assolutamente difensivo verso la Francia sia in terra che in
aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi, si
considerino tutte forze nemiche da attaccare; se si incontrano solo forze
francesi, prendere norma dal loro contegno e non essere i primi ad attaccare, a
meno che ciò ponga in condizioni sfavorevoli». In base a quest'ordine la Regia
Aeronautica ordinò di non effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di
compiere ricognizioni aeree mantenendosi in territorio nazionale,[103] e
altrettanto fecero il Regio Esercito e la Regia Marina, la quale non aveva
intenzione di uscire dalle acque nazionali salvo per il controllo del canale di
Sicilia, ma senza garantire le comunicazioni con la Libia.[104] Come
preannunciato nella corrispondenza con il governo tedesco,[105] dall'11 giugno
le truppe italiane cominciarono le operazioni militari al confine francese in
vista della pianificata occupazione delle Alpi occidentali ed effettuarono
bombardamenti aerei, di carattere puramente dimostrativo, su Porto Sudan, Aden
e sulla base navale inglese di Malta. L'alto comando delle operazioni venne
affidato al generale Rodolfo Graziani, un ufficiale esperto in guerre coloniali
contro nemici inferiori per numero e per mezzi, che non aveva mai avuto il
comando su un fronte europeo[106] e che non aveva alcuna familiarità con la
frontiera occidentale.[107] I vertici militari italiani, costretti a
centellinare le poche risorse disponibili, decisero di muovere le truppe solo
in concomitanza con i movimenti dei tedeschi:[108]l'aggressione alla Francia
avvenne infatti solo quando la Germania l'aveva già praticamente sconfitta, poi
ci fu un periodo di inattività italiana contemporaneo all'inattività tedesca
nell'estate 1940, poi le azioni italiane ripresero quando la Germania iniziò la
pianificazione dell'aggressione al Regno Unito. Secondo lo storico Ciro
Paoletti: «Ogni volta che i Tedeschi si muovevano poteva essere quella decisiva
per la fine vittoriosa del conflitto; e l'Italia doveva farsi trovare impegnata
quel tanto che bastasse a dire che anch'essa aveva combattuto lealmente e
godeva il diritto di sedersi al tavolo dei vincitori».[109]L'atteggiamento
dell'Italia, che «entrava in guerra senza essere attaccata» né sapeva dove
attaccare,[110] e che «addensava le truppe alla frontiera francese perché non
aveva altri obiettivi»,[110] venne sintetizzato dal generale Quirino Armellini
con la massima: «Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà».[111]
NoteModifica Note al testo ^ Il Promemoria segretissimo 328 era una relazione,
stilata da Mussolini il 31 marzo 1940, con destinatari Vittorio Emanuele III,
Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari, Francesco
Pricolo, Attilio Teruzzi, Ettore Muti e Ubaldo Soddu. cfr. Il «promemoria
segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito Mussolini, su
larchivio.com. URL consultato il 28 dicembre 2018. ^ Il Servizio Speciale
Riservato era un organo, istituito ai tempi di Giovanni Giolitti, per tenere
sotto controllo le principali personalità del Paese. ^ Diversa, invece, la
versione su toni e parole data dall'ambasciatore francese: «E così, avete
aspettato di vederci in ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in
voi non ne sarei affatto orgoglioso», e Ciano avrebbe risposto, arrossendo:
«Mio caro Poncet, tutto questo durerà l'espace d'un matin. Ben presto ci
ritroveremo tutti davanti a un tavolo verde», riferendosi a un futuro tavolo
delle trattative al termine del conflitto. cfr. Niente pugnale alla schiena
Archiviato il 15 settembre 2016 in Internet Archive., in Il Tempo, 10 giugno
2009. URL consultato il 28 dicembre 2018. ^ Di seguito i testi dei due
telegrammi, qui fedelmente riportati secondo le fonti reperibili. cfr. La
Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo. URL consultato il 30
dicembre 2018. Berlino, 10/6/40, telegramma di Hitler al Re
La provvidenza ha voluto che noi fossimo costretti contro i nostri stessi
propositi a difendere la libertà e l'avvenire dei nostri popoli in
combattimento contro Inghilterra e Francia. In quest'ora storica nella quale i
nostri eserciti si uniscono in fedele fratellanza d'armi, sento il bisogno
d'inviare a Vostra Maestà i miei più cordiali saluti. Io sono della ferma
convinzione che la potente forza dell'ITALIA e della GERMANIA otterrà la
vittoria sui nostri nemici. I diritti di vita dei nostri due popoli saranno
quindi assicurati per tutti i tempi. Berlino, 10/6/40, telegramma
di Hitler a Mussolini Duce, la decisione storica che Voi avete oggi proclamato
mi ha commosso profondamente. Tutto il popolo tedesco pensa in questo momento a
Voi e al vostro Paese. Le forze armate germaniche gioiscono di poter essere in
lotta al lato dei camerati italiani. Nel settembre dell'anno scorso i dirigenti
britannici dichiararono al Reich la guerra senza un motivo. Essi respinsero
ogni offerta di un regolamento pacifico. Anche la Vostra proposta di mediazione
si ebbe una risposta negativa. Il crescente sprezzo dei diritti nazionali
dell'ITALIA da parte dei dirigenti di Londra e di Parigi ha condotto noi, che
siamo stati sempre legati nel modo più stretto attraverso le nostre Rivoluzioni
e politicamente per mezzo dei trattati, a questa grande lotta per la libertà e
per l'avvenire dei nostri popoli. Fonti ^ Ciano, Ciano, 1948, pp. 373-378. ^ a
b Ciano, 1948, p. 375. ^ a b Ciano, 1948, p. 383. ^ Paoletti, p. 31. ^ a b
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Speroni, pp. 186-187. ^ De Felice, pp. 840-841. ^ a b La Dichiarazione di
Guerra di Mussolini, su www.storiaxxisecolo.it. URL consultato il 6 settembre
2016. ^ a b Luciano Di Pietrantonio, 10 giugno 1940: l'Italia dichiara guerra a
Francia e Gran Bretagna, su abitarearoma.net, 9 giugno 2013. URL consultato il
19 dicembre 2018. ^ De Santis, p. 40. ^ Bocca, p. 144. ^ Simonetta Fiori,
Mussolini e il 10 giugno del 1940: il discorso che cambiò la storia d'Italia,
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di Francia (1940), su storiaxxisecolo.it. URL consultato il 19 dicembre 2018. ^
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correlateModifica Battaglia delle Alpi Occidentali Lista del molibdeno
Occupazione italiana della Francia meridionale Storia del Regno d'Italia Italia
nella seconda guerra mondiale Altri progettiModifica Collabora a Wikisource
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Mussolini contiene il testo completo della dichiarazione di guerra dell'Italia
a Gran Bretagna e Francia Istituto Nazionale Luce. La dichiarazione di guerra
alla Francia e alla Gran Bretagna: il discorso di Mussolini, su
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accordo di reciproco aiuto politico, diplomatico e militare tra i governi del
Regno d'Italia e della Germania nazista Lista del molibdeno richiesta
italiana di materiale bellico nella II guerra mondiale Memoriale
Cavallero. Roberto Cordeschi. Cordeschi. Keywords: la logica della guerra, la
guerra del fascismo, Croce, sperimentalismo italiano, mente, homo mechanicus,
Turing, Craik, artificiale e naturale, filosofia, rappresentare il concetto,
logica matematica, reiezione in Aristotele, predicate, significato,
communicazione, creativita, informazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cordeschi” – The Swimming-Pool Library. Cordeschi.
Grice e Corleo: la ragione
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo italiano. Grice: “Corleo is a genius -- His keyword is identity, the Hegelian type,
and that’s why he attracted Gentile’s attention! But my favourite is his
excursus on language! He talks like a veritable Griceian – about ‘intenzione’
and ‘pre-convezione’ – and the spontaneous cry to seek attention, Romolo from
Remo, say – He very much elaborates on the subject and the predicate and the
copula, and the other parts of speech – But he retains an empiricist,
evolutionary viewpoint with which I wholly agree!” Studia nel
Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un
seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana.
Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”. Durante la spedizione dei mille, fu nominato
da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio:
“Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di
Salemi. Altre opere: “Meditazioni
filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia
dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario
biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente dall’esperienza e
dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio affermativo (S
e P) o giudizio negativo -- S non e P -- , giudizio condizionale -- Se p, q -- ,
giudizio tetico -- S e P -- giudizio ipotetico
-- si p, q --, giudizio disgiuntivo -- p v q -- e via via. Poichè,ogni proposizione o
giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto --
S e P -- o negare un predicato ad un soggetto -- S non e P --, e ciò non può
farsi altrimenti che in forza della identità parziale o totale del predicato
stesso col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso
di giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto
condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso
di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una verità
nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il
raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce
l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad
un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve
esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir
l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e
molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or,
questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la
connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con
attenzione, si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se
S è connesso con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece
che ambidue sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto
S-P, di guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il
loro legame necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale
– “S e P” -- onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel
tutto non sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti
che lo costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti
integranti di un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è
identico con essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde
non può esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non
sarebbe vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi
subalterni dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad
esaminare ogni teorema geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in
genere e delle varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione
tra cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di
seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima.
Essi non sono che le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di triangolo
e delle sue specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto
complessivo sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora
nemmeno avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna
delle sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di
nesso a costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella
identità di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni
sul raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè
l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la
connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un
ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto
dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come
sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto
connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più
larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio
maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso
opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale
riunire per necessità le parti fra di lor, senza di cui egli non potrebbe esser
quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a
quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li
identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci
contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo
di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo
vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual
giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità
di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio
analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei
singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i
giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come
parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità
del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame
egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando
serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che
legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè
i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico
e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti:
onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo
soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo
soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo
subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è
identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere
alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e
se gli altri subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la
connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente*
deve esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e
non dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a
quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata
sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla
identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità
totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un
fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi
in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi*
o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che
tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui
identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità
con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed
allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli
elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha
perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad
accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo
renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o
supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla
trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio
dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la
*testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni
giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è
composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la
connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale
di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve
giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio
inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè
fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata
dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti,
nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il
giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno
divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta
dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle
parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli
elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque
passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità
assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel
conoscimento delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi
sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti
parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso
solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e
necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li
costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti
subalterni, che sono del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza
del raziocinio non può essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra;
essa consiste nel passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che
la costituiscono, o dalle identità parziali alla totale per mezzo della
scoperta di quelle altre identità parziali che sono con loro connesse per
compiere l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei
concetti, della doppia identità delle parti e del tutto per avere ragionamenti
rigorosi; e non potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene per
mezzo della esperienza. In questi due soli modi è possibile il raziocinio. Chi
cura soltanto la forma esteriore del ragionamento e ripone la logica nello
studio delle leggi della FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del
raziocinio, che è l'accertamento della identità de' giudizi connessi col tutto
di cui sono parti; e perciò corre l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert,
che non è mai garanzia sicura di esatti ragionamenti. Or, perchè mai i
subbietti di tali giudizi son dive nuti concettuali e perciò includono
necessariamente i loro pre. Tre sono state le più grandi logiche formali. La
prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta dal particolare al
particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari. La
seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i
particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano
soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad
altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione
dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono
le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che
ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni
naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato
dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come
Porfirio e BOEZIO, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone,
e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato
la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come
idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di
universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie
dalla classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste
argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o
inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che
non posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al
vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare
all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di
particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè
questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine
fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o
identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un
altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano.
Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al
particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai
verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið
ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e
perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal
l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra
parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può
accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in
modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre
essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel
concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve
notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi,
o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e
volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo
in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto
vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto
ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o
di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo
di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che
hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali
abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È
allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo.
Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente
nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari
simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si
cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second,
si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto
particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè
moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque
selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione
baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo
numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo
generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di
parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed
all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli
elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione
di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene
l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano
anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è
necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma
delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il
tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai
all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di
ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente,
perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette
forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali
ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale
identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde
composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia
decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la
quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle
percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse,
non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un
doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente
e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da
sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria
riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge
dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per
non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da
sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto
concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto
riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in
mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi
l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il
predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in
tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati
dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni,
non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente
si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e
diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica,
e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela
borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di
elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono
per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca
o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola
della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli
elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta
nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale
idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del
raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea,
come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante
di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà
sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge
logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo,
un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa
con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel
ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gl’errori di esperimento si
correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne
occupano. Gl’errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed accurato
esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle
rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame
delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio
lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi
che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella
stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del
l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che
la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve
essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così
soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli
che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra
quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal
modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò
consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva
già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle
soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità,
universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al
complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare,
sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero
altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i
suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo
sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di
fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante
la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo
scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola,
nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati
scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero
al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali,
concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare
alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione
necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi
delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di
condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna
ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee.
Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera
origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso
supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto
delle idee morali, col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte
quelle idee che non potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla
credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i
posteriori idealisti, visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad
ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che
s'impongono alla nostra ragione, sia ritenendole verità prime indiscutibili ed
indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune); sia supponendole
forme assolute del pensiero quidquid
recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole
innate e facienti parte del nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale,
quella dell'essere (*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto
d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole
comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole
giobertiane*), o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri
di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana
), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola
di Schopenauher ), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti
supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per
dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè
stesse, nei loro attuali elementi costitutivi, adducendo a prova della
impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali
ebbero bensì il buon volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai
averne studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili.
Laonde è d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment
ammesse, per inferirne le bramate conseguenze. Or se è vero che percepire
distintamente, sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare,
ideare, giudicare, connettere e ragionare, non sono altro che più o men
largamente identificare le parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente,
in forma sperimentale o in forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur
troppo evidente che, per potere scorgere l'identità più prontamente e con
maggiore chiarezza, sarebbero assai utili due cose. Primo, abbreviare e
ravvicinare tra loro con SEGNI le percezioni ed i loro elementi, le idee ed i
loro elementi. Secondo indicare con segni le successive operazioni che vengon
fatte spontaneamente o riflessivmente sui detti complessi e loro elementi.
L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono scienza, ma sono potenti mezzi di
scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano le idee e le operazioni su di esse
fatte rendendo più facile e più sicuro il colpo d'occhio su di loro per
scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè non sarà possibile una logica
aritmetica o matematica per agevolare la conoscenza delle identità parziali e
totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio della intelligenza? Non vale il
dire che nell’aritmetica e la geometria si tratta di rapporti tra sole quantità,
e perciò e possibile un segno abbre viativi e le operazioni identiche. Mentre
invece nella logica generale si dovrebbero trattare molti altri rapporti di
QUALITà, che variano tra loro indefinitamente, e perciò l'aritmetica non si
potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire questo; poichè tutti i
rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune, l'identità costante di
ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa crescere nè decrescere in
alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra. Onde il fondamento vero
dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella identità, come in generale il
fondamento di tutte le operazioni dell'intelletto; e la loro unica regola
consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi ha dunque difficoltà vera contro la
formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo non dev'essere altro che
quello di fissare, abbreviare, e con un segno, costante e certo, ravvicinare
fra loro le idee ed i loro elementi, e le operazioni che su di esse si fanno.
Nella scelta del segno per tale oggetto, non occorre far tutto a nuovo. Come
nell'aritmetica, si posson prendere le lettere alfabetiche per indicare i
complessi della percezione e dell'idea, non che i loro elementi, cioè le lettere
maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere minuscole (a, b, c, …) per gli
elementi, se fossero gli uni e gli altri conosciuti e categorizzati. Se ancora
non fossero conosciuti distintamente, potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni
segno dell’aritmetica, più, meno, eguale, maggiore, minore, hanno posto nella
logica o semiotica matematica o aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura
ordinaria, l’interrogativo – la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella
stessa scrittura per indicare un seguito di cose simili, che corrisponde all'
&. Soltanto resterebbero a stabilirsi un segno per quell’operazione che
nell'aritmetica e nel linguaggio ordinario non esiste. Questo segno si riducono
a distinguere lo stato spontaneo dal stato riflesso, che sono i due stati del
nostro animo, ed ambidue i detti stati dal di fuori di essa. Per tale scopo
descrivo due spazi, uno spazio inferiore e l'altro spazio superiore, chiusi da
tre linee parallele orizzontali. Il di fuori è tutto quello ch'è al disotto
dello spazio inferiore e lo spazio superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*.
Lo spazio superiore indica il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di
punti, o di lettere, i complessi e le loro parti, sia percepito, sia non
percepito, o sia salito allo stato di riflessione. Un punto e una lettera
minuscola indicano i loro elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto.
La lettere indica che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due
parallele verticali. Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in
un angolo verticale. Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una
delle due linee sarà più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due
quadrilateri che convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo
vertical rappresentano la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le
quadrilateri rappresentano l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una
serie di anelli di una catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno
sovrapposto a quello che voglio negare, il non identico, il non simile, il non
dubbio, ecc. $ 54. Ecco così la serie dei segni principali: + più, meno, = uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’
simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in
contatto, & etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè
riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso,
percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e
sintetizzato, !! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi
spontanea e riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la
parte a. | A la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da
quello di riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei
giudizii e nei raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i
due spazî, che segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i
suoi elementi si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè
sieno più o meno distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha
una delle due formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B?
A A? Bİ, non è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica
certamente, 1 -?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della
percezione A? La risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde?
с a hg an. Or, dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali,
с de cioè l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli
altri elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della
connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è
l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è
necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero
il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con
le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e
possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione
e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di
connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento
erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $
56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa
dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un
altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio
ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h
g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono
parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici?
Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali
identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione
tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due,
o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei
due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o
per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha
passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno d'identità
1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità col
tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello di
sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento
prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il
formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di
mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son
limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di
reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli
con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del
concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro
eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in
tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso
in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in
questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile
la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò,
lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle
singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale.
Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere
qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o
un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter”
-- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo
esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome
il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser
pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione*
da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di
suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o
concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui
che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro
quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere,
cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia
volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion
di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o
pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio
co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto,
cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno
per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico,
assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione
convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima
espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di
communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato
segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee
co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una
proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”),
il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della
esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione
il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che
s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta
naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque
non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca
stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione
comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola
sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse
nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli
segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee
astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne
analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi
incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle
percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si
analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili
e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e
ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un
momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che
fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione,
anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e
di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno
articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un
segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta
per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per
altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il
concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza
confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per
signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco
sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni
che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno
per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o
il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un
colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di
essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un
segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per
richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han
bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’
“onore”, il “dovere”, ec. Cosi anche e
il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É
in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se
vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno,
particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere
reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene
l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il
legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice
(“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa,
come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille
modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma
indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni
derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per
citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo
vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno
sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno
come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il
segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”,
“amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il
mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al
recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza
grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e
siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una
proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno
articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio
(di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo
nella sintesi, nell’analisi e
nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per
mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il
sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il
suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti.
Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o
communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per
fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al
primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette
tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione,
fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma
genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii
innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem
col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa
dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in
tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione
dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica
religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del
segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a
dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al
linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo
appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò
adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il
quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque
guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre
bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe
questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai
uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò,
essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia
stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente
consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o
signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle
rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica
o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la
necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta
analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere
la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza
volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si
combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta.
Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi
voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al
problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si
domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente
esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile:
nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce
grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può
signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche
facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza
dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso
l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”),
il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col
porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio
completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza
l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha
preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa
mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è
quest'altro. Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un
primo uso di un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di un'astrazione
(o articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha bisogno
dell'uso del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono a
vicenda, in modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si
guardano *sinteticamente* dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento,
non pajono più naturalmente spiegabili, e comparisce quella specie di circolo
vizioso, di cui si parla inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo
sviluppo pieno dell’altra, ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non
si sa più qual delle due debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal
fatto bisogna incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento
men complicato e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza
mutua, e come mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo
un’obbiezione ben facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per
poter determinare qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare
communicamente in Romolo e Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia
una base sufficiente per poter sostenere che il segno communicativo più antico
e più elevato e più ricco di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto
del signare comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo
esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio non mi credo autorizzato a dare una soluzione
diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori,
e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non
entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il
primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita
di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame
storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato
filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente
arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per
mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente,
naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un
arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò
che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno
più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due
uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --,
quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve
essere per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del
genero segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine
necessita. Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico,
assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo
un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di
segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per
sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di
arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare*
(transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo
essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato,
segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti.
Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’)
i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow
wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino
italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come
la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma
anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che
l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma
quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le
possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una
cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella
può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono
qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta
(l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o
iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente
emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma
intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato
(‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento
l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare,
i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale
-- che costituisee la communicazione e
la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la
prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque
altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien
segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano
che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno
articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della
pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende
da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che
il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora
(“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do
alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso
potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito
la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un
pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono
qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che
potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più
involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o
pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo
la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo
“o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo
arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua
divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più
semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna,
signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e
presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che
cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale
il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è ottenuto.
Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione comunicativa alcuna
richiama l’attenzione dell’altra parte della diada conversazionale. Ciò che si
è dapprima, one-off, ottenuto senza intento communicativo o intenzione communicativa,
può la seconda volta esser voluto *di proposito*, voluntariamente, -- def. di
verbum in Aquino -- per la utilità che se n’è ricavata: ripetendosi dunque
avvedutamente lo stesso segno, quello è divenuto un vocativo naturale. E noi
osservammo che appunto questa vocale “o” è il vocative nella Roma di Remo (o
tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio mutuo o duale dunque non
nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di un'effetto o risponsa,
che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per imitazione, consigue. Volendo di
nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto o la stessa risponsa, non ci
vuol’altro che ripetere un altro specimen del stesso genero di segno (“o”).
L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando vi sono tante possibilità
d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar luogo spontaneamente a un
arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono assoluto che sia impossibile
l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza della utilità del segno
medesimo? Non dico che l’atto del signare communicativamente nacque in questo o
in quell’altro modo. Dico che vi sono moltissime possibilità tutte *naturali*,
nelle quali l'uomo può avvertire l'utilità dell'uso di un segno articolato per
l’effetto o la risponsa spontanea, no intenzionata, che ne ottiene, e senza il
bisogno di un preventivo arbitrio duale. Basta questo per distruggere a rigor
di logica le basi tutte di quell'edificio che si vuol fondare
sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa senza prima aver conosciuto l'uso
e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto ebbero forse insegnato da Dio l'uso
del atto di signare communicativamente, con che communica (o transferre) il suo
bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la domanda del soccorso? Forse non
vediamo fin dal loro nascere i varii animali communicarsi per mezzo di un segno,
per lo più *istintivo* -- che causa una risponsa istintiva, i diversi loro
stati? Non puo il brutto perfezionare il suo atto di signare
communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di analizzare gli
elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre, siccome vedremo a
suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o stimolo, in esito
al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta volontariamente; e
tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la libertà del movimento
per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi ha una specie di “tacito”
arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto ottenuto o la risponsa
ottenuta una volta, per ragion di associazione o co-relazione iconica istintiva
associativa, fa appunto le veci di un arbitrio duale. Se dunque questo segno
inferiore è possibile nel bruto, il quale non astragge, perchè lo stesso
principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è possibile fra due uomini! Un
uomo, che ha la piena capacità di astrarre, riconosce più facilmente l'utilità
dell’effetti ottenuto o della risponsa ottenuta dall’altra parte della diada
conversazionale, e si crea l'idea generica del arbitrio duale del segno, dalla
quale discende poi come conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco,
illimitato, creativo, e di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne,
in ragion di questa o quella percezione, o in ragione di questo o quello
concetto astratta. Concepita una volta l’utilità dell’uso del atto di signare
communicativemente, del segno articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro
che possedere in fatto la capacità di variare e combinare *indefinitamente* in
modo aperto e illimitato, l'articolazione e la operazione di questo o quello
segno primitivo, e l'uomo possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo
adunque può, da un certo numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a
*stabilire* un arbitrio duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale
del segno, poichè da un fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e
l'idea generica; e possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di
questo o quello segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto
il resto. Quantunque il segno che compone l’atto del signare communicativo e
per arbitrio muto, pure siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre
elementi delle medesime (S, e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi
ritrarre le proprietà fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono
avere fra ogni percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e
diverso il segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il
medesimo segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o
dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che
e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un
risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo,
perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che
equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione
sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che
è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare
communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione
risultante in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” –
Varrone, verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in
verità, tutto quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce,
e perciò il segno del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni
proposizione si aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene
un'analisi, la mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un
segno che non e un verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione
risultante signata dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante*
e non basica, e composte della combinazione di questa o quella azione
sostanziali intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro
fondamento in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo*
(la copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla
che nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della
classe del segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in
ogni atto di signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il
verbo “essere”, al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo,
decomponendoli in “copula e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante.
Ed è notevole che ogni segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi,
perchè denota un’azione che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti
in un segno di verbo fondamentale che è intransitivo, o come i modisti dicono
neutro – epiceno, mezza voce --, cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è
veramente transitivo é la forma del risultato, ma ognuna delle azioni
sostanziali componenti è intransitiva. La sintesi e necessaria e l'analisi e
necessaria, perchè una percezioni e complessiva e costa di questo o quello
elemento, che colla riproduzione, sovrapponendosi gli uni agli altri, si
sintetizzano nel punto simile e si analizzano nel punto dissimile. Bisogna
dunque che ogni segno indica un composto o complesso proposizionale, e che ogni
segno articulato composito e de-compo nibili. Però, siccome gli elementi di
ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò è necessario che ogni segno si
puosciogliere in un segno solo che indica l’azione sostantiva, non come occulta
(sub-stantia), ma come realtà, cioè come essere, onde il *nome* (nomen, onoma –
nomen substantivum, nomen adjectivum) non meno che il segno del verbo, si
sciolgono tutti nell'essere, il quale è verbo e nome allo stesso tempo, ed è
appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione che sta per sè stessa, e che
non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine addiettivo e ogni altro segno
sin-categorematico che indica quantita, qualita, relazione, o modalità o
relazione, ra-presentano la composizione, il risultato, la combinzione di
questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè sole, ma ha
bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su cui debbono
appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque suo modo di essere
non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro che la somma
medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione è una
forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi è che
tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli avverbii,
le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono riduttibili al
solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del segno del verbo e
del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo sostantivo “essere”. Nel
tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han continuo bisogno di questo o
quello essere (il S, il P), perchè la composizione non può stare senza di
questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo la differenza che passa
tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la relazione, e la
modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione medesima, e
quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di questa o
quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e principalmente il
verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono, indica la
collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome aggettivo, il
segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la preposzione (in
latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e, adversative, ma), ec.
indica come questa o quella azione e disposte, e che relazione ha fra loro, in
ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di azioni è un *risultato*
che subisce questa o quella modificazione (declinazione, congiuggazione) secondo
i cangiamenti parziali del numero (singolare, duale, plurale) e della posizione
di questo o quello componento, cosi vi ha una sintesi fondamentale in ogni
parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una continua analisi di ogni
parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e necessario il segno radicale
che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè, il fondo permanente
dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua desinenza (uomo, uomni,
pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo definito (il – ille, la --
illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per indicare ogni variazione e
accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale di questa o quella aziona si
effettua. Il atto di signare monosillabica dei cinesi supplisce a ciò coll’accozzare
diverse sillabe, cioè diverse segni, di cui ognuna esprime una idea, e tutte unite
esprimono un complesso. Una idea fissa si esprime con un signo fisso. Una
segnato variabile si esprime con un segno variantie. Sorge da ciò la necessità
del segno derivativo, del segno della desinenza e del segno del prefisso,
infisso, e suffisso, come anche la necessità di trasformare in maniera
avverbiale un nome e un verbo, e di operare ogni cangiamento di preposizione in
verbo ed in nome, dell’aggettivo in sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la
forma fondamentale, ogni mutamento di forma debbe esprimersi con cangiarli secondo
il bisogno e secondo la relazione che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni
ed un'altra. Finalmente vi ha un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del
discorso, ed è quella del giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo –
indicativo, imperative -- in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da
un giudizio all'altro per mezzo di una connessione, così la proposizione prende
forma concatenata e compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo
s'incatena con quello periodo e forman un discorso. Però è no ievole che
l’operazione dell'analisi e l’operazione della sintesi spontanea non puo
altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”, cioè di giudizio o
volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo anche un segno solo,
considerata nella sua radicale o nella sua derivazione, indica benissimo l’operazione
analitica che vi è dentro. La ragione, per cui non si può annunziare ad altri,
che sotto forma di giudizio, una completa operazione di sintesi e di analisi,
si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri cotali operazione di
sintesi o analisi, vi è di già il concorso della riflessione, e perciò non si
annunzia altro che il risultato ultimo della sintesi e dell'analisi riflessa, il
qual risultato e il giudizio e la volizione, ambe due con contenuto
proposizionale. Onde si ha che nello singolo signo si rappresenta le sintesi e
le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso si rappresenta il risultato
totale, che perciò appunto veste la forma di giudizio o volizione con contenuto
proposizionale. Da tutte queste osservazioni emerge che il segno e la sua
costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese d’Italia -- debbe avere una
forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme variabile (semiotica
componenziale), siccome il risultamento organico subbiettivo ed il risultamento
esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una forme variabile, poiché il segno
debbe necessariamente prendere lo stesso aspetto del segnato. In ogni segno
possono riguardarsi due parti distinte, cioè il segno e la costruzione del segno.
Ogni segno è segno di una percezione, o di una parte di percezione, o di
un'idea o concetto (signato). La costruzione del segno ra-presenta ogni
relazione che ha questa o quella percezione, questa o quella idea, questo o
quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro del grado delle
conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la ricchezza del
repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione indica quante
percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente, ed in quante
maniere sa metterle in relazione fra di
loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza studiata sino
al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una percezione sola o
una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere se mai una di tale
segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo stare attento alla *forma*
del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche dalla forma della
costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare col segno che si
adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma forse la causa del
fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un segno sia
adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato (equivocazione), è
necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato solo; poichè non è
presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico (equivocazione
– para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di usare un segno
solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per far nascere la
dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare. Allorchè dunque
si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno proprio, il
segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o concevire un
segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa svegliare
l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare). Allora
l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile novello ch' è
ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più di tutto
nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un emittente
si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto più è possibile,
somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del traslato: un
segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo spirare), è
adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa qualche
somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione
di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi
sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio
duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure
al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del
signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a
ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente,
quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza
del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla
precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che
propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma
il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte
meditazioni, e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre
gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto
più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano,
non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile
IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione
delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria
il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione
segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo,
si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio,
ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il
traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel
segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando
la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come
pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente,
quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la
corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un
segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità,
perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto
meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una
pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso
bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii
è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed
emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho
e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro
l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato
e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono
esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di
traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono
adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un
repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni
(perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma
stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata
nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o
allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un
segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni
indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con
ambidue uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo
radicale che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere
di radice originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono
chiamarsi il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio
delle forma con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la
ricchezza delle forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente,
molto più quando non è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i
segni di più avanzati nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso
numero di vocaboli proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà
del segno: onde esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e
adoperano al bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio
all’esattezza scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde,
poichè non si confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra
qualunque segno avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente
i di tal sorta non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò
porta l' impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che
appartennero all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo
hanno acquistato segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un
traslato o di una metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto
proprio (By uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my
pride and joy). Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre.
L’emittente e ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel
repertorio di forme poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo
segna, e perciò le relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più
semplici, e sempre più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o
proposizione: soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur
fare intorno a queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più
abbondante di figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il
segnato per come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro
costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione
sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in
ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato
coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte
trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più
abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più
ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del
giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un
emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo
la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più
conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è
divenuta più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione
stessa che ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye
da ciò che al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha
bisogno di esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni
o nel calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella
stessa costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la
spontaneità dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si
presta meglio alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e
nell'oratoria ha bisogno di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare
il loro effetto dalla varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo
a particolari confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta
semiotica generale. Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono
dalla natura stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal
corso delle loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente
debbe esser quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile
figurato e dei traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando
è necessaria. L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme,
se non che in un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla
medesima lingua dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione,
dall'epoca della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però
in tal caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema:
l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo
emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta
sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali
adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro. Wikipedia
Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino
affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato
di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il
prossimo, di intensità minore della passione. In filosofia il lemma
indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione:
l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza», ossia la condizione in
cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].
AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si
contrappone all' ἔργον (ergon), (azione)[3]: il πάϑος (pathos), il
"patire", una delle dieci categorie che si possono predicare
dell'essere. I sensi producono affezioni con i dati sensibili, che provengono
dagli oggetti esterni, sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa,
dando luogo così all'inizio del processo conoscitivo. L'affezione
può anche riguardare un cambiamento di stato, cioè «una modificazione o
carattere sopravvenienti a una sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco
per l'uomo»[4] In senso più ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli
oggetti esterni provengono quegli elementi che provocano nell'anima modifiche
non solo sensibili ma anche sentimentali come il piacere, il dolore, il
desiderio...ecc., le affezioni coincidono con le "passioni" della
sfera etica[5] Quest'ultimo significato si ritrova anche in Cicerone[6], che
adotta affectionescome sinonimo di perturbatio animi o concitatio animi. Anche
Agostino d'Ippona usa i termini perturbationes, affectus, affectiones come
sinonimi di passiones[7]. La funzione delle affezioni. Nella storia del
pensiero la funzione delle affezioni viene considerata in tre diversi
modi: con Platone e il platonismo, poiché il comportamento buono si basa
sulla conoscenza del vero, le affezioni sono dannose perché influiscono
negativamente sia sulla conoscenza che sul comportamento morale. Su questa
stessa linea di giudizio sono Cartesio[8], Spinoza, Leibniz, e soprattutto Hegel,
che fanno rientrare le affezioni — sia per la conoscenza che per la moralità —
nell'ambito della false o confuse idee.[9] Nella filosofia aristotelica e
in quella epicurea le affezioni sono valide nell'ambito conoscitivo, poiché i
dati sensibili ricevuti passivamente dal soggetto sono sempre veri, mentre
falsi sono i nostri giudizi anticipatori (prolessi) delle sensazioni vere e
proprie. Le affezioni sono valutate positivamente anche dal punto di vista
morale, poiché non esiste uomo senza passioni, quindi il problema non è quello
di eliminarle ma di moderarle (μετριοπάϑεια). Con lo stoicismo le affezioni
sono ineliminabili dal punto di vista del processo conoscitivo, mentre vanno
messe da parte nei comportamenti morali, che non devono essere compromessi dalle
passioni. Il saggio è colui che raggiunge l'apatia, l'indifferenza alle
passioni. Kant Secondo Kant, per le nostre intuizioni è indispensabile che il
nostro animo sia "afflitto" (affiziert, "affettato") dalle
affezioni.[10] Quella della ragione sarebbe una falsa conoscenza senza le
affezioni sensibili. Se invece noi intendiamo le affezioni come passioni allora
il loro ruolo è puramente negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva
inteso Cartesio, «cancri della ragion pura pratica, per lo più inguaribili»[12].
Il concetto di affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un
problema relativo alla dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è
tale nel senso per cui i sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto,
poiché spazio e tempo sono parte della nostra intuizione sensibile come "a
priori", indipendenti dall'esperienza, e il noumeno è per definizione
inaccessibile ai sensi, dove mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra
sensibilità? Kant per uscire dalla difficoltà parla allora di affezione come il
risultato di un rapporto causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra
l'oggetto e il soggetto percipiente. Le categorie senza intuizione sono vuote,
ma l'intuizione empirica senza le categorie non porta ad alcuna
conoscenza. NoteModifica ^ Dizionario Treccani di filosofia (2009) alla
voce corrispondente; Enciclopedia Garzanti di Filosofia alla voce
corrispondente Aristotele, De Anima, Γ 2, 426a 2 ^ Aristotele, Metaphisica, Δ
7, 1049a 29,30 (in Sapere.it alla voce "Affezione") ^ Aristotele,
Rhetorica, Β 8, 1385b 34 ^ M.T. Cicerone, Tusculanae IV, 6, 11-14 ^ Agostino,
De civitate Dei, IX, 4 ^ La passioni sono una "malattia" della
razionalità. Sono utili per la vita come l'istinto di sopravvivenza ma
impediscono la serenità dell'uomo razionale. (In Ubaldo Nicola, Atlante
illustrato di filosofia, Giunti Editore, 2003, p.318 ^ Dizionario Treccani di
filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica della ragion pura,
Estetica trascendentale (B 33) ^ Cfr. I. Kant, id., Dialettica
trascendentale ^ I. Kant, Antropologia pragmatica, (§ 81) ^ I. Kant, Critica
della Ragion pura, Analitica trascendentale, 24 Voci correlateModifica Modo
(filosofia) «affezione»
Portale Filosofia. Intelletto facoltà della mente di intendere e
concepire Critica della ragion pura libro del 1781 di Immanuel Kant
Pensiero di Kant Wikipedia Il contenutoSimone Corleo. Keywords: filosofia
morale, filosofia dell’identita, filosofia universale, meditazione filosofica,
logica, antropologia, sofologia, noologia, noetica-estetica -- linguaggio
ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza, l’universale
ontologico, la categoria come universale ontologico, segno, signare
communicativamente, segnabile, sensibile – nihil est in intellectu quod prius
non fuerit in sensu -- segnato, emettente, repertorio di segni, repertorio di
forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio pre-convenzione,
pre-consenso mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah,
peccora, conversazione adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent
communicative – signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea,
scenario ii. Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e
le categorie agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione,
modalita. Il nome sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la
congiunzione, il vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione
semplice “S e P” – modelo filosofico dello svilupo del signare communicativamente
– dello spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale, l’idea di un gesto
come SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Corleo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cornelio: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale di Giove, Ganimede, e Prometeo
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Rovito). Filosofo italiano. Grice: “I love Cornelio – he has a gift for titling
his treatises: gyymnasma!” “My favourite of his gymnasmata is the one on what
he calls the ‘generation’ of ‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud,
humus – and this is strange because Prometeo created man out of mud – In Rome,
the more Catholic your philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less
Hegelian and Platonic – so trust an Italian philosopher to believe in the
Graeco-Roman myth of the ‘generation of man’ than the story of Adam’s spare
rib, etc.!” Si
forma alla scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio, molto
studiato nei salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie molte tesi
galileiane. Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui fu erede
il suo tutore Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio e
di Gassendi. Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria
filosofiche. Altre opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss.
marchionem Marcellum Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad
Marcum Aurelium Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. Quæ in hoc volumine
continentur animalium conformatio ex inspectione er ex aque, ac terre expira
ouorum percipi facile patest tionibus
ætheri permiftis con animalium ex semine conformatio de stituitur scribitur aer
ob vsum respirationis recentari de animalium pars primigenia non iecur neque cor,
neque fanguis ter præter modum diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus
quandoque preffus vite animalium & ignis con filios generant. fernationi
inutilis antiquorum varix de.rerum initijs opi aer nisi vaporibus aqueis
permiſtus re niones spiritioni inutilis apoplecticorum & ftrangulatorum aer
infra aquam demerſus à fuperftan mitis est exitus tis aqua pondere comprimitur Aqua
frigore concreta rarefcit, & in ma. Aeris in reſpiratione quis vſus. iorem
molem ampliatur. aeris per neceſitas tum ad vitam ani aqua quomodo in vapores
foluatur malium tum ad ignem conferuan in glaciem concreſcat dum Aqua fenfu
iudice neque contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris color
caeruleus onde aqua triformis Arris, Aquarum pondus fub eifdem Aquis ineſſe non
poteſtnotabilis quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris compreffio,ea
diſtractio nifi æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin admiſſo nequit
explicari ceps Aeris ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit in generatione
Aztheris ſubſtantia omnino admitten diuiparorum fieri.conceptus ouifor da
Alibilis fuccusad cor confluit Aristoteles ab attico platonico philo animalia
amphibia cur sub aquis distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant
Aristoteles cur priuationem inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi
cipia numerauerit reſpiraverint citiffimemoriuntur Aristotelis de loco
fententia improba animalia, quæ interclufo fpiritu fiiffa cantur dexterum
cordis ventriculum, Ariſtotelis principia diffentanea. pulmones babent multo
fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina de ge refertos. neratione animalium
fanior ar mes tur arteriæin vteros prezrintinm perti mentuan mentes
frequentiores, ampliores Calor omnis animalium eflà Janguine fiunt Aiteris non
moventur à ri pulſifica eiſ- calor nonnunquam diſſimilis nature cor dem à corde
communicata, fid ab im pore congregat pulfu fanguinis Calore corpora non
femperrarefiunt, Arteriæ omnes eoderntemporis puncto Calore cur omnia diffoluantur,
atque li. ab impulſu fanguinis mouentur, tam queſcant que cordis proximefunt,
quam quæ à Caloris naturaex Platone explicatur corde longiſſimèabfunt. Cauernæ in
quibushomines fuffocantur, arteriarum venarumqueplexus, atque ignisextinguithi'
implicatio ibi eße folet vbi fit aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo
ſecretio fiat. Aſtrologia conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies
duobus li quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum
ounem per lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo
prodideruntiuniorcs Auftifichs ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad
Thyſiologiam illis neruos in partes diffunditur ſirandam perutilis Auftificus
fuccus ab Arabibus obfer- chymici magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus.
&tioni attulere cibaria non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in
iecinore fecerni B permanentin ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim
elabitur Bilis nõ eſt fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue
Bilis nutritiumfuccum diluit, & fluxum reddit ciborum concoétionem auctores
diuerſa Bilis vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi-
cibus in ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non
à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur
Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit. Cibus in ventriculo coctus non femper
albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in
totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum
more diu Calor cæleftis est eiufdem nature, atque tule fub aquis viuere
potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus
eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit. tur. с Copernicus ab Italis mundani
systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condensatio, et rarefaétiofine
tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non
po videtur teft F Elle nullum animal caret. notitiam arripuit quibus Copernicus
maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu &tiones
aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non habet à cerebro,
fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur, cpalpitat Fermenti vis
à calore excitatur. ibid. Cordis motus fit ab balitibusin eiuſdem Firmicus
reprehenditur lofibras influentibus flamma cur fine pastu permanere ne Cordis
motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis, vt Ariftoteli, Carteſio pla-
Flamma cur faſtigietur in conum, ibid. Fæmina ſubminiſtrat materiam omnem
Corpora je inuicem propellere poffunt, ex qua fætuscorporatur non autem
attrahere Fæminæ genitura non carent D Feminarumgenitura an aliquid conferat
Ifferentis inter conceptus ouip.rros, adgenerationem Fætus vita non pendet à
vita matris Dɔny Volumen de natura hominis fætus cum propria tum parentis vi ab
utero excluditur E Frigore nonnunquam diſſimilis nature Lectrum
quomodofeſtucasattrahat. corpora ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum
Alenus ab Ariſtotele maximis de orbiculorum in aqua alternatim a rebus
diſſentit frendentium, defcendentium Galenus Platonis fententiam de circum secundum
orbiculorum in tubo dque pulſione non eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque
recurrena Galeni experimentum de fistula in arte. - tium ad nutum eius, qui
tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias ab im digito obturat pulſie fanguinis
moueri tertium orbiculorum in tubo retorto Galeni Secta cæpit deficere
aſcendentium defcendentium pro Galenice fattioni magna clades d chy paria tubi
inclinatione micis eſt illata quartum orbiculorum ex imo furfum galenice
medicine summa aſcendentium propter diſtractionein Galilæus de atomis, inani
aliter vidé aeris in eiſdem conclufi tur decernere, ac Democritus & Epi
Experimentum quo Verulamius probat curus aquam comprimipole eſt fallax Galileus
omnium primus physiologiam experimentum Torricelli de spario, com Geometria
iugauie Ga Gevens ifotelemaximisde Galilcus aſtronomicarum rerum peritif Hippocratimulta
tribuuntur, quecom. fimus improbauit aſtrologicas prædi mentitia funt
ctiones" Hobbes fententia de ſubſtantia inter al GALILEI (si veda) Carteſi
aliorumque iuniorum rem & aquam media. doctrina phyſicapræftantior quam homo
à teneris annisita potefl educari, antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu
Genituraquid,vnde prodeato tius viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto
gignitur fpatio Genitura in procreatione animalium ef- Hominis genitura non est
eiufdem ratio ficientis tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura
non eſt pars, feu materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi
conceptus: propoſita commentitia eft Genituræ craffamentum oua, & conte
Humanusfætus recens formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica
magnitudinem vix fum Geniturepars, quæ efficiendi vim habet, perat oculorum
fugit aciem Geniture vis per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere.
Ecinorisprecipuum munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil eft.
cis diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que Glandulg
cur maiores & frequentiores nam fint. in tenellis, &
pinguibusanimalibus, Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus,
&macilentis, in omni motu fit reciproca corporum dla translatio Glandule fecernunt auctificum
ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo fanguine Priſci. 4
Glandularum vtilitas. ibid. K Græci curdoctrine ſudijs cæteris natio
nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora etiam à
leuioribus ju. perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis feratur'
ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes degeneratione lacervberibus
virorum, &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius in obferuando
diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans.. in iudicando Hippocratis
de calore Paradoxum. lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum
in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere
mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina
praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co. hominibus
infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur
nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi&
tionibus aſtrologicis abſtinuit. Medicina Græcorum continet inanes conie turas &
fallaces præceptiones, Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem excipit
Medicina inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē & impuriorem ſuccum ex rietas.
cibireliquisſecretum ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa Lienis
vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon eft in rebus, fed fit in ipfo Membranarum vtilitas, dentis oculo Motus ad
fugam vacui vulgo relati pen Luminis naturaexplicatur dent à
circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis diſimilis elektrick: Mund for
printeriplexdifferentia mini. Men Maßarias iuniorum gloriæ infenſus Mundi magnitudo incomprehenſa. ibid. Materia
exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor ſinailis ouorum albus Aturæ
ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ fummam inge paranda stü aciem
defiderant Naturalis historie cognitio ad Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum
notabile giam malde necellaria incrementum O Medici latina verba
importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt imperitorum plaaſum
aucupen. interiorem pentriculi tunicam.: tur biantibus. Medici periculofus,
&ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri. rum curationes
inftituunt, culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper. Obferuatio noua
lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo exiſtentis Medici
rationales quam profitentur', Obſeruatio viarum, que nouum alimentū. ſcientiam
omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis familiare eft mutuainter
fe ia. Oetimestris partus non minus pitalis Etare conuicia quam ſeptimeſtris
Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in viviparis habet Medicorum inſcitia
reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum gr Pusega Perguedus
nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $ Strguis I i Ouum
fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei mundan nis in
ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus vtilitas
Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici,aut politici.
Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio defcribitur tem
deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus obferuationibus
quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione cordis æſlum
temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi ratio
inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex, nec culi auctoribus
laudatur. tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in
liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif
Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer-
Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis, quam nutrimen
Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis non
calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione
tenaifimihalitus pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem, & experientiam
requirit Sanguis non fuapte natura caliduseſt, Phyſiologia onde ordienda nec
calorem accipit à corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus
atque agitatione incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in
iecinore, nec in corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur Phyſiologie
obſcuritas onde proficifca. Sanguinis duapartes altera viuifica tera auctifica
Phyſiologiæ perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis Eius
randa potior pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis
motusà corde a præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab
Harueio de Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante
Pizulus Mis aſequitur Sarpa, &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad
ætheris liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum
circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam
in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq. tør. ſeis
fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium
quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem
fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis
la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta
videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid. Venarum lymphaticarum
progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus
& oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis
ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola
nouitate verborum abſtruſe do. tricationi inteftinorum & alui Etrina
caliginem offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine
propagatio compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,&
inteftinorum motus Stoicis materia
corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ
& Antiperiſia bus & cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius
opes ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix
quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri. expurgantur
Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè.
motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo
Testes priuerfo corpori robur conferunt. modo percipiatur Vitri denſitatem
penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos
eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum, atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile
Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam
profunditur. Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum
neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne
moueantur inbibere Ztia. Wikipedia Ricerca Ganimede (mitologia)
personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua
Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e
l’aquila, Nome orig.Γανυμήδης Sessomaschio Luogo di nascitaDardania
Professionedio dell'amore omosessuale e principe dei Troiani Ganimede (in greco
antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della mitologia greca. Fu un
principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali
del suo tempo. «La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema
significante per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più
elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si
assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio
omoerotico[1].» In una versione del mito viene rapito da Zeus in forma di
aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo
riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca,
visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un
uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era Catamitus, da cui deriva
il termine catamite, indicante un giovane che assume il ruolo di partner
sessuale passivo-ricettivo. Genealogia Figlio di Troo e di Calliroe (o di
Acallaride). Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio
Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di
Ilo[8], per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo
padre fu Erittonio[10] oppure Assarco. Non risulta aver avuto spose o
progenie. Mitologia Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, GANIMEDE
che indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto
Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si
invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re
degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.
Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato
dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di
Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un
tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che suo figlio era
ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei,
una posizione che era considerata di gran distinzione. Zeus per sottrarre
Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale
aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge
sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò
quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere
d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a
essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con
la coppa in mano. Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il
mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana
di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni
viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante
dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di Frigia. Tutti
gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con
l'eccezione di Era; la consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un
rivale più che mai pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha
successivamente messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola
quale è strettamente associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno
zodiacale dell'Acquario. Busto di Ganimede, opera romana d'epoca
imperiale (sec. II d.C.) (Parigi, Museo del Louvre) Mito iniziaticoModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Pederastia §
Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico del
rapporto omoerotico tra maschio adulto e giovinetto, relazione colorantesi
spesso di un significato iniziatico (vedi la pederastia cretese) in quanto
finalizzata - anche attraverso il legame sessuale - all'inserimento del giovane
nella comunità dei maschi adulti. Questi amori "paidici" di un adulto
amante-erastès che rapiva simbolicamente un giovinetto passivo-eromenos
potevano venir praticati attraverso schemi rituali imitanti i veri e propri
rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato, avveniva la sua
iniziazione sessuale.[15] Zeus e Ganimede, rappresentando la perfetta
coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti. Il
cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a
modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di
resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e
poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande
voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera
il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. [16]
FilosofiaModifica Platone rappresenta l'aspetto pederastico del mito
attribuendo la sua origine a Creta e ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo
monte Ida dell'isola: la sua è una critica dell'usanza della pederastia cretese
che aveva oramai perduto quasi completamente la sua funzione originaria,
accusando quindi i Cretesi di essersi inventati il mito di Zeus e Ganimede per
giustificare i loro comportamenti[17]. Nel dialogo platonico poi Socrate
nega che il bel giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli
Dei, proponendone, invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus
avrebbe amato l'anima e la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo
corpo[18][19]. Il neoplatonismo ci offre una rappresentazione mistica del
rapimento di Ganimede; esso sta a significare il rapimento dell'anima a Dio, e
in questo senso è stato usato, anche in opere d'arte funerarie e anche durante
il Neoclassicismo, sia nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un
esempio, il Ganymed di Johann Wolfgang von Goethe del 1774. Damiano
Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede, sec. XVI (National Gallery, Londra)
PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del
desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La
leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo
a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il
poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi
Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e
infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca
narrante la vita e le gesta del dio Dioniso. Virgilio ritrae con pathos
la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di
trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente
contro il cielo[22]. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati
disperati anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un
motivo frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche
Stazio[23]. Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le
Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo contro
Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite si
trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un
principiante. Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il
personaggio di Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di
Arden, scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio
del rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava
ben oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in
questo caso omosessuale. Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di
epoca paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e
Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più
grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione
latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon
Marius[24]. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide scoperto nel 1925, 1036
Ganymed. Nelle artiModifica Nella scultura una delle immagini più famose
di Ganimede è il gruppo scultoreo di Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a
cui viene attribuito anche l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio
il Vecchio: «Leocare [ha realizzato] un'aquila che trattiene con forza
Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli nella sua veste.»
Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche
in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa
anche Marco Valerio Marziale. La leggenda di Ganimede ha ispirato anche
un gruppo in terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato
nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande
scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della
coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana. Nella ceramica il tema di
Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari
grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o
simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in
immaginazione poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi
eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un
lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un
grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente
nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte
pederastica (vedi nudità atletica). Il ratto di Ganimede (circa 1650),
di Eustache Le Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli
rappresentazioni di questo mito, con artisti quali Michelangelo Buonarroti,
Benvenuto Cellini e Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno
dei temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay
ante litteram almeno fino al XIX secolo inoltrato. Quando il
pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il
rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma(1509-1514
circa), i lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato
contribuiscono a farlo rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti
catturare verso l'alto senza opporre la minima resistenza. Nel Ratto di
Ganimede di Antonio Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è
più contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter
Paul Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo
Ratto di Ganimede per un mecenate calvinista olandese nel 1635, ecco che
un'aquila scura porta in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e
si fa la pipì addosso per lo spavento. Ratto di Ganimede (1700), di
Anton Domenico Gabbiani Gli esempi di Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono
stati studiati da Michael Preston Worley[25]. L'immagine raffigurata era
invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila,
mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente
affrontati: in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata".
Inoltre, l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel
Rinascimento italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita
alla condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun
interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo. Jean-Baptiste
Marie Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou, Pierre Julien,
Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di
Ganimede nell'arte francese tra fine XVIII e inizio XIX secolo. La
scultura che ritrae Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a
Parigi nel 1804, ha portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo
come uno degli scultori più importanti del suo tempo[26]. L'artista
danese Bertel Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli scultori danesi,
ha scolpito nel 1817 una scultura dedicata alla scena di Ganimede e
l'aquila. Particolare di una scultura della seconda metà del II
secolo d.C., da un modello tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito
figurativo greco del IV secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale
di Napoli. AltroModifica Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato
a indicare un bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante
omosessuale. Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio,
tenendo in mano un gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a
figure rosse, ca. 500-490 a.C. (Parigi, museo del Louvre). Ganimede
e Zeus, e Apollo e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale
per le Metamorfosi di Ovidio (Venezia, 1522) Illustrazione gli
Emblemata di Andrea Alciati del 1534. Ganimede rappresenta allegoricamente
l'anima che si "rallegra" in Dio. Raffaello da Montelupo
(1505-1566), Giove bacia Ganimede
(Ashmolean Museum, Oxford) Cherubino Alberti, Copia
rovesciata da originale di Polidoro da Caravaggio, Giove bacia Ganimede (sec.
XVII). La borsa di denaro in mano al giovane allude alla prostituzione, in
spregio al mito pagano. Il Ganimede di Antonio Canova
"Ganimede" (1804), di José Álvarez Cubero Ganimede abbevera
l'Aquila divina (1817), di Bertel Thorvaldsen Albero genealogicoModifica
AtlantePleioneScamandroIdea Elettra ZeusTeucro DardanoBatea Erittonio Ilo
Troo Calliroe EuridiceIloAssarcoIeromneneGanimede Laomedonte Strimo
(o "Leukyppe")TemisteCapi PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino
EttoreParideCreusaEneaLavinia AscanioSilvio Silvius Enea Silvio Bruto di
TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio
Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea Silvia ErsiliaRomolo Remo Età regia
di RomaShe-wolf suckles Romulus and Remus.jpg NoteModifica ^ Paolo Zanotti Il
gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità omosessuale Fazi editore
2005, pag. 25 ^ Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the
English Language", 2000), catamite, p. 291. ^ a b ( EN ) Apollodoro,
Biblioteca III, 12.2, su theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN )
Omero, Iliade XX, 213 e seguenti, su theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019.
^ ( EN ) Diodoro Siculo, Biblioteca Historica IV, 75.3 e 4 e 5, su theoi.com.
URL consultato il 10 giugno 2019. ^ ( EN ) Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane I, 62, su penelope.uchicago.edu. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ Marco
Tullio Cicerone, Tusculanae disputationes, 1. 26 ^ Tzetzes a Licofrone 34 ^ (
EN ) Clemente Alessandrino, 22, su theoi.com. URL consultato il 3 giugno 2019.
^ Igino, Fabulae 224 ^ Igino, Fabulae 227 ^ Iliade, 5.265ff. ^ Burkert, p. 122;
Burkert fa purtuttavia notare che non esiste un nesso diretto con
l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli
dèi 2009, p. 835. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p.
836. ^ Platone, Leggi, 636D. ^ Platone, Fedro, 255. ^ Platone, Simposio,
8,29-3. ^ Ovidio, Metamorfosi, 10,152. ^ Apuleio, L'asino d'oro, 6,15; 6,24. ^
Publio Virgilio Marone, Eneide, V 256-7. ^ Stazio, Tebaide, 1.549. ^
Marius/Schlör, Mundus Iovialis, p. 78 f. ^ Worley, The Image of Ganymede in France,
1730-1820: The Survival of a Homoerotic Myth, in Art Bulletin, n. 76, dicembre
1994, pp. 630-643. ^ ( EN ) Hugh Chisholm (a cura di), Alvarez, Don José, in
Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge University Press, 1911.
BibliografiaModifica "Ganimede" (1874), di Gabriel Ferrier
Fonti antiche Apollonio Rodio, Le Argonautiche. Apuleio, L'asino d'oro.
Cicerone, De natura deorum. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica. Euripide,
Ifigenia in Tauride. Nonno di Panopoli, Dionisiache. Omero, Iliade. Omerico,
Piccola Iliade. Ovidio, Le metamorfosi. Pausania, Periegesi della Grecia.
Pindaro, Olimpiche, 1821. Platone, Fedro. Platone, Leggi. Platone, Simposio.
Pseudo-Apollodoro, Biblioteca. Strabone, Geografia. Teognide, Frammenti.
Virgilio, Eneide. AA.VV., Suda. Christian Wilhelm Allers, Giove rapisce
Ganimede Fonti moderne ( DE ) Edmund Veckenstedt, Ganymedes, Libau, 1881. ( EN
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New Haven (Connecticut), Yale, Burkert, The Orientalizing Revolution: Near
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(Massachusetts), Harvard University Press, 1992, ISBN 0-674-64364-X. Robert
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978-88-04-58347-9, SBN IT\ICCU\URB\0846664. Particolare di Zeus accanto a
Ganimede (1878), di Christian Griepenkerl Voci correlateModifica Icona gay Mito
di Etana Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia
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Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN) Peter R.
Griffith, Visual arts: Gaymede. "Ganymed" (testo, in tedesco e
italiano). (EN) Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute
Iconographic Database Archiviato il 4 marzo 2016 in Internet Archive. Portale
LGBT Portale Mitologia greca Ultima modifica 5 giorni fa di
Ptolemaios Leda personaggio della mitologia greca, figlia di Testio e moglie di
Tindaro Estia dea greca del focolare, della casa e della famiglia. Figlia
di Crono e Rea Laomedonte re di Troia nella mitologia greca, figlio di
Ilo Wikipedia Il contenutoGrice: “It’s best to represent Cornelio as
representing Cartesio – yes, the Cartesio that Ryle attacked! But Italy never
had a Ryle, so that’s good!” Tommaso Cornelio. Cornelio. Keywords: Giove,
Ganimede, e Prometeo, pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta, gymnasium,
ginnasio, ginnasiale, nudo romano, nudita romana, corpo nudo, snudare, atleta,
atletismo, lotta ginnastica, competizione ginnastica, implicatura ginnastica,
l’implicatura ginnastica di Socrate, Socrate al ginnasio, implicatura
ginnasiale, the eagle, Giove come aquila, aquila come impero romano, aquila
come impero nazi – le due aquile -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cornelio” –
The Swimming-Pool Library. Cornelio.
Grice e Cornello: la ragione conversazionale --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo italiano. La sua opera più importante è la
Gerusalemme liberate, in cui vengono cantati gli scontri tra cristiani e
musulmani durante la prima crociata, culminanti nella presa cristiana di
Gerusalemme. Ultimo dei tre figli di Bernardo Tasso, letterato e cortigiano
nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca, poi al servizio del principe
di Salerno Ferrante Sanseverino del regno di Napoli, compreso nella
monarchia spagnola, e di Porzia de' Rossi, nobildonna napoletana di origini
toscane, pistoiesi da parte paterna e pisane da parte materna. Di Sorrento e
della «dolce terra natìa» il poeta conserverà sempre un magnifico ricordo,
rimpiangendo «... le piagge di Campagna amene, pompa maggior de la
natura, e i colli che vagheggia il Tirren fertili e molli.» (Gerusalemme
liberata) Quando C. era ancora bambino, il principe di Salerno fu bandito dal
regno e Bernardo seguì il suo protettore. All'età di 6 anni si recò in Sicilia
e dalla fine del 1550 fu con la famiglia a Napoli, dove lo seguì il precettore
privato Giovanni d'Angeluzzo. Frequentò per due anni la scuola dei Gesuiti
appena istituita e conobbe Ettore Thesorieri con il quale poi restò in
corrispondenza epistolare. Ebbe un'educazione cattolica e da giovane
frequentò spesso il monastero benedettino di Cava de' Tirreni (dove si trovava
la tomba di Urbano II, il papa che aveva indetto la prima crociata), e
ricevette il sacramento dell'Eucaristia quando «non avea anco forse i
nov'anni», come scrisse egli stesso. Due anni dopo la sorella Cornelia, che nel
frattempo si era sposata con il nobile sorrentino Marzio Sersale, rischiò di
essere rapita durante un'incursione ottomana a Sorrento, e questo rimase
impresso nella sua memoria. Guidobaldo II Della Rovere. Rimase a
Napoli fino ai dieci anni, poi seguì il padre a Roma, abbandonando con grande
dolore la madre che fu costretta a rimanere nella città partenopea perché i
suoi fratelli «rifiutavano di sborsarle la dote». Nella città pontificia fu
Bernardo a educare privatamente il figlio, ed entrambi subirono un grave trauma
quando vennero a sapere della morte di Porzia, probabilmente avvelenata
dai fratelli per motivi d'interesse. La situazione politica a Roma subì
però uno sviluppo che preoccupò Bernardo: era scoppiato un dissidio tra Filippo
II e Paolo IV e gli spagnoli sembravano sul punto di attaccare l'Urbe. Mandò
allora Torquato a Bergamo presso Palazzo Tasso e la Villa dei Tasso da alcuni
parenti e si rifugiò presso la corte urbinate di Guidobaldo II Della Rovere,
dove fu raggiunto dal figlio pochi mesi dopo. A Urbino C. studiò assieme
a Rovere, figlio di Guidobaldo, e a Monte, poi illustre matematico. In questo
periodo ebbe maestri di assoluto livello quali il poligrafo Girolamo Muzio, il
poeta locale Galli e il matematico Federico Commandino. Torquato passava a
Urbino solo l'estate, dal momento che la corte trascorreva l'inverno a Pesaro,
dove Tasso entrò in contatto con il poeta Bernardo Cappello e con Dionigi
Atanagi, e scrisse il primo componimento a noi noto: un sonetto in lode della
corte. Bernardo si sposta intanto a Venezia, indiscussa capitale
dell'editoria, per occuparsi della pubblicazione del suo Amadigi. Poco tempo
dopo, quindi, anche il figlio cambiò una volta di più città, stabilendosi in
laguna. Sembra che proprio a Venezia, non ancora sedicenne, abbia cominciato a
mettere mano al poema sulla prima crociata e al Rinaldo. Il Libro I del
Gierusalemme (conservato dal Codice vaticano-urbinate 413) fu scritto dietro
consiglio di Giovanni Maria Verdizzotti e Danese Cataneo, due poeti mediocri
che allora frequentava e che già avevano scorto nel Tasso un talento
straordinario. Si iscrisse per volere paterno alla facoltà di legge dello
Studio patavino, raccomandato a Sperone Speroni, la cui casa frequentò più
delle aule universitarie, affascinato dalla vastissima cultura dell'autore
della Canace. Tasso non amava la giurisprudenza, tanto che attendeva più alla
produzione poetica che allo studio del diritto. Così, dopo il primo anno
ottenne dal padre il consenso per frequentare i corsi di filosofia ed eloquenza
con illustri professori tra cui spicca il nome di Carlo Sigonio. Quest'ultimo
rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche tassesche futureprime
fra tutte quelle dei Discorsi dell'arte poetica, in cui si nota anche
l'influsso dello Speronie lo avvicinò allo studio della Poetica
aristotelica. È in quest'epoca che si colloca il primo innamoramento del
ragazzo, già molto sensibile e sognatore. Il padre era stato introdotto nella
corte del cardinale Luigi d'Este, e nel settembre 1561 si era recato col figlio
a fare la conoscenza dei familiari del suo protettore. Conobbe nell'occasione
Lucrezia Bendidio, dama di Eleonora d'Este, sorella di Luigi. Lucrezia,
quindicenne, era molto bella ed eccelleva nel canto, anche se era piuttosto
frivola. Avendo notato un interessamento della fanciulla, Tasso cominciò a
dedicarle rime petrarcheggianti, ma dovette presto essere ricondotto alla
realtà, poiché nel febbraio 1562 scoprì che la ragazza era promessa sposa al
conte Baldassarre Macchiavelli. Non si arrese, continuando a cantarla in
poesia, ma dopo le nozze si lasciò andare al risentimento e alla
delusione. Intanto, l'entourage cominciava ad avvedersi del talento
del Tassino (come veniva chiamato per essere distinto dal padre), e gli furono
commissionate delle rime per alcuni funerali. Confluendo in due raccolte,
furono le prime poesie pubblicate da Torquato. Ancora più notevoli erano
gli sforzi prodigati per il Rinaldo, composto in soli dieci mesi e dedicato a
Luigi d'Este. Il poema epico cavalleresco, incentrato sulle avventure del
cugino di Orlando, fu stampato a Venezia nel 1562 e contribuì a diffondere il
nome di Tasso, che aveva ancora soltanto diciotto anni. Il padre intanto
lo aveva messo nel 1561 al servizio del nobile Annibale Di Capua, e il duca
d'Urbino gli aveva procurato una borsa di studio di cinquanta scudi annui per
permettergli di continuare i corsi universitari. Dopo due anni a Padova, Tasso
proseguì gli studi all'Bologna, ma durante il secondo anno di permanenza nella
città felsinea, nel gennaio 1564, fu accusato di essere l'autore di un testo
che attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e
professori dello Studio. Espulso e privato della borsa di studio, fu costretto
a ritornare a Padova, dove poté beneficiare dell'ospitalità di Scipione
Gonzaga, che gli fornì il necessario per continuare il percorso di
formazione. Ritrovò tra i maestri Francesco Piccolomini e seguì le
lezioni di Federico Pendasio. In casa del principe Gonzaga era appena stata
istituita l'Accademia degli Eterei, ritrovo di seguaci dello Speroni che
miravano alla perfezione della forma, non senza scadere nell'artificiosità.
Tasso vi entrò assumendo il nome di Pentito e leggendovi molti componimenti,
tra cui quelli scritti per Lucrezia Bendidio e per una donna che la critica ha
per lungo tempo identificato in Laura Peperara. Secondo questa
versione Torquato conobbe Laura nell'estate del 1563, quando aveva raggiunto a
Mantova Bernardo, nel frattempo messosi al servizio del duca Guglielmo Gonzaga.
La delicatezza nei modi della giovane fece dimenticare presto al Nostro le
ancor fresche pene amorose per Lucrezia Bendidio. Lo spirito del Petrarca
rivisse allora nelle liriche del ragazzo nuovamente innamorato. L'anno dopo,
rivedendola, fu però deluso, e pur continuando a cantarla dovette ben presto
rassegnarsi al secondo scacco. Ricerche recenti hanno tuttavia collocato
la nascita della Peperara nel 1563, rendendo quindi impossibile che fosse lei
la seconda musa del Tasso. I due canzonieri amorosi andarono in parte a
finire tra le Rime degli Accademici Eterei, stampate a Padova nel 1567, assieme
ad alcune che scriverà nel primo anno ferrarese. Si legò anche
all'Accademia degli Infiammati. A Ferrara Torquato Tasso all'eta di
22 anni ritratto da Jacopo Bassano. Giunse a Ferrara in occasione del secondo
matrimonio (quello con Barbara d'Austria) del duca Alfonso II d'Este, al
servizio del cardinale Luigi d'Este, fratello del duca, spesato di vitto e
alloggio, mentre dal 1572 sarà al servizio del duca stesso. I primi dieci
anni ferraresi furono il periodo più felice della vita di Tasso, in cui il
poeta visse apprezzato dalle dame e dai gentiluomini per le sue doti poetiche e
per l'eleganza mondana. Il cardinale lasciò al Nostro la possibilità di
attendere solamente all'attività poetica, e Tasso poté così continuare il poema
maggiore. Rapporti particolarmente intensi intercorsero con le due sorelle del
duca, Lucrezia e Leonora. La prima era uno spirito libero e incarnava ideali di
vivacità e vitalità, mentre la seconda, malata e fragile, fuggiva la vita
mondana e conduceva un'esistenza ritirata. Per quanto Tasso fosse attratto da
entrambe e per quanto si sia avallata l'ipotesi di una relazione amorosa con
Leonora, la critica tassesca ha concluso che non si andò al di là di forti
simpatie. La ricchezza culturale della corte estense costituì per lui un
importante stimolo; ebbe infatti modo di conoscere Battista Guarini, Giovan
Battista Pigna e altri intellettuali dell'epoca. In questo periodo riprese il
poema sulla prima crociata, dandogli il nome di Gottifredo. Nel 1566 i canti
erano già sei, e aumenteranno negli anni appresso. Nel 1568 diede alle
stampe le Considerazioni sopra tre canzoni diPigna, dove emerge la concezione
platonica e stilnovistica che il Tasso aveva dell'amore, con alcune note però
affatto peculiari, che lo portavano a ravvisare il divino in tutto ciò che è
bello, e a definire di matrice soprannaturale anche l'amore puramente fisico. I
concetti vennero ribaditi nelle cinquanta Conclusioni amorose pubblicate due
anni più tardi. Compose anche i quattro Discorsi dell'arte poetica e in
particolare sopra il poema eroico, anche se videro la luce solo nel 1587 a
Venezia, per i tipi di Licino. Nell'ottobre 1570 partì per la Francia al
seguito del cardinale e, temendo gli potesse accadere qualche disgrazia nel
lungo e pericoloso viaggio, volle dettare le proprie volontà all'amico Ercole
Rondinelli, richiedendo la pubblicazione dei sonetti amorosi e dei madrigali,
mentre precisava che «gli altri, o amorosi o in altra materia, c'ho fatti per
servizio di alcun amico, desidero che restino sepolti con esso meco», ad
eccezione di Or che l'aura mia dolce altrove spira. Per il Gottifredo
afferma di voler far conoscere «i sei ultimi canti, e de' due primi quelle
stanze che saranno giudicate men ree», il che prova che il numero dei canti era
salito almeno a otto. Intanto, sempre nel 1570, Lucrezia d'Este sposò
Francesco Maria II Della Rovere, compagno di studi di Torquato nel periodo
urbinate. Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome Luigi
aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo
francese sostanzialmente nell'ombra, con il solo onore di essere ricevuto da
Caterina de' Medici, la moglie di Enrico II. Di ritorno a Ferrara, il 12 aprile
1571 decise di lasciare il seguito del cardinale. Credeva incorrere in
miglior fortuna presso Ippolito II, e scese pertanto a Roma. Anche il cardinale
di villa d'Este però lo deluse, e Tasso decise di risalire la penisola,
facendosi ospitare qualche tempo da Lucrezia e Francesco a Urbino, prima di
entrare al servizio di Alfonso II. In questo periodo continuò ad
attendere al capolavoro, ma si diede anche al teatro, e scrisse l'Aminta,
celebre favola pastorale che rientrava nei gusti delle corti cinquecentesche.
Rappresentata con ogni probabilità all'isola di Belvedere, dov'era una delle
«delizie» estensi, ebbe un grande successo e fu richiesta anche da Lucrezia
d'Este a Urbino l'anno successivo. Nell'euforia del successo, scrive una
tragedia, Galealto re di Norvegia, ma la abbandona all'inizio del secondo atto, salvo rimettervi
mano molto più tardi trasformandola nel Re Torrismondo. Il capolavoro e
la revisione L'impegno principale rimaneva comunque il poema epico, per il
quale l'autore non aveva ancora stabilito un titolo. Nel novembre '74 l'opera
era quasi completa, visto che «io aveva comincio quest'agosto l'ultimo canto»,
ma si deve aspettare per avere l'annuncio del completamento del testo, quando
in una lettera al cardinale Giovan Girolamo Albano leggiamo: «Sappia dunque
Vostra Signoria illustrissima, che dopo una fastidiosa quartana sono ora
per la Dio grazia assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al
fine il poema di Goffredo». Completato quindi il poema maggiore, si apre
il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non
gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio
di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge
l'inquietudine del poeta: «Qui va pur intorno questo benedetto romore de la
proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero.
Scipione Gonzaga Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli
personaggi romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la
moralenevroticamente insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma
principalmente preoccupato, come s'è visto, dalle questioni religiose. I
cinque erano il maestro ed erudito Speroni, il principe e cardinale Gonzaga, il
cardinale Antoniano, il poeta Bargeo e il grecista Nobili. Cndivise in
parte i consigli degli illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di
stampo moralistico, ma talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive
quasi quotidiane che mettono in luce un autore intimamente travagliato e
continuamente bisognoso di dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non
trasgredire principi di poetica né tanto meno di fede. Ossessivo nell'apportare
modifiche al testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al
punto che nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questao condotto
finalmente al fine il poema di Goffredo. Completato quindi il poema maggiore,
si aprì per Tasso il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a
termine un lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità
estrema (il concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una
lettera emerge l'inquietudine del poeta. Qui va pur intorno questo benedetto
romore de la proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna
di vero. Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi
romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la moralenevroticamente
insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma principalmente preoccupato,
come s'è visto, dalle questioni religiose. I cinque erano il maestro ed
erudito Sperone Speroni, il principe e cardinale Scipione Gonzaga, il cardinale
Silvio Antoniano, il poeta Pier Angelio Bargeo e il grecista Flaminio de'
Nobili. Torquato condivise in parte i consigli degli illustri letterati,
che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico, ma talvolta li respinse
bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che mettono in luce un autore
intimamente travagliato e continuamente bisognoso di dimostrare (forse
soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di poetica né tanto meno
di fede. Ossessivo nell'apportare modifiche al testo, era continuamente
combattuto e incerto sul da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere
al Gonzaga: «Forse a questa particolare istoria di Goffredo si conveniva
altra trattazione; e forse anco io non ho avuto tutto quel riguardo che si
doveva al rigor de' tempi presenti. E le giuro che se le condizioni del mio
stato non m'astringessero a questo, ch'io non farei stampare il mio poema né
così tosto, né per alcun anno, né forse in vita mia; tanto dubito de la sua
riuscita».[26] Nemmeno l'entusiastica ammirazione di Lucrezia d'Este cui
leggeva il poema ogni giorno «molte ore in secretis»[27], né l'essere venuto a
conoscenza del grande piacere con cui da più parti l'opera veniva letta,
poterono placare le sue angosce. Scrive “Allegoria”, con cui rivisitava tutto
il poema in chiave allegorica cercando di emanciparsi dalle possibili accuse di
immoralità. Ma non bastava: gli scrupoli di carattere religioso assunsero la
forma di vere e proprie manie di persecuzione. Per mettere alla prova la
propria ortodossia nella fede cristiana si sottopose spontaneamente al giudizio
dell'Inquisizione di Ferrara, ricevendo due sentenze di assoluzione.[29]
Barbara Sanseverino Disagi presso la corte estense e fughe Due belle
signore, giunte alla corte nel 1575 e protrattesi presso il duca fino all'anno
dopo, costituirono un intermezzo piacevoleforse l'ultimoin mezzo a tante
preoccupazioni. Per loro, la contessa di Sala Barbara Sanseverino e la contessa
di Scandiano Leonora Sanvitale, cantò gioiosamente in alcune rime amorose, che,
com'era accaduto per Lucrezia e Leonora d'Este, obbediscono alle conventions de
genre e non rivelano altro che una sincera amicizia. Ma il Tasso si era
stancato anche di Alfonso, e sognava diandare a Firenze, presso la corte
medicea. Non è chiaro perché volesse abbandonare Ferrara, ma i motivi
adducibili sono vari e variamente intriganti, e tutti hanno in loro almeno una
parte di verità. «Ch'io desideri sommamente di mutar paese, e ch'io abbia
intenzione di farlo, assai per se stesso può essere manifesto, a chi considera
le condizioni del mio stato», scrive a Gonzaga. Le «condizioni del mio
stato» possono avere una valenza materiale: Tasso riceveva dal duca solo
cinquantotto lire marchesane mensili, che sommate alle centocinquanta percepite
in qualità di lettore all'Università (carica che ricopriva per i soli giorni
festivi) danno una cifra sicuramente bassa che a un poeta ormai affermato
doveva parere stretta, anche solo per una questione di dignità, senza voler
pensare a motivazioni di pretta bramosia L'espressione tassesca può assumere
però anche una connotazione morale e psicologica: si erano in effetti
verificati alcuni episodi spiacevoli presso la corte estense. Ha una lite con
il cortigiano Ercole Fucci. Provocato, aveva rifilato uno schiaffo al Fucci,
che in risposta lo colpì più volte con un bastone. Un servo aveva inoltre
rivelato al Tasso che, durante una sua assenza, un altro cortigiano, Ascanio
Giraldini, aveva fatto forzare la porta della sua camera, nel tentativo di
appropriarsi di alcuni manoscritti. Tasso sarebbe anche riuscito a rintracciare
il magnano ottenendone una confessione, come risulta da un'altra lettera al
Gonzaga, in cui si ipotizzano altre trame ordite alle sue spalle, anche se «io
non me ne posso accertare».[33] A far precipitare il rapporto con il duca
e la corte furono però gli scrupoli religiosi del poeta. Si autoaccusò presso
l'Inquisizione ferrarese (dopo l'autoaccusa presso il tribunale bolognese
avvenuta due anni prima), attaccando inoltre influenti personaggi di corte. Si cercò
allora di far desistere il poeta dall'intenzione di confermare le sue
affermazioni negli interrogatori successivi, senza risparmiargli punizioni
corporali che non riuscirono afar cambiare idea al Tasso, che si presentò altre
due volte davanti all'inquisitore.[35] Le accuseerano rivolte in
particolare contro Montecatini, il segretario ducale. Siccome Torquato voleva
recarsi a deporre presso il Tribunale capitolino, l'inquisitore ferrarese,
conscio del fatto che una simile azione poteva mettere a repentaglio i rapporti
con la Santa Sede,vitali per casa d'Esteinformò immediatamente il duca con una
missiva del 7 giugno. Alfonso mise il poeta sotto sorveglianza, e il 17 giugno
Tasso, ritenendosi spiato da un servo, gli scagliò contro un coltello.
Il Castello Estense Tasso rimase nella prigione del Castello fino all'11
luglio, quando Alfonso lo fece liberare e lo accolse presso la villeggiatura di
Belriguardo, dove però rimase pochi giorni, venendo rimandato a Ferrara per
essere consegnato ai frati del convento di S. Francesco.[37] Il poeta
supplicò allora i cardinali dell'Inquisizione romana affinché lo sollevassero
da una situazione ormai insopportabile trovandogli una sistemazione nell'Urbe,
e nel contempo si lamentava con Scipione Gonzaga per il trattamento ricevuto,
ma pochi giorni dopo si ritrovò nuovamente nella prigione del Castello. Tentò
quindi un'altra via e chiese invano perdono al suo signore. E indubbiamente
provato dalle fatiche della Gerusalemme, e le lettere del periodo rivelano un
animo inquieto e agitato, spesso preoccupato di smentire chi voleva vedere in
lui i germi della pazzia. Le manie di persecuzione e l'instabilità si erano
impadronite di lui, ma fino a qual punto? Fino a qual punto invece certe
manifestazioni del poeta, che mantiene nelle missive una lucidità pressoché
completa, funsero da pretesto per emarginare un personaggio divenuto
pericoloso? Su questo punto i critici non sono mai riusciti a trovare un
accordo. Intanto la prigionia el Castello si prolungava, e non restava
che la fuga: nella notte tra il 26 e il 27 luglio si travestì da contadino e
fuggì nei campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento, dove, ancora
sotto mentite spoglie e fisicamente distrutto, si recò dalla sorella,
annunciandole la propria morte, così da vedere la sua reazione, e svelandole la
sua vera identità solo dopo aver osservato la reazione realmente addolorata
della donna.[39] A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo riprendere
parte alla vita di corte, fece inviare da Cornelia una supplica al duca, in
data 4 dicembre 1577, chiedendo di essere riammesso alle sue dipendenze, in un
testo che fu certamente dettato, almeno in parte, dal poeta stesso: «La maggior
colpa che io credo sia in lui, è la poca sicurezza, che ha mostrata d'avere
nella parola di V.A., e il molto diffidarsi della sua benignità».[40]
Così, nell'aprile 1578 ritornò a Ferrara, ma, tempo tre mesi, era di nuovo in
fuga; Mantova, Padova, Venezia. Presa la via di Pesaro, da Cattolica mandò ad
Alfonso una missiva in cui cerca di spiegare i motivi dell'abbandono, che
restano, anche nella testimonianza diretta del Tasso, criptici: «ora me ne dono
partito. per non consentire a quello, a che non dee consentire uomo, che faccia
alcuna professione d'onore, o ch'abbia nell'animo alcuno spirito di nobiltà.
Paura, instabilità? Quello che è certo è che nello stesso mese le parole
di Maffio Venierche lo aveva incontrato a Veneziasembrano far perdere
credibilità alle ipotesi di follia: «sebbene si può dire che egli non sia di
sano intelletto, scuopre tuttavia più tosto segni di afflizione che pazzia».
Anche gli scambi epistolari intrattenuti con Francesco Maria Della Rovere
paiono rivelare una personalità afflitta e agitata più che folle. Il Leitmotiv,
adesso più che mai, è il dolore. Il dolore si fa allora poiesis, creazione. È
proprio questo il periodo in cui vengono composti i versi dell'incompiuta
canzone Al Metauro, tra i più citati e famosi dell'opera tassesca. Qui, in una
rievocazione della propria vita sub specie doloris[44], affiorano i ricordi delle
proprie sofferenze e della morte dei genitori. Il poeta è un esiliato,
concretamente e metaforicamente, sin da quando bambino dovette lasciare il
luogo natìo: «In aspro esiglio e 'n dura povertà crebbi in quei sì mesti
errori; intempestivo senso ebbi a gli affanni: ch'anzi stagion, matura
l'acerbità de' casi e de' dolori in me rendé l'acerbità degli anni»
Intanto continuava a vagare. Percorse a piedi il tratto che separa Urbino da
Torino, ma non sarebbe riuscito a entrare nella cittàera stato respinto
dai doganieri perché in stato pietosose Angelo Ingegneri, amico di Torquato da
alcuni anni, non lo avesse riconosciuto e aiutato a entrare. A Torino ricevette
l'ospitalità del marchese Filippo d'Este, genero del duca di Savoia[45], e
godette di una certa tranquillità che gli permise di comporre poesie e iniziare
tre dialoghi, la Nobiltà, la Dignità e la Precedenza. In seguito a nuovi
pentimenti e nuove nostalgie della corte ferrarese, il poeta si adoperò ancora
una volta per il rientro nella città ducale, facendo leva sulle intercessioni
del cardinale Albano e di Maurizio Cataneo, e infine riguadagnò la capitale
estense tra il 21 e il 22 febbraio, proprio mentre fervevano i preparativi per
le terze nozze di Alfonso, quelle con Margherita Gonzaga, figlia del duca di
Mantova Guglielmo. Fu ospitato da Luigi d'Este, ma nessuno badava a lui:
«Ora le fo sapere, che io qui ho trovato quelle difficoltà che m'imaginava, non
superate né dal favore di monsignor illustrissimo, né da alcuna sorte d'umanità
ch'io abbia saputo usare», scrisse a Maurizio Cataneo. In una missiva al
cardinale Albano, recante la data, Tasso chiede almeno gli si faccia riottenere
lo stipendio precedente.[47] A questo punto i fatti precipitano: «Iersera
l'altra si mandò il povero Tasso a Sant'Anna, per le insolenti pazzie ch'avea
fatte intorno alle donne del Signor Cornelio, e che era poi venuto a fare con
le Dame di Sua Altezza, quali, per quanto m'è stato rifferto, furono così
brutte e disoneste, che indussero il Signor Duca a quella risoluzione».[48] Non
è chiaro quando accadesse esattamente il fatto, si oscilla tma è certo che in
quest'ultima data il poeta fosse già stato recluso nella prigione di
Sant'Anna.[ Pare sicuro anche che le parole offensive pronunciate in preda
all'ira si siano indirizzate poi in modo esplicito allo stesso duca, ed è
probabile che si trattasse di gravi accuse (forse legate ancora una volta alla
vicenda dell'Inquisizione) che, fatte in pubblico, chiedevano una risoluzione
drastica. Il duca Alfonso II rinchiuse quindi Tasso nell'Ospedale
Sant'Anna, nella celebre cella detta poi "del Tasso", dove rimase per
sette anni. Qui, alle manie di persecuzione, si aggiunsero tendenze
autopunitive. Delacroix: Tasso all'ospedale di Sant'Anna
Nell'Ospedale veniva trattato alla stregua dei «forsennati», ricevendo poche
razioni di cibo scadente, privato di ogni comodità materiale e di ogni conforto
spirituale, visto che il cappellano, «se ben io ne l'ho pregato, non ha voluto
mai o confessarmi o comunicarmi».[50] È vero che dopo nove mesi ci fu un
miglioramento del vitto, ma dovette trattarsi di ben poca cosa, e i primi tre
anni coincisero con una sorta di isolamento. Scrisse comunque
ininterrottamente a principi, prelati, signori e intellettuali pregandoli di
liberarlo e difendere la propria persona. Le suppliche erano rivolte al solito
Gonzaga, alla mai dimenticata Lucrezia d'Este, a Francesco Panigarola (che
sarebbe divenuto vescovo di Asti), a Ercole Tasso e molti altri. I primi anni
di reclusione non impedirono a Torquato di scrivere; anzi, le tre canzoni del
periodo rivelano una poesia essenziale, magistrale nella gestione delle
armonie, simbolo di un'ormai indiscussa maturità e dimostrazione, una volta di
più, di come le facoltà mentali del poeta fossero ancora intatte. Ecco quindi A
Lucrezia e Leonora, con la celebre invocazione alle «figlie di Renata», in una
nostalgico ricordo dei tempi sereni trascorsi a corte, messo in contrasto con
la durezza del tempo presente, ecco Ad Alfonso, nuova supplica al duca che,
rimasta inascoltata, diventò un inno Alla Pietà nell'omonima canzone. Le
condizioni mutarono con gli anni: gli fu permesso di uscire qualche volta e di
ricevere visite, il vitto migliorò ulteriormente, mentre poté lasciare
Sant'Anna più volte alla settimana, «accompagnato da gentiluomini e qualche
volta fu condotto anche a corte».[52] Tuttavia il trattamento rimaneva molto
duro e, a distanza di secoli, pare spropositato se il motivo dovesse ridursi
alla pazzia o a delle offese personali. Certo, il Tasso soffriva di turbe
psichiche. A questo proposito è illuminante la lettera di aiuto che indirizzò
il 28 giugno 1583 al celebre medico forlivese Girolamo Mercuriale. Qui
troviamo un elenco e una descrizione dei mali che affliggono il poeta:
«rodimento d'intestino, con un poco di flusso di sangue; tintinni ne gli
orecchi e ne la testa, imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli:
la qual mi perturba in modo ch'io non posso applicar la mente a gli studi per
un sestodecimo d'ora», fino alla sensazione che gli oggetti inanimati si
mettano a parlare. È da notare tuttavia come tutte queste sofferenze non
l'abbiano reso «inetto al comporre. Si può poi ammettere che «il Tasso non fu
semplicemente un melanconico, ma di tratto in tratto veniva sorpreso da eccessi
di mania, da riescire pericoloso a sé ed agli altri»[54], ma, anche se questi
squilibri dovessero essersi manifestati realmente, essi non giustificano né la
tesi della pazzia né la necessità di allontanare il Tasso dalla corte per un
periodo così lungo. Con buone probabilità, quindi, la ragione principale deve
essere riallacciata ancora una volta ai tentativi tasseschi di ricorrere
all'Inquisizione romana, e l'imprigionamento era il solo modo per non
compromettere il rapporto con lo Stato Pontificio. Dopo l'edizione
veneziana "pirata" e mutila di Celio Malespini, sempre durante la
prigionia, vennero pubblicatenel tentativo di porre rimedio alla sciagurata
operazionea Parma e Casalmaggiore, ancora senza il suo consenso, due edizioni
del poema iniziato all'età di quindici anni. Il titolo di Gerusalemme liberata
fu scelto dal curatore di queste ultime versioni, Angelo Ingegneri, senza
l'avallo dell'autore. L'opera ebbe un grande successo. Siccome anche le
stampe dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era
ormai di dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile,
ma per far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del
Tasso. Così, seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo
Bonnà, che diede alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara,
restituendola in modo ancora più preciso pochi mesi dopo. Queste traversie
editoriali addolorarono il Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in
modo da renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le
pubblicazioni seguì ben presto quella che gli fu causata dallapolemica con la
neonata Accademia della Crusca. La diatriba non fu scatenata, per la
verità, né dal poeta né dall'Accademia. La sua origine va ricercata nel
dialogo Il Carrafa, o vero della epica poesia, che il poeta capuano Camillo
Pellegrino stampò presso l'editore fiorentino Sermartelli. Nel dialogo Torquato
viene esaltato assieme alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e
fedele ai dettami aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a
causa della leggerezza, delle fantasiose invenzioni e dell'eccessiva
dispersione che si possono riscontrare nell'Orlando Furioso. Il testo provocò
la reazione dell'Accademia, che rispose nel febbraio dell'anno seguente con la
Difesa dell'Orlando Furioso degli Accademici della Crusca, stroncando il Tasso
ed esaltando invece «il palagio perfettissimo di modello, magnificentissimo,
ricchissimo, e ornatissimo» che era il Furioso. La Difesa fu fondamentalmente
opera di Leonardo Salviati e di Bastiano de' Rossi. Tasso decise di scendere in
campo con l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, edita a Ferrara dal
Licino il 20 luglio. Rivendicando la necessità di un'invenzione che si fondi
sulla storia, il poeta si opponeva alle opinioni dei paladini del volgare
fiorentino, e respingeva le accuse di un lessico intriso di barbarismi e poco
chiaro. La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la
Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato
primo), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro,
dopo di chese si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato
secondo per qualche tempo le acque si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi
e tasseschi proseguì fino al secolo successivo, e fu una delle più infiammate
della storia della letteratura italiana. Durante la reclusione Tasso
scrisse principalmente discorsi e dialoghi. Fra i primi quello Della gelosia,
Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo, Della virtù eroica e della
carità, Della virtù femminile e donnesca, “Dell'arte del dialogo”; “Il
Secretario” cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel
regno di Francia e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è
visto.[61] Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o
strettamente religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur
nobile virtù eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si valutano
i talenti specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di esperienze
personali che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono affrontate anche
questioni politiche, in special modo nel Secretario, diviso in due parti, la
prima dedicata a Cesare d'Este, la seconda ad Antonio Costantini. Qui, nella
descrizione del principe ideale, si enucleano alcune caratteristiche come la
clemenza (chiaro il riferimento alla propria condizione), l'esser filosofo, e
soprattutto «un gentiluomo a la cui fede ed al cui sapere si possono confidare
gli Stati e la vita e l'onor del principe». Più copiosa ancora fu la
composizione di dialoghi, scritti sotto il nume ideale di Platone, ma
paragonabili più obiettivamente a quelli del sedicesimo secolo. Quasi ogni
tematica morale viene sviscerata in una serie davvero lunga di opere più o meno
prolisse e più o meno felici. Tasso scrisse, nell'ordine, Il Forno, o
vero de la Nobiltà, il Gonzaga, o vero del Piacer onesto, in seguito rivisto e
stampato con il titolo Il Nifo, o vero del piacere; Il Messaggero. Qui immaginò
di interagire amichevolmente con il folletto da cui si credeva perseguitato
nella realtà. Questo dialogo ispirò la celebre operetta morale leopardiana
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), con una seconda lezione.
Il padre di famiglia (ispirato a un gentiluomo che lo ospitò a Borgo Sesia
prima dell'arrivo a Torino); Il cavalier amante e la gentildonna amata (con
dedica a Giulio Mosti, giovane ammiratore del poeta); Romeo o vero del giuoco,
rivisto e dato alle stampe con titolo Il Gonzaga secondo, o vero del
giuoco; La Molza, o vero de l'Amore (prende spunto dalla conoscenza che il
Tasso fece della celebre poetessa Tarquinia Molza a Modena, dedicato a Marfisa
d'Este); Il Malpiglio, o vero della corte (con riferimento al gentiluomo
ferrarese Lorenzo Malpiglio); Il Malpiglio secondo o vero del fuggir la
moltitudine; Il Beltramo, overo de la Cortesia; Il Rangone, o vero de la Pace
(in risposta a uno scritto di Fabio Albergati); Il Ghirlinzone, o vero l'Epitafio.
Il Forestiero napolitano, o vero de la Gelosia; Il Cataneo, o vero de gli
Idoli, e, infine, La Cavalletta, o vero de la poesia toscana. In tutto questo
non aveva dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo idee
piuttosto lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo
Malpiglio espose intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che avrebbe
apportato negli anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a
ventiquattro canti (secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle
stanze, tagliando anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione
sarà molto minor de l'accrescimento. Qualche segnale, magari anche dettato da
semplice interesse, lasciava intravedere un astio meno severo nei confronti del
Nostro. Prima della reclusione a
Comacchio era stata rappresentata una commedia tassesca alla presenza della
corte. Ora Virginia de' Medici voleva che il testo fosse perfezionato e
completato per essere interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio
con Cesare d'Este. Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera
fu poi pubblicata e ricevette il titolo “Gli intrichi d'amor” edal Perini, uno
degli attori dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia.
L'opera, ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume
dell'epoca, è sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed
episodi ispirati all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che
confluiranno nella commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando
in dialetto e «profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla
mente la futura maschera di Pulcinella. La critica è stata piuttosto concorde
nel ritenerla infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superficiale, nel
giudizio di Francesco D'Ovidio. F. Pourbus: Vincenzo Gonzaga Dopo la prigionia:
le delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni. Finì la prigionia. Venne
affidato a Vincenzo Gonzaga, che lo volle alla sua corte di Mantova. Nelle
intenzioni di Alfonso, Tasso doveva restare presso il figlio di Guglielmo
Gonzaga solo per un breve periodo, ma di fatto il poeta non tornò più a
Ferrara, e restò presso Vincenzo, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de'
Mori da Ceno, diventandone amico. A Mantova ritrova qualche barlume di
tranquillità; riprese in mano il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva
lasciato interrotta alla seconda scena del secondo attoe che aveva frattanto
avuto un'edizione nel 1582 -, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando nei
primi due atti quanto aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e
procedendo alla stesura dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque
canonici. Quando nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si
mise subito in azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura
del Licino e per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo
duca di Mantova. Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i
fatti lo dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e
preoccupato di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a
Roma senza chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione
del duca di Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio
Costantini, sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e
l'obiettivo di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione
Gonzaga si mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare,
rendendo impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo
riportasse nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato
dal Pontefice. Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci
fosse una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane
comunque un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della
presunta follia di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del
settentrione. Il santuario di Loreto in un'incisione di Francisco de
Hollanda (prima meta del sec. XVI) Nel corso del tragitto Tasso passò da
Loreto, raccogliendosi in preghiera nel santuario e concependo quella canzone
«a la gloriosa Vergine» che può forse richiamare il Petrarca della Canzone alla
Vergine in qualche scelta lessicale, ma, in mezzo alla lode e alla supplica, è
tanto più intessuta di travaglio e sofferenza: «Vedi, che fra' peccati
egro rimango, qual destrier, che si volve nell'alta polve, e nel tenace
fango.» Torquato fu a Roma. L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le
lettere registrano le sue richieste di denaro e le lamentele per la propria
condizione di salute. Il poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla
possibilità che gli altri lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera
del 14 novembre, gli uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi. Tuttavia,
il Nostro è in preda al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi,
scrivendo versi encomiastici per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza
ottenere alcunché. Anche la speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene
delusa, nonostante le lodi che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie,
confluite assieme ad altre del periodo in un volumetto del 1589, stampato a
Venezia. Vista l'inutilità del soggiorno romano, il peregrinante poeta pensò
trovare maggior fortuna nell'amata Napoli. Così, ritorna nella città vesuviana
fortemente intenzionato a risolvere a proprio favore le cause contro i parenti
per il recupero della dote paterna e di quella materna. Benché potesse contare
su amici e congiunti, e sulle conoscenze altolocate partenopee, tra cui i
Carafa (o Carrafa) di Nocera, i Gesualdo, i Caracciolo di Avellino, i Manso,
preferì accettare l'ospitalità di un convento di frati olivetani. Qui conobbe
l'amico più caro degli ultimi anni: Giovan Battista Manso, signore di Bisaccia
e primo entusiasta biografo dell'autore dopo la sua morte. Il clima
amichevole in cui fu accolto, la stima di amici e letterati, e il conforto di
una «bellissima città, la quale è quasi una medicina al mio dolore, riuscirono
a risollevare per un breve periodol'infelice animo tassiano. Per ringraziare i
monaci scrisse il poemetto, rimasto incompiuto, Monte Oliveto, in riferimento
al convento in cui sorgeva il complesso monastico che attualmente ospita la
caserma dei carabinieri (resta visitabile la chiesa Sant'Anna dei Lombardi).
L'operaun resoconto encomiastico delle principali tappe esistenziali e delle
principali virtù di Bernardo Tolomei, il fondatore della Congregazioneè
fortemente intessuta di spirito cristiano, in un severo richiamo ad una vita
sobria, lontana dalle vanità del mondo. Dedicata al cardinale Antonio Carafa,
si interrompe alla centoduesima ottava. Al pari del Re Torrismondo e di molta
parte dell'ultima produzione tassesca, il Monte Oliveto non ha goduto dei
favori della critica. Guido Mazzoni vi vide più una predica che un poema,
mentre Eugenio Donadoni utilizzò quasi le medesime parole che gli erano servite
per stroncare il Torrismondo (v. Re Torrismondo): questa è «l'opera non più di
un poeta, ma di un letterato, che cerca di dare forma e tono epico a una
convenzionale vita di santo».[78] Come per la tragedia nordica, la
rivalutazione è arrivata con l'analisi di Luigi Tonelli e di alcuni studiosi
più recenti. In ogni caso, anche questo periodo napoletano si rivelò
problematico per Tasso, a causa delle precarie condizioni di salute e delle
ristrettezze economiche, a cui si aggiunsero anche nuove polemiche letterarie e
religiose sulla Gerusalemme liberata. Spostatosi a Bisaccia, Tasso poté vivere
un periodo di maggiore tranquillità. Manso ricorda un episodio curioso: mentre
sedeva con l'amico davanti al fuoco, questi disse di vedere uno «Spirito, col
quale entrò in ragionamenti così grandi e meravigliosi per l'altissime cose in
essi contenute, e per un certo modo non usato di favellare, ch'io rimaso da
nuovo stupore sopra me inalzato, non ardiva interrompergli». Alla fine della
visione, Manso confessò di non aver visto nulla, ma il poeta gli si rivolse
sorridendo: «Assai più veduto hai tu, di quello che forse... E qui si tacque».[79]
Viste le rare manifestazioni allucinatorie di cui abbiamo notizia, (si
ricordino quelle che erano state descritte nel dialogo Il messaggero, in cui è
descritto uno spirito amoroso che appare a Tasso sotto la figura di un
giovanetto dagli occhi azzurri, simili a quelli che Omero alla dea d'Atene
attribuisce), la risposta del Nostro assume una valenza indubbiamente ambigua,
e non può escludersi che avesse voluto mettere alla prova il Manso per vedere
se anche lui lo avrebbe considerato un "folle". A dicembre era
di nuovo a Roma, dove giunse nella speranza di poter essere ospitato dal Papa
in Vaticano, confidando negli illusori pareri di alcuni amici.[80] Ad ospitare
Tasso fu invece Scipione Gonzaga, e il poeta si sentì di nuovo «più infelice
che mai». Ricominciava la routine: richieste d'aiuto a destra e a sinistra, con
l'obiettivo di ricevere i cento scudi che gli erano stati promessi per la
stampa delle sue opere: «vorrei in tutti i modi trovar questi cento ducati, per
dar principio a la stampa, avendo ferma opinione che di sì gran volume se ne
ritrarrebbero molto più», scrisse ad Antonio Costantini.[82] I destinatari
erano ancora una volta i più disparati: il principe di Molfetta, il Costantini,
il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, gli editori. Il Nostro si umiliò per
l'ennesima volta anche con Alfonso, cui chiese nuovamente perdono, mentre al
Granduca di Toscana Ferdinando I domandò l'intercessione del cardinal Del
Monte, lo stesso che prenderà sotto la propria protezione Caravaggio. Tutte le
speranze, però, furono disattese. Al tempo stesso anche le missive ai
medici si rifecero intense. Tuttavia, in mezzo a tante delusioni e a tanto
affanno non venne meno la verve creativa: oltre ad aver raccolto le Rime in tre
volumi, e avervi scritto il commento, Tasso compose anche un poema pastorale
che riprende, anche se solo nel nome, alcuni personaggi dell'Aminta. È Il rogo
di Corinna, dedicato a Fabio Orsino. La prima pubblicazione dell'opera fu
postuma. Per quanto Grazioso Graziosi, agente del duca di Urbino, dicesse al
suo signore del modo eccellente in cui il Tasso era trattato presso il
cardinale Gonzaga, egli rilevava al contempo le infermità fisiche e mentali di
Torquato, che privavano la sua età «del maggior ingegno che abbian prodotto
molte delle passate. Tuttavia, è bene diffidare della prima quanto della
seconda affermazione. Se «il povero Signor Tasso è veramente degno di molta
pietà per le infelicità della sua fortuna»[85], come si legge in una missiva
del Graziosi di due settimane dopo, perché cacciare il poeta in malo modo,
mentre Scipione Gonzaga non era presente, e costringerlo a una nuova situazione
di bisogno? In aiuto del Tasso vennero ancora i monaci della Congregazione del
Tolomei, che lo ospitarono a Santa Maria Nuova degli Olivetani.[86] Gli
ultimi anni del Tasso, però, non conobbero pace duratura: le sofferenze
psichiche si acuirono nuovamente, certo per le nuove delusioni derivanti da
richieste di denaro non esaudite, dall'obbligo di piegarsi alla composizione di
poesie a pagamento, e il poeta fu costretto a farsi ricoverare nell'Ospedale
dei Pazzarelli, adiacente alla chiesa dei Santi Bartolomeo e
Alessandro dei Bergamaschi, la cui costruzione era appena stata ultimata.
Il dolore emerge in modo chiaro in una lettera inviata il primo dicembre 1589
ad Antonio Costantini, divenuto ormai suo confidente. Ritornò presso Scipione
Gonzaga, sempre lamentandosi per la scarsa considerazione in cui era tenuto e
sempre scrivendo della propria infelicità.[88] Tasso premeva, come già più
volte in passato, per essere accolto a Firenze dal Granduca di Toscana, e
accettò quindi con gioia l'invito di Ferdinando de' Medici. A Firenze giunse in
aprile, ospite prima dei fidati Olivetani, poi di ricchi e illustri cittadini
quali Pannucci e Gherardi. Alla tranquillità necessaria per rivedere la
Gerusalemme si aggiunsero anche relative soddisfazioni economiche (sempre
comunque in cambio di versi encomiastici): dal Granduca ricevette
centocinquanta scudi[89], da Giovanni III di Ventimiglia, marchese di Geraci,
sembrerebbe, duecento scudi.[90] Il motivo di gioia principale era
tuttavia un altro, era l'avvicinarsi dell'evento più ambito da chi si sentiva,
sopra ogni cosa, poeta: «Penso a la mia coronazione, la qual dovrebbe esser più
felice per me, che quella de' principi, perché non chiedo altra corona per
acquetarmi». Non ci fu nessuna incoronazione. C'è chi ha asserito che questa
lettera contenesse solo una bislacca speranza del Tasso, senza alcun legame con
la realtà.[92] Tuttavia, la sicurezza con cui l'evento viene ormai dato per
certo lascia pensare che le illusioni del Nostro avessero un fondamento, e non
fossero una pura chimera. Un nuovo evento lo indusse all'ennesimo
spostamento: papa Urbano VII era succeduto a Sisto V, incoraggiando il Tasso a
fare nuovamente affidamento sugli aiuti pontifici. Tasso scese così a Roma,
accolto dagli Olivetani di Santa Maria del Popolo. Giovanni Battista Castagna
morì tredici giorni dopo l'elezione, lasciando il posto a Gregorio XIV. Anche
questa volta le lettere del poeta registrano un amaro scacco: «Ho perduto tutti
gli appoggi; m'hanno abbandonato tutti gli amici, e tutte le promesse
ingannato», confidò, sempre più afflitto, a Niccolò degli Oddi. L'autore della
Gerusalemme è ogni giorno che passa più confuso, sballottato qua e là dagli
eventi come una barca in mezzo al mare. Tutto questo riflette la condizione
interiore di una persona disincantata ma al tempo stesso ancora ingenuamente
pronta a fidarsi delle fallaci promesse che giungono dal mondo intorno,
riflette un'instabilità ormai cronica. È vero che la fede andò radicandosi
sempre più in Tasso, ma il fatto che al duca di Mantova scrivesse di volersi
ritirare in un monastero e pochi giorni dopo accettasse il suo invito a tornare
a corte è l'evidente manifestazione di un'anima senza pace.[94] Ritornato
quindi sul Mincio (marzo 1591), accolto con tutti gli onori, poté dedicarsi
totalmente al lavoro letterario, e in particolare alla revisione del
capolavoro. La missiva a Maurizio Cataneo del 4 luglio ci informa del fatto che
il poeta era già a buon punto, e illustra le linee direttrici della propria
opera correttrice: «sono al fine del penultimo libro; e ne l'ultimo mi
serviranno molte di quelle stanze che si leggono nello stampeato. Desidero che
la riputazione di questo mio accresciuto ed illustrato e quasi riformato poema
toglia il credito a l'altro, datogli dalla pazzia de gli uomini più tosto che
dal mio giudicio».[95] Sono parole che possono parere sciagurate, ma riflettono
gli scrupoli religiosi sempre più pressanti. Non si era comunque
concentrato solo sul poema: aveva raccolto le Rime in quattro volumi, e
con l'editore veneziano Giolito parlava della possibilità di stampare tutte le
opere (esclusa la Gerusalemme) in sei libri. A tutto questo va aggiunto un
nuovo lavoro che aveva intrapreso, lasciandolo poi incompiuto. La genealogia di
Casa Gonzaga, con dedica a Vincenzo, si interruppe dopo centodiciannove ottave,
per essere pubblicato solo nel 1666, tra le Opere non più stampate
dell'edizione romana Dragondelli.[96] Il poemetto è sicuramente trascurabile,
fatto di una versificazione fredda, appesantita da nozioni e nomi. Tra le fonti
il ruolo principale è stato svolto da un regesto di Cesare Campana, Arbori
delle famiglie... e principalmente della Gonzaga, uscito a Mantova l'anno
prima, e dall'Historia sui temporis di Paolo Giovio, accanto a cui va ricordata
la tradizione orale legata alla battaglia del Taro.[97] La calma,
tuttavia, era ormai un ricordo di gioventù, e ogni soggiorno diventava
insopportabile dopo un certo numero di mesi. Così, ridiscese la penisola, con
l'intenzione di raggiungere nuovamente Roma. Il viaggio fu travagliato e
appesantito dal fatto che Tasso si ammalò più volte durante il tragitto,
costretto a sostare in varie località, fra cui Firenze. Giunto nell'Urbe il 5
dicembre 1591, ricevette l'ospitalità di Maurizio Cataneo. Poche settimane dopo
era ancora in viaggio, diretto a Napoli
A questo punto, inaspettatamente, ci fu spazio per qualche luce e
qualche reale soddisfazione. Il soggiorno napoletano non tradì, né per quanto
riguarda l'accoglienza ricevuta (fu ospitato dal principe di Conca Matteo di
Capua e poi da Manso con grandi onori e affetto), né sulle questioni
letterarie, né su quelle relative alla salute dell'artista. In effetti, in
virtù della «purità dell'aria, comincia a sentirsi meglio, e di conseguenza
poté dedicarsi in modo più proficuo alle proprie attività. In questi mesi
completò la Conquistata, e, sempre durante il soggiorno partenopeo, mise mano
all'ultima opera significativa, Le sette giornate del Mondo creato. Gli ultimi
tre anni di vita lo videro prevalentemente a Roma. L'elezione al soglio
pontificio di Clemente VIII lo fece venire nell'Urbe, e anche qui ebbe un
trattamento decisamente migliore rispetto alle recenti esperienze. Poté infatti
alloggiare nel palazzo dei nipoti del Papa, Pietro e CinzioAldobrandini, in
procinto di diventare cardinali. Cinzio sarà di fatto il vero mecenate
dell'ultimo periodo. La produzione letteraria ebbe nuovi sussulti,
consacrandosi ormai quasi esclusivamente agli argomenti sacri: compose i
Discorsi del poema eroico e altri Dialoghi, carmi latini e rime religiose.
Addolorato per la morte di Scipione Gonzaga, gli dedicò, nel marzo 1593, Le
lagrime di Maria Vergine e Le lagrime di Gesù Cristo.Tasso aveva intanto finito
di rivedere il poema, e sempre nel 1593 vide la luce a Roma, per i tipi di
Guglielmo Facciotti, la Gerusalemme conquistata. Esistono inoltre chiare
testimonianze del fatto che ci fosse l'intenzione di incoronare Tasso in
Campidoglio, nonostante alcuni studiosi si siano osti negarlo e a considerarla
un'invenzione del poeta. È veramente degno il Signor Torquato Tasso di esser
celebrato in questi medesimi tempi come raro per la sua poesia, ed è parimente
degno della grandezza dell'animo del Signor Cinzio Aldobrandini di erigergli
una statua laureata, con mill'altre cerimonie e specie, come dicono che tosto
si vedrà, e dargli luogo in Campidoglio fra le più degne ed antiche cerimonie
[...]», rivela Matteo Parisetti in una lettera ad Alfonso II, risalente
all'agosto del Lo stesso Tasso è esplicito al riguardo: «Qui in Roma mi voglion
coronar di lauro», scrive al Granduca di Toscana il 20 dicembre 1594, «o
d'altra foglia». Sennonché, pur essendo ancora bisognoso di soldi e continuando
a fare richiesta per ottenerli, il poeta sentiva sempre più lontane le
preoccupazioni del mondo, e sempre meno si curava della vanità e dei successi
terreni. La salute, dopo la parentesi napoletana, andava aggravandosi
nuovamente, e Torquato cominciava a capire che la fine non era lontana. Per
questo ritornò alle falde del Vesuvio, per concludere rapidamente in proprio
favore la questione legata all'eredità materna: il risultato fu soddisfacente,
acconsentendo il principe di Avellino a versargli duecento ducati all'anno, ai
quali vanno aggiunti cento ducati annui che il Papa si risolverà a dargli a
partire dal febbraio 1595. A Napoli rimase dal giugno al novembre del
1594, alloggiato al monastero benedettino di san Severino, sempre più votato
alla vita monastica e attratto ancora dalla letteratura agiografica. Fu
probabilmente nei mesi trascorsi presso i benedettini che Tasso abbozzò
l'incompiuta Vita di San Benedetto. Alla fine dell'anno ritornò a Roma.
Cambiò città per l'ultima volta: la fine era dietro l'angolo. Riconosciuta la
definitiva infermità che gli rendeva ormai impossibile scrivere e correggere,
non sentì più che un ultimo bisogno, tralasciando tutto il resto, il bisogno
della «fuga dal mondo». Entra al monastero di S. Onofrio, sul Gianicolo, senza
più nemmeno curarsi del fatto che il Mondo creato non era stato ancora rivisto.
Tutto svaniva, di fronte all'importanza di prepararsi al trapasso: «Che dirà il
mio signor Antonio, quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio avviso non
tarderà molto la novella, perch'io mi sento al fine de la mia vita. Non è più
tempo ch'io parli de la mia ostinata fortuna, per non dire de l'ingratitudine
del mondo». Tutto perdeva importanza, a fronte della dolcezza della
«conversazione di questi divoti padri», che cominciava «la mia conversazione in
cielo. Monumento in Sant'Onofrio Il 25 aprile, all'«undecima ora». Tasso muore.
E una morte serena, ricevuta con tutti i conforti dei sacramenti.La
morte del Tasso è stata accompagnata da una particolar grazia di Dio
benedetto, perché in questi ultimi giorni le duplicate confessioni, le lagrime
e insegnamenti spirituali pieni di pietà e di giudizio, mostrarono che fosse
affatto guarito dall'umor malinconico, e che quasi uno spirito gli avesse
accostato al naso l'ampolle del suo cervello. Venne sepolto nella Chiesa di
Sant'Onofrio al Gianicolo. Presso il monastero, accanto alla strada è
ancora visibile la rampa della quercia, dove si trova il tronco nero di una
quercia secolare sostenuto da un sopporto metallico. Secondo la tradizione
locale si tratta della cosiddetta quercia del Tasso, l'albero alla cui ombra il
poeta spesso sedeva per riposarsi. Albero genealogico Reinerius de Tassis
Sconosciuta Omedeo Tasso (1290)[110] Sconosciuta Ruggero Tasso
SconosciutaBenedetto Tasso SconosciutaPalazzo de Tassis Tonola de Magnasco,
Pasimo (o Paxio) de Tassis. SconosciutaPietro Tasso. SconosciutaGiovanni
Tasso Catalina de Tassi Gabriel Tasso
Porzia de RossiBernardo Tasso Torquato Tasso Opere Un ritratto a
Sorrento. Gerusalemme Scritto quando egli aveva solo 15 anni il Gierusalemme
rappresenta il primissimo tentativo di Tasso di maneggiare il genere epico
nonché il suo primo impegno letterario di rilievo. Se ne possiedono soltanto
centosedici stanze del canto I. Oltre a condividere con la Liberata l'argomento
(la prima Crociata), si notano pure alcune somiglianze tra il proemio di questo
esordio poetico giovanile e quello del capolavoro della maturità. Rinaldo
All'età di diciotto anni Tasso riprese la materia del romanzo cavalleresco e
pubblicò il Rinaldo, poema in ottave che narra in dodici canti (circa 8000
versi) la giovinezza del paladino della tradizione carolingia e le sue imprese
di armi e di amori. Nella prefazione al poema Tasso dichiara di voler imitare
in parte gli "antichi" (Omero e Virgilio), in parte i
"moderni" (Ariosto). Si concentra però su un unico protagonista,
secondo le esigenze di unità proposte dall'aristotelismo. Si tratta di un'opera
tipicamente giovanile, ancora priva di originalità, ma compaiono già alcuni
temi e toni fondamentali che caratterizzeranno il Tasso maturo e formato
culturalmente. Rime Torquato Tasso compose un gran numero di poesie
liriche, lungo l'arco di tutta la sua vita. Le prime furono pubblicate col titolo
di Rime degli Accademici Eterei. Uscirono Rime e prose. Tasso lavorò fino al
1593 ad un riordino complessivo dei testi, distinguendo rime amorose e rime
encomiastiche. Previde poi una terza sezione, dedicata alle rime religiose e
una quarta di rime per musica, ma non realizzò il progetto. Nelle Rime
amorose è ben riconoscibile l'influenza della poesia petrarchesca e della vasta
produzione petrarchistica del Quattrocento e Cinquecento; contemporaneamente,
però, il gusto per le preziosità linguistiche e l'intensa sensualità rivelano
l'evoluzione verso un linguaggio nuovo che maturerà nel Seicento. L'uso
frequente di forme metriche poco usate dai poeti precedenti, come il madrigale,
e la raffinata musicalità dei versi fecero sì che molti di essi fossero musicati
da grandi autori come Claudio Monteverdi e Gesualdo da Venosa. Più
solenni e classicheggianti le Rime encomiastiche, dedicate alle figure e alle
famiglie signorili che ebbero rilievo nella vita del poeta. Per la loro
creazione si ispira a Pindaro, Orazio e al celebre Monsignor della Casa. Fra
tutte, la più famosa è la Canzone al Metauro, intessuta di elementi
autobiografici. Le Rime religiose sono caratterizzate dal tono cupo e
plumbeo, forse dovuto al fatto che le scrisse negli ultimi anni di vita. Qui il
poeta manifesta il desiderio di sconfiggere l'ansia esistenziale e il
tormentoso senso del peccato attraverso la fede e l'espiazione. Discorsi
dell'arte poetica Attorno alla metà degli Anni Sessanta scrisse i quattro libri
dei Discorsi dell'arte poetica ed in particolare sopra il poema eroico, letti
all'Accademia Ferrarese e pubblicati molto più tardi, nel 1587, dal Licino. Il
testo fornisce una chiara visione della concezione tassesca del poema eroico,
piuttosto distante da quella ariostesca, che dava la prevalenza all'invenzione
e all'intrattenimento del pubblico. Perché possa essere giudicato di buon
livello, deve basarsi su un evento storico, da rielaborare in modo inedito.
Infatti, «la novità del poema non consiste principalmente in questo, cioè che
la materia sia finta, e non più udita; ma consiste nella novità del nodo e
dello scioglimento della favola. Al verosimile deve essere unito il
meraviglioso, e Tasso trova l'unione perfetta di queste due componenti nella
religione cristiana. Intiera, l'opera deve essere una, ossia prevedere l'unità
d'azione, ma senza schemi rigidi: ci può essere largo spazio per la varietà, e
per la creazione di numerosi racconti nel racconto, e in questo senso la
Gerusalemme liberata costituisce una piena realizzazione delle idee
dell'autore. Lo stile, infine, deve adeguarsi alla materia, e variare tra il
sublime e il mediocre a seconda dei casi. Aminta Magnifying glass icon
mgx2.svg Aminta (Tasso). Le sofferenze di Aminta, dipinto di Bartolomeo
Cavarozzi «L'Aminta non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi
pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto lirico, narrazione
drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le tragedie e le
commedie e i così detti drammi pastorali in Italia … Essa è in fondo una
novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco che dominava
nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il Ruffo,
la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due protagonisti,
Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano
con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a monologhi e
capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione …
L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da partecipi con
le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è tutto nella
narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui concetto è
l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei piace, ei lice".
Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di caratteri e di
avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni, sentenze,
movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale, piena di grazia e
delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima. Semplicità molta è
nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di eleganza guadagna di
naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo.
Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un'apparenza pastorale
a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la stessa
semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di perfezione,
e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.» (De Sanctis)
L'Aminta è una favola pastorale. Presenta un prologo, 5 atti, un coro. Ogni
canto si conclude a lieto fine. Ha ispirato la composizione della favola
pastorale Flori di Maddalena Campiglia lodata dallo stesso Tasso. Sulle
ali dell'entusiasmo per il successo dell'Aminta Tasso incominciò una tragedia,
Galealto re di Norvegia, che però interruppe alla seconda scena del secondo
atto. Il poeta la riprese e la completò a Mantova, subito dopo la liberazione
dall'Ospedale di Sant'Anna cambiando però il titolo, diventato Re Torrismondo,
e il nome del protagonista. L'ambientazione è nordica: in essa sono frequenti
le immagini di distese boschive. In questo, il Tasso mostra la sua forte
curiosità per le leggende nordiche, come ad esempio mostra la lettura dell'Historia
de gentibus septentrionalibus di Olao Magno. L'editio princeps è quella
bergamasca del 1587; seguirono a ruota le edizioni di Mantova, Ferrara, Venezia
e Torino, ma poi ci fu un lungo silenzio. L'opera fu rappresentata per la prima
volta soltanto al Teatro Olimpico di Vicenza. Trama Torrismondo è
intimamente segnato dal conflitto tra amore e amicizia: il sovrano (d'una
ignota regione nordica, non di Norvegia) ama Alvida, che a causa di un debito
passato (Germondo aveva salvato la vita a Torrismondo) deve sposarsi con
l'amico Germondo, re di Svezia, regno nemico a quello di Alvida poiché Germondo
stesso era stato accusato di omicidio del fratello di Alvida. Germondo dunque
non può sposarsi con la donna amata poiché il padre di quest'ultima lo odia. Germondo
decide allora che Torrismondo per sdebitarsi avrebbe dovuto chiedere la mano di
Alvida e al momento delle nozze avrebbe dovuto scambiare la sposa. Ottenuta da
Torrismondo la mano di Alvida i due consumano l'amore. La storia prenderà
un'altra china quando Torrismondo scoprirà che la donna amata non è altri che
la sorella, la situazione culminerà nel suicidio dei due. Il Re Torrismondo è
molto importante perché anticipa le tragedie barocche, nelle quali si
riprendono alcune caratteristiche fondamentali delle tragedie senecane: la
meditatio mortis (il Memento mori) e il gusto dell'orrido. Nel Tasso, però, ciò
che compare fortemente e caratterizza le sue tragedie è il conflitto intimo che
dilania l'animo dei personaggi: l'uomo si sente intrappolato dal fato, poiché
impossibilitato all'agire, a modificare il corso degli eventi ormai già
predisposti. Tuttavia, la critica non si è espressa positivamente in
merito all'opera: Angelo Solerti e Francesco D'Ovidio si sono mostrati ostili
verso il Torrismondo come lo erano stati nei confronti degli Intrichi d'amore,
e severo si è dimostrato anche Umberto Renda, che alla tragedia ha dedicato una
monografia. Ancora più duro il giudizio
di Eugenio Donadoni, che arrivò a parlare di «opera di un ex-poeta, non più di
un poeta, e nemmeno Giosuè Carducci, pur
apprezzando lo sforzo di unire elementi pagani e religiosi, classici ed
esotici, ha ritenuto il dramma degno dell'ingegno tassesco. Solo Tonelli fa
presente che superava pur sempre «la maggior parte delle tragedie cinquecentesche
e rivaleggiava con le migliori del tempo. Gerusalemme liberata Gerusalemme
liberata. Tasso con la sua Gerusalemme liberata La Gerusalemme liberata è
considerata il capolavoro di Tasso. Il poema tratta di un avvenimento realmente
accaduto, ossia la prima crociata. Tasso iniziò a scrivere l'opera con il
titolo di Gierusalemme durante il soggiorno a Venezia. L'opera fu pubblicata
integralmente con il titolo di Gerusalemme liberata. In seguito alla
pubblicazione del poema il poeta rimise mano all'opera e la riscrisse
eliminando tutte le scene amorose e accentuando il tono religioso ed epico
della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme conquistata. In realtà la
Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad avere
grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri, fu la
Liberata. Trama Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra raduna i
crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio Gerusalemme. Uno
dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato Tancredi. Chi
vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per il
sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i
musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con
uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui
Tancredi, in un castello incantato. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro
crociato che lo aveva offeso viene cacciato via dal campo. Il giorno del duello
arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato
aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in
battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli
eroi imprigionati liberati da Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno
vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una
torre per dare l'assalto a Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è
innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e
viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama, Tancredi, che non l'aveva
riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo
l'apparizione in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno
lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire
la torre. L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero
della maga Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e
alla fine lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e
permette ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme. I Dialoghi La
stesura di prose dialogiche impegnò Tasso fin dal 1578, anno della composizione
del Forno overo de la Nobiltà. La dialogistica tassiana è stata da sempre
relegata al margine dalla critica: De Sanctis accenna soltanto al Minturo overo
della Bellezza, limitandosi ad asserire che Tasso da giovane fu “infetto dalla
peste filosofica”. Un giudizio a dir poco sminuente se si considera che il
poeta compose venticinque dialoghi (e questa è solo la cifra canonica; non si
fa riferimento, infatti, agli abbozzi e ai rimaneggiamenti) e vi pose il suo
impegno fino alla morte. Una valutazione più precisa è fornita da
Donadoni: lo studioso dedica un intero capitolo della sua monografia ai
Dialoghi indagandone trame, fonti e suggestioni. La prima edizione moderna
del corpus dialogico tassiano è quella di Guasti, il quale, però, non riuscendo
a reperire tutti i manoscritti dei Dialoghi si basa sui testimoni a stampa,
dando vita ad un’edizione, che presenta corruttele da far rabbrividire i
moderni filologi. Un grande passo in avanti nella fortuna dei Dialoghi è
rappresentato dall’edizione critica di Ezio Raimondi pubblicata nel 1958, di
capitale importanza per gli studiosi tassiani i quali, ancora oggi, continuano
a considerarla punto di riferimento. Raimondi considerò i Dialoghi tassiani
come opere postume, scegliendo la versione più attendibile fra manoscritti e
stampe in base alla loro storia individuale. Questo criterio non è stato
accettato da Stefano Prandi e Carlo Ossola, i quali hanno proposto un’edizione
storica dei Dialoghi che tenesse conto dei testi effettivamente circolanti
all’epoca dello scrittore. L’edizione in realtà non ha mai visto la luce e si è
fermata al 1996 ad uno specimen che avrebbe dovuto anticipare una successiva
edizione completa. Negli ultimi anni gli studiosi della prosa tassiana
sono aumentati: si è posta attenzione al Tasso politico, con due edizioni commentate
della Risposta di Roma a Plutarco e al Tasso egittologo di cui si è occupato
Bruno Basile. Non mancano letture dei singoli dialoghi: Basile e Arnaldo Di
Benedetto si sono occupati del Padre di Famiglia (rispettivamente, Fonti
culturali e invenzione letteraria nel «Padre di famiglia» di Torquato Tasso; e
Torquato Tasso, «Il padre di famiglia»); Emilio Russo del Manso (Amore e
elezione nel "Manso" di Tasso), Massimo Rossi del Malpiglio Secondo e
del Rangone (Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei "Dialoghi"
di Tasso); Maiko Favaro, dopo la monografia di Prandi/Ossola, ha offerto una
puntuale lettura del Forno, premiata con il premio Tasso (Le virtù del tiranno e le passioni
dell’eroe. Il “Forno overo de la Nobiltà” e la trattatistica sulla virtù
eroica); Angelo Chiarelli si è, invece, occupato del Malpiglio overo de la
corte (Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di
aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana),
preceduto dal contributo di Massimo Lucarelli sullo stesso argomento (Il nuovo
«Libro del Cortegiano»: una lettura del «Malpiglio» di Tasso) e del Costante
(«Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione
de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso). L'edizione critica di
Raimondi fornisce il testo dei venticinque dialoghi tassiani, con un'appendice
che ci permette di conoscere i manoscritti superstiti e le stampe. Questo il
titolo dei vari dialoghi: Il Forno overo de la Nobiltà; Il Beltramo overo
de la cortesia; Il Forestiero Napoletano overo de la gelosia; Il N. overo de la
pietà; Il Nifo overo del piacere; Il messaggiero; Il padre di famiglia; De la
dignità; Il Gonzaga secondo overo del giuoco; Dialogo; Il Rangone overo de la
pace; Il Malpiglio overo de la corte; Il Malpiglio secondo overo del fuggir la
moltitudine; La Cavalletta overo de la poesia toscana; Il Gianluca overo de le
maschere; Il Cataneo overo de gli idoli; Il Ghirlinzone overo l'epitaffio; La
Molza overo de l'amore; Il Costante overo de la clemenza; Il Cataneo overo de
le conclusioni amorose; Il Manso overo de l'amicizia; Il Ficino overo de
l'arte; Il Minturno overo de la bellezza; Il Porzio overo de le virtù; Il Conte
overo de le imprese. Le sette giornate del mondo creato È un poema in endecasillabi
sciolti, accanto ad altre opere di contenuto religioso di impronta chiaramente
controriformistica. Il poema venne pubblicato postumo. Si fonda sul racconto
biblico della creazione ed è suddiviso in sette parti, corrispondenti come dice
il titolo ai sette giorni nei quali Dio creò il mondo, e presenta una continua
esaltazione della grandezza divina della quale la realtà terrena è un
pallido riflesso. Le lacrime di Maria Vergine e Le lacrime di Gesù Cristo
Si tratta, come nel caso de Le sette giornate del mondo creato, di due scritti
facenti parte delle cosiddette "opere devote" del Tasso. Nello
specifico, sono due poemetti in ottave che riprendono la tradizione della
"poesia delle lacrime", in voga nella seconda metà del Cinquecento,
appena qualche anno prima della morte. Influenze culturali Statua
di Tasso a Sorrento La figura del Tasso, anche per la sua pazzia, divenne
subito popolare. La lucidità delle opere scritte durante il periodo di
prigionia nell'Ospedale di Sant'Anna fece diffondere la leggenda secondo cui il
poeta non era veramente pazzo ma fu fatto passare per tale dal duca Alfonso che
voleva punirlo per aver avuto una relazione con sua sorella, imprigionandolo
(anche se, come si è visto, è assai più probabile che la vera ragione della reclusione
consistesse nell'autoaccusa del poeta di fronte al tribunale
dell'Inquisizione). Questa leggenda si diffuse rapidamente e rese
particolarmente popolare la figura del Tasso, fino a ispirare a Goethe il
dramma Torquato Tasso (1790)[129]. In età romantica il poeta divenne il
simbolo del conflitto individuo-società, del genio incompreso e perseguitato da
tutti coloro che non sono in grado di comprendere il suo talento straordinario.
In particolare Giacomo Leopardi, che quando si recò a Roma il giorno venerdì 15
febbraio del 1823 pianse sul sepolcro del Poeta in S. Onofrio (commentando in
una lettera che quella esperienza era stata per lui "il primo e l'unico
piacere che ho provato in Roma"), considerava Torquato Tasso come un
fratello spirituale, ricordandolo in numerosi passi dei propri scritti (tra cui
quello citato) e nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (una
delle Operette morali). Molta parte della poesia recanatese è impregnata
di stile tassesco: i notturni di alcuni canti, come La sera del dì di festa o
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, richiamano quelli della
Gerusalemme, mentre nella canzone Ad Angelo Mai Leopardi crea una forte empatia
con il «misero Torquato, spirito fraterno «concepito come un alter ego. I due
nomi femminili più celebri presenti nei Canti, Silvia e Nerina, furono ripresi
dall'Aminta. In generale, l'attenzione si spostò dai personaggi della
Liberata al dramma esistenziale vissuto dal suo autore. Ferretti scrisse le
parole del Torquato Tasso, melodramma in tre atti musicato da Gaetano Donizetti
e rappresentato per la prima volta al Teatro Valle. Il "mito"
conquistò anche Franz Liszt: era quando l'apostolo del Romanticismo metteva in
musica l'opera byroniana Il lamento del Tasso, dando vita al poema sinfonico
Tasso. Lamento e Trionfo. Il poeta vicentino ottocentesco Jacopo Cabianca
ha dedicato al Tasso un poema in dodici canti intitolato appunto Il Torquato
Tasso. Nei primi anni del ventesimo secolo il compositore catanese Pietro
Moro si concentrò sugli ultimi momenti di vita del poeta con Ultime ore di
Torquato Tasso, carme in un atto sulle parole di Giovanni Prati (riviste per
l'occasione da Rojobe Fogo). Torquato Tasso nel cinema Torquato Tasso,
regia di Luigi Maggi, Torquato Tasso, regia di Roberto Danesi. Adattamenti
cinematografici de La Gerusalemme liberata Il primo regista a girare un film
sull'opera fu Enrico Guazzoni. Ne farà due remake; Gerusalemme liberata,
di Enrico Guazzoni; La Gerusalemme liberata, di E. Guazzoni); La Gerusalemme
liberata, di Carlo Ludovico Bragaglia; I due crociati, parodia di Giuseppe
Orlandini con Franco e Ciccio. Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus,
Laurea poetica nastrino per uniforme ordinariaLaurea poetica (postuma) — Roma.
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«Giornale storico della Letteratura Italiana», Giovan Battista Manso, Vita di
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Trattati, raccolte epistolari, vite paradigmatiche, ovvero come essere un buon
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Gorris Camos, Fasano, Schena, Umberto Lorenzetti, Cristina Belli Montanari,
L'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Tradizione e rinnovamento
all'alba del Terzo Millennio, Fano Sulle Rime Arnaldo Di Benedetto, Fra
petrarchismo e Barocco: le «Rime» di Torquato Tasso, «A me versato il mio dolor
sia tutto», Lo sguardo di Armida (Un'icona della «Gerusalemme liberata»), Per
un anonimo in meno: l'autore del dialogo «Il Tasso», in Tra Rinascimento e
Barocco. Dal petrarchismo a Torquato Tasso, Firenze, Società Editrice
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seleniche nelle Rime di Torquato Tasso, in «Griseldaonline», 1Sull'«Aminta»
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«Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione
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Angelo Chiarelli, Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi
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Bozzola Sergio, «Questo quasi arringo del ragionare». La Tecnica dei «Dialoghi»
Tassiani, in «Italianistica, Rivista di Letteratura Italiana», Baldassarri
Guido, L’arte del dialogo in Torquato Tasso, in «Studi Tassiani», Guido Armellini e Adriano Colombo, Torquato
TassoL'uomo, in Letteratura italianaGuida storica: Dal Duecento al Cinquecento,
Zanichelli Editore, Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e
l'interpretazione, Palumbo, L. Tonelli, Tasso, Torino); Lettere di Torquato
Tasso (Firenze, Le Monnier); L. Tonelli, G. Natali, Torquato Tasso, Roma, G.
Natali, cA. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino. Altri pensano invece che
queste sperimentazioni risalgano al periodo patavino o addirittura a quello
bolognese. G. Natali, cit., Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e
l'interpretazione, Palumbo, G. Natali, cG. Natali, cit.20 L. Tonelli, cit.68 G. Natali,
L. Tonelli, cit.60 E. Durante, A.
Martellotti, «Giovinetta Peregrina». La vera storia di Laura Peperara e
Torquato Tasso, Firenze, Olschki, W.
Moretti, Torquato Tasso, Roma-Bari Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo
alla storia. Dalla storia al testo, Milano: Paravia, L. Tonelli, cil rapporto amoroso è stato
ipotizzato in particolare da Angelo de Gubernatis in T. Tasso, Roma, Tipografia
popolare, L. Tonelli, c Lettere, cit., I22
L. Tonelli, cit.89 L. Tonelli,
cit., 99-100 Lettere, cit., I49 Secondo Maria Luisa Doglio la data non è casuale
e si inserirebbe nella tradizione petrarchesca. Petrarca avrebbe infatti visto
per l'unica volta Laura, cfr. M. L. Doglio, Origini e icone del mito di
Torquato Tasso, Roma Lettere, c Lettere,
Lettere, cit., I114 Si tratta di
un'epistola al Gonzaga del luglio 1575; Lettere, cit., L. Tonelli S. Guglielmino, H. Grosser, Il
sistema letterario, Milano, Principato, L. Tonelli, Lettere, Si trattava comunque di uno stipendio
oggettivamente basso, che a una persona comune avrebbe garantito a stento la
sopravvivenza; L. Tonelli, cit.172
Lettere, L. Chiappini, Gli Estensi, Milano, Dall'Oglio, A. Solerti, cA.
Solerti, cit., II, 120-121 A. Solerti, L. Tonelli, cit. G. B. Manso,
Vita del Tasso, in Opere del Tasso, Firenze, M. Vattasso, Di un gruppo
sconosciuto di preziosi codici tasseschi, Torino, M. Vattasso, cA. Solerti, L.
Tonelli, c M. L. Doglio, I. De Bernardi, F. Lanza, G. Barbero, Letteratura
Italiana, 2, SEI, Torino, 1987 Lettere, cit., I298 Lettere, cit., I299 A. Solerti, ccosì scrive al cardinale Luigi
un suo informatore L. Tonelli, Lettere, cit., II89 L. Tonelli, cit.187 A. Solerti,
Lettere, Cesare Guasti, Napoli, Rondinella, A. Corradi, Delle infermità di Torquato
Tasso, Regio Instituto Lombardo548 L.
Tonelli, M. L. Doglio, cit., 41 e
ss. Opere di Torquato Tasso, Firenze,
Tartini e Franchi, L. Tonelli, cInfarinato era il nome accademico assunto dal
Salviati Tra parentesi sono indicate le
date di pubblicazione L. Tonelli, Opere,
cit., II276 Tra parentesi si indicano
due date, quella di composizione e quella di pubblicazione Lettere, cit., II56 La prima versione di quelli che saranno Gli
intrichi d'amore non ci è pervenuta L.
Tonelli, L. Tonelli, F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, Non fu più
tenero il Solerti; L. Chiappini, c L. Tonelli, cit.188 L.Tonelli,
247-248 A. Solerti, cLettere, L.
Tonelli, cit., 266-267 Lettere, c L. Tonelli, cG. Mazzoni, Del Monte
Oliveto e del Mondo creato di Torquato Tasso, in Opere minori in versi di
Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli, E. Donadoni,
Torquato Tasso, Firenze, Battistelli, G.
B. Manso, Vita di T. Tasso, in Opere di Torquato Tasso, Firenze; Lettere, Così
al Costantini; Lettere, Lettere, L. Tonelli, cit.275 Passo riportato in A. Solerti, A.
Solerti, L. Tonelli, Lettere, Lettere, cit.,Lettere, cit., Lettere, A niuno
sono più obligato che a Vostra Eccellenza, ed a niuno vorrei essere
maggiormente; perché è cosa da animo grato l'esser capace de le grazie e de gli
oblighi. Laonde non ho voluto più lungamente ricusare il secondo suo dono
di cento scudi, bench'io non abbia mostrato ancora alcuna gratitudine del
primo; ma la conservo ne l'animo, e ne le scritture: e ne l'uno sarà forse
eterna, e ne l'altre durerà tanto, quanto la memoria de le mie fatiche. Niuno
de' presenti o de' posteri saprà chi mi sia, che non sappia insieme quant'io
sia debitore a la cortesia di Vostra Eccellenza, ed a la sua liberalità; con la
quale supera tutti coloro che possono superar la fortuna." Così scrive il
Tasso al marchese Giovanni Ventimiglia da Firenze nella primavera del 1590.
Soltanto nello stesso 1590, il Tasso dedicherà al marchese due composizioni
encomiastiche, non portando però a compimento il promessogli poema Tancredi
normando. Lettera a Scipione Gonzaga,
Lettere. E. Rossi, Il Tasso in Campidoglio, in Cultura, Lettere, cit., V6 L. Tonelli, cit.278 Lettere, cit., V62 L. Tonelli, cit., 278-279
C. Cipolla, Le fonti storiche della «Genealogia di Casa Gonzaga», in
Opere minori in versi di Torquato Tasso, cit.,
I L. Tonelli, G. B. Manso,
L.Tonelli, L. Tonelli, E. Rossi, c A. Solerti, cit., II
Lettere, cit., V194 Lettere,
cLettera ad Antonio Costantini, in Lettere, Lettera di Maurizio Cataneo a
Ercole Tasso, 29 aprile 1595; A. Solerti, cit., II363 Lettera di monsignor Quarenghi a Giovan
Battista Strozzi, A. Solerti, cAlmanach du gotha, de J.-H. de Randeck, Les plus
anciennes familles du monde: répertoire encyclopédique des 1.400 plus anciennes
familles du monde, encore existantes, originaires d'Europe, de Karl Hopf, Historisch-genealogischer
Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de A. M. H. J. Stokvis, Manuel
d'histoire: Les états de Europe et leurs colonies, de Pierantonio Serassi, La
vita de Torquato Tasso8. de Niccolò
Morelli di Gregorio, Della vita di Torquato Tasso, de Pierantonio Serassi, La
vita di Torquato Tasso10. (DE) de Karl
Hopf, Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit,
de Heinrich Léo Dochez, Histoire d'Italie pendant le Moyen-âge T. Tasso,
Discorsi dell'arte poetica, I, 12 in Le prose diverse di Torquato Tasso (C.
Guasti), Firenze, Le Monnier, 1875
Discorsi dell'arte poetica, cit., I, 15
A. Solerti, F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, U. Renda, Il
Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica nel Cinquecento, Teramo, E.
Donadoni, G. Carducci, Il Torrismondo, testo premesso all'ed. Solerti delle
Opere minori in versi di Torquato Tasso, L. Tonelli, cit.253 Torquato Tasso, Risposta di Roma a Plutarco,
Res, Risposta di Roma a Plutarco e marginalia | Edizioni di Storia e
Letteratura, su storiaeletteratura. Angelo Chiarelli, Una «congregazione di
uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana
nella dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura italiana»,, 121, n°1,
34-43.. 12 agosto. «Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per
una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in
«Filologia e Critica», Sul muro esterno della Chiesa di S. Onofrio, a Roma, una
tavola con iscrizione tedesca ricorda il soggiorno di Goethe e l'ispirazione
che lo portò a scrivere il dramma, dopo aver veduto la tomba del poeta
custodita all'interno dell'edificio sacro
Ad Angelo Mai, v. 124 G. Baldi,
S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al
testo, Milano, Paravia, S. E. Failla, Ante Musicam Musica. Torquato Tasso
nell'Ottocento musicale italiano, Acireale-Roma, Bonanno, Emersioni seleniche
nelle Rime di Torquato Tasso | Massimo Colella | Griselda Online, su
griseldaonline. 2Torquato Tasso, commedia goldoniana Tasso, dramma di Goethe,
Torquato Tasso, opera di Gaetano Donizetti Dialogo di Torquato Tasso e del suo
Genio familiare, dalle Operette morali di Giacomo Leopardi Thurn und Taxis,
ramo austriaco della famiglia Tasso di Bergamo, fondatori delle prime poste
europee Museo tassiano, museo dedicato a Torquato Tasso Accademia dei Catenati
Cella del Tasso, attuale ubicazione a Ferrara. TreccaniEnciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Torquato Tasso, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Torquato Tasso, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
Inc. To Tasso, su BeWeb, Conferenza
Episcopale Italiana. Opere di Torquato
Tasso, su Liber Liber. Opere di Torquato
Tasso, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Torquato Tasso,. Opere
Progetto Gutenberg. LibriVox. Torquato Tasso, in Catholic Encyclopedia, Robert
Appleton Company. Spartiti o libretti di Torquato Tasso, su International Music
Score Library Project, Project Petrucci Tasso, su Internet Movie Database,
IMDb.com. Torquato Tasso Testi completi
e cronologia delle opere. Opere integrali in più volumi dalla collana
digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza Opere di Torquato Tasso,
testi con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza Due
segregazioni: il Cantico spirituale di Giovanni della Croce e Il Re Torrismondo
di Torquato Tasso, su midesa). Opere di Torquato Tasso colle controversie sulla
Gerusalemme poste in migliore ordine, ricorrette sull'edizione fiorentina, ed.
illustrate dal professore Gio. Rosini, Pisa, presso Niccolò Capurro, Le lettere
di Torquato Tasso disposte per ordine di tempo e illustrate da Cesare Giusti, 5
voll., Firenze, Felice Le Monnier, I dialoghi, Cesare Guasti, Firenze, Felice
Le Monnier, Le rime di Torquato Tasso. Edizione critica su i manoscritti e le
antiche stampe Angelo Solerti, 4 voll., Bologna, presso Romagnoli-Dall'Acqua,
Opere di C.. DELL'ARTE DEL DIALOGO. Voi mi pregate, pad* molto reverendo,
nelle vostre lettere, eh' io voglia darvi alcuno ammaestramento: e i chiedete,
se non m'inganno, dello scrivere i dialoghi, perchè son quelle medesime
nelle quali m'av- visate d' aver ricevuti quelli della poesia toscana e
della pace. E se propriamente ragionale, io non posso compiacervi, perchè
tanto a me disdioevol sarebbe la persona di maestro, quanto a voi quella
di sco- lare: né rifiutandola io temo di poterne esser biasimato, come
Giotto, perch'agli ricusò convenevole onore: io non accetto ufficio non
conveniente. Bla se volete onorarmi con questo nome, e ammaestramento
chiamate l' opinione» io la scriverò; perchè niuna cosa debbo tenervi celata,
la qual possa giovar agli altri, oppure a me stesso'; ed allora sti- merò
buone le mie ragioni» che dal vostro giudicjo saran confermate. E se
-delle regola avviene quel che delie leggi : siccome altre leggi hanno i
Genovesi diverse da quelle oV Veneziani o de/ Ragusei, oasi potrebbero avere
altri precetti nell'artificio del bene scrivere» Ma io non gli voglio dar
questo nome, nò voi gliele scrivete in fronte ; perciocché io l'ho
raccolte in un'operetta assai breve per assomigliar alcuni dottori
cortigiani, i quali' non potendo sostener persona così grave, vestono di
corto. E a' in questo abito potranno sensa fastidio esser lette dagli
amid ' e da parenti, non v' incresca di leggere.Nell'imitazione o
s'imitano l' azioni degli uomini o i ragionamenti: e quantunque poche
operazioni si facciano alla mutola, e pochi discorsi senza operazione,
almeno dell' intelletto, nondimeno assai diverse giu- dico quelle da
questi : e degli speculativi è proprio il discorrere, sicco- me degli
attivi l'operare. Due sàran dunque i primi generi dell'imi- tazione: l'un
dell'azione, nel quale son rassomigliati gli operanti: l' altro delle
parole, nel quale sono introdotti i ragionanti. E. 1 primo genere si
divide in altri, che sono la tragedia e la commedia, ciascuna delle quali
patisce alcune divisioni: e '1 secondo si può divider pari- mente. Ed
Aristide un de' più famosi Greci, i quali scrissero e non parlarono, così
parve che gli dividesse, dicendo che Platone avea comi- camente
rappresentato Ippia, Prodico, Protagora, Gorgia, Eutedemo, Bonisidoro,
Agatone, Cinesia e gli altri: e ch'egli medesimo chiama le sue leggi tragedia,
e si confessa ottimo tragico. Ma tra' moderni v*è chi gli divide
altramente, facendone tre specie: l'una delle quali può montare in palco,
e si può nominare rappresentativa, perciocché in essa vi siano
persone introdotte a ragionare cioè in alto, com' è usanza di farsi
nelle commedie e nelle tragedie: e simil maniera è tenuta da Platone nei
suoi Ragionamenti, e da Luciano ne' suoi; ma un'altra ce n' è, che non
può montare in palco, perciocché conservando1' autore la" sua
persona, come isterico narra quel che disse il tale e '1 cotale: e questi
due ragionamenti si possono domandare istorici o narrativi, e tali sono
per- lo più quelli di Cicerone. E c'è ancora la terza maniera ed è di
quelli, che son mescolati della prima e della seconda maniera,
conservando l'autore la sua prima persona, e narrando come istorio): e
poi introducendo a favellar tyafiarix&s come s'usa <fi far nelle
tra- gedie e nelle commedie: e può e non montare in palco, cioè non può
montarvi, in quanto l' autore conserva la sua persona ed è come 1* isto-
rico: e può montarvi in quanto s'introducono le persone rappresenta-
tivamente a favellare: e Cicerone fece alcuni ragionamenti sì fatti. E
quantunque questa- divisione sia tolta dagli antichi e paia diversa dal-
l' altra, nondimeno l'intenzione forse è l'istessa; perchè la tragedia si
divide in quella che si dice tragedia propriamente, e nell'altra nella
qual parla il poeta: e tragedia sì fatta compose Omero. E questa divi-
stone perchè è fatta in due membri, è più perfetta; nondimeno i àia-
Ioghi sono stati detti tragici e comici per similitudine, perchè le
trage- die e le commedie propriamente sono l'imitazione dell'azione;
però tragici si posson chiamar sopra tutti gli altri il Critone e 1 Fedone: Dell'
un de' quali Socrate condannato alla morte, ricusa di fuggirsene con gli
amici: nell'altro dopo lunga deputazione dell' immortalità del- l'anima
bee il veleno. E comico è il convito nel quale Aristofane è impedito dal
rutto nel favellare; ed Alcibiade ubriaco si mescola fra i convitati. Ma
il Menesseno par misto di queste due specie: perciocché Socrate battuto
dalla maestra Aspasia è persona comica; ma lodando i morti ateniesi
innalza il dialogo all' altezza della tragedia. Pur questi medesimi
dialoghi non son vere tragedie, ovvero commedie; perchè nell' une e nelT
altre le quistioai e i ragionamenti son descritti per l'azione; ma ne'
dialoghi l'azione è quasi giunta de' ragionamenti : e 8' altri la
rimovesse, il dialogo non perderebbe la sua l'orma. Dunque in lui queste
differenze sono accidentali piuttosto che • altramente ; ma le proprie si
terranno dal ragionamento jslesso e da' problemi in lui contenuti, cioè
dalle cose ragionate, non sol dal modo di ragionare. Per eh' i ragionamenti
sono o di cose che appartengono alla contempla- zione, oppur di quelle
che son convenevoli all' azione e negli uni sono i problemi intenti all'
elezione e alla fuga, negli altri quelli che riguar- dano la scienza, e
là verità; laonde alcuni dialoghi debbono esser detti civili e
costumati,, altri speculativi. E '1 soggetto degli uni e degli altri; o
sarà la quistione infinita, come se la virtù si possa insegnare; o la
finita che debba far Socrate condannato alla morte. E perciocché gran
parte de' platonici dialoghi sono speculativi e quasi in tutti la
quistione è infinita, non pare che lor si convenga la scena in modo
alcuno, né meno agli altri che son de' costumi, perchè son pieni d'
altissime spe- culazioni. Anzi piuttosto non si conviene ad alcun
dialogo, se non forse per rispetto dell'elocuzione, la quale alcuna volta
pare istrionica, sic- come disse il Falereo, awengachè nella scena si
rappresenti l'azione o atto dal quale son denominate le favole e le
rappresentazioni dramma-* tiche. Ma nel dialogo principalmente s' imita
il ^ragionamento il qual non ha bisogno di palco: e quantunque vi fosse
recitato qualche dia- logo di Platone, l'usanza fu ritrovata dopo lui
senza necessità. Perchè se in alcuni luoghi l'elocuzione pare accomodata
all'istrione, come nell'Eri- demo, può leggersi dallo scrittore medesimo,
ed aiutarsi colla pronuncia. Né egli conviene ancora il verso, come hanno
detto, mala prosa ; perciocché la prosa è parlar conveniente allo
speculativo e all' uomo civile, il qual ragioni degli uffici e delle virtù. E i
sillogismi, e l'induzioni, e gli entimemi e gli esempi non potrebbono
esser convenevolmente fatti in versi. E se leggiamo alcun dialogo in
versi, come è l'amicizia bandita di Ciro predentissimo, non stimeremo
lodevole per questa cagione, ma per al* tra: e diremo, che il dialogo-
sia imitazione di ragionamento scritto in prosa senza rappresentazione
per giovamento degli uomini civili e spe- culativi : e ne porremo due
specie, 1' una contemplativa, e Y altra co- stumata : e 1 soggetto nella
prima specie sarà la quistione infinita o la finita : e quale è la invola
nel poema, tale è nel dialogo la qui- stione : e dico la sua forma, e
quasi Y anima. Però se una è la favola, uno dovrebbe essere il soggetto,
del quale si propongono i problemi. E nel dialogo sono oltre di ciò T
altre parti, cioè la sentenza^ e '1 costume ,* e Y elocuzione ; ma
trattiamo prima della prima. Dico adunque, che la quistione si forma
della dimanda e della risposta; e perchè 1 dimandare s'appartiene
particolarmente al dialettico, par, che lo scrivere il dialogo sia
impresa di lui : ma '1 dia- lettico non dee richieder più cose d' uno,
oppur una cosa di molti ; perchè se altri rispondesse non sarebbe una V
affermitene o la ne- gazione: e non chiamo una cosa quella, ch'ha un nome
solo se non si fa una cosa di quelle: come l'uomo è animai con dne
piedi e mansueto : ma di tutte questo si fa una sola cosa ; ma dell' esser
bianco e dell'essere uomo e del camminare, come dice Ari- stotile, non se
ne fa uno; però s' alcuno affermasse qualche cosa, non sarebbe, una
affermazione ; ma una voce, e molte l' affermazio- ni. Se dunque
l'interrogazione dialettica ò una dimanda della ri- sposta, ovvero della
proposizione, ovvero dell'altra parto della con- tradizione: e la
proposizione è una parte della contradizione , a que- ste cose non sarà
una risposta, né una dimanda. Ma se al dimostrativo non s' appartiene il
dimandare, a lui non converrà di scriver dialo- go. E par, che Aristotile
assai chiaramente faccia questa differenza nel primo delle prime
risoluzioni fra la proposizkm dimostrativa e la dialettica, dicendo, che
la dimostrativa prende l'altra parte della contradizione; perciocché
'colui, il qual dimostra, non dimanda, ma piglia ; ma la dialettica è
dimanda della contradlzione. Nondimeno nel primo delle posteriori egli
dice, che s' è il medesimo l' interro- gazione sillogistica e la
proposizione : e le proposizioni si fanno in cia- scuna scienza, ancora
si posson fare le dimando. Laonde io raccolgo, che si posson fare i
dialoghi nell'aritmetica, nella geometria, nella musica e nell'
astronomia e nella morale e nella naturale e netta divina filosofia, e in
tutte F arti e in tutte le scienze si posson fu le richieste e
conseguentemente i dialoghi. E se oggi fossero in looe dell'arte del
dialogo i dialoghi scritti da Aristotile, non ce ne sarebbe perawentura
dubbio alcuno. Ma leggendo quei di Platone, i quali son pieni di
proposizioni appartenenti a tutte le scienze, potremo chiaramente
conoscere lMstcsso. Nondimeno siccome il dimandare è proprio al
dialettico, così a lui si conviene il dialogo più; che a tutti gl’altri.
Laonde Aristotele nel capitolo seguente pare, che faccia differenza fra
le matematiche e ì dialoghi, dicendo, che se fosse impossibile mostrar
dal falso il vero, sarebbe facile
il risolvere, perchè, si convertirebbono di necessità. Ma si convertono
più quelle, che son nelle matematiche, perchè non ricevono alcuno accidente, e
in ciò son differenti da quelle, che son ne’ dialoghi. E dialoghi chiama
i parlari dialettici, i quali son composti della dimanda e della risposta. Al
dialetttico dunque converrà principalmente di scrivere il dialogo, o a colui,
che vuol rassomigliarsi. E'1 dialogo sarà imitazione d' una disputa dialettica.
Va perchè quattro sono i generi delle dispute, il dottrinale, il
dialettico, il tentativo e il contenzioso, l'altre dispute ancora si
possono imitare ne' dialoghi. E forse in quelli d'Aristotele sono tutte IV.
Ma in quelli di Platone si troverebbono similmente, perchè Socrate per via d'
ammaestramento e d'esortazione parla con Alcibiade, con Fedro e con
Fedone, e come dialettico disputa con Zenone, e con Parmenide;. e come
tale riprova Ippia, GORGIA, Trasimaco e gli altri sofisti e talora gli
tenta. Ma i sofisti son contenutosi, e vaghi di gloria, come appare nell'
Eutiemo, detto altramente il Litigioso. Nondimeno questi IV generi non
sono così partitamente distinti dagl’interpreti di Platone i quali
pongono tre mdftUre di dialoghi; l'una, nella quale Socrate esorta i
giovanetti; nell’altra riprova i sofisti; la terza è mescolata dell' una
e dell' altra, la qual senza dubbio è più soave per la mescolanza.
Ma chi volesse scriver dialoghi secondo la dottrina ó? Aristotele e
arricchir di questo ornamento le scuole peripatetiche, potrebbe scriverli
in tutte IV le maniere. Ma principalmente son lodevoli le due prime: la
dottrinale e la dialettica, l'artificio della quale consiste
principalmente nella dimanda usata con mollo artificio di Socrate ne’ libri
di Platone, come appare nel primo dialogo nel quale Socrate richiede ad
Ipparco quel, che sia la cupidigia del guadagno; e in tutti gli altri
simiglianlt, non eccettuando quelli, ne’ quali sotto la persona di forestiero
ateniese dà le nuove leggi d’una città: e 'n quelli di Senofonte ancora
con arte molto simile Socrate chiede a Critobulo se l'economia è
nome di scienza, come la medicina e l'architettura. E nel Tirreno
Simonide a Jerone, che differenza aia fra la vita reale e la privata: e
dalla risposta, eh' è fatta, prendono occasione d'insegnare. Ma da questo
artificio si dipartì M. Tullio, Il quale nelle partizioni oratorie pone
la dimanda in bocca, non di quel, eh' insegna, ma di colui, ch'impara.
Ed. egli medesimo ci dimostra la diversità fra i ROMANI in quelle parole
di CICERONE: figlinolo, tuo) dunque eh' io ti dimandi scambievolmente IN
LINGUA LATINA di quelle cose medesime, delle quali tu mi suoli
addomandare nella Greca ordinatamente? Laonde pare, che la dimanda, fatta dal
discepolo, 6ia derivata da CICERONE, e l' artificio sia proprio de’ROMANI,
il quale s’usò dal Possevino e da altri nella dottrina peripatetica,
perchè forse è più facile. Ma è non così lodevole, né fu, eh' io mi
ricordi, usata dagl’antichi. E per questa ragione M. Tullio nelle
Quistioni Tuscalane più s' avvicina all' arte de’ Greci ; perciocch' egli
comandava, che alcun de' suoi famigliari ponesse quello, che gli pareva,
ed egli contraddiceva alla conclusione in questo modo. Auditore. La
morte mi pare esser male. M. A quelli che son morti o a quelli eh' han
da morire P La quale è vecchia e Socratica ragione di disputar contra
l' altrui opinione. Tuttavolta il por la conclusione ha dello scolastico: e
però dice d'aver poste ne' V libri le scuole de' V giorni. Tanto potè l' amor
della filosofia in un vecchio senator romano, padre della patria, il qual
quistiona secondo il costume de' Greci forse per ingannar se stesso in
questo modo e consolarsi nella servitù. Ma non si dimenticò ne’ libri dell'
oratore di quel, eh' era convenevole a' romani Senatori; laonde CRASSO e MARC’ANTONIO
in altra maniera introduce a favellare. Ma fra tutti i dialoghi Greci,
lodevorrssimi sono que' di Platone; perciocché superano gl’altri d'arte,
di SOTTILITÀ, d'acume, e d'eleganza e di varietà di concetti e
d'ornamento di parole. E pel secando luogo son quei di Senofonte; e quei di LUCIANO
nel terso. Ma CICERONE è primo fra' LATINI, il quale volle forse
assomigliarsi a Platone: nondimeno nelle quistioni, e nelle dispute alcuna volta
è più simile agli oratori, che a' dialettici. Ma nel secondo luogo non so che
se gli avvicini, o chi possa paragonare a' Greci. E NELLA NOSTRA LINGUA coloro,
che hanno scritto dialoghi, per la maggior parte hanno seguita la maniera
meno artificiosa, nella quale dimanda quegli, che vuole imparare, non quel, che
riprova. E se alcuno s'è dipartito da questo modo di scrivere, merita
lode maggiore: e tanto basti della prima parie, che è la quistione. Ma
perchè il dialogo è imitazione del ragionamento, e il dialogo dialettico
imitazione della disputa, è necessario, che i ragionanti e i disputanti abbiano
qualche opinione delle cose disputate, e qualche costume, il qual si
manifesta alcuna volta nel disputare. Da quelli derivano l'altre due
parti nel dialogo, io dico la sentenza, e il costume: e lo scrittore del
dialogo deve imitarlo non altramente, che faccia il poeta ; perchè egli è
quasi mezzo fra il poeta e ri dialettico. E niun meglio l'imita, e
meglio l'espresse di Platone, che, descrive nella persona di Socrate il
costume d'un uomo dabbene, che ammaestra la gioventù, e risveglia gli
ingegni taidl e raffrena i precipitosi, e richiama gli erranti, e riprova
la falsità de' sofisti, e confonde l'insolenza e la vanità, amator del
giusto e del vero, magnanimo, non che. mansueto nel tollerar l'ingiurie,
intrepido nella guerra, costante nella morte. Ma in quella d'Ippia, e di GORGIA
DI LEONZIO, e d'Eutidemo, e degl’altri sì fatti si descrivono gl’avari, e
ambiziosi, e amatori di gloria, i quali non hanno vera scienza d'alcuna
cosa, ma parlano per opinione. In quella di Menoue e di Grifone descrive
il buon padre e il buon amico, e in quella d'Alcibiade, di Fedro, e di Carmide
i costumi de' nobili son descritti maravigliosamente. Oltra queste parti del
dialogo ci sono le digressioni, come nel poema gli episodj : e tale è quella d'
Eaco, e di Minos, e di Radamanto nel GORGIA, e quella di Teutdemone degl’Egizi
nel Fedro, d'Ero Panfilio ne' dialoghi della Repubblica. Ma perchè abbastanza
s'è ragionato del soggetto del dialogo, e della sentenza, e de' costumi
di coloro, che sono introdotti a favellare; resta, che parliamo
dell'ultima parte, la quale è l'elocuzione: e se crediamo ad Artemone,
che ricopiò l'epistole d'Aristotele, bisogna scriver col medesimo stilo
il dialogo e l'epìstola, perchè il dialogo è quasi una sua parte. Ma
Demetrio Falereo dice, che il dialogo è imitazione del ragionare
all'improvviso. Ma l'epistola si scrive, e si manda in dono in qualche
modo. Però dee esser fatta e polita con maggiore studio. Tultavolta nò
Platone, ne M. Tullio pare, che sempre avessero questa considerazione. Perchè
ne' dialoghi l'elocuzione dell'uno e dell'altro non è meno ornata, che quella
dell'epistole: e in tutti gli altr’ornamenti i dialoghi paiono superiori. E ciò
non par fatto senza molta ragione. Conciossiacosaché i dialoghi di
Platone e di M. Tullio sono imitazione de' migliori, e nell'imitazioni sì
fatte, le persone e le cose imitate debbono piuttosto accrescere che diminuire,
come ci insegna Demetrio medesimo, il qual vuole, che la magnificenza sia nelle
cose, se il parlare è del cielo o della terra. Oltre di ciò laddov/egli
parla od periodo ne fa tre generi : il primo isterico, il secondo
dialogico» il teno oratorio: e vuole, che ristorico sia nel meno dell'uno
e dell'altro, non molto ritondo, né molto rimesso: ma la forma
dell'oratorio sia contorta e circolare: e quella del dialogico più
semplice dell'istoria) in guisa che appena dimostri d' esser periodo. I
quali ammaestramenti sono stati meglio osservati da' Greci, che, da M.
Tullio, che imitò Platone solamente; perchè egli così nel periodo, come in
tiascun'-altra parte, ricercò la grandezza più dr Senofonte e degli
altri. Laonde usa le metafore pericolosamente in luogo delle Immagini,
che sono osate da Senofonte: e somiglia colui, 11 quale cammina in luogo,
dove è peri- colo di Bdrucciolare, compiacendo a se medesimo, e avendo
molto ar- dire, siccome è proprio delle nature sublimi ; talché fu detto
di lai, ch'egli molto s'innalzava sovra il parlar pedestre: e che il suo
par- lare non era in tutto, simile al verso, né in tutto simile alla
prosa : e ch'egli usava l'ingegno non altramente, che i re facciano la
podestà: e insomma niun ornamento di parole, niun color rettorico, ninn
lume d'orazione par, che sia rifiutato da Platone. Ma s’in alcuna parte
del dialogo dobbiamo aver risguardo agli avvertimenti di Demetrio, è
in quella, nella qual si disputa , perchè in lei si conviene la purità, e
la simplicità dell'elocuzione, e '1 soverchio ornamento par che
impedisca gli argomenti, e che rintuzzi, per così dire, l'acume, e la
sottilità. Ma l' altre parti debbono essere ornate con maggior diligenza :
e dovendo lo scrittore del dialogo assomigliare i poeti nell'espressione,
e nel per le cose innanzi agli occhi, Platone meglio di ciascuno ce le fa
quasi vedere, il qual nel Protagora parlando d'Ippocrate, che s' era
arrossito, essendo ancora di notte, soggiunge: Già appariva la luce, onde
il color pareva esser veduto e la chiarezza, die evidenza è chiamata dai
La- tini, nasce dalla cura usata nel parlare, essersi ricordato, che
Ippo- crate era da lui veduto di notte. E nel medesimo dialogo
leggiamo con maraviglioso diletto, che l'eunuco portinaio, perchè i
sofisti gli erano venuti a noia, serra con ambe le mani la porta a
Socrate e al com- pagno : e appena l' apre, udendo, che non erano di
loro. E ci piace il passeggiar di Protagora e degli altri, che
passeggiando con tanto or- dine ascoltavano il ragionare : e ci par
vedere lppia seder nel trono, e Prodico giacere avviluppato. E con piacer
incredibile leggiamo simil- mente che due giovanetti appoggiati sovra il
gomito descrivessero ccr-3!i, e altre inclinazioni della sfera : e che Socrate
pur col gomito, di- mandasse, di chi ragionavano. Né con minor
espressione ci pone in- nanzi agli occhi Garmide e gli amici : e quasi
veggiamo gli estremi, che sedevano da questa parte e da quella, l'uno
cadere e l'altro es- ser costretto a levarsi. Ma sopra tutte le cose
c'empie di compassione e di maraviglia il venir di Garmide alla prigione
innanzi al giorno, e l'aspettar, che si destasse Socrate, condannato alla
morte: e poi, che il medesimo raccolga la gamba, la quale era stata
legata, e grattandosi discorra del dolore e del piacere, l'estremità de' quali
son con- giunte insieme : e distendendosi, e postosi a sedere sovra la
lettiera dia principio a maggiore e più alta contemplazione. E nel
medesimo dialogo tempera il dolore, quando scherza colle belle chiome di
Fedone, le quali dovevano il giorno tagliarsi : e nella descrizione
parimente è maravi- glioso. E se leggiamo i ragionamenti di Socrate sotto
il platano, e quelli del forestiero ateniese all'ombra degli alberi
frondosi, mentre col La- cedemonio e col Gandiano vanno all'antro di
Giove, ci par di vedere, e ascoltare quello, che leggiamo. Queste son le
perfezioni di Platone, veramente maravigliose: le quali, sebben saranno
considerate, non ci rimarrà dubbio alcuno, che lo scrittore del dialogo
non sia imitatore, o quasi mezzo fra il poeta e il dialettico. Àbbiam
dunque, che IL DIALOGO sia imitazione di ragionamento , fatto in prosa per
giovamento de- gli uomini civili e speculativi, per la qual cagione egli
non ha bisogno di scena o di palco : e che due sian le specie, l' una nel
soggetto della quale sono i problemi, che risguardano l'elezione e la
fuga: l'altra speculativa, la qual prende per subietto quistione, jche
appartiene alla verità e alla scienza; e nell'una e nell'altra non imita
splamente la disputa, ma il costume di coloro, che disputano, con
elocuzioni in alcune parti piene di ornamento, in altre di purità, come par,
che si convenga alla materia. Tasso. Tasso. Cornello. Keywords: l’arte del
dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tasso”, “Grice e Cornello” – The
Swimming-Pool Library. Cornelio.
Grice e Cornificio: la ragoone
conversazionae e la vera etimologia -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza. (Roma). Filosofo
italiano. Autore di un’opera etimologica in tre libri, composta fra il tempo di
Cicerone e Ottaviano. Das Werk des C. Longus de etymis deorum. a) Prise. GLK, C. in 1 de
etymis deorum. Macr. C. etymorum libro tertio. Cornificius in etymis: vgl. noch
wo Anschlufs an die stoische Philosophie (vgl. W. A. Baehrens, Hermes; K.
Reinhardt, Kosmos und Sympathie, München); Arnob., Festus, M. bemerkt bezüglich
der Etymologie von Minerva: C. vero, quod fingatur pingaturque minitans armis,
eandem dictam putat. (nare); (nuptiae); (oscillare); (Rediculus; s. Ed. Meyer,
Herm. (lalassus). Der bloße Name
Cornificius ohne Glosse erscheint. Das diese Glossen aus dem Werk „de etymis
deorum" geflossen sind, vermuten R. Merkel. Ovids Fasten, Berlin.; Th. Bergk, Kl. phil.
Schr. Willers, De Verrio Flacco glossarum interprete disput. crit., Halle. C.
hat dann auch andere als Götteretymologien behandelt, vermutlich wenn er von
Kultusgebräuchen und Kultus-einrichtungen sprach. Wahrscheinlich dürfen wir den
gleichen Schriftsteller finden auch in dem C. Longus bei Serv. Aen., wo es sich
ebenfalls um Etymologien handelt: invenitur tamen apud C. Longum lapydem et
Icadium profectos a Creta in diversas regiones venisse, lapydem ad Italiam,
Icadium vero duce delphino ad montem Parnasum et a duce Delphos cognominasse et
in memoriam gentis, ex qua profectus erat, subiacentes campos Crisaeos vel
Cretaeos appellasse et aras constituisse.
Dieser kann dann aber nicht
identisch sein mit dem Dichter und Feldherrn C. (Bergk.),
der nie den Beinamen Longus trug, den außerdem die Zeitverhältnisse unmöglich
machen. Denn der Verfasser der etymo'ogischen Schrift zitiert nach Macr.das
Werk Ciceros de natura deorum, das im J. 44 erschien, so das sie in den
folgenden drei Jahren von dem stark beschäftigten Statthalter Afrikas hätte
geschrieben sein müssen. Benutzt hat dann Verrius die Abhandlung 'de etymis
deorum'. — J. Becker, C.Longus und C. Gallus, Ztschr. für die Altertumsw. Wissowa,
Realenz.; Funaioli 473. A stoic wrote a book on etymology. Cornificio Lungo.
Cornificio.
Grice
e Cornuto: la ragione conversazionale a Roma antica -- filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). A slave in Rome, he became one of the city’s leading
intellectuals. A member of the porch. The name Anneo points to a connection of
some kind with the family of Seneca. He taught rhetoric and philosophy, his
pupils including Agathino, Petronio Aristocrate, Lucano, and Persio. In his
will, Persio left C. his books, which he accepted, and his money, which he
rejected. He
was sent into exile by Nerone. He wrote an influential commentary on
Aristotle’s Categories. He argues that the categories reflect divisions within
language, rather than within reality. In a different essay, the Epidrome, he
surveys the myths and by means of linguistic analysis and allegorical
interpretation he seeks to extract what he considers to be their true meaning. Lucio
Anneo Cornuto Cornuto. Cornuto.
Grice e Corrado: la ragione
conversazionale e la dieta di Crotone e
la semiotica magica– filosofia italiana – Luigi Speranza (Oria).
Filosofo italiano. Grice: “I like Corrado; of course we have the beefsteak, the
English do; but Corrado philosophised on the near ‘cibo pitagorico’ a Crotone
and produced a philosophical cookbook for the noblemen!” -- Uomo di grande cultura, fu soprattutto grande
gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il '700 e l'800
nelle corti nobiliari di Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà
partenopea. E il primo cuoco che mette per iscritto la "cucina
mediterranea", il primo, a valorizzare la grande cucina regionale
italiana. Scrisse “Il cuoco galante”, definito all'epoca un libro di alta
cucina, testo richiesto in tutto il mondo dalle principali autorità dell'epoca,
e ristampato per ordini del principe per ben 6 volte. Preparava
elegantissimi banchetti in principio alla corte di Don Michele Imperiali
Principe di Francavilla presso il palazzo Cellamare di Napoli, dove coordinava
un piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi e preparava i
pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con
tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine
di formare una coreografia sontuosa e raffinata. Figlio di Domenico e di
Maddalena Carbone. Rimasto orfano per la morte del padre, ancora adolescente, divenne
paggio alla corte di Michele Imperiali che era Principe di Modena e Francavilla
Fontana, Marchese di Oria e Gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due
Sicilie, che lo condusse a Napoli dove risedette per diversi anni. Appena
maggiorenne, entrò a far parte della Congregazione dei Padri Celestini nel
convento di Oria. Dopo l'anno di noviziato, fu chiamato dal Superiore
Generale De Leo nella residenza napoletana di San Piero in Maiella, dove si
specializzò negli studi di filosofia. Dallo stesso padre generale fu avviato,
anche, allo studio delle scienze naturali e dell'arte culinaria, per la quale
divenne famoso. Non diventò mai sacerdote per cui, dopo la soppressione degli
ordini religiosi si stabilì a Napoli, ove risedette per oltre cinquant'anni,
insegnando la lingua francese ai figli delle famiglie aristocratiche della
città, pubblicando contemporaneamente molte sue opere che gli diedero successo
e notorietà. Per i molti impegni che ebbe a Napoli, non tornò più ad Oria,
anche se non mancarono momenti di nostalgia per la lontananza dalla sua
famiglia e dalla sua città natale. Il Principe di Francavilla gli
attribuì la mansione di Capo dei Servizi di Bocca -- antica mansione con cui
veniva chiamato colui che era preposto a sovrintendere alla cucina, alla
preparazione delle vivande e all'organizzazione dei banchett -- di Palazzo Cellamare, sito sulla collina delle
Mortelle prospiciente il golfo di Napoli e della famiglia del Principe, poiché
molti illustri personaggi di un certo livello e rango, che venivano a Napoli,
invitati a mensa poterono constatare la fama di questa opulenta ospitalità più
spagnolesca e tipicamente partenopea che era in uso al tempo. Parlando
del suo lavoro Vincenzo Corrado così si esprimeva: «L'abbondanza, la
varietà, la delicatezza delle vivande, la splendidezza e la sontuosiotà delle
tavole richiedevano una schiera di uomini d'arte, saggi e probi. Questa
mastodontica organizzazione, era guidata proprio da lui. Alle sue dipendenze
lavoravano un maestro di casa, un maestro di cucina ed un maestro di scalco che
aveva il compito di acquistare, di cucinare, di dissodare e di trinciare ogni
tipo di animale, mentre una schiera di cuochi, rispettando la gerarchia allora
in uso, lavorava secondo la propria specializzazione (oggi le grandi cucine dei
Ristoranti hanno i cuochi di rango): vi era il cuoco friggitorie, quello per le
insalate, il pasticciere, il bottigliere e il ripostiere. Tutti questi erano
aiutati da una serie di sguatteri e di serventi che avevano il compito di
girare intorno al tavolo per esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima
ancora di servirle. Tutta questa organizzazione era coadiuvata da un piccolo
esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi che interveniva non appena
il servizio di cucina consegnava le varie portate artisticamente decorate.
Vincenzo Corrado, a seconda degli ospiti del Principe preparava i pranzi o le
cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e
particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una
coreografia sontuosa e raffinata. Egli stesso ci descrive queste splendide
composizioni con pregevole gusto e raffinatezza, lasciando, anche, delle
visioni grafiche. Gli elementi decorativi della tavola erano affidati al
maestro ripostiere che usava gusto artistico e genialità: grandi vasi in porcellana
ricolmi di fiori variopinti, alzate di cristallo e argento a tre o quattro
piani colmi di dessert o frutta o fiori o ortaggi, bianchi gruppi di porcellana
raffiguranti scene arcadiche o bucoliche; puttini d'argento; gabbiette dorate
con piccoli uccellini cinguettanti; coppe di cristallo di varie fogge in cui
guizzavano pesciolini tra foglie di rose ed altri fiori. Il centro veniva
racchiuso da una cornice di frutta, di fiori freschi e di ortaggi, secondo la
stagione variante, disposti, intervallati da piccole spalliere di agrumi in
porcellana con ortolani nell'atto di raccoglierli. La composizione era la
sintesi di un artista di provata esperienza, di raffinata fantasia e di vivace
estro, capace di accoppiare tanti svariati elementi fondendoli insieme a
formare uno spettacolo di gran gusto e di particolare gradevolezza. Il valore
del tavolo di gala completato dal vasellame, cristalleria e argenteria di
grande pregio era inestimabile. Questo senso artistico, anche, nell'arte
culinaria C. lo aveva ereditato da un suo antenato letterato di mestiere. Ma
per quanto dotato di una cultura autodidatta, di vivacità d'ingegno, di
originalità e di una particolare facilità nell'insegnamento, se non avesse
avuto la fortuna di conoscere Don Michele Imperiali, che ne coltivò le
particolari doti incoraggiandolo a scrivere della sua specifica arte per
tramandarla ai posteri, probabilmente sarebbe rimasto un ottimo organizzatore,
un appassionato gastronomo, ma la sua fama si sarebbe estinta con lui. Le
opere “Il cuoco galante’. Il primo libro vegetariano della nostra storia. il
credenziere: colui che si prendeva cura della credenza. L'opera fu sottoposta a
ben 7 ristampe. Prodotta in 7500 copie, Dalla dedica si ricava il leitmotiv
dello scritto nonché la filosofia in cui credeva l'autore, che è di questo
tenore: il “buon gusto nella tavola” inteso come “sano pensare”. Di questo trattato
di gastronomia, il successo fu istantaneo e inaspettato, in quanto la
precedente opera gastronomica, La lucerna dei cortigiani, stampata presso
Napoli e dedicata a Ferdinando II duca di Toscana, non era riuscita ad attirare
l'interesse del pubblico che la trascurò ignorandola. Invece grande
successo ottenne la prima edizione del "Cuoco Galante" che si esaurì
rapidamente, tanto che il Principe ne ordinò una seconda edizione che ebbe
eguale successo. Intanto Vincenzo Corrado migliorò e ampliò il testo di questa
opera e ne preparò una terza edizione. La fama del libro superò i confini
del Regno di Napoli e dell'Italia; infatti dall'estero giunsero richieste da
tutti quegli stranieri che avevano conosciuto ed apprezzato il Corrado alla
corte degli Imperiali, per cui si pervenne ad una quarta edizione, seguita dalla
quinta e infine la sesta pubblicata. Assolute novità introdotte dall'autore
erano allora la patata, il pomodoro, il caffè e la cioccolata. Altre
saggi: Incoraggiato dal successo del Cuoco Galante, il Principe spinse l'autore
a pubblicare nel un Credenziere del buon gusto, del bello, del soave e del
dilettevole per soddisfare gli uomini di sapere e di gusto. Egli scrive e
pubblica inoltre “Il cibo Pitagorico”, “Trattato sulle patate”, “Manovre del
cioccolato” e “Manovra del caffè”; “Trattato sull'agricoltura e la pastorizia
ed infine, “Poesie baccanali per commensali”. -- è il faro della cucina moderna
della nobiltà a cavallo del periodo della rivoluzione francese. Egli privilegia
i personaggi di rango in visita alla mensa del principe con opulenta
ospitalità. Orbene in questo contesto di sfarzo godereccio, di lusso e di differenze
sociali abissali, rimase fin abbagliato dalla nobiltà, la gente ricca e
potente, verso la quale nutre sempre sentimenti di grande reverenza se non
addirittura di venerazione. Proprio per riconoscenza al Principe, dando alle
stampe i suoi due libri, confessa. “Questi due libri che del buon gusto
trattano, con la guida e norma scrissi, e pur mercé la tua generosità mandai
alle stampe, e tu di propria mano ne *segnasti* il titolo “Il Cuoco Galante” --
l'uno e “Il credenziere del buon gusto” l'altro, tutti e due a te li porgo come
frutto di un albero dalla mano piantato. Mio Scopo egli è di richiamare alla
memoria dei nobili uomini dei quali tu fosti la gloria l'ornamento alla memoria
e la lode. Ah? Ma qual Tu fosti non basterebbe di dire di cento e mille lingue,
per cui io stimo meglio il tacere e con il silenzio benedire gli anni che ti fu
appresso. L'organizzazione dei magnifici
banchetti e delle cene lussuose gli diedero l'appellativo di “il cuoco
galante”. La cosa straordinaria è che dietro gli scenari di un favoloso pranzo
o cena vi era una preparazione, quasi orchestrale della quale il direttore era
il filosofo. Alle sue dipendenze vi era una vera e propria squadra di addetti
alle cucine formata da precettori cuochi e servienti. La presentazione
estetica, oltre al gusto, acquista la sua importanza in cucina, ed dedica
grande spazio alle decorazioni e al modo di imbandire le tavole dei banchetti.
Nell'opera sono anche presentati i sorbetti, in vari gusti, ed il caffè, che, a
differenza dall'attuale espresso, veniva bollito in apposite caffettiere.
Precettori un precettore di alloggio e sistemazione posti per gli invitati, un
precettore di preparazione dei cibi, un precettore abile con utensili
domestici, che aveva la mansione di far provviste e comperare il necessario al
mercato per le mense, di dissodare e di affettare ogni tipo di carne o pesce.
Chef e Cuochi “Il cuoco friggitore”, il cuoco per le insalate, il pasticciere,
il bottigliere, il ripostiere. Serventi lavapiatti,
camerieri, maggiordomi, domestici, volteggianti e giullari che
intervenivano non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate
artisticamente decorate. Non era solo una semplice cena, era un vero e
proprio spettacolo, fuori dall'immaginato. A volte comprendeva l'utilizzo di
100 persone per altrettanti o più invitati. I banchetti o le cene con
caratteristiche e assortimenti di piatti erano accoppiate con tanta inventiva e
particolari astuzie architettoniche ed eleganti al fine di plasmare una
scenografia sfarzosa e affinata. Egli stesso nelle sue opere e nei suoi
diari ci descrive queste splendide composizioni culinarie come opere d'arte,
quasi uno spreco consumarle. Bicchieri e coppe di cristallo, posate in argento
intagliate, tovaglie di pizzo fiorentino, buche e composizioni floreali, piatti
in porcellana di Capodimonte. Termini culinari "Il Cuoco Galante",
proprio nella terza edizione, alfine di una maggiore comprensione, spiega
alcuni termini "cucinarj" usati per la preparazione delle varie
pietanze, ne riportiamo un esempio: Bianchire: Far per poco bollire in
acqua quel che si vuole; Passare: Far soffriggere cosa in qualsiasi grasso;
Barda: Fetta di lardo; Inviluppare: Involgere cosa in quel che si dirà;
Arrossare: Ungere con uova sbattute cosa; Stagionare: Far ben soffrigere le
carni o altro; Piccare: Trapassar esteriormente con fini lardelli carne; Farsa:
Pastume di carne, uova, grasso ecc.; Farcire: Riempire cosa con la sarsa;
Adobare: Condire con sughi acidi, erbette, ed aromi; Bucché: Mazzetto d'erbe
aromatiche che si fa bollire nelle vivande; Salza: Brodo alterato con aromi,
con erbe, o con sughi acidi; Colì: Denso brodo estratto dalla sostanza delle
carni; Purè: Condimento che si estrae dai legumi, o d'altro; Sapore: La polpa
della frutta condita, e ridotta in un denso liquido; Entrées: Vivande di primo
servizio; Hors-dœuvres: Vivande di tramezzo a quelle di primo servizio;
Entremets: Vivande di secondo servizio; Rilevé: Vivande di muta alle zuppe, potaggi,
o d'altro. Pitagora nell’atto, che dalla
cattedra nella nostra italica scuola dettava sistemi, che riguardavano quanto
mai fosse fuori di esso lui, e di noi per pascere l’animo e l'intelletto, non
trascure di sistemare peranche ciò che meglio, e piu opportunamente al
nutrimento ed alla conservazione del meccanico nostro vivere conducesse. E però
dettando il canone o la legge, come dir si voglia, per la cucina delli suoi
mentati, non di *carni* di animali ei ditte quadrupedi, o volatili, o di pelei
imbandite vengano le mente di quanti han voglia di più lungamente, e più
lanamente vivere, ma soltanto di vegetabili erbe, di radici, di foglie, di
fiori. Ebbe cotesso filosofante la somma disgrazia di non essere da ogni
filosofo inteso, come sovente la savia donna stobeo sua moglie e espose li g
luf'J\ l&- r menti: e com’egli la tras-migrazione dell’anime avesse
ingegnata, così dalli silenziari scolari suoi, e da parecchi altri prevenuti da
quel di lui fatto sistema si divieta del cibo animalesco, e la preferizione del
solo cibo erbaceo furon pref nel sinistro senso di una supertiziosa venerazione,
cK egli aveffe per l’animale, nella macchina del quale l’anima dell’uomo dopo
la morte fojfcro tras-migrate. Ma ’ che chefané di ciò, egli è indubitata cosa,
che il cibo erbaceo fallo più confacenti all’verno, per cui vedef la più parte
dei Naturalifi a quella opinione indicimata, che l'uomo naturalmente non è
carnivoro. E se noi ponghiamo mente al parlare dell’antica filosofia, rilevaremo
con tutta chiarezza che le frutta della terra defluiate vennero al nutrimento
dell'uomo, e che sopra del pesce, dell’animale terrestre, e del volatile n eh
he lo fie[fio uomo soltanto il domini; Jlcchè l efifierfii poi dati alcuni
uomini ad alimentarsi di animali j'offe fiata una necessità di alcuni luoghi,
oppure un lusso! Non senza ragione quindi la italiana gente, ansi avvedutamente
oggi più che in altro tempo la legge pitagorica ha ripigliata ad oficrvare con
tutto impegno nella cucina del filosofo galante, e nelle mensa: e le nazioni
anche più culte, che da Italia sono lontane, han preso il gufo di dare al corpo
nutrimento più sano, gusiosso, e facile per mezzo dell’erba. Ed ecco perciò
tutta la scuola cucinaria pofia in movimento per inventar un nuovo modo a poter
preparare e condire l’erba per mezzo di altri fingili vegetabili, onde non
solamente grato al palato si renda il semplice pitagorico cibo, ma eziandio
pofia sioddisfarsii al lusso nell' imbandire laute Menfie da filmili
siempìicità compofie. E quesio è il fine della mia filosofia, difiefio, ed a
comune uso e utilità. Vero egli è, che non tutti li vegetabili dei quali ferie
preferìve qui la preparazione filano li più perfetti, e giovevoli ai nutrimento
nostro. Ma ciò ha dovuto farsi per accomodarsì af gufo comune, ed alla moda
presiente della tavola fu,di che qualunque Aristarco non avrà che opporre.
Nella mia filosofia volendosi imitare la filmile semplicittà della materia del
soggetto, con sempiice e chiaro discorso si da la pratica come ogni erba
italiana dando il suo proporzionato condimento con fughi di carne, con latte
Animali, e di fórni, con butirro, con olio, con uova, e con altr’erbe odorifere
e gusiofe debano preparar f. E intanto per a et tare, ad ogni articolo alcuna
cosa verrà premefi, che rifguarda la natura, e le virtù del vegetabile di cui
fe ne voglidn preparare la vivanda. E già qui fiegue in prima, la maniera di
far i brodi, i coli e le buri neceJTarj
pel condimento: ed in secondo luogo h nòta del vegetabile del quale nella mia
filosofia fe ne preferivo il modo di prepararli: avendo io in ciò fare
procurato di mettere in J'alvo anche il Injjo nell' imbandire con simili generi
una mensa di formalità e gala, e nel tempo Jìeffo di soddisfare il gusto
delicato dei nobili, e di provvedere alla conservazione dell’utterato. INDICE:
Velli Brodi, Coli, e Purè p. I Velli Coli a Velie Purè i tutta la c minarla
prepa- ragione de’ vegetabili, Lattuca, Spinaci, Cavolo Cappuccio, Selleri,
Zucca, Zucca lunga ia Delle Zucche Vernine ivi Cavai fiore Finocchi Iudivia
Cardoni Cavoli Torgi Carciofi Broccoli Boraggine Senape Cipolle ivi Rape
Ravanelli CicoriaPetronciane Pafiinacbe Pomidoro Cedriuoli Peparoli Pifelli
Sparaci Raperortzpli Velli Ceci Fave Faggioli 3^ De//** I-enfe 39 Funghi
Tartufi Erba per condiment, Maggiorana, Targone, Pimpinella, Santa Maria
Crefcione Origano Timo Acetofa Salvia Menta Cerfoglio Porcellana Bafiltco Ruta
Sambuco Rosmarino Tralci Vite Zafferano Anafi Cappari Scalogne Dettagli Rafano
o Ramolaccio Bettonica Idea dell'ufo delle frutta ivi. Grice: “My favourite
chapter from ‘Il cuoco galante’ is the philosophical one, on Pythagoras! I
vitto pitagorico consiste l’erba fresca, la radice, il fiore, la frutta, il
seme, e tutto cid che dalla terra produce per nostro nutrimento. Vien detto
pittagorico poiche Pitagora, com’ è tradizione, di questi prodotti della terra
soltanto fece uso. Pitagora mangia l’erba semplice e naturale, ma gli uomini
de’ nostri di li vogliono conditi, e manovrari; ed io nel voler conversare con
distinzione dell’erba procuro eseguire l’uno, e soddisfare l’altro, con
escludere le carni, e di servirmi del condimento, anche pitagorico, com'è il
ſugo di carne, il lasase, le uova, l’olio, ed il burirro per compiacere qualche
particolar palato, servirmi pure delle parti più delicate degli animali. Molte
fonti filosofica suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la
semiotica e la filosofia: entrambe le pratiche, infatti, figurano come doni di
Apollo e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel
Simposio: "In verità, Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la
medicina e la divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista
semiotico, che le due pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui
segni, siano avvertite come originariamente collegate. E un effettivo stretto
collegamento esse lo trovano nella figura antichissima dello iatromantis, il
filosofo-cum-medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la
capacità di curare le malattie. L'appellativo del filosofo come iatromantis è
riferito in prima istanza allo stesso dio Apollo; ma passa poi a una serie di
filosofi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e
della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento
fondamentale che caratterizza la figura dell filosofo iatromantis è la sua
capacità di usare una procedura diagnostica: trattandosi di un veggente, egli
è in grado di individuare la causa nascosta (il segnato) di una malattia (il
segnante), causa che è da attribuirsi sempre a un intervento sopra-naturale.
In epoca antichissima, la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità divina o demonica. Si
tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in
una religione italica pre-olimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata;
Detienne; Dodds; Lloyd; Parker. Un'ampia panoramica sul movimento magico e
catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde. Per questa ragione, c'è
bisogno di un filosofo-cum-medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli
rendono accessibile il mondo delle forze oscure e sopra-naturali alle quali è
imputato il presente stato di contaminazione; in seguito alla sua diagnosi, il
filosofo-cum-iatromantis [those spots mean measles, black cloud means
rain] può indicare gli strumenti magici atti a purificare il miasma. Questa
concezione è ben iliustrata da una notizia di un filosofo della scuola
pitagorica a Crotona, Alessandro Poliistore, che cita le "Memorie
pitagoriche"."L'aria, secondo i pitagorici, è piena di anime. Ed essi
le considerano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uomini
i sogni e i segni premonitori (semeia) e le malattie, e non solo agli uomini,
ma anche alle greggi e agli altri animali da pascolo. E a questi demoni ed
eroi sono dirette le cerimonie catartiche e apo-tropaiche e tutta la mantica e
i vaticini e tutto ciò che è di tal genere" (Diog. Laert., Vitae, D-K). Va
notato, di sfuggita, che il carattere italico molto arcaico della concezione
espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle
stesse vicende della comunità umana. C'è la rappresentazione di una comunità
agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile (Cfr. Deticnne
(1963: 32). Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una semiologia
SACRA e magica abbinata a una filosofia esoterica e medicina magica. I demoni
sono la fonte delle malattie che affliggono gli uomini. Ma, contemporaneamente,
sono anche la fonte dell'informazione che concerne il mondo in-visibile o
in-perceptibile, in-sensibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel
particolare tipo di segno che sono i sogni) dai quali si rende riconoscibile
l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude
attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti
catartici e apo-tropaici. In particolare, le cerimonie apo-tropaiche sono
costituite dalla recita di epoidai, cioè di formule verbali incantatorie,
ritenute idonee a scongiurare il male. Si tratta di segni linguistici che da
una parte chiudono il circuito comunicativo con il sopra-naturale, dall'altra
sono efficaci, nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo.Grice:
“Oddly, my mother was keen on Mrs. Beeton, I’m keen on Signore Corrado!”
La cucina e la credenza, ad esami parlando, son sorelle gemelle, poichè
le due appartengono al buon gusto del cibo, e le due nacquero, cresceron, e
s’ingrandirono nello stesso temp, e nella nostra Italia che in altri luoghi,
sotto i fastosi e dominanti romani, e divennero tutte e due arti d’ingegno, di
piacere, e di utile; ed il cuoco ed il credenziere debbono esser d'accordo nel
loro, quantunque dissimile, lavoro. Della estesa ed elevata cucina se n’è
discorso abbastanza. Dico abbastanza ma non già al fine; e compimento, poichè
ciò accade quando non vi saranno più uomini al mondo. Ora vengo a trattare di
quanto la credenza include, e di quanto un credenziere dee esser fornito. E se nel
dar l’istruzione per la cucina pensai e scrissi da cuoco, ura collo stesso
metodo filosofo da credenziere. Come tale intendo ragionare al dilettante.
Procuro di aggiugnere quanto di bello, di buono, e di dilettevole mi ha potuto
suggerire la fantasia. Gradisci dunque, o cortese mentato, questa mia fatica, e
sappi, ch’io resto soprabondevolmente pagato col piacere di avervi servito.
Vivi felice. Vincenzo Corrado. Corrado. Keywords: la dieta di Crotone, il cibo
pitagorico, il concetto di conversazione galante, gala --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corrado” – The
Swimming-Pool Library. Corrado.
Grice e Corsini: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia in roma antica
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Fellicarolo). Filosofo italiano. Grice: “I like Corsini; if we at Oxford had a sublime
history as they do in Italy, we surely would be philosophising about it!
Corsini taught philosophy at Pisa and spent most of his efforts in deciphering
what the Romans felt interesting about Greek philosophy!” Grice: “Corsini also
explored the roots of Roman philosophy from the earliest times – ab urbe condita,’
as the Italians put it!” Studia nel Collegio dei padri scolopi fananesi, dove
in seguito entra quale novizio e si
trasferì nel Noviziato di Firenze. Le sue capacità lo portarono a
diventare docente di filosofia a soli vent'anni presso la stessa scuola. Si
trasferì quindi a Pisa dove insegna. Eletto Superiore Generale e dovette
trasferirsi a Roma. I principali campi di studio ai quali si applica
furono: la filosofia, la cronologia, l'epigrafia, la filologia e la numismatica
ma si interessò anche di matematica, di logica, di fisica, di idraulica, di
didattica, di storia e di lettere antiche e moderne. Altre opere: “Illustrazione
relativa alle recensioni su De Minnisari e Dubia de Minnisari pubblicate ne gli
Acta Eruditorum; “Illustrazione relativa all'Epistola ad Paulum M. Paciaudum, pubblicata
negli Acta Eruditorum”; “Ragionamento istorico sopra la Valdichiana” (Firenze);
“Index notarum Graecarum quae in aereis ac marmoreis Graecorum tabulis observantur”
(Firenze); “De Minnisari aliorumque Armeniae regum nummis et Arsacidarum epocha
dissertation” (Firenze); A. Fabbroni, Vitae Italorum..., Pisis E. de Tipaldo, Biografie degli italiani
illustri, X, Venezia); Dizionario
biografico degli italiani. Elogio di C. (con lettere di Fananese a Rondelli). Fanani
nianae, quod in ditione est oppidum Ducum provinciae Ateftinorum Fri, III. Non.
natus eft C. optimis quidem parentibus, honestissimaque familia, quippe quae
jamdiu civitate Mutinensi donata fuerat. Is ubi primum adolevit Sodalitatem
hominum Scholarum Piarum, quos praeceptores puer in patria habuerat, ingressus
est. Multa diligentia, multoque labore in humaniorum litterarum [cf. Grice,
Lit. Hum.], philosophiae ac theologiae studiis Florentiae se exercuit apud
suos; & cum omnes condiscipulos gloria anteiret, ab omnibus tamen in
deliciis habebatur. Erat enim bonitate suavitateque morum prope singulari;
& cum plurimuin faceret non solum in excolendis studiis, sed etiam in
officiis omnibus religiosi hominis obeundis, minimum tamen ipse de se
loquebatur. Vix ferre poterat Eduardus peripateticos quofadam horridos, durosque
oratione & moribus, quibuscum versari cogebatur; intelle xeratque jam
falsos hujusmodi sapientiae magistros de veritate jugulanda potius, quam de
fendenda assidue certantes, philosophiam artem fecisse subtiliter &
laboriose infaniendi. Relictis igitur disputandi spinis, ad Academiam se convertit,
cujus ratio inquirendi verum libero folutoque judicio, & fine ulla
contentio ne & pertinacia non poterat non magnope reprobari homini natura
leniſſimo. Nec forum in philosophorum libris corum dogmata, quae disputationibus
huc & illuc trahuntur, ut ipse per se perpenderet, inveſtigavit C., sed
etiam philosophiae adminicula & an ſas, qualem Xenocrates geometriam
appellabat, in Euclide, Apollonio & Archimede quae sivit. Quo in itinere
felicem adeo habuit exitum, ut fervore quodam aetatis impulsus, břevi condere
potuerit libellum de circulo quadrando, quem ad Guidam Grandium mi fit. Novit
in eo Grandius eximium & admirabile adolescentis ingenium, eumdemque
hortatus est, ut pergeret porro in eo studio, quod ceteris & studiis &
artibus antecede ret, & in quo ipse futurus effet excellens. At C. praeſertim
trahebatur ad humaniores litteras, quibus a puero mirifice dedicus fuerat,
quaſque vel in sublimiorum disciplinarum occupationibus, ne obsoleſcerent,
legendo renovaverat. Itaque moleste tulit demandatam fibi a majoribus fuisse provinciam
tradendi publice FIRENZE philosophiam, quasi ad ea detru deretur, quae sui non
essent ingenii. Principio sequi coactus est Goudinium, cui brėvi substituit
Hamelium. Atque hos auctores sic interpretatus est, ut facile intelligeretur
non eſſe ex illorum doctorum numero, pud quos tantuin opinio praejudicata
poteſt, ut etiam fine ratione valeat auctoritas eo rum, quos ſequi ſe
profitentur. Poftremo ad ſcholae fuae utilitatem et ornamentum maxime pertinere
exiſtimavit, fi e multis, quae ſunt in philoſophia & gravia & utilia a
recentioribus praefertiin FILOSOFI tracta ta, quantum quoque modo videretur
deli geret, in quo adoleſcentes exerceret. Sa pienter etiam faciebat, quod
ipſos non ſolum quibus luminibus ab illa omnium laudanda rum artium
procreatrice Philoſophia petitis a mentem illuſtrare, fed etiam quibus virtuti
bus omnem vitam tueri deberent fedulo e rudiebat. Quare minime eſt mirandum fi
in tantam claritudinem brevi pervenerit, ut fuis & Florentinis vehementer
carus, quibuſdam vero hominibus nudari ſubfellia ſua, & cor nicum oculos
configi dolentibus eſſet invim diofifſimus. Fuerunt & nonnulli (tantum in
vidia, aut inſcitia potuit ) qui apud eos, quorum munus eſt providere, ne quid
er roris in religionem moreſque irrepat, Corſi nium accufarunt, multa illum
tradere, in exponendis praeſertim Gassendi & Cartesio ſententiis, a recta
religione abhorrentia. Stomachatus eft homo religiofiflimus, caftif fimuſque
obtrectatorum temeritatem. Hos ve ro ut falſae & iniquae inſimulationis
publi ce convinceret, utque ab omni metu diſci pulos fuos liberaret, ftatuit in
lucem profer re, quae in ſchola & domi iiſdem expoſue rat. Quod cum
praeftitiffet, id evenit, ut alteros reprehendiſſe poeniteret, alteri fe di
diciſſe gauderent. Inſcripfit opus: Inſtitutio nes philoſophicae ad ufum
Scholarum Piarum, & illud in quinque volumina diſtribuit si ma mum continet
hiſtoriam philoſophiae & lo gicam; ſecundum verfatur in indagandis prin
cipiis, & tanquam feminibus unde corpora funt orta & concreta, horumque
proprieta tibus & qualitatibus; agit tertium de cor poribus inanimatis,
quae caelo, aere, ri & terra continentur; examinat quartum animata corpora,
multipliceſque eorum fpecies, et elementa metaphyſicae tradit; quia tum denique
morum doctrinam complectitur. Nec folum in conficiendis his libris res no vas
inveſtigavit C., fed etiam eas, quae funt ab antiquis traditae, quarum
cognitionem eo utiliorem putavit, quod faepe. philoſophos nova proferre
judicamus, cum pervetera proferant. Praeter quam quod in ea erat opinione C.,
illi, fitum eſt veritatem invenire, fingulas nofcen das effe diſciplinas, ut ex
omnibus, quod probabile videri poſſit, eliciat, praeſertim cum doceamur a
ſapientiffimis viris, nullam fectam fuiffe tam deviam, neque philoſopho rum
quemquam tam delirantem, qui non vi derit aliquid ex vero. Nec modo quid fibi
probaretur, fed aliorum etiam fententias, & quid cui propo quid in quamque
ſententiam dici poſſet, pera fecutus eſt, quod ea modeſtia praeſtitit, ut: non
vincere maluiſſe, quam vinci oſtenderid. Hanc opinionum varietatem ex fuis fone
tibus fincere deductam, ut potentius in die fcipuloruin animos influeret, non
modo ora, vine diſpoſuit., ſed etiam claritate & nitore, LATINO SERMONE
illuſtravit. Praeclare enjin, CICERONE: mandare quemquam litteris cogitationes
fitas, qui eas nec difponere poffit, nec illuftra-: re, nec delectationé.
aliqua lectorem allicere, hominis est. intemperanter abitentis otio & like
cris. Sunt nonnulli qui in hiſce. Insitus, rionibus dum pleniflimo ore laudant
ima menſam prope eruditionis copiam,, politio remque elegantiam, quibus
ornantur, defide; rare videntur abditiorem 'reconditioremque tractationem earum
rerum, quae primum ii) phyſica tenent locum, quales ex. gr. ſunt Trotus.,
Newtoniana' attractia, harumque lo ges, non tam.ut ceteros, quam ut ſe ipſum,
qui nunquam adduci potuit, ut Newtoni fententiae affentiretur, convinceret. Sed
ii meminiſſe debent quibus ſcripſerit:C., hribuſque temporibus ſcripferit.
Quoniam ve to plurima ſunt in phyfica, quae fine 'gea metriae ope tractari non
poffunt, hoc quo que adjumențum a fe afferri oportere diſci pulis ſuis putavit.
Itaque Philoſophicis Ma thematicas Institutiones adjecit, in quibus fi ordinem
excipias (initium enim facit a pro portionibus, quas nemo ignorat difficillimam
effe geometriae partem) cetera ſatis belle procedunt. Neque multo poft retexuit
hoe ipſum opus, in quo eo elaboravit attentius, quod fperabat aditum fibi
facturum ad mu nus tradendi mathematicas diſciplinas in LIZIO Florentino.
Acceptum illud cum plauſu fuit propter dilucidam brevitatem atque ele gantiam,
licet in eo acutiores peritioreſque geometrae pauca quaedam jure ac merito
teprehenderint. Praeſtantiam, quam conſe cutus fuerat C. in rebus geometricis,
yoluit ad hydroſtaticam transferre; cumque fedulo evolviffet quae in ea
facultate ſcris ptis mandaverant poft GALILEI (vide), BRUNI Torricellius,
Michelinius, Guglielminius, Grandius, alii. que pauci, in ſcenam prodire non
dubitavie fuftinens perſonam non modo conſiliarii & arbitri de dirigendis
avertendiſque aquis, ſed etiam ſcriptoris. Etenim ex ejus officina prow diit
liber, qui infcriptus eft: Ragionamenti intorno allo stato del Fiume Arno e
dell' acque della Valdinievole, quique editus fuit fum ptibus. Marchionis
Ferronii, cujus cauffam praeſertim defendebat. Spe dejectus Eduar dus
perveniendi in LIZIO Florentini docto rum numerum, qui praeter modum iis tem-.
poribus. creverat, animum ad Academiam Piſanam convertit, petiitque dari ſibi
va cuum eo tempore logicae interpretis locum. Celeriter quod optabat impetravit,
propte rea quod Joannes Gaſto Magnus Etruriae Dux eximiam illius ſcientiam in
omni re philo ſophica cognoverat. Vir non tam doctrina praeſtans, quam docendo
prudens (etenim quaedam etiam ars, eſt docendi ) magno erat emolumento
ſtudiofis adoleſcentibus, qui non uſitata frequentia fcholam illius celebrabant.
Cum vero de fchola in otium folitudinem que se conferret, tempus potiffimum
conſu mebat in augendis. perficiendiſque ſuis Phi lofophicis Institutionibus,
abſolvendoque, quod inſtituerat, opere de Practica Geometria. Ins ter haec
magna fuit amnis Arni inundatio,ut fi inundationes excipias, quae annis
acciderunt, nul lam unquam majorem fuiſſe conſtaret. Pere vaſerat opinio per
animos Florentinorum huic luctuofae calamitati cauſſam praefertim dediffe
Clanis aquas in Arnum deductas, & quae ad eaſdem moderandas aquas facta fue
rant opera. Hunc errorem ut eriperet Edu. ardus, utque perſuaderet eadem opera
fuiſſe utiliffima ac faluberrima, libro expoſuit qua lis fuiſſet, & quis
eſſet ſtatus Claniae val lis, quidque conſultum & actum ad fua uſque
tempora, ut peſti lentiſſima regio convaleſcere aliquando & fa nari
poſſeti, utque controverſiae inter finia timos Principes de dirigendis aquis
ejuſdem regionis tollerentur. Piſis erat C. con tubernium cum Alexandro Polito,
qui hum maniores litteras profitebatur, cujuſque vi tam ſupra explicavimus.
Hominis Graecis & Latinis litteris eruditiffimi exemplum & vo. ces,
ſelectiſſimorumque librorum copia, qua is abundabat, C. per fe jam flagran tem
vehementiffime incenderunt ad eas ar tes, quibus ab ineunte aetate deditus
fuerrat, celebrandas. Sciebat Graece, cujus ſermonis elementa juvenis
Florentiae acce perat a ſodali ſuo Franciſco Maria Baleſtrio, fed non
luculenter. Itaque multo ſudore ac labore in arte grammatica primum ſe exer
euit, poftea Graeca multa convertit in LATINVM, Graecorumque libros & eos
pracſer tim, qui res geſtas & orationes ſcripſe runt, utilitatem aliquam ad
dicendum aucu- | pans, ftudiofiffime legebat. Cum vero ei eſſet perſuaſum
ingentes ac prope immenſos cam pos illi proponi, qui eloquentiae ceterife que
humanioribus litteris vacare cupit, acom mico hac de re aliquando ſciſcitanti
reſpon dit: percipiendam ei effe omnem antiquitatem, cognoscendam hiſtoriam,
omnium bonarum artium ſcriptores & doctores & legendos & pervolu
tandos, & exercitationis cauſa laudan.los, in terpretandos, corrigendos,
refellendos; diſputan dumque de omni re in contrarias partes, & quid quid
erit in quaque re, quod probabile videre poffit, eliciendum atque dicendum.
Hujuſmodi exercitationes, quas diu incluſas habuit, Core finius in veritatis
lucem tandem proferre ſe poffe putavit, cum Faſtos Atticos illustrandos
fuſcepiſſet; magnum ſane opus & prae clarum, quod omnem fere Athenienfium
hi ftoriam complecti debebat, cum qua philofophiae, omniumque laudatarum artium
hi ſtoria arctiſfime eſt conjuncta. Diviſit illud ipſum opus in partes duas,
quarum prio rem veluti apparatum Faftorum effe voluit, quod in illa fuſe
lateque ea exponerentur, quae commode in ipfis Faftis, ad quos ta men
pertinebant, 'exponi haud poffe vide bantur. Agit itaque de Archontum inſtitu
tione, numero, varietate, muneribus & re rie, de Archontico anno, atque
ordine men fium Athenienfium. Cum vero Archontigiis annus non in menſes ſolum,
ſed in Pryta nias etiam diviſus eſſet, ac Tribuum Athe nienfium fingulae
aequali temporis, annique parte Prytaniae munere fungerentur, de ie pſarum
Tribuum ac Prytaniarum numero, ordine ac ſerie, deque Atticae populis, ex
quibus illae conſtabant, eruditiſſime differit. Neque ab his ſeparandam putavit
tractatio nem de Athenienſium Senatu & Ecclefiis, dcque Proedrorum, ac
Epiſtatum numero, diſtinctione & officiis. Tranſit inde ad contexendam Archontum
ſeriem diſtinguens eponymos a pseudeponymis. Quam diſtinctionem licet nonnulli
agnoverint, nemo tamen exſtitit, qui Pſeudeponymorum Archontum feriem
illuftrandae Atticae hiſtoriae maxime neceffariam recenſere tentaverit. Agit de
mum de civilibus Graecarum gentium annis, ipfarumque menfibus, cyclis atque
periodo, cum antea declaraſſet tempus, verumque di em, quo varia Athenienſium
feſta peragi & redire confueverant. Id facere neceſſe fuit propterea quod
eadem fefta, veluti perſpi cuae certaeque temporis notae, rerum gefta rum
memoriaé ſaepiffimè a ſcriptoribus adji ciuntur. Haec quidem in priori operis
par te. In fecunda vero Fafti exponuntur a pri ma Olympiade, qua Coroebus
palman retus lit, uſque ad Olympiadein cccxvi. Causa fuit juſta C. praetereundi
antiquiora tempora, quod iſta laterent craſſis occultata tenebris, &
circumfuſa fabulis. Ne tamen primam Athenienfis imperii formam deſpice. re
videretur (nam Athenis initio Reges, inde perpetui Archontes, mox decennales,
tandemque annui imperarunt) qui Reges & Archontes perpetui, & qua
aetate fuerint in Prolegomenis perſecutus eft. Ceterum Fa. ftos fic contexuit C.,
ut nullum ad nos pervenerit nomen Archontum, Olympioni čarum &
Pythionicarum, nulla lex, neque pax, neque bellum, neque caſus neque res
illuſtris & memoranda populi Athenien fis, quae in iis ſuo tempore non fit
notata. Interdum etiam attigit Spartanorum, Phoceli fium, Thebañoruin,
aliorumque Graecorum gefta, conſilia, pugnas, diſcrimina, quod ca maxime ſint
Atticae hiſtoriae conjuncta. Graecos vero philosophos, poetas, oratores, cete
roſque tum pacis, tum inilitiae artibus claros viros ita commemoravit, ut
quibus Olympicis annis, & quo loco in lucem fint editi, vitam que '
finierin't intelligi poffit. Atque haec o Innia capitulatim ſunt dicta. Etenim
nimis lon gus effem fi praecipua, & nova vellem deſcri bere, quae in his
Faftis continentur. Nihil poſuit in iis C. fine locuplete auctori täte &
teſte, aut faltem ſine probabili conje: ctura; quodque difficillimum fuit,
fcriptorum Graecoruin loca aut vitiata aut minime intel lecta, aut mutilata'ſic
reſtituit, illuſtravit, fupplevitque, ut dubitari poffe videatur plus ne jis
reddiderit luminis, quam ab iiſdem aco ceperit. Neque minori perſpicientia Athe
nienfium nummos vidit, ex quibus non pau. ca quidem in rein ſuam hauſit; ſed
multo plura e marmoreis monumentis fumpfit, ta li modo dirimens controverſiam,
quae ex fufcitata fuerat a ſummis viris Spanhemio, & Gudio, nummis ne, an
inſcriptionibus princeps locus dandus effet in explicandis ri tibus, feſtis,
Numinibus, ludis, magiſtrati bus, rebuſque geſtis Athenienfium. Inter
nobiliores inſcriptiones, quas refert Corfi nius, & miro prorſus acumine
atque eru ditione explicat, & interdum etiam fupplet, eft Florentina
quaedam apud Riccardios ile luſtrandis Athenienfium Tribubus maxime idonea. Sed
haec mirifice corrupta erat, au gebatque corruptelam collocatio. Etenim cum ex
tribus fragmentis conſtaret, imperi tus artifex fic illa in pariete
diſpoſuerat, ut media pars primae, finiſtra mediae, dextera vero omnium
poftremae partis locum Occu paret. Vidit haec mala Corſinius, qui 2 tutiſſime
indagabat omcia, iifque remedia goadhibuit. At puduit Joannem Lamium ſe non
adeo lynceum fuiffe, cum ufus effet sadem inſcriptione in ſuis ad Meurfium
Scholiis, & ex pudore orta eſt invidia. Ex quo intelligi poteſt quare is
debitas mun quam tribuerit laudes operi, quod omnium judicio longe multumque
ſuperat quidquid in hoc rerum Atticarum genere ſcripſerunt Sigonius, Scaliger,
Petavius, Petitus, Sponius, & vel ipfi Meurfius, & Dodwellus, quorum
errorés dum faepe corrigit C. , & dum minime ab iis animadverſa pro fert,
fatis declarat iiſdem detrahere voluiffe Haerentem capiti multa cum laude coro
nam. Rumor erat ea parare Lamium, quibus fpe rabat hominibus fe probaturum, C. in
emendanda illuſtrandaque Riccardiana in fcriptione ſurripuiffe fibi fegetem
& mate riem gloriae ſuae. Porro Lamius poft edi tas Corſinii emendationes
fupponere cogita verat in locum impreſſae jam paginae in I. Meurſii operum
volumine, quae prae fe fe rebat inſcriptionem corruptam, aliam pagi nam, in qua
emendatior inſcriptio legebatur; CORSINIUS: 1 bancque mutationem, omnibus
occultari pof ſe putaverat, quod Meurſii liber nondum efe ſet in vulgus editus.
Non latuit certe Core finium, in cujus manus pervenit etiam pria mum impreffa
pagina, qua omnem a fe prow pulſare poterat injuriam. Id ut audivit Lami mius
aliam rationem iniit perficiendi confi lii ſui. Dedit ad Angelum Bandiniun
litte ras plenas iracundiae ac minarum, ſpecie qui dem ut ea, quae jamdiu
ſepoſuerat ad Riccardianum marmor explanandum, aliquando proferret; re autem
ipſa ut quae a C. didicerat, perpaucis additis aut mutatis, le ctori aut
occupato aut indiligenti vendita Yet pro ſuis. Atque id utrumque ſcriptorem
conferenti luce clarius eft. Quare mirari ſa tis non poffum hominis frontem,
qui furti C. infimulet in eo loco, in quo ipfo cum re aliena, atque etiam cum
telo eſt de prehenſus. Atque haec an. v. ſunt geſta, cum Fafti Attici anno
ſuperiori lu cem vidiſſent. Sed tamen res defenſionem apud multitudinem potuit
habere uſque ad cum annum, quo Meurſii opera cum Lamii animadverſionibus vulgata
funt fimul universa. Tum enini primum jejuna illa marmoris interpretatio, quam
ante annos xxII. Lamius in l. operum volumen intulerat, lecta eft.: ad calcem
vero ejus voluminis ſecundae Aucto ris curae in eum lapidem, & quaſi retra
Statio quaedam ante dictorum edita eſt. Qua in mantiſſa bina extant indicia
Corſinii cauffam mire tuentia, alterum quod nihil hoc in loco proponatur, quod
non ille in Faſtorum libro occupaverit; alterum quod mantiſſae characteres ab
ejuſdem voluminis characteribus forma et figura longe abſunt, teſtanturque non
niſi poſt annos multos quam liber fuerat impreſſus, diſtractis jam aut
obſoletis formis illis prioribus, additam eſſe appendicem, de qua meminimus.
Sed jam fatis multa de homine meo quidem judicio paucis comparando, niſi regnum
in litteris, quod FIRENZE perdiu tenuit, malis inter dum artibus & clarorum
virorum vexatione confirmandum putaſſet. Quamvis in Fa. Hujus rei narrationen
pluribus etiam verbis exa pofitam vide in libello cujus eſt infcriptio:
Paffatem po Autuntile, quo in libcllo Si quis est qui dictum in se ir clemencius
Exis. Atis Articis elaborare C, maxime glorio fum fuerit, non minorem tamen
laudem rea portavit ex Agoniſticis Differtationibus, de qui bus Ludovicus
Muratorius, intelligens ſane. judex, dicere folebat, poſſe eas per ſe ſo las
aeternum nomen Auctori comparare. His Diſſertationibus oftendere voluit C., quo
tempore Graeci celebrare conſueverunt ludos Olympicos, Pythicos, Nemeaeos,
& Iſthmiacos, quod tempus eatenus fuerat vel incompertum, vel faltem
obſcurum. In hoc autem non mediocrem utilitatem chronolo giae & hiſtoriae
ſe allaturum putavit, quod iiſdem ludis fcriptores uterentur ad notanda
deſignandaque rerum geſtarum tempora. Ab Olympicis exordiens, qui ceteros
fplendore & frequentia ſuperabant, breviter cos percurrit, quos ab Hercule
primum inſti tutos Trojano bello deſiiſſe, moxque ab. Iphito reftitutos iterum
intermiffos fuiffe fcriptores narrant. Etenim illud caput eſſe videbatur, ut de
Olympiade illa quaereret, qua Coroe bus palmam accepit, & quae prima
dicitur, omnes Exiflimayit ele, fit exiſtimet Reſponſum, d.ctum effe, qu'a lacris prior quod ab illa
ceterarum Olympiadum ordo & feries incipiat. Hanc celebratam fuiſſe putat
an. periodi Julianae circiter folftitium
aeſtivum, plenilunii tempo re, qui mos ſemper manſit non folum anti quioribus,
quibus civiles Graecorum anni lunares erant, fed recentioribus etiam, qui bus
ſolares anni a Romanis ad Graecos tran. fierunt. Primus is erat anni menſis, in
quem incidiffent Olympici ludi. Quinque diebus eorum certamina abſolvebantur,
inter quae curſus, quo, uno certatum eſt ad Olympia dein uſque, primas tenebat.
Neque. in Aelide folum, fed & in aliis Graeciae ur bibus fumma cum populi
frequentia ac faca. crorum caeremonia Olympici celebraba ntur, donec v. ineunte
reparatae falutis faeculo, jidem cum Pyticis. ſublati fuerunt., Pyticos primum
inftituit Apollo, eofque jamdiu in-. termiffos, confecto. Criſſenfi bello,
Olympiade. Amphictyones revocarunt. Ii dem Olympicorum inſtar pentaéterici
erant; neque ſecundis annis, aut quartis, ut Petavius & Dodwellus,
exiſtimarunt, ſed tertiis, hiſque exeuntibus circa Elaphebalionis menfis finem,
tum Delphis, tum in aliis Graeciae urbibus peragi confueverunt, Proxime poft
Pythia Olympiade ſcilicet Lill. inſtaura ta fuerunt Nemea, quorum origo
reperitur a ſeptem Argivis ducibus, qui ad lenien dum defiderium pueruli
Archemori a ſerpen te occiſi funebres hoſcę agones ante Olympiadem primam prope
Ne meaeum nemus inftituerunt. At Nemeadem illam, ex qua veluti cardine ceterae
infe quentes numerari coeperunt, in annum Olympiadis LxxII. poft Marathoniam pu
gnam incidiffe fatis probabiliter Eduardus af firmat. Nemeades aeſtivae aliae,
aliae hibere nae, omnes vero trietericae fuerunt; eaeque alternis annis ita
peragebantur, ut hibernae quidem in medios ſecundos, aeſtivae vero in quartos
ineuntes Olympiadum annos in currerent. Cum Nemeis ludis quaedam erat Iſthmicis
a Theſeo, ut ferțur, conſtitutis fia militudo. Funebres erant ambo, ambo trie
terici, & qui utrolibet in certamine viciſſent apio coronabantur, Ithmici
quoque alii em rant aeſtivi, non tamen alii hiberni, ut qui dem Dodyellus putabat,
fed verni brabantur illi primis Olympiadum annis Hea catombeone menſe, hi
Thargelione, exeun te fere tertio Olympico anno. Sic definivit C. tempora
quatuor illuſtrium Graea ciae ludorum, patefaciens obſcura & ignota vel
ipſis chronologiae luminibus Scaligero Petavio, & Dodwello, quorum
auctoritate abreptus ipfe in primo Faſtorum Atticorum libro Pythiades ſecundis
Olympicis annis cona cefferat. Agoniſticis hiſce Differtationibus, veluti
faftigium operis, idem adjecit feriem Hieronicarum alphabetico, ut dicitur,
ordi ne diſpoſitam, & Dodwelliana longe ube riorem accuratioremque. Nam
feptuaginta. ſupra centum vitores recenſuit, qui Dod weilum prorſus fugerant;
fonteſque indic cavit (in quo Dodwelli diligentia ſaepiffi, me deſiderabatur )
unde uniuſcujufque vin ctoris nomen, aud patria, aut aetas, aut tertaminis
genus, quo viciffet, hauriebatur. Hoc opus vehementer adeo Auctori fuo pro
batum erat, ut vir modeftiffimus in eo quo daininodo gloriari videretur. Etenim,
ut At rico fcripfit CICERONE, fua cuique Sponfa,fuus quiqua Quoniam autein tumuin
his Agoniſticis Diſſertationibus, tum in Faltis ſcribendis faepe uſus eſt C. ſubſidio
marmoreorum monumentorum, in quibus multae occurrunt notae, quarum neque fa
cilis, neque prompta fuit explicatio, fepara tum opus. a ſe expectare putavit
Graecarum antiquitatum ftudiofos, quo in opere non ſolum ex marmoreis, fed
etiam ex aereis Graecorum tabulis: varias eorum notas colli geret, haſque
explicaret atque illuſtraret. Quae dum animo verſaret, fcriptionique jam manum
admoviffet, ecce in lucem prodit Scipionis Maffeii liber de Graecorum figlis
l.z pidariis, in quo trecenta fere vocum com pendia ingeniofe: feliciterque
enodantur.. Cum C. ab amico librum accepiſſet, ei epi ſtolam fcripfit (relata
haec fuit in volumen. diarii Litteratorum. Florentiae editi ) in qua ſummas
tribuit Maffejo laudes, quod primus ex omnibus materiem hanc ſeorſim tractandam
füfceperit,, magnam in illam con ferens.eruditionis copiam, & acre: prudenſ
que judicium.. Non, propterea tamen: ſpar tam, quam fibi ſumpſerat, ille
deſeruit, quia, ut ait Auſonius, is crat campus, in quo alius alio plura
invenire poteft, nemo om. nia. Et plura certe C. invenit, cum mille fere notas, aut numerorum
vocum que compendia uno volumine colligere po tuerit & explicare illo ſuo
acutiffimo inge nio, cui inquirenti & contemplanti omnia occurrere ſe ſeque
oftendere videbantur. Ut vero delectatione aliqua alliceret adoleſcen tes,
quibus inſuavis fortaſſe & aſperior via deri poterat ſiglarum inveſtigatio,
poftquam multa eruditiſſime praefatus effet de notarum origine, vi,
utilitateque, opportune ſparſit in toto libro non pauca ad hiftoriam, geos
graphiam, chronologiam, ac mythologiam ſpectantia. Ex quibus aliiſque
diſciplinis ube riora etiam hauſit, ut ornaret dissertatio nes ſex, quas,
abſoluta univerſa notarum ſerie, confecit, ut eſſent operis corollarium.
Explicant illae inſignes quaſdam Chriſtianac & profanae antiquitatis
inſcriptiones, ficque explicant, ut facile exiſtimari queat, eum qui non
comprehenderit rerum plurimarum ſci entiam, quique judicio certo & ſubtili
non fit praeditus, in his antiquitatis ftudiis ſatis callide verſari &
perite non poſſe. Inſcriptit C. hoc ſuum opus: Norse Graecorum five vocum &
numerorum compendia, quae in gereis atque marmoreis Graecorum, tabulis obſer
vantur, dedicavitque Cardinali Quirinio, a quo pecuniam ad illud ipſum
evulgandum dono accepit. Etenim his temporibus haud illi magna res erat, quae
vix fatis efle vide batur ad vitam ſuſtentandam, neceſſarioſque. libros emendos.
Praepoſitus dialecticae ſcholae, nihil aliud annui ſtipendii obtinuit nifi octingentos
denarios. Hoc eſia fatum videtur nobiliilimae. quidein diſcipli nae, ut pote
quae per omnes diſciplinas ma: nat ac funditur, ut qui illam profitentur me:
diocribus afficiantur praemiis. Vel ipſi Graeci, quamvis ellent aequi
liberalium artium aeftimatores, minam, eſſe voluerunt inerce dem Dialecticorum.
Coin.nodiori in ftatu res C. eſſe coeperunt cum traductus fuit ad metaphyſi cam
atque ethicam docendam. Tunc eniin ipfius ftipendium erat bis millenorum &
am plius denariorum, poſteaque illud ipſum ad quatuor. mille ducentos
quinquaginta uſque pervenit, cum proſperae. res multae confecutae fuiſſent.
Satis ſuperque id erat homi ni temperato ad vitam beatiſſimam; videba turque
libi ſuperare Craffum divitiis. Quan tum vero ſorte ſua contentụs, quantiſque a
moris vinculis Academiae Piſanae obftrictus effet, ex eo conjici poteſt, quod
mortuo Lu dovico Muratorio Mutinenfis Ducis bibliothe cae praefecto in illius
locum fuccedere recu favit, quamvis liberaliſſime ipfius Ducis ver bis invitaretur.
Quo cognito ab Emmanue le Comite Richecourtio, qui Franciſci I. Cae faris
nomine res Etruriae adminiſtrabat, ipſe fingularibus verbis ei gratias agendas
cenſuit, eidemque prolixe de ſua non modo, fed & Cae aris voluntate
pollicitus eſt. Id non potuit C. non fumme eſſe jucundum; utque viro de fe
& de Sodalitate ſua bene ſemper merito gratum fe oftenderet dedica vit illi
PLUTARCO opus de Placitis Philoſopho. tum a se LATINVM factum, vitaque
Scriptoris, fcholiis, & diſſertationibus ornatum. Causam ſuſcipiendae novae
interpretationis ei dem dederunt naevi quidam, quibus maçı lantur Budaei,
Xylandri, & Crụſerii honi num ceteroquin doctiſſimorum interpretationes;
ſuſceptam vero ita perfecit, ut ver bu pro verbo reddiderit, multaque etiam
attulerit de fuo, quae funt diverfo chara ctere notata, ne attenuata nimis
diligentia perſpicuitati officeret, & ne res ipfa omni LATINAE orationis
dignitate cultuque deſtitu ta ſordeſceret. In limine operis Plutarchi vi tam ex
illius aliorumque veterum ſcriptis a ſe diligentiſſime colletam, & feriem
philo ſophorum, quorum placita a Plutarcho pro feruntur, aetatemque, in qua
vixerunt, ex. poſuit. Singulis vero operis capitibus brevia adjecit commentaria,
quae aut mutilos & hiulcos Plutarchi locos ſupplent, aut de pravatos
emendant, aut obſcuros atque per plexos, opportune allatis aliorum philoſo
phorum ſententiis, illuſtrant. Siquando au tem longioris eſſe orationis putavit
Corſi nius lucem aliquam afferre rebus obſcuriſſi mis, cum non Heraclitus ſolum,
ſed & quiſ que fere antiquitatis philofophorum, quo rum ſententias
coarctavit & peranguſte re ferſit PLUTARCO, Exotélv8 cognomen me reatur,
hujuſmodi illuſtrationes ad finem li bri rejecit. Quo in loco voluit etiam
recenfere illuſtriores ſententias, quae propriae di cuntur recentiorum
philoſophorum, cum ea rum tamen manifeſta appareant veſtigia in Plutarchi libro,
quod profecto ad veterum gioriam amplificandam plurimum valet. Ta les ſunt
attractionis leges, vireſque, ut di cuntur, centripeta & centrifuga,
Charteſiani vortices, lunae phaſes, maculae, quod que haec fit terra multarum
urbium & mone tium, converfio folis, planetarum, fiderum que certa quadam
celeritate ac periodo cir ca axes ſuos, natura, coſtans motus, rever lioque
cometarum, telluris motus, quodque ex eo cauſſa ' maris aelus repetenda fit
jegew’ewe explicatio, aliaque hujuſmodi mul ta tum ad corporum, tum ad animi na
turam pertinentia. Profecto nihil dulcius erat Corfinio quam per abdita
remotioris antiqui• tatis permeare, & inde nova & inexpecta ta deferre,
quae hominibus contemplanda bono in lumine exhiberet. Nam, ut Ari ſtoteles
inquit, fuo quiſque artifex ftudio atque opera impenſius delectatur. Cum igi
tur accepiffet ab Antonio Franciſco Gorio amiciſſimo ſuo graphidem eximii
cujųſdam anaglyphi, quod Romae viſitur in Aedibus Farneſianis, non magnopere
hortandus fuit, ut in illo exponendo elaboraret. Exhibet hoc ſuperiori in parte
Herculem cuin Eų. ropa, Hebe, Satyriſque quieri, voluptati que poſt exantlatos
labores indulgentem, in inferiori vero tripodem Apollini ſacrum, Ar givae
Junonis Sacerdotem, atque alatam Virginem, & Herculem demum ipſum ſe ſe
expiantem, ut purus ad Deorum conci lium afcenderet. Hinc & illinc
anaglyphum ornant binae columnae cum Graeca inſcrie ptione, quae multis verſuum
decadibus Her culis geſta commemorat: in ſupremo tan dein anaglyphi loco
octodecim hexametra car mina exculpta ſunt, quibus Herculis labores &
certamina declarantur. Praeclariſſimi hujus monumenti explicationem Eduardus
libello quem ad Scipionem Maffejum inſtituit, com plexus eſt; ex eoque judicari
poteft, vehe mens afiiduumque ftudium ipfi copiam eru ditionis dediſſe, naturam
vero tribuiſſe in genium ad conjiciendum divinandumque fa ctum. Et fane
divinationis cujuſdam vide illum potuiſſe laceras ac depravatas multorum
verſuum lacinias feliciſſime corri gere atque ſupplere. Magnae antiquitatis ar
gumentum praebere ſuſpicatus eſt Doricam dialectum, qua exarata eſt inſcriptio,
ne- ! que ipfe affirmare. dubitat opus paullo poſt Alexandri tempora', antequam
Q. Flaminius priſtinam Graecis libertatem redderet, perfe &um fuiſſe. Sed
aliter alii ſentiunt qui bus nunc plerique affentiri videntur. Hoc ipſo ferme
tempore Corſinius ejuſdem Gorii poſtulationibus Diſſertationes quatuor con
ceſſit, quae impreſſae funt ab illo in vi. vo lumine Symbolarum litterariarum.
Extricat pri ma epigraphen ſculptam in labro interiori cujuſdam crateris ahenei
Mithridatis Eupa toris, qui crater in muſeo Capitolino, Vide Winkelman, Monumenti
antichi inediti Trel. Prelim. Idem quaedam alia notat in quibus deceptum fuiſſe
C. arbitratur Sic interpretatur C. mire
involutam in. ſcriptionem: Regis Mithridatis Eupatoris Regni anno 54.
Eupatoriftts GYMNASII-- hoc eft civibus Eupatoriae, qui IN GYMNASIO certarunt --
ſenectutem conſeival, quod erat ad laudem vini, quo plenus crater vi &ori
con cedebatur. Alii aliter interpretanda extrema pracſertim inſcriptionis verba
exiſtimarunt, quorum fententiam plerique nunc fequuntur affervatur. Secunda
patefacit obſcuros igno ratoſque dies natalem & fupremum Plato nis, qua
occafione aliorum etiam virorum illuſtrium Archytae, Philolai, Iſocratis, Ly
fiae, Dionis, & Socratis aetates & tempora perſequitur. Explicat tertia
adverſam par tem numiſmatis Antonini Caeſaris, in qua Prometheus humanum corpus
ex luto fin gens, & Pallas capiti mentem, papilionis imagine expreſſam,
inſerens confpiciuntur. Curioſa ſunt quae excogitavit C., ut perſuaderet
hominibus morem repraeſentandi humanam mentem ſub papilionis imagine non ex
miris hujus volucris affectionibus & natura, non ex ipſa animi
immortalitate, circuitu, aut tranſmigratione, non ex Chal daicae, Graecaeque
fapientiae fontibus, non ex arcanis amoris myſteriis, fed ex fola ar tificum
imperitia profluxiſſe. Cum enim unum idemque nomen pſyches papilionem & ani
nium deſignet, rudis artifex, qui primus ani mum exprimendum ſuſcepit, non
putavit hu jus ideam poffe melius excitari, quam obje eta imagine illius rei,
quacum is commune nomen habet. Quarta Diſſertatio demum in eo verſatur, ut
oftendat mentitam & falfam effe LATINAM quamdam inſcriptionem, quae Piſis
vilitur in Scortianis aedibus. Summi labores, quos C. impendit in conficien dis,
quos retulimus, libris, magna compen ſati fuerunt gloria, ut unus e multis, qui
illuſtrandae Graecae praefertim antiquitati ſe ſe dederunt, excellere
judicaretur. Cujus de praeſtanti in hoc rerum genere doctrina tan ta etiam
judicia fecit Scipio Maffejus, quan ta de nullo; cujus teſtimonii auctoritas ma
xima reputari debet non folum quod ab hox mine prudentiſſimo proficifcitur, fed
etiam quia figulus invidens figulo, faber fabro, ut eſt Heſiodi dictum,
alterius laudi & gloriae | minime favere ſoleat. Ex mutua opinione
doctrinae, fimilitudineque ftudiorum orta eft inter cos jucundiffima amicitia,
cujus tanta vis fuit, ut C. aeſtate an.quamvis non bene valens, Veronam venerit
aliquot menſes commoraturus apud amicum. Quo tempore inter eos fuit
familiariſſima focietas, & communicatio ftudiorum. Dono accepit C. a
Maffejo tercentum fere Graecas inſcriptiones (has Chici1shullius collegerat,
& fecundae Afiaticarum antiquitatum parti reſervaverat ) ea conditio; ne,
ut eas Latine redderet atque illuſtraret, Satisfecit ille aliqua ex parte
promiffo ſuo, cum anno inſequenti edidiſſet eas inſcriptio. nes, quae ad
Athenas ſpectabant; eaſdem que iterum cum commentariis edidit quam driennio
poft, ut eſſent ornamento quarto Faftorum volumini. Nono menſe poftquam in
Etruriam rediit C., moritur Alexander Politus, quocum ille ita vixit, uit. quem
pauci ferre poterant propter difficilli mam naturam, hujus fine offenfione ad
fum. mam fenectutem retinuerit benevolentiam. Mortuo autem Polito neque
inquirendum neque conſultandum fuit quis illi ſucceſſor in Academia Piſana
daretur, cum omnium oculi ftatim in C.conjecti fuiſſent. Ita hic exeuntė
poftquam octodecim fere annos philoſophiam tradidif ſet, munus docendi
humaniores litteras li bentiſſimo animo ſuſcepit. Initio propoſuit fibi (nam
muneris ratio, & adolefcentium utilitas ab eo poftulabant, ut cum Graecis
Latina conjungeret ) explanare Plutarchi parallelas ROMANORVM vitas, ut inde
occaſionem ſumeret utriuſque populi leges inter ſe conferendi. Memoriter
dicebat e ſuperiori loco, quod ad praeceptoris & ſcholae dignitatem
plurimum tum conferre putabatur; & quae tradebat inſignita e rant luminibus
ingenii, & conſperſa erudi tionis ſententiarumque flore. Genus dicen di
erat quiétum & lene, purum & elegans, ut maxime teneret eos qui audiebant,
& non folum delectaret, fed etiam fine fatieta te delectaret. Nulli
diſcipulorum aditum ſermonem, congreſſumque fuum denegabat, quin immo eos bis
in hebdomada domum ſuam invitabat, ut in ftudiis exerceret ROMANORVM
ANTIQVITATVM. Domi etiam tradebat metaphyſicam, quo onere non placuit Academiae
Moderatoribus illum libe rare niſi quo
quidem tem pore Venetiis evulgavit ſuas Inſtitutiones Me taphyficas. In his
adornandis illud unum pro pofitum fibi fuit, ut in animis adoleſcentium rectas
de animae immortalitate, arbitrii li bertate, Dei exiſtentia, ceteriſque
naturalis theologiae dogmatibus notiones infereret, quibus in gravioribus aliis
diſciplinis veluti praeſidiis uti pofſent, quibuſque caverent a peſte quadam
hominum non tam religioni, quam reipublicae infeſta, quae rationem per vertendo
ubique venenatas opiniones diffe minare non veretur. Subaccuſent aliqui, fi
lubet, C., quod nimis, parcus fuerit in pertractandis quibuſdam rebus, quae in
ca, in qua nunc ſumus, luce ignorari mi nime poſſe videntur; omnes profecto uno
ore fateri debent tales effe hafce Inſtitutio nes, ut cupidi metaphyſicae
nullibi poffint refrigerari ſalubrius atque jucundius. Poftre mum hoc operum
fuit, quae C. Phi loſophiae dicavit, nifi dicere velimus, eti am cum minime
videretur tum maxime ila lum philofophari conſueviſſe, Quod declarant ejus
Latinae orationes ad Academicos Piſanos refertae Philoſophorum fententiis,
faluberri ma praecepta, quibus adoleſcentes ad omne officii munus inftruebat,
doctiflimoruin Philoſophorum familiaritates, quibus ſemper flo ruit, & ars
illa diſtinguendi vera a falſis, colligendi ſparſa, eaque inter ſe conferendi,
diligenter examinandi omnium rerum verbocum rumque pondera, nihilque afferendi
fine evi denti ratione, aut faltein probabili conjectu ra in qua arte quantum
inter omnes un Aus excelleret, praeſertim oftendebat, in vetuftatis monumenta
inquireret. Hujus inquiſitionis uber fane fructus fuit Diſſertatia illa de
Minniſari, aliorumque. Armeniae Regim nummis, Et. Arſacidarum epocha, quam idem
in lucem extulit. Difficulta tis maximae fuit oftendere Minniſari num mum, quem
praecipue illuſtrandum C. ſuſceperat, ad illum fpectare Maniſarum Armeniae
& Meſopotamiae. Regem, de quo Dio Caffius in libro ROMANAE HISTORIAE mentionem
fecit, & Arſacidarum epocham uon in Parthiae. folum, fed etiam in: Arme
niae regum nummis inſcriptam fuiffe, eam. que ab anno Urbis conditae Dxxv.
initium duxiſſe. Antea quidem doctiſſimorum viro rum Uſſerii, Petavii, Noriſii,
Spanhemii, Vaillantii, & Froelichij fententia fuerat, ſe rius. Arſacidarum
imperium incepiſſe, adver ſus quam ſententiam C. ita pugnavit, ut veritas non
minus quam modeſtia eluxe rit. Quoniam vero in antiquitatis ftudio multae res
inter fe ita nexae & jugatae funt, ut, inventa una, aliae, quae prius
latebant, ſe ſe contemplandas offerant, ean ob rem Corfinius in Minniſari regis
num mo explicando varia ſcriptorum loca corri gere & ſupplere, verum Darii
genus expo nere, Tiridatem alterum, Arfamem, aliof que Armeniae Reges
Vaillantio prorſus in cognitos proferre potuit. Res in hac Differ tatione
contentae, non fine laude oppugnatae fuerunt a Jeſuitis Froelichio &
Zacharia, reſponditque ad ea, quae objecta fuerunt, ſine iracundia C.. Eteniin
veritatis unice amans alios a fe diffentire haud ini quo ferebat animo, ſemperque
deteſtatus eſt eos, qui ſuis ſententiis quaſi addicti & con. fecrati etiam
ea, quae plane probare non poſſent, conſtantiae, non veritatis cauſſa de.
fenderent. Propugnationem quoque Corſinii libello (*) ſuſcepit ejus convictor
& fodalis Huic titulus eſt. Lettere critiche di un Pafton r Arcade ad un
Accademico Erruſco nelle quali ſi ſciola gono le difficoltà fane contro
un'opera del Reverendiſſia mo Padre Corſini nel Tom. IX. della Storia leveraria
of lialia &e, in Pisa in Carolus Antoniolius, qui quidem non me. diocria
adjumenta illi praebuit, cum pluri mum valeret in omni genere ftudiorum quae
ipſe excolebat. Magni quoque Acade miae fuit Antoniolii opera in Graecis littea
ris tradendis toto illo ſexennio, quo C., coactus capeſſere, ſummum Sodalitatis
fuae magiſtratum, bona Principis cum ve nia, & fine ulla ſtipendiorum
jactura Piſis abfuit. Hic Romam venit menſe. ardens. defiderio indicia veteris
memoriae, quibus mirabiliter urbs. illa abun dat (quacumque enim quis
ingreditur in aliquam hiſtoriam veftigium ponit ) cogno ſcendi. Sed raro ei
poteſtas dabatur huic ſuo. deſiderio, fatisfaciendi, cum podagrae dolori bus
ſaepiſſime vexaretur, & munus ſuum diligentiſſime exequi vellet. Quanta
vero pru dentia ac dexteritate fuerit in tractandis ne. gotiis, quanta
aequitate in conſtituendis, temperandiſque, ſi res pofcebat, conſtitutis jam
legibus, quanta humanitate erga omnes, quantaque vigilantia ac providentia in
con fulendo rebus. praeſentibus, praecavendoque futuras, fatis praedicari non
poteft. Cum autem nihil ſine aliorum conſilio agere ei mos eſſet, &
facilitate ſumma uteretur in füos adjutores procuratoreſque, inde norza nulli
materiem ſumpſerunt falſae criminatio nis, quod ad aliorum magis quam ad ſuun
arbitrium res Familiae adminiftraret. Omnino totum fe tradidit Sodalitati, to
tamque fic rexit, ut oblitus commodorum ſuorum omnibus proſpexerit. Non eſt
credi bile quanto animi dolore angeretur, fi ali quis ſuorum in crimen
vocabatur. Horrebar enim homo innocentiſſimus vel ipfam pecca ti ſuſpicionem.
Sed non propterea fontibus iraſcebatur, hofque clementia magis atque
manſuetudine, quam animadverſione & ca ftigatione ad frugem revocare
ſtudebat. Cum vero feveritatem, fine qua reſpublica adıni niftrari non poteſt,
adhibere cogebatur, similis, ut praeclare admonet CICERONE, legum erat, quae ad
puniendum non iracundia, fed aequitate ducuntur. In his occupationi bus muneris
ſui, ne plane ceſſäre a fcriben do videretur, extare voluit explicationem
đuarum Graecarum inſcriptionum, quae mus ſeum ornant Bernardi Nanii Veneti
Senatoris. quam feliciter id praeftiterit, perſcrutata prius litterarum
priſcarum, quibus illae con fcriptae ſunt, forma atque vi, facile judica bunt
ii, qui ſunt harum deliciarum amato Tes. Tentaverat eamdem rem Franciſcus Za
nettus, ſed longiſſime aberravit a vero ejus interpretatio. Ipſe C. cum Anconae
effet ineunte eoque prae ſente cum multis aliis detecta fuiſſent atque agnita
corpora Sanctorum Cyriaci, Marcelli ni & Liberii, quos ſingulari obfequio
ea dem civitas venerațur, incitatus fuit, ut ali quid laboris impertiret
illorum Sanctorum illuſtrandae hiſtoriae, definiendoque praeſer tim tempori,
quo tranſata eorumdem cor pora fuerunt in eum, ubi nunc jacent, lo cum, &
quo Anconae coli coeperunt. Haec C., edito commentariolo, accidiffe - ftendit
exeunte faeculo & ex ipfis an tiquitatis monumentis quibus ſententiam ſuam
confirmavit, quatuor Anconitanorum Epiſcoporum nomina in lucem protulit, quaç
uſque ad id tempus fuerant incognita, Per pauca in hoc commentariolo attigit de
S, Liberio, quod ejus hiſtoriam involutam tenebris & fabulis exiſtimabat,
Mox cum ei aliquid luminis affulfiſſet, & monumentorum ope, & mirabili
illa ſua conjiciendi arte pa tefacere potuit Liberium fuiſſe unum ex fo ciis S.
Gaudentii Abfarenſis Epiſcopi, qui circiter an. MxXxx. Anconam venit, fo
litariam vitam acturus in ſuburbano mona ſterio Portus Novi. Harum rerum
inventio multis laudibus. celebrata fuit a Scriptoribus annalium Camaldulenſium:
pergrata quo que fuit. Benedicto XIV. pro ejus. fingulari ftudio in Anconitanam
Ecclefiam. Hic cum ſaepe ad congreffum colloquiumque ſuum invitaret Eduardum,
quod ejus ſummum in genium, fuaviffimos. mores, atque eximiam probitatem &
nofſet & diligeret, ſaepe quo que ipſum hortabatur,, ut ea pergeret man
dare litteris, quae abdita Chriſtianae anti quitatis patefacerent. Sed fuerunt
juftae ca uffae quare. C. amantiffimis. Pontificis M. conſiliis minime
obtemperavit; & quid quid fubciſivorum temporum incurrebat, quae perire non
patiebatur, libentiffime concedebat ſuis priſtinis ftudiis. Ruſticabar cum eo
in Tuſculano, quando epiſtolam ſcripſit ad Paullum Mariam Paciaudium, in qua
plura de Gotarzis eximio nummo, ejuſque, Bar danis, & Artabani Parthiae
Regum hiſtoria perſecutus eſt, & pro jure noftrae amicitiae ab ipſo
poftulabam, ut in otio, quod raro da batur, & peroptato illi dabatur,
ceffaret a libris & a ftilo. Verum cuin is eſſet ut fi ne his ftudiis vitam
inſuavem duceret, di cere folebat hujuſmodi ſcriptiones non pre mere, ſed
relaxare animum. Et relaxatione certę aliqua ille indigebat, cui grave adeo
erat, quod multi appetunt, ceteros regendi munus, ut onus Aetna majus ſibi ſụſtinere
videretur. Poterat quidein illi eſſe lovaniens to recordatio multorum
benefactorum, inas ter quae maximum illud reputari debet quod eo ſexennio, quo
ad Sodalitatis gum. bernaculum ſedit, viginti domus, five cole legia conſtituta
ſunt. Interim advenit tem pus, quo magiſtratu fe abdicare, & extre mos
auctoritatis fuae fructus capere debe bat in provehendo digno viro, qui fibi
fuc cederet. Verum minime illi: contigit, ut funt ancipites variique caſus
comitiorum, quem optabat, exitus. Peractis comitiis, fine mora rediit ad
Academiam Piſanam & ad il lamºquietam in rerum contemplatione & co
gnitione maxime poſitam degendae vitae rae tionem, qua qui frueretur, negabat
ei aliquid deeffe ad beatė vivenduin. Liber de Praefe. ctis Urbis ei erat in
manibus; Graecas in fcriptiones in Aſia repertas, quas, ut ſupra retulimus, a
Scipione Maffejo dono accepe rat, quafque jampridem Latinas fecerat, co pioſis
commentariis explicabat; aderat diſci pulis ſuis; veniebat frequens in
Academiam, afferebat res multum & diu cogitatas, facie batque fibi
audientiam hominis erudita, com pta & mitis oratio. Idem efflagitatu &
coae tu amicorum inftituta. hoc tempore opera abrupit, ut explicationem
lucubraret cujuf dam nummi recens in Auſtria reperti, in quo erat nomen &
imago Sulpiciae Dryan tillae Auguſtae. Conjecit ille feminam hanc libertam
fuiſſe, libertatémque accepiffe a Sul picio quodam, ab eoque in Sulpiciam ģen
tem receptam; nupfiffe demum Carinó fcea leftiffimo Imperatori. Haec porro
incerta. Illud unuin ſine ulla dubitatione colligi pof fe videtur ex nummi
fabrica, characterum forma, feminaeque ornatu, illum ipſum num mum cuſum fuiſſe
inter Elagabali & Diocle tiani imperium, proptereaque Dryantillam ad
aliquem Imperatorum, qui illo intervallo re gnarunt, pertinere. Neque his
contentus Edu ardus voluit etiam excutere hiſtoricorum & rei nummariae
interpretum mire inter fe dif ſidentes opiniones de Aureliani ac Vaballa thi
imperio atque aetate, ac poftremo ſuam ſententiam proferre. Fuit haec, Aurelianum
exeunte Julio, vel ineunte Auguſto imperium ſuſcepiſſe, eaque multis &
gravibus confirmatur argumentis. Ad ex vero diluenda, quae contra dici poterant
ex illorum ſententia, qui praeſertim niti vide bantur lege quadam data a
Claudio VII. Kal. Novembris Antiochiano & Orfito Con ſulibus, ut ſerius
Aurelianum inchoaffe im perium perſuaderent, diſtinguit Conſules or dinarios a
ſuffectis. Hac autem conſtabilita diſtinctione, quae maxime apta erat non fo
lum ad id, quod requirebat, ſed etiam ad expediendos alios, quos vel ipſe
Scaliger in diffolubiles in Chronologia exiſtimaverat now dos, concludit eamdem
legem editam fuiffe anno quando An tiochianus & Orfitus ſuffecti Conſules
erant, minime vero anno cclxx. iiſdem Confuli bus ordinariis. Nec minor
difficultas erat o ſtendere, qui fieri potuerit, ut Aurelianus ad vil. Imperii
annum perveniffe dicatur, & explicare locum Euſebii, qui tradit in ejuſdem
tempora incidiffe in. Antiochenam Synodum: exploratnm eft enim hanc Sya nodum
anno cclxix. incoeptam & abſolu tam fuiſſe. Feliciter haec praeftitit Corſi
nius, cum probaſſet Aurelianum anno & ultra antequam a legionibus poft
mortem Claudii Imperator fieret, ab ipfo Claudio deſtinatum ſibi fuiſſe
ſucceſſoreni, adeoque ampla poteſtate donatum ut ab hoc tema pore nonnulli ejus
Imperii initium ſumere potuerint. Quae vero de Vaballatho diſream ruit C. haec
ferme ſunt. Illum Ze nobia procreavit ex Athena priori viro, ejuf demque nomine
ab uſque dum Claudius in Gothicum bellum uni ce intentus vixit, Orientis
imperium te H4 ut nuit. Ex quo factum eſt, ut quae hoc tem pore cuſa funt
Vaballathi numiſmata, Impe. satorem Caefarem Auguftum illum nominent. Poftquam
vero ille deſciviſſet a matre, Aureliano adhaereret, huic quidem conjun octus
in nummis repraefentari voluit, minime vero paludamento, radiata corona,
fplendi doque Augufti nomine decoratus, ſolo Im peratoris contentus. Praetereo
alia multa Scitu digniſſima in hac Diſſertatione conten ta, ne, cum nimis longus
in recenfendis ſcriptis operibus fuerim, videar oblitus con ſuetudinis &
inſtituti mei. Hujus libelli (cil ra liberatus C. totus in eo fuit, ut ab
Solveret ſeriem Praefectorum Urbis ab Urbe con dita ad annum afque five a Chri
fto nato DC. Etenim poſteriora tempora mi nime inquirenda putavit, quibus,
penitus fere exſtincto Urbanae Praefecturae fplendo re ac dignitate, nonniſi
tenue nomen, ac leviſſima priſtinae majeſtatis umbra ſuperfuit; ex quo fiebat,
ut nihil inde lucis facra & profana ſperare poffet hiſtoria, cum contra
uberrimam fplendidiffimamque utraque acci. peret ex veterum Praefectorum ferie,
horumque aetate rite conſtituta. Ut vero non utilitate ſolum, ſed etiam
jucunditate lecto res invitaret C., operi varia opportu ne admifcuit, quae
marmora & ſcriptores, quorum teftimoniis ubique fere utitur, cor rigunt
& illuſtrant, interpretumque falſas opiniones atque errores emendant. Non
ego ſum neſcius multos anteceſſiſſe Corſinium in hujuſmodi pertractando
argumento; ex qui bus omnibus, ac praefertim Jacobo Gotho fredo ac Tillemontio
plurima in rem ſuam tranftulit. Sed ii exiguis finibus operam fuam continuerunt,
fi unum excipias Feli cem Contelorium, qui contextam a Panvi. nio Praefectorum
ſeriem ad annum uſque traduxit. Tale tamen non fuit Contelorii opus, quin eadem
de re aliquid politius, copiofius, perfectiuſque proferri a C. potuerit. Et
protuliffe certe ipſum oportet, cum magna fuorum laborum prac conia ab
intelligentibus viris reportaverit. Mi rari hi tantummodo viſi ſunt quod aut is
in gnoraverit hac ipſa in re plurimum quoque elaboraſſe Almeloveenium, aut quod
hujus fcripta conſulere praetermiſerit. Id profecto & praeſtitiſfet
abundantius & copiofius pro poſitae fibi rei ſatisfacere potuiſſet, neque
poftea ventofiffimi homines triftem fuftinuif fent notam calumniatorum, qui
nullo in pre tio ob pauca quaedam a C. praetermif ſa hujus opus habendum
inflatis buccis clamitarunt. Ne hi verbofis fibi famam ad quirerent ſtrophis
vel apud imperitam mul titudinem, factum eſt diligentia Cajetani Mari nii, qui
librum Bononiae edidit, quo non folum eorum obftitit injuriis, verum etiam nova
a ſe inſcriptionum ope detecta Praefectorum Urbis nomina in lucem protulit. Sed
ad C. revertor, qui dum fine intermiſſione obſequebatur ftudiis ſuis &
adoleſcentium utilitati, oblitus vide batur fe jam fenem factum (quando enim
typis mandavit librum de Praefectis Urbanis ſexageſimum primum aetatis annum
agebat ) & infirma aegraque valetudine effe. Sed ac Hujus eſt inſcriptio:
Difefa per la ſerie de' Pree fetti di Roma del Ch. P. Corfini contro la cenſura
farie. le nelle offervazioni ſul Giornale Piſano, in cui le della Serie si
suppliſce anche in affai luoghi e le emenda. In Bon logna e AQUINO (si veda) in
4. Vide Pilanas Ephcm meridcs eidit miſerabilis caſus, qui repente ipſi onga
nem ſpem non folum litteris, ſed etiam na: turae vivendi praecidit. Erat haec
conſuetu. do Academiae Piſanae, ut qui humaniores lite teras profitebantur,
Kalendis Novembris, quo tempore inftaurari ftudia folebant, LATINAM om rationem haberent ad vehementius inflamman
dam cupidam doctrinarum juventutem. Di cebat eo ipſo die Eduardus (vertebat
tunc annus tertius fupra fexageſimum hujus fae tuli ) de viris, qui &
ſcriptis editis, in ventiſque rebus in Academia maxime florue runt, eaque erat
oratio, ut nunquam is di xiſſe melius judicaretur. Cum eo pervenirſet, ut
exultaret in immenſo GALILEI (si veda) laudum campo, repente apoplexis ipſum
perculit, ac ſemivivum reliquit. Dolore hujus caſus o ſtenſum eft quantum ille
Academiae eſſet ac ceptus. Aegre domum deductus, ibi quatri duo cum morte
conflictatus eſt. Quinto die, multis adhibitis remediis, levari coepit, ac
praeter ſpem paullatim convaluit. Ut arden ter deſideraret priſtinas recuperare
vires, efficiebat ille fuus ſingularis amor in Aca demiam, cui majus ſe non
poſſe munus afferre videbat, quam fi inſtitutum juſſu Prin cipis biennio fere
ante opus de ejuſdem Academiae ortu, progreſſu ac vicibus ad umbilicum
perduceret. Plurima collegerat at que vulgaverat ad hanc hiſtoriam pertinen tia
vir diligentiſſimus Stephanus Maria Fa bruccius Juris civilis in eadem Academia
do ctor, quae quidem ampla & bella materies effe poterant ad novum
aedificandum opus. Hoc igitur ſubſidio inſtructus Eduardus, ala cer ſe ſe ad
rem accinxit. Et primo quidem ILLUSTRIVM ITALICORVM GYMNASIORVM ori ginem
ſubtexuit, diſſerenfque quatuor prio ribus capitibus de prima GYMNASII PISANIi
institutione, neque ab xi. neque a xiv. Chris fti faeculo, ut multi ſcripſerunt,
fed ab ine unte XIII. vel exeunte xii. illam repeten dam effe exiſtimavit. Ex
hoc tempore ad annum uſque, quo anno Fa bruccius contendit coepiſſe Academiam
Piſa nam, hanc fi nullam dicere nolumus, mi nimain certe fuiſſe oportet.
Conſecutae des inceps yices multae, ut ipſa modo langues ſcere, modo ad
interitum properare, vires vitamque modo recuperare, ac faepe etiam veluti
extorris ſedem mutare viſa fuerit, Quae omnia octo conſeqılentibus capitibus
perſecutus eft Eduardus. Cum vero Acade miae res, imperante Coſmo I. ceteriſque.non
solum Mediceis, sed etiam Lotharingis Principibus, feliciflime proceſſiſſent,
quibus ab his beneficiis, ſplendore atque gloria aucta, quibuſque gubernata
legibus consuetudinibusque, variis interdum pro temporum varietate, exposuit in
quatuordecim capitibus, quo rum nonnulla adumbrata magis quam de fçripta
videntur. Haec omnia primam ope ris partem conficere debebant, cum refer vafſet
alteram, quam tamen minime attigit, Doctorum vitis. Dum haec scripta legebam
videbatur mihi pofſe ab Auctore defiderari major rerum copia, magiſque apta ac
preſ fa oratio. Inest quidem in omnibus C. scriptis luxuries quaedam, quae, ut
in herbis ruſtici ſolent, depaſcenda erat; quod fi eft vitium in omni oratione,
maximum tamen eſt in hiſtoria, in qua pura & illu fțris brevitas expetitur.
Eodem tempore, quo Eduardus in Academiae historiam incumbebat, ne plane superioris
aetatis Audia de servisse videretur, epistolam fcripfit ad ami cum &
collegam fuum Franciſcum Albi zium, in qua de Auſonii Burdigalensi consulatu
egit, Desperaverant vel ipsi chronologiae Patres Panvinius & Pagius,
computationem quamdam annorum ah. Auſonio factam in e pigrammate, ad Proculum,
in quo, ab Urbe condita ad consulatum suum annos enumeravit, conciliari posse,
cum Varroniana epocha, ideoque, novam excogitarunt epocham XIII. annis
Varroniana pofte riorem, qua non solum Ausonium, sed etiam Arnobium usos fuisse
scripserunt. Horum aliorumque Auſonii interpretum errorem ut corrigeret
Eduardus, probare debuit. Auſonium non Romanum, modo, fed & Bur digalenſem
geffiffe consulatum, & Romanorum & Burdigalenfium Consulum fastos
conscripsisse. Qua distinctione constabilita, facile fuit oftendere eumdem
Aufonium in ea pigrammate, quod ad Heſperium filium ini fit cum Romanis faſtis,
de Romano, a ſe ges: ſto consulatu, in epigrammate autem illo, quod est ad
Proculum, de patrio, municipali, quinquennali (etenim in municipis omnibus
majores magiſtratus quinquennales eſſe ſolebant) de Burdigalenſi nimirum con. ſulatu
locutum fuisse. Hanc epistolam secuata est altera ad Joannem Chrysostomum Trom.
bellium Canonicum Regularem, in qua do nummo quodam ab Athenienſibus Livia
Augustae dicato, illiuſque aetate differens, feminam illam non ſupremis tabulis,
ſed matrimonii jure a marito nomen Auguſtae accepiſſe pluribus monumentis
comprobat. Quae quidem aliaque ex abditiſſima antiqui. tate deprompta, quae
fparfit C. in hac epiſtola, ut jucunda lectoribus, ita iif dem plena moeroris
fore arbitror, quae in extrema pagina ejuſdem epifolae Trombel lius adnotavit.
Scribit enim ille: Dum extre mam hujus epiſtolae partem edimus, monemur, eodem
fere tempore, quo Brixiae egregius Maza zuchellius, inclytum Corfinium noftrum
Pisis apoplexi repente ereptum. Eheu litterae aflicłae ! o amicos
incomparabiles ! o annum vere calami 10fum & peffimum ! Dies, quo illum
apople xis iterum invafit, fuit v. ante poft quem caſum tribus ferme diebus
vixit fine ſenſu, Sepultanta tus eft in Aede S. Euphraſiae totius Acade miae
luctu, quae hanc calamitatem acerbif fime doluit, doletque adhuc reminiſcens ſe
orbatam homine, in quo plurimae erant lit terae eaeque interiores, divinum
ingenium, ac induſtria fumma; fruebatur vero nominis celebritate, ut hac fola
muneris fui fplendorem tueri potuiſſet. Atque haec vi tae decorabat dignitas
& integritas. Quan tả gravitas mixta comitati in yultu & moribus !
quantum pondus in verbis ! ut nihil inconſideratum exibat ex ore ! quam diligen
ter inquirebat in fè ſe, atque ipſe ſe ſe ob Servabat I Oinnino tantus erat in
ipso ordo, conſtantia, & moderatio dictorum omnium atque factorum, ut
probitatem & religio nem prae se ferret, & ad omne virtutis de cits
natus videretur. Quidquid come loquens, & omnia dulcia dicens mirabiliter
ad se diligendum omnium ani mos alliciebat; si vero in familiari sermo ne a
quopiam dissentiret, contentiones disputationesque vitabat, quod non tam na
turae quam virtutis erat. Etenim iracun diae aculeos aliquando sentiebat, sed
hos perpetuus cupiditatum domitor frangebat, pla neque occultabat. Secum ipſe
vivens animi triftitiam frequenter patiebatur, praeſertim si contemplaretur
misera, in quae incidimus, tempora, quibus corrumpere, & corrumpi saeculum
vocatur. Quod vero nonnulli per verſe adeo abuterentur philofophia, ac prae
ſertim metaphyſica, ut ea animos a religio ne avocarent, tanto illum perfundebat
horrore, ut vehementer poenitere eum non nunquam videretur industriae suae,
quam in erudienda juventute ad recentiorum philoſo phorum dogmata inſumpſerat.
Quae quidem poenitentia injurioſa mihi videtur; omnium artium parenti
philosophiae, quasi ejus culpa, quae deflebat mala C., accidif ſent. Etenim
ſunt unicuique ſcientiae: certi fines ac termini ab omnium rerum modera tore
Deo constituti, quos qui tranfilit, nae ille devius in praecipitem locum ruat
necese est. Sed ad C. revertor, de cujus laudibus non eft tacendum ſummae illum
bonitati ingenuitatique ſummam dexterita tem, ſi oportuiſſet, conjűxisse.
Liberalis minimeque cupidus pecuniae hanc facile a se extorqueri patiebatur.
Virorum litteris illus ftrium amicitias ftudiofillime coluit, amavitque in
primis Trombellium & Paciaudium, quo rum mentionem fupra fecimus, quorumque
conſuetudinis magnum cepit fructum eo prae sertim tempore, quo Romae fuit.
Dolui in pſum combufliffe, quas ab amicis accipere solebat, epistolas, quia ſciebam
in iis erudita multa contineri: eae quidem mihi non me diocri subsidio futurae
fuiſſent huic explican dae vitae. De qua fatis erit dictum, fi hoc unum addam,
eumdem ineditas reliquiffe bi nas Dissertationes de S. Petro Igneo, & B.
Joanne delle Celle; librum de civitatibus, quarum mentio sit in graecis nummis,
ſex que Latinas orationes habitas in Academia Piſana, ex quibus lenitas ejus
fine nervis cognoſci potest. Opere: “Instıutiones philosophicae, ac
Mathemaricae ad ufum Scholarum Piarum: Florentiae typis Paperini, continens
physicam generalem, continens libros de coelo Es mundo, continens tractarum de
anima, E metaphysicam continens ethicam
vel moralem continens institutiones mathematicas Editae iterum fucrunt hae
institutiones in V. mos diſtributae Bononiac ex ty pograghia Laclii a Vulpe cum
hoc titulo Cl. Reg: Scholarum Piarum, & in Pisana Academia Philosophiae
Professoris Institutiones Philosophicae ad un fum scholarum Piarum edirio
altera auctior & emendarior; Ragionamenti intorno allo fato del fiume Arno,
dell acque della Valdinievole, In Colania appresso Heng Werergroot, in 4. “Elementi
di Matiemasica, ne' quali sono con migliori ardine e nikovo metodo dimostrare
le più nobili e necesaria proposizioni di Euclide, Apollonio, e Archimede, Ch.
Reg. delle Scuole Pie: in Firenze. nella Stamperia di S. A. R. per li Tartini,
e Frasa ahi in 8. Hace elementa mathematica edita secundo fuerunt Year I 2 1
netiis apud Antonium Perlinum, in qua edie tione quaedam mutata ſunt,
emendatufque error, quo cao ptus fuerat Auctor, dum in priori editione exposuit
propoíitionem XXXV Venetae huic editioni a djc&us est ejusdem Auctoris liber
della Geometria Pranica; Ragionamento Istorico Sopra la Valdichiana, in cui si
descrive la antica e presente suo stato” (Firenze, Moucke); “Faſii Anici in
quibus Archonium Athenienfium sea ries, Philosophorum, aliorumque illustrium
Virorum deras arque praecipua Acicae historiae capita per Olympicos annos
disposita describuntur, novisque observationibus illustrantur: ACl. Reg.
Scholarum Piarum in Pisana Academia Philosophiae Professore, Florentiae, ex
typographia. Giovannelli ad insigne Palmae in Platea S. Eliſabeth. ex Imperiali
typographia Cl. Reg. Scholarum Piarum in Acadeo mia Pisana Philosophiae Profeſoris
Differtationes. Agonisticae, quibus Olympiorum, Phychiorum, Nemeurum, ale que
Isthmorum lempus inquiriiur ac demonftrarur: Aco redit Hieronicarum catalogus
eduis longe uberior Es accurarior. Florenciae ex typographia Imperiali. In
cxtrema pagina hujus libri öxhibetur integra feries menfium Macedonicorum,
Atticorum, & Romanorum ad de mondirandun veruna corum ficum ac connexionem;
quam ſeriem hoc quoque in loco nos exponemus, quia rem gratam antiquitatis
ſtudioſis facturos arbitramur. Series enim a C. contexta differt nonnullis in
nienſibus ab ca quam Scaliger, Uſterius, Petavius, Dodwellus, aliique
descripferunt, i Macedonici Atrici Romani Lous Gorpiaeus Hyperbercraeus Dlus Apellaeus
Audynaeus Peritius Dystrus Xanthicus Artemisius Daiſius Panemus Hecatombeeon
Meragirnion Boedromion Pyanepſion Maemacterion Pofideon Gamelion Anthefterion
Elaphebolion Murychion Thargelion Scirrhophorion Julius Augustus September
October November December Januarius Februarius Marrius Aprilis Majus Junius
Lettere intorno al saggio di Maffei intitolato: Graecorum Siglae lapidariae.
Extat del Giornale de’ Letterati pubblicaro in Firenze notae graecorum, five
vocum Ex numerorum compen dia, quae in aereis atque marmoreis Graecoruin
rabulis ob. fervantur. Collegii, recenſuit, explicavit, eaſdemque cabu las
opportune riluftravia C. Cl. Reg. Scholas) rum Piarum in academik Piſina
Philoſophiae Profesor. Accedunt Differtationes ſex, quibus marmora quaedam rum facra
cum profana exponuntur ac emendantur. Florentine Tographio Imperiali in fol.
Plutarchi de Placitis Philofophorum libri V. Larine reddidit, recenſuir,
adnotationibus, variantibus lectionibus, diferrationibus illuſtravit C. Cl.
Reg. Schoe laruan Piarum in Pisana Acad. Philosophia Professor Flo. seniige ex
Imp. Typographio, Disertationes quibus antiqua quaedam insignia moc sumente
illuſtrantur. Vide eas, Symbolarara litercriarum Antonii Francisci Gorii. Herculis
quies & expiatio in eximio Farnesiano mere more expresa: in fol. Inscriptiones
Articae nunc primum ex Cl. Maffeii Schea dis in lucem editae latina
interpretatione brevibusque observationibus illuſtratae Cler. Regul. Schole
sunr Puarum in Academia Pisana Philosophiae Professore. Florenciae ansio ex
typographio Jo. Pauli Giovannel li in 4. Solecta ex Graeciae Scriptoribus in
usum ſtudiosae Juvent. sutis, Florentiae ex Imperiali rypographio ir 8.
Inſtitutiones Metaphyſicae in ufus Academicos auctore Eduardo Corfi:n0
Clericorum Regularium Scholarum Piaruz in Academia Pifana. Philoſophiae
Profeſore. Vesieriis ex Typographia Balleoniana in 12 C. Cl. Reg. Scholarum
Piarum in Accodemia Pisana humaniorum litterarum Profeſſoris de Minni fari
aliorumque Armeniac Regum nummis, & Arſacidarum Epocha Differtario Liburni typis
Antonii Santini & Sociorum in 4. Spiegazione di due antichiſſime
inſcriçroni Greche indie ricare al Reverendiffimo Padre Anton Franceſco
Vezzofi, Prepoſto Generale de Cherici Regolari, Lettore nella Seo pienza Romana,
ed Eſaminatore de' Vefcovi da Edoardo Corfini Ch. Reg. delle Scuole Pie. In
Roma, nella Stamperia di Giovanni Zempel; Relazione dello scuoprimento e
ricognizione fatta in Ancona dei Sacri Corpi di S. Ciriaco, Marcellino, e Lia
berio Proiettori della Circà; e Riflefroni ſopra la translazione, ed il culto di
queſte Sanci. In Roma, nellu Stamperia di Zempel in 4. Eduardi Corfini Cler.
Regul. Scholarum Piarum, En in Academia Piſana humaniorum literarum Profeffuris
Dis Seseario, in qua dubia adverſus Minniſari Regis nummum, & novam
Arſacidarum epocham a Cl. Erasmo Froelichio s. J. proposita diluuntur. Romae ex
typographio Palla dis in 4. C. Cler. Regul. Scholarum Piarum & in Academia
Pisana humaniorum lirerarum Profeſoris ad Cles riflimam virum Paulum Mariam
Paciaudium Epiſtola, ir qua Gotarzis Parthiae Regis nummus hactenus ineditos
expli Catur, & plura Parthicae hiſtoriae capita illustrantur. Romae, in
Typographio Palladis. Excudebant Nicolaus & Marcus Palearini ir 4.Cl. Reg.
Scholarum Piarum in Pifar:& Academia humaniorum litterarum Profeſoris
Epiftolae rres, quibus Sulpiciae. Dryantillae, Aureliani ac Vaballathi Avea
guſtorum nummi explicantur & illuſtrantur. Liburni apud Jo. Paullus
Fanthechiam ad fignum Verit. in 4. Series Praefeciorum Urbis ab Urbe condira ad
annum uſque sive a Chriſto naro DC. collegit, rem cenſuit, illuſtravir Eduardus
Corſinus Cler. Reg. Scholarum Piarum in Academia Piſana humaniorum liuerarum
Professor Pisis excudebar Joh. Paulus Giovane nelius Academiae Pifunae
Typographus cum Sociis in 4. Notizie Iſtoriche intorno a S. Liberio ſepolto e
venera 10 nella Cattedrale della città di Ancona all' Eminentiffimo Signor
Cardinale Acciajuoli Veſcovo di detta città. In Are cona nella Sramperia
Bellelli in 4. Cl. Reg. Scholarum Piarum,
in Academia Piſana humaniorum litterarum Profeſoris Epiſtola de Burdigalenfi
Aufonii Confulatu. Piſis Exe cudehar Joh. Paulus Giovannellius Academiae
Pifanae inyo pographus cum Sociis in 4. Clericor. Regular. Scholarum Pia rum
Ex- generalis, & in Pifana Univerſitare Primarii Les coris ed Joannem
Chryſostomum Trombellium canonicorum Regularium Congregationis S. Salvatoris
Ex-generalem & S. Salvatoris Bononiae Abbatem Epistola, Bunoniae, ex typographia Longhi in 4; Disertazione
sopra S. Pietro Ignes, sopra il B. Giovanni delle Celle; De Civitatibus, quarum
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Grice e Cortese: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del segno naturale -- del
principio del significato – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. e alpinista. Grice: “I love Cortese; first he wrote
on Frege, whose views on ‘aber’ are very much like mine on ‘but’! – But then he
also wrote on ‘irony,’ alla Socrates – as per Kierkegaard’s example, “He’s a
fine fellow! =>
He’s a scouncrel --, and most ‘theoretically,’ as the Italians put it – on the
‘principle of meaning’ – significato – which had me thinking – I very freely
speak of the principle of conversational helpfulness, but somehow, principle of
‘signification’ sounds obtuse! Signification seems too natural to require a
principle! If helpfulness and benevolence are evolutionary traits, they are
certainly NOT ‘instituted’ as principles, even if they are requirements for
trust and the ‘institution of decisions’!” “I am anything but a contractualist,
and principle has to be taken with a pinch of salt!” If I speak of a rational
constraint, the idea of a principle evaporates: it’s conversation as rational
cooperation – as I put it – as different from and stronger than ‘conversation
as mere cooperation’ – but this slogan frees us from a commitment to the
existence of a ‘principle’ to which we might want later to provide with some
sort of ‘psycho-logical’ validation!” Di una famiglia originaria di Sant’Angelo
Lodigiano. Si laurea a Trieste e Milano sotto Bontadini e Noce. Insegna a
Trieste. Studia Kierkegaard, Gioberti. Italianismi in Kierkegaard. Altre opere:
“Kirkegaardiana” (Milano); “Esistenzialismo e fenomenologia” SEI, Torino); “Protologia
e temporalità, Gregoriana, Roma); “Kierkegaard” (Milan); “Del principio di
creazione o del significato” Liviana, Padova, Kierkegaard” (La scuola,
Brescia); “Ironia” (Marietti, Genova); La Creazione: Un'apologia accidentale
della filosofia” (Marietti, Genova); “Il negozio del sapone, Liviana, Padova);
“Enten-Eller ([Victor Eremita” (Adelphi, Milano); “L'attrice” (Antilia,
Treviso); “Un discorso edificante” (Marietti, Genova); Il naturale e il
sovra-naturale (Padova); Ermeneutica” (Lint, Trieste), “Il responsabile” –
“Eden” – “Introduzione all’introduzione” del Gioberti – “Frege: signare il
concetto”; “Liberalismo”Meteorologia branca delle scienze dell'atmosfera Lingua
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meteorologia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti.
La meteorologia[1] (dal greco μετεωρολογία, letteralmente "studio dei
fenomeni celesti"[2]) è il ramo delle scienze dell'atmosfera e della Terra
che studia i fenomeni fisici che avvengono nell'atmosfera terrestre
(troposfera) e responsabili del tempo atmosferico. Cumulonembo
calvus, nube convettiva in atmosfera StoriaModifica Magnifying glass icon
mgx2.svg Storia della meteorologia. Rappresentazione di venti e
meteorologia in una tavola degli Acta Eruditorum del 1716 Il termine deriva dal
greco μετεωρολογία, meteōrología, da μετέωρος metéōros, "elevato" e
λέγω légō, "parlo", quindi "discorso razionale intorno agli
oggetti alti": la parola μετέωρος ha un'etimologiaincerta, forse derivato
dal termine metá in italiano ‘’oltre’’ e ourea ovvero il termine arcaico greco
per ‘’montagne’’ quindi Oltre i Monti [3], o forse da μετά metá "con,
dopo" e αἴρω áirō "alzo".[4] Dopo le prime intuizioni dei greci
si è dovuto attendere fino alla seconda metà del XX secolo quando, con l'arrivo
dei calcolatori elettronici, l'uomo ha avuto la possibilità di eseguire in un
tempo ragionevole le tante operazioni di calcolo che caratterizzano
l'elaborazione a mezzo di un modello meteorologico. Gli oggetti che cadono dal
cielo più frequentemente sul nostro pianeta sono le idrometeore, vale a dire
particelle costituite da acquanella sua forma liquida (pioggia) o solida (neve,
cristalli di ghiaccio, grandine o neve tonda). DescrizioneModifica
Circolazione generale dell'atmosfera Ciclone extratropicale Fronte
caldo Fronte freddo Fronte occluso In particolare lo studio
dell'atmosfera è lo studio sia sperimentale dei suoi parametri fondamentali
(temperatura dell'aria, umidità atmosferica, pressione atmosferica, radiazione
solare, vento), attraverso l'uso di osservazioni e misurazioni dirette e
indirette a mezzo di stazioni meteorologiche, palloni, sonde, razzi e satelliti
meteorologici equipaggiati della necessaria strumentazione, sia teorico,
facente cioè uso dell'astrazione propria del linguaggio della fisica matematica
per la quantificazione delle leggi fisiche o processi (appartenenti alla fisica
dell'atmosfera) che intercorrono tra essi. I due approcci confluiscono
nel risultato finale ovvero l'ideazione, l'implementazione e l'inizializzazione
di modelli matematici in grado di ottenere una previsione o prognosi a breve
scadenza dei vari fenomeni atmosferici (nubi, perturbazioni, vento,
precipitazioni tramite i cosiddetti modelli meteorologici) su un dato
territorio (previsione del tempo). Tempo meteorologico e climaModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tempo
meteorologico, Clima e Variabilità meteorologica. Obiettivo della meteorologia
è quello di misurare direttamente i parametri fisici atmosferici istantanei e
cercare di fornire previsioni su determinati eventi atmosferici futuri,
studiando dunque i fenomeni di breve durata che caratterizzano il tempo
meteorologico; la raccolta di dati sul lungo periodo è utile invece a livello
climatologico studiando l'andamento medio del tempo atmosferico di una regione
in un certo lasso temporale: mentre il tempo atmosferico è definito come
l'insieme delle condizioni atmosferiche in un certo istante temporale su un
dato territorio, il clima invece è l'insieme delle condizioni meteorologiche
medie di un territorio su di un arco temporale di almeno 30 anni, come
stabilito dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM): talune analisi che
si riferiscono in primis all'ambito meteorologico non possono dunque essere
estese all'ambito climatologico essendo questo una media statistica sul lungo
periodo, oggetto di studio di quella scienza affine che è appunto la
climatologia; quindi mentre la meteorologia ha come finalità ultime la
comprensione dei fenomeni atmosferici a breve scadenza con relativa previsione,
la climatologia studia invece i processi dinamici che modificano le condizioni
atmosferiche medie a lunga scadenza, come ad es. i cambiamenti climatici.
Principali fenomeni meteorologiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Fisica dell'atmosfera. L'atmosfera terrestre è
un gigantesco sistema termo-fluidodinamico, accoppiato con il sistema oceanico,
la biosfera e la criosfera, e mosso da una sorgente di energia termica sotto
forma di radiazioni che è il Sole. La natura dinamica e intrinsecamente caotica
o turbolenta dell'atmosfera si esplica attraverso la circolazione generale
dell'atmosfera e una serie innumerevole di fenomeni atmosferici che
quotidianamente osserviamo. Gran parte di questi fenomeni possono essere
inclusi in tre grandi categorie di processi: i processi di
redistribuzione del calore, sia in verticale attraverso il trasferimento
radiativo e convettivo, sia in orizzontale (a piccola, media e larga scala)
attraverso i venti e la circolazione generale dell'atmosfera. i processi
atmosferici coinvolti nel ciclo dell'acqua, innescati a loro volta dai processi
radiativi, quali evaporazione, condensazione, nubi, precipitazioni e i fenomeni
perturbativi ad essi associati (a piccola, media e larga scala) quali fronti
meteorologici, cicloni extratropicali, cicloni tropicali, temporali, rovesci,
tornado ecc. i processi legati all'elettricità atmosferica, come i fulmini. Le
prime due categorie di processi sono intimamente connesse giacché evaporazione,
condensazione e formazioni cicloniche contribuiscono anch'esse al trasporto
dell'energia nel sistema sia in verticale che in orizzontale e allo stesso
tempo da essi innescati. I vari fenomeni meteorologici sono classificati
all'interno della cosiddetta scala dei moti atmosferici a seconda delle
dimensioni del territorio, del tipo di analisi richiesta e dell'intervallo
temporale di interesse in cui essi insistono.
StrumentazioniModifica Strumentazione di una stazione meteorologica
Satellite meteorologico(Meteosat) Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Stazione meteorologica. L'uomo ha anche costruito nuovi
strumenti per osservare le varie interazioni; i seguenti strumenti sono stati
approvati dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM), e molti di essi
vengono utilizzati in ogni stazione meteorologicamondiale:
radiometri e scatterometri localizzati su satelliti meteorologici
misurano l'energia elettromagnetica reirradiata dal pianeta verso lo spazio
esterno, fornendo quindi un'immagine dello stato dell'atmosfera e della
presenza di nuvole termometri (es. a minima e massima), per la misurazione
della temperatura; igrometri, per la misurazione dell'umidità; psicrometri, per
la misurazione dell'umidità; termoigrometri, per la registrazione della
temperatura e dell'umidità; pluviometri/pluviografi, per la misurazione delle
quantità di pioggia; nivometri, per la misurazione dell'accumulo di neve al
suolo; anemometri, per la misurazione della forza e della direzione dei venti;
trasmissometri, per la misurazione della visibilità; palloni sonda per
radiosondaggi: attraversano verticalmente l'atmosfera per ottenere profili
verticali di pressione, temperatura, umidità e vento (sono per ora la
principale fonte di dati per i modelli meteorologici); boe galleggianti e navi
meteorologiche, per l'osservazione delle condizioni meteorologiche in mare
aperto; radar meteorologici. Irradiano energia elettromagnetica e ricavano
informazioni sull'atmosfera analizzando le caratteristiche del segnale da essa
riflesso. Sono utilizzati per individuare eventi di precipitazione, stimarne
l'entità e prevederne l'evoluzione a breve termine (nowcasting), e in alcuni
casi per sondare la struttura interna delle nubi. Possono essere installati a
terra o su satellite; satelliti meteorologici, cioè satelliti che ruotano
attorno alla terra per inviare al suolo immagini del movimento delle nubi e le
mappe della temperatura. I satelliti si dividono in geostazionari e a orbita
polare. Si possono visualizzare le immagini dei satelliti su molti siti web.
Previsioni meteorologiche Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Previsione meteorologica. Manica a vento, uno dei simboli
della Meteorologia Immagine del NOAA Carta meteorologica di
previsione a 500 hp Le previsioni meteorologiche si ottengono solitamente dalla
seguente procedura: osservazione e misurazione delle variabili
atmosferiche (es. velocità e direzione del vento, temperatura dell'aria,
umidità, pressione); trascrizione, studio ed elaborazione dei dati rilevati su
carte sinottiche o assimilando i dati attraverso modelli matematici che girano
su calcolatori numerici, dove in quest'ultimo caso, viene prodotta la
situazione meteorologica di un determinato momento, chiamata analisi; prognosi
futura a partire dalle carte sinottiche oppure facendo evolvere la condizione
iniziale tramite uso dei modelli matematici meteorologici (previsione). Ambiti
di studioModifica All'interno della disciplina vi sono vari ambiti di
studio: la meteorologia sinottica che studia in maniera qualitativa e
quantitativa l'evoluzione delle condizioni atmosferiche di vaste porzioni dell'atmosfera
stessa (superiori ai 1000 km) tramite l'uso di carte meteo, nozioni empiriche,
metodo delle analogie ecc. la meteorologia dinamica che, partendo dalle
equazioni di base della fluidodinamica, cerca di spiegare formazione e sviluppo
dei fenomeni osservati (detta anche meteorologia fisica o teorica). la
meteorologia numerica, si occupa di definire e affinare i modelli numerici di
previsione meteorologica la meteorologia satellitare, che si avvale delle
analisi di telerilevamento atmosferico e quindi dei relativi dati trasmessi a
terra dai satelliti meteorologicicome ad esempio i satelliti Meteosat. la
radarmeteorologia che si avvale dei dati raccolti dai radar meteorologici
dislocati sul territorio per affrontare la previsione meteo a brevissima scadenza
(nowcasting). la meteorologia aeronautica, che si occupa principalmente dei
fenomeni rilevanti per la navigazione aerea; la meteorologia spaziale che si
occupa del cosiddetto tempo meteorologico spaziale in alta atmosfera; la
meteorologia ambientale che studia pollini e dinamica degli inquinanti in
atmosfera; l'agrometeorologia che studia le relazioni tra tempo atmosferico e
agricoltura[5]; Meteorologi famosiModifica Edmondo Bernacca Andrea Baroni
Plinio Rovesti Guido Caroselli Mario Giuliacci Guido Guidi Paolo Sottocorona
Paolo Corazzon Luca Mercalli Andrea Giuliacci Daniele Izzo NoteModifica ^ Anche
se spesso viene usata, la grafia metereologia non è corretta, come dimostra
l'etimologia greca; cfr. anche l'abbreviazione meteo. ^ meteorologìa in Vocabolario,
su Treccani Con la stessa etimologia delle antiche divinità della cosmogonia
greca Ouranos (Cieli) e Ourea (Montagne) ^ Franco Montanari, Vocabolario della
lingua greca, Torino, Loescher, 1995, p. 1276. ^ Luigi Mariani Clima e
agricoltura Rivista I tempi della terra su itempidellaterra.org. URL consultato
il 17 gennaio 2019 (archiviato dall' url originale il 19 gennaio 2019).
BibliografiaModifica Antonio Navarra, Le previsioni del tempo, Il
Saggiatore, Agrometeorologia Atmosfera
Anticiclone Avvezione Barometro Carta meteorologica Circolazione atmosferica
Formula ipsometrica Fisica dell'atmosfera Igrometro Isobara (meteorologia)
Isoterma (meteorologia) Grandine Ghiaccio Geopotenziale Legge della persistenza
Legge della compensazione Meteorognostica Nube Neve Pressione atmosferica
Precipitazione (meteorologia) Promontorio di alta pressione Riscaldamento
stratosferico Storia della meteorologia Stazione meteorologica Saccatura
Satellite meteorologico Strato limite Teoria del caos Temperatura Termometro Tempo
(meteorologia) Umidità Variabilità meteorologica Vortice polare Altri
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nazionaliModifica (IT) Meteo Aeronautica Servizio Meteorologico
dell'Aeronautica Militare (IT) AMPRO Associazione Meteo Professionisti
Organizzazioni internazionali World Meteorological Organization Organizzazione
Meteorologica Mondiale (EN) European Centre for Medium-Range Weather Forecasts
Centro europeo per le previsioni meteo a medio termine (EN) Eumetnet
Raggruppamento di 29 servizi meteo nazionali europei (EN) Eumetsat
Organizzazione europea per i satelliti meteorologici European Meteological
Society Portale Meteorologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
meteorologia Ultima modifica 3 mesi fa di Pav03 Storia della meteorologia
Meteorologo Previsione meteorologica Wikipedia Il contenutoGrice: Can a sign
have a different meaning for utterer and recipient? – If so, why do we keep
calling communication – signare seems to be still good enough! -- Alessandro
Cortese. Cortese. Keywords: del principio del significato, Kierkegaard, soap,
sapone, actress, attrice, edifying discourse, discorso edificante,
naturale/sopra-naturale/preter-naturale, Paul Carus, hyperphysical. Those spots
means she has the devil inside her. Praeter-natural implicatura, supra-natural
implicature, non-natural implicature, natural implicature. “Del significato”,
ironia socratica, sapone, Savona, signare il concetto, sovrannaturale,
liberalismo, il responsabile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cortese” – The
Swimming-Pool Library. Cortese.
Grice e Corvaglia: la ragione conversazionale,
il pessimismo e l’implicatura di Tantalo
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Melissano).
Filosofo italiano. Grice: “I love Corvaglia – or corvus in diluvio, as he
called himself! – a very Italian philosopher and thus interested in the history
of Italian philosophy, especially Vannini – the fact that he wrote plays on
philosophical subjects – La casa di Seneca – helps!” Opera nel campo della filosofia del rinascimento.
Tra gli studi filosofico-scientifici si distinguono per vastità e profondità i
volumi Le opere di Vanini e le loro fonti, e Vanini Edizioni e plagi, risposta
polemica condotta contro le veementi critiche ricevute Porzio. Pubblica
il romanzo Finibusterre, trasfigurazione quasi sacra della sua amata terra e
del popolo del Basso Salento, ch'egli incitava con ogni mezzo, anche se spesso
travisato e intralciato e persino calunniato a crescere, per migliorare
materialmente e moralmente. Il romanzo fu ben accolto dalla critica. Benedetto
Croce, a cui Corvaglia lo aveva dedicato, rimarcò "lo sfondo storico
rappresentato in modo assai vigoroso" e il "trattamento dei caratteri
e degli effetti". Con maggiore puntualità Annibale Pastore (già suo
professore all'Torino) gli confidava di sentire emergere nella sua mente,
attraverso figure e temi del romanzo, ricordi sepolti, "struggente
malinconia", un mondo molto simile a quello del Manzoni, "anch'esso
celato alla superficie, soffuso d'ironia-limite", e tuttavia turbato da
altri affascinanti caratteri, quali: "il sorprendente realismo, la
perfetta armonia, l'effusione poetica, l'occhio acuto e sicuro, che scruta
l'animo umano fin nelle più remote pieghe". Si dedica totalmente
alla filosofia del Rinascimento, animato dal bisogno di trarre alla luce
obliterate sorgive e percorrendo il
movimento spesso alquanto sconosciuto della filosofia, che dal Rinascimento
risale fino al Medio Evo. S'apre nella sua vita uno spiraglio di fiducia
verso gli uomini impegnati, e si prestadoverosamente secondo la sua fede
politica all'attività politica, accogliendo e votandosi alla cultura mazziniana,
cui rimane Fedele.. È di questo periodo la pubblicazione, tra l'altro, dei
Quaderni Mazziniani: “Noi Mazziniani”, “Mazzini ed il Partito di Azione”, “L'Acherontico
retaggio”, “Il Partito Repubblicano italiano”, il discorso Ai giovani, la
conferenza (edita da Laterza) su Giuseppe Mazzini. Dopo la proclamazione
della Repubblica, però, si allontana da ogni azione politica, ritenendola del
tutto estranea e lontana dall'ideale da lui vagheggiato e sperato. Si
trasferisce a Roma, nell'ambiente culturale a lui più consono, ritornando agli
studi tra i suoi libri, dove soltanto sente di vivere senza alcun compromesso,
in assoluta libertà. Cascata di S.M. di Leuca. Scaligero, un saggio di
"speleologia". Saggio su Cardano. Su iniziativa del comune di Melissano,
è stato avviato un "Biennio di Studio su Corvaglia", al fine di
approfondirne e divulgarne la conoscenza. Alla realizzazione del progetto
collaborano, come protagonisti, anche l'Amministrazione Provinciale di Lecce,
l'Università degli Studi del Salento e l'Istituto Comprensivo Statale di
Melissano, che chiuderanno il biennio dei lavori, organizzando un Convegno su Corvaglia",
al fine di dibattere argomenti di particolare interesse presenti nella sua
opera. A tale riguardo si sta già operando non solo sul piano della ricerca
specialistica e accademica, ma anche sulla promozione d'iniziative, che
coinvolgano biblioteche e settori culturali degli enti locali, creando
opportunità per sviluppare in maniera articolata e organica la ricognizione e
la valorizzazione del patrimonio culturale salentino in generale e melissanese
in particolare, lasciato in eredità da Corvaglia. La casa di
Seneca- Commedia di L. Corvaglia. Altre opere: “La casa di Seneca” (Tipografia
Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Rondini (dedicata "Al mio povero
innocente Nova, fuggevole visione di un Infinito", che avvampa e dilegua
in vicenda amara di avventi senza natale"; Tipografia Fratelli Carra,
Matino (Lecce); “Tantalo” Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce), Santa
Teresa e Aldonzo (L. Cappelli Editore, Bologna); Rondini- Commedia; “Romanzo
Finibusterre, Editrice Dante Alighieri, Milano); “Le fonti della filosofia di
Vanini” (Anphitheatrum Aeternae Providentiae, Società Dante Alighieri, Milano);
“Introduzione semi-seria dialogata per il lettore Vanini” (Edizioni e plagi,
Tipografia Carra di Casarano); “Ricognizione delle opere di G.C. Vanini, in
"Giornale Critico della Filosofia Italiana”; La poetica di Scaligero nella
sua genesi e nel suo sviluppo, in "Giornale Critico della Filosofia
Italiana", Quaderni Mazziniani; “Noi Mazziniani” Tipografica di Matino
(Lecce), “Mazzini e il partito d' azione (critica), Tipografica di Matino
(Lecce), “ L'acherontico retaggio (con l'elogio della vita comune), Tipografica
di Matino (Lecce), Quaderni Mazziniani n° 4. Il partito repubblicano italiano,
Tipografica di Matino (Lecce). Discorso tenuto a Lecce nel Teatro Paisiello il
21 gennaio 1945. Giuseppe Mazzini, Discorso commemorativo tenuto a Lecce nel
Teatro Apollo, Laterza, Bari,"Rinascenza salentina", Un Paese del
Sud. Melissano. Storia e tradizioni popolari, Tipografia di Matino. Meridionalista
e Polemista, La Poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo
sviluppo, Musicaos Editore, Sulla Poetica di G.C. Scaligero. Convegno sy
Corvaglia. Il pensiero politico di Corvaglia. Popolo Sacralità Religiosità. Wikipedia
Ricerca Tantalo personaggio della mitologia greca, figlio di Zeus, legato al
famoso supplizio Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se
stai cercando altri significati, vedi Tantalo (disambigua). Tàntalo Tantalus by
J.Heintz the Elder, jpg Tantalo Nome orig.Τάνταλος SessoMaschio Luogo di
nascitaLidia ProfessioneRe di Lidia Tàntalo (in greco antico: Τάνταλος,
Tàntalos) è un personaggio della mitologia greca. Re di Lidia (o della
Frigia) che per i suoi numerosi peccati fu punito dagli dei e gettato nel
Tartaro, la sua punizione è divenuta una figura retorica con cui si indica una
persona che desidera qualcosa che non può raggiungere. EtimologiaModifica
Secondo Platone, accordandosi alla radice greca τλα-/τλη- del verbo greco τλάω
(che significa "soffrire"), il nome Tantalo deriverebbe da talànatos(infelicissimo)
Genealogia Modifica Figlio di Zeus[2][3] o di Tmolo[4] e della ninfa
Pluto[2][3]sposò la ninfa Dione[2] (figlia di Atlante) o Eurinassa[5](figlia di
Pattolo) o Euritemiste[6] (figlia di Xanto) o Clizia[6] (figlia di Anfidamante)
e fu padre di Pelope[2][5][6], Brotea[4][7], Niobe[8][9] e Dascilo[10].
MitologiaModifica Tantalo visse presso il monte Sipylos in Anatolia, dove fondò
la città di Tantalis[11]. Il banchetto di Tantalo I misfattiModifica
Tantalo, che grazie alle sue origini era ben voluto dagli dei[12], si rese
responsabile di diverse offese nei loro confronti e violò le regole della xenia
cercando di rapire Ganimede, rubando dell'ambrosia che in seguito distribuì ai
suoi sudditi ed organizzando il furto di un cane d'oro creato da Efesto e posto
a guardia di un tempio di Zeus a Creta (di tale furto l'artefice materiale fu
Pandareo ma Tantalo giurò il falso ad Hermes, inviato dagli dei proprio per
recuperare l'animale[13][14]; secondo un'altra versione il cane era in realtà
Rea trasformata in quel modo da Efesto[15]). Il re infine organizzò un
banchetto a cui invitò gli dei stessi e, per mettere alla prova la loro
onniscienza, uccise suo figlio Pelope e lo fece servire come pasto: Demetra,
disperata per la perdita della figlia Persefone, non si accorse di nulla e
consumò parte di una spalla del ragazzo, ma gli altri dei notarono
immediatamente l'atrocità e gettarono i pezzi di Pelope in un
calderone[13]. Il supplizioModifica Il supplizio di Tantalo Gli dei
punirono Tantalo gettandolo negli inferi[12] e condannandolo ad avere per
sempre una fame e una sete impossibili da placare[13] schiacciato dal peso di
un masso, legato ad un albero da frutto e immerso fino al collo in un lago
d'acqua dolce: appena prova ad abbeverarsi il lago si prosciuga e non appena
prova a prendere un frutto i rami si allontanano o un colpo di vento li fa
volare lontano[16]. Il sepolcro di Tantalo sorgeva sul monte Sipylos[3]
ma gli onori gli furono pagati ad Argo, la cui tradizione locale sosteneva
anche di possedere le sue ossa[3]. Miti successiviModifica I mitografi
successivi cercarono in tutti i modi di discolpare gli dei da un possibile atto
di cannibalismo stravolgendo in tutto la storia di Tantalo: secondo tale
versione, infatti, egli era un sacerdote che rivelò ogni segreto ai non
iniziati, al che colpirono suo figlio con una malattia orrenda. I chirurghi di
allora, con varie operazioni, riuscirono a ricostruire il corpo originale anche
se di lì in poi esso portò innumerevoli cicatrici[17]. Filosofia Il mito
di Tantalo venne successivamente ripreso dal filosofo Arthur Schopenhauer nella
sua opera più nota, Il mondo come volontà e rappresentazione, come esempio
della eterna insoddisfazione dell'uomo per cui "contro un desiderio che
viene appagato ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; la brama dura a lungo,
le esigenze vanno all'infinito mentre l'appagamento è breve e misurato con
spilorceria". Curiosità. Il furto dell'ambrosia a vantaggio degli
esseri umani lo accomuna a Prometeo[18], ma in questa veste il suo mito si
trasforma da peccatore a benefattore. Tantalo, alla stregua di Licaone, era uno
dei re originali a cui era concesso, con il favore degli dei, di condividerne
la mensa: il suo gesto viene visto come un atto di separazione fra divinità e
umanità, che verrà poi ripreso da molti altri miti come nel caso di Achille. Il
supplizio di Tantalo viene citato anche da Primo Levi in Se questo è un uomo
nella frase: "Si sentono i dormienti respirare e russare, qualcuno geme e
parla. Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare
(...). È un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva
conoscerlo." Oriana Fallaci, in Se il sole muore, cita il mito di Tantalo
dal momento che nella missione Apollo 11l'astronauta Michael Collins sarà
costretto ad avvicinarsi alla Luna senza avere la risposta a: "Com'è la
Luna? Assomiglia alla Terra? È più bella? Più brutta? Che effetto fa
camminarci?". La tortura di Tantalo viene ripresa anche da Thomas Mann in
La montagna incantata. Un personaggio dell'opera, la signora Stohr, riferendosi
al prolungarsi indefinito delle prescrizioni per le cure, afferma: «[omissis]
Dio buono si è sempre allo stesso punto, lo sa anche lei. Si fanno due passi
avanti e tre indietro... Quando uno ha fatto cinque mesi, arriva il vecchio e
gliene rifila altri sei. Ah, è la tortura di Tantalo. Si spinge, si spinge e
quando si crede d'essere in cima...». È evidente la confusione che la signora,
avvezza alle gaffes, fa tra Tantalo e Sisifo. L'interlocutore, il sarcastico e
dotto umanista Settembrini, risponde sul punto: «Oh, brava e generosa!
Finalmente concede al povero Tantalo un diversivo. Per variare gli fa spingere
il famoso pietrone! È un atto di vera bontà! [omissis]». Ne La valle dell'Eden
John Steinbeck fa dire a Kate: "Chi era quello che non riusciva a bere da
un setaccio? Tantalo?" (cap. 46). Tantalo appare come sostituto di Chirone
nel secondo libro della Saga di Percy Jackson Il mare dei mostri. Il tantalio,
elemento chimico di numero atomico 73, prende il nome da Tantalo, e si trova
sotto il niobio, il cui nome deriva proprio da sua figlia Niobe. NoteModifica ^
Platone, Cratilo, 28. ^ a b c d Igino, Fabulae 82 ^ a b c d ( EN ) Pausania il
Periegeta, Periegesi della Grecia, II, 22.2 e 3, su theoi.com. URL consultato
il 13 agosto 2019. ^ a b Scholia ad Euripide, Oreste 5 ^ a b Giovanni Tzetzes a
Licofrone, 52 ^ a b c Scholia ad Euripide, Oreste, Pausania il Periegeta,
Periegesi della Grecia, III, 22.4, su theoi.com. URL consultato il 13 agosto
2019. ^ Igino, Fabulae, 9 ^ ( EN ) Apollodoro, Biblioteca, III, 5.6, su
theoi.com. URL consultato il Scolio ad Apollonio Rodio, Le Argonautiche, II, v.
752 ^ Plinio il Vecchio Naturalis historia 2,93; 5,31 ^ a b ( EN ) Diodoro
Siculo, Biblioteca Historica, IV, 74.1 e 2, su theoi.com. URL consultato il 13
agosto 2019. ^ a b c ( EN ) Pindaro, Olimpiche, 1.60 ff, su perseus.tufts.edu.
URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Euripide, Oreste, 10 ^ Antonio Liberale,
Metamorfosi, 11 e 36. ^ ( EN ) Apollodoro, Biblioteca, Epitome II, 1, su theoi.com.
URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Tzetze, a Licofrone, 152 ^ Pindaro,
Olimpiche, 1, 59-63. BibliografiaModifica Fonti primarie Esiodo, Teogonia 355
Pausania, Libro II, 22,4 Pindaro, Olimpica III, 41 Igino, Fabulae 82,83 e 124
Fonti secondarie Robert Graves, I miti greci, Milano, Longanesi, 1979, ISBN
88-304-0923-5. Angela Cerinotti, Miti greci e di roma antica, Prato, Giunti,
2005, ISBN 88-09-04194-1. Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, Litopres,
UTET, 2006, ISBN 88-02-07481-X. Anna Maria Carassiti, Dizionario di mitologia
classica, Roma, Newton, Prometeo Issione Tizio Sisifo Altri progettiModifica
Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file
su Tantalo Collegamenti esterniModifica Tantalo, su Treccani.it – Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Carlo
Gallavotti, TANTALO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1937. Modifica su Wikidata ( EN ) Tantalo, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. La storia di Tantalo, su
haidukpress.Portale Mitologia greca: accedi alle voci di Wikipedia che trattano
di mitologia greca Ultima modifica 3 giorni fa di Nicola Gotti Enomao re di
Pisa nella mitologia greca, figlio di Ares Clitennestra personaggio della
mitologia greca, moglie di Agamennone e amante di Egisto Minia re e
fondatore di Orcomeno in Beozia nella mitologia greca Wikipedia Il
contenutoAlles Wollen entspringt aus Bedürfniß, also aus Mangel, also aus
Leiden. Diesem macht die Erfüllung ein Ende; jedoch gegen einen Wunsch, der
erfüllt wird, bleiben wenigstens zehn versagt: ferner, das Begehren dauert
lange, die Forderungen gehen ins Unendliche; die Erfüllung ist kurz und
kärglich bemessen. Sogar aber ist die endliche Befriedigung selbst nur scheinbar
: der erfüllte Wunsch macht gleich einem neuen Platz : jener ist ein erkannter,
dieser ein noch unerkannter Irrthum. Dauernde, nicht mehr weichende
Befriedigung kann kein erlangtes Objekt des Wollens geben: sondern es gleicht
immer nur dem Almosen, das dem Bettler zugeworfen, sein Leben heute fristet, um
seine Quaal auf Morgen zu verlängern. – Darum nun, solange unser Bewußtseyn von
unserm Willen erfüllt ist, solange wir dem Drange der Wünsche, mit seinem
steten Hoffen und Fürchten, hin- gegeben sind, solange wir Subjekt des Wollens
sind, wird uns nimmermehr dauerndes Glück, noch Ruhe. Ob wir jagen, oder
fliehn, Unheil fürchten, oder nach Genuß streben, ist im Wesentlichen einerlei:
die Sorge für den stets fordernden Willen, gleichviel in welcher Gestalt,
erfüllt und bewegt fortdauernd das Bewußtseyn; ohne Ruhe aber ist durchaus kein
wahres Wohlseyn möglich. So liegt das Subjekt des Wollens beständig auf dem
drehenden Rade des Ixion, schöpft immer im Siebe der Danaiden, ist der ewig
schmachtende Tantalus.Luigi Corvaglia. Corvaglia. Keywords: Tantalo,
Schopenhauer, Sisifo, assurdo, Camus, tragico. Refs.: Vanini, Bordon, poetica,
Mazzini, Pomponazzi, Cardano --. Luigi Speranza, “Grice e Corvaglia” – The
Swimming-Pool Library. Corvaglia.
Grice
e Corvino: la ragione conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Imbevuto di discorsi socratici, insigne per le sue attività
politiche e militari, scrittore e protettore di poeti. C. studia in Atene
con Orazio e poi coltivò l’eloquenza, la grammatica, la poesia. C. e
incluso nelle liste di proserizione perchè avversario di Cesare, ma salva la
vita. C. combattò con Bruto e Cassio a Filippi, poi si unì ad
Marc'Antonio.In seguito, C. strinse rapporti con Ottaviano. C. e console,
combattè ad Azio ed ebbe comandi in Oriente. Per una vittoria
sugl'Aquitani, C. consegue il trionfo.C. rimase però sempre fedele alle antiche
convinzioni politiche, e perciò, dopo sei giorni dalla nomina, abbandona l’ufficio
di praefectus urbis. C. e curator aquarum. A nome del Senato, C.
salutò Augusto "pater patriae."Corvino fu capo di un circolo
filosofico al quale appartennero Tibullo e Ligsdamo.C. scrive carmi bucolici e
orazioni. Come oratore, C. e molto lodato da Tacito e Quintiliano.C.
compose un’opera storica, probabilmente di memorie.Alcuni hanno rilevato
influssi dell’Epicureismo, altri di Posidonio, nel lungo frammento che ci
rimane di un poema sulla caccia ("Cynegetica") composto da Grattio,
vissuto al tempo di Augusto.Ma abbiamo elementi troppo scarsi per determinare
le direttive del suo pensiero. Del poeta Linceo (probabilmente questo
era uno pseudonimo), Properzio, suo amico e rivale in amore, dice che attingeva
la sua sapienza ai libri socratici e che avrebbe potuto trattare del corso
delle cose, del sistema del mondo e di problemi, escatologici e naturali. Marco
Valerio Mesalla Corvino. Corvino.
Grice e Cosi: l’implicatura
conversazionale del cuore -- accordo – cuori -- l’accordo – filosofia italiana
– Luigi Speranza -- (Firenze). Filosofo italiano.
Grice: “I love Cosi; my favourite of his philosophical essays on justice is the
one on ‘l’accordo,’ for this is what my principle of conversational helpfulness
or co-operation is all about!” Giovanni
Cosi. Si laurea a Firenze. Insegna a Firenza, Sassari, Siena. Altre opere: “La
liberazione artificiale: l’uomo e il diritto di fronte a la droga” (Milano: Giuffrè);
"Religiosità e teoria critica" (Giuffre); "Secolarizzazione e
ri-sacralizzazioni" (Giuffre); "Il sacro e giusto: itinerario di
archetipologia” (FrancoAngeli). Dopo aver compiuto ricerche sull'espressione
del dissenso in forma non rivoluzionaria negli ordinamenti liberal-democratici,
pubblica per la Giuffrè Editore il volume "Saggio sulla disobbedienza
civile"; "Il traviato”, “il filosofo traviato: il filosofo come
gentiluomo (Giuntina); “La obbedienza
civile, la disobbedienza civile: il consenso, il dissenso, la aristocracia, la
plutocracia, la democrazia, la repubblica (Milano: Giuffrè). Il giurista
perduto: avvocati e identità professionale” (Giuntina), “Logos e dialettica”
(Giappichelli, Torino); “Il filosofo risponsabile” (Giappichelli,Torino); “Lo
spazio della mediazione, -- il terzo escluso – chi media nella diada? (Giuffrè).
“Invece di giudicare” (Giuffrè); “Il spazio della mediazione nel conflitto
della diada conversazionale” (Giappichelli Torino); “Legge, Diritto, Giustizia”
(Giappichelli, Torino). “Giudicare, o Fare giustizia. – vendetta – il concetto
filosofico” (Giuffré Editore, Milano). La liberazione artificiale: l'uomo e il
diritto di fronte alla droga, Giuffrè, Milano; Saggio sulla disobbedienza
civile: storia e critica del dissenso in democrazia, Giuffrè, Milano; Il
giurista perduto: avvocati e identità professionale, Giuntina, Firenze; Il
sacro e il giusto: itinerari di archetipologia giuridica, Franco Angeli,
Milano; Il Logos del diritto, Giappichelli, Torino; La responsabilità del
giurista: etica e professione legale, Giappichelli, Torino; Società, diritto,
culture: introduzione all'esperienza giuridica, dispense di Sociologia del
Diritto, Firenze); La professione legale tra patologia e prevenzione: materiali
di etica professionale, dispense di Sociologia del Diritto, Firenze; Per una
politica del diritto del fenomeno droga: problemi e prospettive", Archivio
Giuridico; Il diritto e la droga" e "Per una comprensione culturale
dell'uso di droghe", Testimonianze; "Religiosità e Teoria Critica: la
teologia negativa di Max Horkheimer", Rivista di Filosofia Neo-scolastica, "Secolarizzazione
e risacralizzazioni: le sopravalutazioni post-illuministiche
dell'immanentismo", in L. Lombardi Vallauri - G. Dilcher, Cristianesimo,
secolarizzazione e diritto moderno, Giuffrè - Nomos Verlag, Milano - Baden-Baden);
"Sulla 'naturalità' dei diritti civili", Testimonianze;
"L'Uno o i Molti? Il 'nuovo politeismo' di Miller e Hillman",
Testimonianze; "Ordine e dissenso. La disobbedienza civile nella società
liberale", Jus; "Iniziazione e tossicomania: intorno a un libro di
Luigi Zoja", Testimonianze; "Le aporie del pacifismo: critica della
pace come ideologia", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto;
"L'immagine sofferente della legge", L'Immaginale; "Diritto e
morale in tema di aborto", Testimonianze; "Professionalità e
personalità: riflessioni sul ruolo dell'avvocato nella società",
Sociologia del Diritto; "L'avvocato e il suo cliente: appunti storici e
sociologici sulla professione legale", Materiali per una storia della
cultura giuridica; "La coscienza, gli dei, la legge", Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto; "Il diritto del mondo
I", Anima; "Un anniversario dimenticato: Il Bill e la sua eredità", Sociologia del
Diritto; "Vecchio e nuovo nelle crisi di identità degli avvocati", in
Storia del diritto e teoria politica, Annali della Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università degli Studi di Macerata; "Verso il paese di Inanna",
Anima;"Avvocato o giurista?", comunicazione al VI Convegno nazionale
di studio dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, Firenze, Iustitia,
"Tutela del mondo e normatività naturale", in L. Lombardi Vallauri
(ed.), Il meritevole di tutela, Giuffrè, Milano); "Tutela del mondo e
strumenti giuridici", Testimonianze; "La professione legale tra etica
e deontologia", Etica degli Affari e delle professione; "Diritto
e realizzazione: un'introduzione alla fenomenologia del logos giuridico",
Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "La legge e le origini
della coscienza", Per la filosofia; "Naturalità del diritto e
universali giuridici", Rivista Internazionale di Filosofia del
Diritto,"Naturalità del diritto e universali giuridici", in F.
D'AGOSTINO (ed.), Pluralità delle culture e universalità dei diritti,
Giappichelli, Torino); "Etica secondo il ruolo", Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto; "Purezza e olocausto:
un'interpretazione psicologico-culturale", Per la Filosofia;
"Logos giuridico e archetipi normativi", in L. LOMBARDI VALLAURI, Logos
dell'essere, Logos della norma, Adriatica, Bari); “Giustizia senza giudizio.
Limiti del diritto e tecniche di mediazione”, in F. MOLINARI e A. AMOROSO,
Teoria e pratica della mediazione, FrancoAngeli, Milano); “Le forme
dell’informale”, comunicazione al Congresso Nazionale della Società di
Filosofia Giuridica e Politica, Trieste, Ora in Giustizia e procedure, Atti del
suddetto Convegno, Giuffrè, Milano); “L’idea di professione”, Dirigenti Scuola,
“Controllare la professione”, Dirigenti Scuola, “Professione, patologia e
prevenzione”, Dirigenti Scuola. Ricerca Cuore organo muscolare, centro motore
dell'apparato circolatorio. disambigua.svg Disambiguazione. Se stai cercando
altri significati, vedi Cuore (disambigua). Il cuore è un organo muscolare, che
costituisce il centro motore dell'apparato circolatorio e propulsore del sangue
e della linfa in diversi organismi animali, compresi gli esseri umani, nei quali
è formato da un particolare tessuto, il miocardio ed è rivestito da una
membrana, il pericardio. natomia del cuore umano EmbriologiaModifica Può
originare da un abbozzo mesodermico ventrale, come negli anfibi, nella parte
rostrale del celoma, oppure da due abbozzi pari, come nei mammiferi, che poi si
uniscono medialmente. In entrambi i casi il primo abbozzo cardiaco è compreso
nel mesentere ventrale che in seguito si dividerà in mesocardio dorsale e
ventrale; successivamente entrambi spariranno per far spazio al tubo cardiaco
che permane nella cavità pericardica, separatasi dalla cavità addominale per lo
sviluppo di un setto trasverso. In questa fase il cuore, che si trova
lungo il decorso del vaso sanguifero mediano nella regione subfaringea, non ha
ancora né valvole né altre suddivisioni: è rappresentato da un tubo con due
pareti, una muscolare più esterna, miocardio, e una endoteliale più interna,
endocardio. Anatomia comparataModifica Nei vertebrati l'apparato
circolatorio presenta una complessità crescente dai pesci ai mammiferi, le
modifiche che ha subito nel corso dell'evoluzione sono in relazione allo
sviluppo di un apparato respiratorio[1]sempre più efficiente. Nei pesci
il cuore è costituito da un solo atrio, che raccoglie il sangue povero di
ossigeno proveniente da tutto il corpo, e un solo ventricolo, che raccoglie il
sangue proveniente dall'atrio: esistono però un seno venoso nel punto di arrivo
delle vene e un bulbo arterioso all'inizio delle arterie, quindi le camere sono
in realtà quattro. Le camere nel cuore dei pesci La circolazione in questi
animali è definita semplice perché il sangue compie un intero ciclo passando
una sola volta per il cuore, da dove raggiunge le branchieper essere ossigenato
così da arrivare ai tessutitrasportato dalle arterie. Dopo aver ceduto alle
cellule l'ossigeno e aver prelevato il diossido di carbonio e i prodotti di
rifiuto, il sangue torna verso l'atrio per mezzo delle vene. A questo punto
torna nel ventricolo e da qui alle branchie: a questo punto il ciclo
ricomincia. Nei vertebrati terrestri, mammiferi e uccelli, vi è una
circolazione doppia (polmonare e sistemica), nella quale il sangue, nel corso
di un ciclo completo, passa due volte per il cuore. Negli anfibi e nella
maggior parte dei rettili il cuore ha due atri, ma un solo ventricolo così che
i due tipi di sangue finiscono nell'unico ventricolo, qui si rimescolano
parzialmente e riducono la quantità di ossigeno destinata ai tessuti; insieme
all'aorta, alle arterie e vene polmonari esiste un’arteria pulmo-cutanea che
porta il sangue alla pelle, dove il sangue circolante si ossigena.[1]
Cuore dei varani Anatomia: RVH= atrio destro; LVH= atrio sinistro; KK= circolazione
sistemica; LK= circolazione polmonare; SAK= valvole del setto
atrioventricolare; CP= cavità polmonare. Sistole: Frecce blu=
sangue venoso, Frecce rosse= sangue arterioso Diastole: Frecce blu=
sangue venoso, Frecce rosse= sangue arterioso Solo nei coccodrilli i
ventricoli sono separati, mentre l'aorta e l'arteria polmonare sono collegate
dal forame di Panizza. Per ricapitolare i diversi tipi di circolazione,
potremmo così riassumere[2]: Nei pesci la circolazione è semplice, è
unidirezionale e ha un solo ventricolo; Negli anfibi e nei rettili è doppia e
incompleta; Nei mammiferi e uccelli è doppia e completa, vi sono due ventricoli
completamente separati Anatomia umanaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Cuore umano. La posizione del cuore
all'interno del torace umano Negli esseri umani è posto al centro della cavità
toracica, precisamente nel mediastino in posizione anteroinferiore fra le due
regioni pleuropolmonari, dietro lo sterno e le cartilagini costali, che lo proteggono
come uno scudo, davanti alla colonna vertebrale, da cui è separato dall'esofago
e dall'aorta, e appoggiato sul diaframma, che lo separa dai visceri
sottostanti. Il cuore ha la forma di un tronco di conoad asse obliquo rispetto
al piano sagittale: la sua base maggiore guarda in alto, indietro e a destra,
mentre l'apice è rivolto in basso, in avanti e a sinistra;[4] pesa nell'adulto
all'incirca 250-300 g, misurando 12-13 cm in lunghezza, 9-10 cm in larghezza e
circa 6 cm di spessore (si sottolinea che questi dati variano con età, sesso e
costituzione fisica). Battito del cuore di un uomo a 61 bpm FisiologiaModifica
Il cuore si contrae e si rilascia secondo il ciclo cardiaco. Il cuore è
costituito dalle cellule del miocardio, tipicamente striate, che si occupano
della contrazione e dalle cellule auto ritmiche non contrattili, da cui origina
lo stimolo di contrazione. Le cellule auto ritmiche possiedono la capacità di
auto depolarizzarsi, grazie all'apertura canali del sodio (detti fun), che
spostano il potenziale di membrana verso valori più positivi, consentendo
l'apertura dei canali del calcio. L'ingresso di calcio nella cellula è
prolungato e porta il potenziale a stabilizzarsi su valori positivi per qualche
millisecondo, generando un plateau. Il segnale termina grazie all'apertura dei
canali del potassio, che riportano il potenziale di membrana a valori negativi
e consentono ai canali funny di aprirsi nuovamente. La contrazione del
miocardio inizia grazie all'ingresso del calcio nella cellula, che provoca la
fuoriuscita di altro calcio dal reticolo sarcoplasmatico e quindi la
contrazione. Il cuore nelle culture umane. Nell'antichità classica (anche
per il filosofo e scienziato Aristotele) il cuore era ritenuto sede della
memoria. Il verbo ricordare deriva infatti dal verbo latino recordari e questo
dal sostantivo cŏr (genitivocŏrdis), cuore (come sede della memoria) col
suffissore- di movimento all'incontrario: quindi, propriamente, rimettere nel
cuore (= nella memoria). Ancora oggi l'espressione "a memoria" si
traduce par coeur in francese, by heart in inglese e de cor in portoghese
("coeur", "heart" e "cor" significano
"cuore"). Particolarmente cruento era il sacrificio del cuore
nel mondo azteco. Gli Aztechi prendevano un cuore, estratto ancora palpitante
dalle vittime sacrificali umane, e lo offrivano agli dei. Apparato
respiratorio nei vertebrati, su sapere La circolazione dei vertebrati, su
hischool.weebly. Fiocca, Testut e Latarjet, Dizionario etimologico della lingua
italiana, di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, ed. Zanichelli. Léo Testut e
André Latarjet, Miologia-Angiologia, in Trattato di anatomia umana. Anatomia
descrittiva e microscopica – Organogenesi, Torino, UTET, Silvio Fiocca et al.,
Fondamenti di anatomia e fisiologia umana, 2ª ed., Napoli, Sorbona, cuore, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Cuore,
su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata
( EN ) Opere riguardanti Cuore, su Open Library, Internet Archive.Cuore, in
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Portale
Anatomia Portale Biologia Portale Medicina Ultima
modifica 18 giorni fa di Lorenzo Longo Arteria vasi sanguigni che trasportano
il sangue dalla periferia del cuore al corpo Cuore umano organo muscolare
cavo Apparato circolatorio insieme degli organi deputati al trasporto di
fluidi diversi – come il sangue e, in un'accezione più generale, la linfa – che
hanno il compito di apportare alle cellule gli elementi necessari al loro
sostentamento Wikipedia Il contenutoGrice: “Italians are afraid of the
‘sacro’ because since the fall of the Roman Empire, it means the evil Pope! –
unless otherwise stated by people like Evola, etc.” – Grice: “Hart should have
spent more time analysing the implicatures of ‘disobey,’ as Cosi does -- to
realise how wrong his theory is!” Grice: “Austin, who taught morals at Oxford,
should have examined, as Cosi does, what we mean by ‘responsible philosopher’
before opening his mouth!” – Grice: “My idea of helpfulness does not quite
include that of ‘mediation’ but it should – the space of mediation in the
conflict in the conversational dyad! I owe this to Cosi.” Grice: “I decided to
use ‘judicative’ versus ‘volitive’ after Cosi. – His ‘giudicare’ is a gem!” -- Giovanni
Cosi. Keywords: l’accordo, il secolare/il sacro; profane/sacro – secolare;
archetipo, il filosofo come gentiluomo, l’obbediente, il disobbediente, il consensus,
il disensus, to obey, conflitto, mediazione, diritto (right), giure, giurato –
legatum, vendetta, giudicare, fare giustizia, vendetta conversazionale, natura,
naturalita, non-naturale, legge naturale gius naturale, giusnaturalismo,
fenomenologia del giurato; normato naturale? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cosi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cosmacini: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del consenso e la compassione –
sinestesia e simpatia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Grice: “I like Cosmacini; for one he wrote on THREE areas of
my concern: ‘cuore’, as when we say that two conversationalists reach an
‘accord’! – on ‘empatia’ – a Hellenism, and most importantly, on ‘compassione,’
which is at the root of my principle of conversational benevolence. -- Giorgio
Cosmacini (Milano), filosofo. Studia a Milano e Pavia.la “convenzione della
mutua” o INAM(Istituto nazionale per l'assicurazione contro le malattie) e apre
un ambulatorio mutualistico Fare bene il mestiere di “medico della mutua” non
significa gestire un certo numero di “mutuanti”; voleva inoltre dire aver cura
di una comunità di persone, ciascuna delle quali con esigenze proprie.
raggiungendo in quel periodo circa trecento mutuanti. Quando i suoi mutuanti
erano circa millecinquecento, decise di realizzare un suo sogno: la libera
docenza. è autore di numerose opere d'argomento filosofico-medico. Altre opere:
la mutua, medico della mutua, mutuante, mutuanti, ambulatorio mutualistico. “Scienza
medica e giacobinismo in Italia: l'impresa politico-culturale di Rasori (Collana
La società, Milano, Franco Angeli); Röntgen. Il "fotografo
dell'invisibile", lo scienziato che scoprì i raggi x, Collana Biografie,
Milano, Rizzoli); “Gemelli. Il Machiavelli di Dio, Collana Biografie, Milano,
Rizzoli); “Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea
alla guerra mondiale. Gius. Laterza & Figli); “Medicina e Sanità in Italia
nel Ventesimo secolo. Dalla 'Spagnola' alla 2ª Guerra Mondiale, Roma, Laterza);
“La medicina e la sua storia. Da Carlo V al Re Sole, Collana Osservatorio italiano,
Milano, Rizzoli); “Una dinastia di medici. La saga dei Cavacciuti-Moruzzi,
Collana Saggi italiani, Milano, Rizzoli); Storia della medicina e della Sanità
nell'Italia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, G. C. Cristina Cenedella, I
vecchi e la cura. Storia del Pio Albergo Trivulzio, Roma-Bari, Laterza); “La
qualità del tuo medico. Per una filosofia della medicina, Roma-Bari, Laterza);
“Medici nella storia d'Italia, Roma-Bari, Laterza, L'arte lunga. Storia della
medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il medico ciarlatano.
Vita inimitabile di un europeo del Seicento, Laterza); “Ciarlataneria e
medicina. Cure, maschere, ciarle, Milano, Cortina, La Ca' Granda dei milanesi.
Storia dell'Ospedale Maggiore, Roma-Bari, Laterza); “Il mestiere di medico.
Storia di una professione, Collana Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina);
“Introduzione alla medicina, Roma-Bari, Laterza, Biografia della Ca' Granda.
Uomini e idee dell'Ospedale Maggiore di Milano, Laterza, Medicina e mondo
ebraico. Dalla Bibbia al secolo dei ghetti, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza, Il male del secolo. Per una storia del cancro, Roma-Bari,
Laterza); “La stagione di una fine, Terziaria); “Il medico giacobino. La vita e
i tempi di Rasori, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Salute e bioetica,
Torino, Einaudi, G. C. Satolli, Lettera a un medico sulla cura degli uomini,
Roma, Laterza, La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza, Una vita qualunque, viennepierre edizioni, Il medico
materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza «La mia baracca». Storia della fondazione Don Gnocchi,
Presentazione del Cardinale Dionigi Tettamanzi, Laterza); “La peste bianca.
Milano e la lotta antitubercolare, Milano, Franco Angeli); “L'arte lunga.
Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il romanzo
di un medico, viennepierre edizioni, L'Islam a La Thuile nel Medioevo. Un
«tuillèn» alla terza crociata: andata, ritorno, morte misteriosa, KC Edizioni, Le
spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza); “La religiosità della medicina. Dall'antichità a oggi,
Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “L'anello di Asclepio. L'età
dell'oro”; “La peste, passato e presente, Milano, Editrice San Raffaele); “La
medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base” (Collana
Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Il medico saltimbanco. Vita e
avventure di Buonafede Vitali, giramondo instancabile, chimico di talento,
istrione di buona creanza” (Roma-Bari, Laterza); “Prima lezione di medicina,
Collana Universale.Prime lezioni, Roma-Bari, Laterza); “Il medico e il
cardinale, Milano, Editrice San Raffaele); “Testamento biologico. Idee ed esperienze
per una morte giusta” (Bologna, Il Mulino); “Politica per amore” (Milano,
Franco Angeli); “Guerra e medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia e
Società, Roma-Bari, Laterza); “Compassione” (Bologna, Il Mulino); “La scomparsa
del dottore. Storia e cronaca di un'estinzione, Milano, Raffaello Cortina); “Camillo
De Lellis. Il santo dei malati, Roma-Bari, Laterza); “Il medico delle mummie.
Vita e avventure di Bozzi Granville, Collana Percorsi, Roma-Bari, Laterza); “Como,
il lago, la montagna, NodoLibri); “Tanatologia della vita e stetoscopio.
Bichat, Laënnec e la "nascita della clinica", AlboVersorio,. Medicina
e rivoluzione. La rivoluzione francese della medicina e il nostro tempo” (Collana
Scienza e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Un triennio cruciale. Como, il
lago, la montagna, NodoLibri); “La forza dell'idea. Medici socialisti e
compagni di strada a Milano. L'Ornitorinco,
Per una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina tra
Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco, Medicina Narrata, Sedizioni); “Galeno e il
galenismo. Scienza e idee della salute” (Milano, Franco Angeli); “La chimica
della vita” -- e microscopio. Pasteur e la microbiologia, AlboVersorio); “Per
una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina in Italia fra
Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco); “Il tempo della cura. Malati, medici,
medicine, NodoLibri); “Elogio della Materia” -- Per una storia ideologica della
medicina, Edra edizioni); “L'Infinito di Leopardi. Un impossibile congedo” (Sedizioni,.
Memorie dal lago e ricordi dal confine. Como, il lago, la montagna,
NodoLibri, Salute e medicina a Milano.
Sette secoli all'avanguardia, L'Ornitorinco); “La medicina dei papi, Collana
Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Medici e medicina durante il fascismo”
(Pantarei); “Il viaggio di un ragazzo attraverso il fascismo, Pantarei); Historia
cordis, Ass. Beretta,. Curatele Dizionario di storia della salute, G.
Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli, Collana Saggi, Torino,
Einaudi. “mutua gratia” - Practicis
nostris, Muri LAPIDES, sine inscriptione, apud nus, gadinca, vel Hnoc. Non
liquet, “don mutual” – mutual gift -- Chartain Chartul. Hygenum de Limitibus
constituendis. inquit Somnerus. (Mutinæ carnes, in Con thesaur. S. Germ. Prat.
fol. 12. rº.: Dicta. mutuum, Exactio nomine mului, Charta suet. MSS. Eccl.
Colon. e Bibl. Eccl. Atre- Ysabellis exhibuit dicto thesaurario quasdam Rogerii
1. Reg. Sicil. ann. apud Mu bat, eædem quæ vervecinæ. Vide Multo, litteras
mutuæ gratiæ dudum confectas inter ralor. tom. 6. col. Nulla angaria, par I
mutio, id est, Patuus. Vocabul. dictam Ysabellam et prædictum defunctum
angaria, echioma, gabella,Muruum, extorsio utriusque Juris. dum vivebat, et
constante legitimo matrimo- jaciatur, imponatur. Chron. Parmense ad mutis,
Truncus, stirps. Pactum inter nio inter ipsos. aapud eumdem Humb. dalph. et
episc. Gratianopol. ann. “mutuare”, Mutuum, seu exactionem ec impositum fuit
per commune Parma in Reg:. Chartoph. reg. ch. 34: nomine mutui impositam
solvere. Vide unum mutuum octo millium librarum impe recte tendendo ad pedem
cujusdam margassii mutuum. rialium per episcopatum, et quinque millium seu
claperii in quo margassio seu cleppe. Mutuatim, pro mutuo, in Vita Anti- per
civitatem. Et mutuum clericis fuit im rio sunt duæ mutes arborum. dii Archiep.
Bisonticensis cap. 5: Bene- positum duo millium librarum, etc. Chron. Åwwvíz,
in Gloss. Græc. Lat. dictionis ergo dono mutuatim dato, etc. Mutin. ibid. tom.
II. col. 122: Tria Mu [Mirac. S. Bernhardi Episc. tom. 5. Julii (mutuatio, pro
mutatio, in Consuet. tua extorsit.] Historia Cortusiorum lib. 3. p.112, Eoque
quippiam petere volente, MSS. Auscior. art. 3: Fiat autem mutua cap. 14,
Teutonici cruciabant Paduanos verbis in ore reclusis, subito mulus effectus tio
consulum annuatim in festo S. Joan. *mutuis* el daciis. Infra: *mutual*
imposuit et est; qui a plerisque tentatus, an videlicet Baptistæ. datias. Lib.
7. cap. 1: V'exabantur Muluis astu Muritatem simularet, et tandem certa ex Ital.
Mutola, Muta. Oc- et daliis. Albertinus Mussalus lib. 12. de loquendi
impotentia comprobatur. Occurrit currit in Vita B. Justinæ de Aretio n. 9. Reb.
gest. Italic. pag. 86: Communes da præterea toin. 2.Sanctorum Apr. pag. 429.],
Idem quod Expeditatus, riæ, exactionesque et Mutua publica el priMuronagium.
Vide in Charta Forestæ cap. 9. forte pro múti- vata etc. Charta R. Abbatis
Monasterii Ka Mullo. latus. Locum vide in Mastinus. roffensis in Pictonib. ann.
1308. ex (Ovis, Massiliensibus Mous, Nudus, glaber. Regesto Philippi Pulcri
Regis Franc. Tabu tonfede. Charta ann. 1390: Quilibet Mu- Gloss. Lat. Græc.
MSS. Sangerman. larii Regii n. 11: Non recipiemus ibi Mu tofeda solvat xvi.
denarios. * Castigat. in utrumque Glossar. forte tuum, nisi gratis mutuare
voluerint habitan Lugdunensibus, Feye. Vide supra Menlulosus, ead'ns, ex Vulc.
tes. Ita in Liberlatib. Novæ Bastidæ in Oc Lex Ripuar. lit. 6o. S 4: Si citania
ann. in alio Regesto ejusdem xudovicv, Malum colo- autem ibidem infra
terminationem aliqua in- Regis ann. n. 16. Vide Credentia, neum. Supplem.
Antiquarii et Gloss. MSS. dicia sua arte, vel butinæ,aut Lat. Græc. Sangerm.
Aliud itidem Gloss.: extiterint, ad sacramentum non admittatur, *mutuum
coactum* exactio, quæ a Mutonium, Tepábeuo, Additio. etc. Ubi mutuli, videntur
esse aggeres ter- dominis in urgentibus negotiis suis ac ne 1., quos Motes
nostri vocant: aut forte cessitatibus fiebat super subditos, vassallos,
equilatus, quod sic describit Jovius Hist. lapides ii quosMuros vocant
Agrimensores,ac tenentes cum restitutionis conditione ac lib. 14: Mutpharachæ
admirabili virtute i. sine inscriptione, vice terminorum po- pollicitatione: a
qua quidem exactione præstantes, toto orbe conquisiti, ea condi- siti. Vide
Bonna 2. exempta pleraque oppida, quibus concessæ tione militant, ut quos
velint Deos, impune KF Errat Cangius, si fides Eccardo, libertates, leguntur.
Charla libertatum colant, præsentique tantum Imperatori ope- in Notis ad Legem
citatam, quam ad cal- Aquarum Mortuarum ann. 1246: Omnes ram navent. Hæc post
Carolum de Aquino cem Legis Salicæ edidit. Mútuli enim sunt habitatores loci
illius sint liberi et immunes in Lex. milit. machinaliones clandestinæ, vel
seditiones ab omnibus questis, talliis, et toltis, et clam excitatæ, a veteri
German.Meulen, tuo coucto, et omni ademptu coacto. Con capitis tegumentum, quod
monachi cap. | clandestine agere, unde Meutmacher, Fla- suetudines
Monspelienses MSS. cap. 56: paronem vocabant. Gall. Christ. tom. 4. bellum
seditionis, Gall. Mutin. Hæc vir Toltam nec quistam, vel Mutuum coactum, col
uti. Mutrellis 782: Statuimus in dormitorio, quod liceat fratribus eruditus;
quæ tameninmeam fidem reci. vel aliquam exactionem coactam non habet;. Vide
Mitræ. necunquam habuit dominus Montispessulani I Vide Morth. I Gall. Mouton.
in hominibus Montispessulani. Eædem ver *, ut supra Muramen. Charta ann. exArchivis Massil.: naculæ, totas inquistas,
ni prest forsat, o Terrear.villæ de Busseul ex Cod. reg. Item super co quod
petebantdicti parerii alcuna action destrecha, etc. Libertates fol. 47. vº.:
Item unum Pariziensem Mut -I quartam partem Murunorum, astorium et concessæ
oppidis Castelli Amorosi et Va CANGII CLOSS. – T. IV. 2. Feda 2. pere nolim. etc.
lentiæ, in diæcesiAginnepsi, ab Edwardo I Eodem significatu, De S. 6: L.
FURPANIO L. Lib. PuILOSTORGO Mr. I. Rege Angliæ ex Regesto Constabulariæ
Juvenate Episc. tom. 1. Maii pag. 399: ROBRECHARIO VIX ann. LIJTI. Purpuria L.
Burdegalensis fol. 55. 140: Nec recipiemus Episcopus Narniensis ex suo palatio,
ialari L. OLYMPUSA PECIT. in ibi Muruum,
nisi gratis nobis mutuare velint reste indutus, racheto et Muzzeta. Vide
Inscript. Vide Martin Lex. in habitantes. Eadem habent libertales Rio.
Mozzetta. hac voce. magi in Arvernis. vocatur letri rudoris in. Fantasia,
miratores. Pa Mutuum VIOLENTUM, in Charta liberta- quietudo terrena. Ita
Apuleius de Muudo. pias. tum Jasseropis, apud Guicheponum in A Græco nimium
púxw, Mugio, reboo. Vide Ma Histor. Bressensi pag. 106. Roga coacta, in I Piscis
genus, qui alius zer. Charta Ludovici Comitis Blesensis et Cla- videtur ab eo
quem Spelmannus piscem. in Statutis Mon romontens. ann. 1197. pro Creduliensi
viridem vocat. Computus ann. 1425. apud tis Regal. fol. 318: Debeat solvere
emptori villa: Omnes homines Credulio marentes Kennett. in Antiquit. Ambrosden.
pag. gabellæ piscium, solidos quatuor pro quoli taliam mihi debentes, el eorum
hæredes, a 575: Et in 111. copulis viridis piscis... Et bet rubo piscium, et
intelligatur detracta talia, ablatione, impruntato et Roga coacta inxv.
copulisde Myllewellminorissortisx: Myrta et cestis ac funibus. de cælero
penitus quilos et immunes esse sol. vi. d. et in xx. Myllewell majoris sortis
Eadem notione, usurpant Cat concedo. Exslat Statutum Philippi VI. Re- Xit, sol.
(* Vide Mulsellus.] lius Aurelianus, Celsus, et Apicius. Vide gis Frane. 3.
Febr. ann. 1343. quo vMoniales, ex Anglo -Sa- Murta. in posterum fieri ullum
Mutuum coactum xop. myn'e'cen'e, vel minicene, hodie Graviter, com super
subditos suos: quod scilicet paulo Anglis Minneken et minnekenlasse. Copeil.
posite ambulare. Chron. Ditm. Mersburz. anie exegisse docet Diploma anni 1342.
Ænbamiense in Anglia ann. 1009. cap. 1: l'episc. tom. 10. Collect. Histor.
Frane. pag. 28. Junii, sed et Philippum Pulerum Re- Episcopi et abbates,
monachi et Mynecenæ, 131: Henricus Dei gratia res inclytus à se. gem aliud ann.
1309. in 12. Regesto Char- canonici et nonne, natoribus duodecim vallatus,
quorum ser tophyl. Reg. Ch. 15. et in 36. Regest. apud Ausonium in rasi barba,alii
prolixa Mystace incedebant Ch. 48. lemmate Epigrammatis 30. Cantharus po- cum
buculis, etc. Laudatum Philippi VI. Statutum torius Scaligero, qui a similitudine
muris I Sacerdotum præposi frustra quæsitum in Regestis publicis testa- et
barbæ, quæ in conum desinit, Myobar- tus; titulus honorarius Archiep. Toletani,
tur D. de Lauriere tom. 2. Ordinat. Reg. bum voce ibrida dietum existimat.
Turne- ex Hierolex. Macri. Franc. prg. 234. Undeexistimat D. Cangium bus vero
Advers. lib. 3. cap. 19. putat ver- lapsum memoria art. 4. et 5. Statuti ejusd.
| bum compositum mure et barbo, quod | , Mysteriorum per. Regis ann. 1345. 15.
non3. Febr.spectasse, mensuram, liquidorum sescunciam penitus, vel princeps.
Prudent. Peristeph. 2. quo vetat Philippus Rex in posterum a dentem sonat, ut
sit tamquam muris cya- 349: Bene est, quod ipse ex omnibus My subditis suis
exigi equos, currus, ele. nisi thus. Quidam le; emendat Lil. Gyraldus Epist, *mutuum violatum* Exactio nomine
xobarbaru, quod non placet. Vide Cupe. Zachariæ PP. ann.748. tom. 1. Rer. Mo
*mutui*, quæ a subditis exigitur. Charta rum in Harpocrate pag. 78. gunt. pag.
255, Officium, sacra Li mutuum violatum, velmessionem bajuli vel turgia.
Pelagius Episcop. Ovetensis in Fer servientum. [** Leg. Violentum ut, supra.)
ctum... Si autem Myocepha aur ypopius fuerit,dinando Rege Hispan.: Tunc
Alfonsus Rez mutuum ebraldum. Charta Henrici Co- post inunctionem ligabis
oculos aut linteo in velociter Romam nuntios misi ad Papam mitis Portugalliæ
tom. 3. Monarchiæ Lusi- aqua infuso frigida, aut spongia in ipsa Aldebrandum
cognomento septimus Grego tanæ p.282, Non introducam *mutuum* aqua infusa.
rius. Ideo hoc fecit, quia Romanum Vyste Ebraldum Colimbriam. 9piratici genus
arium habere voluit in omni Regno. Infra: mutuum, stipendium datum in ante-, ut
placet Tur Confirmarit itaque Romanum Mysterium in cessum. Lit. ann. 1408. tom.
9. Ordinat. nebo lib. 3. Adversar. cap. 1. nomen omne regnum Regis Adefonsi æra
1113. (Chr. reg. Franc. pag. 363, art. 1: Ordinamus adepti. Melius Scaliger, a
forma qevūves, 1088. ) per senescallos, receptores, thesaurarios,... hoc est,
angusta et oblonga, dictum ira- Missæ sacrifi tum nobilibus quam innobilibus,
cum ex dit. cium. Acta S. Gratil. tom. 3. Aug. pag. parte nostra mandati
fuerint ut ad guerras Hist. Franc. Sfortiæ ad ann. col. 2: Indutus est (Gratilianus
) ve nostras accedant, *mutuum* fieri priusquam apud Murator. tom. 31. Script.
Ital.col.stimentis a. Wikipedia Ricerca Sinestesia (psicologia) fenomeno
sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica Avvertenza Le informazioni
riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I
contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico:
leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che
indica una "contaminazione" dei sensi nella percezione.[1] Il
fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni
provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze,
automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o
cognitivo.[2] Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una
persona soggetta al fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del
fenomenoModifica Con il termine "sinestesia" si fa riferimento a
quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva
è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi.[1] Nella
sua forma più blanda è presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che
i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto
distaccata dagli altri. Più indicativo di un'effettiva presenza di
sinestesia è il caso in cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono)
provoca una reazione netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista).
Per "forma pura" si intende la sinestesia che si manifesta
automaticamente come fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è
involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con
maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e
sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni
sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua capacità fu Olivier
Messiaen, così come il pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij, che affermava di
poter sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni, entità vive e lo
spiega bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro sinestesico fu il
pittore e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Il compositore
russo Aleksandr Nikolaevič Skrjabin era particolarmente interessato agli
effetti psicologici sul pubblico quando sperimentavano suoni e colori
contemporaneamente. La sua teoria era che quando si percepiva il colore giusto
con il suono corretto, si creava "un potente risonatore psicologico per
l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più famosa, che viene eseguita
ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco [1]. Ma la lista degli artisti
sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche affermano che il fenomeno
sinestesico interessi il 4% della popolazione e di questo 4% la maggior parte
sono artisti. Un'altra caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a
volte nelle persone mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come
l'allochiria (confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso
dell'orientamento, dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente,
autismo. Spesso la contaminazione sensoriale avviene a direzione unica:
ad esempio, se vedo una nota musicale come un colore, non è detto che vedendo
quel colore la mia mente evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche
della sinestesia percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo
Paratico il mancino Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia.[3]
Esperienze di tipo sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale,
mediante l'uso di sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD,
esperienze di deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di
malattie che colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è
detta pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La
sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva,
e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita. Le
persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un
numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa
variabilità: 1 ogni 2000[4] 1 ogni 200[5] Queste esperienze sono
quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono
scoprendo che questa esperienza non è provata da tutte le persone.
L'esperienza sinestetica è composta da due elementi: L'evento induttore
(inducer). L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un
sinestesico descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un
colore giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un
concurrent è sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso
concurrent. Grossenbacher & Lovelace (2001), distinguono due tipi di
sinestesia a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale.
Sinestesia percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di
lettere produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia
concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto
(per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza
intensivamente la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella
degustazione o nell'analisi sensoriale. Basi genetiche della
sinestesiaModifica Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è
possibile identificare singoli loci genici che determinino con certezza questo
fenomeno neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso
meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In
ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale
fenomeno. [6] Sinestesia: grafema-coloreModificaRamachandran e i suoi
collaboratori hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella
grafema(lettera, numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono
molto vicini tra loro.[7] Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza
magnetica funzionale) hanno permesso di individuare il "centro del
colore" (es. Zeki & Marini, 1998, Brain), l'area V4 nel giro
fusiforme. L'area dei grafemi è stata anch'essa individuata nel giro
fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro vicino all'area V4. L'area si
attiva sia in seguito alla presentazione di lettere sia in seguito alla
presentazione di numeri. L'ipotesi di Ramachandran è che ci sia una
attivazione congiunta. La presentazione di un grafema fa attivare l'area dei
grafemi, che fa attivare contemporaneamente anche l'area del colore, anche
senza la presenza di uno stimolo. Questo è dovuto ad un eccesso di connessioni
tra le due aree, non presente in tutte le persone. Le connessioni che si
hanno alla nascita sono un numero superiore di quello che si trovano in un
cervello adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è un processo
definito pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni cerebrali. L'ipotesi
di Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e area dei grafemi,
che normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono invece intatte nei
sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa fallire il
processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito all'esperienza
permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei grafemi e area
del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene sempre associato un
certo colore. Ramachandran ipotizza che l'attivazione del giro fusiforme
non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni. Perché sia possibile
essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno attivare altre aree
superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la sinestesia non sia dovuta
alla presenza di un numero maggiore di connessioni neurali (le quali non
sarebbero presenti nei non sinestesici); infatti, secondo lo studioso tale
fenomeno percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello dei sinestesici,
alcune connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non vengono più
"utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di percepire. Questo
spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive sia in grado di
esperire una condizione di "pseudo-sinestesia", circoscritta
esclusivamente al limite temporale in cui tali sostanze dispieghino il loro
effetto, per poi tornare a non percepire sinestesicamente una volta terminato
quest'ultimo. Secondo Grossenbacher è molto improbabile, infatti, che si siano
create nuove connessioni neurali durante l'assunzione di tali droghe;
piuttosto, risulta più probabile che vengano percorse "strade" neurali
solitamente "disattive". Influenza dell'attenzione sulla
percezioneModifica Esperimento di Ramachandran e Hubbard: caso della figura
gerarchica (un 5 composto da tanti 3), se ai soggetti veniva chiesto di fare
attenzione a livello globale (5) vedevano il colore rosso, se invece dovevano
dirigere la loro attenzione a livello locale (3) vedevano verde. Questo
esperimento porta a concludere che l'attenzione influenza il manifestarsi del
fenomeno sinestesico. Sinestesici projectorModifica Nel caso di grafema-colore,
il colore è visto come una pellicola che ricopre il numero completamente. Un
sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare un'esperienza irritante se il
numero era di un colore incongruente con quello del fotismo (l'effetto della
sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli evocava il colore rosso, ma in
realtà era scritto con il giallo. Sinestesici associatorModifica Sempre
nel caso di grafema-colore, il colore appare nella mente, e non sopra il
numero. In genere, i sinestesici associator riferiscono che l'esperienza di
vedere un numero con un colore non congruente con quello del fotismo, non è
un'esperienza per nulla disturbante. La percezione del colore "reale"
del numero è un'esperienza molto più intensa del fotismo, per un sinestesico
associator. I sinestesici projector sembrano una minoranza rispetto ai
sinestesici associator (11 su 100, tra quelli intervistati da Dixon e
collaboratori). Tra i maggiori studiosi della sinestesia percettiva,
Richard Cytowic, Ramachandran, E. Hubbard, Sean Day, Bulat Galeyev, Irina
Vaneckina. Rapporto con i canali del calcioModifica Studiando nel
moscerino della frutta un gene coinvolto nell'elaborazione del dolore, alcuni
ricercatori hanno creato il primo modello della sinestesia. Con la tecnica
dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni quali candidati a interessare
possibili geni del dolore. Il primo ad essere analizzato più in dettaglio è
stato quello che codifichi parte di un canale del calcio noto come alfa 2 delta
3 (α2δ3). Questi canali che regolano il passaggio di Ca2+ attraverso la
membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità elettrica dei neuroni.
Con questi canali interferiscono diversi antidolorifici. Nei topi carenti
di α2δ3 si è dimostrato che questo gene controlli la sensibilità al dolore
provocato dal calore sia nella Drosophila sia nei mammiferi. Indagini condotte
con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3 partecipi all'elaborazione del dolore
termico a livello cerebrale. In assenza di α2δ3 il segnale del dolore a genesi
termica arriva al talamo, ma poi non prosegue verso i suoi centri corticali
superiori. Le immagini di fMRI mostrano piuttosto un'attivazione crociata delle
aree corticali per la visione, l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si
osserva anche quando lo stimolo doloroso sia di natura tattile.[8]
NoteModifica ^ a b Emozioni colorate | Le Scienze, su
lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon Baron-Cohen
(1996). Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford: Blackwell
Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar Publishing, 2015.
lascarpublishing.com/leonardo/Archiviato il 26 luglio 2018 in Internet Archive.
^ Baron- Cohen, 1997 ^ Ramachandran & Hubbard, 2001 ^ "Neurocognitive
mechanism of synesthesia" Edward M. Hubbard1 and V.S. Ramachandran,
Neurocognitive mechanism of synesthesia, su cell.com, November 3, 2005. URL
consultato il libero. ^ percezione e idee, la sinestesia | PsycHomer, su
psychomer.it (archiviato dall' url originale il 20 novembre 2010). ^ Le
Scienze: Non provo dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note
BibliografiaModifica Córdoba M.J. de, Hubbard E.M., Riccò D., Day S.A., III
Congreso Internacional de Sinestesia, Ciencia y Arte, 26-29 Abril, Parque de
las Ciencias de Granada, Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Edición
Digital interactiva, Imprenta del Carmen. Granada. Córdoba M.J. de, Riccò D.
(et al.), Sinestesia. Los fundamentos teóricos, artísticos y científicos,
Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Granada. Cytowic, R.E.,
Synesthesia: A Union of The Senses, second edition, MIT Press, Cambridge,
Cytowic, R.E., The Man Who Tasted Shapes, Cambridge, MIT Press, Massachusetts,
Marks L.E., The Unity of the Senses. Interrelations among the modalities,
Academic Press, New York, 1978. Riccò D., Sinestesie per il design. Le
interazioni sensoriali nell'epoca dei multimedia, Etas, Milano, Riccò D.,
Sentire il design. Sinestesie nel progetto di comunicazione, Carocci, Roma,
2Tornitore T., Storia delle sinestesie. Le origini dell'audizione colorata, Genova,
1986. Tornitore T., Scambi di sensi. Preistoria delle sinestesie, Centro
Scientifico Torinese, Torino, 1988. Voci correlateModifica Takete e Maluma
Sinestesia tattile-speculare. «sinestesia» Udire i colori, gustare le forme, su
lescienze.espresso.repubblica.it, Le Scienze. URL consultato il 20 maggio 2015.
TED Talk: "I listen to color" Portale Psicologia: accedi alle voci di
Wikipedia che trattano di psicologia Ultima modifica 2 mesi fa di Mess Qualia
aspetti qualitativi delle esperienze coscienti Locus ceruleus Sinestesia
tattile-speculare raro fenomeno sensoriale/percettivo Wikipedia Il
contenutoGrice: “The grammar of ‘mutuality’ can be extraordinarily complicated.
But I’m sure Schiffer’s ‘A and B mutually know that p’ doesn’t make sense as an
analysandum.” Grice: “You can trade (L mutate both ways) or exchange
*information* -- The grammar is: A and B are in love – implicated: ‘mutual’
-- A and B are friends – implicated:
mutual. Dickens, who never attended Oxford, would never catch the subtlety of
his biggest solecism, “Our mutual friend”! – Grice: “But I’m surprised from
Schiffer, who did attend the varsity!” -- Giorgio Cosmacini. Cosmacini. Keywords:
compassione, salute, mens sana in corpore sano, storia della medicina,
Foucault, l’anello di Asclepio, la medicina nella Roma antica, giacobinismo,
fascismo, giacobinismo in Italia, medici fascisti, medicina fascista, la
medicina non e una scienza, tanatologia, bio-chemica, la chemical della vita,
bio-chemistry –Grice on life, the philosophy of life, cooperation and
compassion. Imperativo conversazionale, compassione conversazionale, imperative
della mutualita conversazionale – mutualita conversazionale – imperative of
conversational mutuality, mutuality, mutual, the depth grammar of mutuality –
Grice against Schiffer – Grice scared by ‘mutual knowledge’ – and using it in
scare quotes (“Such monsters as Schiffer’s ‘mutual knowledge’ have been
proposed to replace my regress when there’s nothing wrong with stopping it
elsewise!” Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmacini” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Cosmi: la ragione conversazionale el’implicatura
conversazionale dei discorsi: corsi e ricorsi -- metodo dei principi generali
del discorso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Casteltermini).
Filosofo italiano. Grice: “I love Cosmi – for one he uses the very exact phrase
I do, ‘the general principles of discourse,’ and he also finds them to have a
rational (‘razionale’) basis – they involve those desiderata for helpful
communication, a co-operative principle – concerning most constraints I refer
to: the necessity to avoid superfluity (supperfluita) and to maximize clarity
(chiarezza) – so that’s genial!” – Grice: “Cosmi actually has two treatise, a
more theoretical one, “General principles of discourse,” and an applied tract,
“Metodo’ – of the “general principles of discourse’ – he had already elaborated
on all the figures of rhetoric, so he knew what he was talking about and where
he was leading --.” Grice: “The fact that he like me also loved Locke – and
perhaps was more of a ‘sensista’ than I am, makes him great, too!” Fu
un'imponente filosofo, no italiano, ma siciliano (Grice: “Sicily is not
considered part of the ‘peninsola italiana’). Formatosi nel Seminario dei
Chierici di Agrigento, ricopre la carica di rettore a Catania. Riceve dal re Ferdinando
l'incarico di redigere il piano regolatore della filosofia siciliana. Da un
rilevante contributo all'innovazione del illuministimo. Fu un grande filosofo,
il primo e il più geniale del regno meridionale e uno dei primi e più geniali
del Settecento italiano. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Principi
generali del discorso, e della ortografia italiana ad uso delle regie scuole
normali di Sicilia by C., edition published in Italian and held by 2 WorldCat
member libraries worldwide. E primo forne il D2 Cosmi. Questo e un aureo
libretto dei "Principi generali del discorso" – i. e. un principio
comune a ogni discorso. Questo affinchè il filosofo a una nozione direttrice,
non superflue. In questo trattato invano cercheresti quella immensa farragine
di precetti disordinati, e quelle infinite minuterie non necessarie, con cui si
sostitoleva confondere e stancare la prattica conversazionale del giovanetto.
Si spone un solo principio generale e fondamentale, sintetizzato nell'antico ma
verissimo motto: precetto uno. Il resto e uso. Questa mia preziosa filosofia è
un sapientissimo essamine pel filosofo che vuole adoperare il "metodo
conversazionale." Quivi si ricorda dapprimà quanto in occasione di
filosofare sulla maniera di dare la prima istruzione conversazionale al
ragazzo, in caso la necessita. Si ricorda come puo potè attuare la mia prammatica
conversazionale, mettendo in esecuzione un maniobra chiara, spedita, uniforme
per ogni topico conversazionale adattata alla maniera del civil conversare
-- è cosa necessaria il sapere la semantica e le implicature
conversazionale del volgare linguaggio. Il pirincipio della conversazionale e
un principio di chiarezza (perspicuita) -- e un principio di aggiustatezza
(approprio_ -- e un principio di mezzana eleganza (stilo estetico), e un
principio senza oscurità, e un principio con univoci e senza cattive equivoci
(un buon aequi-voce e accettable)– sensa non sunt multiplicanda praeter
necessitatem --, e un principio senza superfluità (economia dello sforzo
conversazionale, fortitudine conversazionale, candore conversazionale -- e un
principio senza barbarismi -- imperciochè la perfezione e efficenza del volgare
linguaggio guidato dalla semantica formale e il segno del reale. E vuole che al
giovane si da un principio generale e fondamentale -- e un principio generale
della conversazione, esposto con metodo ragionabile e calculable e con
chiarezza. Un solo principio o imperativo categorico, un principio di efficenza
communicative -- un principio soggetto il meno che si può all'eccezione o la
violazione involuntaria si non a la splotazione retorica -- e un principio stesso
ben capito e ben esercitato, chi forma il corpo di ogni parte della
filosofia. Ebbe un giorno a scrivere di CICERONE, che questo ingegno eminente
prende a gradi la sua maturità e si perfezionava coll’uso, colla riflessione e
col maneggio dei grandi affair. Or quello che osservo su Cicerone, intervenne
proprio me medesimo, i cui Elementi di filologia, non prometto continuazione;
ma osservazioni su l'uso dei Principj del Discorso, e qualche riflessione su i
primi pensieri, da cui era partito nell'immaginar il mio metodo, gli
somministrarono la materia di un secondo, e anche di un terzo volume di
preziose nozioni di metodica prammatica. Il secondo volume e come il primo, è diviso in due parti.
La prima parte ha per titolo, “PRINCIPJ GENERALI DEL DISCORSO applicati alla
lingua volgare”, per la quale avverto che, sebbene nelle parti già pubblicate
dei “Principj generalie del discorso” siesi detto ciò che basta per
l'istruzione della prima età; la sperienza mi ha fatto conoscere, che,
volendosi col metodo intrapreso tirare innanzi il cammino, per la piena
intelligenza, 1 C., Elem. di filol. ecc.,
Elem. di filol, ital. e latina, tomo II, Palermo; pag. III
ed imitazione dei classici principalmente italiani, era necessario ad
entrare in qualche più esteso rischiarimento, *non per multiplicare
l’imperativo conversazionale, ma per agevolarne l'uso, senza di cui inutili
sempre la massima conversazionale universalisable si rimarranno. Dietro di che,
in cinque paragrafi, filosofo, con la solita competenza, “Del Pronome in
generale”, “Del Pro-nome ed dell’Articolo”; “Del pronomi e del verbo che ne
dipendono; Della Preposizione, detta “segnacasi”, e “Della Costruzione
irregolare”. I quali cinque paragrafi, con la giunta delle prime due parti dei
PRINCIPJ GENERALI DEL DISCORSO --
PRINCIPIO GENERALE DEL DISCORSO -- già stampati a riprese. Egli fece riunire in
separato volumetto per uso degli scolari 3 Io non mi stancherei, dirò
col Blasi, di riportare varie altre
sentenze, che oggi pajono roba fresca, e pure da presso a un secolo il nostro
l'aveva annunziato con tanta chiarezza da farla scorgere anco ai ciechi; ed è
per tanto che riferisco qualche altro criterio, che dovrebbe aver nell'animo e
nella coscienza ognuno, che si dà all'educazione specialmente elementare:
Invece di sorprendere, cosi il C., l'età fanciullesca coll' apparenza
dottrinale di parole incognite, ingegnerassi il maestro a far vedere, che ciò
che s'insegna di nuovo, è presso a poco quanto sapeva il fanciullo o quanto
avrebbe potuto agevolmente sapere con un poco di riflessione 5. Anzi che
ad un giuoco di memoria desiderava che lo studio fosse diretto allo sviluppo
dell'intendimento; inculcava lo studio dell' aritmetica fatto a norma delle
regole predette, e indi tornava a ribadire che: Per mantenere sempre
desta l'attività nella mente degli allievi, è di somma importanza il non
sgomentarli giammai coll'apparenza di gravi difficoltà nelle operazioni che
loro si propongono; anzi colla frequenza degli esempi il far loro osservare,
che avrebbero da se sciolto le domande, se avessero fatto riflessione alle cose
sa pute 6. E poi seguiva cosi: Che se alle volte occorrerà di
dovere insegnare delle cose difficili, allora il maestro procurerà di scemare
la difficoltà colla curiosità della ricerca, perchè il piacere della scoverta
l'incoraggisca al tedio dell'operazione. Ma qualora la curiosità non è
infiammata, il fanciullo non sente altro che la fatica, e la fatica sola da se
ributta 7. Poi chiedeva a se stesso: É necessario il rappresentare
al naturale lo stato presente della educazione ncstra letteraria? Lo farò con
coraggio. Si è caricata la nostra memoria; perciò è rimasto senza energia e
senza originalità l'intelletto. La nostra filosofia, in vece C.,
Metodo dei principj generali del Discorso, Palermo, Metodo cit., BLABI, Note
storiche di G. A. De C.; Palermo, Cosmi, Metodo ecc., d'essere l'arte di
pensare, è stata l'arte di parlare di ciò che non s'intende; la nostra rettɔrica,
l'arte di csaggerare con parole, e di parlare a controsen 30. Gran servigio,
gran servigio, ridico, si presta al pubblico da chi indirizza per la strada
regia del sipere la presente gioventù, da chi coltiva la loro ragione e il loro
cuore. Era tempo oramai di aprirsi a tutti la strada alla coltura delle scienze
e delle arti; di venire nella comune estimazione le cognizioni realmente utili
all'umanità, di siudiarsi la Natura nei suoi varj regni e nel suo vero
prospetto. Era già il tempo ce la pubblica e la privata utilità fossero rico
103ciute ch.n: la misar di calcolare l'importanza delle cognizioni; che la
Religione s'impari nella sua storia, nei suoi Dogmi, nella sua Morale, mi senza
il pru:ito della costroversia; che nelle lingue doite si cerchi il gusto, ma
senza pedanteria; che le matematiche, e l'analisi ci servano di guida nelle
cognizioni astratte; che nelle scienze naturali si cerchino i mezzi per
accrescere, o conservare la sanità dei nostri corpi, o per influire ne la
ricchezza nazionale, coltivando e migliorando i prodotti dell'arte e della natura;
e che finalmente la volgare e popolare lingua, vero termometro della coltura
nazionale, si perfezioni; che non pud perfezionarsi, senza che si eserciti la
ragione nello stesso tempo '. [ocr errors] IV. A questa stupenda
Direzione pei maestri, il De Cosmi unì la prima parte dei Principj Generali del
Discor30, che già aveva stampato a solo sin. dal 1790; cui fece seguire ora
dalla parte secondo, che delle proposizioni, dei verbi, dei pronomi, delle
congiunzioni s'intertiene, chiudendola con alcune regole primarie ad
illustrazione delle altre, messe in fine della prima parte; e terminando
l'aureo librettino con un capitolo sulla Scelta dei libri necessari allo studio
della lingua italiana; dove vuole che siano preferiti i libri del Trecento;
additando per libro di prima lettura il Fiore di virtù o il Volgarizzamento dei
Gradi di S. Girolamo, 'od anche gli Ammaestra. minti degli antichi di frate
Bartolomeo da San Concordio; e per la seconda classe, il Trattato del Governo
della famiglia di Agnolo Pandolfini 5. A sintesi di tutto il libretto il
De Cosmi conchiude così: Ciò che i maestri debbono inculcar continuamente
alle tenere orecchie degli scolari sarà la necessità delle regole e dell'uso;
perchè l'uso e le regole sono i veri arbitri di ogni lingua. Nulla contro le
regole, nissuna parola fuori dell'uso", Questo pregevole volumetto
incontrò l'applauso di tutti i letterati; e un di essi, che si volle occultare
sotto le iniziali 0. G. R. P., ne fece una bellissima ed estesa rivista nelle
Notizie Letterarie di Cesena-agosto 1792 “. 1 G. A. De Cosmi, Op.
cit., p. 17-18. . Vedi sopra pag. 166. • C., , Metodo ecc., p.
56-57." • Lo stesso, Op. cit., p. 60-61. * Pag. 55 e
seg. L'articolo dell' O. G. R. P. venne riprodotto da Angelo nelle
Memorie per servire alla Storia letteraria di Sicilia; Ms. della Biblioteca
Comunale C.. Discorso concetto filosofico Lingua Segui Modifica Ulteriori
informazioni Questa voce sull'argomento linguistica è solo un abbozzo.
Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i
suggerimenti del progetto di riferimento. Un discorso è una modalità di
comunicazionelinguistica mediante cui si parla o scrive. La definizione del
termine varia a seconda dei campi di applicazione (antropologia, etnografia,
cultura, letteratura, filosofia, ecc.).
In semantica e analisi del discorso è una generalizzazione del concetto
di comunicazione all'interno di tutti i contesti. Nel campo dei codici è la
totalità del linguaggio utilizzato (vocabolario) in un determinato settore di
pratica sociale o ricerca intellettuale (es: discorso giuridico, discorso
religioso, discorso medico, ecc.). Michel Foucault ha definito il discorso come
"un ensemble de séquences de signes" (un insieme di sequenze di
segni).[1] Per quanto riguarda il campo delle scienze sociali e delle scienze
umanistiche, il termine ha rilevanza riguardo a un pensiero che si può
esprimere mediante il linguaggio. Il
discorso si differenzia dall'enunciato e dalla dichiarazione. Il discorso,
infatti, può rappresentare la manifestazione di un pensiero individuale
relativamente o meno a un determinato argomento; la dichiarazione invece
consiste in un atto ufficiale di solito è preparato e coinvolto in
documentazioni. Con il termine discorso
si identifica anche l'esposizione pronunciata in pubblico relativamente a un
argomento o materia (discorso inaugurale, discorso commemorativo, ecc.). Foucault, L'archéologie du savoir, Parigi, Gallimard,
1969, p. 141. Voci correlateModifica Parti del discorso Parresia Discorso
diretto Discorso indiretto Frase Autore Dialettica Retorica Monologo
Dialogo «discorso» Portale
Antropologia Portale Filosofia Portale Linguistica Portale Sociologia Pregiudizio
Strutturalismo (filosofia) movimento filosofico
Le parole e le cose Libro di Michel Foucault. Grice: “I call it ‘principle’
not ‘principles’ – or at least I did in my first William James lecture: ‘some
general principle of discourse’ – I later found out that Aristotle is right:
‘arkhe’ is best used in the singular!.Grice: “So MY principle is ‘be
cooperative’ – principle of conversational helpfulness --. Maxims are not as important as ‘principle’ is
– as Kant would agree!” Cosmi. Giovanni Agostino De Cosmi. Giovanni Cosmi. R
Cosmi. Keywords: metodo dei principi generali del discorso, discorso, discursus,
principle versus principle – principio, principii -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmi” –
The Swimming-Pool Library.Cosmi.
Grice e Cosottini: la ragione conversazionale el’implicatura
conversazionale di MELOPEA – filosofia italiana –Luigi Speranza (Figline
Valdarno). Filosofo italiano. Grice: “Cosotini considers ‘Home, sweet home,’ in
terms of linearity – surely Miss X can ‘improve’ on the score! Especially if
she did visit Payne’s little cottage by the sea – in Easthampton, and shed a
tear!”. Si laurea a Firenze con “Fenomenologia”. Fonda GRIM, Gruppo per la
Reserccia dell’Improvisazione Musicale. GRICE Gruppo por la research
dell’Improvisazione conversazione espressiva. Insegna Improvvisazione Musicale.
Le Fanfole, canzoni composte su testi del poemetto meta-semantico di Fosco
Maraini Gnosi delle Fanfole. Linearità e Nonlinearita in semiotica – sintagma
lineare, sintagma soprasegmentale – the volume of a sound – a ‘natural’
expression of pain – the higher the volume, the higher the pine --. Grice on
stress, intonation and implicature. I KNOW it. I KNOW it (you don’t have to
tell me). SMITH paid the bill. Due conversazionaliste si muovono pacatamente
per le loro vie, variando direzioni e anche versi, ascoltandosi sempre, ma con
dialoghi liberi e mai serrati. “La musica dei matti” creazione dialogica di
suoni del tutto libera e interamente legata all'istante, tale da produrre
mozzione conversazionale dallo sviluppo verticale. Improvvisare la verità. Il
concetto di ‘improvvisare’ improvissato – cf. English ‘improved’. Improvisation
– improvised. Musica e Filosofia. Realizza la partitura grafica Dettagliper tre
esecutori, che consiste di una mappa e ottantuno carte con segni grafici
codificati (la mappa e le carte sono i “veicoli” e il modo in cui si legge la
grafia genera molteplici possibilità di implicature. “wordless novel”. I suoi
studi si concentrano sulla filosofia della musica e sull’improvvisazione
musicale, scrivendo numerosi saggi per riviste specializzate come Musica
Domani, Perspectives of New Music, Aisthesis, Musicheria e la rivista online De
Musica. Inoltre pubblica un saggio sul
silenzio e sulle sue potenzialità performative. Metodologia
dell'Improvvisazione Musicale. Tra Linearità e Nonlinearità, un libro di
metodologia dell’improvvisazione musicale nel quale Cosottini teorizza la dicotomia
tra Linearità e Nonlineairtà come strumento per l’analisi dell’improvvisazione
musicale. Non-linearita EDT, il silenzio in contesto non lineare, Filosofia
della Musica. Non-linearità. Metodi non
lineari. EDT Non linearità. EDT Ascolto creativo e scrittura creativa di
un’improvvisazione musicale. Metodologia dell’improvvisazione musicale. Tra
Linearità e Nonlinearità Edizioni ETS, L’estetica dell’improvvisazione tra
suono e silenzio in Musica Domani, improvisation-research-center--musica-e-filosofia.
Do You Need A Sign. Wikipedia Ricerca Palazzo Bardi edificio a Firenze
Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando
altri significati, vedi Palazzo Bardi (disambigua). Palazzo Bardi Palazzo
busini-bardi 11.JPG Esterno del Palazzo Bardi Localizzazione StatoItalia Italia
RegioneToscana LocalitàFirenze Indirizzovia de' Benci 5 Coordinate 43°46′02.99″N
11°15′32.75″E Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXV secolo
Realizzazione Committentebanchieri Busini Il palazzo Bardi o
Busini-Bardi-Serzelli si trova in via de' Benci 5 a Firenze.
Palazzo Bardi, il cortile attribuito a Brunelleschi StoriaModifica Fu
costruito su preesistenze negli anni Trenta del XV secolo per conto della
famiglia di banchieri Busini, su disegno forse di Filippo Brunelleschi: è
quindi evidente la sua grande importanza nel testimoniare, circa quindici anni
prima della costruzione di palazzo Medicidi via Larga ad opera di Michelozzo,
il definirsi della tipologia del palazzo rinascimentale, con cortile centrale,
in un momento di significativa crescita urbana promossa dai ceti dirigenti del
tempo. Giovanni de' Bardi (della linea di Gualtiero, non di quella di
Piero, esiliata nel 1343) acquistò il palazzo nel 1482: la famiglia già nel
secolo precedente aveva significative proprietà di là dal ponte. Agnolo de'
Bardi, nipote di Giovanni, fece fare dei lavori di ammodernamenti al palazzo,
forse con il concorso di Giuliano da Maiano, ma non ne venne modificato
l'assetto generale. Furono chiuse le grandi aperture sul fronte che davano
accesso a vari locali adibiti a botteghe (una successione di fornici è ancora
apprezzabile su via Malenchini e due permangono su via de' Vagellai). Da
sottolineare come i lavori, pur giungendo ad esiti formalmente diversi, si
sviluppassero in parallelo con quelli dell'antistante palazzo Corsi, ugualmente
volti a convertire la più antica struttura medievale in un palazzo adeguato
alla nuova concezione rinascimentale. Preesistenze sul lato sud in
via Malenchini Verso la fine del XVI secolo, come ricorda una lapide sulla
facciata, si riuniva in questo palazzo una comitivadi letterati, artisti e musicisti,
conosciuta sotto il nome di Camerata fiorentina di casa Bardi, istituita
dapprima allo scopo di risuscitare l'antico teatro greco e che più tardi si
occupò del melodramma teatrale, tanto che qui si eseguì per la prima volta il
canto dantesco del conte Ugolino, messo in musica da Vincenzo Galilei e si
eseguirono le Nuove Musiche di Giulio Caccini. Più tardi la Camerata divenne
Accademia, trasferendosi nell'odierno palazzo Corsi-Tornabuoni in via
Tornabuoni. Il palazzo fu abitato dai Bardi fino all'estinzione del ramo
familiare a inizio dell'Ottocento, per poi passare ai Bardi Serzelli, che
l'hanno abitato fino al 1954, anno della morte del conte Alberto.
Successivamente affittato alla Provincia di Firenze, è stato da questa scelto
negli anni settanta per ospitare il III Liceo Scientifico statale. Nel 1983 ha
subito il rifacimento degli intonaci sul fronte di via Malenchini. A partire
dal 1990 circa, oramai liberato dalla presenza della scuola e acquistato da una
società immobiliare, è stato interessato da un complesso cantiere finalizzato
al recupero della fabbrica e alla suddivisione in appartamenti dei grandi
ambienti interni, conclusosi nel 2007. Il palazzo appare nell'elenco
redatto nel 1901 dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, quale
edificio monumentale da considerare patrimonio artistico nazionale, ed è
sottoposto a vincolo architettonico. Descrizione Esterno La semplice
facciata, sviluppata sui canonici tre piani e graffita con una finta muratura a
conci rinnovata nel 1885 (al tempo della proprietà di Ferdinando Bardi,
comunque da considerare sostanzialmente fedele alle preesistenze), quindi
restaurata e integrata nell'ambito del recente intervento, presenta ai lati due
scudi con le armi, oramai consunte ma ancora ben leggibili, della famiglia
Busini (d'azzurro, a tre fasce increspate d'oro, e alla banda attraversante di
rosso, caricata di tre rosed'argento). Da segnalare sul fronte anche la lapide
che ricorda come, in questo palazzo, Giovanni Bardi conte di Vernio avesse
riunito a Camerata fiorentina di casa Bardi, in seno alla quale nacque il
melodramma. IN QUESTA CASA DEI BARDI VISSE GIOVANNI CONTE DI VERNIO CHE
AL VALOR MILITARE MOSTRATO NEGLI ASSEDI DI SIENA E DI MALTA CONGIUNSE LO STUDIO
DELLE SCIENZE E L'AMOR DELLE LETTERE COLTIVÒ LA POESIA E LA MUSICA E ACCOLSE E
FU L'ANIMA DI QUELLA CELEBRE CAMERATA LA QUALE INTESA A RIPORTARE L'ARTE
MUSICALE IMBARBARITA DALLE STRANEZZE FIAMMINGHE ALLA SUBLIMITÀ DELLA MELOPEA DI
CUI SCRISSERO GLI STORICI DELL'ANTICA CIVILTÀ APRÌ LA VIA GIÀ CHIUSA DA SECOLI
AL RECITATIVO CANTATO E ALLA MELODIA E CON LA RIFORMA DEL MELODRAMMA FU LA CUNA
DELL'ARTE MODERNA. Palazzo busini-bardi, targa camerata dei bardi. JPG
Stemma Bardi sul cancello d'ingresso Di rilievo l'androne, chiuso sul fondo da
una elegante cancellata (presumibilmente databile al Settecento) con sulla
rosta l'arme dei Bardi (d'oro, alla banda di losanghe accollate di rosso)
accostata da due aquile. Le fasce marcapiano aggettanti sono ornate da volute
di fiori, primo esempio di "stile nuovo" fiorentino. Semplici
finestre centinate si allineano su otto assi. all'esterno si trova murato anche
un piccolo tabernacolo con un affresco scarsamente leggibile con la Madonna in
gloria adorata da una monaca. L'elemento più interessante è il bel
cortile centrale porticato sui quattro lati, progettato forse dal Brunelleschi,
probabilmente il primo cortile privato signorile a Firenze (dopo i cortili
pubblici del Palazzo del Bargello e di Palazzo Vecchio): a pianta quadrata,
presenta arcate a tutto sesto con colonne con capitelli corinzi che scandiscono
lo spazio. I volumi sono scanditi ad altezza doppia rispetto al modulo usato
spesso successivamente del cubo sormontato da semisfera: qui l'altezza delle
colonne è doppia rispetto all'intercolumnio (a differenza per esempio del
loggiato dello Spedale degli Innocenti) e, pur mantenendo dimensioni armoniche,
presenta un maggior slancio. Tipicamente brunelleschiana è anche la
disposizione delle porte che si aprono sul cortile. "Si osservi
anche il sonoro androne d'ingresso, con volte a crociera su capitelli pensili
strettamente analoghi a quelli del palazzo di Niccolò da Uzzano; o lo splendido
episodio dei capitelli delle colonne del cortile stesso, che presentano un
singolare episodio di protocorinzio appunto brunelleschiano, cui non a caso
rispondono i capitelli del cortile della casa di Apollonio Lapi, posta in via
del Corso 13, egualmente attribuita all'esordio professionale di Filippo: per
la qual cosa piacerebbe datare pure il prezioso testo architettonico
protobrunelleschiano di palazzo Bardi (Morolli). All'interno molte stanze
presentano dei soffitti in legno risalenti all'epoca di Agnolo de' Bardi, che
li fece uniformare. BibliografiaModifica Tabernacolo Emilio Burci,
Guida artistica della città di Firenze, riveduta e annotata da Pietro Fanfani,
Firenze, Tipografia Cenniniana; Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione
Generale delle Antichità e Belle Arti), Elenco degli Edifizi Monumentali in
Italia, Roma, Tipografia ditta Ludovico Cecchini; Ross, Florentine Palace and
their stories, with many illustrations by Adelaide Marchi, London, Dent; Schiaparelli,
La casa fiorentina e i suoi arredi, Firenze, Sansoni, Limburger, Die Gebäude
von Florenz: Architekten, Strassen und Plätze in alphabetischen Verzeichnissen,
Lipsia, F.A. Brockhaus, Bertarelli, Italia Centrale, II, Firenze, Siena,
Perugia, Assisi, Milano, Touring Club Italiano; Garneri, Firenze e dintorni: in
giro con un artista. Guida ricordo pratica storica critica, Torino et alt.,
Paravia; Bertarelli, Firenze e dintorni, Milano, Touring Club Italiano; Allodoli,
Arturo Jahn Rusconi, Firenze e dintorni, Roma, Istituto Poligrafico e Libreria
dello Stato, Barfucci, Giornate fiorentine. La città, la collina, i pellegrini
stranieri, Firenze, Vallecchi; Thiem, Christel Thiem, Toskanische
Fassaden-Dekoration in Sgraffito und Fresko, München, Bruckmann, Limburger, Le
costruzioni di Firenze, traduzione, aggiornamenti bibliografici e storici a
cura di Mazzino Fossi, Firenze, Soprintendenza ai Monumenti di Firenze,
Biblioteca della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per le province di Firenze Pistoia e Prato); Bucci, Palazzi di Firenze, fotografie di
Raffaello Bencini, 4 voll., Firenze, Vallecchi, Quartiere di Santa Croce; Quartiere
della SS. Annunziata; Quartiere di S. Maria Novella, Quartiere di Santo
Spirirto; Lisci, I palazzi di Firenze nella storia e nell’arte, Firenze, Giunti
& Barbèra, Fanelli, Firenze architettura e città: atlante -- Firenze,
Vallecchi, Touring Club Italiano, Firenze e dintorni, Milano, Touring Editore; Salvagnini,
La guerra degli sporti, in "Granducato", Bargellini, Ennio Guarnieri,
Le strade di Firenze, Firenze, Bonechi, Il Monumento e il suo doppio: Firenze,
a cura di Marco Dezzi Bardeschi, Firenze, Fratelli Alinari; Firenze. Guida di
Architettura, a cura del Comune di Firenze e della Facoltà di Architettura
dell’Università di Firenze, coordinamento editoriale di Domenico Cardini,
progetto editoriale e fotografie di Lorenzo Cappellini, Torino, Umberto
Allemandi; MOROLLI, Vannucci, Splendidi palazzi di Firenze, con scritti di
Janet Ross e Antonio Fredianelli, Firenze, Le Lettere; Zucconi, Firenze. Guida
all’architettura, con un saggio di Pietro Ruschi, Verona, Arsenale; Cesati, Le
strade di Firenze. Storia, aneddoti, arte, segreti e curiosità della città più
affascinante del mondo attraverso vie, piazze e canti, 2 voll., Roma, Newton
& Compton editori; Touring Club Italiano, Firenze e provincia, Milano,
Touring, Pecchioli, ‘Florentia Picta’. Le facciate dipinte e graffite dal XV al
XX secolo, fotografie di Antonio Quattrone, Firenze, Centro Di; Paolini, Case e
palazzi nel quartiere di Santa Croce a Firenze, Firenze, Paideia; Paolini,
Lungo le mura del secondo cerchio. Case e palazzi di via de’ Benci, Quaderni
del Servizio Educativo della Soprintendenza BAPSAE per le province di Firenze
Pistoia e Prato n. 25, Firenze, Polistampa; Paolini, Architetture fiorentine.
Case e palazzi nel quartiere di Santa Croce, Firenze, Paideia, Palazzo Bardi; Paolini,
scheda nel Repertorio delle architetture civili di Firenze di Palazzo
Spinelli(testi concessi in GFDL). Una pagina sulla conservazione del palazzo,
su limen. Portale Architettura Portale Firenze Ultima
modifica 2 anni fa di Omega Bot Palazzo Malenchini Alberti Palazzo Bardi-Tempi
Palazzo de' Benci Edificio a Firenze, Italia. Mirio Cosottini. Cossotini. Grice:
“I am sure that a suprasegmental or non-linear segment adds to what a
conversationalist means – he means THAT Smith did not pay the bill, and that
somebody else did” – By stressing on LOVE he means that he likes her AND that
he loves her.” Keywords: melopea, prosodia, Hjelmslev, Hockett, fonema, tratto
sopra-segmentale, stress – Grice’s examples: “Smith kicked the cat” – “Smith
didn’t pay the bill. Nowell did.” “Smith didn’t pay the bill”. “I knew it” “I
love her” -- segno, nonlinearita, codice, soprasegmento. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cosottini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Costa: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’interno e l’esterno –
l’internalizzazione-l’esternalizzazione -- uomini fuori di sé– filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torre del Greco). Filosofo italiano. Grice:
“I love Costa; if I have to chose three of my favourite essays of his, those
would be, “Le passioni,” “L’uomo fuori di se: l’esternalissazione’ and above
all, his sublime, “l’estetica della communicazione,’ which is what my
philosophy is all about!” -- Mario Costa
(Torre del Greco), filosofo. È conosciuto, in particolare, per aver studiato le
conseguenze, nell’arte e nell’estetica, delle nuove tecnologie, introducendo
nel dibattito filosofico una nuova prospettiva teorica, attraverso concetti
come "estetica della comunicazione", "sublime tecnologico",
"blocco comunicante", "estetica del flusso". Professore
a Salerno e, come professore incaricato di Metodologia e storia della critica
letteraria e di Etica ed estetica della comunicazione, ha contemporaneamente
insegnato per molti anni nelle Università degli Studi di Napoli
"L'Orientale" e di Nizza (Sophia-Antipolis). A Salerno ha fondato e
diretto, daArtmedia, Laboratorio permanente dedicato al rapporto tra
tecno-scienza, filosofia ed estetica, organizzando su queste tematiche decine
di iniziative di studio, mostre e convegni internazionali. L'estetica dei media
ha ottenuto il Premio Nazionale Fabbri. Pubblicato una trentina di libri; alcuni di
essi e numerosi suoi saggi sono tradotti e pubblicati in Europa e in
America. Il suo lavoro teorico si è svolto in due momenti successivi ed ha
seguito due fondamentali direzioni di ricerca: l'interpretazione socio-politica
e filosofica delle avanguardie artistiche, e l'elaborazione di una filosofia
della tecnica costruita soprattutto attraverso l'analisi dei cambiamenti che la
nuova situazione tecno-antropologica ha indotto nell'arte e
nell'estetico. Per quanto riguarda la prima delle due direzioni indicate,
ha fornito un complesso di interpretazioni filosofiche ed estetiche di numerosi
movimenti dell'avanguardia artistica e letteraria. Momenti di particolare
rilievo in questo ambito di ricerca possono essere considerati i suoi lavori su
Duchamp e sulle funzioni della moderna critica d'arte, nonché i suoi studi sul
"lettrismo" e sullo "schematismo", movimenti artistici di
grande importanza, anche estetologica, ma, all'epoca, pressoché ignoti in
Italia. Per quanto riguarda la seconda delle direzioni indicate, il suo
pensiero si è a sua volta sviluppato secondo due assi fondamentali: uno
riguardante le conseguenze sociali ed etiche della comunicazione tecnologica,
riassunte soprattutto nel libro La televisione e le passioni che analizza gli
effetti disgreganti e distruttivi della televisione, e poi nel più recente La
disumanizzazione tecnologica, e l'altro, dominante rispetto al primo,
consistente in un ripensamento del senso che l'"estetico" e
l'"artistico" vanno assumendo nella fase attuale delle nuove tecnologie
elettro-elettroniche e digitali della scrittura, dell'immagine, della
spazialità, del suono e della comunicazione, ciò che lo ha condotto ad una
radicale ed originale reimpostazione teoretica di tutto il campo investigato.
Negli ultimi suoi lavori (Ontologia dei media, e Dopo la tecnica) la
prospettiva teoretica si è andata ulteriormente approfondendo dando luogo ad
una compiuta filosofia dei media e della tecnica in quanto tale. Alcune opere
rappresentative L'estetica dei media può considerarsi, per i contenuti trattati
e per la inedita metodologia di indagine instaurata e seguita, un libro che
apre un nuovo campo di ricerca, prima del tutto ignorato ed inesplorato dalle
discipline estetologiche, quello appunto della "estetica dei media", da
non confondere, ad esempio, con l'estetica della fotografia o con quella del
cinema, alle quali ha comunque dedicato altri suoi importanti lavori. Il libro
in questione segue ai diversi contributi teorici relativi all'estetica della
comunicazione le cui identificazione, nominazione e formulazione teorica
risalgono, e che è ora rappresentata, nella sola Italia, da numerose Cattedre e
indirizzi universitari. Il sublime tecnologico è considerato il lavoro più noto
e più innovativo di tutta la sua produzione teorica; è in esso che,
considerando le conseguenze indotte nel campo dell'arte e dell'estetico dalla
nuova situazione tecno-antropologica, si parla dell'oltrepassamento della dimensione
dell'arte e delle categorie ad essa connesse, nella direzione di una nuova
forma di sublime, quella appunto del sublime tecnologico, con tutto quello che
questo concetto implica e comporta. La nozione del sublime tecnologico è stata
diffusamente accolta e seguita sul piano internazionale della teoria estetica
ed ha sollecitato un incalcolabile numero di sperimentazioni da parte di
artisti di tutto il mondo. Arte contemporanea ed estetica del flusso traccia le
linee di una nuova estetica e della sperimentazione artistica che da essa può
scaturire. Si tratta da una parte di un violento e argomentato pamphlet contro
l'arte contemporanea, ritenuta “una congerie più o meno sgradevole di nullità
mercantili”, e dall'altra della tematizzazione ed elaborazione del concetto di
“flusso estetico tecnologico”, considerato come ultima e residua possibilità di
sperimentazione per gli artisti e come chiave per comprendere alcuni aspetti
dell'ontologia contemporanea. Dopo la tecnica ripercorre la storia delle varie
epoche della tecnica sottolineandone la discontinuità e la capacità di agire
configurando, ogni volta in maniera diversa, l'organizzazione antropologica di
chi da esse è abitato. Sulla base di questi presupposti, si mostra come la
tecnica, una volta connessa e dipendente dai bisogni umani, si va rendendo
incondizionatamente autonoma forzando l'uomo a vivere dentro di essa, ad
appartenerle e a favorire il suo sviluppo. Altre saggi: “Arte come soprastruttura”,
Napoli, CIDED, Teoria e Sociologia dell'arte, Napoli, Guida Editori, Sulle
funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel
Duchamp, Napoli, M.Ricciardi Editore, Il ‘lettrismo' di Isidore Isou.
Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica parigina posteriore, Roma,
Carucci Editore, Le immagini, la folla e il resto. Il dominio dell'immagine
nella società contemporanea, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Il sublime
tecnologico, Salerno, Edisud, L'estetica dei media. Tecnologie e produzione
artistica, Lecce, Capone Editore, Il ‘lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia,
Napoli, Morra, La televisione e le passioni, Napoli, A.Guida, 1Lo
‘schematismo'. Avanguardia e psicologia, Napoli, Morra, Lo ‘schématisme
parisien'.Tra post-informale ed estetica della comunicazione, Fondazione
Ghirardi, Piazzola sul Brenta (Padova), Sentimento del sublime e strategie del
simbolico, Salerno, Edisud, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria
dell'oggetto tecnologico, Genova/Milano, Co.& Nolan, Il sublime
tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Roma, Castelvecchi,
Tecnologie e costruzione del testo, Napoli, L'Orientale, L'estetica dei media.
Avanguardie e tecnologia, Roma, Castelvecchi, L'estetica della comunicazione.
Come il medium ha polverizzato il messaggio. Sull'uso estetico della
simultaneità a distanza, Roma, Castelvecchi, Dall'estetica dell'ornamento alla
computerart, Napoli, Tempo Lungo, Internet e globalizzazione estetica, Napoli,
Tempo Lungo, New Technologies, Artmedia-Museo del Sannio, oDimenticare l'arte.
Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Milano,
Franco Angeli, L'oggetto estetico e la critica, Salerno, Edisud, La
disumanizzazione tecnologica. Il destino dell'arte nell'epoca delle nuove
tecnologie, Milano, C. & Nolan, Della fotografia senza soggetto. Per una
teoria dell'oggetto estetico tecnologico, Milano, C. & Nolan, Arte
contemporanea ed estetica del flusso, Vercelli, Mercurio, Ontologia dei media, Milano, Post media books, Dopo la tecnica. Dal chopper alle similcose, Napoli,
Liguori. Il lavoro teorico di C. teso, tra l'altro, a definire la nuova epoca
dell'estetico connessa alle neo-tecnologie elettro-elettroniche e digitali, e a
fare in modo che questa si andasse ben configurando e definendo, si è, per ciò
stesso, sempre accompagnato ad un'intensa attività di promozione
estetico-culturale: agli inizi degli anni ottanta organizza a Napoli, col
supporto della RAI-TV, una grande esposizione di videoarte (Differenzavideo); per
sollecitare una riflessione sugli effetti estetico-antropologici indotti dalle
tecnologie della comunicazione, co-organizza (conPerniola) presso l'Salerno, il
Convegno Estetica e antropologia i cui Atti sono, in parte, pubblicati sulla
Rivista di estetica di Torino, necrea, con l'artista Forest, il movimento
internazionale dell'Estetica della comunicazione che presenta in vari contesti (Electra di Popper, al Centre Pompidou a La
Revue parlée di Gautier, ialla Sorbonne, al Séminaire de Philosophie de l'art
di Revault D'Allonnes); dà luogo al primo evento/rassegna di estetica della
comunicazione (L'immaginario tecnologico, Benevento, Museo del Sannio);
concepisce e dirige, presso l'Salerno, Artmedia, Convegno Internazionale di
Estetica dei Media e della Comunicazione; organizza presso l'Salerno un
Convegno Internazionale su estetica e tecnologia; organizza presso la stessa
Università il Convegno "Il suono da lontano". Eventi sonori e
tecnologie della comunicazione"; realizza, per la RAI-TV (Dipartimento Scuola
e Educazione) la trasmissione televisiva in tre puntate: Un'estetica per i
media; fa svolgere, presso la settecentesca Villa Bruno (S.GiorgioNapoli)
Technettronica. Laboratorio di Estetica dei Media e della Comunicazione;
presenta per la prima volta in Italia presso l'Salerno due videoplays di Samuel
Beckett; fonda e dirige, la Rivista Multilingue Epipháneia. Ricerca estetica e
tecnologie, fonda e dirige, presso le Edizioni Tempo Lungo di Napoli, Vertici,
una «Collana di Estetica e Poetiche» aperta alle questioni estetologiche
connesse ai nuovi media (testi di Piselli, Cauquelin, Adorno, C., Solulard,
Dorfles); co-organizza a Parigi la
Edizione di Artmedia; co-organizza presso l'Salerno il Convegno Internazionale
Tecnologie e forme nell'arte e nella scienza; organizza presso il Museo del
Sannio di Benevento la Mostra New Technologies (Roy Ascott, Maurizio Bolognini,
Forest, Kriesche, Mitropoulos); norganizza presso l'Salerno la IX Edizione di
Artmedia; nco-organizza a Parigi la X Edizione di Artmedia; norganizza presso
l'Salerno un seminario conclusivo di Artmedia dal titolo "L'oggetto estetico
dell'avvenire". Sulle funzioni della critica d'arte e una messa a punto a
proposito di Marcel Duchamp, Napoli, Ricciardi, C., L'oggetto estetico e la critica,
Edisud, Salerno. C., Il 'lettrismo' di Isou. Creatività e Soggetto
nell'avanguardia artistica parigina, Carucci Editore, Roma,Il 'lettrismo'.
Storia e Senso di un'avanguardia, Morra, Napoli, Si veda anche Signe, forme,
schéma, ornement, in "Schéma et schématisation", L'estetica dei
media. Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma, C.Il sublime tecnologico.
Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Castelvecchi, Roma, Arte
contemporanea ed estetica del flusso, Mercurio, Vercelli. Inoltre: Technology,
Artistic Production and the "Aesthetics of communication", in
"Leonardo", Tecnologie e costruzione del testo, L'Orientale, Napoli, Reti
e destino della scrittura. Sulla diffusione e la rilevanza del suo pensiero, si
vedano tra gli altri: Bootz, The thesis of Benjamin and C., in Bootz, Baldwin,
Regards Croisés, West Virginia, Abruzzese, Il compiersi della pubblicità dal
manifesto metropolitano ai linguaggi elettronici del presente: pretesti, testi
e questioni, in Lattuada, Nuove tendenze ed esperienze nella comunicazione e
nell'estetico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Kerckhove, L'estetica
dei media e la sensibilità spaziale. Riflessioni su un libro di C., in
"Mass Media",Frank Popper, L'art à l'âge électronique, Paris, Hazan, C.,
professore di estetica, in MCmicrocomputer, Roma, Pluricom. esternalismo/internalismo.
– La nozione di esternalismo (externalism), usata in contrapposizione a quella
di internalismo (internalism), si è sviluppata principalmente in merito ai
dibattiti sulla filosofia della mente e sull’epistemologia ed è attualmente al
centro del dibattito filosofico sulla giustificazione epistemica,
sull’epistemologia sociale, sul ruolo dell’ambiente e dell’esterno negli stati
mentali, nei processi cognitivi e nei processi linguistici e comunicativi; si
parla di e./i. anche in filosofia morale. Nell’e. una conoscenza si considera
giustificata se è causata da processi affidabili derivati dall’esperienza
esterna; diversamente, nella prospettiva internalista, una credenza viene considerata
vera se fondata su esperienze interne al soggetto (per es. il
cogitocartesiano), riconducendo la conoscenza, anche sensibile, del mondo
esterno all’appercezione di stati di coscienza (Kornblith, Epistemology:
internalism and externalism; Bonjour, E. Sosa, Epistemic justification:
internalism vs. externalism, foundations vs virtues). Nella filosofia della
mente, gli stati mentali vengono ricondotti, in prospettiva esternalista, a
connessioni causali con l’ambiente esterno; in chiave internalista, a processi
e fattori interni alla mente. Nella teoria della motivazione morale si parla di
i. allorché si ritiene che vi sia una connessione necessaria fra considerazioni
morali e motivazione, costitutiva della considerazione morale stessa; si parla
invece di e. quando si ritiene che tale connessione si fondi su fattori
concomitanti contingenti. Con l’argomento della ‘Terra gemella’ (twin Earth),
il filosofo Hilary Putnam ha sostenuto che una differenza di estensione, ossia
dell’insieme degli individui cui si applica un concetto o un predicato, è anche
una differenza di significato; questo per dimostrare che i significati non sono
enti mentali, ossia che la medesima parola applicata a due enti diversi (anche
se non apparentemente tali) cambia di significato, benché averne o meno
cognizione dipenda dalla competenza semantica dei parlanti in merito
all’oggetto designato (The meaning of ‘meaning’, Gunderson, ed.,Language, mind
and knowledge). A partire dalle tesi dell’e. semantico (in filosofia del
linguaggio si privilegia la coppia di termini esternismo/internismo) il
dibattito si è esteso alle filosofie della mente e alle scienze cognitive,
indagando se il soggetto cognitivo sia circoscrivibile al cervello e al sistema
nervoso, o se la mente e il mentale includano anche fattori ambientali, sia
fisici sia sociali, ricalibrando i confini fra mente, corpo, ambiente. Nel
dibattito filosofico ha avuto rilievo anche la tesi della ‘mente estesa’ di Clark
e Chalmers (Chalmers, The extended mind, in Analysis; Clark, Supersizing the
mind: embodiment, action, and cognitive extension, ), che riconosce il ruolo
dei fattori extracorporei e ambientali nel costituirsi della mente, ma riguardo
agli aspetti cognitivi non fenomenici (non coscienti). Superando
contrapposizioni troppo rigide fra le due posizioni, nelle tesi esternaliste
più recenti si tende a riconoscere non unicamente la dipendenza causale
dall’esterno del mentale, ma a vedere l’origine del mentale nell’interazione
causale ambiente-corpo-cervello, ciascuno influente nei processi cognitivi e
mentali. In ambito sia semantico sia fenomenico si è differenziato l’e. dall’i.
in base alla possibilità di ‘individuare’ uno stato mentale ritenendo di poter
ricorrere, o meno, a fattori esterni (Wilson, Boundaries of the mind. The
individual in the fragile sciences: cognition). Più recentemente si è teso
invece a privilegiare l’aspetto della realizzazione fisica. Si parla, in tal
senso, di e. del veicolo o anche procedurali, spostando il punto di messa a
fuoco dall’identificazione del contenuto dello stato mentale (intenzionale o
fenomenico) alla natura del sistema di realizzazione fisica di tale stato
(Amoretti, La mente fuori dal corpo. Prospettive esternaliste in relazione al
mentale). Entro l’approccio incentrato sul veicolo e sulla realizzazione fisica
sono state elaborate posizioni differenziate, principalmente riguardo alla
possibilità di comprendervi o meno elementi fenomenici, ossia legati agli stati
cognitivi coscienti.Grice: “Costa uses words in ways we don’t allow at Oxford:
a sign by which nobody signs; and so on.Mario Costa. Keywords: – uomini fuori di sé, blocco comunicante, communicazione sine
contenuto, communicazione fatica, semiotica, estetica della comunicazione,
significante sine significato – segno sine segnato – autoreferenzialita –
asemanticita – sintassi – retorica – codice – intenzione communicative, medio,
messaggio, recursivita, self-reference, meta-linguaggio – linguaggio come
metalinguaggio -- - Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool
Library. Costa.
Grice e Costa: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della sinestesia
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ravenna). Filosofo. Grice: “My favourite keyword for Costa is ‘contrassegnare’!” –
Grice: ““I love Costa; for one, he improves on Locke; on the composition of
ideas and how to ‘countersignal’ them with ‘vocaboli precisi’ – I explored that
a little in my ‘Prejudices and Predilections,’ when I attack minimalism and
extensionalism, and provide a way which is meant to resemble Locke’s way of
words, or rather Locke’s way of ‘complex’ words, or ‘composite’ (Costa’s
‘comporre’) out of ‘simple’ ones – as in Quine’s worn-out ‘bachelor’ unmarried
male that I play with with Strawson in “In defense of a dogma.” In this
respect, it is interesting to see that Costa also wrote on ‘ellocution’ and ‘sintesi’
versus ‘analisi’!” Figlio di Domenico e Lucrezia Ricciarelli, studia a
Ravenna e Padova. Insegna a Treviso e Bologna, a Villa Costa, Bologna -- è
costretto a riparare a Corfù perché sospettato di essere affiliato alla Carboneria.
Può rientrare a Bologna. Altre opere: “I trattati della elocuzione e del modo di
esprimere l’idea e di segnarla con una espressione precisa a fine di ben
ragionare” – Colla profferenza, “Fa fredo,” C. segna che fa freddo. Il trattato
filosofico della sintesi e dell'analisi; i quattro sermoni dell'arte poetica,
un commento alla Divina Commedia, la Vita di Dante, il Dizionario della lingua
italiana, poesie (Laocoonte), lettere e traduzioni. Letterato neo-classico e dunque tipicamente
italiano e anti-romantico, ammira i corregionali Monti e Giordani e sostenitore
del purismo e del “sensismo” lucreziano in filosofia. Nella lettera a Ranalli
di introduzione al Della sintesi e dell'analisi così riassume le sue concezioni
filosofiche. È necessario, per togliere la infinita confusione che è nelle
scienze ideologiche, di dare all’espressione un determinato valore. Sostengo
che questo non si può ottenere, come crede Locke, colla de-finizione (horismos)
(la quale e una scomposizioni di una idea o di piu idee), se prima la idea non
sia stata ben composta. Sostengo che questa non si puo compor bene, se prima
non si conosce quale ne sieno gli elementi semplici – soggetto e predicato, il
S e P -- Sostengo che un elemento semplice e una reminiscenza relative a una
sensazione, e che la idea si compone di almenno due di sì fatti elementi – il S
e P – la proposizione, ‘segno che p’ -- e del sentimento del rapporto di una
reminiscenza e dell’altra, cioè dei proposizione – nel indicativo o imperative –
il giudizio – il giudicato – e la volizione – il volute. Da ciò conséguita che
l'esperienza (se l'esperienza vale ciò che si sente mediante l'attenzione) è il
fondamento della scienza umana. I kantisti ed altri filosofi distinguono una
idea in una idea soggettiva e in una idea oggettiva, ed attribuiscono
un'origine a posteriori e sintetico alla una ed un'origine a priori e analitico
all’ltra. Questa distinzione può esser buona, ma non è buona l'ammettere che abbiano
origini di natura diversa: a posteriori/sintetico, dal senso – e a
priori/analitico – dall’intelleto – nihil est in intellectus quod prior non
fuerit in sensu. Ogni idea ha un stesso
origine. e questo si fa palese per un solo esempio. Da una idea soggettiva puo
nascere sue proposizioni. Una
proposizione: "La reminiscenza S1 e la reminicenza S2 sono in me”. Altra
proposizione: “La reminiscenza S si associa con la reminiscenza P”. Qual è
l'origine dell’idea dalla quale deriva sì fatta proposizione? Il sentimento.
Dire che la reminiscenza del color di rosa è in me, è dire che sento che è in
me, e dico: “Vedo una macchia rosa”. Così direte dell'altra proposizione.
Dall’idea oggettiva puo nascere una proposizione e altra proposizione. Il corpo
pesa. La rosa manda odore. Da che nasce la proposizione? Dal sentimento (senso).
Perciocché dire che questo corpo pesa è lo stesso che dire che sento il peso di
questo corpo; giu-dico, ovvero, sento che la cagione (causante, causans) della
mia sensazione tattile del senso del tattoo è in questo corpo. Così dire che la
rose manda odore è lo stesso che dire che sento l'odore della rosa, giu-dico,
ovvero, sento che l'odore dela rosa ha una delle cagioni in cose fuori, cioè
che non sono in me. Fra una idea soggettiva e una idea oggettiva non vi è altra
differenza, se non che nella che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è nella nostra
persona. Nell’idea che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è in
me (o noi entrambi – nella diada --), nell’idea soggetiva nella cosa (il
reale). fuori. Ma come sentiamo noi che vi sia una cosa (il reale) fuori?
Questo è il gran problema dagl'ideologi non ancora solute. Ma l'ignoranza in
che siamo non dà facoltà legittima alla scuola trascendentali di concludere che
il giudizio dell’idea soggetiva non dipende dal sentire. Il giudicio è un
sentimento, cioè, un rapporto sentito fra una sensazione e altre sensazione,
una reminicenza (il S) e altra reminiscenza (il P); ché se tale non fosse,
nessuno potrebbe dire che l'idea che abiamo di una rosa p.e. ha la sue cagioni
fuori di noi entrambi, perciocché una sì fatta proposizione suppone che l'uomo
che proferisce questa proposizione o explicatura (spiegato) abbia o la
sensazione S e la sensazione P, o le reminiscenza S e la reminiscenza P in
relazione alla sensazione prodotte dalla rosa, e l'idea del sentente. Voi
vedete chiaramente, che nell'uno e nell'altro degli addotti esempii la
modificazione che chiamamo ‘idea,’ e il sentimento dei loro rapporti sono nella
nostre anime ambidue, e che quindi si esprimono falsamente coloro, che dicono
che sentiamo il corpo fuori di noi. Dovrebbero dire, strettamente, che sentiamo
che la cagione (causans) del nostro sentire (sentito) non è in noi entrambe.
Coi fondamenti da me posti si può stabilire una dottrina, se il buon desiderio
non mi acceca, per la quale vadano a terra le opinioni di coloro che disprezzano
il sensismo, e che con odiosa espressione la chiamano dottrina de' “sensuali”.
Con che danno a divedere, che essi mattamente opinano che il materiale organo
del senso (i cinque organi, i cinque sensi) senta e percepisca, senza
accorgersi che se gli occhi (visum) e le orecchie (auditum) e il naso (odore) sentissero
ciascuno separatamente, non potrebbe giammai nascere giudizio alcuno circa la
qualità della sensazione di natura
diversa. L’uomo non potrebbe mai dire che l’odore della rosa mi diletta più del
colore della rosa, e così via discorrendo. Il sentimento di un solo centro,
nostre anime ambidue: e nostre anima ambidue senteno in sé mesima, e non fuori
di sé. Puo parere che questa dottrina del sensismo sia la stessa che quella
dell'idealista irlandese Bercleio; ma essa è diversa, poiché ammette che oltre
la idea vi sieno fuori dell'uomo la cagione (causans) di essa idea. Di questa
cagione (causans) – il reale, il noumeno -- noi conosciamo l'esistenza, e nulla
più. Che cosa e un corpo in se stesso? A questa interrogazione non si può
rispondere se non dicendo che e ignota la cagione della nostra sensazione
condivisa. Sappiamo che esiste, sappiamo che si modifica, e tutto ciò sappiamo,
perché fa della mutazione nell'animo nostro ambedue o nell’anima nostra ambedue.
Dal che si deduce ciò che dianzi vi dissi, che ogni idea ha per loro due primitivi
elementi (il S e P) la sensazione, la reminiscenza, il sentimento che e nelle
nostre anime ambidue, e non fuori di lei. Così la pensa il filosofo chiamato
per beffa dal cattolico romano col nome di sensualista e di materialista.
Materialista a buona ragione si puo chiamare i nostri avversario, o almeno
materialista per metà, giacché ammette che il sentimento del corpo
percepiscano, e giudichino relativamente alla qualità del reale, della cosa
esterna. Leggete le lettere filosofiche di Galluppi stampate non è guari in
Firenze. In Galluppi troverete chiaramente esposte la dottrine sensista, quelle
di Hume circa la cagione, e segnatamente quelle di Kant. Se dalle mie teoriche
si possono ricavare gli argomenti validi a confutare le opinioni del filosofo
trascendentale, o di coloro, che oggi si danno il nome di eclettico – come ha
tempo Cicerone --, io vi prego di compilare alcune note, o vogliam dire
corollarii, pei quali si vegga manifesta la falsità di alcuni principii del
irlandese Bercleio, del scozzese Reid e del scozzese-tedesco Kant, la filosofia
dei quali è fonte della massima parte della moderne follia (Della Sintesi e
dell'Analisi, ed. Liber Liber / Fara Editore). Altre opere: “Alighieri”; “Della
elocuzione” Fara editore, S. Arcangelo di Romagna); “Della sintesi e
dell'analisi” (Giovanni Battista Borghi e Melchiorre Missirini); “La divina
commedia, con le note di Paolo Costa, e gli argomenti dell'Ab.G. Borghi. Adorna
de 500 vignette” (Giovanni Battista Niccolini e Giuseppe Bezzuoli, Firenze, Stabilimento
artistico Fabris,Claudio Chiancone, La scuola di Cesarotti e gli esordi del
giovane Foscolo, Pisa, Edizioni ETS (sulla formazione padovana del Costa, e sulla
sua amicizia giovanile col Foscolo) Filippo Mordani, Vite di ravegnani
illustri, Ravenna, Stampe de' Roveri. Dizionario biografico degli italiani. Una
delle facoltà, onde l'uomo è tanto superiore alle bestie, si è la favella [fabula
– da ‘fa’, speak – cf. fama], mercè della quale i primi uomini non solo si
strinsero in comunanza civile, ed ordinarono la legge ed il governo; ma a fare
più beata e gloriosa la vita crebbero le scienze e le arti, ed ispirarono con
queste l'odio al vizio ed al falso; l'amore della virtù, del vero, del bello; e
i fatti e i nomi degni di memoria ai tardi secoli tramandarono. E qual cosa è
più utile ai privati, ed alla repubblica e più degna e di maggiore onore, che
l'arte di gentilmenle parlare? Per questa ci è aperta la via alla dignità, alla
fortune ed alla fama; per questa le città si mantene ordinata e pacifica; per
questa sono animati i guerrieri – come
Niso ed Eurialo --, encomiato un principio; per questa con più degni modi si
loda e si prega il supremo autore elle cose, e pura e viva si mantiene nel cuor
degli uomini la religione. Laonde, se desiderate onore o giovamento a voi
stessi ed alla Italia, ardentemente volgete l'animo a questo nobilissimo studio
del parlare o discorsare civile. Che se vi fu dolce fatica l'interpretare e
l'imitare gli antichi filosofi romani, non meno dolce vi e il venire meco
investigando il magistero, che è nelle opere loro; imperciocchè, essendo la
favella [la lingua, il parlare] istrumento col quale si commovono e si traggono
gli animi degli uomini, uopo è di volgere sovente la considerazione alle
proprietà dell'intelletto e del cuore umano; il che, pel naturale desiderio,
che abbi mo di conoscere noi stessi, è dilettevolissimo. Mettiamoci dunque
volentieri a quest'opera; e per cominciare con ordine, poniam subitomente al
fine, che si propone chi scrive, perocche non sarà poi difficile temperare ed
ordinare secondo quello il modo del favellare. La favella – nella diada
conversazionale -- intende a *manifestare* (cfr. Vitters) ad altro un pensiero
e un affetto proprio con soddisfazione dell’altro. Ad ottenere questo FINE,
sono necessarie due codizioni. Prima: che la elocuzione sia chiarà – Grice:
“imperative of conversational clarity). Seconda condizione: che l’elocuzione
sia ornata convenevolmente. Parliamo tosto della chiarezza conversazionale, che
poco appresso diremo dell' ornament. La chiarezza da due cose procede. Prima:
dalla qualità dell’espresione, che si pone in uso. Secondo: dalla collocazione –
cum-locatio, syn-taxis -- loro. Prima diciamo della qualità dell’espressione,
L’espressione, che e un *segno* [cf. Grice: Words are not signs] di una idea,
fa perfettamente l'ufficio suo ogni qual volta sia ben determinata, cioè
appropriata a ciascuna idea singolare per nodo, che non possa a verun' altra
appartenere. Per meglio iutendere in che consista la natura loro, bisogna
considerare che ogni idea e composta – il S e P -; e che alcune, differendo da
altre in pochi elementi, abbisognano di segno particolare, per apparire
distinte. Quell’espressione che la distingue dicesi “proprio”. Vaglia un
esempio. L'idea di ‘frutto’ ha per suoi elementi le idee delle qualità comuni a
ogni frutto; l'idea di “melagrana,” oltre i detti elementi, comprende le idee
delle qualità particolari della melagrana: perciò è che, se chiameremo frutto
la melagrana, quando è mestieri distinguerla, non parleremo con proprietà. (cf.
Lawrence: What is that? E un fiore). Ho qui recato il materiale esempio di un
errore, in che è diſficile di cadere, affinché si vegga chiaramente non essere
molto dissimile da questo l'errore di coloro, che d'altre cose ragionando usano
i vocaboli generali (fiore) per ignoranza' de'particolari (tulipano). Tanto
sconvenevol cosa si repula l 'usare una espressione impropria, dice il Casa,
che si hanno per non costumali coloro, i quali, non dan dosene gran pensiero,
pare che amino di essere frantesi, e nulla curino il fastidio di chi si sforza
d'intenderli: all'incontro coloro, i quali usano l’espressione propria,
mostrano di essere civili, essendo solleciti di alleviare altrui la fatica [cf.
Grice, prinzipio di economia dello sforzo razionale], poichè pare che mercè
della espressione proprie le cose si mostrino, non coll’espressione, ma con
esso il dito. I poeti, che sono lodali per la evidenza, onde le cose ci pongono
dinanzi agli occhi ci somministrano
esempi del modo assai proprio. Giovi recarne qui alcuno a schiarimenlo di
quanto abbiamo detto: Come d'un tizzo verde, ch'arso sia dall'un de capi che
dall'altro geme, e cigola per vento, che va via. È qui da notare come
l’espressione “tizzo” e l’espressione “cigola” meglio ci rappresentano la cosa,
che arde, e l'effetto del fuoco, di quello che se Alighieri avesse detto: un
ramo verde fa romore per vento che va via, essendo questa SIGNIFICAZIONE alta a
denotare altra idea non simili in tutto a quella che si voleva esprimere. Cosi
Petrarca disse propriamente: raffigurato alle fattezze conte, piuttosto che
dire alla persona; e Alighieri: levando i moncherin per Ľaria fosca, in vece di
dire, levando le braccia tronche. Qui si vede come l’espressione “fattezza” e l’espressione
“moncherino” sieno meglio usati per essere espressione di SIGNIFICAZIONE
SINGOLARE. Se la proprietà [cf. be as informative as is required – avoid
ambiguity] è si necessaria a SIGNIFICARE la cosa che cade sotto i sensi, quanto
maggiormente nol sarà ella, quando si vogliono esprimere le idee intellettuali
e le morali, che se non fossero determinata in virtù dell’espressione, o svanirebbero
dalla mente nostra, o vi starebbero disordinate e mal ferme? A quel modo che
dalla precisione delle cifre dell'aritmetica dipende la esattezza de’ calcoli,
cosi dalla proprietà dell’espressione dipende quella delle idee e de'
ragionamenti in qualsivoglia delle scienze astratte; e quindi ottima è quella
sentenza del filosofo: consistere il sommo dell'arte di ragionare nel l'uso di
un discorso bene ordinata. Anche Piccolomini ha detto della sua parafrasi di
Aristotele, che la base e il fondamento della elocuzione si ha da stimar che
sia la purità, la netlezza e candidezza – cf. Grice, the imperative of
conversational candour -- di quel discorso, nella quale l'uom parla. Ad
acquistare l'abito di discurrire con proprietà tre cose si richieggono.
Prima, il saper bene dividere le idee
fino ai primi loro elementi. Secondo, il conoscere l'etimologia
dell’espressione (etimo: il vero), per quanto è possibile. Terzo, il rendersi
famigliari le opere degli antichi filosofi romani, ne'quali è dovizia di voci
pure e di modi assai propri. Chi non ha uso delle delle cose è spesso costretto
di adoperare le noiose circonlocuzioni in luogo di un solo vocabolo o di una
breve sentenza, e di abusare de sinonimi. Si dice “sinonimo” l’espressione di una
medesima sigoificazione, o quelli, che rappresentando le stesse idee
principali, differiscono in qualche accessoria. Della prima generazione sono i
seguenti: fine e finimenio; abbadia e badia; consenso e consentimenlo e simili.
Aliri ne trov po nella formazione de' tempi, e de'partecipii, come rendei e
rendetli; visto e veduto; parso e paruto; ma colali sinonimi non sono in gran
numero. La più parle è di quelli che differiscono per aumento, o diſelto di
qualche idea accessoria. Cavallo, corridore, destriero, palafreno, poledro,
rozza, sono espressioni istituite a significare il medesimo animale; ma ognuna
differisce dall'altra. “Cavallo” denola la qualità della specie; “corridore” la
particolarità d'esser veloce; “destriero” ricorda l'uso di menare il cavallo a
mano destra; “palafreno” quello di frenarlo colla mano; “poledro” la qualità
dell'essere giovane; “rozza” quella dell'essere vecchio e disadalto. Le voci
unico e solo sembrano per avventura la stessa cosa; ma il Petrarca disse la sua
donna essere “unica e sola” (one and only), volendo significare che nessun'altra
è nella schiera di Laura, e che nessuna può esserle dala in compagnia. Incontra
alle volte, che le parole istituile a significare un'idea stessa differiscono
per la virtù, che haono di richiainarne alla mente alcun'altra più o men nobile,
o per cagione del suono o vobile o rimesso, o per cagione dell'uso, che di
quella suol esser fatlo in umile o in illustre componimento. Tali sono, a
cagione d'esempio, i vocaboli “adesso” ed “ora”, che significano ‘il momento
presente’, ma “adesso” non sarebbe ricevuto in nobile componimento; dal che si
vede che sebbene ei denoli il punto presente del tempo, come fa l'altro, pure
trae in sua compagnia alcune idee, che il fanno parere di bassa condizione. É
dunque da por wenle che l’espressione, che si dice sinonimo, non sempre ci
rappresentano stesso complesso d'idee; e quindi può intervenire, che ingannali
dall'apparenza, alcuna votla siamo lralli ad usarli impropriamenle. È da
avvertire per ultimo, che ogni espressione antiquale, cioè quelle, che pel consenso
universale de’ filosofi sono stale abolite, non hanno più luogo tra le voci
proprie. Si uilmente sono improprie ogni espressione dei dialelli parlicolari,
e l’espressione forastiera, che dall'uso de' wigliori filosofi non hanno avuto
la cile tadinanza. Le quali tutte non sarebbero bene intese dall'intera Italia;
e perciò denuo essere, da chi desidera di discurrire chiaramente, a lullo
polere schivale. Questo basli aver dello della proprietà, che è la prima cosa, che
si richiede a render chiara le elocuzione. Direino poi a suo luogo come il
trasporlare con altra legge di proprietà l’espressione dal significato proprio
all'improprio giovi maravigliosamente alla chiarezza. In virtù dell’espressione
esprimiamo i nostri giudizii, e collegando insieme il giudizio espresso
formiamo i raziocioii, i quali verranno chiari alla menle altrui, qualvolta
sieno osservate le leggi, di che ora faremo parola; ma prima si vuole
avvertire, cha talora il discorso può es sere ordinato secondo le leggi, per le
quali ' riesce chiaro, ma non avere poi quella forza, quella virtù e quella
eſficacia, che avrebbe, se si disponessero le parole diversamente senza però
offendere le delle leggi. A suo luogo direno della disposizione (sintassi)
delle parole, che agagiunge efficacia al discorso. Ora è a dire solo tanto di
quella, che lo fa chiaro. Ogni giudizio espresso dicesi proposizione. Nel
ragionamento, il quale di nolle proposizioni si compone, alcuna vene ba, che
viene modificata dalle altre. Quella, che è modificata, dicesi principale, le
allre suballerne (o minore). Vaglia a ben distinguerle il seguente esempio del
Casa. Menire i nostri nobili cittadini gli agi e le morbidezze e i privuli loro
comodi abbracciano e stringono, l'impera lore, non dormendo nè riposandu, mu
travagliando e fabbricando, ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta.
L'imperatore ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta è la proposizione (premessa)
principale (maiore), le altre, che lei modificano, sono le subaltern (premessa
minore). La proposizio ne principale, a somiglianza della principale figura in
un dipinto, dee fra tutte le subalterne campeggiare e risplendere; per ciò è
che vuolsi evitare la frequenza di queste ultime, le quali, allorchè fossero
troppe, invece di raflorzare la principale o premessa maiore, siccome è loro
officio, verrebbero ad indebolirla. Questa si è la prima avvertenza, che circa
le proposizioni subalterne aver dee colui che discurre; indi si prenderà cura
di ben' collocarle. Prima che veniamo a dire quale sia la buona collocazione
loro, è necessario di osservare, che le delle proposizioni subalterne si distin
guono in espresse ed in implicite. Diconsi espresse quelle, nelle quali tutte
le parli loro sono manifeste, come nella seguente: ľuomo è ragionevole. Diconsi
implicite quando il giudizio che si esprime, e significati dall nome addiettivo
o dal nome sustantivo con preposizione o dall’avverbio, come nelle seguenti.
L’uomo GIUSTO è lodato. Pilade ama Oreste. CON. I romani amarono GRANDEMENTE la
patria. Quando si dice “l'uomo giusto” si viene ad affermare che ad esso si
appartiene la giustizia, che è quanto dire giudichiamo che egli è giusto. Si
dica il medesimo delle altre due proposizioni. Ama con FEDE GRANDEMENTE, La proposizione
IMPLICITA (entimema, implicatura) serve a significar del giudizio, che per
abilo la mente umana FEDE amarono suol fare rapidamente; perciò è che non si denno
usare in vece di quelle la proposizione espressa, SPLICITA (splicatura), perciocchè
impedirebbero la spedi tezza dell' intelletto di nostro compagno
conversazionale. Si dovranno ancora nello scegliere la proposizione implicita
(implicatura, impiegato) schivare le inutili, cioè quelle, che risveglierebbero
le idee, che in virtù del solo sustantivo o del solo verbo possono essere
richiamate a mente, e scegliere quelle, che meglio qualificano il significato.
Sarebbe, a cagione d ' esempio, vano (redundante) e noioso l'aggiunto di “bianca”
alla “neve” (salvo se il caso richiedesse di far conoscere parti colarmente
questa qualità), essendo che l’espressione “neve” trae seco, senz'altro aiulo,
la idea di ‘bianco’ (cf. ‘atleta’ ‘longo’). Rispello alla collocazione della
proposiziona suballerna, sia ella implicite o espresse, la regola (massima, imperativo)
si mostra di per sé: imperciocchè, essendo intese a denotare alcuna qualità del
signato o da' sustantivo o da' verbo o da' participio, deve chiaramente apparire
a quali di queste parti dell'orazione (l’otto parti dell’orazione – partes
orationis) vogliono appartenere; e perciò fa mestieri collocarle in luogo tale,
che mai non venga dubbio se sia poste a modificare piuttosto l'uno, che l'
altro o verbo o participio o sustantivo. Quao do a ciò si manca nasce
perplessità (“misleading, but true) come nel seguente luogo di Boccaccio. E
comechè Aligheri aver questo libretto fallo nell'età più matura si vergognasse.
Qui può sembrare che il libretto sia stato falto nell' età più matura; che se
avesse dello: comechè egli aver futto questo libretto si vergognasse nell'età
più matura, la proposizione sarebbe stata chiarissima. Alcuna perplessità è
ancora in quest'a tro di Passavanti: Leggesi, ed è scritto dal venerabile
dottor Beda, che negli anni domini ottocento sei un uomo passò di questa vila
in Inghilterra. Comechè non sia per cadere nel pensiero di alcuno che colui,
che si parle di questa vita, possa andare in Inghilterra, nulladimeno, per
quella collocazione di parole, la mente di chi legge resla alcun poco sospesa. Molte
TRASPOSIZIONE – Grice: William Blake: love that told cannot be, love that never
told can be --, che si biasimano nella lingua italiana, sono spesso con
venevoli NALLE LINGUA LATINA, perchè, nella lingua romana, il nome aggettivo,
che per le desinenze diverse nei generi, nei numeri e nei casi si accordano col
nome sustantivo, rade volte LASCIANO DUBBIO a cui vogliano appartenere, e rade
volte i casi obliqui si confondono col caso retto, comunque nella proposizione
sieno collocati. Bellissimo è in latino il seguente luogo di CRASSO, riportato
da CICERONE. HÆC TIBI EST EXCIDENDA LINGVA QVA VEL EVVLSA SPIRITV IPSO
LIBIDINEM TVAM LIBERTAS MEA REFVTABIT. Tenendo l'ordine di queste parole nella
lingua italiana si produce falsità nella sentenza. Sconvolgendolo si perde
tutta l'efficacia. Se dico. Questa lingua li è d'uopo recidere: recisa questa,
col fiato stesso la tua sfrenatezza la libertà mia reprimerà’ – Appare che LA
SFRENATEZZA reprima LA LIBERTÀ. Se, per
lo contrario, dico. La libertà mia reprimerà la tua sfrenatezza, toglieremo
alla sentenza molto della sua forza – devuta a una disobbedenza intenzionale
della massima conversazionale d’evitare l’ambiguità. Vedremo a suo luogo la
ragione, per cui la diversa collocazione di una espressione semplice rafforza o
snerva l'espressione complessa. Ora ci basta osservare, poichè cade in acconcio,
che le varie lingue -- parlando ora della sola facoltà, che hanno di PERMUTARE
IL LUGO ALLE PAROLE – “love that never told can be”/”love that told can never
be” -- luttochè sieno alle a qua. Junque
specie di componimento, nol sono ad esprimere uno stesso concetto nella stessa
FORMA – massima conversazinale della forma, non del contenuto --; perciò è che
quando si trasportano le scritture da una favella ad un'altra non dove
l'espositore darsi briga di ritrarre espressione per espressione. Avendo rispetto
al genio della lingua, cerca di produrre per altro convepevol modo nell’animo
di nostro compagno conversazionale gl’effetto che l’espressione in lui operano.
Per fuggire le equivocazioni [cf. Grice, avoid ambiguity] giov ancora badare
ne' verbi alla prima voce dell'imperfetto dell'indicativo – “amava” -- la quale
è simile alla terza, dicendosi “amava” +> “io amava”; “amava” +> “colui amava” – cf. latino: ‘amaba’/’amabaT’
--. Perciò a distinguerle è sovente bisogno di preineltere all’espressione ‘AMAVA’
– latino: AMABA/AMABAT -- il nome o il pronome. Giova spesso alla CHIAREZZA, e
segnatamente nell’espressione complessa o composita, il ben distinguere le
persone e le cose, delle quali si parla (il topico). E perciò sta bene talvolta
il *ripetere* il nome sostantivo per non confondere l’una coll'altra. Imperciocchè,
i pronomi e i relativi sogliono spesso essere cagione di equivoco – confusione
– cf. avoid ambiguity, be perspicuous [sic], the imperative of conversational
clarity. E questo interviene specialmente, quando nella proposizione
antecedente sono più nomi sustantivi di un medesimo genere e numero, che si
possono accordare coi relativi delle susseguenti. Perciò, conviene tal volta o
giovarsi di un sinonimo onde porre in luogo di alcun nome mascolino un
femminino. O inulare il numero del più in quello del meno. O viceversa. Può ancora
geverarsi PERPLESSITÀ nell'usare il possessivo “suo” e “suoi,” invece de
relativo lei, lui e loro; e perciò alle volle è necessario adoperar questo per
quello, come nel caso seguente. “MAI DA SÈ PARTIR NOL POTÈ, INFINO A LANTO CHE
EGLI [CIMONE] NON L’EBBE FINO ALLA CASA *DI LEI* ACCOMPAGNATA” (Boccaccio). Se Boccaccio avesse detto: “fino
alla casa SUA accompagnata”, si sarebbe potuto credere essere QUELLA DI CIMONE!
Per far maniſesta (esplicita, chiarissima) la connessione de'ragionamenti sono
assai opportune le particelle copulative (“e” – He went to bed and took off his
trousers” (Urmson); avversative (“ma” – Lei e povera, ma onesta – Frege,
FARBUNG), illative (“se” – se p, q – FILONE, DIODORO, CRISIPPO) e somiglianti –
e disgiuntiva (“o” – “Lei sta alla cucina o alla stanza di dormire”). Molli
fra' filosofi italiani, ad imitazione de’ filosofi francesi, sogliono scrivere
a piccoli membri, senza congiungerli insieme colle particelle, e in ciò sono da
biasimare, iaperciocchè costringono la mente o l’animo di nostro compagno
conversazionale a passare “di salto” da una proposizione all'altra senza dargli
occasione di scorgere subitamente le attenenze (pertinenza, relevanza – cf.
Grice, category of relation – be relevant – a ‘platitude’ -- Strawson) loro. JILL:
JACK IS AN ENGLISHMAN; HE IS, THEREFORE, BRAVE” – deduzione, induzione,
adduzione? --. Affinchè si vegga manifestamente quanto la mancanza de' legamenti
tolga di chiarezza al discorso, leverò dal seguente luogo di PASSAVANTI le
particelle che ne conneltono le parti. Qualunque persona sogna, pensi se il suo
sogno corrisponde all’affezione sua, a quella che più ta sprona. Se vede che si,
non a. spetti che al sogno suo debba altro seguitare. Quel sogno non è cagione alla
quale debba altro effetto seguitare; è l'effetto dell'affezione della persona.
Tale sogno oseservare, cioè considerare donde proceda, non è in sè male: è
l'effetto di naturale cagione. Facciamo congiunti questi membri colla
particella “e”, la particella “imperciocchè”, la particella “ma” e vedremo il
discorso apparire più chiaro (“She was poor and she was honest”). Qualunque
persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all’affezione sua, a quella,
che più lu sprona. *E* se vede che si, non aspetti che al sogno suo debba altro
seguilare; *imperciocchè* quel sogno non è cagione, alla quale debba altro
effetto seguitare; *ma* è l'effetto del l'affezione della persona; e tale sogno
osservare, cioè considerare donde proceda, non è in sè male: imperciocchè è
l'effetto di natural cagione.” Questi pochi avvertimenti basteranno, se io non
erro, a render cauti i conversatori che desiderano di conversare chiaramente.
Tralascio le wolle cose che i filosofi hanno ragionato in torno la proposizione,
poichè mi pare che, qual volta siasi imparato a distinguere la proposizione principale
(premessa maiore) dalle proposizione subalterna (premessa minore), e siasi
conosciuto che la virtù di queste si è di modificare le parti dell'altra, non
faccia mestieri di *molto sottile* ragionamento a sapere in che modo elle si debbono
collocare nella orazione o espressione complessa; perciò senza più entro a
parlare dell' ornamento. La perſezione dell'arte del conversare nella LINGUA
LATINA, secondo CICERONE, consiste nell'esporre chiaramente, or nataniente e
convenevolmente le cose o il topico, che a trattare imprendiamo. Di quella
chiarezza e di quell'ornamento e decoro – CANDORE --, che dall’invenzione e
disposizione della materia procede, si ragiona nella rettorica – G. N. LEECH:
“H. P. GRICE’S CONVERSATIONAL RHETORIC”. Accade qui di parlare delle suddette tre
qualità solamente rispetto al modo di significare (modus significandi) il
concetto ritrovati. Avendo abbastanza detto della prima, diremo ora delle altre
due, che fanno il discorso – la mozione, mossa, o moto, conversazionale --
accetto a nostro compagno conversazionale. Grice: “I’m not surprised that the
Italians start the cataloguing of the maxims of conversations by the MANNER,
rather than the CONTENT!” -- Prima di tutto si vuole osservare che la proprietà
delle voci e l'ordinata (cf. Grice, be orderly) composizione loro generano gran
parte della BELLEZZA DEL DISCORSO – Grice: “My maxims aim at rational
cooperation, they are not moral or aesthetic in purpose.”. Imperciocchè fanno
sì, che esso sia inteso senza fatica, che è quanto dire con qualche sorta di
piacere. Ma questo non basta; chè nessuno per verità loda il conversatore
solamente perchè si fa intendere dal suo compagno conversazionale; ma lo
biasima e sprezza, s'ei fa altrimenti. Chi è dunque che faccia meravigliare gl’uomini
e tragga a sua voglia le volontà loro? Chi è applaudito e chi è venerato più
che more tale? Colui che NEL CONVERSARE è distinto, COPIOSO – ma non *troppo*
copioso --, splendido, armonioso, e che queste qualità, onde si forma
l'ornamento, congiunge al decoro – CANDOR – veracita e sincerita. Que' che
conversa co'rispetti, che la qualità delle materia e del compagno
conversazionale richiede, solo merita lode: che qualsivoglia ornamento DISGIUNTO
DAL DECORO diviene sconcezza e deformità. Molto leggiadre ed efficaci sono le
voci proprie, che per cagione del loro suono hanno somiglianza col significato,
o quelle che ne ricordano qualche particolare qualità. E espressione, che ricorda
il significato per somiglianza di suono le seguenti: “belato”; “ruggito”;
“soffio”; “nitrito”; “boato”; “rimbombo”; “tonfo”, e molte al tre, che per
alcuni furono sono termini figure, a differenza di quelle, che, non avendo
soosiglianza veruna col significato, sono delle termini memorativi o cifre. Fra
i termini figure voglionsi annoverare, oltre le voci che abbiamo teste accennat,
quelle che o provengono da altr’espressione, che è segno di cosa somigliante al
signficato che si vuol esprimere o communicare (cf. Grice on the circularity of
analyising ‘signare’ e ‘communicare’), o ricordano l'origine o gl’usi del
significato. L’espressione “spirito” è bella per certa tal qual somiglianza,
che il significato, cioè l’immateriale sostanza, sembra avere col fialo o con
qualsivoglia altra sottil materia, che SPIRI (onomatopoeia) e preferibile a
‘animo’. Belle similmente e l’espressione “moneta” e l’espressione “pecunia”.
la prima delle quali, venendo da “moneo”, significa che il metallo ed il conio
ammoniscono la gente circa il valore di essa moneta. La seconda, venendo da “pecus”,
ricorda l'origine del denaro, che fu sostituito ai buoi ed alle pecore, antica
inisura delle cose mercatabili. Ho qui posti questi due esempi ancora perchè si
vegga quanto giovi alcuna volta l'investigare l’etimologia. Concorrono co' termini
propri e co' termini figure a far bella la mozione conversazionale le parole
nobili, qualvolta sieno convenevolmente adoperate. Accade delle parole, dice
Pallavicini, che comunemente accade degli uomini nel civil conversare. Questi
acquistano ripulazione o vilipendio dalla qualità delle persone colle quali
usano farnigliarmente; e le parole dalla qualità delle persone da cui sono
sovente proſerite; e ciò interviene perchè tutti hanno per fermo, che i personaggi
illustri e gl’uomini letterati sieno ESPERTI A CONVERSARE *con legge*, e che la
plebe allo incontro parli e cianci barbaramente. Avviene da ciò che alcune
voci, che significano cose vili o laide [‘the --- bishop fell from the – stairs
– profanity – Grice], sono tuttavia tenute per nobilissime. All 'opposito altre
ve a'ba, che, nobili cose significando, in grave componimento non sarebbero
lodate. Della prima spezie sono in Italia l’espressione “lordo”; “lezzo”;
“tube”; “piaga”, ed altre, che nelle più nobili conversazione sogliono essere
usate. Dall'altro canto, l’espressione “papa”, siccome osserva il lodato cardinale
Pallavicini, la quale nobilissimo personaggio rappresenta, non sarebbe ricevuta
in grave componimento poetico. In tre schiere vengono separate da Pallavicini
le parole rispetto la maggiore o minore nobiltà loro. Nella prima si collocano
quelle, che dal conversatore in nobile conversazione e usata a significare un
concetto grande ed il lustre. Vocaboli di questa specie non si potranno senza AFFETAZIONE
adoperare in tenue argomento, o in famigliare discorso. Che se alcuno
famigliarmente usa l’espressione “pugna” in vece di “battaglia”; “luci” in vece
di “occhi”; “accento” o “nota” in vece di “parola”, certo è che moverebbe a
riso il compagno conversazionale. La seconda schiera è di quella espressione,
che vanno egualmente per le bocche degl’uomini ragguardevoli e del popolo, e
che si possono senza biasimo usare in ogni occorrenza. La terza poi è di
quelle, che sono avvilite nella bocca della plebe, come e l’espressione
“pancia”; “budella”; “corala” e simili, le quali possono essere opportune in
una conversazione intesa ad avvilire alcuna cosa, come e la mossa, noto, o mozione
conversazionale ‘satirica’. Anche le espressione antiche, qualvolta elle hanno convenevole
forma e non sieno passate ad altro significato [non multiplicare sensi piu di
la necessita], vagliono à nobilitare la conversazione. Ma si richiede somma
cautela in co lui che a vila le richiama, poichè una espressione antiquata,
ollrechè spesso portano seco oscurità [cf. Grice, ‘avoid obscurity of
expression, procrastinate obfuscation, be perspicuous [sic]], ‘avoid
unnecessary proliity [sic]’], più spesso fanno l'orazione ricercata e deforme.
E chi oggi potrebbe, senza indurre a riso il compagno conversazionale,
l’espressione “beninanza”; “bellore”; “dolzore”; “piota”, “spingare” ed altre
simili d’usare. Ora diremo della metafora (“You are the cream in my coffee), la
quale, usata opportunamente, è lume e vaghezza della orazione. Prima è a sapere
che gl’uomini selvaggi per essere scarsi di cognizioni mancarono
dell’espressione, e che volendo eglino significare alcuna cosa non ancora
significata, fanno uso naturalmente di quella espressione gia usata, la quale e
inventata a contras-segnare *altra* cosa somigliante in qualche parte all'idea
novella (“You are LIKE the cream in my coffee”). Occorrendo loro, per esempio,
di significare alcun uomo crudele, il chiamarono “tigre” per la somiglianza
dell'indole di colal bestia con quella dell'uomo crudele. Cosi dissero assetate
le campagne asciulle, “volpe” 1'uomo astuto (“sly as a fox” – he is a fox),
“capo del monte” la cima – ‘top of the heap’ ‘New York, New York’ -- e “piè” del
monte la falda di quello. Per gl’addotti esempi si vede questo trasporlamento (meta-bole,
transferenza, trans-latio) di una expression da un significato propio e vero ad
un significato impropio e falso (“You are the cream”) altro non essere che una
similitudine ristretta in una espressione (“You are like the cream –
simplifcata a “You are the cream”); imperciocchè la seguente similitudine
spiegata. La comparazione vera “Costui è crudele COME una tigre” si restringe, per
brevita, in questa forma metaforica falsa. “Costui è una tigre”. È dunque la
metafora una abbreviata similitudine [an elliptical simile], che si fa recando
una espressione dal significato proprio al signficato improprio: e perciò da
Aristotele è detta imposizione del nome d'altri. Siccome la metaſora e da
principio usata per *necessità*, potrà parere ad alcuno che crescendo il numero
delle idee determinate e della espressione propria, la metafora divenga
pressochè inutile – o una figura di retorica --; ma non accade cosi: perocchè,
sebbene fra le conversatori civili e culle non sia tanto necessaria quanto fra
le selvagge e rozze, pure la metafora è e sempre luce e VAGHEZZA della
conversazione per virtù e forza di quelle sue qualità. La metafora presenta
spesso all'animo più chiaramente ogni sorta di concetti, poichè, veslendo di
forma *sensibile* una idea non-sensibile, o intelleltuale (nihil est in
intellectu quod prior non fuerit in sensu), ce le pone davanli agli cinque
sensi. Vuole Alighieri significare che non è meraviglia se per la le nuità della
nostra fantasia non possiamo per venire ad imaginare le cose, che Alighieri
desidera narrare del Cielo; e questo con una metafora dicendo. E se le fantasie
nostre son basse a tant'altezza non è maraviglia. Per tal modo il concetto, che
era tutto non-sensibile e intelettuale, divenne sensibile e per conseguente più
chiaro (cfr. Grice, ‘be perspicuous [sic] – the imperative of conversational
clarity] e più popolare. E se taluno volendo dire che gl’uomini bugiardi saono
talvolta infingersi e comporre gl’atti e le parole a modo di parer verilieri,
dice che la menzogna prende talvolta il manto della verità, non significherebbe
egli il suo concetto assai vivamente. (He said that she was the cream in her
coffee, By uttering ‘You’re the cream in my coffee” U signs – explicitly – THAT
the addressee is the cream in the utterer’s coffee. Fra tutte le metafore poi e
più efficace quella metafora che si cava da una qualità sensibile, corporea,
materiale, che si mostra a le cinque sensi, e forse la ragione si è questa. Alla
reminiscenza della qualità di un corpo, la quale ci vengono all'animo per i
cinque sensi, più tenacemente si associano le idee, che di essi ci vengono per
gli altri sentimenti; quindi è che ogni qualvolta ci riduciamo a memoria una
della qualità sensibile (in questo caso visibile) del reale (un oggetto) quasi
tutte le altre appartenenti a quello pur si risvegliano, e vivamente ed intero
lo ci pongono dinanzi agli “occhi” dell'intelletto. Laonde se belle sono le
metafore – parola dolce. che si cávano dalla qualità, da cui sono affetto: l'odorato
(secondo senso dell’odore), il tatto (terzo senso del tatto), l'udito (quarto
senso dell’audizione) e il gustato (quinto senso del gusto), come queste: odore
di santità – odore santo, durezza di cuore – duro cuore, ruggir di venti, vento
ruggente -- dolcezza di parole; parola dolce -- più bella, per che più viva si
presenta all'animo, entrando quasi per gli cinque organi de’cinque sensi, sono
le seguenti. Splende la gloria (visum). Folgoreggiano gli scudi. Ridono i prali
(udito). Si rasserena la fronte; l’anima è oscurata per tristezza. Piacquero ad
Aristotele sommamente quella metafora, che ci rappresenta (re-praesentatum,
rappresentato) la cosa in mozzo, e principalmente quando la metafora
attribuisce a una in-animato una operazione di un animato.Tali sono queste di
Omero. Le saette di volar desiose; inorridisce il mare. Anche VIRGILIO,
parlando di una satta entrata nel petto di una vergine, dice. Harsit virgineumque
alle bibit hasta cruorem. Si dalla metafora ci pone la cosa vivamente quasi
innanzi agl’organi dei cinque sensi, e per la “novità” o vita (no morte) loro
ci fanno maravigliare. La metafora, siccome dice Aristotele, partorisce
dottrina, facendo conoscere fra le idee alcuna attenenza dianzi non osservata.
Quale attenenza scorgesi tosto fra un manto e la nobillà della prosapia?
Certamente nessuna: pure veggasi come Alighieri ce la fa scorgere. O poca
nostra nobiltà di sangue, ben tu se'manto, che tosto raccorce, sì che se non
s'appondi die in die lo tempo ya d'intorno co' la for Coine un bello e ricco
manto adorna la persona di colui che sen veste, così adorna l'animo d' alcuni
uomini quell'onore che ricevono pei pregi degli avi loro, e che chiamasi nobiltà:
ma, se per virtù novella non si rinfranca, ei viene di giorno in giorno
scemando. Questi pensieri il divino poeta ci reca alla mente colla nuova
similitudine, e ci dilella e ci illumina. Vale eziandio la metafora a muovere
con maggior forza l’affeto, perciocchè, laddove alcuna volta parole proprie
astretti a recare alla mente di nostro compagno conversazionale le idee una
dopo l'altra, la metafora, rappresentandole tutte ad un tempo, assale l’animo
con veemenza. Basti un solo esempio di PETRARCA, il quale rivolto alla morte
così le dice: con saremmo me dove lasci sconsolato e cieco, poscia che il dolce
ed amoroso e piano lume degli occhi miei non è più meco? Quali e quanli
pensieri si destano nella mente all’espessione “cieco” e la frase/espressione
frasale “lume degli ochi miei”! Ma circa l'uso della metaſora nell’aſſetto si
vuole por menle che ella non mostra il
lavoro e la fatica dell’intelletto, perocchè non è verisimile che colui, che ha
l'animo perturbato, si perda a far cerca d'ingegnosi concetti e figure
retoriche. È ancora pregio della metafora di coprire con velo di modestia e di
gentilezza il segnato, che espressa con un termino *proprio* (e non un termino
figura como e la metafora) sarebbero odioso o turpo. Ecco un bell’esempio di Passavanti.
La innata concupiscenza, che nella s vecchia carne e nell'ossa aride era addor meniata,
si cominciò a svegliare: la favilla, quasi spenta si raccese in fiamma; e le
frigide membra, che come morte si giacevano in prima, si risentirono con
oltraggioso orgoglio. E VIRGILIO dice. O luce magis dilecta sorori, Sola ne perpetua
moerens curpere juventa? Nec dulces natos, Veneris nec praemia noris? Questo e
i principale vantaggio della metaſora, onde sovente viene preferita al termino
proprio. Diremo ora dei vizii che talvolta elle possono avere. Se bella e la
metafora che fa scorgere una maniſesta somiglianza tra due segnati (‘you’ ‘the
cream in my coffee’), da che si toglie il vocabolo e l'altra, a cui si reca,
chiaro è che deformi saravno quelle, che tengono ji paragone di rose o polla e
poco somiglianti, e che sono male acconcie al proposto dne (“a woman without a
man is a fish without a bicycle”). Nessuna somiglianza si vede fra le cose paragonale
nella seguente metafora di MARINI. Folendo egli lodare un maestro, che formara
bellissimi esempi da scrivere, esalta la penna di lui, dicendo ch'ella deve
essere divina: Perchè una penna sela, Benchè s'alzi per sè pronto e sicura, Se
divina non è tanto non rola. E qual somiglianza è mai tra il relare e lo
scrivere? E tolta da peca somiglianza quella metafora che volendo segnare una
cosa piccola prende da una cosa grande l'imagine, e al contrario. Mariai
assomiglia le lacrime della sua douna a'lesori dell'Oriente, e Tertulliano il
diluvio universale al bucato. Erro similmente colui che dice a suo amante. Son
gli occhi resiri archiòugiati a ruote, Ele ciglia inarcale archi turcheschi. È
bellissina la metafora che Poliziano tolse al Boccaccio. E le biade ondeggiar
come fa il mare. Sarebbe difettosa quest’altra. E tremolare il mar come le
biade. Viziose come le sopraddeile sono la più parte delle metafore usate dagli
scrittori del secolo XVII, e soprattutto dai poeti, i quali sriscerarano i
monti per estrarne i metalli, face vano sudare i fuochi, ed avvelenavano l'obolio
colp inchiostro. Parmi inutile cosa l'estendermi in questa materia, essendochè
il nostro secolo, sebbene incorra in altri vizii, di così falle baie si mostra
nemico. Della metafora e l’analogia che e alquanto dura, ė da sapere che puo
essere mollificata per certa maniera di dire, quali sarebbero: quasi – per dir
cosi e che alcune ve nha, che sono state ammollite dall'uso, come la seguente:
Fabbro del bel parlare. Ė da biasimare ancora la metafora, che la sorvenire il
nostro compagno conversazionale di qualche bruttura, o di cosa rile, o che disconvenga
alla gravità della trattata materia o topico. Perciò meritamente Casa
rimprovera ALIGHIERI per essere talvolta caduto in questo difeilo, siccome
quando disse. L'allo fato di Dio sarebbe rotto se Lete si passasse, e lal
vivanda fosse gustala senza alcuno scollo di pentinento. E altrove. E vedervi,
se avessi avuto di tal tigna brama, colui poteri ec. Questa e una imagine
plebea e sconvenienti alla gravità del subbietto. Cosi merita biasimo
Pallavicini, comechè sia maestro sommo nel l'arte dello stile conversazionale,
quando disse, che il cardinal Bentivoglio aveca saputo illustrar la porpora
coll' inchiostro, e quando per accennare la qualità, ond'è costituita
l'eleganza della elocuzione, dice: saputi distintamente quali ingredienti
compongono quesla salsa, cioè l'eleganza; i quali modi sono da biasimare,
essendochè nel primo esempio li vedi dinanzi agli occhi la porpora brullala
d'inchiostro, e nell’altro t’infastidisce l'abbietta voce che sa di cucina.
Similmente non paiono degni di lode coloro, che sogliono usare per vezzo della
conversazione un idiotismo, e segnatamente quello, che ha origine da certa
anticha costumanze dimenticata oggidi. Non merita lode Davanzali quando volendo
dire: o nulla o lullo: disse: o asso o sette. Questo proverbio, oltre chè si è
di vilissima condizione, è tolto da un giuoco, che potrebbe essere sconosciuto
a molli. E proverbio, del quale non si sa l'origine, il seguente; e perciò
freddo od oscuro: Maria per Ravenna, invece di cercar la cosa dove ella non e.
Bastino questi pochi proverbi per moltissimi, che qui si po ebbero recare, e
de' quali vanno in traccia alcuni mal accorti conversatori, onde parere versali
nella lingua antica. Aucora è biasimevole alcune volte la metaſora, che si
deriva dalle materie filosofiche; imperciocchè, se il fine, pel quale il
conversatore usa di quella, si è di rendere più chiaro e più vivo i concetto,
questo non si potrà ottenere traendo la similitudine da cose poco nole o malagevoli
ad intendere, come a la metafisica, che spesso, ond'essere chiarita, hanno
bisogno delle similitudini tolle dalle cose materiali; ma di rado somministrano
imagini, che vagliano a cercar recar luce alle prose ed alle poesie. Pure in questi
tempi sono alcuni conversatori, i quali hanno per vezzo l'usare siffatta
metafora, avvisando d'illustrarne la sua mozzione conversazionale, e di mo
strarsi intendente e sottile; ma va grandemente errato, perciocchè non
solamente appor tano ombra ed oscurità (‘avoid obscurity of expression, be
clear) alla sentenza, ma danno segno di affettazione che è vizio sopra tutti
spiacevole. si è dello di sopra che la metafora diletta, non solamenle perchè
ci pone dinanzi agli oc ebi in forma quasi sensibile un pensiero astratto, ma
ancora perchè ci porge ammaestramento col farci apprendere fra le idee alcuna
attenenze prima non osservata; dal che si deduce che il conversatore, i quali
vogliono recar maraviglia, de guardarsi dall' usare una metafora troppo
comunale, come quelle, che, a somiglianza della monete passata per molle mani,
sono rimase senza vaghezza. Non ogni metafora poi, comechè sia ben derivata, potrà
convenire ad ogni conversazione. Poichè tra le metafore ve n'ha delle più o
meno illustri, converrà avvertire che il grado della nobiltà loro non
disconvenga alla qualità del componimenlo. Similmente nel formare la metafora
si vuole avere riguardo al pensare della gente nella cui lingua si conversa. La
diversità de'luoghi e de' climi fa che gli uomini abbiano diversi i costumi e
le usanze, e perciò diverse ancora le idee e le significazioni di esse.
Impercioc chè, traendo ciascuna gente le similitudini dalle cose, che più
spesso le sono dinanzi agli occhi, incontra che alcun popolo deriva una
metafora da una cosa campestre, lal altro da una cosa marittima, tal altro dal
combinercio o dalle arti, secondo suo silo e costume. Il rigore o la benignità
del clima poi è spesso cagione che l'umana imaginativa sia più vivace in un
luogo e meno altrove; e quindi è che una metafora naturalissime nel Trastevere
appaia ardila e strana nel Tevere. Anche l’essere le geoli più o meno civili
cambia la natura della metafora; perciocchè dove sono leggi meno buone, ivi è
più ignoranza del vero; e dove è più ignoranza del vero è più amore del
verisimil; il che torna il medesimo, ove è minor virtù intelleltiva, ivi abbonda
la forza della fantasia. Cadono perciò in gravissimo errore coloro, che,
imilando il volgarizzamento di Ossian falio da Cesarolli, sperano di venire in
fama di sommi poeli toglieodo sempre la metafora da'venti e dalle tempeste, dai
torrenti, dalle nebbie e dalle nuvole. Paiono a costoro inaravigliose
squisitezze e delizie i seguenti, e simili modi: sparger lagrime di bellà - i
figli dell'acaciaro il tempestoso figlio della guerra siede sul brando
distruzione di eroi dar. deggiano gli sguardi rotola la morle - urlano i
torrenti. Cotale metaſora, che per avventura e naturale a'popoli selvaggi, sono
in Italia ridevoli e sciocche fantasie. Alla diversa indole delle genti debbe
anche por mente chi dall' una lingua all'allra trasporla i versi e le prose, se
non vuole produrre nell'animo di nostro compagno conversazionale effetto
contrario a quello che l'autore straniero o forastiero o del Trastevere
produsse in coloro, ai quali volse le sue parole. Affiuché si vegga
manifestamente che non lutte lete. metafore convengono a tulti i popoli,
recherò qui alcuni esempi che a questo proposito Tagliazucchi toglie dalla
lingua latina. Bella metafora si è questa presso Virgilio: classique im millit
habenas; deformità sarebbe tradu re in italiano: melte le briglie alla flolla.
Così per segnare il pane corrotto dall'acqua dice lo stesso poeta. Cererem
corruptam undis; mal si tradurrebbe: Cerere corrolla dall'onde. Orazio disse.
lene caput aquae sacrae; e si tradurrebbe malissimo in italiano: il dolce capo
dell'acqua sacra. Per segnare il liero sdegno d'Achille dice: gravem sioma chum
Pelidae; e malissimo si tradurrebbe: il grave stomaco del Pelide. Moltssime
altre metaſore potrei qui recare, che sono proprie solamente della lingua
latina; ma chi ha cognizione della lingua latina conoscerà di per sè la verità
di quello che io dico, ed argomenterà quanto debbono differire nella metafora
la lingua italiana e quelle de'popoli da noi disgiunli e per costume e per
clima, se tanto differiscono l'italiana e latina con islrelto vincolo di
parentela congiunte. Una regola o massima o omperativo da osservarsi nell'uso
della metafora si è di non aminassarle nella conversazione, ma collocarvele
parcamente e di guisa, che paiano, come dice Cicerone, esserci venule
volonterosamente, e non per forza nė per invadere il luogo altrui. È da
avvertire in secondo luogo, che la metafora o non si dee congiungere con altra
metafora o con voci proprie di maniera, che fra queste e quella si scorga
opposizione maniſesta. Se per esempio avrai detto che Scipione è un fulmine di
guerra, non dirai tosto che egli trioníò in Campidoglio. Se paragonerai
eloquenza ad un torrente, non le attribuirai poco appresso la qualità del
fuoco, ma avrai cura che la metafora sia sempre collegata (e no mista) colle
idee prossime di guise, che nostro compagno conversazionale non trovi mai
contrarietà ne' tuo concetto. In questo difetto caddero anche alcuni autori
eccellenti, come Petrarca nel Sonetto XXXII, dove, cominciando dal dire
metaforicamente, ch' egli ordisce una tela, prosegue: ſ ' farò forse un mio
lavor si doppio fra lo stil de'moderni e il sermon prisco, Che (paventosamente
a dirlo ardisco) Infino a Roma ne udirai lo scoppio. Ma non così egli fece nel
Sonetto che comincia Passa la nave mia colma d'obblio, chè in esso avendo preso
ad assomigliare gli amorosi affanni suoi alla nave, da questa imagine non si
diparte sino alla fine. Non intendo io però di affermare coll’esempio di questa
allegoria, che in breve discorso non possano star bene insieme più metafore di
natura diversa; ma di avveitire che assai disconviene il trapassare da una
similitudine ad un'altra inconsideratamente e quasi per salto. Giova moltissimo
talvolta a render chiare e naturali quella metafora, che per se medesime
sarebbero ardite e spiacenti, il preparare per convenevole modo l'animo di
nostro compagno conversazionale. Se taluno volendo dire che gli uomini per mal
esempio altrui caggiono in errore, dicesse caggiono nella “fossa” della falsa
opinione, use rebbe certamente ardita e spiacevole metafora: nulladimeno ella
diviene bellissima, qualvolta per le cose antecedenti ne siamo disposti. Va.
glia l'esempio di Alighieri. Dopo aver ricordata la nota sentenza se il cieco
al cieco sarà guida cadranno ambedue nella fossa prosegue: i ciechi
soprannominati, che sono quasi infiniti, con la mano in sula spalla a questi
mentitori sono caduti nella fossa della falsa opinione. Cosi l’ardita metafora
divenla parte di una vaghissima dipintura, che viene quasi per gli occhi alla
mente, ed ivi s'imprime e lungamente rimane. Sono certi scrittori, i quali
riducono le idee astratte a termini più astratti (obscurus per obscurius) di
quello che si converrebbe cercand a tulto potere di al lontanarle da' sensi: indi
a questi loro soltilis simi concelti uniscono molte metafore repugnanti fra
loro, il che fa che la mente di nostro compagno conversazionale tra questi estremi
e tra questi contrari confusa nulla comprenda, come si può di leggeri conoscere
nel seguente esempio tolto da un libro moderno: A giudizio dei savi scorgesi
palesement, che nelle vedute su blimi della gran madre anche l'emulazione,
principio avvedutamente inserito nella costituzione dell'uom, ' concorrer deve
a scuotere ed a sferzare l'industria, on de riguardo allo sviluppamento di
questa [Oh quanta confusione ed oscurità in tanta pompa di parole! Pare che il
conversatore volesse dire, che i savi conobbero che la natura ha posto nel
cuore dell' uomo il desiderio d'emulare gli altri; e che da questo procede
l'industri; ma accoppiando i vocaboli principio e costituzione, che sono segni
d'idee molto astratte, colla melaforica voce “inserire” ha composto un enigma;
perciocchè nessuno polrà imaginare chiaramente siffallo innesto. Più strana poi
diviene la metafor, quando l'astratto segnato dalla espressione “principio” si
fa a scuolere ed a sferzare l'ind stria falla inopportunamente persona per
trasformarsi losto in altra cosa, che si sviluppa a guisa di una malassa. In
questa forma la metafora, che e vaghezza e luce della favella, diviene tenebre
alla mente e vano suono (flatus vocis) agli orecchi. Conciossiache L’INTENZIONE
del conversatore non sia solamente di render chiaro il concetto, ma di farlo
talvolta dilettevole e maraviglioso, interviene che alcuni, per recare altrui
dilelto e maraviglia, si fango a derivare dalla metafora certe loro
conseguenze, come se in quella non già una simililudine si contenessa, ma come
se la cosa a cui si reca il nome novello, veramente si trasformasse nella cosa,
donde esso nome si toglie. Di questa specie di concetti si presero diletto i
prosatori ed i poeti del secolo decimo settimo, forse per desiderio di avanzare
gli scrittori delle altre elà, ed in fastidirono tutti i sani intellelli. Basti
di ques 1 [Atti dell' Costitulo pazionale. era sti vizi un solo esempio. Ugone
Grozio, per mostrare che non a dolere la morte di Giovanna d'Arco, dopo aver
lodate nel principio di un epigramma le virtù di lei, sog giunse: Necfas est de
morte queri, namque ignea tota aut numquam, aut solo debuit igne mori. Con
l’espressione “fuoco”, imposta a cagione di similitudine, viene il conversatore
a trasformare la misera vergine in vero fuoco materiale; e quindi trae la
strana conseguenza, che ella mai non dovesse morire, o morire nel fuoco.
Similmente si è frivolo modo e sciocco il derivare la metafora dalla
somiglianza ed uguaglianza de'noni imposti a cose diverse, ALLUDENDO all' una
di esse mentre si fa mostra di ſavellare dell'allra. In questo difetto incorse
anche il primo de'nostri poeti lirici quando, piangendo la sua donna, parla del
lauro, ed allude freddamente al nome di lei, come nella canzone, che comincia, Alla
dolce ombra delle belle fronde ed in molti altri luoghi si può vedere. Essendosi
fin qui parlato de' pregi e de'vizi delle metafore, cadrebbe in acconcio il
ragionare degli altri traslati di parole e di concetto e della figura: ma, perciocchè
queste cose sono state definite e largamente dichiarate da tutti i retlorici,
stimo che qui basti il ricordare che siffatte maniera di favellare non e bella,
se non in quanto vengono dal conversatore opportunamente adoperate. Per lo
stesso fine, che la metafora si propone, cioè di rendere più vivo il concetto,
melte bene talvolta il trasportare l’espressione a un segnato improprio o
nominando invece del tutto la parte (metonimia), o invece della cosa la materia,
ond'ella è composta, o il genere per la specie o il plurale pel singolare
(majestic plural – We are not amused), e viceversa. Si può cadere in difetto
usando questo traslato, che fu chiamato “sinedoche”, ogni qualvolla l'imagine
della cosa, da cui si prende l’espressione, non sia bene associata alle idee,
che si vo gliono svegliare in altrui, non sia atta a fare impressione nell'animo
più che le altre ide, che vanno in sua compagnia. Vaglia a dichiarazione di ciò
un solo esempio. Si dirà con maggior efficacia: fuggono per ſalto mare le vele,
di quello ch: fuggono per l'alto mare le prore; poichè l’imagine delle vele
gonfiate dal vento, come quella, che maggiormente percuote la vista di colui,
che mira la nave in alto, più strettamente d'ogni altra idea si associa
all'idea del fuggire: in altro caso però tornerà meglio chiamar la nave o poppa
o carena, cioè quando l'azione, che essa fa, o la passione, che riceve, meno
con venga alla vela che alle altre parti. Veggasi come ne ua Virgilio: vela
dabant laeti. Submersas obrue puppes si nomida ancora talvolla la causa per
l’effetto, o questo per quella: il contenente pel contenuto: il possessore per
la cosa posseduta: la virtù ed il vizio invece dell'uomo virtuoso e del vizioso:
il segno per il segnato ed il contrario; e questa figura, che dicesi “metonimia”,
giova per le delle ragioni, essa pure adoperala opportunamente, a dare evidenza
alla elocuzione. Ma di questi traslati e di quelli di concetto, che consistono
in sentenze da intendersi a contra-senso (ironia), tanto se ne parla, come già
dissi, in tutte le scuole, che qui, facendo la definizione dell'”allegoria”,
dell'”ironia” e di altri simili traslali, avvertirò solamente che questi
saranno diſellosi se verranno a collocarsi nella conversazione senza essere
mossi dagli affetti. Anche rispetto a quelle forme, che sovente adoperiamo per
rendere più efficaci i pensieri, e che si chiama con ispecial nome figura,
ricorderò che alcune ve n'ha, come l’ “interrogazione” e l’ “apostrophe”, che
nascono dall'affetto, ed alcune altre dall'ingegno, come l'”antitesi”
(contrapposizione) e la distribuzione; e che perciò vuolsi avvertire di non far
uso di queste seconde ne'luoghi, ove si possa credere che colui, che favella,
abbia l'animo perturbato. Ma nessuno avvertimento, per ' vero dire, è giovevole
a chi non sente nell'animo la forza degli affetti. Il più delle figure, come
detto è di sopra, muovono dalla passione, e, se dall'ingegno vengo. no cercal,
riescono fredde e di nessuna virtù: perciò è che male s'imparano da' rettorici.
Con più figure favella la rivendugliola, secondo il detto di un illustre
scrittore, contrattando sua merce, che il retſorico in suo studiato serino ne: tanto
egli è vero che procedono più dalla natura che dall'arte. Questo vogliamo che
ci basli aver dello così alla grossa delle figure. Dappoichè abbiamo detto in
che consista la proprietà dell’espressione e della metafore, e come queste e
quelle si debbano collegare per rendere chiaro ed accelto la mozzione
conversazionale a nostro compagno conversazionale, e fatto alcun cenno de'
traslati e delle figure, vérreio a dire, seguitando le dottrine di Palavicini,
degli elementi, onde è costituita la “eleganza” (cf. Grice, ‘aesthetic
maxims’), senza della quale ogni altro ornamento quasi vano riuscirebbe. L’espressione
“eleganza”deriva dal verbo “eligere” ed è usata a segnare quella certa tersezza
e gentilezza, per la quale una mozzione conversazionale non solamente viene ad
essere scevro da ogni errore, ma in ogni sua parte ornato di qualità che da
tutto ciò che ha del plebeo si allontana. Diciamo delle parti, delle quali ella
si compone, che sono quattro. La prima e la brevità (Grice, ‘be brief – avoid
unnecessary prolixity [sic].” La seconda e l'osservanza delle regole
morfosintattiche. Terzo, la civilita o l'urbanità. Quarta, la varietà
(non-detachability). Sebbene la chiarezza (conversational clarity, be
perspicuous [sic]) spesso si ottenga col l'ampio e largo mozzione
conversazionale, pure talvolta colla brevità si rende il pensiero più lucido e
più penetranti (Brevity is the soul of wit). Le parole, dice Seneca, vogliono
essere sparse a guisa della semenza, la quale comechè sia poca, molto
fruttifica. La sovrabbondanza (over-informativeness) delle parole all'incontro
empie le orecchie di vano suono (flatus vocis) e lascia vuote le menti. Perciò
è da guardare non solo che nostro compagno conversazionale non sia distratto da
una vana proposizione subaltern (premessa minore), ma che non sieno affetti più
da un segno che dall’idea segnata. Saranno perciò utili a togliere questo
inconveniente ed acconce a rendere elegante l'elocuzione quella espressione,
che somigliante alla moneta d'oro equivale al valore di più altre, come le
seguenti: disamare, disvolere, rileggere, ed altre molte, e con queste i diminutivi,
gli accrescitivi, i vezzeggiativi, i peggiorativi, de' quali abbonda la nostra
lingua. Vi sono ancora molti modi, che abbreviano la mozzione conversazione, e
questi consistono nel tralasciare o il verbo o il pronome o la particella o l’affissi,
che racchiusi nella diretta favella puo essere SOTTINTESO. (Implicatura). Basta
qui recarne alcuni ad esempio. Se io grido ho di che dammi bere quo ha di belle
cose onde fosti & cui figliuolo andovui il cielo imbianca - vergognando
tacque a baldanza del signore il baltè иот da faccende non se da ciò vedi cui
do mangiare il mio, ed altri moltissimi somiglianti modi, coi quali si ottiene
questa importantissima parle della eleganza, onde rice. ve nerbo l'orazione,
Avend’io delto che la brevità costituisce gran parte della eleganza, non intesi
di affermare che agli scrillori non sia lecito di esporre le cose
particolarizzando; chè questa anzi è l'arte colla quale si produce l'evidenza;
ma volli avvertire chi brama dilettare altrui colle proprie scritture, di ben
ponderare quali sieno le particolarità, che hanno virtù di far luminoso il
concetto, e di tralasciar quelle, che l'offuscano e pongono l’altrui mente in
falica. Secondo, dobbiamo eziandio osservare la regola morfosintattica, cioè
quelle leggi che la volontà de’ primi favellalori e l'uso di coloro, che
vennero dopo, banno imposto alla lingua italiana. Comechè il trascurarle non
induca sempre oscurità (avoid obscurity of expression) pure importa moltissimo
che sieno osservata, poichè ogni elocuzione irregolare apparisce plebea (un
solecismo). E perciò grande si è la stoltezza di coloro, che vando cercando
negli autori antichi i costrutti contro grammatica, e quelli come pellegrine
eleganze pongono nelle scritture: dal che ottengono effetto contrario al buon
desiderio: per ciocchè o portano oscurità nella sentenza, o in fastidiscono i
lettori facendo ridere gli uomini di lettere, non ignari che quelle strane
forme sono la più parte errori, o di amanuensi o di stampatori o di autori
plebei, de'quali non fu piccol numero anche nel bel secolo dell'oro (errata). Terzo,
siccome sono molli' vocaboli, secondo che è dello, i quali usati già da ' buoni
scrittori han no acquistata certa nobiltà e fanno nobile il conversare, così
pure sono molli modi, i quali, avendo in sè certa gentilezza, il fanno elegante,
e non essendo propri degli stranieri, gli danno quel paliyo colore, e direi
quasi fisonomia, per cui ciascuna favella da ogni allra si distingue. In che
precisamente sia riposta que sta vaghezza, che si chiama civilita o “urbanità”,
si è difficile dichiarare; e perciò assal meglio che con parole, si può
mostrare cogli esempi. Porrò qui dunque alcuni modi volgari, ed al fianco di
essi i moderni urbani o civile. Ciò che loro venisse in grado. A chicsa non
usava giammai. Seppegli reo. Ciò che loro piacesse. Non era solita di andare in
chiesa. Gli parve cosa calli va. Fece rivivere. Il prese per marito. “Era il
giorno in cui” -- Egli domandò al servo certa cosa. Ben io mi ricordo. A vila
recò. Il prese a marito. “Era il giorno che” – “Egli domandò il servo di certa
cosa” -- Ben mi ricorda, o ben mi torna a mente. Vicino di quell'isola.
Non-Upper: Viveva a modo di bestia. “Vicino a quell'isola” Upper: “Viveva come
una bestia” Moltissime sono le forme somiglianti a que ste, le quali, sebbene
non vadano per la bocca de ' comunali scrittori, pure sono chiare e naturali, e
per cerla loro indicibile gentilezza recano diletto. Vogliono però essere
parcamenle adoperate, perocchè in troppa copia ſarebbero il discorso ricercato;
e questo difetto dobbia mo schivare anche a pericolo di parere negligenti. La
negligenza è mancanza di virtù (salvo quando e falsa – nulla piu difficile che
falsare la negligenza), che rende meno lodevole il discorso, ma non meno
credibile: e l'affettazione è deforme vizio, che al dicitore toglie autorità e
fede. Modo più sconcio si è quello di coloro, i quali, per vaghezza di parere
eleganti ed SUO esperti della PATRIA LINGUA – LINGUA PATRIA -- patria lingua,
compongono prose con parole e modi fuor d'uso, e costruzioni contorte alla
boccaccesca; e della stessa guisa fanno versi oscuri e senza grazia e senza per
bo, e si argomentano poi di avere imitato Aligheri o Petrarca. Ma che altro per
verità fanno costoro, se non se muovere a sdegno i buoni ingegni, e dare
occasione al volgo di ridersi di quei pochi, che studiano a’libri antichi?
Un'altra generazione di scrillori (e questa è dei più ), alzato il segno
dell'anarchia, gridando che l’USO è l'ARBITRO della lingua (Wittgenstein), si
fa beffe di ogni gentilezza e di ogni proprietà: guida per entro l'idioma
nativo parole e forme forestiere, e il guasta sì, che non gli lascia di se non
la sola terminazione delle voci. Cosi due sette di contraria opinione
vorrebbero partire la repubblica letteraria. L'una tiinida e superstiziosa restringe
la lingua a que' termini, in cui stette nel trecento: l'altra licenziosa ed
arrogante vuole che ogni ar gine si rompa sì, che le purissime fonti del civil
conversare si facciano torbide e limacciose. Affinchè appaia manifesto il torlo
di questi se diziosi, dirò che cosa sia lingua; e dalla sua definizione trarrò
alcune conseguenze. La serie de' segni e dei modi vocali instituiti a rappre
sentare ogni generazione di pensieri, o, per meglio dire, ad esprimerc tulle
quante le idee, ond’è formata la scienza di una patria, è ciò che dicesi lingua
(come l’italiano dal latino, o il pidgin e il creole che e il francese). Da
questa definizione si deduce che nè una sola città nè un'età sola può essere
autrice e signora della lingua italiana – Roma e la citta della lingua romana;
ma che è forza che alla formazione di questa abbia avuto parte la nazione
intera, cioè tutti gli uomini congiunti di luogo e di costumi, che hanno idee
proprie da manifestare; e che a scernere il fiore dalla crusca abbiano dato e
diano opera gl'illustri scrittori. E così avvenne di vero nella formazione e
nell'incremento di questo, che Alighieri chiamò, ironicamente, il volgare
d'Italia, poichè, come dice BEMPO, e un siciliano e un Pugliese e un Toscano e
e un Marchegiano e un romagnolo e un lombardo e un veneto vi posero mano. Tutte
le parole dunque per tal guisa formate, che vagliono ad esprimere con chiarezza
i pensieri, potranno essere con lode usate, sieno elle an tiche o moderne; chè
le moderne ancora deb bono essere benignamente accolle, quando sie no
necessarie a segnare una idea novella. Quella facoltà, che fu conceduta agli
antichi, non si può togliere ai presenti uomini; perciocchè, se non si possono
prescrivere limiti all'umano sapere, nè meno alla quantità dei segni delle idee
si potrà prescrivere (quark, querk). Per la qual cosa ſu e sarà sempre lecito
a' sapienti, qualvolla la necessità il richiegga, l'inventare una nuova
espressione (“Deutero-Esperanto”) e un nuovo modo. Questa risposta è alla selta
dei superstiziosi. Ora ai libertini (Bennett – meaning-liberalismo –
libertinismo semiotico – Locke – liberty) brevemente diremo che la lingua
italica non è la lingua del volgo, ma, come è delto, si è quella, che gli
illustri scrittori di ogni secolo hanno ricevuta per buona, e che perciò quando
si dice che appo l'uso è la signoria, la ragione e la regola del parlare, non
si vuol dire l'uso del volgo, ma de' buoni scrittori. I più antichi die dero
vita e forma alla lingua romana, ed i posleri loro la arricchirono e la
potranno arricchire, non senza grande biasimo potranno toglierle l’essere suo.
Siccome ad ogni mazione è spe ma ciale la fisonomia e certa foggia di vestire,
cosi e speciale al idio-letto le voci ed i modi propri e figurati, i quali
hanno attenenza co'diversi costumi delle diverse genti; e perciò coloro, i
quali vogliono introdurre licenziosamente nell'idioma nativo espressione e modi
forestieri – implicate, non impiegato -- operano “contro ragione”, e, mentre ambiscono di essere tenuti uomini liberi
e filosofi, fanno mostra d'obbrobriosa ignoranza. Non si lascino dunque
sopraffare i gio vanelli da quei beffardi filosofastri, che con trassegnano per
derisione col nome di purista chi studia scrivere italianamente; ma alla co
storo petulanza coll'autorità di CICERONE ri spondano arditamente che colui, il
quale la patria favella vilipende e deforma, non solo non è oratore, non è
poela, ma non è uomo (CICERONE, de orat.). Quarta e ultima, se le parole
fossero sempre composte ugualmente, non sarebbero graziose a chi ascolla o
legge; e perciò un altro elemento della eleganza si è la variet. Il discorso può
ricevere varietà da sei luogh, che ad uno ad uno ver remo a dichiarare
brevemente, seguitando Pallavicini. Accade tante volte di dover nominare replicatamente
la cosa medesima, e ciò produce noia agli orecchi, i quali sopra tutti i sentimenti
del corpo sono vaghi di varietà; onde per isfuggire la ripetizione delle voci
sono molto giovevole il sinonimo, quando la piccola differenza, che è in essi,
non tolga al discorso laproprietà necessaria; per non peccare contro la quale
sarà mestieri aver considerazione, co me allrove si è detto, al vero
intendimento de vocaboli. Se, a cagion d'esempio, dovendo si cambiare
l’espressione “fanciullo”, si prendesse l’espressione “infante”, si osserverà
che questa, venendo dal verbo fari, segna non parlante, e che perciò non può strettamente
essere sempre sostituita a quella di “fanciullo”. Il secondo dai sei luogo
della varietà sta nel ra presentare una cosa pe' suoi effetti congiunti, come,
a cagion d'esempio, se poeticamente dicessimo; il sole velava i pesci, per dire
era il fine dell'inverno: al germogliare delle piante, per dire al tornare
della primavera. Con somma grazia e novità Aligheri rappresentò la sera pe'
suoi effetti dicendo: Era già l'ora, che volge il desio a' naviganti, e
inlenerisce il core lo di, che han detto a' dolci amici addio; E che lo nuovo
peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano, Che par il giorno pianger,
che si muore. Questo fonte di varietà è abbondantissimo, e possiamo vederne un
esempio in Bernardo Tasso, che in cento modi segna il sorgere del giorno. Nel
rappresentare le cose pe' suoi effetti porrai cura che questi non destino al
cun pensiero sordido od abbietlo, e che nel le scritture famigliari la
congiunzione loro coll'oggetto sia mollo nola, sicchè non paia puplo ricercata.
Il terzo luogo dai sei modi sono le definizioni o epiteto o apposizione delle
cose, o sia le brevi descrizioni loro, le quali si possono prendere invece
delle cose stesse, o que ste indicare per alcuna loro speciale proprietà; come
chi per nominare Giove dicesse il padre degli uomini e degli Dei, o per dire la
fortuna, Colei, che a suo senno gi infimi innalza ed i sovrani deprime. Il
quarto luogo dai sei modo si è l'uso promiscuo del signato attivo, medio, o
passivo da un verbio Potrai dire: Raffaele colori questa tavola, ovvero, da
Raffaele fu colorita questa tavola; e secon do che chiederà il bisogno, userai o
questo o quello segno. Il quinto luogo dai sei luoghi è la qualita (categoria d’Aristotelel'uso
negativo (o infinito – privazione) invece dell’affirmativo o positivo; come chi
sosliluisse alla proposizione positiva o affirmative seguente, ma con signato
negativo: Il sole si oscurò, quest' altra proposizione splicitamente negative,
per mezzo dell’adverbo di negazione, “non”: Il sole non isplendette”. Il sesto luogo
dai se luoghi e la metafora (you’re the cream in my coffee), per la quale si
può maravigliosamente variare il discorso, ora volgendo in “senso” (segnato,
strettamente) metaforico – Sensi non sunt multiplicanda praeter necessitatem –
uso metaforico -- un concetto allre volle espresso con termini propri: ora
usando una metafora tolta o dal genere o dalla specie o da cose animate o da
cose inanimate: ora quelle, che si presentano ai sensi: ora le altre, che si
riferiscono agli altri sentimenti del corpo. Ornamento, dal quale l'elocuzione
riceve molta gravità, e la sentenza. La sentenza o dogma o assioma o principio
o adagio o gnomico o proverbo (“Methinks the lady doth protest too much” what
the eye no longer sees the heart no longer grieves for”) si è verità morale ed
universale, segnata con la brevità, che all'intelletto sia lieve il
comprenderla ed il ritenerla. Tali sono le seguenti. Ipsa quidem virlus sibimet
pulcherri. ma ncrces. Quidquid erit, superanda omnis for tuna ferendo est. La
mala ineple non ha mai allegrezza di pace. Proprio de'tiranni è il temere. La
buona coscienza è sempre sicura. Avvegnachè la sentenze sia più accomodata a
quella conversazione che tratta di materie gravi, nulladimeno possono adornare
molte altre specie di componimenti, e perfino le lettere famigliari, se ivi con
moderazione sieno adoperate. Dico che sieno adoperate con moderazione, perchè
il soverchio uso delle sentenze, anche nelle materie più gravi, è indizio che
lo scrittore vuol ostentare sapienza, e perciò il fa parere affettato. In cotal
vizio cadde ro molli scrittori del secol nostro, i quali me ritamente furono tacciali
di “filosofismo” di Borsa, che in una
sua dissertazione ra giopò del presente gusto degl'italiani. Scon venevolissimo
è l'abuso e talvolta anche l'uso della sentenza pe' discorsi, che trattano di
cose mediocri o umili. Ma che diremo poi росо senno di coloro, che guidano in
teatro i servied altre persone rozze ed agresli a parlamentare ed a spular
tondo, come se dal pergamo predicassero? Questo è modo tanto sconcio, che il
volgo slesso ne rimane infastidito, on d'è qui da passare con silenzio. È da
lodarsi segnatamente nelle opere morali o politiche l'elocuzione, che a quando
a quando sia ornata, ma non tessuta di sentenze, la copia soverchia delle
quali, stanca i lettori invece di sollevarli, come si può sperimentare leggendo
le opere morali di Seneca. Lo scrittore dal quale più che da ogni altro si
apprende a fare buon uso della sentenza, è Cicerone, nelle cui filosofia mai non
pare che quelle sieno condotte nel discorso a pompa, ina sempre vi nascono
naturalmenle per recar luce e diletto. Diciamo alcuna cosa anche del concetto,
onde viene grazia o piacevolezza ai componimenti. Concetto propriamente si dice
una certa proposizione, che per essere nuove ed espresso con brevi parole recano
altrui diletto e maraviglia e scuoprono il sottile ingegno di chi le dice. Ve
n'ha di due maniere. La prima è dei delti gravi, l'altra dei ridevoli, che con
proprio nome si chiama una facezia. Gli uni e gli altri nascono da’ medesimi
luo ghi, e differiscono, secondo Cicerone, solamente in questo: che i gravi si
traggono da cose oneste; i ridevoli da cose deformi o alcun poco turpi: ma pare
veramente che a far ri devole un dello, sia necessario, il più delle 1 volle,
che esso comprenda in sè alcune idee discrepanti congiunte insieme di maniera,
che la congiunzione loro ben si convenga con una terza idea. Ciò sia chiaro per
un esempio. Un buon ingegno de' nostri tempi fcce incidere in rame la figura di
un vecchio venerabile con lunga barba, vestito alla francese, ornato di frangie
e di feltucce e tutto cascante di vezzi, e sotto vi pose queste parole. Traduzione
d' Omero di M. C. Tultii ne fecero le risa grandi. Se il ridicolo di questa
figura consistesse nel solo accoppiamento dell'imagine dell'uomo antico e grave
con quella de' giovani leziosi, ci ſarebbe ridere anche l'imagine di una sirena,
che è composta di due contrarie nature; lo che per verità non accade, ed
accadrebbe solamente qualora si dicesse che la bella donna, che termina in
pesce, figura delle folli poesie ricordate da Orazio nella Poetica. Pare dunque
manifesto che il ridicolo di sì falta deformità si generi dalla convenienza che
è tra esse e la cosa, cui si vogliono assomigliare. Per ciò s'intende quanto
diriltamente Castiglione dichiari che si ride di quelle cose, che hanno in sè
disconvenienza, e par che slieno male senza però slar male. Affinchè prima di
tutto si vegga che da’ luoghi, donde si cava la grave sentenza, si possono ancora
cavare i molli da ridere, re cherò l'esempio, che ne dà Castiglione. Lodando un
uom liberale, che fa comuni cogli amici le cose proprie, si polrà dire, che ciò
ch'egli ha, non è suo: il medesimo si può dire per biasimo di chi abbia rubato,
o con male arti acquistato quello che tiene. Di un buon servo fedele si suol
dire: non vi ha cosa che a lui sia chiusa e sigillata: e que sto similmente si
dirà di un servo malvagio destro a rubare. Le maniere de concelli ingegnosi
sono pres sochè infinile, e di moltissime ha ragionalo Cicerone nel terzo libro
dell'Oratore, ma noi toccheremo qui solamenle alcune principali. Cicerone
distingue primieramente le maniere graziose, che consistono nelle parole, da
quelle che stanno nella cosa, o che si esprimono col parlare continuato. Egli
dice che consistono nella cosa quelle (sieno gravi o piacevoli ), che mulale le
parole non cessano di generare maraviglia o riso: tali sono le narrazioni
verisimili, e fatte secondo il costume e le varie condizioni degli uomini, e di
queste molte ve n'ha nel Decamerone di Boccaccio. Una seconda consiste nella
imitazione de’ costumi altrui fatta per modo di parlare continuato, come quella
che fece Crasso, il quale in una sua orazione contraffacendo un uom supplichevole
con queste parole, per la tua nobiltà, per la tua famiglia, ne imitò cosi bene
la voce e gli alti, che mosse la gente a ridere; e proseguendo, per le statue,
distese il braccio, ed accompagnò la voce con geslo e con imitazione si
naturale, che le risa scoppiarono maggiori. Queste sono le due maniere, che
consistono nella cosa, e che si esprimono col parlar continuato. Quelle che maggiormente
si attengono alla materia che qui si tratta sono le maniere di que'concetti, la
grazia de quali sta nella parola. Recbiamone esempi. Alcuni molli graziosi si generano
in virtù della metafora. Avendo Lodovico Sforza duca di Milano eletta per sua
impresa una spazzetta, con che voleva segare se essere disposto a cacciare dall'Italia
gli oltremontani, domanda alcuni ambasciatori fiorentini, che loro ne paresse.
Quelli risposero. Bene ce ne pare, salvochè molle volle avviene che chi spazza
tira la polvere sopra di sè. Più grazioso ė il motto, quando ad alcuno, che
metaforicamente abbia parlato, si risponde cosa inaspettata continuando la metafora
stessa. Tale si fu detto il Cosimo de' Medici, il quale a' Fiorentini
ſuoruscili, che gli mandarono a dire che la gallina cova, rispose. Male potrà
covare fuori del nido. Anche il paragonare cose vili e piccole a cose grandi è
spesso cagione di ridere, come in questi versi del Berni: E prima, iodanzi
tutto, è da sapere che l’orinale è a quel modo tondo, Acciocchè possa più cose
tenere, E falto proprio come è falto il mondo. Dobbiamo in questa maniera della
facezia guardarci dal fare sovvenire il compagno conversazionale di cose laide
e stomachevoli, affiochè la piacevolezza non degeneri in buffoneria: lo che
sovente accade a coloro, che non sono piacevoli per naturale disposizione. Molti
molti ridevoli si formano per via di iperbole [“Every nice girl loves a
sailor”] accrescendo o diminuendo alcuna cosa. Diminui ed accrebbe a un tempo
le cose Cicerone parlando giocosamente di suo fratello, che essendo di piccola
slatura aveva cinto il fianco di una spada' smisurata. Chi ha, disse, cosi legato
mio fratello a quella spada? Dall’equivoco procede spesso i motti freddi ed
insulsi, ma spesse volte ancora gli arguli. Argulo parmi il seguente in biasimo
di una donna, che fosse di molli. Ella è donna d'assai: il qual molio potrebbe
ancora essere usato per lodare alcuna femmina prudente e buona. Molla venustà è
in que’ delli, che invece di esprimere due cose ne esprimono una sola, per la
quale l'altra s'intende (IMPLICATURA, SOTTITESSO). Assai leggiadro è questo in cui si favella di un'amazzone dormiente,
recato ad un esempio da Demetrio Falereo: in terra aveva posto l'arco, piena
era la faretr, e sotto il capo aveva lo scud: il cinto esse non isciolgono mai.
Similmente è grazioso il nominare con buone parole le cose non buone, come fece
lo Scipione, secondo che narra M. Tullio, con quel centurione, che non si era
trovato al conflitto di Paolo Emilio contro Annibale. Il centurione scusasi di
sua negligenza col dire. Io sono rimasto agli alloggiamenti per farli sicuri; perchè,
o Scipione, vuoi dunque tormi la civiltà? Cui rispose Scipione. Perchè non amo
gl;uomini troppo diligenti. Sono assai argute quelle risposte, per le quali si
DEDUCE da una medesima cosa il contrario di quello che altri deduceva. Appio
Claudio dice a Scipione. Lo maraviglio che un uomo ďalto affare, quale tu sei,
ignori il nome di tante persone. Non maravigliare, rispose Scipione, perocchè
io non sono mai 69 blato sollecito d’imparare a conoscer molti, ma a far si,
che molti conoscano me. Per egual modo Parnone rispose a colui che chiamava
sapientissimo il tempo: Di pari dunque potrai chiamarlo “ignorantissimo”, perchè
col tempo tutte le cose si dimenticano. Il concetto della risposta
conversazionale può essere grazioso solamente perchè racchiude alcun
insegnamento non aspettato da colui che fa la domanda. Fu chiesto ad uno spartano,
perchè si facesse crescere la barba, e quegli rispose. Acciocchè mirando in
essa i peli canuli io non faccia cosa, che all età mia disconvenga. Hauno
grazia similmente alcuni detti, perchè mollo convengono al costume della
persona, alla quale si attribuiscono. Essendo un colal uomo beone caduto
inſermo, era assai mole stalo dalla sete. I medici a piè del suo letto
parlavano tra loro del modo di trargli quella molestia, quando l'infermo disse:
Ponsate di grazia, o signori, a togliermi di dosso la febbre, e del cacciar via
la sete lasciate la briga a me solo. loducono a ridere anche que’ detti, che
procedono da sciocchezza o goffezz, finta o vera che ella sia. Tali sono le due
seguenti terzine di Berni: lo ho sentito dir che Mecenale Diede un fanciullo a
VIRGILIO Marone, che per martel voleva farsi frate; E questo fece per
compassione, ch'egli ebbe di quel povero cristiano, Che non si desse alla
disperazione. si può similmente cavare il ridicolo dalle parole composte di
nuov, che esprimono al cuna deformità del corpo, o dell'animo, come furono
queste usate dal Boccaccio: picchia. pello; madonna poco.fila; lava-ceci; bacia
santi. Si falte maniere, che direi quasi deſormità della lingua, poichè
dall'uso si allonta pano, essendo convenienti alla cosa segnata stanno bene, e
perciò inducono a ridere e han lode di graziose; ma se poi in forza dell'uso
divengono proprie, perdono, a somiglianza delle vecchie metafore, alquanto
della grazia primiera. Osserva Demetrio Falereo che la grazia del detto proviene
alcuna volla dall'ordine solamente, quando una cosa posta nel fine produce un
effetto, che posta nel mezzo o nel principio nol produrrebbe, o il produrrebbe
minore. Egli reca l'esempio seguente di Senofoole, che, parlando dei doni dali da
Ciro a certo Siennesi, disse. Gli donò un cavallo, una vesle, una collana, e
che i suoi campi non fossero guasti. L'ullimo dono è quello dove sta la grazia,
parendo cosa nuova, che si donasse a siennesi ciò che egli possedeva: se quel
dono fosse stalo collocato prima degli altri non avrebbe avuto grazia alcuna.
Bello pel medesimo artificio ci pare un detto di Benedetto XIV. Accomiatandosi
da lui due personaggi di religione luterana, egli avvisa di benedirli e di
ammonirli. Era di vero assai agevol cosa il fare che egli no ricevessero con
grato animo quell'atto di amore paterno: ma il venerabile vecchio ollenne il
buon effetto parlando così. Figliuoli, la benedizio ne de vecchi è acceita a
tutte le genti; il Signore v'illumini. Ingegnosissimo si è que sto detto per
l'ordine suo maraviglioso. Colla prima affeltuosa parola, “Figliuolo,” il papa
procacciasi la benevolenza del compagno conversazionale. Nella sentenza, la
benedizione de’vecchi è accetta a tulle le genti, chiude la prova della con
venevolezza di ciò ch'egli vuol fare. In quel l'io io vi benedico, trae la
conseguenza delle promesse. Nella precazione poi ripiglia la dignità di
pontefice, che accortamente aveva quasi deposta da principio e solto cortesi pa
role nasconde il documento, che a lui si ad dice di porgere a chi è fuori della
chiesa romana. Questo ci basti d'aver ragionato pei delli graziosi e piacevol,
chè il voler parlare di tulle le maniere loro o semplici o miste sarebbe
officio di chi volesse trattare solamente di questa materia: e diciamo con
maggior brevità de’ concetli sublimi. Alcuni haimo chiamato sublime
qualsivoglia concetto, coi nulla manchi di grazia e di perfezione; ina qui si
vuol prendere la parola nel segnato, in che viene usata da ' più de' moderni
reltorici e perciò così detiniamo i concetto sublime. Concetto sublime si
dicono quelli, che rappresentano con brevi parole l'idea di alcuna potenza o
forza straordinaria, per la quale chi ode resla compreso di alla maraviglia.
Tali sono i seguenti. Giove nel primo libro dell'Iliade promette a Teli di
vendicare Achill, e dopo il conforto delle sue parole i neri Sopraccigli
inchinò: sull immortale Capo del sire le divine chiome Ondeggiaro, e tremonne
il vasto Olimpo. Questo concetto, il quale ci fa maravigliare della potenza di
Giove, cesserebbe di essere sublime se con lunghezza di parole fosse segnato:
perchè quella lunghezza sarebbe contraria alla rapidità dell'alto divino e farebbe
che il pensiero del poeta non venisse improvviso alla mente di nostro compagno
conversazionale, che è quanto dire non generasse maraviglia. Sublime è ancora
quel luogo di T. LIVIO nella allocuzione di Annibale a Scipione. Ego Annibal
pelo pacem, poichè la parola Annibal reca al pensiero la virtù, le imprese, la
fero cia di quel capitano. Medesigiamente si fa maniſesta una straordinaria
fortezza di animo ne'due luoghi seguenti. Seneca, nella Medea, fa dire alla
nudrice: Abiere Colchi: conjugis nulla est fides, Nihilque superest opibus e
tantis tibi. Medea risponde: Medea superesto Corneille, ad imitazione di Senec:
Nerine: Dans un si grand revers que vous reste- t- il? Med. Moi. In luogo del
nome di Medea il poeta francese pose il pronone, ed ottenne effetto maraviglioso
e colla brevità e con quella cotal pienezza di suono, che è nella voce “moi”.
Il poeta latino col nome di Medea desta nel compagno conversazionale la memoria
della potenza, della sapienza e della magnanimità di quella maga. Divisata così
la natura de' motti graziosi e piacevoli e de' sublimi, e restando a dire al
cuna cosa dell'uso, che se ne può fare, ripe teremo ciò, che già detto abbiamo
delle sentenze, cioè che lo scrittore si guardi dal fare troppo uso de'
concetti ingegnosi e graziosi e de' sublimi, poichè non è cosa tanto contraria
alla grazia e alla grandezza, quanto l'artificio manifesto e l'affettazione. Le
grazie si dipinsero ignude appunto per insegnare che elle sono nemiche di tutto
che non è ingenuo e naturale. La grandezza similmente non va mai disgiunta
dalla semplicità, e piccole appaiono sempre quelle cose, che sono piene
d'ornamenti; imperciocchè la mente soffermandosi in ciascun d'essi riceve molle
e divise imaginet le in luogo di quella imagine sola, che ci rappresenta la
cosa continuata ed una. Male adoperano coloro che non avendo rispetto alla
materia, di che favellano, nè alle persone ne alla modestia nè alla gravità
conveniente allo scrittore, colgono tutte le occasioni, che loro porgono o le
cose o le parole, per trar materia di motleggiare; perocchè invece di mo strare
acutezza d'ingegno appaiono loquaci ed insulsi. Che dovrà dirsi poi di que, che
abusano dell'ingegno per empiere le scritture di freddi e falsi concelti, di
riboboli, di bislicci e d'indovinelli? di que', che tengono per finis sime
arguzie le allusioni delle parole, che erano la delizia del Marino e de' suoi
seguaci? Diremo che nali non sono per ricreare gli ani mi e sollevarli dalla
fatica, e per indur ſesta e riso, ma per noia, fastidio e sfinimento di chi è
costretto di udirli. Se il discorso si fa strada all’animo per gli orecchi, è necessario
che egli sia accompagnato dall' armonia, della quale niuna cosa ha maggior
forza negli uomini. L'armonia ci dispone al pianto e all'ira, e ci rallegra e
ci placa; e lulle le genti, avvegnachè barbare, sono tocche dalla dolcezza di
lei; laonde gran de mancamento sarebbe, se lo scrittore ad ac crescere
efficacia alle sue parole non se ne valesse. Dalla greca voce d.gpótely
(armosin), che segna connettere, è derivata la voce “armonia”. I maestri di
musica insegnano, che essa consiste nell'accordo di più voci sonanti nel
medesimo punto; ma coloro, che parlano del l'arte retorica e della poelica,
presero questa parola quasi nel significato, che i maestri di musica prendono
quella di melodia, come si vede aver fatto Aristotele, che usò in questa
significazione ora la voce melos, ora la voce armonia. La melodia consiste
nella altenenza, che hanno rispettivamente i gradi successivi di un suono nel
salire dal grave all'acut: e noi direino che rispetto al discorso l'armo nia
sta nell'altenenze delle lettere o delle sil labe o delle parole, che si
succedono con quel la certa legge che si affà alla natura dell'or gano
dell'udito. L'armonia, di che parliamo, è di due maniere, semplice o imitative.
L’una ba per fine soltanto la dileltazio ne degli orecchi, l'altra, oltre la
dilettazione degli orecchi, la imitazione del suono e dei movimenti delle cose
inanimate e delle animate, e quella degli umani affetti: colle quali imitazioni
inaggiormente ella si rende accetta all'intelletto e gli animi sigrioreggia. La
dilettazione degli orecchi si ottiene con parole costrutte e disposte in modo
analogo, come è dello, alla natura dell'organo del l'udito e fuggendo tutte le
voci e tutti gli accozzamenli di esse, che producono sensazio ne spiacevole.
L'imitazione poi si fa adope. rando e componendo suoni o gravi o acuti o inolli
o robusti, secondo che meglio si affanno a ciò che si vuole imitare. Diciamo
alcuna cosa più largamente e dell' una e dell'altra armonia, l’armonia semplice
e l’armonia composita o imitativa. Le parole, le quali, come tutti sanno, si
compongono di vocali e di consonanti, sono più o meno armoniche, secondo che le
lettere delle due specie suddelte si trovano disposte con certa proporzione. Le
vocali fanno dolce il vocabolo le consonanti robusto. Ma le troppe vocali, che
si succedono, producono quel suono spiacevole, che si dice iato; le troppe
consonanti fanno le parole aspre e diſficili a pronunciare: così l'incontro
delle sillabe somiglianti produce la cacofonia, Circa le parole non molto armoniche,
ma approvate dall' uso, diremo chę elle non si banno a rigettare; ma si deve aver
cura di collocarle in guisa, che il loro suono disarmonico serva al l'armonia
di tutto il discorso. Anzi sono da commendare quelle lingue che ricche si trovano
di vocaboli diversi di suono, i quali, giunti insieme con bell'arte, sogliono
rendere maravigliosa l'armonia del conversare. Sebbene, circa l'arte del collocare
le parole con armonia, non possa darsi maestro infuori dell' orecchio avvezzo
alla lettura de' classici scrittori, pure non sarà del tutto vano il dire più
particolarmente alcuna cosa delle parti, onde l'armonia si coropone. E prima di
tutto è a sapere che l’altenenza tra le lettere, le sillabe e le parole, dalle
quali risulta l'armonia, sono di due ragioni: cioè altenenze di tempo, poichè
si pronunciano o in tempi uguali o disuguali; e attenenza di suono, poichè ogni
sillaba differisce dall'altra per aculezza e gravità e per più o meno di
dolcezza o di asprezza. Diciamo prima delle attenenze di tempo. Pie chiamamo I
LATINI quella certa quantità di sillabe, che pronunciandosi in tempi eguali, si
potevano misurare colla battuta del piede nel modo che oggi ancora fanno i suonatori.
E, poichè si pronunciavano più o meno sillabe (attesa la varia conformazione
delle parole) in ispazi uguali di tempo, avvenne che lunghe si dissero quelle
che occupavano la maggior parte del tempo misurato dalla battuta, e brevi le
altre, che occupavano la parte minore. “Coelum”, per esempio, si compone di due
sillabe e si pronuncia in ugual tempo che ful-mi-na, che è di tre: perciò
coelum è un piede di due lunghe, e ſulmina è un pie de di una lunga e di due
brevi. I piedi sono di molte specie, e ciascuna ha il suo nome. Ve n'ha de'
semplici di due sillabe, che sono o due brevi o due lunghe, una breve e una lunga,
o una lunga e una breve: ve n'ha di tre sillabe, che per la varia combinazione
delle brevi e delle lunghe risultano di otto specie: ve n'ha finalmente più di
cento specie dei composti, cioè formali dall' unione di due piedi semplici.
Dall'indelernipala quantità di piedi disposti con legge analoga alla natura
dell'organo del l'udito umano, la qual legge si sente nell'anima e definire non
si può, nasce il numero; e similmeple dall ' unione determinata di varii piedi,
i versi, che sono molle maniere, se condo la qualità de' piedi, onde sono
composti. Dalla varia qualità e quantità de’ versi nascono poi le differenti
specie del metro. A rendere armonioso il verso si congiunge al pu nero il
suono, che, siccome abbiamo accennato, si genera dalla proporzione, con che
sono di sposte le consonanti e le vocali. Da ciò nasce che, sebbene talvolta i
versi abbiano il medesimo número, non hanno il medesimo suono, ma variano nella
loro armonia maravigliosamente: per la qual cosa interviene che dalla unione di
molti versi che abbiano il medesimo numero, come a cagion d'esempio, di
esametri, si possono generare molle ed assai varie armo pie: la diversa upione
di queste armonie di cesi, “ritmo”. Come nella poesia dal ipovimento di molti versi
upili nasce il ritmo poetico, così da quello di minuti membri d' indeterminala
mi sura nasce quello della prosa, il quale pure è di varie sorla, siccome
avremo occasione di osservare in appresso. Ora veniamo a dire del l'armonia
della favella italiana. Gl’italiani non hanno determinata la quantità nelle
sillabe, come si vede aver fatto i latini, per la qual cosa nemmeno i piedi
hanno potuto determinare. Alcuni letterali del sesto decimo secolo, fra' quali
il Caro, tentarono di rinnovare fra noi i versi esametri ed i pentametri, ma
quanto poco (per la in sufficienza della lingua nostra) al buon volere
rispondesse l'effett, apparirà dai seguenti versi di Claudio Tolomei, i quali,
se non sono molto aiutati dall'arte del recitante, non possono ricevere
soavità. Ecco il chiaro rio, pien eccolo d'acque soavi, Ecco di verdi erbe
carca la terra ride. Scacciano gli alni i soli co' le frondi e co'ra (mi
coprendo; Spiraci con dolce fato auretta vaga. A noi servono invece di piedi le
sillabe é gli accenti, e quindi è che da un determinato numero di sillabe e da
una determinata positura di accenti nasce il numero, onde si generano molte
specie di versi. Omettendo le di spute de'rettorici e le loro opinioni circa
questa materia, faremo qui alcun cenno solamente rispetto agli accenti. Le
parole sono di una o più sillabe: se di una soltanto, l'accento è su quella,
come in tu, me, no, si: se di più o egli è nell'ullima, come in mori, o nella
pri 79 ma, come in tempo, o nella penullima come in andarono, o prima di essa,
come in concedea glisi. L’indicati accento si dice “acuto”, perchè alzano la
pronuncia: dove questi non sono, si trova il “grave”, che l'abbassano. Gli
acuto e il grave alzando ed abbassando
il discorso, por tano seco certa proporzione di tempo, e perciò tengono fra noi
il luogo de' piedi Jalini, e formano varie specie di versi, che, secondo, la
quantità delle sillabe, si dicono o pentasillabi o senarii o seltenarii o
ottonarii o novenarii o decasillabi o endecasillabi. Dalle varie unioni di questi
nascono i diversi metri. E il ritmo nasce nel modo, che si è detto parlando
della lingua latina, e circa il verso e circa la prosa. Non si contenta l'animo
upano dell'armonia, onde è ricreato solamente l'orecchio, ma gran demente si
piace di que' suoni, che più vivamenle ci pougono innanzi il segnato; e questo
specialmente egli ricerca nella poesia, la quale o avendo, o mostrando di avere
per suo principal fine il diletto, dee apparire più d'ogni altro discorso
ordinala, e splendida: sarà quindi utile cosa l'investigare quale sia la virtù
imitativa delle parole. Questa e l’armonia imitativa. Dalla mescolanza delle
lettere liquide e delle vocali risulta infinita varietà di vocaboli dell’imitazione
delle grida, de’suoni, de’romori e de’movimenti, e chi, porrà mente alla nostra
lingua troverà, secondo che osserva BEMPO, voci sciolle, languide, dense,
aride, morbide, riserrate, tarde, mutole, rolle, impedite, scorrevoli e
strepitanti. Perciò è che variando la composizione di questi suoni si potranno
ordinare.e versi e ritmi, che ogni grido o romore o movimento vagliano ad imi.
tare. Jofinili esempi bellissimi di si ſalta imi. tazione sono nella Divina
Commedia: ma basti qui la sola descrizione dello strepito, che ALIGHIERI udi
nell'Inferno: Quivi' sospiri, pianti, ed alti guai risonavan per l'äer senza
stelle, Perch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole
di dolore, accenti d'ira, voci alte ' e fioche, e suon di man con elle facevano
un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell'aria senza tempo tinta, Come
l'arena, quando il turbo spira. Del medesimo genere sono i seguenti versi del
Poliziano. Di stormir, d'abbaiar cresce il romore: Di fischi e bussi tutto il
bosco suon: Del rimbombar de' corni il ciel rintrona. Con tal romor, qualor
l'äer discorda, Di Giove il foco d'alta nube piomba: Con tal tumulto, onde la
gente assorda, dall'alte cataratte il nil rimbomba. Con tal orror del latin
sangue ingorda Sonò Megera la tartarea tromba.Il Parioi ci fece sentir il
guaire di una ca goolina, e il risponder dell' eco in questi bellissimi vers.
Aita, aita, Parea dicesse; e dall'arcate volte a lei l'impielosita eco rispose.
Siccome il succedersi delle parole ora va lento or celere, è manifesto che
questo, che si può chiamare movimento del discorso, ba somiglianza coi
movimenti delle cose, e che per ciò aver dee virtù d'imitare le azioni loro.
Recherò qui per maniera d'esempio alcuni luo ghi cavali da' poeti. Odesi il
furore e l'impeto del vento in questi versi di Dante: Non altrimenti fatto che
d'un vento Impetüoso per gli avversi ardori, Che fier la selva senza alcuu
rallento, E i rami schianta, abbatte, e porta i fiori; Dinanzi polveroso va
superbo, E fa fuggir le belve ed i pastori. Mirabilmente Virgilio descrisse il
tumullo dei venti all'uscire della grotta di Eolo: Qua data porta ruunt et
terras turbine per flant. Incubuere mari, totumque a sedibus imis Una Eurusque,
Notusque ruunt, creber que procellis Africus, et vaslos volvunt ad sidera flu
clus. Insequitur clamorque virum, stridorque rudentum. Fra i versi che
esprimono la caduta de corpi sono bellissimi i seguenti: E caddi come corpo
morto cade; il qual verso è cadente, come il corpo che cade. Insequitur
praeruplus aquae mons. In queste parole di Virgilio si sente il piom bare
dell'acqua precipitosa: ed eccellentemente fece sentire il medesimo suono il
Caro: E d' acque un monte intanto Venne come dal cielo a cader giù. In virtù di
quest'altro verso dello stesso Caro, una nave sparisce in un subito, e si sente
il romor dell'acqua che l'inghiotte: Calossi gorgogliando e s'aſfondò. Lo
stesso con una sola parola lunga e scor revole dipinse il procedere del carro
di Net tuno: Poscia sovra il suo carro d'ogni intorno Scorrendo lievemente,
ovunque apparve Agguagliò il mare e lo ripose in calma. Nelle seguenti parole
di Virgilio quasi sen tiamo a stramazzare il bue; Procumbit humi bos.
Dell’armonia che imita gli affetti col suono, Onde conoscere per qual modo gli
affelli vengano imitati dall'armonia, uopo è d'inve sligare quali altenenze
essi abbiano col suono e quali col namero. In quanto alle altenenze si ponga
mente che ad ogni sorta di affetli risponde un particolar molo del l'organo
vocale, per cui si formano voci di verse secondo la diversità de' medesimi
affetli; all'allegrezza risponde il riso, alla mestizia il pianto; ed il riso
ed il pianto si manifestano con suono al tutto diverso: così presso tutte le
geoli la subita maraviglia è significata dal l'esclamazione ah, ovvero oh; il
lamento dall' eh, o dall’ahi; e la paura dall'uh. Que ste voci, che da
principio sono elfelti naturali delle aſſezioni dell'animo, diventano poi,
merce dell'esperienza, segni di quelle: per la qual cosa interviene che i
vocaboli composti di ma, niera, che facciano mollo sentire il suono di quelle
leltere, che alle predette voci primitive si assomigliano, avranno virtù
d'imitare o questa o quella affezione. Le parole, che s'in, nalzano per la a o
per l'o, che sono lettere di largo suono, saranno acconce ad esprimere
l'allegrezza e gli affetti nobili ed alli: quelle, che declinano per la é e per
l'i, che sono lettere di molle suono, saranno convenienti alla malinconia ed
agli umili e miti affetti. [ Omnis enim motus animi suum quemdam a natura habet
vullum, et sonum et gesium (CICERONE, de Orat. ). quelle, che si abbassano
nell' u potranno e sprimere le cose paurose e le perturbazioni dell'animo, che
ne procedono. Questa particolare virtù delle parole viene poi rafforzata dalle
attenenze, che le passioni hanno col numero. Volgendo la considerazione alle
varie passioni, si potrà conoscere che l' uomo'nell'ira è fatto impetuoso,
frettoloso nell'allegrezza, lento nella mestizia, svarialo nell' amore,
immobile nella paura. Quindi av. viene che la musica non solamente si giova
delle note gravi o delle acute, ma delle rapi de e delle tarde modulazioni a
risvegliare ogni sorta d'affetto. A somiglianza di quest' arte maravigliosa,
anche la naturale favella, il suono ed il numero adoperando, innalza o abbassa
gli accenli, rallenta od accelera il corso delle parole, secondo la natura
degli affetti, che di esprimere intende. Con quest' arte medesima l'accorto
scrittore compone i ritmi diversi secondo la tenuità o la gravità della
materia, e secondo le qualità della persona che parla. Ma di questo avremo
altrove occasione di favellare. Ora in confer. mazione di quanto abbiamo detto
intorno gli affetti, recheremo alcuni esempi. Come la lettera a innalzi il
verso e lieto il faccia, si può conoscere da quel solo verso del PETRARCA: Voi
ch’ascoltate in rime sparse il suono; il qual verso sarebbe rimesso se dicesse:
O voi, che udite in dolci rime il suono; sostituendo 1'i alla a. Veggasi come
Dante seppe significare uno stesso concetto con due diverse armonie, che
rispondono a due diversi affelti. Il conte Ugo lino sdegnalo, e Francesca d'
Arimino dolente dicono all’ALIGHIERIdi esser presti a rispon dere alla sua
domanda. Ma lo sdegnato dice con suono aspro e terribile: Parlare e lagrimar
vedrai insieme; e quella mesta con dolcissimo e tenue suono: Farò come colui
che piange e dice. Maravigliosamente esprime Dante con voci aspre lo sdegno: E
disse, taci, maladelto lupo, Consuma dentro le con la tua rabbia. La velocità
de' pensieri, che procedono dal l'aſſello, apparisce in questo esempio dello
stesso poeta: Dunque che è, perchè perchè ristai? Perchè tanta viltà nel core
allelte? Perchè ardire e franchezza non bai? Un verso, che esprime luogo
pauroso e cupo, si è questo: 10 venni in loco d'ogni luce mulo. Dove si vede
che se Dante, in vece di muto, avesse delto privo, il verso non avrebbe messo
nell'animo quel sentimento d'orrore. La e, che è lettera di suono lento, basso
ed oscuro, rende sommamente imitativi i se gucnti versi: Buio d'inferno e di
notte privata D'ogni pianeta solto pover cielo Quant' esser può di nuvol
tenebrata. In virtù di somiglianli armonie producono gli scriltori que'
maravigliosi effetti, che la più parte degli uomini sentono nell'animo, ene
ignorano il magistero. Di queslo cercai mani. festare la natura, non già perchè
io pensi che colui che scrive debba avere di continuo alle mani la regola; chè
anzi ho sempre creduto la dolcezza e proprietà del suono, al pari d'ogni allra
vaghezza poetica ed oratoria, nascere spontaneamente; ma questo volli fare,
perchè stimai che l'investigar le occulte ragioni del. l'arte aiuti l '
intelletto a dirittamente giudi carne, e quindi a formare quell'interior senso
si necessario a comporre lodevolmente, e quel l'abito, che prendono gli orecchi
alla lettura de'ben giudicati esemplari. Nulladimeno per compiacere agli
orecchi non si vuol mai turbare quell'ordine delle parole, in virtù del quale
diventa chiara l'elocuzione. Se per esprimere qualsisia o movimento o suono od
affello coll'armonia, o per formare un pe riodo numeroso e grave ci faremo
oscuri, nes suna lode al certo ce ne verrà. Nè solamente dobbiam sempre conciliare
l'ordine domandato dagli orecchi con l'ordine sopraddello, ma spesso ancora con
quello, che rende più evi. denti o più efficaci i concetti, del quale ora ci
rimane a parlare, siccome di sopra abbiamo promesso. Parliemo della
collocazione dell’espressione, per la quale si rende ‘efficace’ la mozzione
conversazionale. È manifesto che in ciascun periodo le pa role o le
proposizioni si possono, senza to gliere la chiarezza, alcuna volta posporre o
anteporre l'una all'altra in più maniere; ma è da por mente che, fra le molte
possibili permutazioni, poche sono quelle che meritino di essere lodate, e che
spesso una solamente si è l'ottima. Ho udito dire da molti che il più delle
volte l'ordine migliore delle parole nella proposizione si è l'ordine diretto,
e que sto in verità nell'italiana favella è spesso da preferirsi all'inverso,
segnatamente nei die scorsi didascalici o in quelli ove non si ma nifesta alcun
affetto; ma certo egli è che l'or. dine diretto (prescindendo dai mancamenti
che aver può rispello all'armonia) è alcuna volla degno di biasimo, siccome
freddo ed inefficace. A quale legge dunque dovremo ubbidire, ol. tre a quella
già stabilita circa la chiarezza e l'armonia, nel collocare le parole e le
propo. sizioni a fine di rendere più vive le descri zioni e più efficace
l'espressione degli affetti? La filosofia ci mostra che le idee tornano alla
mente associate in quell' ordine, che vennero all' anima per l'impressione
delle cose ester 88ne, o in quello, che si genera in virtù della forza
particolare di ciascuna idea, essendo che le più vivaci, o quelle che
maggiormente si attengono a' nostri bisogni, si risvegliano pri ma dell'altre;
e questo mostrandoci, ella ne insegna che, se vogliamo fedelmente ritrarre
nelle menli altrui cio che abbiamo veduto o imaginiamo di vedere, v ciò, che
sentiamo, ci è duopo di formare la catena delle parole se. condo quella delle
nostre idee, per quanto il comporta il genio della lingua. Questa verità
verremo ora con alcuni esempi mostrando, Si osservi primieramente nel seguente
esem pio, tolto dall'Ariosto, come nella descrizione delle cose, che non sono
in moto, sieno poste innanzi all'animo dell'ascoltalore quelle idee, che prima
farebbero impressione ne' sensi del riguardante, e poscia succedano a mano a
mano le altre secondo loro qualità e silo: La stanza quadra e spazïosa pare Una
devola e venerabil chiesa, Che su colonne alabastrine e rare Con bella
architellura era sospesa. Sorgea nel mezzo un ben locato altare, Che avea
d'innanzi una lampada accesa, E quella di splendente e chiaro ſoco Rendea gran
lume all'uno e all'altro loco. La prima impressione, che riceverebbero gli
occhi di chi mirasse un somigliante luogo, sa rebbe certamente la forma e
l'ampiezza di esso, e tosto occorrerebbe alla ' mente la cosa alla quale somiglia,
cioè la devota e venerabil chiesa: indi l'allenzione del riguardante si
indirizzerebbe alle parti del luogo più appari scenti, le colonne alabastrine e
rare: queste chiamano il pensiere a fermarsi alcun poco sulle qualità
dell'architellura, indi alle parli. più minute, cioè all'altare, alla lampada,
alla luce, che si spande d'intorno. Quanto giovi disporre le parole
nell'ordine, in che le idee sono naturalmente impresse nei sensi dalle
successive modificazioni delle ester ne cose, si può conoscere da questo
esempio di Virgilio, il quale, volendo rappresentare all'imaginazione nostra il
greco Sinone trallo al cospetto di Priamo, si esprime cosi: Namque ut conspectu
in medio turbatus, inermis Constitit, atque oculis Phrygia agmina circumspexit.
La collocazione di queste parole è secondo l' ordine, nel quale avrebbero
proceduto le sensazioni di colui, che avesse veduto cogli occhi propri sinone,
e che l'imagine di quella vista si riducesse a memoria. La prima cosa, che gli
verrebbe all'animo, sarebbe il luogo ov'era condotto Sipone, conspectu in
medio; indi la persona di lui colle sue più distinte qualità, turbatus, inermis;
poi l'azione, constitit; poi la parte del' vollo, che subito chiama a sè
l'altenzione del riguardante, co Die quella, che è indizio dello stato dell'ani
ma, oculis; poi le cose, sopra le quali gli occhi si volsero, Phrygia agmina;
infine l'ultima e lenla azione degli occhi dipinta colla tarda parola
circumspesil. go Un altro esempio dello stesso VIRGILIO dimo. slrerà come sieno
poste nel proprio luogo pro posizioni e parole. Ecce autem gemini a Tenedo
tranquilla per alla (Horresco referens ) immensis orbibus (angues Incumbunt
pelago, pariterque ad litora tendunt: Pectora quorum inter fluctus arrecta,
jubacque Sanguineae exsuperant undas: pars cae lera pontum Pone legit,
sinualque immensa volumine lerga. Fit Sonitus, spumante salo, jamque arva
tenebant; Ardentesque oculos suffecti sanguine et igni, Sibila lambebant
linguis vibrantibus ora. و Colui che fosse presente al descritto caso,
osserverebbe primamente di lontano due cose indistinte venir del luogo che gli
fosse al co spetto, gemini a Tenedo; indi le acque per le quali nuotassero,
tranquilla per alta; al l'avvicinarsi di quelle due indistinte cose, egli
comiocerebbe a distinguere il loro divincolare; poi ecco che le due cose, che
da prima indi stinte si mostravano, si vedrebbe essere due serpenti, angues, i
quali più s'accostano e più li vedi, e più discerni l'azione loro; prima del
gittarsi sul mare, poi del girarsi al lido, incumbunt pelago, pariterque ad
litora lendunt; ed a mano a mano più visibili la. cendosi le qualità de'
serpenti, si vedrebbero i pelti erti sui flutti ed alte le creste sangui. gne,
e il rimanente de'corpi con grandi volute nuolare, pectora quorum ec.
Finalmente udi rebbe il suono dell' acque, e ne vedrebbe le spume. Pervenuti al
lido i serpenli, discerne rebbe i loro occhi ardenli e sanguigni, ne
ascollerebbe i fischi, e vedrebbe a vibrare le lingue, fit sonitus ec. Per
l'addotto esempio maniſestamente si vede che nel collocare le parole secondo la
catena di quelle sole idee, che verrebbero al. l'animo di chi il descritto caso
avesse veduto, sta l'arte di rendere evidenti le descrizioni: di qualità che
all'uditore sia avviso non di udir raccontare ma di vedere cogli occhi pro pri.
Nel rappresentare colle parole le sole idee che vengono naturalmente all'animo
di chi mira le cose, e di chi è mosso dagli affetti, consiste l'arte del
particolareggiare: chi tra passasse Test limite cadrebbe nella prolissi tà, e
nella minutezza, la quale rende stucche voli que' poeti che eccessivamente
particola reggiando si pensano di produrre l'evidenza. Siccome poi le cose
hanno più o meno di forza sull'animo nostro a misura che più o meno vagliano a
concitare l'amore o l'odio, o a mettere timore; così interviene talvolta, che
esse al tornar che fanno alla mente tengono quell'ordine, che è secondo i gradi
della ri. spettiva loro forza. Perciò è che qualvolta le idee in virtù delle
parole sieno ordinate con formemente a siffatta legge, il discorso è caldo e
passionato; e freddo e di nessun efletto se l'ordine delle parole discorda da
quello delle idee. Nel libro IX dell'ENEIDE veggendo Niso l'amico EURIALO già presso
ad esser morto dai Rutuli, cosi esclama: Me me (adsum qui feci), in me conver:
tite ferrum, O Rutuli, mea fraus onnis: nihil iste nec, ausus, Nec potuit:
coelum hoc, et conscia si dera testor. Volendo il poeta esprimere le veemenza
della passione di NISO, soppresse il verbo interficile, e pose innanzi alle
altre la voce me quarto caso, poichè la prima idea, che viene all'animo del
giovanetlo, si è quella della propria persona, che egli vuole sacrificare per
l'amico suo; poi vengono le altre parole ordinata Diente seguitando la della
legge. Similipente PETRARCA: E i cor, che indura e serra Marle superbo e fero,
Apri tu, padre, inlenerisci e spoda. Se invece egli avesse dello: Apri tu,
padre, intenerisci e snoda I cor, che indura e serra Marte superbo e ſero,
l'elocuzione sarebbe riuscita fredda, perciocchè la prima imagine che si
presenta al commosso animo del poeta, sono i cuori, i quali egli con quelle
prime parole quasi pone innanzi a Dio, affinchè si piaccia d'intenerirli.
Accade alcuna volta che lo scrittore vuole accrescere vigore alla propria
sentenza, e in questo caso non dee disporre le sue parole a modo, che
all'uditore paia di aver inteso tutto al prinio detto, ma far sì, che le idee
vengano all' animo di lui crescendo gradatamente, come nel seguente esempio: Tu
se' buono, santo, divino. E in quest'altro del Boccaccio: Ri. prenderannomi,
morderannomi, lacereran nomi costoro. Similmente metterà bene il collocare l'ay
verbio dopo il verbo e l'addiettivo dopo il sustantivo, qualvolla sieno posti
nel discorso alfine di accrescergli vigore. Perciò è che me. glio si dirà: io
ti amerò sempre, che io sempre ti amerò: è facile il sentire come questa
seconda collocazione riesca fredda. Molli preclari ingegni, e Ira questi il
Caro, hanno biasimato il Boccaccio, perchè troppo frequentemente pone il verbo
alla fine del pe riodo; e per verità l'hanno biasimato a ragio ne; perchè non
solo con ciò si toglie al di. scorso la varietà, ma anche perchè il più delle
volle si viene a turbare la naturale associa zione delle idee. Alla quale
associazione se porrà mente lo scrittore troverà sempre molivo onde approvare o
disapprovare l'ordine che egli avrà posto nelle sue parole. Lunga opera sarebbe
il trattare qui minutamente questa materia e il prescrivere le regole
applicabili a tutti i casi particolari; queste si possono age volmente dedurre
dalla regola generale, che abbiamo assegnata, e perciò stimiamo che qui 94
basti fare qualche altra osservazione intorno ad alcuni luoghi, ne'quali il
verbo è posto in ultimo. Avendo il principe Tancredi, presso il Boccaccio,
rimproverato Ghismonda di avere eletto per suo amatore Guiscardo di nazione
vile, e non uomo dicevole alla nobiltà di lei, così ella, rinfacciandogli il
fatto rimprovero, gli dice: in che non taccorgi che non il mio pec cato, ma
quello della fortuna riprendi. Qui chiaro si vede che se Ghismonda avesse dello:
non taccorgi che non riprendi il mio pec cato, ma quello della fortuna, avrebbe
par. lalo freddamente. Il figliuolo di Perolla, in LIVIO, sdegnato che il padre suo gli abbia
inpedito di uccidere Annibale, si volge alla patria dicendo: O PATRIA FERRVM
QVO PRO TE ARMATVS HANC ARCEM DEFENDERE COLEBAM HODIE MINIME PARCENS QUANDO
PATER EXTORQVE ACCIPE. Ne'due citati luoghi son poste innanzi le idee, che
prima si presentano all'animo passionato di colui che favella, e in ullimo è il
verbo, che apporta luce alla MENTE SOSPESA dell'ascoltatore. Se T. LIVIO avesse
detto: O Patrin, accipe ferrum ec., oltrechè avrebbe parlalo fuori del modo
naturale di colui che ha l'animo commosso, avrebbe ancora mancato di
quell'arte, che l'attenzione altrui si procaccia: imperciocchè qualvolta egli
ci porge innanzi il ferro, col quale il giovane vuole difendere ostinatamente
la rocca, subito la mente sta attendendo impazientemente che cosa esser debba
di quel ferro; e, poiché ode la risoluzione di esso giovane, resla preso da
subita maraviglia e ne riceve diletto. Nel collocare le parole secondo la
catena delle idee, si vuol porre grande cura di conciliare quest'ordine con
quello che è richiesto dall'orecchio e dal genio della lingua, al quale non si
può contrariare. Qualvolta lo scrittore ciò pervenga ad ottenere, sembra che le
sue parole siensi di persé poste al luogo loro, e che chiunque avesse voluto
dire la stessa cosa l'avrebbe detta a quel modo. Questa si è quella facilità,
che molti avvisano di poter conseguire, ma spesso invano a ciò si affaticano e
sudano. Parliamo del carattere del discorso. Avendovi posti innanzitulli gl’elemenli,
onde si compongono accade ora di ragionare più parlicolarmente delle leggi
della CONVENEVOLEZZA, o sia del DECORO. Come dalla mescolanza de'sette colori
fatta con legge si genera la varietà e la vaghezza nella imagine delle cose dal
pittore imitate, cosi dalla mescolanza degl’elementi predetti, similmente fatta
con legge, nasce la varietà e la venustà della conversazione. Colui che si
facesse ad accozzare e ad ammassare alla rinfusa parole nobili, modi urbani,
mela fore, traslali, igure, sentenze, ec., verrebbe certamente a comporre di
buona materia as sai deforme Perſella riuscirà posizione, allorchè le parole e
i modi e l'armonia e le figure verranno e ben divisale le une con le altre e
lulle insieme, SECONDO I FINI che lo scrillore si propone, secondo la materia
della quale savella, secondo la condizione sua e di coloro che l'odono, secondo
i luoghi in cui parla; chè in queste tutte cose consiste IL DECORO. Dal decoro
nasce la leggiadria, che risplende nelle più belle opere dell'arle, e senza di
esso nessuna cosa al mondo è pregevole. Conciossiachè poi varii sono I FINI speciali,
che lo scrittore si propone, varii i subbielli, di che può ragionare, varie le
umane condizioni e le circostanze, conseguita che varii pur sieno i generi e le
specie de' conponimenti per loro proprio carattere distinti. Il qual carattere,
per le cose delle di sopra, definiremo nel modo seguente: Il carattere del
discorso si è la contemperanza degli ele nepli, da ' quali risultano la CHIAREZZA
e l'ornamento, fatta secondo la legge del decoro. E perciocchè la principal
legge del decoro si è quella, che riguarda IL FINE CHE CI PROPONIAMO QUANDO
ALTRUI MANFESTIAMO I NOSTRI CONCETTIi, a questo volgeremo tosto la nostra
considerazione. Chi scrive intende o a convincere o ä PERSSUADERE o dilettare altrui. Secondo questi tre fini
nasceno tre generi di scrivere o tre caratteri si diversi, che vogliono essere
di stigli e particolarmente considerati; cioè il filosofico, il PERSUASIVO, il
poetico. Di questi diremo prima alcuna cosa in generale, indine accenneremo le
specie. In quanto al carattere del discorso filosofico, Ufficio de'flosofi si è
il mostrare altrui la verità, e perciò le loro scritture intendono a fare che
il lettore od ascoltatore non sola. menle venga di buona voglia nella sentenza
a lui esposta, ma che sia costretto anche suo malgrado a vevirvi, che è quanto
dire ch'egli rimanga convinto. Se pertanto ci verrà fallo di scuoprire quella
virtù del linguaggio, per la quale si genera il convincimento, ci saranno
subito manifeste le qualità, onde il carallere filosofico si distingue dagli
altri. Il convincimento si genera nell'animo o qual volta per via de' sensi
percepiamo l’ATTENENZA ſra alcune qualità, e in questo caso diciamo esser
convinti dal fatto, o qualvolta ci vien posta innanzi una serie di proposizioni
insieme collegate e procedenti da una o da più altre conformi a'falli, le quali
si chiamano principii; ed in questo secondo caso diciamo di essere CONVINTI CON
EVIDENZA DI RAGIONE. A costringere l’animo con questa evidenza intendono i
filosofi, ed a tal fine son loro necessarii i vocaboli di singolare
significazione ed i modi precisi; imperciocchè se nella catena delle
proposizioni che formano il ragionamento, una sola vi fosse di perplesso
significato, o che accrescesse o menomasse di un solo elemento iniportante
alcuna idea, si mulerebbero le attenenze delle dette proposizioni, dal che
procederebbe l'errore, come accade nelle operazioni aritmeliche, qualvolta, no
solo numero si ponga iu luogo di un altro, Se agli uomini venisse dalo (che Dio
volesse) di ordinare la lingua italiana a modo che dalle percezioni delle
qualità semplici delle cose fino alle più complesse idee d'ogni maniera non
fosse vocabolo di mal fer ma significazione, non sarebbe malagevole il
ragionare dirittamente in qualsivoglia altra Ina teria, come si ragiona nella
matemalica; inn perciocchè in virtù de'segni ben determinali si verrebbe al
conoscimento delle attenenze delle idee complesse grado per grado fino ai loro
principii; e per tal forma ciascuno potrebbe sempre rendersi certo della
enunciata verità. Da tutto ciò si raccoglie che nella precisione delle parole e
dei modi sta la virtù di convincere; e che perciò essa precisione esser dee la
prerogativa dello scrivere filosofico. L'uso della metafora pertantoe delle
figure può divenire larghissima fonte d'errori, per ciocchè è facile che
l'animo umano ingannato dalle similitudini, di che si formano le metafore, e
commosso dagli artificii travegga, e quindi si faccia a comporre le nozioni,
non secondo la natura delle cose, ma secondo le apparenze e la capricciosa
indole della fantasia. Il sistema del Malebranche, ch'ebbe tanti se.guaci e
disputatori (per lacere di molli altri ) procede da una similitudine. E si
dovrà dunque nello scrivere insegnali vo schivare ogni metafora ed ogni figura,
e renderlo secco e ruvido, come quello de'ma temalici? V'hanno certamente
alcune malerie (e tale è per avventura la ideologia ), le quali richieggono un
linguaggio pressochè simile a quello della geometria o dell'algebra; ma non è
perciò che le altre parti della filosofia, ed anche talvolta la stessa austera
scienza delle idee, non dimandino ornamento sobrio e ve recondo. Niuna materia
filosofica vuol essere molto mollo fregiala, acciocchè il verisimile, in forza
degli artifizii oratorii, non venga ad invadere. il luogo del vero, nė paia che
il filosofo voglia invescare e prendere altrui: nulladimeno è necessario che a
quando a quando l'intelletto del leggitore, affaticato dal lungo ragionare,
trovi riposo, e venga alleltato, senza che la esposta verità rimanga oscurala.
Perciò il filosofo collo schivare le parole barbare, rance, oscure e
disarmoniche toglie ogni ruvidezza al suo discorso, e gli da grazia e
leggiadria convenevole co' modi urbani e gentili, colle vereconde metafore
scelte a maggiore schiarimento di quanto per le parole ben determinate e
espresso; colla BREVOTÀ e colla varietà de'modi, con alcune naturali figure,
quale sarebbe l'interrogazione, e specialmente coll’armonia facile e piana, e
con tutti gli allri modi naturali alla temperata favella. Questo carattere
filosofico e si ben divisato da CICERONE, che io stimo convenevole cosa di
recare le sue parole temperata e famigliare è l'orazione de’ filosofi: non è
composta di modi popolari; non è legata a cerle regole d'armonia, ma discorre
liberamente. Niente sa d'iralo, niente d'invidioso, niente di inirabile, niente
di astuto. Casla, vereconda, quasi pudica vergine, onde piuttosto ragionamento
che orazione può nominarsi. Parliamo del discorso di carattere PERSUASIVO o PROTETTICO [Grice –
‘protreptic’]. Poichè abbiamo dato contrassegno del carattere filosofico,
veniamo a fare il medesimo della mozzione conversazionale persuasiva. “Persuadere”
(“to influence and being influenced”) segna propriamente far credere altrui
alcuna cosa; dal che manifesto apparisce essere grande la differenza tra il “convincimento”
e la “persuasion”. Perchè siamo CONVINTI è forza che conosciamo ogni
proposizione che compone un ragionamento fino alla prima percezione, dalle
quali dipende il principio fondamentale di quello. Perchè siamo “PERSUASI” basta
che il ragionare abbia per fondamento o l'opinione o l'apparenza o l'autorità
(non come l’intende Courmayeur). Molti dicono, a cagion d' esempio, di essere “PERSUASI”
che il sole si giri intorno la terra, ed altri che la terra si volga intorno al
proprio asse. Gl’uni prestano fede all'apparenza, gli allri al detto degl’uomini
sapienti. Ma di quello che credono non sanno porgere altrui vera dimostrazione.
Da questo esempio, e da infiniti altri, si può vedere che la PERSUASINE non è
sempre generata dal conoscimento – o sceinza, ma credenza -- di ogni
proposizioe che si richieggono nella
dimostrazione, e che per conseguente a trarre le volontà, ed a tenere le menti
del più degl’uomini, non importa semipre il dimostrare sollilmente alla maniera
del filosofo, ma giova di far uso di qualsi voglia verisimile principio: di
comporre imaginazioni che abbiano faccia di verità: di adoperare figure che,
perlurbando l'aninmo di nostro compagno conversazionale, conformino i pensieri
di lui secondo la nostra volontà di guisa, che, se egli sia per venire nella
nostra sentenza, precipitosamente vi corra. Ma tutte queste cose si vogliono
adoperare a modo, che il discorso abbia sempre apparenza di vera dimostrazione;
perciocchè l’uditore di qualsivoglia condizione sempre domanda al conversatore
che sia loro mostra la verità. Converrà quindi dedurre il discorso, per natural
guisa e chiaramente, e da esso rimovere ogni proposizione ed ogni artificio,
nel quale apparisca alcuna ombra di falsità. Primo ufficio del conversatore si
è il provare la sua proposizione nella divisata maniera. Secondo, il dilettare.
Terzo, il commovere; accorgimento si richiede nelle prove; sobrieta dell’ornamento
che intendono al diletto; veemenza nel concitare l’affeto. Con queste arti si perviene a trionfare ed a
governare la volontà di nostro compagno conversazionale. Per le cose dette si
conosce che il conversatore, comechè dice di voler dare esatta dimostrazione di
quanto afferma, questo non fa sempr: del che si può aver prova nella disputa,
che fa in contraddilorin, per le quali talvolta appaiono vere due sentenze, una
delle quali, essendo opposta all'altra, deve di necessità esser ſalsa
(reduction ad absurdum, introduduzione della negazione). Non è dunque l'arte
della conversazione veramente l'arte di dimostrare (prendendo questa parola
nello stretto segnato del filosofo) ma, come la define Dionigi d'Alicarnasso, “l'arte
di farsi credere”. Ma qui potrà per avventura sembrare che, avendo io nel sopra
indicato modo divisata la natura di una mozzione conversazionale persuasiva, de
abbia fat 10 un'arte d'inganno. Chi però cosi pensasse а porterebbe opinione falsissima;
perciocchè non si ſa inganno agl’uomini adoperando a bene quell'arte, che sola
si conſà all'indole della più parte di essi. Pochi sono coloro, che possono
essere falli capaci della verità per via di sollile ed esatto ragionamento;
anzi avviene il più delle volte che, sembrando molti falsissimo il vero e piacesse
a Dio che così non fosse), è forz, per guadagnare l'opinione foro, venire ad
alcuna utile verità per le strade del verisimile; e questo non è certo
ingannare, ma giovare la umana famiglia. Vero ufficio dei conversatori si è l '
usare l'eloquenza non ad inganno, ma per indurre gl’uomini a fuggire il vizio,
a seguitare la virtù e la verità; per metter fine alle conlese, per sedare i
tumulti, per sollevare l'autorità della legge contro il volere di coloro, che
il privato bene antepongono a quello della repubblica: che se alcuni malvagi
intellelli abusano di tutte le arti civili, dovremo per questo sbandirle da
Roma e ricondurre gli uomini a viver di ghiaude? Finalmente e la mozzion
conversazionale di carattere poetico, come in Heidegger. La poesia fou dai
ROMANI inventata per proprio diletto, e poscia dagli autori della vila civile
ad ammaestramento di esso popolo adoperala. Piacque ad aleuni a solo ricreamen
to dell'animo usarla, ma i più nobili poeti sotto il velame delle favole, delle
imitazioni e dei mirabili concetti pascosero la dottrina, e con locuzione
accesa nella fantasia e con soavi armonie si aprirono la strada alle menli
volgari, le quali all'insegnamento dei filosofi sarebbero stale ritrose. Per lo
che niuno può dubitare che chiunque si dispone a fare una mozzione
conversazionale poetica non debba cercare di piacere alla più parte degli
uomini. Questo fece ad imagine degli antichi il nostro Alighieri, la cui divina
Commedia leggevano anche le persone d'umile condizione, e ne traevano documenti
a ben vivere. Questo ſecero l'Ariosto e il Tasso, e cosi dee fare chiunque ha
vaghezza di essere salutato un autore di una mozzione conversazionale poetica. Se
dunque investigheremo quali sieno quei modi che dilettano il più degli uomini,
e quali sieno que' che li noiano, giungeremo a conoscere quali convengano e
quali disconvengano al carattere della mozzione conversazionale poetica. E
primieramente e palese che le espressione apportano diletto e colla materiale
struttura loro e colla qualità delle idea, che recano alla mente; perciò è che
l'essere del carattere poetico dall'una e dall'altra di queste cose dovrà
generarsi. Una delle qualità necessarie alla mozzione conversazionale poetica
sarà dunque la più squisita armonia, onde siano dilettati i sensi ed appagato
l'intelletto in virtù della imitazione. Dell'armonia abbiamo dello abbastanza,
perchè passeremo tosto a dire della natura delle idee dilettevoli. Il diletto
si genera negli animi da ciò che, dolcemente i sensi movendo, fa operare la
mente senza tenerla in fatica: e perciò è che le imagini dei corpi diversi e
tulte quelle cose e que’ concetti, che hanno virtù di risvegliare gli affetti,
ci recano maraviglioso piacere e le idee astratte all'incontro non lo ci
recano, perciocchè, se non sono mollo complesse, fanno lieve impressione
nell’animo; se molto complesse, abbisognano di molta attenzione, e perciò
affaticano la mente. Proprii, saranno dunque del carattere poetico i vocaboli e
i modi acconci a svegliare ad un tempo la rimembranza di molte sensazioni
dilettevoli ed a concitare le varie passioni ed a rendere sensibili coll'aiuto
delle similitudini tolte dalle cose corporee i più sottili concetti della
mente. Cogli aggiunti opportunamente scelti vengono segnata la passione o l’azione,
e gli usi delle cose e le qualità loro proprie, le quali in virtù dei soli nomi
sustantivi non verrebbero all'animo di nostro compagno conversazionale, o ci
verrebbero debolmente; perciò al poeta conviene l'adoperare essi aggiunti più
frequentemente che all'oralore, quale dipinge meno parli colarmente le cose,
siccoine colui che non ha per fine principale il diletto. Colla metafora si dà
corpo a una nozione astratta, coi tropi si pone dinanzi agli occhi della mente
quella sola parte o qualità dell'obbietlo, che prima si presenterebbe al senso
di colui che cogli occhi del corpo il mirasse. Adoperando i predetti modi, si
perviene a dare a’ concetti intellettuali forma sensibile guisa, che nostro
compagno conversazionale, direi quasi, non più per segni percepisce le cose, ma
le vede, e con mano le tocca. Affincho palesemente si vegga questa prerogativa,
che sopra tutt e rende il carattere poetico distinto dagli altri, recherò ad
esempio alcuni concetti intellettuali, convertendoli in forma sensibile. Tutti
i viventi muoiono. La sede del romano impero fu da Costantino trasferitu a Bisanzio
Il popolo facilmente mula consiglio. Quello ch' ei fece dai tempi di Romolo,
sino a quello dei Tarquinii. Quello concetto si dice intellettuale, siccome
quelli che si denno giudicare secondo il segnato proprio di ciascuna parola;
sensibili saranno, qualvolla sieno espressi di maniera che giudicare si debbano
secondo l'apparenza o la similitudine, siccome divengono i predelti Trasformandoli
nel modo seguente. La morte batte egualmente alle capanne de poveri ed a’
palagi de’ re. Posciachè Costantin lo quila volse contro il corso del ciel, che
la seguiu Dietro quel grande, che Lavinia Wolse. Infida è ľaura popolare. E
guel cliei fe' dal mal delle Sabine Al do Tor di Lucrezia. Queste finzioni che
assai di lettano, e perchè contengono manifeste similitudini e perchè racchiudono
veri intellettuali concetti, sono talmente proprie della mozzione conversazionale
poetica, ch'elle sarebbero sconvenevoli nei discorsi, che non hanno per fine
primario il diletto. Come queste poi si addicano più a cerle specie, che a
certe altre, vedrenio a suo Juogo. Ora bastea di avere in genere contra-segnata
la natura del carattere poetico, onde apparisca che tengono mala strada coloro,
i quali cercando "fama tra i poeti fanno pompa ne’loro versi di dottrina e
di soltile ingegno, ed espongono i loro pensieri con ordine troppo minuto e
distinto. I concetti che si cavano dall’intrinseco della filosofia, recanó seco
molta oscurità e difficoltà, specialmente quando vengono segnato co' vocaboli e
commodi loro proprii, e perciò sono contrarii al diletto, che è il fine del
poet, o, come altri vuole, il mezzo necessario ad indurre il giovamento. E
quando si dice che il poeta dev'essere filosofo, non si vuol dire che a modo
dei filosofi debba scegliere, ordinare e segnare il concetto, ma che egli usi
molto di filosofia nello scegliere le materie più utili agli uomini, e nel dare
a quelle e forma e veste conveniente alla natura di ciascuna. Che se talvolta egli
vorrà togliere alcun concetto dalla filosofia, lo toglierà dalla superficie e
non dal profondo seno di lei, in quel modo, che ha fatto il Petrarca, qualvolta
si è giovato della filosofia di Platone, come si vede nel seguente esempio. Per
le cose mortali, che son scala al fattor chi ben le stima, D'una in altra
sembianza potea levarsi all'alta cagion prima. E in altri luoghi moltissimi si
vede con qual arle e cautela dalla flosofia nella poesia egli abbia trasportati
i concetti, gli abbia temperati ed ornati, sicchè non hanno nè ruvidezza alcuna
nè oscurità, ma naturalezza, novità, e magnificenza, che sono qualità popolari,
che è quanto a dire poetiche. C’e una e altra specia del discourse di carattere
filosofico. Le materie, intorno le quali cade l'insegnamento, sono: la
matematica, la fisica, la metafisica, la morale, la politica, l'arte oratoria e
la poetica, le arti liberali e le meccaniche, e tutte le conoscenze che da queste
principali procedono, ciascuna delle quali essendo più o meno astratta,
richiede o maggiore o minore soltigliezza d'ingegno e forza di attenzione in
chi le consider: per la qual cosa interviene che dovendo i conversatori usar
parole e modi con venevoli alla natura di ciascuna delle dette materie, ne risultano
diverse specie di caratteri insegnativi più o meno austeri. Rispelto poi alle
persone, cui vuolsi mostrare la verità, giova osservare che elle sono di due
maniere. Alcune letterale ed alcune mezzanamente istruite. Alle prime, che sono
avvezze al ragionamento, si converrà stretto sermone: più diffuso alle altre,
le quali hanno bisogno che le cose sieno esposte loro per minuto, ed anche
talvolta per via di similitudini e di esempi chiarile. Per tal cagione il
discorso filosofico prende spesso alcuna delle forme del persuasivo, senza mai
perdere però la precisione, che forma l'essenziale sua proprietà. Di tal sorta
sono molte mozzione conversazionale indirizzati all'insegnamento de' giovani, e
i dialoghi e le epistole filosofiche, le quali vengono usate affinchè certe
materie depongano alquanto della nativa loro austerità, ed allin cbè i
conversatori affaticati trovino riposo nelle digressioni e in altre parti
accessorie. C’e una e altra specia di discourse di carattere pesuasivo o
protrettico. Se al mondo fossero uomini dirittamente sapienti e perfettamente
savi, sicchè astuzia e lusinga di oratore non potessero negli animi loro, vana
riuscirebbe l'arte del persuadere, perciocchè tutti richiederebbero di essere
convinti con precisa e poco adorna favella: ma Blo non sono quaggiù nel mondo
cose perfette, e perciò è che, sebbene tutti gli uomini avvisando di poter
essere condotti alla verità per via di vera dimostrazione, sdegnino i manifesti
artificii; pure non v'ha alcuno, che vaglia a resistere alla seduzione di
astuta eloquenza; dal che si ricava che l'arte del persuadere si può adoperare
con ogni sorta di persone; po pendo menle però che quanto maggiore negli ascoltanti
è l'aculezza dell'intelletto e la sapienza, altrellanto esser deve la cura
nell'ora tore di occultare l’artificio. Dovranno dunqne i modi del discorso
persuasivo tanto più avvicinarsi a quelli del filosofico, quanto piu le
persone, cui si favella, sono sapienti ed arcorte; ed all'incontro tanto più
dovranno lingersi, direi quasi, del COLORE (Farbung) poetico, quanto nel
conversatore è minore l'altitudine ad argo nentare sottilmente: e la ragione di
questo si è che, a misura che negli uomini manca l'acı fezza dello intelletto,
cresce la forza della fan. tasia, dell'opinione e delle passioni. Ma no è
perciò che, anche favellando a sì falte persone, debba l'oratore ornare il
discorso d'imagini fantastiche a modo che esso perda le apparenze della buona
dimostrazione; essendo che' il popolo stesso, il qual pure, come è detto,
presume di sapere ragionare sottilmente, sde gna quella orazione che gli par
vuota di ragioni. Dovrà dunque il discorso persuasivo aver sempre l'aspetto di
vera dimostrazione; ma colale aspetto poi sarà diverso, secondo la maggiore o
minor perspicacia delle persone, che si vogliono persuadere, le quali si
possono dividere in tre schiere. La prima è degli uomini letterati: la seconda
degli uomini che banno convenevole discrezione di mente: la terza del popolo
basso. Per le quali tre schiere tre specie di carattere PERSUASIVO procedono.
La prima partecipa alquanto delle qualità del genere filosofico: la terza di
quelle del poelico: la seconda è stile medio e media fra le due. Della prima
specie e l’allegazione, che l’avvocato pronuncia al cospetto de' giudici; della
seconda i discorsi morali, la storia, l’elogio, ed altre opere intese a
persuadere circa il giusto e l'onesto le persone discrete; della terza la
predica e la allocuzione e il parlamento, che si fanno al popolo ed a; soldati.
Siccome poi varia si è la condizione delle persone che favellano, e varie le
cose di cui si può favellare, interviene che secondo queste e quelle verrà il
carattere PERSUASIVO a dividersi in altre specie: e perciocchè le per le cose
si possono considerare di tre ragioni, cioè di nobili, di mezzane e di umili,
piacque a' retorici di restringere sotto tre soli nomi i molli membri del
carallere persuasivo, e questi sono: il sublime, il temperato ed il tenue. Che
a ciascuna di queste specie si addicano e voci e modi particolari, è facile
comprendere e chi non vede che al discorso rivolto a celebrare le lodi di un
eroe o di un sapiente si convengono maniere diverse da quelle, che sarebbero
accomodate a descrivere o a lodare l’amenità della villa? Che la lettera
famigliare intenla a persuadere qualsivoglia verità ad alcuno, dev'e di natura
diversa dall' orazione che tralla della cosa medesima? Paren sone e I 2 domi
che qui non sia bisogno di allargarsi troppo in parole, una sola cosa ricorderò,
cioè, che von solamente si addicano a cfascuna spe. cie particolari maniere, ma
ancora particolare collocazione di parole e particolare armonia. Imperciocchè
l'animo di chi favella, essendo secondo i varii casi o tranquillo o perturbato,
o elevato o umiliato, non è dubbio che, nel seguitare questi diversi affetti,
variamente si devono ordinare le idee, e colle idee le paro le, e che
similmente dee variare l'armonia, se vero è ch'ella soglia naturalmente,
qualvolta favelliamo, accompagnare i moti dell'animo, Oltre di che vuolsi
considerare che que' che parlano alla moltitudine, o scrivono cose da
proferirsi ad alla voce, sogliono muoverla e modularla con diverso andamento da
quello che userebbe colui, il quale famigliarmente ragionasse e tranquillamente
in angusto loco alcun fatto narrasse; e perciò il ritmo di que ste due specie
di favellare è fatto diverso dalla necessità di pronunciare a modo, che le
nostre parole sieno ascoltate volentieri, e quan do in luogo pubblico di gravi
negozii a molti parliamo, e quando in camera a pochi di qual sivoglia materia.
Quale sia poi quella deter minala armonia, che in ciascun caso convenga,
insegnare uon si può. Qui basti l'avvertimento, chè l’esempio de classici
scrittori assai meglio ne può ammaestrare. Penso che sia convenevole cosa il
collocare fra le specie del carattere persuasivo anche quello che si addice
alla istoria; e ciò per le seguenti ni. Uſlicio dell'istorico si è di produrre
coll'insegnamenlo la prudenza civile e militare, il che si ottiene col porre
innanzi all ' animo del lettore i fatti importanti e le cagioni e gli effelli
di quelli. Al qual line, è mestieri di descrivere avvenimenti d'ogni ma piera e
particolari e generali, assalti, uccisioni, incendii, battaglie, saccheggi,
trattazioni, páci congiure, delilli e
virtù; di palesare nelle concioni poste in bocca ai re, ai magistrati, ai
capilani, i gravi consigli e i documenti della politica; di esprimere i
caratteri delle passioni, e di usare le più luminose sentenze. Le quali tulle
cose vogliono essere significate con modi che varino secondo il variare della
maleria. Comechè uguale a sè medesimo sia sempre il carattere della storia,
cioè grave, siccome si addice a chi le gravi cose racconta, certo egli è che
secondo la differenza degli avvenimenti dovrà variare nel sostenersi e nello
innalzarsi, ed apparire nelle concioni più alto ed eſti cace, nelle descrizioni
più ameno ed ordinato, e spesso più veemenle nella persona degli uo mini ivi
introdolli a parlare, ma sempre temperato in quella dello scrittore, che da
ogni parteggiare dee mostrarsi lontano. Non può dunque convenire al caraltere
storico nè l'autorità filosofica, la quale sarebbe contraria alle malerie, nè
la poetica pompa, che torrebbe fede alla narrazione; perciò é forza che gli
sieno proprie le prerogative generali del ca. rattere persuasivo, dal quale
differisce sola mente per le qualità speciali di sopra accennale. C’e una e
altra specia del discourse di carattere poetico. Se ſu bisogno dividere in
alcune specie il carattere persuasivo a cagione della maggiore o minore
altitudine delle menti umane a di scerncre la verità, ciò non occorrerà circa
il carallere poetico; imperciocchè tanto gli uo. mini di sottile ingegno,
quanto quelli, in cui la fantasia prevale all'intelletto, hanno tulli dinanzi
al poela una medesima disposizione. Se il popolo porge orecchio alle finzioni
noe. tiche, quasi come a cose vere, i sapienti le riguardano come simboli della
verità e quasi come leggiadri sogni della filosofia, e in questo loro dolce
ricreamento sdegnano ogni austerilà e fino l'apparenza delle faticose forme
filoso. fiche. Perciò è palese che il poeta rivolge sem. pre le parole ad
vomini, i quali, sieno di qual sivoglia condizione, amano che la mente loro şia
condotta ad operare senza fatica. Da que. sto si ricava che ogni specie di
carattere poe tico dovrà avere sempre la prerogativa di schivare, come dicemmo
di sopra, le idee che tengono in falica l'intelletto, e rappresentare quelle,
che vestile di forme sensibili, eserci. citano la imaginativa. Non sarà dunque
diviso in ispecie questo genere per rispelto della diversità degl'intel letti,
ma della condizione del poeta o delle persone che introduce a parlare, e delle
varie cose, che ei ſa subbietto del canto. Ma, prima di entrare in questo
proposito, parni che sia da togliere una falsa opinione circa la natura della
poesia. Sono alcuni i quali avvisano che 115 ma il l'essenza di lei consista
nel metro, e fra que sti è il Melaslasio, il quale nella sua esposi zione della
Poetica d'Aristotele sostiene che la lavella metrica, per essere l'istrumenlo
con che l'imitazione si fa, ne forma l'essenza. Ma io domanderei voleplieri a
coloro che cosi la pensano, qual nome vorrebbono dare all’ENEIDE tradolla in
favella sciolta dal metro? Le daranno per avventura nome di prosa?
L’espressione “prosa” altro non segna che discorso senza metro, e per ciò
verranno a dire solamente che quell'illustre racconto è fatto sce. mo di quella
sola qualità, di che grandemente si diletta l'orecchio, ma non già di tutte le
altre, che stabiliscono la natura dei discorsi composti a fine di diletto. Dal
che appare manifesto che un altro general nome è bisogno per distinguere i
discorsi composti per dilettare. E quale è a ciò più accomodalo vocabolo che
quello di poesia? L’espressione “poeta”, secondo sua origine, significa facilore
o vogliam dire fabbricatore; e perciò poesia sonerà lo stesso che fabbricazione
o finzione, e tali sono di necessità quasi tutti i discorsi, che si compongono
a fine di dilellare, essendo che il nudo vero non è dilettevole sempre e in
ogni sua parle: perciò Varchi dice nell'Erco laro, che il verso non è quello
che faccia principalmente il poeta; e che Boccaccio talvolla più poeta si
mostra in una delle sue Novelle, che in tutta la Teseide. Ed Orazio afferma che
a distinguere la poesia da ciò che essa non è, basta disgiungerne le membra,
cioè loglierle il metro, e allora si vede manifestamente che il carattere non
le si toglie. Conchiudiamo pertanto, che il metro induce diſſerenza di specie
ma non determina la natura del genere; e stabiliamo che a tutti i discorsi che hanno per fine il dilettare con metro o
senza, si conviene il nome di “poesia”. Ora veniamo alle specie. Talvolta il poeta
rappresenta la persona d'uomo, che cantando, dice laudi degli Dei e degli Eroi;
talvolta quella, ch'esprime i moti dell'allegrezza, dell'affanno o dell’amore,
o solamente gli scherzevoli con cetli. Le poesie di questa maniera solevano
dagli antichi essere cantate sulla “lira,” e perciò presero il pome di “lirica”,
e tuttora il conservano. Varie essendo le passioni e le cose che esprimere si
possono dal conversatore lirico, interviene che ancora il canto si divide in
varie specie, che tutte poi si riducono a tre, come nel carattere persuasivo:
cioè al sublime, al mediocre ed al tenue. Ciascuno di questi canti ha qualità
sue proprie. Magnificenza e gravità di mod, di sentenze e di arinonia, e splendore
d'illustri parole e di concetti fantastici convengono a chi celebra le laudi
degli Dei e degli Eroi, ed esprime alte e generose passioni: più tenui maniere
e parole e più soave armonia a chi esprime gli affelli meno gravi e canta di
subbielli meno nobili: quegli poi, che dice i mili affetti o gli scherzi o le
umili cose, avrà nelle sue parole piacevolezza e semplicità da ogni fasto
lontana, ed armonia soave e varia, ma sempre tenue. Alla detta varietà
d'armonie, mirabilmente poi servono i metri, alcuni de' quali portano
secofl'umiltà, altri la mediocrità, altri l'allezza dell'armonia. Sono molti
esempi di questa varietà in Petrarca, Si ponga mente ai modi, al metro, al
ritmo delle due canzoni d'amore, una delle quali comincia, Chiure, fresche e
dolci ucque; e l'altra, Di pensiero in pensier, di monte in monte; e si vedrà
la prima essere in tutte le sue parti piena di soavità, di gentilezza e di grazia,
e l'allra di robustezza e di gravità. Talvolta il poeta narra gl ' illustri
ſalli; tal volla i mediocri; e talvolta i piacevoli: indi si generano i poemi
epici, i romanzi, i poemi burleschi e le novelle. Talvolta poi introduce a
parlare o le persone illustri o le mediocri o le umili, e quindi provengono le
tragedie, le commedie, le egloghe pastorali e le pisca torie. Ognuna di queste
specie, siccome è pa lese, ha modi ed armonia convenevole alla maleria ed alla
condizione delle persone. Perciò è che il poeta, specialmente nella tragedia,
nella commedia e nell' egloga, ove se medesimo nasconde introducendo altri a
par lare, dee rendere alquanto umili i modi, l'ar monia di guisa, che lo
spettatore, ascollando le tragiche persone o le coniche, abbia a dire: così
parlerebbero gli uomini di questa o di quella condizione, se loro naturale
favella fos sero i versi. Giovi questo generale avverli mento, perciocchè non
si possono mostrare i certi limili, fra i quali dee slarsi ciascuna spe 118 rie.
Tutte hanno nell'intero loro corpo faltezze particolari, alle quali colui che
ben vede di stintamente le raffigura: pure a quando a quando or questa or
quella viene a parteci. pare dell ' altrui colore di guisa, che l'epico nelle
forti passioni innalza le parole e i modi al pari del cantore degl'inni; e il
più sublime lirico parra alcuna volla, siccome fa l'epico. Lo stesso interviene
delle allre specie, fra le quali per fino la commedia talora si leva a
gareggiare colla Tragedia, e la tragedia al dire l'Orazio, spesso, si duole con
sermone pe destre. Nelle opere dell'arle, siccome in quelle dels la nalura, si
scorge infinita diversilà, ma per questa spesso non è tolto che moltissimi indi
vidui della medesima specie, sebbene molto dissimili, non sieno egualmente
belli e prege voli. Questo vedesi manifestamente per le la vole colorite da'
celebri dipinlori, de'quali uno essendo il fine, cioè quello dell'imitare la
bella natura, non in tutti una apparisce la sembianza del loro dipingere.
Raffaello, Correggio, Domenichino, Caraccio, Tiziano e Paolo, i quali cerlo non
mancano nelle regole invaria bili dell'arte, sono fra loro assai differenti.
Tutti mostrano invenzione lodevole e lodevole composizione, belle forme, ben
disposto colo. rito e conveniente a ciascuna cosa: tutti esprimono i costumi e
gli affelli, ma ciascuno d'essi ſa delle predette e di altre virtù una cotale
mislura, che siamo condolti a dire che nessu. 1 Til no di loro ha la maniera
dell'altro, comechè Tulli sieno eccellenti. Questa, che i pillori chia mano
maniera, è similmente comune a' filosofi, agli oratori, agli storici ed
a'poeli. Quanti scriltori sono tenuli meritevoli di pari commendazione, sebbene
tale fra loro sia la diſſerenza, che spesso ciascuno solamente a sè me, desinio
ed a nessun altro assomiglia? La rinsposizione dell'ingegno e delle affezioni
dela l'animo, che in ciascun uomo è diversa, è cagione che le dette maniere sieno
di numero pressochè infinito. Alcuno de' famosi scriitori ha il pregio della
perspicuità, alcuno della eleganza, allri della grazia, altri dell'aculezza.
Questi è grave e maestoso: quegli delicato e molle: chi è breve e robusto: chi
copioso, chi úrbano e chi veemente: ma tali poi sono tutti, che, se alcuno di
noi desiderasse di ottener gloria di ottimo scrillore, sarebbe incerto a quale
di loro volesse essere somigliante. L'accennata maniera particolare, per la
quale ciascuno scrittore è distinto dagli altri, si è quella che gli antichi
chiamarono “stile” (cf. Tannen, Conversational style), prendendo questa voce
dall'istrumento che per iscrivere adoperavano. La stessa parola “stile”, presa
più largamente che non fanno i filosofi, segna comunemente il carattere in
genere o in ispecie: ma è palese che, filosoficamente parlando, si è bene d'usarla
nel senso leste dichiarato. Ond'è che assai propriamente diremo in generale,
carattere filosofico, caruilere persuasivo o poetico; ed in ispecie carattere
oralorio, lirico, epico, tragico, sublime, medi cre e tenue: e stile di
Demostene, di CICERONE, di Ortensio, di Omero, di VIRGILIO: percioc chè nei
primi fu il solo carattere persuasivo, negli altri il poelico; ma in ciascuno
ebbe una particolare maniera, che modificando il carattere, l’essere suo non
gli tolse. E chi volesse invesligare le cagioni da che proceda colale maniera,
che stile si appella, vedrebbe ch'elle sono le qualità dell'intellello, della
fantasia di ciascuno scrillore, e le qualità degli affetti, a cui egli ha l'
animo disposto: laonde volendo dare alcuna definizione dello stile, paroi che far
si potesse nel modo seguente. Lo stile si è il carattere modificato secondo le
qualità dell'intellelto, della fantasia e degli affelli dello scrittore. Parliamo
sommeramente del modo di acquistare la qualita necessaria a conversare
civilmente. Ora che abbiamo poluto conoscere che cosa sia lo stile, non sarà
indarno l'investigare co me si possa acquistare forza, grazia e vaghezza nello
scrivere; e che è quanto dire come si possa formare lo stile convenevole e
pulito. Se lo stile si genera per la qualilà dell ' in tellelto, della fantasia
e degli affetti dello scrit tore, vera cosa è che, a formarlo convenevole e
pulito, bisognerà rendere perfette le mento vate tre cagioni il più che si può.
L'uomo nasce fornilo dell'intelletto, cioè della facollâ di sentire, di
percepire, di alten. dere, di paragonare, di giudicare, di astrarre, di
ricordarsi, di imaginare, ma d'uopo è che queste lacollà vengano poscia diriltamente
usate ed esercitale, onde sia generala quella virtù pressochè divina, che si
appella la ragione, la quale consiste nell'abito di. paragonare in sieme i
sentimenti distinti dell'anima e le idee, di derivar dai falli pariicolari le
nozioni gene. rali; di anteporre o posporre le une alle altre, di congiungerie
o di separarle, secondo la con venienza o disconvenienza loro, e secondo i loro
gradi di più o di meno. A formare que sl’abito, sarà bisogno di studiare le
opere de' filosoti, che trattano soltilmente delle cose na lurali, delle
proprietà dell'intelletto e del cuore umano; di apprendere l ' istoria, senza
la co gnizion della quale, al dire di Cicerone, l'uo mo si rimane sempre
fanciullo; di osservare la nalura, di pralicare fra le diverse condi. zioni
degli uomini, e di operare ne privati negozii e ne' pubblici. Ad arriccbire
l'imagi. nativa, la quale è l'abito di recare all'animo la reminiscenza delle
qualità sensibili che più ci muovono e dilellano; di congiugnere insie me con
verisimiglianza quelle, che sono di. sgiunte in nalura, e di significare per
siinili tudine delle cose corporee i concelli astralli, non solo metterà bene
di leggere gl'inventori di nuove e vaghe fantasie, ina di por menle a tutto ciò
che ai sensi porge diletlo, sia nelle azioni degli uomini e degli anigali sia
nel l’esteriore aspelto e movimento delle cose inanimate; e soprattullo gioverà
di ben con siderare le somiglianze che fanno fra loro le cose di qualsivoglia
genere e specie; chè que sto si è il fonte, dal quale si derivano le vuo ve e
maravigliose metafore. Di molla ulilità sarà poi all'intellelto ed
all'immaginativa lo sludio de' precelli dell'arte oratoria e della poetica, i
quali, essendo il compendio di quanto ove i filosofi hanno osservato intorno le
cagioni, onde piacciono e dispiacciono le opere degli scrillori, apportano
quella luce, che un uomo solo nel breve spazio della vila studierebbe indarno
di procacciarsi colla sola virtù del proprio ingegno. Vuolsi però sull'osservanza
de'precelli avvertire ciò che nell'arle poetica osserva Zanotti; cioè che le
cagioni del piacere e del dispiacere trovate da’ filosofi, essendo cagioni
universali ed indeterminale, mostrano bensi i luoghi, non vogliono che si
ecceda o si manchi, ma non prescrivono poi a qual segno si debba giugnere o
rimanere, per non ecce dere o non mancare; ond' è che, a fare buon uso del
precello, è bisogno di quella discre. zione, che si acquista con lungo sludio e
fatica. Rispetto agli affelli, io mi penso che, sel) bene sieno da natura, pure
a conciliarli in al trui grande aiuto si possa trarre dall'arte. Se l'amore,
l'odio, l'ira, la mansuetudine, la misericordia ed allre affezioni dell'animo
na. scono da cagioni determinale, come per eseni. pio l'amore da bellezza e da
virtù, l’odio da male qualità del corpo o dell'animo altrui, non v'ha dubbio
che gli aſſelti medesimi si deb bono in chi legge risvegliare per virtù della
viva' rappresentazione di quelle cagioni: dal che si raccoglie che lo
scrittore, considerando le varie disposizioni degli uomini passionali, e le
cagioni, per le quali la passione si genera, avrà materia onde gli animi
perlurbare. Cosi per aiuto dell'arte verrà ad operare in altrui quell'eſello, che
imperſellamente avrebbe operalo mercè della sola naturale sua disposi. zione.
Da quanto è dello apparisce che la scienza avvalora l'intellelto e
l'immaginativa, ed aiuta a muovere gli affetti, e che perciò ella si è il fonte
dello scrivere rettamente. La scienza poi è generala negli umani intellelli da
due cagioni: queste sono: la naturale disposizione delle organo corporale e
l'azione delle cose esterne sopra di esso; sì falte ca. gioni sono di necessità
diverse in ciascuno; perocchè non è da credere che si possano tro vare due
corpi nella stessa maniera conforma li; ed è poi certamente impossibile che uno
riceva dalle cose esterne nell'animo le mede sime impressioni che un altro. Per
la qual cosa avviene che diversa in ciascuno si generi la scienza, e quindi
diversa la forza dell'in gegno e dell'imaginaliya, diversa la qualilà degli
affetti, e per conseguente anche lo stile, che da queste procede, deve riuscire
diverso. Dal che si vede che imprendono opera dispe rala coloro, che si affaticano
ad imitare lo stile d'altri. E alcuni pur sono che andando passo passo sull'
orme di ALIGHIERI, del Petrarca o del Boccaccio, avvisano alla costoro gloria
di per venire; ma le opere loro per verità, in fuori di un poco di pulita
buccia, niun sugo hanno. Che cosa dovremo dunque apprendere dagli scrittori?
Rispondo che si vuole apprendere la lingua e i modi acconci ad esprimere chia
ramente, ornatamente e convenevolmente i no stri concelli. Da questo scrillore
ci sludieremo di procacciare una cosa, da quello un'altra, a seguileremo sempre
la nostra natura, secondo l'esempio di Dante, il quale lasciò scritto di sè: lo
mi son un che, quando amore spira, nolo, ed a quel modo che delta dentro, vo
significando. Che se allrove disse a VIRGILIO: Tu se' lo mio maestro e lo mio
autore, Tu se' solo colui, da cui io loisi Lo bello stile, che mi ha fallo
onore, non intese già d'avere tolto al maestro la ma niera propria di quel
poeta, ma sibbene la qualità, onde il carattere poetico é differente dal
filosofico e dal persuasivo. E chi è che pon senta la differenza che è dallo
stile di Dante a quello di Virgilio? Rimane per ultimo a dire degli autori, che
coloro che amano di scrivere nell'italiana favella, devono scegliere a maestri.
Nulla dirò dello studio della lingua greca e della latina, perciocchè essendo
notissimo che nell'una e nell'altra scrissero coloro, che insegnarono a tutto
il mondo, e che questa nostra da quelle procede, ciascuno conosce di per sé
quanta ulilità trarre se ne possa. Mi ristringerò dunque a fare alcuna parola
de' solo il conversatore italiano, che agli altri si devono preporre. E prima è
a sapere che nel secolo XIV alcuni prosatori ed alcuni poeti diedero al volgar
nostro tanta proprietà e grazia, che nessuno ha poi polulo eguagliarli: che nel
secolo XV questo volgare ſu quasi abbandonalo per soverchio amore della lingua
latina e per pusillanimità degli uomini d’Italia: che nel secolo XVI ſu dal
Fortunio e dal Bembo ridollo a regole deter. minate; e da molti ſu nobilmente
adoperato in varii generi di scritture: che nel secolo XVII fu da talupo
acconciamente impiegato ed ar ricchito di voci perlinenti alle scienze, fu da
alcun altro scrillo con eleganza, ma venne da moltissimi in parte corrotto e
rivolto in vanilà di falsi concelli: che nel XVIII finalmente ſu da pochi bene
usato, e da moltissimi con pa role e modi forestieri vituperato. Tale essendo
stata la fortuna di questa bellissima lingua, chi potrà dubitare che oggi non
sia a noi sa lutevole il consiglio, che ci porgono gli uomini sapienli, cioè
quello di studiare agli antichi esemplari? Se nel buon secolo della lingua la
lina si stimava essere opera di gran probllo ai giovani il molto leggere gli
antichi scrittori del Lazio, quanto maggiormente non si dee credere che lo
studiare i nostri sia per giovare a noi, che viviamo in un secolo, ove gl'ita
liani, pressoché tutti, più delle cose forestiere che delle proprie
dilettandosi, scrivono sì, che punto non pare alle loro scritture che sieno
stali allevati in Italia? Verissimo si ė (anche parlando delle arti) quello che
dicono i politi ci, cioè che qualvolta le cose sieno pervenule a corruzione,
bisogna richiamarle ai loro principii. Questa sentenza dovrebbe essere dinanzi
all'animo di tutti coloro, che amano il profitto de' giovani nelle lettere
umane; pure sono al cuni cbe, deridendo coloro che studiano i lesti della
lingua, dicono essere sciocchezza il darsi tanto pensiero delle parole ogni
qualvolta si 1centisti, abbia cura dei concelli; come se il recare alla mente
altrui i nostri concelli non dipenda dalla virtù di ben accoviodate parole.
Colali persone, avendo posla loro usanza o ne' soli domestici negozii o in
alcuna scienza o arte, nè mai data opera allo studio della lingua, vilipendono
ciò che non conoscono, e perciò, non avendo au. torità, non meritano alcuna
risposta. Tutti gli uomini di mente discreta non si maraviglie ranno, se qui
vengono consigliati i giovanetti a studiare prima nelle opere de’ trecentisti,
ne’ quali è dovizia di vocaboli proprii e di forme gentili, e chiarezza e
semplicità e urba nità e maravigliosa dolcezza, ed a riserbare agli anni loro
più maturi lo studio dei cinque che scrissero eloquentemenle di cose gravi e
magnifiche. Ma per avventura alcuno dirà: non dobbia. ino noi essere intesi
dagli uomini del nostro secolo e cercare di piacer loro seguendo l'usanza?
Perchè dunque vorremo che la gioventù studii ancora quelle opere, ove si
trovano, ol tre le voci ed i modi, che sono fuor d'uso, e barbarismi e
pleonasmi e solecismi ed equivocazioni, e talvolta negligenza e stranezza nel
costrutti? Perchè non vorremo consigliarla piullosto a leggere i soli scrillori
del cinquecento, i quali seguitando le regole grammati. cali dettate dal
Fortunio e da Bembo, non solo scrissero correttamente, ma trattarono eloquen
temente di varie ed importanti materie? A queste obbiezioni risponderemo che si
dee se guire l'usanza, del buon conversatore, l'usanza del volgo; che non si
vuole negare che in molle opere del trecento non si trovino ma non fra la copia
delle maniere proprie, nobili e graziose, varii difelli; ma che per questo non
ci rimarremo da consigliare la gioventù di avere sempre caro sopra tutti quel
secolo beato, e di leggere per tempo i suoi eccellenti scrittori, poichè ci
teniamo certi che quanto è difficile il rendersi famigliari e domestiche le
maniere native e gentili, altrettanto è facile di perdere l’abito di peccare
contro la grammatica e contro l’uso. La predetta virtù non si può acquistare se
non con lungo esercizio: il diſello si può togliere assai agevolmente dopo lo
studio della grammatica, e dopoche per la filosofia e per la erudizione ci
verrà dato di ben conoscere il valore delle parole e di ben distinguere la
lingua nobile dalla plebea, e le maniere, che per vecchiezza ban no perduta la
grazia e la forza pativa, da quel le che sono ancora belle ed efficaci. Quanto
allo studio de'cinquecentisti, non du bitiamo che ei sia per essere ulilissimo,
essen do che molli eccellenti scrittori di quel tempo adoperarono la lingua,
che appresero da Alighieri, da Boccacio, da Petrarca e dagli altri tre centisti,
emulando mirabilmente i romani in molli generi di scrilture: ma teniamo per
ſermo che convenga alla gioventù di avvezzarsi al candore ed alla semplicità
del trecento prima di cercare lo splendore, la ma gnificenza, la copia e
l'altezza de' pensieri nei cinquecentisti. Perciocché lulti coloro, che sfor
zano di parere magnifici e splendidi primaché dalla filosofia sieno ſalli
ricchi di cognizioni, fanno l'orazione loro bella nella buccia, una
nell'intrinseco vana e puerile. Non potendo i giovanelli esprimere con verila
se non quei pensieri e quegli allelli, che sono proprii del la tenera età,
troveranno assai comodale al bisogno le parole ed i modi usati da'trecentisti,
la più parte de'quali, come que' che vissero nell'infanzia dell'italico sapere,
scrissero di tenui materie. Verrà poi quel tempo maturo, in che a'giovani farà
mestiero di alzare a'gravi concelli lo stile, ed allora apprenderanno da
Guicciardini gravità e nerbo; dal Segretario fiorentino sobrietà ed evidenza;
dal Carocopia, efficacia e gentilezza; da Casa splendore e magnificenza; da GALILEI
ordine e precisione; d’Ariosto e da Tasso i pregi lulli, ond' ė divina la
poesia. Ma allo studio di quesli e degli altri molli, che fecero glorioso il
secolo di papa Leone, non avranno l'animo ben di. sposto se non coloro, cui
prima sarà piaciuto di allingere ai puri fonti del trecento, da'quali
derivarono i sopraddetli abbondantissimi fiumi. Questo, o Giovani, è quanto ho
stimato op portuno di porvi dinanzi per indirizzarvi nel cammino delle lettere,
alle quali inolti vanno per vie distorte e per lo contrario. Vi ho mo strato
quali sieno gli elementi dell’ELOCUZIONE; come nel contemperarli secondo le
leggi del decoro si loronino i varii caratteri; e final. mente come lo stile
proceda da naturale di sposizione e come col sapere si perfezioni. Darò fine
coll'avvertirvi, se vero è che la scienza e l'esempio fanno l'arte, è vero
altresì che arte senza uso poco giova: onde, se dallo stile cercate onore, vi
sarà bisogno di neditare mollo, di leggere molto e di scrivere mollissimo. Ricerca
Sinestesia (figura retorica) Questa voce sull'argomento retorica è solo un
abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. La
sinestesia (dal greco syn, 'insieme', e aisthánomai, 'percepisco') è una figura
retorica, in particolare un tipo di metafora ("metafora
sinestetica"), che prevede l'accostamento di 2 parole appartenenti a due
sfere sensoriali diverse.[1] Ha largo uso in poesia ed in genere nella
versificazione: «L'odorino amaro» (Giovanni Pascoli, Novembre.)
«Voci di tenebra azzurra.» (Giovanni Pascoli, La mia sera.) «Venivano
soffi di lampi.» (Pascoli, L'assiuolo.) «Urlo nero» (Salvatore
Quasimodo, Alle fronde dei salici.) Tra le canzoni, si può citare Il sogno di
Maria di Fabrizio De André: «Quando mi chiese: "Conosci
l'estate?" io per un giorno per un momento, corsi a vedere il colore del
vento.» È usata anche nella lingua di tutti i giorni ("colori
caldi", "giallo squillante" ecc.) e quindi anche in prosa.
NoteModifica ^ Angelo Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Milano,
Arnoldo Mondadori Editore, 1984 [1978] , p. 299, ISBN
88-04-14664-8. Altri progettiModifica Collabora a Wikizionario Wikizionario
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mesi fa di Nima Tayebian, Enfasi Sinestesia pagina di disambiguazione di un
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sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica Avvertenza Le informazioni
riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I
contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico:
leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che
indica una "contaminazione" dei sensi nella percezione.[1] Il
fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni
provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze,
automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o
cognitivo.[2] Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una
persona soggetta al fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del
fenomenoModifica Con il termine "sinestesia" si fa riferimento a
quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva
è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi.[1] Nella
sua forma più blanda è presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che
i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto
distaccata dagli altri. Più indicativo di un'effettiva presenza di
sinestesia è il caso in cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono)
provoca una reazione netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista).
Per "forma pura" si intende la sinestesia che si manifesta
automaticamente come fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è
involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con
maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e
sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni
sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua capacità fu Olivier
Messiaen, così come il pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij, che affermava di
poter sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni, entità vive e lo
spiega bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro sinestesico fu il
pittore e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Il compositore
russo Aleksandr Nikolaevič Skrjabin era particolarmente interessato agli
effetti psicologici sul pubblico quando sperimentavano suoni e colori
contemporaneamente. La sua teoria era che quando si percepiva il colore giusto
con il suono corretto, si creava "un potente risonatore psicologico per
l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più famosa, che viene eseguita
ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco. Ma la lista degli artisti
sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche affermano che il fenomeno
sinestesico interessi il 4% della popolazione e di questo 4% la maggior parte
sono artisti. Un'altra caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a
volte nelle persone mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come
l'allochiria (confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso
dell'orientamento, dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente,
autismo. Spesso la contaminazione sensoriale avviene a direzione unica:
ad esempio, se vedo una nota musicale come un colore, non è detto che vedendo
quel colore la mia mente evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche
della sinestesia percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo
Paratico il mancino Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia.[3]
Esperienze di tipo sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale,
mediante l'uso di sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD,
esperienze di deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di
malattie che colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è
detta pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La
sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva,
e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita. Le
persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un
numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa
variabilità: 1 ogni 2000[4] 1 ogni 200[5] Queste esperienze sono
quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono
scoprendo che questa esperienza non è provata da tutte le persone.
L'esperienza sinestetica è composta da due elementi: L'evento induttore
(inducer). L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un
sinestesico descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un
colore giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un
concurrent è sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso
concurrent. Grossenbacher & Lovelace (2001), distinguono due tipi di
sinestesia a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale.
Sinestesia percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di
lettere produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia
concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto
(per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza
intensivamente la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella
degustazione o nell'analisi sensoriale. Basi genetiche della
sinestesiaModifica Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è
possibile identificare singoli loci genici che determinino con certezza questo
fenomeno neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso
meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In
ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale
fenomeno. [6] Sinestesia: grafema-coloreModifica Ramachandran e i suoi
collaboratori hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella
grafema(lettera, numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono
molto vicini tra loro.[7] Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza magnetica
funzionale) hanno permesso di individuare il "centro del colore" (es.
Zeki & Marini, 1998, Brain), l'area V4 nel giro fusiforme. L'area dei
grafemi è stata anch'essa individuata nel giro fusiforme, in particolare
nell'emisfero sinistro vicino all'area V4. L'area si attiva sia in seguito alla
presentazione di lettere sia in seguito alla presentazione di numeri.
L'ipotesi di Ramachandran è che ci sia una attivazione congiunta. La
presentazione di un grafema fa attivare l'area dei grafemi, che fa attivare
contemporaneamente anche l'area del colore, anche senza la presenza di uno
stimolo. Questo è dovuto ad un eccesso di connessioni tra le due aree, non
presente in tutte le persone. Le connessioni che si hanno alla nascita
sono un numero superiore di quello che si trovano in un cervello adulto. Quello
che avviene nei primi mesi di vita è un processo definito pruning (potatura,
sfoltimento) delle connessioni cerebrali. L'ipotesi di Ramachandran è che le
connessioni tra area del colore e area dei grafemi, che normalmente subiscono
un processo di pruning, rimangono invece intatte nei sinestesici. Probabilmente
per una mutazione genetica che fa fallire il processo di pruning. Esisteranno
delle regole che in seguito all'esperienza permetteranno di sviluppare connessioni
particolari tra area dei grafemi e area del colore. Questo spiegherebbe perché
ad un grafema viene sempre associato un certo colore. Ramachandran
ipotizza che l'attivazione del giro fusiforme non implichi un arrivo alla
coscienza delle informazioni. Perché sia possibile essere consapevoli
dell'informazione percepita si dovranno attivare altre aree superiori.
Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la sinestesia non sia dovuta alla presenza
di un numero maggiore di connessioni neurali (le quali non sarebbero presenti
nei non sinestesici); infatti, secondo lo studioso tale fenomeno percettivo è
imputabile al fatto che, nel cervello dei sinestesici, alcune connessioni
neurali risultano ancora attive, mentre non vengono più "utilizzate"
in chi non sperimenta tale modo di percepire. Questo spiegherebbe il motivo per
cui chi assume droghe psicoattive sia in grado di esperire una condizione di
"pseudo-sinestesia", circoscritta esclusivamente al limite temporale
in cui tali sostanze dispieghino il loro effetto, per poi tornare a non
percepire sinestesicamente una volta terminato quest'ultimo. Secondo
Grossenbacher è molto improbabile, infatti, che si siano create nuove
connessioni neurali durante l'assunzione di tali droghe; piuttosto, risulta più
probabile che vengano percorse "strade" neurali solitamente
"disattive". Influenza dell'attenzione sulla percezioneModifica
Esperimento di Ramachandran e Hubbard: caso della figura gerarchica (un 5
composto da tanti 3), se ai soggetti veniva chiesto di fare attenzione a livello
globale (5) vedevano il colore rosso, se invece dovevano dirigere la loro
attenzione a livello locale (3) vedevano verde. Questo esperimento porta
a concludere che l'attenzione influenza il manifestarsi del fenomeno
sinestesico. Sinestesici projectorModifica Nel caso di grafema-colore, il
colore è visto come una pellicola che ricopre il numero completamente. Un
sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare un'esperienza irritante se il
numero era di un colore incongruente con quello del fotismo (l'effetto della
sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli evocava il colore rosso, ma in
realtà era scritto con il giallo. Sinestesici associatorModifica Sempre
nel caso di grafema-colore, il colore appare nella mente, e non sopra il numero.
In genere, i sinestesici associator riferiscono che l'esperienza di vedere un
numero con un colore non congruente con quello del fotismo, non è un'esperienza
per nulla disturbante. La percezione del colore "reale" del numero è
un'esperienza molto più intensa del fotismo, per un sinestesico
associator. I sinestesici projector sembrano una minoranza rispetto ai
sinestesici associator (11 su 100, tra quelli intervistati da Dixon e
collaboratori). Tra i maggiori studiosi della sinestesia percettiva, Richard
Cytowic, Ramachandran, E. Hubbard, Sean Day, Bulat Galeyev, Irina
Vaneckina. Rapporto con i canali del calcioModifica Studiando nel
moscerino della frutta un gene coinvolto nell'elaborazione del dolore, alcuni
ricercatori hanno creato il primo modello della sinestesia. Con la tecnica
dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni quali candidati a interessare
possibili geni del dolore. Il primo ad essere analizzato più in dettaglio è
stato quello che codifichi parte di un canale del calcio noto come alfa 2 delta
3 (α2δ3). Questi canali che regolano il passaggio di Ca2+ attraverso la
membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità elettrica dei neuroni.
Con questi canali interferiscono diversi antidolorifici. Nei topi carenti
di α2δ3 si è dimostrato che questo gene controlli la sensibilità al dolore
provocato dal calore sia nella Drosophila sia nei mammiferi. Indagini condotte
con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3 partecipi all'elaborazione del dolore
termico a livello cerebrale. In assenza di α2δ3 il segnale del dolore a genesi
termica arriva al talamo, ma poi non prosegue verso i suoi centri corticali
superiori. Le immagini di fMRI mostrano piuttosto un'attivazione crociata delle
aree corticali per la visione, l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si
osserva anche quando lo stimolo doloroso sia di natura tattile.[8]
NoteModifica ^ a b Emozioni colorate | Le Scienze, su
lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon Baron-Cohen
(1996). Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford: Blackwell
Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar Publishing, 2015.
lascarpublishing.com/leonardo/Archiviato il 26 luglio 2018 in Internet Archive.
^ Baron- Cohen, 1997 ^ Ramachandran & Hubbard, 2001 ^ "Neurocognitive
mechanism of synesthesia" Edward M. Hubbard1 and V.S. Ramachandran,
Neurocognitive mechanism of synesthesia, su cell.com, November 3, 2005. URL
consultato il libero. ^ percezione e idee, la sinestesia | PsycHomer, su
psychomer.it Le Scienze: Non provo
dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note BibliografiaModifica Córdoba M.J.
de, Hubbard E.M., Riccò D., Day S.A., III Congreso Internacional de Sinestesia,
Ciencia y Arte, 26-29 Abril, Parque de las Ciencias de Granada, Ediciones
Fundación Internacional Artecittà, Edición Digital interactiva, Imprenta del
Carmen. Granada 2009. ISBN 978-84-613-0289-5 Córdoba M.J. de, Riccò D. (et
al.), Sinestesia. Los fundamentos teóricos, artísticos y científicos, Ediciones
Fundación Internacional Artecittà, Granada Cytowic, R.E., Synesthesia: A Union
of The Senses, second edition, MIT Press, Cambridge, 2002. ISBN
978-0-262-03296-4 Cytowic, R.E., The Man Who Tasted Shapes, Cambridge, MIT
Press, Massachusetts, Marks L.E., The Unity of the Senses. Interrelations among
the modalities, Academic Press, New York, 1978. Riccò D., Sinestesie per il
design. Le interazioni sensoriali nell'epoca dei multimedia, Etas, Milano,
Riccò D., Sentire il design. Sinestesie nel progetto di comunicazione, Carocci,
Roma, 2008. ISBN 978-88-430-4698-0 Tornitore T., Storia delle sinestesie. Le
origini dell'audizione colorata, Genova, 1986. Tornitore T., Scambi di sensi.
Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico Torinese, Torino, 1988. Voci
correlateModifica Takete e Maluma Sinestesia tattile-speculare Altri progettiModifica
Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario
«sinestesia» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini
o altri file su sinestesia Collegamenti esterniModifica Udire i colori, gustare
le forme, su lescienze.espresso.repubblica.it, Le Scienze. URL consultato il 20
maggio 2015. TED Talk: "I listen to color" Portale Psicologia. Qualia
aspetti qualitativi delle esperienze coscienti Locus ceruleus Sinestesia
tattile-speculare raro fenomeno sensoriale/percettivo Wikipedia
IlWikipedia Ricerca Sinestesia (film) film del 2010 diretto da Erik Bernasconi
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drammatici è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni
di Wikipedia. Sinestesia Lingua originaleitaliano Paese di produzione Svizzera
Anno2010 Durata91 min Rapporto1:1.85 Generedrammatico RegiaErik Bernasconi
SceneggiaturaErik Bernasconi ProduttoreVilli Hermann, Imagofilm Lugano e RSI
FotografiaPietro Zuercher MontaggioClaudio Cormio Effetti specialiFlavio
Scarponi, Oltremondo studio Lugano MusicheZeno Gabaglio, Christian Gilardi
ScenografiaFabrizio Nicora CostumiLaura Pennisi Interpreti e personaggi Alessio
Boni: Alan Giorgia Würth: Francoise Melanie Winiger: Michela Leonardo Nigro:
Igor Teco Celio: Padre di Francoise Bindu De Stoppani: Maide Roberta Fossile:
Cathrine Igor Horvat: Martin Federico Caprara: Uomo strano Eva Allenbach:
Segretaria Massimiliano Zampetti: Infermiere Daniele Bernardi: Fisioterapista
Alessandro Otupacca: Proprietario ristorante Sinestesia è un film del 2010
scritto e diretto da Erik Bernasconi, prodotto da Villi Hermann e coprodotto da
Giulia Fretta per la RSI. I protagonisti sono Alessio Boni, Melanie Winiger,
Giorgia Würth e Leonardo Nigro. È stato nominato ai Quartz 2010 per la miglior
sceneggiatura, per la miglior attrice (Melanie Winiger) e per la miglior
attrice esordiente (Giorgia Wurth). La pellicola è uscita nelle sale ticinesi
il 26 marzo 2010. TramaModifica Il film racconta due momenti della vita
di quattro giovani adulti confrontati con le prove del destino. Alan, sua
moglie Françoise, la sua amante Michela, il suo migliore amico Igor, vivono le
sfaccettature del quotidiano dopo un incidente che costringe Alan su una sedia
a rotelle. Per questo la narrazione si compone, con una struttura circolare, in
quattro capitoli: uno per personaggio, ognuno ispirato a un genere
cinematografico. Sono quattro momenti di una stessa storia, che esplorano le
emozioni dei personaggi da quattro angolature diverse. La trama si basa in
larga parte sull'osservazione di fatti realmente accaduti e affronta con
accenti diversi (thriller psicologico, commedia, dramma…) i temi dell'amicizia,
dell'amore, dell'infedeltà e della disabilità. ProduzioneModifica L'idea
del film è partita nel dicembre 2006, con la lettura di un trafiletto in un
quotidiano. Poi nell'estate del 2007 il regista e sceneggiatore Erik Bernasconi
ha vinto un concorso indetto dal Dipartimento della Cultura del Cantone Ticino
e dalla RSI per progetti di scrittura di film. Così Erik Bernasconi inizia a
collaborare con il produttore Villi Hermann, della Imagofilm, e parte la
stesura della sceneggiatura. AmbientazioneModifica Il film è stato girato
quasi interamente nella Svizzera italiana, a parte alcune scene girate a
Lucerna e Ginevra. Le riprese hanno avuto luogo nella primavera e nell'estate
del 2009. RiconoscimentiModifica 2010 - Premio del cinema svizzero
Candidatura al premio Quartz per la miglior sceneggiatura Collegamenti
esterniModifica ( EN ) Sinestesia, su Internet Movie Database, IMDb.com.
Modifica su Wikidata ( EN ) Sinestesia, su Rotten Tomatoes, Flixster Inc.
Sinestesia, su FilmAffinity. Modifica su Wikidata Portale
Televisione: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di televisione Ultima
modifica 2 mesi fa di Botcrux Melanie Winiger modella e attrice svizzera
Erik Bernasconi regista e sceneggiatore svizzero Zeno Gabaglio Wikipedia
Il contenuto èGrice: “It may be said that my transcendental Kantian approach to
cooperative rational conversation is a response to Costa’s totally empiricist
(or ‘sensista’ as he prefers) invocations of ‘chiarezza’ (my imperative of
conversational clarity), and brevita, eleganza, and all the categories that
inform the maxims. Paolo Costa. Keywords: la teoria sensista della
communicazione – senso – consenso – aesthesis – synaesthesia --– idea dei chi
proferisce la proposizione “Me diletta l’odore di questa rosa piu del colore”,
cooperiamo, e la risponsa di nostre anime e “Contrariamente, a me mi diletta il
colore di questa rosa piu dell’odore” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa”
– The Swimming-Pool Library.
Grice
e Costantino: lq ragione conversazionale
a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma).
Filosofo italiano. Costantino I. Costantino I Cesare e poi Augusto dell'Impero
romano Testa dell'acrolito monumentale di Costantino (Musei Capitolini) Nome
originale: Flavius Valerius Constantinus Regno Cognomina ex virtute: Pius Felix
Invictus Maximus Victor Triumphator Germanicus maximus IV Sarmaticus maximus
III Gothicus maximus II Dacicus maximus Adiabenicus Arabicus maximus Armeniacus
maximus Britannicus maximus Medicus maximus
Persicus maximus Nascita Naissus Morte Nicomedia Sepoltura Chiesa dei
Santi Apostoli a Costantinopoli Predecessore Costanzo Cloro (per parte dei
territori di competenza amministrati) e Flavio Severo (per la carica di Cesare
d'Occidente) Successore Costantino II (cesare) Costanzo II Costante I (cesare
dal 333) Dalmazio (cesare dal 335) Coniuge Minervina Fausta Figli Crispo
Costantina Costantino II Costanzo II Costante I Elena Dinastia Costantiniana
Padre Costanzo Cloro Madre Elena Flavio Valerio Constantino (Constantino I)
Moneta di Costantino con la rappresentazione del monogramma di Cristo sopra il
labaro imperiale Nascita Naissus, 27 febbraio 274 Morte Nicomedia, 22 maggio
337 Cause della morte naturali Luogo di sepoltura Chiesa dei Santi Apostoli a
Costantinopoli Religione cristianesimo convertito dal paganesimo Dati militari
Paese servitor Impero romano Forza armata Esercito romano Grado Augusto
Comandanti Costanzo Cloro e Massimiano Guerre Guerra civile romana Campagne
germanico-sarmatiche di Costantino Invasioni barbariche del IV secolo Campagne
siriano-mesopotamiche di Sapore II Battaglie Battaglia di Verona
Battaglia di Torino Battaglia di Ponte Milvio Battaglia di Cibalae Battaglia di
Mardia Battaglia dell'Ellesponto Assedio di Bisanzio (324) Battaglia di
Adrianopoli Battaglia di Crisopoli Nemici storici Massenzio e Licinio
Comandante di Esercito romano voci di militari presenti su Wikipedia Manuale
San Costantino I Raffigurazione di san Costantino nella basilica di Santa Sofia
a Istanbul. L'imperatore, che la Chiesa ortodossa ha definito «Simile agli
Apostoli», proclamandolo santo, è raffigurato nell'atto di dedicare la
basilica. Imperatore Nascita Naissus, 27 febbraio 274 Morte Nicomedia, 22
maggio 337 Venerato da Chiesa cristiana ortodossa Santuario principale Chiesa
dei Santi Apostoli Ricorrenza 21 maggio Manuale Battaglie di Costantino I nella
guerra civile. Flavio Valerio Aurelio Costantino, conosciuto anche come
Costantino il Vincitore, Costantino il Grande e Costantino I (in latino:
Flavius Valerius Aurelius Constantinus; in greco antico: Κωνσταντῖνος ὁ Μέγας?,
Konstantînos o Mégas; Naissus, Nicomedia), è un filosofo italiano. Costantino è
una delle figure più importanti dell'impero romano, che riformò largamente e
nel quale permise e favorì la diffusione del cristianesimo. Tra i suoi
interventi più significativi, la riorganizzazione dell'amministrazione e
dell'esercito, la creazione di una nuova capitale a oriente, Costantinopoli, e
la promulgazione dell'Editto di Milano sulla libertà religiosa. La Chiesa
ortodossa e le Chiese di rito orientale lo venerano come santo, presente nel
loro calendario liturgico, col titolo di Eguale agli apostoli; mentre il suo
nome non è presente nel Martirologio Romano, il catalogo ufficiale dei santi
riconosciuti dalla Chiesa cattolica. Le fonti primarie sulla vita di Costantino
e sulle relative vicende da imperatore devono essere prese con la dovuta
cautela. La principale fonte contemporanea è costituita da Eusebio di Cesarea,
autore di una Storia Ecclesiastica che non manca di esaltare la gloria e la
nobiltà di Costantino in quanto imperatore, a cui fece seguito una Vita di
Costantino che ne costituisce una vera e propria agiografia. Anche Lattanzio,
nel suo De mortibus persecutorum, delinea in modo netto la distinzione fra il
pio Costantino e il perverso Diocleziano (Salona). Distinzione forse non del
tutto disinteressata, visto che Lattanzio, nato in Nordafrica da famiglia
pagana e convertitosi al cristianesimo, dovette fuggire precipitosamente da
Nicomedia, sede imperiale di Diocleziano, all'alba dell'ultima persecuzione
contro i Cristiani. La stessa cautela deve valere per la Storia Nuova di Zosimo.
Infine, l'appendice alla storia di Ottato di Milevi sullo scisma donatista
racchiude alcune lettere che Costantino avrebbe inviato ai cristiani del
Nordafrica e che, se autentiche, potrebbero rivelare alcuni tratti del pensiero
dell'imperatore riguardo alla questione. Albero genealogico della
dinastia costantiniana che ha in Costanzo Cloro il vero capostipite. Costantino
nacque a Naissus (odierna Niš, in Serbia), un modesto centro situato nella
provincia romana della Mesia Superiore, figlio di Costanzo Cloro, militare e
politico romano di origini illiriche e nativo della Dardania. Costantino e di
madrelingua latina e, ha sempre difficoltà nel padroneggiare il greco, tanto da
doversi avvalere d'interpreti con locutori ellenofoni. Si conosce pochissimo
della sua gioventù. Perfino la sua data di nascita è incerta. Forse è proprio
durante l'adolescenza che gli fu affibbiato il soprannome dispregiativo “Trachala,”
da interpretare nel senso di "viscido come una lumaca". Nominato
Prefetto del pretorio delle Gallie (cioè comandante militare) e in base al
sistema della Tetrarchia voluta da Diocleziano, nominato Cesare dall'Augusto di
Occidente, Massimiano, di cui sposa la figliastra Teodora. Costantino e
affidato all'Augusto d'Oriente, Diocleziano, ed educato a Nicomedia presso la
corte dell'imperatore, sotto il quale comincia la carriera militare: fu
tribunus ordinis primi e con questo grado fu al seguito dello stesso
Diocleziano nel suo viaggio in Egitto. Successivamente partecipò attivamente
alla campagna contro i Sasanidi condotta da Galerio per poi tornare a servizio
di Diocleziano con il quale lascia definitivamente l'Egitto attraversando la
Palestina. Combatté ancora tra le file dell'esercito di Galerio sul confine
danubiano, ove si distinse nelle guerre contro i Sarmati. Diocleziano abdicò a
favore del proprio Cesare Galerio e lo stesso fa Massimiano in Occidente, a
favore di Costanzo Cloro. Galerio nomina proprio Cesare il nipote Massimino
Daia e impone a Costanzo, con il sostegno di Diocleziano, come nuovo Cesare
Flavio Severo, un ufficiale di alto rango che aveva militato tra le file dello
stesso Galerio.E in questo frangente che Costantino raggiunse il padre in
Britannia (alcune fonti vogliono che quella di Costantino sia stata una vera e
propria fuga da Nicomedia, dove Galerio avrebbe voluto trattenerlo per garantirsi
la fedeltà di Costanzo Cloro) e condusse con lui alcune campagne militari
nell'isola.Circa un anno dopo, Costanzo Cloro morì nei pressi di Eburacum,
l'odierna York. Qui l'esercito, guidato dal generale germanico Croco (di
origine alamanna), proclama Costantino nuovo Augusto d'Occidente, mettendo a
repentaglio il meccanismo della tetrarchia, ideato da Diocleziano proprio per
porre termine all'uso ormai consolidato degli eserciti di proclamare di propria
iniziativa gli imperatori. Per tale ragione Galerio, che al tempo era l'unico
Augusto legittimo rimasto in carica, e inizialmente scettico nel riconoscere
l'investitura di Costantino, tuttavia alla fine si convinse a cooptarlo nel
collegio imperiale ma con il rango di Cesare, promuovendo invece come nuovo
Augusto d'Occidente Flavio Severo. Costantino da parte sua accettò la decisione
di Galerio e, per dimostrare come riconoscesse l'autorità di Severo quale nuovo
superiore in grado, cede a quest'ultimo il controllo della diocesi Iberica,
mentre a lui sarebbe rimasto il governo delle Gallie e della Britannia. La
sofferta nomina di Costantino a Cesare, per quanto gestita e riassorbita nei
quadri della tetrarchia, aveva mostrato la debolezza del sistema di successione
per cooptazione creato da Diocleziano. Infatti Massenzio, figlio dell'Augusto
emerito Massimiano, scontento di essere stato tagliato fuori da qualsiasi
posizione di potere, si fece acclamare imperatore a Roma con l'appoggio dei
pretoriani, dell'aristocrazia senatoria e della plebe urbana.[38] Galerio per
l'occasione decise di agire senza indugi e con durezza, ordinando a Severo, che
risiedeva a Milano, di marciare verso Roma per sedare la rivolta ma, giunto in
prossimità della città, le truppe al suo comando disertarono poiché venute a
conoscenza che Massimiano, per il quale avevano militato prima della sua
abdicazione, si era schierato a sostegno del figlio. Severo, fatto prigioniero,
fu poi ucciso.Galerio allora tenta di organizzare in prima persona una
spedizione in Italia, ma non ottenne alcun risultato e fu costretto a ritirarsi
nell'Illirico. Durante questi eventi, Costantino e impegnato sul confine renano
a combattere con successo i Franchi e si era mantenuto neutrale nella disputa
tra Galerio e Massenzio. Massimiano cerca dunque di farselo alleato e, per
attirarlo alla sua causa, lo raggiunse a Treviri, offrendogli in sposa la
figlia Fausta e il titolo di Augusto. Costantino accettò l'offerta di alleanza
e, dopo essere convolato a nozze, si fa proclamare Augusto sul finire
dell'anno. Tornato a Roma, Massimiano entra in urto con Massenzio, al potere
del quale non voleva più essere subordinato e, costretto a fuggire dalla città
poiché le truppe erano rimaste leali al figlio, fu riaccolto alla corte di
Costantino in Gallia. Galerio, nel tentativo di porre rimedio alla crisi
istituzionale creatasi, convoca a Carnuntum un convegno al quale presero parte,
oltre a lui, anche Massimiano e, soprattutto, Diocleziano. In questa
circostanza e creato Augusto Liciniano Licinio, un commilitone di Galerio,
mentre Costantino fu degradato nuovamente a Cesare e Massimiano dovette
deporre, questa volta definitivamente, le vesti imperiali per una seconda
volta. Contestualmente Massenzio fu dichiarato hostis publicus («nemico
pubblico»).[47] Tornato deprivato di ogni potere, Massimiano inizia a
tramare contro Costantino. Approfittando dell'assenza del genero, impegnato a
sedare una sollevazione dei Franchi, il vecchio Erculio si proclamò per la
terza volta imperatore e, assunto il comando della truppe stanziate a
Marsiglia, si arroccò nella città.[49] Costantino, tornato in fretta dal
confine renano, la pose d'assedio ma, ancor prima che iniziassero le ostilità,
i soldati all'interno della città si arresero e consegnarono Massimiano, a cui
fu però risparmiata la vita.[50] Agli inizi del 310, dopo un ennesimo complotto
ordito da Massimiano e sventato questa volta dalla figlia Fausta, Costantino
ordinò la messa a morte del suocero[51] e successivamente, attorno alla metà
dell'anno, decise di riappropriarsi del titolo di Augusto che gli era stato
tolto a Carnuntum, ottenendo stavolta il consenso di Galerio. Alla morte di
Galerio nel 311, Costantino si alleò con Licinio, mentre Massenzio con
Massimino Daia. Costantino, ormai sospettoso nei confronti di Massenzio,
riunito un grande esercito formato anche da barbari catturati in guerra, oltre
a Germani, popolazioni celtiche e provenienti dalla Britannia, mosse alla volta
dell'Italia attraverso le Alpi, forte di 90 000 fanti e 8 000 cavalieri.[53]
Lungo la strada, Costantino lasciò intatte tutte le città che gli aprirono le
porte, mentre assediò e distrusse quante si opposero alla sua avanzata. Egli,
dopo aver battuto due volte Massenzio prima presso Torino e poi presso Verona,
lo sconfisse definitivamente nella battaglia di Ponte Milvio,[54] presso i Saxa
Rubra sulla via Flaminia, alle porte di Roma, il 28 ottobre del 312. Con la
morte di Massenzio, tutta l'Italia passò sotto il controllo di
Costantino.[55] Durante questa campagna sarebbe avvenuta la celebre e leggendaria
apparizione della croce sovrastata dalla scritta In hoc signo vinces che
avrebbe avvicinato Costantino al cristianesimo. Secondo Eusebio di Cesarea
questa apparizione avrebbe avuto luogo proprio nei pressi di Torino.[56]
Nel 318 circa ebbe dalla moglie Fausta Costantina. Augusto d'Occidente
(313-324) Schema della battaglia avvenuta presso Adrianopoli nel 324,
dove Costantino, seppure in inferiorità numerica, prevalse su Licinio, il quale
lasciò sul campo secondo Zosimo ben 34.000 armati. Massimino Daia veniva
sconfitto da Licinio e si dava la morte. Entrando in Nicomedia Licinio emanò un
rescritto (impropriamente detto editto di Milano dal luogo dove era stato
concordato con Costantino), con cui a nome di entrambi gli augusti rimasti
veniva riconosciuta anche in Oriente la libertà di culto per tutte le
religioni, ponendo fine ufficialmente alle persecuzioni contro i cristiani,
l'ultima delle quali, cominciata da Diocleziano tra il 303 e il 304, si era
conclusa nel 311 su ordine di Galerio, prossimo a morire. Il testo del
decreto recita: (LA) «Cum feliciter tam ego [quam] Constantinus Augustus
quam etiam ego Licinius Augustus apud Mediolanum convenissemus atque universa
quae ad commoda et securitatem publicam pertinerent, in tractatu haberemus,
haec inter cetera quae videbamus pluribus hominibus profutura, vel in primis
ordinanda esse credidimus, quibus divinitatis reverentia continebatur, ut
daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam
quisque voluisset, quod quicquid <est> divinitatis in sede caelesti,
nobis atque omnibus qui sub potestate nostra sunt constituti, placatum ac
propitium possit existere» (IT) «Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio
Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti
gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni
che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo
posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai galilei
e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede,
affinché il divino, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia
pace e prosperità. -- Lattanzio, De mortibus persecutorum, capitolo
XLVIII) Nella prosecuzione il rescritto ordina l'immediata restituzione
ai galilei di tutti i luoghi di culto e di ogni altra proprietà delle
chiese. Costantino e Licinio, che ne aveva sposato la sorella Costanza,
entrarono una prima volta in conflitto
(in seguito alla riappacificazione l'Illirico passò a Costantino). In
seguito alla sconfitta di Licinio, che si arrese dopo le battaglie di
Adrianopoli e di Crisopoli e venne successivamente ucciso, Costantino rimase
l'unico augusto al potere. Questo periodo cominciò con una serie di uccisioni,
a partire da quella del suo antico rivale Licinio. L'anno seguente Costantino fa
uccidere a Pola il figlio primogenito Crispo, figlio di Minervina, per una
presunta relazione con Fausta e inoltre Liciniano, figlio della sorella
Costanza e di Licinio. Quindi anche la moglie Fausta venne uccisa soffocata o
annegata nel bagno termale, riscaldato oltre la temperatura normale. La
leggenda vuole che Crispo sia stato eliminato in seguito all'accusa di Fausta
di averla insidiata, e quindi anche lei venne giustiziata quando Costantino
riconosce l'innocenza del figlio. Forse erano entrambi vittime di falsi
delatori o lei volle assicurarsi l'eliminazione dei rivali dei propri figli
come successori di Costantino. Il rimorso di Costantino e grande, secondo
quanto riporta ne “I Cesari” il suo polemico successore, il principe Giuliano. Si
erano iniziati i lavori per la costruzione della nuova capitale Nuova Roma sul
sito dell'antica Bisanzio, fornendola di un senato e di uffici pubblici simili
a quelli di Roma. Il luogo venne scelto come capitale nper le sue
eccezionali qualità difensive e per la vicinanza ai minacciati confini
orientali e ai danubiani. Inoltre, particolare non secondario, consentiva a
Costantino di sottrarsi all'influenza invadente, arrogante e irritante degl’aristocratici
presenti nel Senato romano, che tra l'altro erano della religione dell’antica
Roma. Nova Roma e inaugurata e prese presto il nome di “Costantinopoli”. Rispetto
alla vecchia città, la nuova era quattro volte più vasta: dove c'era un'antica
porta Costantino pose un foro circolare, inoltre spostò le sue mura più a
occidente di 15 stadi. La città (oggi Istanbul) resterà poi fino al 1453
capitale dell'Impero romano d’oriente. Diocesi (impero romano) e
Prefettura del pretorio. Riprendendo la divisione della riforma tetrarchica
dioclezianea che prevedeva due Augusti e due Cesari, l'Impero venne ridisegnato
e suddiviso in quattro prefetture, tutte facenti capo a un unico Imperatore: delle
Gallie, comprendente la Gallia transalpina, la Spagna e la Britannia; d'Italia, comprendente l'Italia, la Sicilia,
Sardegna e Corsica, e l'Africa dalle Sirti alla Mauretania Caesariensis; d'Oriente,
comprendente tutte le province orientali con l'eccezione delle isole di Lemno,
Imbro e Samotracia, l'Egitto e la pentapoli di Libia, oltre alla Tracia e la
Mesia inferiore; d'Illirico, comprendente le province balcaniche, vale a dire
dalla Macedonia, alla Tessaglia, a Creta all'Ellade, ai due Epiri, all'Illiria,
a Dacia, Triballia e Mesia superiore, oltre alle Pannonie sino alla Valeria. All'interno
di queste prefetture mantenne rigidamente separati il potere civile e politico,
da quello militare: la giurisdizione civile e giudiziaria era affidata a un
prefetto del pretorio, cui erano subordinati i vicari delle diocesi e i governatori
delle province. I prefetti furono, quindi, privati in parte del potere
militare,[65] lasciando loro ancora compiti di logistica militare,[66] e
diventarono amministratori delle grandi prefetture in cui era diviso l'impero.
Essi svolgevano le seguenti funzioni:[67] la suprema amministrazione
della giustizia e delle finanze (sostenendo anche le spese militari[68]).
l'applicazione e, in alcuni casi, la modifica degli editti generali. controllo
dei governatori delle province, i quali in caso di negligenza o corruzione
venivano destituiti e/o puniti. Inoltre il tribunale del prefetto poteva
giudicare ogni questione importante, civile o penale, e la sua sentenza era
considerata definitiva, al punto che neanche gli imperatori osavano lamentarsi
della sentenza del prefetto. Costantino poi controbilanciava l'importanza e la
potenza dei prefetti del pretorio con la breve durata della carica. Ogni
prefettura, divisa in tredici diocesi, di cui una (Oriente) era governata da un
Conte d'Oriente, un'altra (Egitto) da un Prefetto Augusteo, e le altre undici
da altrettanti Vicari o sottoprefetti, i quali sottostavano all'autorità del
prefetto del pretorio.[69] Ogni diocesi era ulteriormente suddivisa in
province. L'apparato burocratico venne snellito e suddiviso tra gli
affari della corte, affidati a quattro alti dignitari, e gli affari dello
Stato, affidati a tre alti funzionari: costoro, insieme con i prefetti urbani
componevano il Concistorium principis o Sacrum concistorium ("Consiglio
del principe" o "Sacro collegio"). I quattro dignitari che
regolavano le attività della corte erano: il comes rerum privatarum
("ministro degli affari privati"), che si occupava di gestire il
patrimonio privato dell'imperatore[70], il praepositus sacri cubiculi
("preposito del sacro cubicolo"), una sorta di gran ciambellano che
si occupava della vita della corte imperiale e da cui dipendevano cortigiani e
schiavi, due comites domesticorum ("ministro dei domestici"),
responsabili l'uno del personale che svolgeva il proprio servizio a piedi e
l'altro del personale a cavallo e della guardia imperiale. I tre alti
funzionari a cui competeva l'amministrazione dello Stato erano: il
magister officiorum ("maestro degli uffici"), un cancellerie che si
occupava dell'amministrazione interna e delle relazioni esterne, il quaestor
sacri palatii ("questore del sacro palazzo"), con competenza in
materia di leggi e di giustizia, che dirigeva inoltre il "Consiglio del
principe", il comes sacrarum largitionum ("ministro delle sacre
elargizioni"), che si occupava delle materie finanziarie statali. La
politica amministrativa di Costantino è controversa e in particolare è stata
aspramente criticata dallo storico illuminista Edward Gibbon, autore di Storia
del declino e della caduta dell'Impero romano (opera composta tra il 1776 e il
1788), che dà di Costantino un giudizio estremamente negativo. Per Gibbon al
tempo di Costantino: si istituì un poderoso sistema burocratico, coniando
cariche sconosciute in antecedenza (magnifico, illustre, conte, duca, ecc.),
tali da creare un controllo vessatorio e di spionaggio su tutte le province; i
pretoriani erano in numero spropositato ed erano di origine armena, con corazze
di argento e d'oro; la capitale trasferita da Roma a Costantinopoli (depredando
importanti opere di Fidia e altri scultori della Grecia classica) accentuò
l'emarginazione del Senato romano; la tassazione esorbitante finì per spopolare
anche una delle regioni (Campania) più produttive dell'Italia; si accentuò,
inoltre, la disgregazione dell'esercito romano, sia con la nomina di barbari al
massimo comando militare, sia con la penalizzazione economica dei soldati che
salvaguardavano il confine (limes) dalle invasioni. Complessivamente, per
Gibbon, neppure Caligola o Nerone fecero più danni all'impero di
Costantino. Politica estera e frontiere Lo stesso argomento in
dettaglio: Campagne germanico-sarmatiche di Costantino, Limes romano, Diga del
Diavolo e Brazda lui Novac (limes). Le frontiere romane settentrionali e
orientali al tempo di Costantino, con i territori acquisiti nel corso del
trentennio di campagne militari (dal 306 al 337). La mappa qui sopra
rappresenta anche il mondo romano poco dopo la morte di Costantino (337), con i
territori "spartiti" tra i suoi tre figli (Costante I, Costantino II
e Costanzo II) e i due nipoti (Dalmazio e Annibaliano) Già ai tempi in cui era
stato Cesare in Occidente, attorno agli anni 306-310,[71] Costantino ottenne
grandi successi militari su Alemanni e Franchi, di cui si dice riuscì a
catturare i loro re, dati in pasto alle belve durante i giochi
gladiatorii.[72] Divenuto unico augusto in Occidente nel 313 respinse una
nuova invasione di Franchi in Gallia. Dopo una prima crisi con Licinio, al
termine della quale i due augusti trovarono un nuovo equilibrio strategico nel
317, ottenne nuovi successi contro le genti barbare lungo il Danubio. Egli,
infatti, batté sia i Sarmati Iazigi nel 322[5][73] sia i Goti nel
323.[73] Dopo il 316/317, avendo ottenuto da Licinio anche l'Illirico,
Costantino non solo respinse numerose incursioni di Sarmati Iazigi e Goti (tra
gli anni 322[73] e 332), ma potrebbe aver dato inizio alla costruzione di due
nuovi tratti di limes: il primo nella pianura ungherese chiamato diga del
Diavolo, formato da una serie di terrapieni che da Aquincum collegavano il
fiume Tibisco, per poi piegare verso sud e collegare il fiume Mureș, percorrere
il Banato fino al Danubio all'altezza di Viminacium;[74] il secondo nella
Romania meridionale chiamato Brazda lui Novac, che correva parallelo a nord del
basso corso del Danubio, da Drobeta alla pianura della Valacchia orientale fin
quasi al fiume Siret.[74] Divenuto unico augusto nel 324, affidò ai figli
la difesa dell'Occidente contro Franchi e Alamanni (contro i quali ottenne
nuovi successi nel 328[75] e il titolo di Alamannicus maximus, insieme con
Costantino II[6]) mentre lui stesso combatteva sul confine danubiano i Goti
(332[7]) e i Sarmati (335[7][8]). Divise l'impero tra i figli assegnando a
Costantino II Gallia, Spagna e Britannia, a Costanzo II le province asiatiche,
l'Oriente e l'Egitto e a Costante I l'Italia, l'Illirico e le province
africane. Alla sua morte nel 337 si preparava ad affrontare in Oriente i
Persiani. Costantino nei suoi oltre trent'anni di regno aveva aspirato a
riconquistare, non solo tutti i territori appartenuti all'Impero di
Traiano,[76] ma soprattutto a diventare il protettore di tutti i Cristiani
anche oltre le frontiere imperiali. Egli, infatti, costrinse molte delle
popolazioni barbariche sottomesse a nord del Danubio, a sottoscrivere clausole
religiose dopo averle battute più e più volte, come nel caso dei Sarmati e dei
Goti. Identica sorte sarebbe toccata al regno d'Armenia e ai Persiani se non
fosse morto nel 337.[77] Esercito Lo stesso argomento in dettaglio:
Riforma costantiniana dell'esercito romano. Mappa della ex-Dacia romana
con il suo complesso sistema di fortificazioni e difesa. In grigio la
cosiddetta diga del Diavolo e a destra (in verde) il Brazda lui Novac, di epoca
costantiniana. Le prime vere modifiche apportate da Costantino nella nuova
organizzazione dell'esercito romano, furono effettuate subito dopo la
vittoriosa battaglia di Ponte Milvio contro il rivale Massenzio nel 312. Egli
infatti sciolse definitivamente la guardia pretoriana e il reparto di cavalleria
degli equites singulares e fece smantellare l'accampamento del Viminale.[78] Il
posto dei pretoriani fu sostituito dalla nuova formazione delle schole
palatine, le quali ebbero lunga vita poi a Bisanzio ormai legate alla persona
dell'imperatore e destinate a seguirlo nei suoi spostamenti, e non più alla
Capitale.[79] Una nuova serie di riforme furono poi portate a termine una
volta divenuto unico Augusto, subito dopo la sconfitta definitiva di Licinio
nel 324.[79] La guida dell'esercito fu sottratta ai prefetti del pretorio, e
ora affidata a: il magister peditum (per la fanteria) e il magister equitum
(per la cavalleria).[65] I due titoli potevano tuttavia essere riuniti in una
sola persona, tanto che in questo caso la denominazione della carica si trasformava
magister peditum et equitum o magister utriusque militiae[80] (carica istituita
verso la fine del regno, con due funzionari praesentalis[81]). I gradi più
bassi della nuova gerarchia militare prevedevano, oltre ai soliti centurioni e
tribuni, anche i cosiddetti duces,[65] i quali avevano il comando territoriale
di specifici tratti di frontiera provinciale, a cui erano affidate truppe di
limitanei. Costantino, inoltre, sempre secondo Zosimo, rimosse dalle frontiere
la maggior parte dei soldati e li insediò nelle città (si tratta della
creazione dei cosiddetti comitatensi):[82] «[...] città che non avevano
bisogno di protezione, privò del soccorso quelle minacciate dai barbari [lungo
le frontiere] e procurò alle città tranquille il danno generato dalla
soldataglia, per questi motivi molte città risultano deserte. Lasciò anche che
i soldati rammollissero, frequentando i teatri, e abbandonandosi alla vita
dissoluta.» (Zosimo, Storia nuova, II, 34.2.) Nell'evoluzione
successiva il generale in campo svolse sempre più le funzioni di una sorta di
ministro della guerra, mentre vennero create le cariche del magister equitum
praesentalis e del magister peditum praesentalis ai quali veniva affidato il
comando effettivo sul campo. Costantino introdusse una riforma monetaria,
necessaria anche per fare fronte alla scarsità di monete d'oro. Venne, quindi,
introdotto il solidus d'oro, con un peso di 4,54 g pari a 1/72 di libbra, cioè
più leggero (anche se più largo e sottile) dell'aureo, che in quel momento valeva
1/60 di libbra. Si ritornò inoltre al sistema bimetallico di Augusto coniando
la siliqua d'argento, di 2,27 g pari a 1/144 di libbra: il miliarense, con un
valore doppio della siliqua, aveva quindi lo stesso peso del solidus. Per
quanto riguarda i bronzi, il follis, ormai fortemente svalutato, venne
sostituito da una moneta di 3 g, detto nummus centonionalis, cioè 1/100 di
siliqua. Fu una riforma duratura, tanto che il peso aureo del solido
introdotto con la riforma di Costantino rimase invariato per secoli anche
durante l'impero bizantino. Ma a livello sociale le conseguenze furono
catastrofiche: tutti coloro che non avevano accesso alla nuova moneta d'oro,
infatti, dovettero subire le conseguenze dell'inflazione, a causa di una
svalutazione rispetto al solidus delle altre monete d'argento e di rame, che
non erano più protette dallo Stato. Il risultato fu una insuperabile spaccatura
tra una minoranza privilegiata di ricchi e la massa dei poveri[83]. Morte
e successione Albero genealogico della dinastia costantiniana: i
discendenti di Costantino. Costantino morì il 22 maggio 337 non molto lontano
da Nicomedia (in località Achyrona),[14] mentre preparava una campagna militare
contro i Sasanidi. La sua salma fu portata a Costantinopoli e sepolta in un
sarcofago nella Chiesa dei Santi Apostoli[84]. Costantino preferì non
nominare un unico erede, ma dividere il potere tra i suoi tre figli cesari
Costante I, Costantino II e Costanzo II e due nipoti Dalmazio e
Annibaliano.[85] Costanzo, che era impegnato in Mesopotamia settentrionale a
supervisionare la costruzione delle fortificazioni frontaliere,[86] si affrettò
a tornare a Costantinopoli, dove organizzò e presenziò alle cerimonie funebri
del padre: con questo gesto rafforzò i suoi diritti come successore e ottenne
il sostegno dell'esercito, componente fondamentale della politica di
Costantino.[87] Durante l'estate del 337 si ebbe un eccidio, per mano
dell'esercito, dei membri maschili della dinastia costantiniana e di altri
esponenti di grande rilievo dello stato: solo i tre figli di Costantino e due
suoi nipoti bambini (Gallo e Giuliano, figli del fratellastro Giulio Costanzo)
furono risparmiati.[88] Le motivazioni dietro questa strage non sono chiare:
secondo Eutropio Costanzo non fu tra i suoi promotori ma non tentò certo di
opporvisi e condonò gli assassini;[89] Zosimo invece afferma che Costanzo fu
l'organizzatore dell'eccidio.[90] Nel settembre dello stesso anno i tre cesari
rimasti (Dalmazio e Annibaliano furono vittime della purga) si riunirono a
Sirmio in Pannonia, dove il 9 settembre furono acclamati imperatori
dall'esercito e si spartirono l'Impero: Costanzo si vide riconosciuta la
sovranità sull'Oriente, Costante sull'Illirico e Costantino II sulla parte più
occidentale (Gallie, Hispania e Britannia). La divisione del potere tra i tre
fratelli durò poco: Costantino II morì nel 340, mentre cercava di rovesciare
Costante, e Costanzo guadagnò i Balcani; nel 350 Costante fu rovesciato
dall'usurpatore Magnenzio, e Costanzo divenne unico imperatore. Icona
ortodossa bulgara con l'imperatore e la madre Elena e la "vera
croce". Il comportamento costantiniano in tema di culto uffiziale ha dato
spazio a molte controversie fra i filosofi -- controversie particolarmente
aspre quando essi hanno preteso di valutare non solo il comportamento pubblico,
ma le sue convinzioni interiori. In alternativa all'opinione tradizionale,
secondo cui Costantino si sarebbe convertito al cristianesimo poco prima della
battaglia di Ponte Milvio, è stata, invece, asserita la sua costante adesione
al CULTO SOLARE, mettendo in dubbio perfino il battesimo in punto di
morte. Secondo altri filosofi, poi, il culto uffiziale e per Costantino un
puro e semplice instrumentum regni. Burckhardt afferma: «Nel caso di un uomo
geniale, al quale l'ambizione e la sete di dominio non concedono un'ora di
tregua, non si può parlare del sacro consapevole -- un uomo simile è
essenzialmente a-religioso, e lo sarebbe anche se egli immaginasse di far parte
integrante di una comunità religiosa. Secondo altri filosofi ancora, poi,
occorre distinguere fra convinzioni private e comportamento pubblico, vincolato
dalla necessità di conservare il consenso delle proprie truppe e dei propri
sudditi, qualunque ne fosse l'orientamento religioso. Da questo punto di vista
è utile distinguere fra il comportamento di Costantino antecedente e quello
successivo alla battaglia di Crisopoli, grazie alla quale consegue il dominio
assoluto sull'impero. Dopo questo, si trova comunque d'accordo molti
studiosi di quell'epoca. Tra costoro, Veyne sostiene con sicurezza
l'autenticità della conversione di Costantino, ricordando, con Bury, che la sua
rivoluzione e forse l'atto più audace mai compiuto da un autocrate in spregio
alla grande maggioranza dei suoi sudditi. E ciò in considerazione del fatto che
la popolazione che segue il culto dei galilei e circa il 8% del totale nel
principato di Costantino.Veyne ha inoltre proposto un'interessante teoria per
tentare di spiegare in modo razionale il fenomeno leggendario della visione che
potrebbe aver spinto Costantino a una conversione solo apparentemente
improvvisa. Veyne ipotizza che un sogno abbia potuto avere azione catalitica su
un terreno psicologico predisposto da esperienze e suggestioni vissute
precedentemente. È comunque fuori di dubbio la sincerità costantiniana nella
ricerca dell'unità e concordia del culto, la cui necessità deriva da un preciso
disegno politico che considera l'unità del mondo condizione indispensabile alla
stabilità della potenza imperiale. Costantino infatti interpreta in questo
senso l'antico tema, caro alla Roma sul principato della “pax deorum”, nel
senso che la forza del principato non deriva semplicemente dalle azioni di un
principe illuminato, da una saggia amministrazione e dall'efficienza di un ben
strutturato e disciplinato esercito, ma direttamente dalla benevolenza del
divino. Mentre però, nella religione della Roma antica, vi era un rapporto DIRETTO
tra il potere del principe e il divino, il principe non puo ignorare istituzioni
che, tramite i suoi vescovi, adita la fonte divina del potere. Costantino non puo
fare a meno di essere co-involto nelle lotte teologiche. Su una tale base
ideologica, questa ricerca dell'unità e della concordia comporta quindi anche
interventi molto duri nei confronti di coloro che il principe considera
eretici, che sono trattati duramente, dei pagani. I conflitti teologici si
trovarono dunque ad avere una ricaduta politica, mentre d'altra parte le sorti
interne del principato sono sempre più dipendenti dai risultati delle lotte
teologiche. Gli stessi vescovi, infatti, sollecitavano continuamente
l'intervento del principe per la corretta applicazione delle decisioni dei
concili, per la convocazione dei sinodi e anche per la definizione di
controversie teologiche. Ogni successo di una fazione comportava la deposizione
e l'esilio dei capi della fazione opposta, con i metodi tipici della lotta
politica. La religione della Roma Antica si era fortemente trasformata: sulla
spinta della insicurezza dei tempi e dell'influsso dei culti di origine
orientale, le sue caratteristiche pubbliche e ritualistiche hanno sempre più
perso di significato di fronte a una più intensa e personale spiritualità. Si
era andato diffondendo un sincretismo venato di mono-teismo (il colto solare di
un divino unico, il re sole identificato con Giove -- e si tendeva a vedere
nelle immagini degli dei tradizionali – altri che Giove -- l'espressione di un
unico essere divino: Giove. Una forma politica a questa aspirazione
sincretistica e data dall'imperatore Aureliano con l'istituzione del culto
ufficiale del Sole Invitto con elementi del mitraismo e di altri culti solari
di origine orientale. Il culto e diffuso nell'esercito, soprattutto
nell'occidente, e a esso non furono estranei né Costanzo Cloro, il padre di
Costantino, né Costantino stesso. Costantino e certamente il primo a
comprendere l'importanza della religione per rafforzare la coesione culturale e
politica dell'impero romano. Fa vietare il concubinato dei mariti, mentre
fu reso più difficile il ripudio, antenato del divorzio. La domenica e elevata
a giorno festivo pubblico. Lo Stato inizia a finanziare il clero pubblico e la
costruzione di nuove edificii o fu l'imperatore a farle erigere personalmente,
ad esempio a Roma (Antica basilica di Pietro nel monte Vaticano), ma
especialmente fuora di Roma: a Betlemme
(Basilica della Natività), Gerusalemme (Basilica del Santo Sepolcro) e
Costantinopoli (Chiesa dei Santi Apostoli). In un decreto concesse che su
richiesta di una sola delle parti contendenti, le cause civili potessero essere
giudicate innanzi ai vescovi. Fu concesso agli ecclesiastici l'esonero dagli
oneri municipali. Moneta di Costantino, con una rappresentazione del Sol
Invictus e l'iscrizione SOLI INVICTO COMITI, "al Sole Invitto
compagno" Moneta di Costantino con la rappresentazione del monogramma
di Cristo sopra il labaro imperiale Le monete coniate da Costantino forniscono
indirettamente notizie sull'atteggiamento pubblico di Costantino verso i culti
religiosi. Quando ancora ricopriva il ruolo di principe, alcune emissioni si
inserirono nel classico filone della Tetrarchia, con dediche «al Genio del
Popolo Romano» ("Gen Pop Romani"), provenienti specialmente dalla
zecca di Londinium (Londra). Ancora per alcuni anni dopo la battaglia di Ponte
Milvio le zecche orientali (Alessandria, Antiochia, Cyzicus, Nicomedia, ecc.)
continuarono a produrre monete dedicate «a Giove salvatore» (Iovi conservatori).
Nello stesso periodo le monete delle zecche occidentali (Arles, Londra, Lione,
Augusta Treverorum, Pavia, ecc) continuarono a coniare monete dedicate «al Sole
invitto compagno» e, nel caso della zecca di Pavia, anche «a Marte salvatore»
(Marti Conservatori) e «a Marte Protettore della Patria» (Marti Patri
Conservatori). L'attributo «compagno» riferito al Sole, che manca in
monete analoghe di precedenti imperatori, è singolare e occorre chiedersene il
significato. Normalmente viene interpretato come «al compagno (di Costantino),
il Sole Invitto»; indicherebbe quindi una indiretta deificazione
dell'imperatore stesso. Il vero significato, però, potrebbe anche essere
completamente diverso. Nell'età imperiale, infatti, la parola latina comes,
oltre che «compagno» indicava un funzionario imperiale e perciò da essa è
derivato il titolo nobiliare «conte». Alle orecchie dei galilei, quindi, questa
strana legenda poteva ricordare che il sole non era un dio, ma una potenza
subordinata alla divinità suprema. A sua volta l'imperatore si presenta come
l'autorità suprema in terra allo stesso modo come il sole lo era in cielo;
autorità, però, entrambe subordinate. Questa interpretazione è confermata
dall'emissione (durante la prima guerra
civile contro Licinio), la cui legenda recita: SOLI INVIC COM DN (soli invicto
comiti domini), che potrebbe essere tradotto come «al sole invitto compagno del
signore», ma che sembra più logico tradurre «al sole invitto, ministro del
Signore». La maggior parte delle zecche sia in oriente sia in occidente
passarono a emissioni laiche benaugurali, fra cui per prima quella con la
legenda «Liete vittorie al principe perpetuo» (Victoriae laetae prin. perp.).Da
quell'anno dalle monete bronzee di Costantino iniziano a sparire gli dei
tradizionali, come Elio, Marte, Giove, sostituiti dall'immagine solitaria
dell'imperatore, che volge gli occhi verso l'alto, ad un divino generico, che
può essere interpretata come Giove. La monetazione aurea invece mantiene ancora
a lungo gli dei tradizionali, forse perché rivolta ai patrizi e a persone di
rango elevato, ancora legate alla religione tradizionale Le monete con
simboli dei galilei o supposti tali sono rare e costituiscono solo circa l'1%
delle tipologie conosciute. La zecca di Pavia (Ticinum) conia nel 315 un
medaglione d'argento in cui il monogramma di Cristo era riprodotto sopra l'elmo
piumato dell'imperatore. Solo dopo la vittoria su Licinio compare la tipologia
con il labaro imperiale e il monogramma di Cristo, che trafiggono un serpente,
simbolo appunto di Licinio,[99] e simultaneamente scompaiono del tutto dalle
monete sia le immagini del sole invitto sia la corona radiata, altro simbolo apollineo
e solare. Nel 326 appare il diadema, simbolo monarchico di derivazione
ellenistica, e poco dopo il sovrano viene raffigurato con lo sguardo rivolto in
alto, come nei ritratti ellenistici, a simboleggiare il contatto privilegiato
tra l'imperatore e la divinità. L'ambiguitas constantiniana Quanto sopra
osservato a proposito delle monete di Costantino, cioè la volontà imperiale di
presentarsi come un prediletto dal cielo, senza, però, mettere in chiaro quale
fosse la divinità, può essere rilevato in molti altri aspetti dell'impero di
Costantino. Il ruolo determinante giocato da Costantino nell'ambito della
chiesa cristiana (ad esempio tramite la convocazione di concili e il
presiederne i lavori) non deve oscurare il fatto che Costantino svolse funzioni
analoghe nell'ambito di altri culti. Egli infatti mantenne la carica di
pontefice massimo della religione pagana; carica che era stata di tutti gli
imperatori romani a partire da Augusto. Lo stesso fecero i suoi successori
cristiani fino al 375. Anche la battaglia di Ponte Milvio, con cui nel
312 Costantino sconfisse Massenzio, diede origine a leggende discordanti, che,
però, potrebbero risalire tutte a Costantino, sempre attento a presentarsi come
prescelto dal divino, qualunque essa fosse. Per queste leggende si veda la voce
in hoc signo vinces. In questo senso si spiegano sia l'editto imperiale di
tolleranza o l'editto di Milano del 313 (conferma rafforzata di un editto di
Galerio del 30 aprile 311), sia l'iscrizione sull'arco di Costantino: entrambi citano
una generica "divinità", che poteva dunque essere identificata sia
con il Dio cristiano, sia con il dio solare. L'ambiguità dell'Editto di Milano,
però, è ovvia, dato che esso fu proclamato da Licinio. Costantino persegue
probabilmente il proposito di riavvicinare i culti presenti nell'impero, nel
quadro di un non troppo definito monoteismo imperiale. Vi fu una grande
confusione da parte degli osservatori esterni del cristianesimo che portò molti
ad identificare i cristiani come adoratori del sole. Molto prima che Eliogabalo
e i suoi successori diffondessero a Roma il culto siriaco del Sol invictus,
molti romani ritenevano che i cristiani adorassero il sole: «Gli
adoratori di Serapide sono cristiani e quelli che sono devoti al dio Serapide
chiamano se stessi Vicari di Cristo» (Adriano) «…molti ritengono
che il Dio cristiano sia il Sole perché è un fatto noto che noi preghiamo
rivolti verso il Sole sorgente e che nel Giorno del Sole ci diamo alla
gioia» (Tertulliano, Ad nationes, apologeticum, de testimonio
animae) Questa confusione era senz'altro favorita dal fatto che Gesù era
risorto nel primo giorno della settimana, quello dedicato al sole, e perciò i
cristiani avevano l'abitudine di festeggiare proprio in quel giorno (oggi
chiamato domenica): «Nel giorno detto del Sole si radunano in uno stesso
luogo tutti coloro che abitano nelle città o in campagna, si leggono le memorie
degli apostoli o le scritture dei profeti, per quanto il tempo lo consenta;
poi, quando il lettore ha terminato, il presidente istruisce a parole ed esorta
all'imitazione di quei buoni esempi. Poi ci alziamo tutti e preghiamo e, come
detto poco prima, quando le preghiere hanno termine, viene portato pane, vino e
acqua, e il presidente offre preghiere e ringraziamenti, secondo la sua
capacità, e il popolo dà il suo assenso, dicendo Amen. Poi viene la
distribuzione e la partecipazione a ciò che è stato dato con azioni di grazie,
e a coloro che sono assenti viene portata una parte dai diaconi. Coloro che
possono, e vogliono, danno quanto ritengono possa servire: la colletta è
depositata al presidente, che la usa per gli orfani e le vedove e per quelli
che, per malattia o altre cause, sono in necessità, e per quelli che sono in
catene e per gli stranieri che abitano presso di noi, in breve per tutti quelli
che ne hanno bisogno.» (Giustino, II secolo) Questa scelta
liturgica era inevitabile. Il giorno del sole, infatti, non solo era proprio il
primo della settimana, quello in cui Gesù era risorto, ma anche aveva una valenza
metaforica teologicamente e scritturalmente corretta. L'abitudine di chiamare
tale giorno "giorno del Signore" (dies dominica, da cui, appunto il
nome domenica) compare per la prima volta alla fine del primo secolo
(Apocalisse 1, 10[100]) e poco dopo nella didaché, prima cioè che il culto del
Sol Invictus prendesse piede. Anche la decisione di celebrare la nascita
di Cristo in coincidenza col solstizio d'inverno ha dato origine a molte
controversie, dato che le date di nascita di Gesù fornite dai Vangeli sono
imprecise e di difficile interpretazione. Le prime notizie di feste cristiane
per celebrare la nascita di Cristo risalgono circa all'anno 200. Clemente
Alessandrino riporta diverse date festeggiate in Egitto, che sembrano
coincidere con l'Epifania o col periodo pasquale (cfr. Data di nascita di
Gesù). Nel 204 circa, invece, Ippolito di Roma propone il 25 dicembre (e la
correttezza storica di tale scelta sembrerebbe essere stata approssimativamente
confermata da recenti scoperte). La decisione delle autorità romane, tuttavia,
di uniformare la data delle celebrazioni proprio il 25 dicembre potrebbe essere
stata stabilita in buona parte per motivi "politici" in modo da
congiungersi e sovrapporsi alle feste pagane dei Saturnali e del Sol
invictus. La confusione delle date liturgiche fra i culti continuò per un
certo periodo, anche perché ovviamente l'editto di Tessalonica, che proibiva i
culti diversi dal cristianesimo, non determinò la conversione immediata dei
pagani. Ancora ottanta anni dopo, nel 460, il papa Leone I sconsolato
scriveva: «È così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni
cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver
salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano
in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per
questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono
astenersi da ogni apparenza di ossequio a questo culto degli dei.» (Papa
Leone I, 7° sermone tenuto nel Natale del 460 - XXVII-4) La
sovrapposizione fra culto solare e culto cristiano ha dato origine a molte
controversie, tanto che alcuni hanno sostenuto che il cristianesimo sia stato
pesantemente influenzato dal mitraismo e dal culto del Sol invictus o addirittura
trovi in essi la sua radice vera. Questa ipotesi si forma durante il
Rinascimento, ma si è diffusa negli ultimi decenni del XX secolo, tanto da
essere considerata (se non accettata) perfino negli ambienti più progressisti
delle chiese cristiane. Un esempio di questa ipotesi ce lo fornisce il vescovo
siriano Jacob Bar-Salibi che, alla fine del XII secolo, scrive:[102] «Era
costume dei pagani celebrare al 25 dicembre la nascita del Sole, in onore del
quale accendevano fuochi come segno di festività. Anche i Cristiani prendevano
parte a queste solennità. Quando i dotti della Chiesa notarono che i Cristiani
erano fin troppo legati a questa festività, decisero in concilio che la
"vera" Natività doveva essere proclamata in quel giorno.»
(Jacob Bar-Salibi) Anche l'allora cardinale Joseph Ratzinger (poi papa
Benedetto XVI) parla della cristianizzazione della festa antico romana dedicata
al sole e agli dei che lo rappresentavano.[103] Nel 321 fu introdotta la
settimana di sette giorni e fu decretato come giorno di riposo il dies Solis
(il "giorno del Sole", che corrisponde alla nostra domenica).
(LA) «Imperator Constantinus.Omnes iudices urbanaeque plebes et artium officia
cunctarum venerabili die solis quiescant. ruri tamen positi agrorum culturae
libere licenterque inserviant, quoniam frequenter evenit, ut non alio aptius
die frumenta sulcis aut vineae scrobibus commendentur, ne occasione momenti
pereat commoditas caelesti provisione concessa. * Const. A. Helpidio. * <a
321 PP. V NON. MART. CRISPO II ET CONSTANTINO II CONSS.>» (IT) «Nel
venerabile giorno del Sole, si riposino i magistrati e gli abitanti delle
città, e si lascino chiusi tutti i negozi. Nelle campagne, però, la gente sia
libera legalmente di continuare il proprio lavoro, perché spesso capita che non
si possa rimandare la mietitura del grano o la cura delle vigne; sia così, per
timore che negando il momento giusto per tali lavori, vada perduto il momento
opportuno, stabilito dal cielo.» (Codice giustinianeo 3.12.2)
Benché dopo la sconfitta di Licinio il cristianesimo di Costantino trovi sempre
più conferme pubbliche, occorre non dimenticare che: «Mentre egli e sua madre
abbelliscono la Palestina e le grandi città dell'impero di sfarzosissime
chiese, nella nuova Costantinopoli egli fa costruire anche dei templi pagani.
Due di questi, quello della Madre degli dèi e quello dei Dioscuri, possono
essere stati semplici edifici decorativi destinati a contenere le statue
collocatevi come opere d'arte, ma il tempio e la statua di Tyche,
personificazione divinizzata della città, dovevano essere oggetto di un vero e
proprio culto».[104] Probabilmente il progetto politico di Costantino di
tollerare il Cristianesimo, se non frutto di una conversione personale
autentica, nacque dalla presa d'atto del fallimento della persecuzione contro i
cristiani scatenata da Diocleziano. La sconfitta così clamorosa di Diocleziano
aveva dovuto persuadere Costantino che l'Impero aveva bisogno di una nuova base
morale che la religione tradizionale era incapace di offrirgli. Bisognava, quindi,
trasformare la forza potenzialmente disgregante delle comunità cristiane,
dotate di grandi capacità organizzative oltre che di grande entusiasmo, in una
forza di coesione per l'Impero. Questo è il senso profondo della svolta
costantiniana, che finì per chiudere la fase movimentista del cristianesimo
trascendente e aprire quella del cristianesimo politicamente trionfante. Dal
313 in poi i cristiani furono inseriti sempre di più nei gangli vitali del
potere imperiale. Inoltre, alla Chiesa cristiana, già alimentata cospicuamente
dal flusso delle contribuzioni spontanee dei fedeli, furono concesse numerose
esenzioni e privilegi fiscali, moltiplicandone la ricchezza. Dopo l'esercito,
la Chiesa cristiana grazie a Costantino stava diventando il secondo pilastro
dell'Impero.[105] La leggenda della donazione costantiniana Secondo una
tarda leggenda medievale, Costantino, dopo la battaglia di Ponte Milvio, fece
dono a papa Silvestro I (convinto di essere stato da lui guarito dalla lebbra),
dello splendido Palazzo Laterano (di proprietà della moglie Fausta),
consegnando così al papa romano la città di Roma e dando avvio, con quell'atto
di devoluzione, al potere temporale dei papi,[106] ma la cosiddetta Donazione
di Costantino (nota in latino come "Constitutum Constantini", ossia
"decisione", "delibera", "editto") è un documento
apocrifo conservato in copia nelle Decretali dello Pseudo-Isidoro (IX secolo)
e, come interpolazione, in alcuni manoscritti del Decretum di Graziano (XII
secolo). Nel 1440 il filologo italiano Lorenzo Valla[107] dimostrò in modo
inequivocabile come il documento fosse un falso. Colonna di
Costantino I a Costantinopoli. Sotto di essa l'imperatore avrebbe posto amuleti
pagani e reliquie cristiane a protezione della città La leggenda della
donazione quindi probabilmente voleva dare un fondatore illustre, il primo
imperatore cristiano, al successivo disegno politico di imporre il
Cristianesimo come unica religione ufficiale dell'impero romano. Tale sviluppo
però ebbe luogo solo a partire dall'epoca tarda, con Graziano e Teodosio quindi
verso la fine del IV secolo (391). Dopo la caduta dell'Impero d'occidente, nel
476, la "donazione" divenne la base giuridica del Papato per
legittimare il proprio potere temporale sulla città di Roma e la sua
indipendenza dall'imperatore. La conversione Costantino mantenne il
titolo di Pontifex Maximus che gli spettava come imperatore e condusse una
politica di mediazione tra i vari culti dell'Impero e anche tra le diverse
correnti del nascente Cristianesimo. Ricevette il battesimo cristiano
solo in punto di morte,[14][108] per mano di un suo consigliere, il vescovo
ariano Eusebio di Nicomedia.[109] Alcuni storici, però, ritengono che questo
racconto possa essere stato tramandato per motivi politico-religiosi e propagandistici.[110].
Va detto che il battesimo ricevuto sul letto di morte da catecumeno era
un'usanza del tempo, quando non essendo stato ancora riconosciuto il sacramento
della confessione si preferiva annullare tutti i propri peccati prima della
morte, che avveniva così in albis. Senza escludere l'utilità politica
attesa da Costantino dall'alleanza con la Chiesa cattolica, alcuni documenti
risalenti al periodo dell'Editto di Milano rivelerebbero un avvicinamento
dell'imperatore al cristianesimo ben più marcato di quanto descritto da parte
della storiografia, in una lettera del 314-315 di Costantino a Elafio, suo
vicario imperiale in Africa, si rivolgeva infatti circa lo scisma donatista con
queste parole[111]: «… non sarò mai soddisfatto né mi aspetterò prosperità e
felicità dal potere misericordioso dell'Onnipotente fino a quando non sentirò
che tutti gli uomini offrono al Santissimo la retta adorazione della religione
cattolica in una comune fratellanza…» solo dieci anni più tardi scriveva
a Sapore II re di Persia con medesimi accenti[112]: «…Io sarò soddisfatto solo
quando vedrò che tutti pregheranno, con fraterna concordia d'intenti,
nell'autentico culto della Chiesa universale…» ciò farebbe pensare che il
battesimo venne amministrato in punto di morte a Nicomedia solo come termine di
un lungo processo di conversione che non fu estraneo a contaminazioni con
ambienti dell'arianesimo, nella cui fede fu battezzato. Tali contaminazioni gli
costarono la mancata canonizzazione cattolica (per la Chiesa cattolica,
coerentemente, la santificazione spetta solo a coloro che sono stati battezzati
secondo le norme cattoliche) e gli concessero l'inserimento ufficiale solo tra
i santi ortodossi; accadde diversamente per la madre Elena, che si commemora il
18 di agosto, il cui battesimo fu invece celebrato in osservanza di tale
liturgia. Fu dunque l'adesione all'arianesimo negli ultimi anni della sua vita,
quelli successivi alla partenza per la nuova Costantinopoli, a indurre la
Chiesa di Roma a prenderne le distanze; ciò avvenne attraverso la riscrittura
agiografica della vita, da parte di papa Silvestro I (314–335) così come
descritta negli Actus Silvestri.[113]. Non è altresì da escludere che
sulla conversione di Costantino abbiano influito in modo determinante gli eventi
succedutisi dagli inizi del IV secolo con la constatazione del fallimento delle
persecuzioni del 303 e l'editto di Galerio del 311 che tentava di far rientrare
la religione cristiana nell'alveo di tutte le altre religioni ammesse
nell'impero, che tradiva il timore dell'universalismo del cristianesimo che
metteva a rischio le istituzioni romane basate sulle differenze
etniche[114]. Dal papiro di Londra numero 878, che contiene una parte di
un editto del 324, e da un'attenta riconsiderazione storica pare che Costantino
fosse animato da "un effettivo accostamento al sentimento
cristiano"[115]. Che sia stato per convinzione personale o per
calcolo politico, Costantino appoggiò comunque la religione cristiana
soprattutto dopo l'eliminazione di Licinio nel 324, costruendo basiliche a
Roma, Gerusalemme e nella stessa Costantinopoli; conferì alle chiese il diritto
di ricevere beni in eredità e quelle maggiori furono dotate di vaste proprietà;
diede ai vescovi vari privilegi e poteri giudiziari, quali quello di essere
giudicati da loro pari ponendo le basi al principio relativo al vescovo di Roma
del prima sedes a nemine iudicatur; concesse gli episcopalis audientia. Fu in
epoca costantiniana inoltre, una volta identificata la Chiesa secondo la
definizione paolina di Corpus Mysticum e ritenuta capace di ricevere donazioni
ed eredità, che ebbe luogo il concetto, prima sconosciuto nella legislazione
romana, di persona giuridica nella successiva legislazione[116]. Il
riformatore cristiano Lo stesso argomento in dettaglio: Concilio di Nicea
I. L'icona di San Costantino nel Castello di Lari (Toscana), opera
realizzata per i 1700 anni dell'editto di Milano del 313 La politica di
Costantino mirava a creare una base salda per il potere imperiale sull'assioma
che c'era un unico vero dio, una sola fede e quindi un unico legittimo
imperatore. Nella stessa religione cristiana per questo motivo era dunque
importantissima l'unità: Costantino fu promotore, pur non essendo battezzato,
di diversi concili, per risolvere le questioni teologiche che dividevano la
Chiesa. In tali concili presenziò come pontifex maximus dei romani o
"vescovo di quanti sono fuori della chiesa". Il primo fu quello
convocato ad Arelate (primo concilio di Arles), in Francia nel 314, che confermò
una sentenza emessa da una commissione di vescovi a Roma, che aveva condannato
l'eresia donatista, intransigente nei confronti di tutti i cristiani che si
erano piegati alla persecuzione dioclezianea: in particolare si trattava del
rifiuto di riconoscere come vescovo di Cartagine Cipriano, il quale era stato
consacrato da un vescovo che aveva consegnato i libri sacri. Ancora nel
325, convocò a Nicea il primo concilio ecumenico, che lui stesso inaugurò, per
risolvere la questione dell'eresia ariana: Ario, un prete alessandrino
sosteneva che il Figlio non era della stessa "sostanza" del padre, ma
il concilio ne condannò le tesi, proclamando l'omousia, ossia la medesima
natura del Padre e del Figlio. Il concilio di Tiro del 335 condannerà tuttavia
Atanasio, vescovo di Alessandria, il più accanito oppositore di Ario,
soprattutto a causa delle accuse politiche che gli vennero rivolte.
L'imperatore fece costruire numerose chiese cristiane, tra cui le basiliche del
Santo Sepolcro a Gerusalemme, la basilica di Mamre e la basilica della Natività
a Betlemme. A Roma eleva la basilica del Laterano e la prima basilica di San
Pietro. Per la sua sepoltura decise di non farsi seppellire nel mausoleo dove
era già la madre a Roma, ma si fece costruire un mausoleo a Costantinopoli vicino
o all'interno della chiesa dei Santi Apostoli, tra le reliquie di questi
ultimi, che cercò di radunare. Eusebio di Cesarea narra che Costantino fu
munifico e ornò gli edifici di oro, marmi, colonne, e splendidi arredi.
Purtroppo nessuna delle basiliche originali di Costantino si è conservata fino
ai giorni nostri, salvo pochi resti di fondazioni. In tutto l'impero, i templi
pagani, salvo poche eccezioni, non vennero riconvertiti in chiese, ma
abbandonati, perché inadatti al nuovo culto che richiedeva la presenza di
numerosi fedeli all'interno. I culti pagani invece si svolgevano all'aperto,
con la cella del tempio riservata al dio. Vi fu quindi la riconversione ad uso
religioso di un particolare tipo di edificio romano, la basilica civile.
Culto Anche se divenuto cristiano, alla morte Costantino venne divinizzato
(divus), per decreto del senato, con la cerimonia pagana dell'apoteosi, come
era consuetudine per gli imperatori romani. Costantino, nonostante avesse
iniziato a costruire un grandioso mausoleo di famiglia a Roma, lo lasciò a sua
madre (il cd. Mausoleo di Elena) e volle essere sepolto a Costantinopoli, nella
Chiesa dei Santi Apostoli, divenendo così il primo imperatore a essere sepolto
in una chiesa cristiana. Costantino è considerato santo dalla Chiesa
ortodossa, che secondo il Sinassario Costantinopolitano lo celebra il 21 maggio
assieme alla madre Elena. La santità di Costantino non è riconosciuta
dalla Chiesa cattolica (infatti non è riportato nel Martirologio Romano), che
tuttavia celebra sua madre[117] il 18 agosto. A livello locale il culto
di san Costantino è comunque autorizzato anche nelle chiese di rito
romano-latino. In Sardegna, per esempio, la festa del santo (nella tradizione
religiosa sarda) ricorre il 7 luglio. Il 23 aprile invece, viene festeggiato a
Siamaggiore, in provincia di Oristano, l'unico paese dell'isola in cui
Costantino Magno Imperatore ne è anche il patrono. Nell'isola esistono due
santuari principali dedicati all'imperatore: uno si trova a Sedilo, nel centro
geografico dell'isola, in provincia di Oristano, dove il 6 e 7 luglio di ogni
anno si corre l'Ardia, una sfrenata e spettacolare corsa a cavallo di origine
bizantina che rievoca la vittoria del 312 a Ponte Milvio; l'altro è a
Pozzomaggiore, in provincia di Sassari. Altre attestazioni minori si hanno in
vari luoghi della Sicilia; l'ultimo sabato di luglio, a Capri Leone, paese in
provincia di Messina, si festeggia la festività in suo onore, dove per
devozione paesana egli è divenuto Santo Patrono. Suggestiva la processione
serale, con il simulacro di Costantino Imperatore portato a spalla dai
fedeli. Titolatura imperiale Lo stesso argomento in dettaglio:
Monetazione tetrarchica e Monetazione di Costantino e dei Costantinidi.
Titolatura imperialeNumero di volteDatazione evento Tribunicia potestas33
volte: la prima volta il 25 luglio del 306, la seconda il 10 dicembre del 306,
la terza nel settembre del 307, la quarta il 10 dicembre del 307 e poi
annualmente ogni 10 dicembre fino al 337 (anno in cui non assunse l'iterazione
perché premorì il 22 maggio). Consolato 8 volte. ), 326 (VII), 329 (VIII).
Salutatio imperatoria32 volte:[118]la prima nel 306 quando fu proclamato
Caesar, poi nel 307 (2° e 3°), 308 (4°), poi rinnovata ogni anno dal luglio del
309 fino al luglio del 336.[118] Titoli vittoriosiGermanicus maximus IV ; Sarmaticus
maximus III[6] (317/319,[10] 323[5] e 334[5]); Gothicus maximus II (328 o 329 e
332[5][6][7][9]); Dacicus maximus; Adiabenicus (ante 315[9]); Arabicus maximus;
Armeniacus maximus (tra il 315 e il 319[10]); Britannicus maximus (ante
315[9][10]); Medicus maximus (ante 315[9][10]); Persicus maximus (nel
312/313,[12] ante 315[9]). Altri titoliCaesar (dal 306 al 308), Filius
Augustorum (dal 308 al 310)[120] e Augustus (dal 310 al 337); Pius, Felix,
Pontifex Maximus (dal 306);[118] Invictus, Pater Patriae, Proconsul dal
310;[121] Maximus dal 312;[2][118] Victor (in sostituzione di Invictus) dal
324;[118][122] Triumphator (titolo aggiunto tra il 328 ed il 332).[4] Località
italiane in cui è attestato il culto a San Costantino imperatore Calabria
Calabria, Provincia di Vibo Valentia, San Costantino Calabro Calabria,
Provincia di Vibo Valentia, Briatico, San Costantino di Briatico (frazione)
Lucania Basilicata, Provincia di Potenza, San Costantino Albanese
Basilicata, Provincia di Potenza, Rivello, San Costantino (frazione)
Sardegna Sardegna, Provincia di Oristano, Siamaggiore, Parrocchiale di
San Costantino Magno Imperatore Sardegna, Provincia di Oristano, Sedilo, Santuario
di Santu Antinu Sardegna, Provincia di Sassari, Pozzomaggiore, Chiesa di San
Costantino (Pozzomaggiore) Toscana Toscana, Provincia di Pisa, Casciana
Terme Lari, Castello dei Vicari a Lari Toscana, Provincia di Pisa, Casciana
Terme Lari, Santuario di San Martino in Petraja a Casciana Terme Trentino-Alto
Adige Trentino-Alto Adige, comune di Fiè allo Sciliar, frazione di San
Costantino/St. Konstantin, Chiesa di San Costantino Trentino-Alto Adige, comune
di Naz-Sciaves, frazione di Raas, Chiesa dei Santi Egidio e Costantino Note ^
Costantino si attribuì il titolo Invictus dopo la propria autoproclamazione ad
Augusto, nella seconda metà del 310. Si veda nel merito Thomas Grünewald,
Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen
Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 46-61. Il senato di Roma gli accordò
questo titolo dopo la vittoria su Massenzio. Si veda Lattanzio, De mortibus
persecutorum XLIV 11-12. ^ Costantino adottò il titolo Victor in sostituzione
di Invictus nel 324, dopo la vittoria definitiva su Licinio. Si veda nel merito
Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der
zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 134-144. Costantino
adottò il titolo Triumphator al tempo delle campagne gotiche sul confine
danubiano. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus
Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung,
Stoccarda 1990, pp. 147-150. Timothy Barnes, The victories of
Constantine, in Zeitschrift fur Papyrologie und Epigraphik 20, 1976,
pp.149-155. CIL
VI, 40776. CIL VIII, 8477 (p 1920). CIL VIII, 10064. CIL
VIII, 23116. Iscrizione databile al 319 sulla quale troviamo diversi
titoli vittoriosi: «Imperatori Caesari Flavio Constantino Maximo Pio Felici
Invicto Augusto pontifici maximo, Germanico maximo III, Sarmatico maximo
Britannico maximo, Arabico maximo, Medico maximo, Armenico maximo, Gothico
maximo, tribunicia potestate XIIII, imperatori XIII, consuli IIII patri
patriae, proconsuli, Flavius Terentianus vir perfectissimus praeses provinciae
Mauretaniae Sitifensis numini maiestatique eius semper dicatissimus.»
(CIL VIII, 8412 (p 1916)) ^ Y.Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica.
Da Diocleziano alla caduta dell'impero, Roma, 2008, p.53; C.Scarre, Chronicle
of the roman emperors, New York, 1999, p.214. Eusebio di Cesarea,
Historia ecclesiastica, IX, 8, 2-4; Giovanni Malalas, Cronografia, XII, p.311,
2-14; IL Alg-1, 3956 (Africa proconsularis, Tenoukla): Dddominis nnnostris
Flavio Valerio Constantino Germanico Sarmatico Persico et Galerio Maximino
Sarmatico Germanico Persico et Galerio Valerio Invicto (?) Pio Felici Augusto
XI. ^ Il giorno e il mese sono largamente accettati, mentre l'anno è talvolta
anticipato al 271 o ritardato al 275 o anche molto più tardi (ad esempio
"ca. 280" secondo l'Enciclopedia Europea della Garzanti del 1977.
Fonti WEB citano addirittura il 289.). Il suo biografo ufficiale, Eusebio di
Cesarea, dice soltanto che la sua vita fu approssimativamente lunga il doppio
del suo regno, cioè circa 62-63 anni. Purtroppo Eusebio dichiara che il suo
regno durò 32 anni (e non 31), in quanto contava come interi anche gli spezzoni
incompleti dell'anno di nascita e di morte; ciò ha indotto in errore alcuni
storici, che anticipano di due anni la sua nascita. Nel merito si veda inoltre
Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, pp. 39-42. Sesto
Aurelio Vittore, De Caesaribus, 41.16; Sofronio Eusebio Girolamo, Cronaca, 337,
p. 234, 8-10; Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 8.2; Annales
Valesiani, VI, 35; Orosio, Historiae adversos paganos, VII, 28, 31; Chronicon
paschale, p.532, 7-21; Teofane Confessore, Chronographia A.M. 5828 (testo
latino); Michele siriaco, Cronaca, VII, 3. ^ Il titolo imperiale ufficiale era
IMPERATOR CAESAR FLAVIVS CONSTANTINVS PIVS FELIX INVICTVS AVGVSTVS; dopo il 312
aggiunse MAXIMVS ("il grande") e dopo il 325 sostituì INVICTVS con
VICTOR, in quanto INVICTVS ricordava il culto del Sol Invictus. ^ Costantino I,
in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati.it. ^ Origo
Constantini Imperatoris 2, 2. ^ Barnes, Constantine and
Eusebius, 3, 39–42; Elliott, Christianity of Constantine, 17; Odahl, 15;
Pohlsander, "Constantine I"; Southern, 169, 341. ^ Charles M. Odahl,
Constantine and the Christian empire, London, Routledge, Gabucci, Ancient Rome
: art, architecture and history, Los Angeles, CA, J. Paul Getty Museum, Barnes,
Constantine and Eusebius, 3; Lenski, "Reign of Constantine" (CC),
59–60; Odahl, 16–17. ^ Drijvers, J.W. Helena Augusta: The Mother of Constantine
the Great and the Legend of Her finding the True Cross (Leiden, 1991) 9, 15–17.
^ Barnes, Constantine and Eusebius, 3; Barnes, New Empire, 39–40; Elliott,
Christianity of Constantine, 17; Lenski, "Reign of Constantine" (CC),
59, 83; Odahl, 16; Pohlsander, Emperor Constantine, 14. ^ Eleanor H. Tejirian e
Reeva Spector Simon, Conflict, conquest, and conversion two thousand years of
Christian missions in the Middle East, New York, Columbia; Barnes, The New
Empire of Diocletian and Constantine, pp. 39-42. ^ Epitome de
Caesaribus, 41.16 ^ Come convincentemente dimostrato in A. Alflödi,
Constantinus... proverbio vulgari Trachala... nominatus, in BHAC, 1970, (Bonn
1972) pp. 1-5. Nel merito si veda anche V. Neri, Le fonti della vita di
Costantino nell'Epitome de Caesaribus, in Rivista storica dell'antichità
XVII-XVIII/1987-88, Bologna; Lattanzio, De mortibus persecutorum, 18, 10. ^
Costantino I, Oratio ad sanctorum coetum 16. ^ Eusebio di Cesarea, Vita di
Costantino I, 19. ^ Origo Constantini Imperatoris 2, 3. Tra il 299 ed il 307 i
Tetrarchi iterano il titolo Sarmatico massimo per quattro volte e ciò ben
testimonia l'intenso sforzo bellico profuso contro tale popolazione barbara. Si veda Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later
Roman Empire, pp. 179-180. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 18,
8-14; Eutropio X, 2, 1. ^ Lattanzio, De mortibus persecutorum 24, 3-8; Zosimo
II, 8, 3. ^ Origo Constantini Imperatoris 2,4; Zonara XII. ^ Epitome de
Caesaribus, 41, 3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 25, 1-5 ^ Moreau,
Lactance. De la mort des persécuteurs, Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26,
1-3; Zosimo II, 9, 2-3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26, 6-9. ^
Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26, 10. ^ Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 27, 2-3. ^ Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in
the Later Roman Empire, p. 71. ^ Pasqualini, Massimiano Herculius. Per
un'interpretazione della figura e dell'opera, p. 87. ^ Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 28, 1-2. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 28, 3-4; Zosimo
II, 11, 1. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 1. ^ Sulle deliberazioni
di Carnuntum si veda Roberto, Diocleziano, pp. 247-249. ^ Lattanzio, De
Mortibus Persecutorum, 29, 3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 4-7. ^
Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 8. ^ Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum; Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 32, 5. Zosimo, Storia nuova, II, 15, 1. ^ Eutropio,
Breviarium historiae romanae, X, 4. ^ Barnes, Constantine and Eusebius, pp.
42–44. ^ Nella pianura tra Rivoli e Pianezza: Vittorio Messori e Giovanni
Cazzullo, Il Mistero di Torino, Milano, Mondadori, Zosimo, Storia nuova, II,
26. ^ Zosimo, Storia nuova, II, 28. Zosimo, Storia nuova, II, 29. ^
Battesimo di Costantino, su treccani.it. URL consultato il 21 febbraio 2021. ^
Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004. ^ Zosimo,
Storia nuova, II, 30. Zosimo, Storia nuova, II, 33.1. Zosimo,
Storia nuova, II, 33.2. Zosimo, Storia nuova, II, 33.3. ^ Ammiano
Marcellino, Storie; Gibbon (a cura di Saunders), pag. 254-255. ^ Zosimo, Storia
nuova, II, 33.4. ^ Gibbon (a cura di Saunders), Per la traduzione di
"comes" con "ministro" si interpreti: Ita etiam qui sacri
Palatii ministeriis ac officiis praeficiebantur, eorumdem ministeriorum ac
officiorum Comites dicti, ut ex infra observandis constat., cfr. Du Cange, II,
423 Anselmo Baroni, Cronologia della storia romana dal 235 al 476, p.
1026-1027. ^ Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 3. Zosimo, Storia
nuova, II, 21, 1-3. V.A. Maxfield, L'Europa continentale, pp. 210-213. ^
Anselmo Baroni, Cronologia della storia romana; Flavio Claudio Giuliano, De
Caesaribus, 329c. ^ C.R.Whittaker, Frontiers of the Roman empire. A social ad
economic study, Baltimora & London, 1997, p.202. ^ Zosimo, Storia nuova,
II, 17, 2. Yann Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano
alla caduta dell'impero, Roma, 2008, p.53. ^ Giovanni Lido, De magistratibus,
II, 10; Zosimo, Storia nuova, II, 33.3. ^ Y.Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma
antica. Da Diocleziano alla caduta dell'impero, Roma, Zosimo, Storia nuova, II,
34.2. ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Più
tardi, nel 358, il vescovo Macedonio fece traslare il sarcofago imperiale
nell'attiguo mausoleo del martyrium di S. Acacio. ^ Chronicon paschale, p.532,
1-21. ^ Bury, p. 12. ^ Chronicon paschale, p.533, 5-17; Passio Artemii, 8
(8.12-19); Zonara, L'epitome delle storie, XIII, 4, 25-28. ^ In particolare
furono uccisi i fratellastri di Costantino I, Giulio Costanzo, Nepoziano e
Dalmazio, alcuni loro figli, come Dalmazio Cesare e Annibaliano, e alcuni
funzionari, come Optato e Ablabio. ^ Eutropio, Breviarium historiae romanae, X,
9. ^ Zosimo, Storia nuova, ii.40. ^ Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi
tempi, tr.it. Longanesi 1957, p.521 ^ Ad esempio, Guido Clemente, titolare della
cattedra di storia romana all'università di Firenze, autore di una Guida alla
storia romana; Augusto Fraschetti, docente di storia economica e sociale del
mondo antico presso la Sapienza di Roma, autore de La conversione. Da Roma
pagana a Roma cristiana; Arnaldo Marcone docente di Storia romana
all'università di Udine, autore di Pagano e cristiano. Vita e morte di
Costantino; Robin Lane Fox, docente di Storia antica presso il College di
Oxford, autore di Pagani e cristiani; e molti altri titolati studiosi del mondo
antico, come Andrea Alfoldi, Franchi de' Cavalieri, Norman Baynes, Marta Sordi,
Klaus Bringmann. ^ Paul Veyne, Quando l'Europa è diventata cristiana (312-394),
Collezione Storica Garzanti, Milano, 2008 pp. 64-65 ^ G. Filoramo, La croce e
il potere, Mondadori, Milano; Horst, Costantino il grande, Milano 1987, p. 31.
^ Il ripudio nel tardo Impero: una costituzione di Teodosio II, su
jus.vitaepensiero.it. ^ Dal Gesù storico al Cristo della fede: la svolta
costantiniana, su homolaicus.com. ^ Costantino e la legislazione antiereticale.
La costruzione della figura dell'eretico ^ Notizie in inglese sulle monete di
Costantino in bronzo con simboli cristiani ^ Apocalisse 1, 10, su La Parola -
La Sacra Bibbia in italiano in Internet. ^ La nascita di Gesù è avvenuta
secondo i vangeli circa quindici mesi dopo l'annuncio a Zaccaria della nascita
del Battista. La collocazione di questo evento nell'ultima settimana di
settembre, in accordo con la tradizione cristiana, è compatibile con le notizie
oggi disponibili sul turno di servizio sacerdotale al tempio della classe
sacerdotale di Abia, alla quale apparteneva Zaccaria. Cfr. Data di nascita di
Gesù ^ da Christianity and Paganism in the Fourth to Eighth Centuries, Yale,
Ramsay MacMullen, 1997, p. 155 ^ La scelta del 25 dicembre per celebrare il
Natale cristiano: dal dies natalis del Sol invictus, espressione del culto
solare di Emesa (e del dio Mitra), alla celebrazione del Cristo, “sole che
sorge”, su gliscritti.it. URL consultato il 3 gennaio 2014. ^ Burckhardt, cit.
(p. 539) ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi; Ruffolo,
Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 156. ^ nella sua opera
De falso credita et ementita Constantini donatione ^ Sozomeno, Historia
Ecclesiastica, II,34; Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, IV,61–63; Socrate
Scolastico, Historia Ecclesiastica, I,39; Teodoreto di Cirro, Historia
Ecclesiastica, I,30. ^ Girolamo, Chronicon. ^ Alessandro Barbero, Costantino il
Vincitore, Salerno, In Epistula Constantini ad Aelafium, CSEL; Carile in
L'imperatore e la Chiesa. Dalla tolleranza (312) alla supremazia della
religione cristiana (380), alle contese per la cattolicità delle chiese;
Enciclopedia Costantiniana (2013), Treccani ^ Gli Actus Silvestri sono
menzionati la prima volta nel Decretum Gelasianum, documento attribuito a papa
Gelasio I, come affermato in: Marilena Amerise, Il battesimo di Costantino il
Grande. Storia di una scomoda eredità (Hermes Einzelschriften, 95), Franz
Steiner Verlag, München 2005, p.93 e ss.; Wilhelm Pohlkamp n Internet Archive.
aveva identificato nei manoscritti una versione più antica (A), datata alla
fine del IV- inizi del V secolo, e una versione più recente (B), del tardo V -
inizi del VI secolo. ^ v. A. Carile in L'imperatore e la Chiesa cit. ^ Ranuccio
Bianchi Bandinelli e Mario Torelli, L'arte dell'antichità classica,
Etruria-Roma, Utet, Torino 1976, pag 112. ^ Alberto Perlasca, Il concetto di
bene ecclesiastico, pp.50-51. ^ Anche se si pensa che la madre di Costantino
propendesse più per la religione ebraica, tanto da restare delusa alla notizia
della conversione al cristianesimo del figlio (Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia
era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 156). Scarre, Grünewald,
Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen
Überlieferung, Stoccarda; Galerio attribuì questo titolo a Costantino e
Massimino Daia subito dopo il convegno di Carnuntum, sostituendolo a quello di
Cesare. Si veda nel merito Alexandra Stefan, Un rang impérial nouveau à
l’époque de la quatrième Tétrarchie: Filius Augustorum. Première partie.
Inscriptions révisées: problèmes de titulature impériale et de chronologie, in
Antiquité Tardive; Costantino si attribuì il titolo Invictus, e con ogni
probabilità anche quello di Pater Patriae insieme alla carica di Proconsul,
dopo la propria autoproclamazione ad Augusto, nella seconda metà del 310. Si
veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus.
Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Costantino
adottò il titolo Victor in sostituzione di Invictus dopo la vittoria definitiva
su Licinio. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus.
Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Ammiano
Marcellino, Historiae X. (testo a fronte in inglese disponibile qui).
Aurelio Vittore, De Caesaribus (versione latina) Consolaria costantinopolitana,
s.a. 325. Chronicon paschale. Costantino I, Oratio ad sanctorum coetum. Epitome
de Caesaribus (versione latina). Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, I-IV,
(testo in latino e traduzione in inglese); Storia ecclesiastica (traduzione in
inglese). Eutropio, Breviarium historiae romanae (testo latino), IX-X .
Giordane, De origine actibusque Getarum; Vedi qui testo latino. Girolamo,
Cronaca, versione francese QUI. Lattanzio, De mortibus persecutorum, XXIV; Vedi
qui testo latino. Origo Constantini Imperatoris; Vedi qui testo latino e
traduzione in inglese. Orosio, Historiarum adversus paganos libri septem, libro
7 Vedi qui testo latino. Notitia dignitatum, Notitia dignitatum (testo latino)
. Panegyrici latini, IV, VII, IX e XII, QUI il testo latino. Socrate
Scolastico, Storia ecclesiastica, I. Sozomeno, Historia Ecclesiastica, I.
Teodoreto di Cirro, Historia Ecclesiastica, I. Teofane Confessore,
Chronographia (testo latino) . Zonara, L'epitome delle storie, XIII Vedi qui
testo latino. Zosimo, Storia nuova, I-II traduzione inglese del libro I, QUI.
Studi Andreas Alföldi, Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Laterza,
Roma-Bari; Barbero, Costantino il Vincitore, Salerno Editrice, Roma, Barnes,
The victories of Constantine, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik
Timothy Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge, MA Harvard; Barnes, The
New Empire of Diocletian and Constantine, Cambridge, MA Harvard University
Press, Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman
Empire, Wiley Blackwell, Malden - Oxford, 2011. Ranuccio Bianchi Bandinelli e
Mario Torelli, L'arte dell'antichità classica. Etruria-Roma, UTET, Torino, 1976
e successive rist. Jacob Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi tempi,
tr.it. Longanesi, Milano, Carpiceci e Marco Carpiceci, Come Costantin chiese
Silvestro d'entro Siratti - Costantino il grande, San Silvestro e la nascita
delle prime grandi basiliche cristiane, Edizioni Kappa, Roma 2006. André
Chastagnol, L'accentrarsi del sistema: la tetrarchia e Costantino, in: AA.VV.,
Storia di Roma, Einaudi, Torino, 1993, vol. III, tomo 1; ripubblicata anche
come Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, Ediz. de Il Sole 24 ORE, Milano; Ombretta
Cuneo, La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante; Giuffrè,
Diehl, La civiltà bizantina, Garzanti, Milano, 1962. (a cura di) Angela Donati
e Giovanni Gentili, Costantino il Grande: la civiltà antica al bivio tra
Occidente e Oriente, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Fraschetti, La
conversione: da Roma pagana a Roma cristiana, Laterza, Roma-Bari; Grünewald,
Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen
Überlieferung, Stoccarda Eberhard Horst, Costantino il Grande, Milano,
Bompiani, Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica: da Diocleziano alla caduta
dell'impero, Carocci, Roma, 2008. Arnaldo Marcone, Pagano e cristiano: vita e
mito di Costantino, Laterza, Roma-Bari, Maxfield, L'Europa continentale, in Il
mondo di Roma imperiale. La formazione, Laterza, Roma-Bari, Mazzarino, L'Impero
romano, tre vol., Laterza, Roma-Bari (v. vol. III); riediz. e successive rist.;
Moreau, Lactance. De la mort des persécuteurs, Parigi 1954. Elena Percivaldi,
Fu vero Editto? Costantino e il Cristianesimo tra storia e leggenda, Ancora
Editrice, Milano, Pasqualini, Massimiano Herculius. Per un'interpretazione
della figura e dell'opera. Roma, Rentetzi, Costantino, Elena e la vera croce.
Modelli iconografici nell'arte bizantina, Studi Ecumenici. - Istituto di Studi
Ecumenici S. Bernardino - Pontificia Università Antonianum, web.archive.///www.
isevenezia.it/it/ pubblicazioni/ pubblicazioni_dell_ise /rivista_
di_studi_ ecumenici/ Roberto, Diocleziano, Roma 2014. Giorgio Ruffolo, Quando
l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Torino, The paradigmatic value of the
depiction of Constantine in the homonymous arch in the formation of the Christ
in Throne's iconography ://web.archive.org
/web3051538/.ni.rs/ byzantium/ english.php (Paper presented to the
2008 Nis and Byzantium-VII International Scientific Meeting Symposium”, Nis,
3-5 June 2008), Nis, Scarre, Chronicle of the roman emperors, Pat Southern, The
Roman Empire: from Severus to Constantine, Londra, Stefan, Un rang impérial
nouveau à l’époque de la quatrième Tétrarchie: Filius Augustorum. Première
partie. Inscriptions révisées: problèmes de titulature impériale et de
chronologie, in Antiquité Tardive Costantino e le sfide del cristianesimo.
Tracce per una difficile ricerca, a cura di Sergio Tanzarella - Stanisław
Adamiak, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2013. C.R. Whittaker, Frontiers of the
Roman empire. A social ad economic study, Baltimora & London, 1997.
L'editto di Milano e il tempo della tolleranza. Costantino 313 d.C., Mostra di
Palazzo Reale a Milano, mostra a cura di Paolo Biscottini e Gemma Sena Chiesa,
catalogo a cura di Gemma Sena Chiesa, Ed. Mondadori Electa, Milano. Filmografia
Costantino il Grande, regia di Lionello De Felice, con Cornel Wilde, Belinda
Lee e Massimo Serato. Voci correlate Aeroporto Costantino il Grande Niš
(Serbia) Antica basilica di San Pietro in Vaticano Ardia Arco di Costantino
Arco di Malborghetto Arte costantiniana Basilica della Natività Basilica del
Santo Sepolcro Basilica Palatina di Costantino (ad Augusta Treverorum, oggi
Treviri) Basilica di Massenzio (a Roma) Basilica di San Giovanni in Laterano
Basilica di San Paolo fuori le mura Cesaropapismo Colonna di Costantino
Monumento a Costantino Imperatore Donazione di Costantino Flavia Giulia Elena
In hoc signo vinces Monogramma di Cristo Statua colossale di Costantino I Terme
di Costantino Ponte di Costantino (Danubio) Costantino I imperatore, detto il
Grande, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Alberto
Olivetti, COSTANTINO I imperatore, detto il Grande, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Costantino I detto il Grande, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, MacGillivray Nicol e
J.F. Matthews, Constantine I, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Costantino I, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.
Costantino I, in Diccionario biográfico español, Real Academia de la Historia.
Opere di Costantino I, su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte
Orientale Amedeo Avogadro. Modifica su Wikidata Opere di Costantino I, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Costantino I, su Open Library,
Internet Archive. Costantino I, su Goodreads. Costantino I, in Catholic
Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Costantino I, su
Santi, beati e testimoni, santiebeati.it. The Roman Law Library by Professor
Yves Lassard and Alexandr Koptev, su web.upmf-grenoble. Monete emesse da
Costantino I, su wildwinds.com. Sito dedicato alle monete di Costantino in
bronzo, su constantinethegreatcoins.com. PredecessoreImperatore
romanoSuccessore Costanzo Cloro (con Galerio)306 – 337 Costantino IIVDM
Imperatori romani e relative linee di successione VDM Diocleziano Portale
Antica Roma Portale Biografie Portale Bisanzio
Portale Cristianesimo Categorie: Imperatori romani Santi romani Nati a
Naissus Morti a Nicomedia Costantino I Dinastia costantiniana Santi per
nomeStoria antica del cristianesimo Personalità del cristianesimo ortodosso Personaggi
citati nella Divina Commedia (Inferno) Personaggi citati nella Divina Commedia
(Paradiso) Santi della Chiesa ortodossa[altre] Costantino.
Grice e Costanzi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’amore e la morte – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pozzuolo Umbro). Filosofo italiano. Grice: “I like Costanzi; possibly
my favourite of his essays is the one on ‘amore’ and ‘morte’ – eros and
Thanatos for the Oxonian!” Si
laurea a Bologna. Ensegna a Bologna. Altre opere: “Pensiero ed essere”
(Perrella, Roma); “Varisco: l’uno e i molti” (Perrella, Roma); “Noluntas” (Perrella,
Roma); “Schopenhauer” (Roma); “L'asceta moderno” – L’asceta -- Arte e storia,
Roma; Spinoza, Universitas, Roma); “Il sentito in Platone” -- Arte e storia,
Roma); “L'ascetica di Heidegger” Arte e storia, Roma); “L'ascesi di coscienza e
l'argomento d’Aosta”, Arte e storia, Roma); “Meditazioni inattuali sull'essere
e il senso della vita” Arte e storia, Roma); “La terrenità edenica del
Cristianesimo e la contaminazione spiritualistica” (Patron, Bologna); “La donna
angelicata e il senso della femminilità nel Cristianesimo” (Patron, Bologna); “La
filosofia pura, Alfa, Bologna); “Il senso della storia, Alfa, Bologna); “Sul
prologo di Zarathustra (Nietzsche e Schopenhauer) con trad. dello stesso
Prologo, in Ethica; “L'etica nelle sue condizioni necessarie, Ed.ni di Ethica,
Bologna); “L'estetica pia, Patron, Bologna); “L'ora della filosofia, R. Patron,
Bologna); “L'uomo come disgrazia e Dio come fortuna” (Alfa, Bologna; “La critica disvelatrice” (Ed.ne dell'Istituto
di Filosofia dell'Bologna, Bologna); “Amore e morte” (L. Parma, Bologna); “La singolarità
della diada: compimento di un itinerario senza vie” (Cooperativa libraria universitaria
editrice, Bologna); “L'equivoco della filosofia cristiana e il cristianesimo-filosofia”
(Clueb, Bologna; e ragioni della miscredenza e quelle cristiane della fede,
Clueb, Bologna); “La fede sapiente e il Cristo storico” (Sala francescana di
cultura Antonio Giorgi, Assisi); “La rivelazione filosofica” (Sala francescana
di culturaAntonio Giorgi, Assisii); Il Cristianesimo: filosofia come tradizione
di realtà” (Sala francescana di cultura, Assisi); “Breviloquio della sera” (Sala
francescana di culturaAntonio Giorgi, Assisi); “L’immagine sacra” (Sala francescana
di cultura, Assisi); “L'identità del Lumen publicum nelle privatezze di Anselmo
e Tommaso” (Il Cristianesimo-filosofia, Le Lettere, Roma); Opere, E. Mirri e M.
Moschini, Bompiani, Milano). Sgarbi torna a Tuoro per presentare l'opera omnia
del filosofo Teodorico Moretti-Costanzi, "Umbria Left. Il filosofo imagliato dal Sessantotto,
"il Giornale"Dizionario Biografico degli Italiani. Wikipedia
Ricerca Al di là del principio di piacere saggio di Sigmund Freud Lingua
Segui Al di là del principio di piacere
Titolo originaleJenseitsdes Lustprinzips Freud Jenseits des Lustprinzips. djvu
Autore Freud 1ª ed. originale Genere Saggio Sottogenere Psicoanalisi Lingua
originale tedesco Al di là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des
Lustprinzips) è un saggio di Sigmund Freud incentrato sui temi dell'Eros e del
Thanatos, ovvero rispettivamente la "pulsione di vita" e la
"pulsione di morte" (Todestrieb[e]). Giuditta II di
Klimt,, Venezia, Galleria internazionale d'arte moderna. Achille sorregge
Pentesilea dopo averla colpita a morte, una delle leggende fiorite
sull'episodio vuole che l'eroe se ne innamori proprio in questo momento.
Bassorilievo dal tempio di Afrodite a Afrodisia Il dualismo di
EmpedocleModifica Freud formula il conflitto psicologico in termini dualistici
fin dai suoi primi scritti, ma è solo in questo testo che egli presenta un
simile conflitto mediante concetti desunti dal pensiero di Empedocle, il quale
parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi o forze di Amore (o Amicizia) e Odio
(o Discordia). Empedocle di Agrigento si presenta come una figura fra le
più eminenti e singolari della storia della civiltà greca. Il nostro interesse
si accentra su quella dottrina di Empedocle che si avvicina talmente alla
dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di
affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un'unica
differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira
più modestamente a una validità biologica. I due principi fondamentali di
Empedocle – philìa (amore, amicizia) e neikos(discordia, odio) – sia per il
nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due
pulsioni originarie Eros e Distruzione.» Il nome di Eros deriva da quello della
divinità greca dell'amore, e «tende a creare organizzazioni della realtà sempre
più complesse o armonizzate, [mentre] Thanatos tende a far tornare il vivente a
una forma d'esistenza inorganica. Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per
Freud la pulsione alla vita, mentre Thanatos quella della distruzione. Qualora
l'autodistruzione diventasse oggetto di malattia però Thanatos diviene il nome
del conflitto che si crea tra energia negativa (autodistruzione) e positiva (la
rabbia del Thanatos viene utilizzata per distruggere la malattia stessa).» Freud
riscontra anche in un altro filosofo, questa volta contemporaneo,
un'anticipazione della sua scoperta: "E ora le pulsioni nelle quali
crediamo si dividono in due gruppi: quelle erotiche, che vogliono convogliare
la sostanza vivente in unità sempre più grandi, e le pulsioni di morte, che si
oppongono a questa tendenza e riconducono ciò che è vivente allo stato
inorganico. Dall'azione congiunta e opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni
della vita, ai quali mette fine la morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa
non è scienza della natura, è filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E
perché mai, Signore e Signori, un audace pensatore non dovrebbe aver intuito
ciò che una spassionata, faticosa e dettagliata ricerca è in grado di
convalidare?" «Thanatos non compare negli scritti di Freud, ma egli,
a quanto riferisce Jones, l'avrebbe talvolta usato nella conversazione. L'uso
nel linguaggio psicoanalitico è probabilmente dovuto a Federn.» Sabina
Spielrein e Barbara LowModifica Su esplicita influenza di Sabina Nikolaevna
Špil'rejn, citata in nota nel libro, per Freud Thanatos segnala il desiderio di
concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba. Concetto
che non deve essere confuso con quello di destrudo, vale a dire con l'energia
della distruzione (che si oppone alla libido). Thanatos è il principio di
costanza,accennato fin dal capitolo sette de L'interpretazione dei sogni e che
adesso, sotto l'influsso del pensiero di Schopenhauer, diventa identico al
principio del Nirvana proposto da Low: le eccitazioni della mente, del
cervello, dell'"apparato psichico" non vengono più solo sgomberate,
tenute costanti al più basso livello possibile, bensì estinte, eliminate sino
al grado zero della realtà inanimata. La coazione a ripetereModifica Nel testo
del '20 Freud sostiene che «nella vita psichica esiste davvero una coazione a
ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere.» Sulla
falsariga del motto errare humanum est, perseverare autem diabolicum, essa
viene definita per quattro volte «demoniaca»: Vi sono individui che nella loro
vita ripetono sempre, senza correggersi, le medesime reazioni a loro danno, o
che sembrano addirittura perseguitati da un destino inesorabile, mentre un più
attento esame rivela che essi stessi si creano inconsapevolmente con le loro
mani questo destino. In tal caso attribuiamo alla coazione a ripetere un
carattere "demoniaco". La coazione a ripetere è riscontrabile anche
nella nevrosi traumatica dei reduci della prima guerra mondialeoppure di chi
tende a rivivere o reinterpretare gli eventi più violenti. Freud collocò
la coazione a ripetere fra i sintomi della nevrosi: si ripete il sintomo
nevrotico invece di ricordare, si ripete per non ricordare, con quello che
Freud chiama «l'eterno ritorno dell'uguale. Per la relazione tra pulsione e
coazione a ripetere, Freud notò che le coazioni tendono come la pulsione a una
ripetizione assoluta e atemporale, mai definitivamente appagata, e che tendono
a sparire quando un fatto viene riportato a conoscenza del paziente. Dalla
rimozione di una pulsione (a muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o
traumatico), la coazione a ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà
cosciente dell'Io. La coazione a ripetere diventa il punto di partenza della
terapia psicoanalitica. Occorre ricordare per non ripetere gli errori del
passato, gli stessi dubbi e conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia,
nel lavoro. Freud rileva questa coazione anche nelle circostanze più
ordinarie e naturali, persino nel gioco dei bambini come quello con il
rocchetto usato dal suo piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il
rocchetto lontano da sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il
rocchetto a sé, rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a
padroneggiare l'assenza materna attraverso un duplice movimento, che è sempre
seguito dalla vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»),
quando il rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»),
quando il rocchetto è di nuovo vicino. Dopo l'esposizione d'una serie di
ipotesi (in particolare l'idea che ogni individuo ripete le esperienze
traumatiche per riprendere il controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto),
Freud considera l'esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte,
riferendosi al bisogno intrinseco di morire che ha ogni essere vivente. Gli
organismi, secondo quest'idea, tendono a tornare a uno stato preorganico,
inanimato – ma vogliono farlo in un modo personale, intimo. In definitiva,
«sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle
pulsioni di morte. A questo punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non
siamo in grado attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e
attendere che si presentino nuovi strumenti e nuove occasioni di ricerca. E
dobbiamo esser disposti altresì ad abbandonare una strada che abbiamo seguito
per un certo periodo se essa, a quanto pare, non porta a nulla di buono. Solo
quei credenti che pretendono che la scienza sostituisca il catechismo a cui
hanno rinunciato se la prenderanno con il ricercatore che sviluppa o
addirittura muta le proprie opinioni. Implicazioni Modifica Uno psicoanalista
con competenze pure di antropologia filosofica come Sciacchitano sostiene che
«la vera psic[o]analisi fu il frutto tardivo dell'attività teoretica di Freud.
Bisogna aspettare la svolta degli anni Venti, con l'invenzione della pulsione
di morte, per parlare di vera e propria psicoanalisi. Essa comincia con la
rinuncia alle pretese e alle finalità mediche della psicoterapia. Il nuovo
modello freudiano individuava nello psichico un nucleo patogeno fisso, qualcosa
che non si scarica mai, ma continua a ripetersi identicamente a se stesso e
insensatamente, cioè fuori da ogni intenzionalità soggettivistica e contro ogni
teleologia vitalistica. Ce n'era abbastanza per far crollare ogni illusione
terapeutica. Parecchi allievi a questo punto abbandonarono il maestro che
toglieva avvenire, come si dice terreno sotto i piedi, alle loro illusioni
umanitarie». Freud non cambierà più idea. Ciò significa che il fondatore della
psicoanalisi asserirà la sostanziale "inguaribilità'" del disagio
psichico per lo stesso arco di tempo, un ventennio, in cui egli precedentemente
aveva affermato l'esatto contrario. Wilhelm Reich, in La funzione
dell'orgasmo e Analisi del carattere, propose una propria ipotesi di
confutazione alla teoria della pulsione di morte. La madre morta,
Egon Schiele, Vienna, Leopold Museum. Nell'arte: SchieleModifica «Egon Schiele
sa che tutto ciò che vive è anche morto, porta in sé il suo esistenziale
compimento, fin dall'istante del concepimento, come attesta il funesto dipinto:
La madre morta, in cui il grembo appare come un lugubre mantello, un involucro
mortuario che racchiude il Sein zum Tode [Essere-per-la-morte] del nascituro,
ne circoscrive la parabola esistenziale.» (Vozza) Agonia, Egon
Schiele, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek. Madre con i due bambini,
Vienna, Österreichische Galerie Belvedere. «Schiele introduce un evento di
grande rilievo nell'iconografia della malinconia e della vanitas, operandone
una trasfigurazione tragica: l'uomo non [...] medita più sulla morte
raffigurata in un teschio posto nel suo studiolo come altro da sé, ma assume
sul proprio volto l'icona funebre, diventa morte incarnata, esibita nel gesto
d'esistere, nel godimento del sesso e nella prostrazione della sofferenza.
Nessuna iconoclastìa sopravvive nel gesto pittorico di Schiele: si pensi
all'Agonia, sacra rappresentazione di stupefacente intensità cromatica, allegoria
del dolore immedicabile, emblema di una eterna e impietosa Passione, sublime
omaggio a quell'incomparabile maestro di sofferenza che è stato
Grünewald.» (Marco Vozza) «La Madre con i due bambini esibisce un volto
già visibilmente cadaverico, mentre un infante osserva sgomento il deliquio
orizzontale del fratellino. [...] Nessuno meglio di Schiele ha saputo render
visibile quella che l'analitica esistenziale ha chiamato Geworfenheit,
l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme a lui soltanto Kokoschka,
in seguito Dubuffet e Bacon.» (Marco Vozza[25]) NoteModifica ^ Quadro che
Sabina Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello rappresentativo del connubio
Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima (Roberto Faenza, 2002):
Perché Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su YouTube(vedi screenshot).
^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere(1920), in Opere di Sigmund
Freud (OSF) vol. 9. L'Io e l'Es e altri scritti; Torino, Bollati Boringhieri, .
Ed. paperback Freud, Analisi terminabile e interminabile, in OSF vol. 11.
L'uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti 1930-1938, Torino,
Bollati Boringhieri; Ed. paperbackGalimberti, Enciclopedia di psicologia,
Garzanti, Torino; Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri; Jones,
Vita e opere di Freud, vol. 3: L'ultima fase (1919-1939), Milano, Garzanti,
1977. ISBN non esistente. ^ Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, a cura di
Luciano Mecacci e Cyhthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. 2,
Bari-Roma, Laterza, voce Thanatos, The language of psycho-analysis, Karnac,
Paperbacks, books.google.it. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio del
piacere; Freud, Freud, op. cit., p. 235. ^ Sigmund Freud; Mugnani, Analisi del
testo di S. Freud: "Il problema economico del masochismo". Pasqua, Al
di là del principio di piacere: sul principio di Piacere e la Coscienza; Laplanche,
Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Principio di piacere. Op. cit., su
books.google.it. ^ Sigmund Freud; Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op. cit.,
voce Coazione a ripetere. Op. cit., Anteprima disponibile; Google Libri. ^
Sigmund Freud; Cf. anche Il perturbante, OSF; Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni
Boringhieri 1978, p.508. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere,
Torino, Bollati Boringhieri, Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere; Freud,
op. cit. Sciacchitano, Il demone del godimento, in AA.VV., Godimento e
desiderio, aut aut, Vozza, Il senso della fine nell'arte contemporanea, in
L'Apocalisse nella storia, Humanitas, Vozza, op. cit., Vozza, ibidem. Voci
correlateModifica Psicoanalisi Empedocle Eros (filosofia) Eros Il disagio della
civiltà Libido Destrudo Morte Sabina Nikolaevna Špil'rejn Tanato; Edizioni e
traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Open Library, Internet
Archive. Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su
Progetto Gutenberg. Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, The language of
psycho-analysis, Karnac, Thanatos, Nirvana Principle, e Compulsion to Repeat,
Portale Letteratura Portale Psicologia Nikolaevna Špil'rejn
psicoanalista russa Differimento Resistenza (psicologia) ciò che negli
atti e nel discorso, si oppone all'accesso dei contenuti inconsci alla
coscienza Wikipedia Il contenutoTeodorico Moretti Costanzi. Keywords: amore
e morte, l’essere, il sentito, ascesi (verbo?), Zarathustra, il singolo della
diada, l’uno e i molti, nolere, nolitum, volitum, amore/morte, eros/tanatos,
immagine sacra, imaginatum, essere, un essere, due esseri, le due esseri
entrambi – rivelazione – la rivelazione filosofica – a new discourse on
metaphysics: from genesis to revelations – un nuovo discorso di metafisica: del
genesi alle rivelazione. – Zarathustra e cristita -- nollere in Schopenhauer --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Costanzi” – The Swimming-Pool Library. Costanzi
Grice e Courmayeur: la ragione
conversazionale e l’implicatura
conversazionale di Hegel in Italia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo
italiano. Grice: “The most interesting thing about Courmayeur’s philosophy is
that he is a count; unlike Locke, or the common-or-garden English Oxonian
philosopher who doesn’t have a dime, this one has, as the Italians say, ‘all
the money in the world’! That helps with philosophy! His forte is moral
philosophy AND HEGEL, which proves that Hegel becomes the taste of aristocrats
and not just dons like Bosanquet!” - Dall'antica famiglia valdostana dei Passerin
d'Entrèves et Courmayeur. Ottenuta la maturità classica al Massimo d'Azeglio di Torino,
si laurea con Solari con “Hegel” (Torino, Gobetti). Studia sotto Ruffini e
Einaudi la filosofia politica del medio evo e il concetto di costituzione.
Insegna a Torino. Fu capitano di complemento degli Alpini e membro del CLN, dal
quale venne nominato, primo prefetto di Aosta. Fu all'origine dello statuto
della regione autonoma Valle d'Aosta.
Fra le sue opere più note, Il concetto dello stato, è considerata da
molti la sintesi del suo pensiero storico-filosofico. Oltre che filosofo del diritto e storico del
pensiero politico, viene considerato il fondatore della filosofia politica
italiana come disciplina a sé stante, finalmente distinta dalla filosofia dello
stato. Paradossalmente ciò avviene proprio col saggio, “Il concetto dello
stato”. Ben diversamente dall'ordinamento tematico della “Staatslehre” come
pure dall'ordinamento cronologico per filosofi in uso nella filosofia politica,
ordina la filosofia politica secondo uno schema concettuale schiettamente
filosofico: "il concetto di forza – forzare ", "il concetto di
potere" (il verbo ‘potere’); "il concetto di autorità – auctoritas
--". Il concetto di faccia dello stato, secondo una scala di qualificazione
crescente. Il concetto di "forza" (il forzare) e qualificato di un
imperativo, un mando o commando efficace. Il concetto di "potere"
(potere del giurato) contiene il concetto di forza (il forzare – come un mando
o imperativo efficace), ma organizzato in una istituzione e qualificato dal
‘giurato’. Finalmente la terza faccia, il concetto di "autorità" come
contenendo la second faccia del potere del giurato, qualificato da una concetto
di legge variable: la promozione del giurato, la promozione del bene comune (la
res publica), o la promozione della piccolo patria. Altre opere: Il concetto
dello stato (Torino: Giappichelli); “La Valle d'Aosta, Bologna: Boni); “La
filosofia della politica, Torino: POMBA); “Filosofia politica nel medio evo
italiano” (Torino: G. Giappichelli); “La filosofia politica d’Alighieri”
(Einaudi, Torino); “Morale, diritto ed economia, Pavia: Libreria Internazionale
F.lli Treves); “Morale, Roma: Athenaeum); “Appunti di storia delle dottrine
politiche: la filosofia politica medioevale, Torino: Giappichelli); “Il concetto dello stato in Zwingli", in
Filosofia del diritto, Roma); La teoria del diritto e della politica in
Inghilterra all'inizio dell'età moderna, Torino: Istituto giuridico della R.
Università); “Obbedienza e resistenza” (Roma/Ivrea, Edizioni di Comunità). La
piccola patria, Milano: Franco Angeli); Obbligazione Politica, Pensa
Multimedia. Dizionario biografico degli
italiani. Biblioteca civica Passerin d'Entrèves. Ricerca Patria Lingua Nota disambigua.svg
Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Patria (disambigua).
La Patria (dal latino = la terra dei padri) è il concetto di nazione e paese,
natio interiorizzato e idealizzato. L'Altare della Patria a Roma.
Descrizione La patria è un topos prettamente letterario (concetto ricorrente)
che è possibile ritrovare in tantissimi temi trattati e argomentati nelle
scienze umane, con particolare frequenza nell'area umanistica.
BibliografiaModifica Vincenzo Cappelletti, Patria e Stato nel Risorgimento, in
«Il Veltro», Finotti, Italia. L’invenzione della patria, Milano, Bompiani,
Ceccarelli, Patria. Da patria a nazione, in Guido Pescosolido e Giuseppe
Bedeschi (a cura di), Dizionario di storia, vol. 3, Roma, Istituto della
Enciclopedia Italiana “Giovanni Treccani”, «patria» Collegamenti
esterniModifica patria, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. patria, in Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Thesaurus Portale Antropologia Portale
Politica Portale Storia Popolo insieme delle persone fisiche che
sono in rapporto di cittadinanza con uno Stato Statista personaggio
politico deputato a governare e regolare gli affari di Stato Sciovinismo
forma fanatica ed esasperata di nazionalismo o patriottismo. Grice: “It’s
only natural that Courmayeur had such an intricate concept of ‘state’ – he was
born in a minority, like Russell, who was born in a place which some called
England, some called Wales. The situation is so borderline that it reminded me
of my ancestors, the Ingvaeonic – and see all the problem the Frisians are
having in Germany! Now
they do recognise the ‘anglo-frisiche’ – but hardly allow them to vote!” “It is
not clear how the collectivity has any bearing on the third state of ‘state’ –
the ‘auctoritas’ – but then perhaps ‘auctoritas’ is the wrong concept, since it
just means ‘author’ – Courmayeur is making the point that all authority is
legitimate authority. “You have no authority” means ‘you have no legitimate power’ – and you have no power,
means you have no legal force, and you have no force means you cannot command!”
As Courmayeur would say: it’s all different in valaestan, the vernacular of
Aosta, which hardly has the same status as Italian (since giuridically Aosta
belongs to Italy) or French (since French is the official language, along with
Italian). But don’t ask that imperialist Crystal for an answer!” Alexandre
Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Alessandro Passerin d’Entrèves et
Courmayeur. Courmayeur. Keywords: Hegel in Italia, piccola patria, il concetto
dello stato, filosofia politica versus staatslehre, prima faccia: il forzare
come imperativo efficace; seconda faccia: il potere come il forzare organizzato
in una istituzione e qualificato dal giurato; la terza e ultima faccia:
l’autorita, come il potere qualificator da una legge centrata in un concetto
ideale variabile: il giurato, il bene comune (res publica), la piccola patria. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Courmayeur” – The Swimming-Pool Library. Courtmayeur.
Grice e Cotroneo: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della VIRTÙ – [andreia] filosofia italiana – Luigi Speranza (Campo Calabro). Filosofo italiano. Si laurea Messina
sotto Volpe con “L’implicatura di Kierkegaard”. Ensegna a Messina. “Scritti”.
“Lo storicismo di Cotroneo”. Altre opere: “Bodin teorico della storia” (Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane); “Croce e l'Illuminismo” (Napoli, Giannini); “I
trattatisti dell'arte storica” (Napoli, Giannini); “Storicismo antico e
moderno” (Roma, Bulzoni); “Rareta e storia” (Napoli, Guida); “Societa chiusa,
società aperta” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La ragione della
libertà” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Trittico siciliano: Scinà,
Castiglia, Menza” (Roma, Cadmo); “Momenti della filosofia italiana” (Napoli,
Morano); “Questione post-crociane” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane);
“Tra filosofia e politica” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Le idee del tempo.
L'etica. La bioetica. I diritti. La pace, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Un
viandante della complessità. Morin filosofo a Messina, Annamaria Anselmo,
Messina, Armando Siciliano Editore); “Croce e altri ancora, Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Etica ed economica” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La
virtù” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo italiano, Firenze, Le
Lettere); “Illuminismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Libertà” (Napoli, La
scuola di Pitagora); “Storia della filosofia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Positivismo,
Napoli, La scuola di Pitagora); “Filosofia della storia, Napoli, La scuola di Pitagora);
“Rinascimento, Napoli, La scuola di Pitagora); “Aristotele e Perelman, Retorica
vecchia e nuova” introduzione (Napoli, Il Tripode); La retorica di Aristotele,
retorica antica, Perelman, Itinerari dell'idealismo italiano, Napoli, Giannini,
Raffaello Franchini, Teoria della pre-visione” (Messina, Armando Siciliano
Editore, Croce, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, Soveria
Mannelli, Rubbettino, Il diritto alla filosofia, Atti del Seminario di studi su
Franchini” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo, Atti del Convegno
di studi, Napoli-Messina” (Soveria Mannelli, Rubbettino); La Fenomenologia
dello spirito” (Napoli, Bibliopolis); Cavour, Discorsi su Stato e Chiesa” (Soveria
Mannelli, Rubbettino, Letteratura critica Giovanni Reale, Girolamo Cotroneo, in
Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe, Storia della filosofia, Milano, Bompiani,
Lo storicismo di Cotroneo, Soveria Mannelli, Rubbettino, Giuseppe Giordano, Tra
Storia della Filosofia e Liberalismo, in Bollettino della Società Filosofica
Italiana, Roma, Carocci, Giordano, Rivista di storia della filosofia, Milano,
Franco Angeli, C., in Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ricerca
Virtù disposizione d'animo volta al bene Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Virtù
(disambigua). La virtù (dal latino virtus; in greco ἀρετή aretè) è una
disposizione d'animo volta al bene, che consiste nella capacità di una persona
di eccellere in qualcosa, di compiere un certo atto in maniera ottimale, o di
essere o agire in un modo ritenuto perfetto secondo un punto di vista morale,
religioso, o anche sociale in base a alla cultura di riferimento. Il
significato di virtù ha risentito di quello di bene, un concetto che assume
significati diversi a seconda delle modifiche intervenute nel corso delle varie
situazioni storiche e sociali. Concezione questa non condivisa dalle dottrine
che ne negano il relativismoconnesso e che intendono la virtù come l'assunzione
di valori, intesi come assoluti, immutabili nel tempo. La parola latina virtus,
che significa letteralmente "virilità", dal latino vir
"uomo" (nel senso specifico di "maschio" e contrapposto
alla donna) si riferisce ad esempio alla forza fisica e a valori guerreschi
maschili, come ad esempio il coraggio. Nella lingua italiana la virtù è
invece la qualità di eccellenza morale sia per l'uomo sia per la donna e il
termine è riferito comunemente anche a un qualche tratto caratteriale considerato
da alcuni positivo. Personificazione della virtù nella Biblioteca
di Celso. La virtù nella filosofia occidentale anticaModifica Il concetto
grecoModifica Niccolò Machiavelli Nella visione della vita secondo la
filosofia anticagreca, la concezione dell'aretè non era connessa all'azione per
il conseguimento del bene, bensì indicava semplicemente una forza d'animo, un
vigore morale e anche fisico. Essa coincide con la realizzazione dell'essenza
innata della persona, sia sul piano dell'aspetto fisico, il lavoro, il
comportamento e gli interessi intellettuali. Questa concezione di virtù
contiene l'eccellenza degli eroi omerici, quella degli statisti Ateniesi, o
quella descritta nel Menone di Platone ovvero la capacità di ben governare. In
questo senso il coraggio, la moderazione e la giustizia erano virtù
morali. Tale sarà, ad esempio, il senso nella concezione rinascimentale
sulla politica in Niccolò Machiavelli che vorrà distinguere l'aretè del
principe moderno, come la capacità di opporsi alla "fortuna" e di
modificare le circostanze ai propri fini di potere e con lo scopo principale
del mantenimento dello stato (senza tener conto del giudizio morale sui mezzi
impiegati), dalla virtus cristiana del sovrano medioevale che governa per
grazia di Dio a cui deve rispondere per la giustificazione della sua azione
politica, diretta anche a difendere i buoni e proteggere i deboli dalla
malvagità. Nel Principe nessuna considerazione morale né religiosa dovrà
ostacolare la sua azione spregiudicata e forte, frutto della sua
"aretè", tesa a mettere ordine là dov'è il caos della politica
italiana. Non diversamente, nella visione di Nietzsche la virtù consisterà
nella "volontà di potenza" in opposizione alla "morale degli
schiavi" nata dallo spirito di risentimento del Cristianesimo nei
confronti degli uomini superiori. Le virtùModifica Platone
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Etica Socrate e Platone. La concezione della virtù
nel pensiero greco antico costituisce il fulcro centrale dell'etica e delle sue
trasformazioni nel corso del tempo. Così in Platone le virtù
corrispondono al controllo della parte razionale dell'anima sulle passioni. Ne
La Repubblica verranno indicate per la prima volta le quattro virtù, che da
Sant'Ambrogio in poi verranno chiamate "cardinali", vale a dire
principali: la temperanza, intesa come moderazione dei desideri che, se
eccessivi, sfociano nella sregolatezza; il coraggio o forza d'animo necessaria
per mettere in atto i comportamenti virtuosi; la saggezza o
"prudenza", variamente intesa dalla speculazione antica seguente, che
costituisce, come controllo delle passioni, la base di tutte le altre virtù; la
giustizia è quella che realizza l'accordo armonico e l'equilibrio di tutte le
altre virtù presenti nell'uomo virtuoso e nello stato perfetto. Le virtù
secondo Aristotele Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Aristotele L'Etica. Aristotele Mentre Platone parlava
genericamente di saggezza per l'esercizio della virtù, Aristotele la distingue
invece dalla "sapienza". La saggezza, o "prudenza", è una
"virtù dianoetica", propria cioè della razionalità comune a tutti che
ispira la condotta umana permettendo il giusto esercizio delle "virtù
etiche", quelle cioè che riguardano l'azione concreta. Tra le virtù
dianoetiche che presiedono alla conoscenza (intelletto, scienza, sapienza) o
alla attività tecniche (arte), la saggezza è propria di colui che, pur non
essendo filosofo, è in grado di operare virtuosamente. Se si dovesse acquisire
la sapienza filosofica per praticare le virtù etiche questo comporterebbe che
solo chi ha raggiunto l'età matura, divenendo filosofo, potrebbe essere
virtuoso mentre con la saggezza, grado inferiore della sapienza, anche i
giovani possono praticare quelle virtù etiche che permetteranno l'acquisto
delle virtù dianoetiche. La saggezza insomma permette una vita virtuosa,
premessa e condizione della sapienza filosofica, intesa come "stile di
vita" slegato da ogni finalità pratica, e che pur rappresentando
l'inclinazione naturale di tutti gli uomini solo i filosofi realizzano a pieno
poiché «Se in verità l'intelletto è qualcosa di divino in confronto
all'uomo, anche la vita secondo esso è divina in confronto alla vita
umana.» Virtù eticheVirtù dianoetiche Giustizia Coraggio Temperanza
Liberalità Magnificenza Magnanimità Mansuetudine Virtù calcolative Arte
Prudenza Virtù scientifiche Sapienza Scienza Intelligenza La saggezza può esser
fatta conseguire ai giovani tramite l'educazione che i saggi, o quelli ritenuti
tali dalla collettività, impartiranno anche con l'esempio concreto della loro
condotta. Da questi modelli il giovane apprenderà che le virtù etiche
consistono nella capacità di comportarsi secondo il "giusto mezzo"
tra i vizi ai quali si contrappongono (ad esempio il coraggio è l'atteggiamento
mediano da preferire tra la viltà e la temerarietà), sino a conseguire con
l'abitudine un abito spontaneamente virtuoso: infatti «La virtù è una
disposizione abitudinaria riguardante la scelta, e consiste in una medietà in
relazione a noi, determinata secondo un criterio, e precisamente il criterio in
base al quale la determinerebbe l'uomo saggio. Medietà tra due vizi, quello per
eccesso e quello per difetto» In medio stat virtus è il detto della
filosofia scolastica che traduce il concetto greco di mesotes. La virtù
secondo gli stoiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento
in dettaglio: Stoicismo Etica. La saggezza, ossia la capacità di operare con
prudenza, è al centro della morale epicurea e stoicama, mentre per gli epicurei
la virtù si consegue attraverso un calcolo razionale dei piaceri stabilendo
quali di essi siano veramente necessari e naturali, per gli stoici invece il
comportamento virtuoso, risultato del conseguimento dell'"apatia",
cioè della liberazione ascetica dalle passioni, è di per sé portatore di
felicità. Per coloro che non riescono a condurre la loro vita secondo saggezza
lo stoicismo indicherà delle regole di condotta che insegneranno a operare
secondo ciò che è più "conveniente" od opportuno tenendosi sempre
lontano dagli eccessi delle passioni. La morale stoica ispirerà quella
dei filosofi come Cartesio, che rivaluterà tra le passioni quella della
"magnanimità", considerata virtù somma, e Spinoza che afferma che «il
primo e unico fondamento della virtù, ossia della retta maniera di vivere, è di
cercare il proprio utile» intendendo per "utile" solo ciò che
«conduce l'uomo a maggior perfezione» infatti «gli uomini che ricercano il
proprio utile sotto la guida della ragione non appetiscono per sé niente che
non desiderino gli altri uomini, e perciò essi sono giusti, fedeli, onesti» e
per ciò stesso la virtù è premio a sé stessa come portatrice di una vita serena
condotta secondo la razionalità. Le virtù secondo il cristianesimoModifica
«Il fine di una vita virtuosa consiste nel divenire simili a Dio» Nel
pensiero cristiano oltre le virtù umane è possibile l'esercizio di quelle
soprannaturali: le virtù teologali di fede, speranza e carità che in qualche
modo dovranno conciliarsi con quelle dell'etica antica. San Tommaso
conserverà la validità delle virtù "cardinali" aristoteliche ma
considerandole inferiori a quelle teologali mentre Agostino riteneva false le
virtù umane dei pagani che mascherano sotto il nome di virtù quello che in
realtà è l'esercizio di vizi "splendidi", ma pur sempre negativi in
quanto causati dall'orgoglio e dalla ricerca dell'effimera gloria umana.
L'unica grande virtù è la carità, l'amore di Dio il cui esercizio, per quanto
essi facciano, non dipende dagli uomini ma dalla volontà divina che lo infonde
negli spiriti eletti, cioè dalla infusione nell'uomo della indispensabile
grazia divina. Concezione questa che riaffiorerà nel XVI secolo con la Riforma
protestante e nel Giansenismo. Inoltre uno dei nove cori delle gerarchie
angeliche, viene denominato Virtù ed indica secondo lo Pseudo-Dionigi il coro
angelico preposto a dispensare la grazia divina. La virtù nel pensiero
modernoModifica Nella filosofia dell'età moderna la concezione della virtù
oscilla tra quella che la considera come l'esercizio di un controllo delle
passioni a cui rinunciare e quella che invece la ritiene rientrare nell'ambito
di un comportamento istintivo e naturale dell'uomo. Alla prima interpretazione
si associano le dottrine della corrente libertina da Pierre Bayle a Mandeville
che ironizzano sulla effettiva possibilità per gl’uomini dell'esercizio delle
virtù che se anzi fossero attuate provocherebbero la disgregazione della
società. «Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto
la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da
sola renda mai una nazione celebre e gloriosa.]» Si è sempre parlato
ipocritamente di virtù, osservano i libertini, le quali in realtà sono la
mascheratura dei propri vizi come ben appare nella contrapposizione tra le
ostentate "pubbliche virtù" e i nascosti "vizi privati". La
virtù come sacrificio del singolo cittadino a vantaggio della patria di tutti,
è anche nella concezione politica di Montesquieu che riporta questo comportamento
civile ai regimi repubblicani mentre in quelli monarchici prevale l'orgoglio e
in quelli dispotici la paura. Anthony Ashley Cooper, III conte di
Shaftesbury Nell'etica inglese la virtù è intesa, in opposizione alle dottrine
sull'"egoismo" di Thomas Hobbes, come atteggiamento impulsivo
naturale determinato dal sentimento morale della benevolenza (Shaftesbury e
Francis Hutcheson) che spinge l'uomo a operare senza badare alla riprovazione
morale dell'opinione pubblica, al terrore di una punizione futura o
all'intervento delle autorità, istituite come incentivi alla bontà. L'azione
virtuosa dell'uomo è invece ispirata dalla voce della coscienza e dall'amore di
Dio. Solo questi due fattori spingono l'uomo verso la perfetta armonia, per il
suo stesso bene e per quello dell'universo. Lo stesso istinto alla virtù
secondo David Hume e Adam Smith è quello della simpatia. Le nostre sensazioni
nelle relazioni con gli altri (e le azioni sono valutabili moralmente in
rapporto ad altri uomini), non possono essere ridotte a una dimensione
esclusivamente egoistica: ciò che noi proviamo è condizionato sempre da ciò che
provano gli altri in conseguenza delle nostre azioni.» (David Hume,
Trattato sulla natura umana, Libro terzo, Parte terza, sez. prima-terza) «Per
scoprire la vera origine della morale, e quella dell'amore e dell'odio che
deriva dalle qualità morali, dobbiamo considerare nuovamente la natura e la
forza della simpatia. Gli animi degli uomini sono simili nei loro sentimenti o
nelle loro operazioni, né esiste un sentimento che si produca in una persona di
cui non partecipino, in qualche grado, tutte le altre. Questa disposizione
naturale e spontanea dell'uomo all'esercizio della virtù troverà espressione
nel deismo e in seguito costituirà il nucleo della teoria romantica
dell'"anima bella" di Schiller. La virtù come sforzo. Kant Una
ripresa della concezione della virtù come repressione delle passioni umane è
nella filosofia morale di Kant che distingue una "dottrina della
virtù" dalla "dottrina del diritto". Nel diritto l'uomo si
sottomette alla legge per rispettarne la formalità esteriore senza considerare
il motivo della sua azione ma solo perché così prescrive la norma, mentre nella
morale ci si vuole comportare secondo il dettato morale indipendentemente da
qualsiasi motivo e conseguenza della propria azione: si realizza così la virtù
come soggezione della volontà all'"imperativo categorico". La
vetta, opera simbolista di Cesare Saccaggi, che esprime i concetti romantici di
Streben («sforzo») e Sehnuct («struggimento»), ossia l'anelito dell'uomo verso
un ideale che si rivela sempre più arduo ed elevato. L'imperativo categorico,
ossia la virtù, implica che l'uomo debba compiere uno sforzo (Streben),
combattendo le inclinazioni sensibili e le passioni, nel conformare la sua
volontà a ciò che l'imperativo comanda, mentre pensare che questo possa
avvenire spontaneamente significa confondere la debolezza umana con ciò che è
proprio della santità che appartiene solo a Dio che non ha nessun dovere nei
confronti della legge morale. Ciò che prescrive la morale è identico sia per
gli uomini sia per la divinità, ma questa, poiché non ha niente che possa
ostacolarla nell'osservanza della legge morale, non ha neppure virtù. Questa
visione della virtù assimilerebbe il pensiero kantiano allo stoicismo che Kant
invece rifiuta laddove questo connette all'esercizio della virtù la felicità.
Certo l'uomo nella sua costituzione sensibile ha bisogno della felicità ma
nulla garantisce che egli possa raggiungerla. Un'esigenza di giustizia vuole
poi che l'uomo abbia una felicità bilanciata al suo comportamento virtuoso ma
poiché questo non accadrà mai nel nostro mondo terreno, egli allora postulerà
l'esistenza di un'anima immortale a cui un Dio giusto assicuri la giusta felicità.
L'etica kantiana, tradotta da Fichte e Schelling nella tensione verso un ideale
infinito a cui l'Io cerca progressivamente di conformare il non-io, pur non
raggiungendolo mai definitivamente, sarà invece messa in discussione da Hegel,
il quale vi vedrà l'espressione di un tipico soggettivismo delle "virtù
private" contrapposto a quella "eticità" antica, ancora valida
nel suo tempo, da apprezzare perché rivolta alla collettività dove si realizza
il bene tramite la famiglia, la società civile e lo Stato.[Le virtù secondo il
BuddhismoModifica Il Buddhismo sostiene la conciliabilità tra saggezza e virtù
come un desiderabile obiettivo per l'uomo buono che ci ricorda l'antica
concezione socraticaispirata a quell'intellettualismo etico secondo cui il
l'uomo fa il male perché ignora cosa sia il bene. Le virtù nel Buddhismo
sono il continuo applicare, come regole di autodisciplina nella vita
quotidiana, dei Tre rifugi o dei Cinque precetti che consistono nello 1.
Astenersi dall'uccidere o danneggiare qualunque creatura vivente 2. Astenersi
dal prendere ciò che non ci è stato dato 3. Astenersi da una condotta sessuale
irresponsabile 4. Astenersi da un linguaggio falso o offensivo 5. Astenersi
dall'assumere bevande alcoliche e droghe Vivendo in questo modo si incoraggiano
la disciplina e la sensibilità necessarie per chi voglia coltivare la
meditazione, che è il secondo aspetto del sentiero. La virtù nella
filosofia cinese La virtù (traduzione di "de" 德)
è un concetto importante anche nelle filosofie cinesi come il confucianesimo e
il taoismo. Le virtù cinesi comprendono l'umanità, lo xiao (solitamente
tradotta come pietà filiale) e zhong (lealtà). Un valore importante, contenuto
nella gran parte del pensiero cinese, è che lo stato sociale di ciascuno debba
essere determinato dall'insieme delle sue virtù manifeste, e non da un
qualunque privilegio di nascita. Nei suoi Analecta, Confucio parla della
pratica che conduce alla perfetta virtù. Le virtù confuciane si sviluppano in
due rami: il ren e il li; il ren può essere tradotto come benevolenza, amore
disinteressato, e l'uomo la può raggiungere praticando cinque virtù:
magnanimità, rispetto, scrupolosità, gentilezza e sincerità. Confucio afferma
che queste virtù devono essere praticate verso il li, che è la parte pratica
della virtù confuciana. Il li consiste in cinque canali relazionali:
marito/moglie, genitore/figlio, amico/amico, giovane/anziano,
suddito/sovrano. Romanus Cessario, Le virtù, Editoriale Jaca, Ancient
Ethical Theory (Stanford Encyclopedia of Philosophy) Ferroni, Machiavelli, o
Dell'incertezza: la politica come arte del rimedio, Donzelli Editore, Platone,
Repubblica o sulla giustizia. Testo greco a fronte, a cura di Vitali,
Feltrinelli Editore, Aristotele, Etica Nicomachea, Aristotele, Etica
Nicomachea, Kambouchner, L'Hommes des passions. Commentaires sur Descartes,
Paris, Albin Michel 1995 ^ Remo Bodei, Geometria delle passioni. Paura,
speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli Editore, Eth. V,
prop. 41 Eth. IV, prop. 18 ^ San Gregorio di Nissa, De beatitudinibus, oratio
1: Gregorii Nysseni opera, ed. W. Jaeger (Leiden L'elenco è dedotto dalla prima
lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «Rivestiti della corazza della fede e della
carità avendo come elmo la speranza» (1Ts 5,8) Kostko, Beatitudine e vita
cristiana nella Summa theologiae di S. Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio
Domenicano, I vizi capitali considerati come gli opposti delle virtù nella
concezione cristiana sono superbia, avarizia, lussuria, gola, ira, invidia e
accidia (in Domenico Galvano, Catechismo della diocesi di Nizza1) Mondin, Etica
e politica, Edizioni Studio Domenicano, Mandeville, La favola delle api ^
L'espressione si ritrova nell'operetta di Bernard de Mandeville pubblicata
anonima con il titolo The Grumbling Hive, or Knaves Turn'd Honest (Ronzio di
arnie, o Furfanti divenuti onesti), ristampata con l'aggiunta del sottotitolo
Vizi privati e pubbliche virtù e infine con il titolo Fable of the Bees: or,
Private Vices, Publick Benefits (La favola delle api: ovvero vizi privati,
pubbliche virtù) Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, Kant,
Metafisica dei costumi Galli e Aa.Vv., Saccaggi: un poliedrico pittore
internazionale su gabbantichita.com, Studio d'Arte e Restauro Gabbantichità.
Nell'opera, intitolata anche La regina dei ghiacci, l'atteggiamento passionale
e implorante dell'uomo si contrappone alla gelida irraggiungibilità della
donna, allegoria della Montagna-Natura. Fausto Fraisopi, Adamo sulla sponda del
Rubicone: analogia e dimensione speculativa in Kant, Armando Editore, Pasquale
Fernando Giuliani Mazzei, Kant e Hegel: un confronto critico, Guida; Hua,
Buddhismo: Une breve introduzione, Dharma Realm Buddhist Association, Pavolini,
Buddismo, Hoepli, Chiesa Cattolica,
Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, New Catholic
Encyclopedia, Catholic University of America, Natoli, Dizionario dei vizi e
delle virtù, Feltrinelli UE Scheler, Per la riabilitazione della virtù. Aquino,
Le virtù. Quaestiones de virtutibus, I e V, Testo latino a fronte, Milano,
Bompiani, Paideia Bushidō Moralità Etica
Bontà Teoria dei valori Giustizia sociale Pietà (teologia) Sette peccati
capitali Virtù cardinali Virtù teologali Timè. «virtù» virtù, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Virtù / Virtù
(altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Virtù, in Catholic
Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata The Four Virtues,
su thefourvirtues.com. The Virtues Project, su metamind. Virtue Science.com. Portale Filosofia
Portale Religione. Etica ramo
della filosofia Etica Nicomachea opera di Aristotele Virtù
dianoetiche ed etiche Wikipedia Il contenutoGirolamo Cotroneo. Cotroneo. Keywords:
VIRTÙ, retorica, retorica di
Aristotele, retorica nuova, retorica moderna, Perelman, rareta e storia, Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cotroneo” – The Swimming-Pool Library. Cottroneo.
Cotta: la ragione
conversazionale all’accademia a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He appears as a character in De
natura deorum by Cicerone. There he presents the points of view of the
Accademia. However, he spends some time in exile and almost certainly studies
the doctrine of the Porch and that of the Garden as well. Gaio Aurelio Cotta. Cotta.
Grice e Cotta: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale nella storia del diritto romano -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Firenze).
Filosofo italiano. Grice: “My favourite explorations by Cotta are three: ‘per
che violenza?” – “dalla guerra alla pace: un itinerario filosofico” and a
secondary-literature study on ‘i concordati’ --- which is MY philosophy. You see, Plato thought that the soul resided in the brain – cool as he
was – but Aristotle corrected him: it resides in the HEART – Cicero loved that
and coined ‘cum-cor’ – i.e. something like my cum-operare: your hearts
convene!” -- Grice: “I would say Cotta is Italy’s H. L. A. Hart, with a bonus –
he wrote on essentialism, deontic logic, and from war to peace!” Figlio di Alberto, studioso di scienze
forestali, e Maria Nicolis di Robilant. Da parte di madre è discendente diretto
di Eulero. Studia a Firenze presso l'istituto dei barnabiti La Querce. Si
laurea a Firenze. Chiamato alle armi con il grado di sottotenente, il giorno
dell'annuncio dell'armistizio, è in Friuli. Scioltosi l'esercito, scende in
barca lungo l'Adriatico per raggiungere l'Italia non ancora occupata dai
tedeschi. Ammalatosi di malaria, dopo svariate traversie decide di raggiungere
il Piemonte, dove partecipa alla guerra di resistenza come comandante di una
brigata partigiana nella VII Divisione Autonoma "Monferrato". È tra i
primi ad entrare a Torino nei giorni della liberazione. Per la sua
partecipazione alla guerra partigiana gli vengono attribuite la Medaglia di
bronzo al valor militare e la Croce di guerra. Dopo gli studi sul pensiero
politico dell'Illuminismo i suoi interessi si sono incentrati sulla filosofia
giusnaturalistica, che è stato in grado di fondere con elementi della
fenomenologia. Autore di saggi sulla visione politica di Montesquieu,
Filangieri, Aquino ed Agostino, dedicandosi in seguito a riflessioni teoriche
sul diritto e sulla politica. Insegna a Torino, Perugia, Trieste, Trento,
Firenze, Roma, e Teramo. Fu tra i componenti del comitato promotore del
referendum abrogativo della legge sul divorzio. Altre opere: “La società; “Il
concetto di ‘legge’ in Filangieri” (Torino, Giappichelli); “Il concetto di ‘legge’
in Aquino” (Torino, Giappichelli). “Il concetto di Roma come città in Agostino”;
“Filosofia e politica nell'opera di Rousseau”; “La sfida tecnologica”; “L'uomo
tolemaico” – la ferita narcissista di Galileo – “Quale Resistenza?, Perché la
violenza; “Il normato: tra il giurato e l’obbligato”; “Il diritto
nell'esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica”; “Dalla guerra alla
pace”; “l’uomo, la persona, il diritto umano”; “Il pensiero politico di Montesquieu,
Bari, Laterza); “L’inter-soggetivo giurato”; “I limiti della politica, “Il
sistema di valori e il diritto”; Perché il diritto Quid ius?” (Brescia, La
Scuola). Stante la concessione chirografata dall'ex re Umberto II, C. puo
fregiarsi del titulo nobiliare di “conte”, sia pure del tutto informalmente
stante l'instaurazione dell'ordinamento repubblicano e la XIV disposizione
finale e transitoria della Costituzione. Diritto romano ordinamento giuridico
della civiltà romana Lingua Segui Modifica Con diritto romano si indica
l'insieme delle norme che hanno costituito l'ordinamento giuridico romano per
circa tredici secoli, dalla data convenzionale della Fondazione di Roma fino
alla fine dell'Impero di Giustiniano (565 d.C.). Infatti, tre anni dopo la
morte di Giustiniano l'Italia fu invasa dai Longobardi: l'impero d'Occidente si
dissolse definitivamente e Bisanzio, formalmente imperiale e romana, si
allontanò sempre più dall'eredità dell'antica Roma e della sua civiltà (anche giuridica). Il
Corpus Iuris Civilis in una stampa, che raggruppava l'insieme di tutte le leggi
romane contemporanee e precedenti alla sua compilazione, avvenuta sotto
Giustiniano I «Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere,
suum cuique tribuere. Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente,
non danneggiare nessuno, dare a ciascuno il suo.» (Eneo Domizio Ulpiano
Libro secondo delle Regole dal Digesto 1.1.10 principio [1]) L'importanza
storica del diritto romano si riflette ancora oggi in una lista di termini
legali latini. Infatti, dopo la dissoluzione dell'Impero romano d'Occidente, il
Codice giustinianeo rimase in effetti nell'Impero romano d'Oriente, conosciuto
come Impero bizantino. Il linguaggio legale in Oriente fu il greco. Il
diritto romano definisce un sistema legale applicato nella maggior parte
dell'Europa occidentale fino alla fine del XVIII secolo. In Germania, il
diritto romano venne utilizzato più a lungo sotto il Sacro Romano Impero. Il
diritto romano servì inoltre come base per la pratica legale attraverso
l'Europa occidentale continentale, così come nella maggior parte delle colonie
delle nazioni europee, inclusa l'America latina e pure l'Etiopia. Il sistema
inglese e nord americano della common law venne influenzato anche dal diritto
romano, in particolare nel loro glossario giuridico latineggiante. Anche la
parte orientale dell'Europa venne influenzata dalla giurisprudenza del Corpus
Iuris Civilis, specialmente nei paesi come la Romania medievale che creò un
nuovo sistema, un mix del diritto romano e locale. L'Europa orientale fu
inoltre influenzata dal diritto medievale bizantino. Il diritto romano
viene diviso approssimativamente in tre o cinque differenti stadi evolutivi. Dalla
fondazione di Roma alle leggi delle XII Tavole. Magnifying glass icon mgx2.svg Storia del
diritto romano, Ius Quiritium e Mos maiorum. La prima fase, detta del diritto
arcaico o quiritario, comprende il periodo che ha inizio con la fondazione di
Roma e giunge alle Leggi delle XII tavole. In questo periodo, il diritto
privato, compreso il diritto civile romano era applicato solo ai cittadini
romani, ed era legato alla religione. Si trattava di una forma giuridica non
sviluppata, quindi non contenente gli attributi di formalismo rigoroso, simbolismo
e conservatorismo. Il giurista Sesto Pomponio disse: "All'inizio della
nostra città, le persone iniziarono le loro prime attività senza alcun diritto
scritto, e senza alcuna regola fissa: tutte le cose erano governate
dispoticamente dai re". Si ritiene che il diritto romano sia radicato
nella mitologia etrusca, con un'enfatizzazione dei rituali. Diritto
repubblicano fino alla seconda guerra punica. Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Leggi delle XII tavole, Leges Liciniae Sextiae,
Lex Canuleia, Lex Hortensia e Lex Aquilia. L'inizio del secondo periodo
coincide con il primo testo di diritto: le leggi delle XII tavole. Il tribuno
della plebe, Gaio Terentillo Arsa, propose che le leggi fossero scritte, per
evitare che i magistrati potessero applicarle in modo arbitrario.Dopo otto anni
di scontri politici, i plebei riuscirono a convincere i patrizia inviare
un'ambasceria ad Atene, per copiare le leggi di Solone; essi inviarono poi
altre delegazioni ad altre città greche per ottenerne il consenso. Secondo
quanto ci racconta Livio, furono scelti dieci cittadini romani per mettere per
iscritto le leggi. Mentre stavano eseguendo questo lavoro, gli vennero
attribuiti poteri politici supremi, detti imperium, mentre il potere dei
normali magistrativenne ridotto. I decemviri produssero le leggi su dieci
tavole, dette tabulae, ma lasciarono insoddisfatti i plebei. Un nuovo
decemvirato, si racconta, aggiunse due ulteriori tavole. La nuova legge delle XII
tavole venne ora approvata dall'assemblea popolare. Gli studiosi moderni
tendono a non dar credito alla precisione degli storici romani. Non credono in
genere che un secondo decemvirato abbia mai avuto luogo. Il decemvirato si
ritiene abbia incluso i punti più controversi del diritto consuetudinario, e di
aver assunto le funzioni principali a Roma. Inoltre, la questione sulla
influenza greca trovata nel diritto romano arcaico è ancora molto discussa.
Molti studiosi ritengono improbabile che i patrizi abbiano inviato una
delegazione ufficiale in Grecia, come gli storici romani credevano. Invece, gli
studiosi suggeriscono che i Romani abbiano acquisito leggi dalle città greche
della Magna Grecia, serbatoio principale dal mondo romano a quello greco. Il
testo originale delle XII tavole non si è conservato, anche perché furono
distrutte durante il sacco di Roma da parte dei Galli. I frammenti
sopravvissuti mostrano che non si trattava di un codice del diritto in senso
moderno. Non forniva infatti un sistema completo e coerente di tutte le norme
applicabili o nel dare soluzioni giuridiche per tutti i casi possibili.
Piuttosto, le tabelle contenevano disposizioni specifiche volte a modificare
l'allora esistente diritto consuetudinario, anche se le disposizioni erano
valide per tutti i settori del diritto, dove la parte più ampia era dedicata al
diritto privato e alla procedura civile. In seguito le leggi delle dodici
tavole vennero integrate da una serie di nuove leggi come: la Lex
Canuleia, che ammetteva il matrimonio (ius connubii) tra patrizi e plebei; le
Leges Licinae Sextiae che prevedevano restrizioni sui terreni pubblici (ager
publicus), dove almeno uno dei due consoli doveva essere plebeo; la Lex Ogulnia
dove i plebei ottennero l'accesso alle cariche sacerdotali; la Lex Hortensia
dove i verdetti delle assemblee plebee (plebiscita) ora riguardavano tutte le
persone; la Lex Aquilia, che poteva essere considerata come la fonte del
moderno diritto civile. Tuttavia, il contributo più importante di Roma alla
cultura giuridica europea non fu la promulgazione di leggi ben elaborate, ma
l'emergere di una classe di professionisti giuristi e della giurisprudenza.
Questo venne realizzato applicando in modo graduale e con metodo scientifico la
filosofia al soggetto del diritto, tema che i greci stessi mai trattarono come
una scienza. Tradizionalmente, le origini della giurisprudenza romana
sono collegate a Gneo Flavio, il quale sembra abbia pubblicato una serie di
"modi di dire" contenenti il linguaggio giuridico da utilizzare in
tribunale per intraprendere un'azione legale. Prima di Flavio, queste formule
sembra fossero segrete e note solo ai sacerdoti. La loro pubblicazione rese
così possibile, anche per chi non ricopriva cariche sacerdotali, di esplorare
il significato di questi testi di legge. Il periodo che successe dopo la
fine della seconda guerra punica fino all'avvento del principato, corrisponde
storicamente al periodo del diritto chiamato pre-classico. Questo periodo
coincise con una produzione da parte dei giuristi di un grande numero di trattati,
soprattutto a partire dal II secolo a.C. Tra i più famosi giuristi del periodo
repubblicano si ricordano, Quinto Mucio Scevolaautore di un voluminoso trattato
su tutti gli aspetti del diritto romano, che ebbe grande influenza nelle epoche
successive, e Servio Sulpicio Rufo, amico di Marco Tullio Cicerone. E benché
Roma avesse sviluppato un sistema del diritto molto evoluto, oltre a una
raffinata cultura legale, la Repubblica romanavenne rimpiazzata dal
principato. In questo periodo possiamo notare lo sviluppo di leggi più
flessibili per soddisfare le esigenze del momento. In aggiunta al vecchio e
formale ius civile venne creata una nuova classe giuridica: lo ius honorarium,
che può essere definita come "la legge introdotta dai magistrati che avevano
il diritto di promulgare editti al fine di sostenere, integrare o correggere la
giurisprudenza esistente. Con questa nuova legge il vecchio formalismo venne
abbandonato per i più flessibili principi dello ius gentium.
L'adattamento del diritto alle nuove esigenze fu dedicata alla pratica
giuridica dei magistrati, e soprattutto riguardante i pretori. Un pretore non
era un legislatore e non poteva tecnicamente creare una nuova legge quando
emetteva i suoi editti. I risultati delle sue sentenze godevano di tutela
giuridica[19] ed erano in effetti spesso fonte di nuove norme giuridiche. Il
successore del precedente pretore non era vincolato dalle disposizioni del suo
predecessore; comunque doveva rifarsi alle norme contenute negli editti del suo
predecessore che si dimostrassero utili. In questo modo si generò un modo
costante di operare da un punto di vista giuridico, editto per editto. Così,
nel corso del tempo, parallelamente al diritto civile, che andava integrandosi
e correggendosi, emerse un nuovo corpo di leggi pretorie. In realtà, la legge
pretoria venne così definita dal celebre giurista romano Papiniano. Ius
praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel
corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Il diritto
pretorio è una legge introdotta da pretori per integrare o correggere il
diritto civile per il bene pubblico.» Alla fine, il diritto civile e il
diritto pretorio si fusero nel Corpus Iuris Civilis. I primi
duecentocinquant'anni da Augusto, fino alla morte dell'imperatore Alessandro
Severo corrispondono al cosiddetto "periodo classico". Questo momento
storico rappresentò per il diritto e la giurisprudenza romana il momento più
elevato dell'intera storia romana. I successi letterari e le pratiche dei giuristi
di questo periodo hanno dato una forma unica al diritto romano. I
giuristi lavorarono in diverse direzioni, dando pareri legali: su richiesta
delle parti private; ai magistrati a cui era affidata l'amministrazione della
giustizia, soprattutto i pretori; nella redazione degli editti dei pretori,
quando veniva annunciato pubblicamente l'inizio del loro mandato, su come
avrebbero gestito le loro funzioni, oltre alle formule, in base alle quali
vennero condotti procedimenti specifici. Alcuni giuristi vennero incaricati di
occuparsi di prestigiosi uffici giudiziari e amministrativi. I giuristi
produssero, inoltre, tutta una serie di commentari legali e trattati. Attorno
al 130 il giurista Salvio Giuliano redasse un modello standard di come doveva
essere redatto un editto di un pretore, che poi venne utilizzato da tutti i
pretori da quel momento in poi. Questo editto conteneva dettagliate descrizioni
di tutti i casi, nei quali il pretore avrebbe potuto compiere un'azione legale
e una difesa. L'editto standard funzionava come un codice di legge completa,
anche se formalmente non aveva forza di legge. Esso indicava i requisiti
giuridici per un'azione legale di successo. L'editto divenne pertanto la base
per numerosi commentari giuridici da parte dei giuristi classici di epoca tarda
come, Giulio Paolo e Eneo Domizio Ulpiano. I nuovi concetti e istituti
giuridici elaborati dai giuristi di epoca pre-classica e classica sono troppo
numerosi da menzionare qui. Seguono quindi alcuni esempi: i giuristi
romani separarono chiaramente l'utilizzo di una cosa (proprietà) nel diritto
legale, dalla possibilità di utilizzare e manipolare la cosa (possesso).
Elaborarono anche la distinzione tra contratto e colpa come fonti delle
obbligazioni legali. I contratti standard (di vendita, di lavoro, locazione,
appalto di servizi) furono regolati nei più importanti codici continentali e le
caratteristiche di ciascuno di questi contratti furono sviluppate nella
giurisprudenza romana. Il giurista classico Gaio creò un sistema di diritto privato
basato sulla divisione materiale di personae (persone), res (cose) e actiones
(azioni legali). Questo sistema fu usato per molti secoli successivi:
basterebbe ricordare i Commentaries on the Laws of England di William
Blackstone, gli atti francesi del Codice Napoleonicooppure il codice civile
tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch). L'ultimo periodo è quello denominato
post-classico, iniziato con la morte di Alessandro Severo e segnò la fine del principato, dilaniato
dalle guerre civiliper la porpora imperiale e dalle continue invasioni dei
barbari del nord e delle armate persiane. Terminò, quindi, con il regno di
Giustiniano. In questo periodo le condizioni per il fiorire di una cultura
giuridica raffinata divennero meno favorevoli. La situazione politica ed
economica generale si era andata deteriorando, da quando gli imperatori
romaniavevano assunto un controllo più diretto di tutti gli aspetti della vita
politica. Il sistema politico del principato, che aveva mantenuto alcune
caratteristiche della costituzione repubblicana, cominciarono a trasformarsi
nella monarchia assolutadel dominato. L'esistenza di una giurisprudenza e di
giuristi che considerassero il diritto come una scienza, non come mero
strumento per raggiungere gli obiettivi politici stabiliti dal monarca
assoluto, non si adattarono al nuovo ordine di cose. La produzione letteraria
cessò quasi di esistere. Pochi furono i giuristi conosciuti dopo la metà del
III secolo. Tuttavia, mentre la maggior parte della giurisprudenza del diritto
classico finì per essere ignorata e, infine, dimenticata in Occidente, in
Oriente prese piede una fondamentale attività di codificazione delle leggi
classiche e della giurisprudenza e di armonizzazione con le leggi successive,
soprattutto grazie all'opera di Giustiniano I, che avrebbe costituito la base
del diritto medievale. Eredità del diritto romanoModifica In
OrienteModifica Edizione del Digesta, parte del Corpus Iuris Civilis di
Giustiniano I. Quando la centralità dell'Impero romano venne spostata a est
della Grecia nel IV secolo, apparvero nella legislazione ufficiale romana molti
concetti legali di origine greca. Questa influenza risulta visibile perfino nel
diritto privato inerente ai rapporti tra persone e alla famiglia, che
tradizionalmente faceva parte del diritto che subiva minori cambiamenti. Per
esempio Costantino I cominciò a porre delle restrizioni all'antico concetto
romano di patria potestas, il potere detenuto dal padre nei confronti della
famiglia e dei suoi discendenti, riconoscendo che le persone in potestate, i
discendenti, potevano avere diritti di proprietà. Egli apparentemente fece
delle concessioni al concetto molto più severo di autorità paterna del diritto
greco-ellenistico. Il Codex Theodosianus era una codificazione delle leggi di
Costantino. Gli imperatori successivi andarono perfino oltre, fino a quando
Giustiniano I decretò che un fanciullo in potestate potesse diventare
proprietario di tutto ciò che avesse acquistato, con esclusione di quanto
veniva acquistato da suo padre. L'opera giuridica di Giustiniano,
particolarmente il Corpus Iuris Civilis, continuò a costituire la base della
pratica legale dell'Impero bizantino. Leone III Isaurico emise un nuovo codice,
denominato Ecloga. Gli imperatori Basilio I il Macedone e Leone VI il
Saggiocommissionarono la traduzione in greco del Codice e del Digesto, parti
del codice di Giustiniano, conosciuta con il nome di Basilica. Il diritto
romano preservato nel corpus legislativo di Giustiniano e nella
Basilicarimasero la base della giurisprudenza greca e nelle corti della Chiesa
ortodossa perfino dopo la fine dell'Impero bizantino e la conquista dei Turchi,
formando così la base per gran parte del Fetha Negest, che rimase in essere in
Etiopia. Reintroduzione in OccidenteModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Regni romano-barbarici, Diritto barbarico e
Diritto medievale. In seguito alle invasioni barbariche, come fonte principale
del diritto, il diritto romano scomparve in gran parte dell'Europa occidentale.
L’imperatore d'Oriente Giustiniano I promulgò il Corpus iuris civilis che in
futuro sarebbe diventato la base per la reintroduzione del Diritto romano
nell'Occidente. Nel Corpus, Giustiniano fece confluire tutte le antiche leggi
di Roma cercando di armonizzarle con le nuove che nel frattempo erano state
promulgate. Il Codice di Giustiniano fu applicato nei territori italiani
sottoposti all'autorità di Bisanzio, ma le seguenti invasioni barbariche le
cancellarono dall'Occidente, riducendo il diritto romano a mero diritto comune.
In seguito, l'insistenza degli imperatori romano-germanici di proclamarsi
diretti successori dell'Impero romano, in particolare della Dinastia ottoniana
di Sassonia favorì, anche grazie alle università, la reintroduzione del Diritto
romano in Occidente, andando a rimpiazzare le tradizioni giuridiche degli
invasori germanici. Nel Regno di Sicilia il diritto romano fu reintrodotto per
volontà dell'imperatore Federico II con le due assise di Capua e Messina. Il
diritto romano venne riscoperto e dominò la pratica legale di molti paesi
europei. Un sistema giuridico, in cui il diritto romano venne mescolato con
elementi di Diritto canonico e di costume germanico, soprattutto con il diritto
feudale, divenne comune in tutta l'Europa continentale e conosciuto come lo ius
commune, termine che viene indicato nei sistemi giuridici anglosassoni come
civil law. Diritto romano e tutela dei monumentiModifica La protezione
delle opere pubbliche e delle principali opere d'arte come anche, più in generale,
dell'intera consistenza cittadina era disciplinata da un insieme organico di
statuti, leggi, costituzioni e provvedimenti risalenti già alla prima età
repubblicana. Nell'epoca classica si creò una nuova serie di cariche pubbliche
che sovrintesero alla tutela di settori sempre più specifici, regolando e
inserendo in un sistema altamente efficiente una realtà in precedenza già
presente, seppur in forma embrionale, anche nel mondo greco. Le tracce di
come un tanto imponente sistema si sia trasmesso sino ai giorni nostri,
influenzando la nascita delle prime moderne forme di protezione dei monumenti
pubblici, sono fin troppo evidenti. Si pensi, per esempio, all'istituzione dei
magistri aedificiorum et stratarum voluti, nella Roma del Quattrocento, da papa
Martino V. Diritto romano oggiModifica Oggi, il diritto romano non è più
applicato nella giurisprudenza moderna, anche se negli ordinamenti giuridici di
alcuni Stati come il Sudafrica e San Marinoalcune parti si basano ancora sullo
ius commune. Tuttavia, anche se la giurisprudenza si basa su un codice, si
applicano molte regole derivanti dal diritto romano: nessun codice ha
completamente rotto i collegamenti con la tradizione romana. Piuttosto, le
disposizioni del diritto romano sono state create su misura in un sistema più
coerente, espresso nella lingua nazionale di molti Stati. Per questa ragione,
la conoscenza del diritto romano è indispensabile per capire i sistemi
giuridici contemporanei. Il diritto romano risulta spesso un argomento
obbligatorio per gli studenti di legge nelle varie giurisdizioni di diritto
civile. Come passo fondamentale verso l'unificazione del diritto privato
negli Stati membri dell'Unione europea, viene così adottato il vecchio Ius
Commune, che era la base comune della pratica legale in tutto il mondo,
permettendo poi molte varianti locali, ed è sentito da molti come un modello
basilare. Divisioni interne al diritto romanoModifica Il diritto romano
si suddivide in: ius Quiritium (deriva da "Quirites", sinonimo
di "Romani"), costituito da un insieme di consuetudini ancestrali,
non scritte, talmente remote che i Romani stessi non ne conoscevano l'origine.
Riguardava gli ambiti di diritto di famiglia, matrimonio, patria potestas e
proprietà privata, e non comprendeva le obbligazioni, che in età arcaica non
esistevano. Costituisce il nucleo più arcaico del ius civile. ius civile, era
l'insieme delle norme che regolano i rapporti tra i cives romani, considerato
nell'ottica romana come orgogliosa prerogativa dei cittadini di Roma. Di esso
il giurista romano Papiniano dà la seguente definizione tramandataci dal
Digesto giustinianeo: Ius autem civile est quod ex legibus, plebis scitis,
senatus consultis, decretis principum, auctoritate prudentium venit. Il ius
civile è il diritto che promana dalle leggi, dai plebisciti, dai
senatoconsulti, dai decreti degli imperatori e dai responsi dei
giurisperiti.» (Digesto) ius gentium, l'insieme di tutti gli istituti che
trovano tutela, oltre che nell'ordinamento statuale romano, anche presso altri
popoli. ius naturale, la lezione stoica proficuamente accolta da Cicerone, si
trasfuse nella coscienza giuridica romana. I giureconsulti, però, non essendo
filosofi, ne trassero scarsi e rozzi ammaestramenti, interpretando la natura come
atavico istinto comune anche agli esseri irrazionali. Ciò accadde
specificamente nella definizione che ne diede Ulpiano, allorché stabilisce che
"Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli
esseri animati. [Da esso] derivano l'unione del maschio e della femmina, che
noi chiamiamo matrimonio, la procreazione e l'allevamento dei figli. Vediamo
infatti che anche gli altri animali, perfino quelli selvaggi, conoscono e
praticano questo diritto. Questo passo di Ulpiano sarà inserito nel Digesto
giustinianeo (D.) e insieme con l'intero Corpus iuris civilis costituirà
oggetto di studio per le scuole giuridiche medievali. Gaio propende per una
bipartizione del diritto, cioè che il diritto si divida in ius civile,
creazione artificiale della civitas, e in ius gentium o ius naturale, diritto
comune ai popoli e che trova la sua ragion d'essere nella naturalis ratio, cioè
in una ragione naturale, dunque ritenuto anche eticamente migliore poiché
ispirato dalla natura: in questa visione la schiavitù è considerata come una
situazione naturale già predisposta dalla stessa natura; Ulpiano propende per
una tripartizione del diritto; come Gaio, pensa che lo ius civile sia creazione
artificiale, ma va oltre affermando che il ius gentium riguarda un regolamento
per i soli uomini, mentre lo ius naturale sarebbe quello di tutte le creature
viventi: in questo caso la condizione di schiavo viene vista come una
condizione predisposta dal diritto e non riconducibile alla condizione naturale
dell'uomo. ius honorarium (o ius praetorium), che riguarda le situazioni di
diritto o di fatto che, pur non trovando tutela nelle norme dello ius civile,
sono state regolamentate dall'attività giurisdizionale dei magistrati dotati di
iurisdictio. Lo stesso Papiniano, nel medesimo brano in cui definisce il ius civile,
racchiude il concetto di ius honorarium, che egli chiama ius praetorium, nelle
seguenti parole. Ius praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel
supplendi vel corrigendi gratia propter utilitatem publicam; quod et honorarium
dicitur ab honore praetorum. Il ius pretorium è il diritto introdotto dai
praetores al fine di aiutare, aggiungere, emendare lo ius civileper la pubblica
utilità; ciò che viene anche chiamato honorariumdall'onore dei pretori.»
Ius legitimum, il cui nome deriva da lex è il diritto prodotto in sede
assembleare attraverso la votazione e approvazione di una legge comiziale; lo
ius legitimum ha particolare vita in età repubblicana e fiorisce
particolarmente con Augusto per poi scomparire dopo la sua morte e la trasformazione
dello Stato in impero; con il venir meno delle assemblee a favore del duopolio
Senato-imperatore e del successivo monopolio imperiale del potere la lex perde
il suo carattere di comizialità e viene a identificarsi con la definizione di
norme da parte dell'imperatore stesso, nella forma della "costituzione
imperiale". Da questo momento lo ius legitimum si estingue, confluendo
nello ius civile. Durante la repubblica le principali assemblee produttrici di
ius legitimum erano i comitia centuriata e i concilia plebis, in minore parte
le altre assemblee. Eneo Domizio Ulpiano, Digesto1.1.10 principio. Ad esempio
stare decisis, culpa in contrahendoo in pacta sunt servanda. In Germania, Art. 311 BGB. Valacchia, Moldova e alcune altre province
medievali. Secondo Francisci (Sintesi storica del diritto romano) la prima
fase, denominata del diritto "primitivo", iniziava con la fondazione
di Roma e terminava con la fine della seconda guerra punica. Biondi,
Istituzioni di diritto romano, Ius civile Quiritium. ^ Come ad esempio la
pratica rituale della mancipatio, una forma di vendita. "Roman Law", in Catholic Encyclopedia, Appleton Company, New
York. Jenő Szmodis, The Reality of the Law — From the Etruscan Religion to the
Postmodern Theories of Law, Ed. Kairosz, Budapest, Olga Tellegen-Couperus, A
Short History of Roman Law, Livio, Ab Urbe condita libri. Decemviri legibus
scribundis. ^ Pudentes, sing. prudens, o jurisprudentes. Pietro De Francisci,
Sintesi storica del diritto romano. Invece Biondi lo accorpa in un unico
periodo con il precedente e lo chiama "repubblicano". Berger, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, in The American
Philosophical Society. Magistratuum
edicta. Actionem dare. Edictum
traslatitium. Francisci, Sintesi storica del diritto romano, Tellegen-Couperus
& Tellegen-Couper, A Short History of Roman Law. Ecloga | Byzantine
law Britannica, su britannica. Cardini e
Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia. "È
questo il famoso Corpus iuris civilis, nel quale Giustiniano dettò le sue nuove
leggi preoccupandosi però di armonizzarle coerentemente con quelle antiche.
Tale monumento alla sapienza giuridica di Roma sarebbe stato alla base della
rinascita degli studi giuridici e delle istituzioni politiche della stessa
Europa; e costituisce ancora oggi il fondamento sul quale si appoggiano i
sistemi giuridici di gran parte dei paesi del mondo. Cardini e Montesano,
Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, "La pretesa di
questi re di atteggiarsi a imperatori romani non fu priva di risultati anche
importanti: essa fu ad esempio uno dei motivi per cui, a partire dalla metà del
XII secolo, il diritto romano rientrò nell'Europa occidentale e -anche grazie
al lavoro che fu allora espletato nelle università- s'impose come nuovo diritto
sostituendosi in tutto o in massima parte alle precedenti tradizioni giuridiche
ereditate dai germani delle invasioni." Cardini e Marina Montesano, Storia
Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia, "Introdusse il diritto
romano, fondò l'Università di Napoli per disporre di un ceto di funzionari
fedeli istruiti all'interno dei confini (altrimenti i suoi sudditi avrebbero
dovuto andare fino a Bologna per studiare) e favorì lo "Studio"
medico di Salerno." ^ Incluse tutte le proprietà private. ^ V. Campanelli,
L'antefatto: leggi e norme di tutela nel diritto romano, "‘ANAΓKH", I
curatores viarum, operum publicorum, rei publicae, statuarum, ecc. ^ Platone,
nel VI capitolo delle Leggi, cita un tipo particolare di magistrati chiamati
astynomi, storicamente documentati (cfr. Die Astynomenischrift, Atene) dediti
alla cura e alla riparazione dei luoghi pubblici. Con la bolla Etsi in
cunctarum. Che per gli Stoici era permeata dalla ragione divina. Fassò Fassò,
p. 25, nota 5: «Digesto, Fassò, p. 25. BibliografiaModifica Fonti primarie
giuridiche La ricostruzione dell'intero sistema di diritto romano è basata sul
ritrovamento di fonti giuridiche e storiche più o meno complete. Di seguito, un
elenco (certamente non esaustivo) delle principali fonti di produzione del
diritto romano che ci sono pervenute: Augusto, Res gestae divi Augusti
(opera divisa in sei tabulae). Marco Tullio Cicerone, De legibus, libri I-III
Wikisource-logo.svg. Codice Ermogeniano. Codice Teodosiano Imperatoris
Theodosiani Codex Wikisource-logo.svg; il contraltare alla codificazione
Giustinianea, in sedici libri densi di diritto e innovazioni strutturali, tra
cui il Liber Legum Novellarum Imperatoris Theodosi. Constitvtiones
Sirmondianae: raccolta di 16 costituzioni imperiali, che disciplinano materie
ecclesiastiche; presero il nome dal primo loro editore, il gesuita Sirmond.
Emanate non furono tutte accolte nel Codice teodosiano, in appendice al quale
vennero pubblicate da Mommsen. Corpus Inscriptionum Latinarum. Decretum
Gelasianum, fonte di diritto canonico, più che di diritto romano (da The Latin
Library); Editto di Costantino e Licinio logo.svg. Edictum Theodorici Regis:
l'Editto di Teodorico pubblicato nel 500, diviso in 154 articoli, era un codice
"territoriale", cioè conteneva disposizioni valide sia per i Romani
che per gli Ostrogoti. Ciascuno degli articoli era ricavato da un testo delle
leges o degli iura, soprattutto dai codices, dalle Sententiae di Paolo ecc. Vi
sono anche alcune norme nuove, di incerta origine (non si sa se di origine
ostrogota oppure derivate dalla pratica). Fontes Iuris Romani Anteiustiniani in
usum scholarum, divise in 7 libri (due sulle Leges, due sugli Auctores, e 3 sui
Negotia). Fragmenta Vaticana Fragmenta Vaticana, frammenti di un'ampia
compilazione privata di costituzioni imperiali e di passi desunti dalle opere
di Papiniano, Ulpiano e Paolo. Il palinsesto fu scoperto da Mai nella
Biblioteca Vaticana. Le costituzioni imperiali ivi riportate sono varie..
Giustiniano I, Corpus iuris civilis, composto da: Imperatoris Iustiniani
Institutiones, (versione latina) -logo.svg; opera didattica in 4 libri
destinata a coloro che studiavano il diritto; Domini Nostri Sacratissimi
Principis Iustiniani Iuris Enucleati Ex Omni Vetere Iure Collecti Digestorum
seu Pandectarum (o Pandectae), antologia in 50 libri di frammenti estrapolati
(non senza modifiche) dalle opere giuridiche dei più eminenti giuristi della
storia di Roma (testo latino); Domini Nostri Sacratissimi Principis Iustiniani
Codex, testo latino (raccolta di costituzioni imperiali da Adriano allo stesso
Giustiniano); Novellae Constitutiones - costituzioni emanate da Giustiniano
dopo la pubblicazione del Codex, fino alla sua morte. Istituzioni di Gaio (Gai
Institutionum). Leggi delle XII tavole (Duodecim Tabularum Leges). Lex Romana
Burgundionum, scritta all'inizio del VI secolo, è articolata in 47 titoli e la
si attribuisce a Gundobado, re dei Burgundi (Gallia Orientale). È destinata ai
soli sudditi romani del regno dei Burgundi. Sententiae Pauli: i cinque titoli
delle Sententiae receptae Pavlo tributae e i cinque libri delle Pavli
sententiarvm interpretatio. Senatus consultum de Bacchanalibus; Ulpiano, Titvli
ex corpore Ulpiani (opera piuttosto elementare, destinata soprattutto
all'insegnamento del diritto, contenuta in un manoscritto della Biblioteca
Vaticana. Secondo la dottrina prevalente, si tratta di una compilazione
post-classica, con molta probabilità dell'epoca di Diocleziano o Costantino di
passi rimaneggiati e rielaborati tratti da opere di Ulpiano). Storiografia
moderna Dario Annunziata, Temi e problemi della giurisprudenza severiana.
Annotazioni su Tertulliano e Menandro, Editoriale Scientifica, Napoli, Ruiz,
Storia del diritto romano, Jovene, Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Jovene,
Biondi, Istituzioni di diritto romano, Ed. Giuffré, Milano Burdese, Manuale di
Diritto Privato Romano, Utet giuridica, Burdese, Manuale di Diritto Pubblico
Romano, Utet giuridica, Costabile, Storia del diritto pubblico romano, Iriti,
Francisci, Sintesi storica del diritto romano, Roma Marzo, Istituzioni di
diritto romano, Giuffrè, Milano, Marzo, Manuale elementare di diritto romano,
Utet, Torino Marrone, Istituzioni di
diritto romano, Palumbo, Cesare Sanfilippo. Istituzioni di diritto romano,
Rubbettino, Schiavone, Ius: l'invenzione del diritto in Occidente, Torino,
Einaudi, 2 International roman law moot court Diritto latino romano, diritto,
su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana.Diritto romano, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera.
Diritto romano, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
Modifica su Wikidata Digitalizzazione completa del Corpus Iuris Civilis: Lion,
Hugues de la Porte, Corpus iuris civilis, su thelatinlibrary.com. The Roman Law
Library (Yves Lassard, Alexandr Koptev) Dizionario Storico del Diritto Romano
SimoneDiritto e Storia del Diritto Romano Otto Vervaart, Rechtshistorieː A
gateway to legal history - Roman Law, su rechtshistorie.nl. Fonti di diritto
romano, su ancientrome.ru. (in russo). Portale Antica Roma
Portale Diritto Portale Roma Portale Storia
Corpus iuris civilis raccolta di materiale giurisprudenziale, voluta
dall'imperatore d'Oriente Giustiniano I Digesto Compilazione di frammenti
derivanti da opere di giuristi romani voluta da Giustiniano I. Basilika. Il
conte Sergio Cotta. Keywords: l’inter-soggetivo, il giurato, il normato. La prima
ferita narcissista, Filangieri, giurato, l’uomo galileano, l’obbligato, il
normato, Latin ‘normare’ – not recognized in Dizionario etimologico – il
giurato d’entrambi – il concordato d’entrambi – fenomenologia – Roma citta –
polis, politea, res publica – pubblico e privato -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cotta” – The Swimming-Pool Library. Cotta.
Grice
e Crassicio: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. He moves to Rome where he works as a teacher before
joining the school of Quinto Sestio. Crassicio Pasicle. Crassicio.
Grice
e Crasso: la ragione conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Roma). Filosofo italiano. An orator and a politican. He takes
a keen interest in philosophy and at different times studies with Metodoro,
Carmada, Clitomaco and Mnesarco. Lucio Lucinio Crasso. Crasso.
Grice
e Cratippo: la ragione conversazionale al lizio di Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Lizio. Friend of Cicerone. Tutor of Orazio and
Bruto. Marco Tullio Cratippo. Crattipo.
Grice e Credaro: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del discorso al senato -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Sondrio). Filosofo
italiano. Grice: “I like Credaro; it is as if he invented the universities! I
especially love the way he connects it all, in that uniquely Italian way, with
the ‘assoluto’!” Si laurea a Pavia, dove
fu convittore del Collegio Ghislieri, divenne insegnante di liceo. Wi recò a
Lipsia per perfezionarsi nella psicologia filosofica sotto Wundt. Insegna a
Pavia. Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d'Italia nei governi Luzzatti
e Giolitti IV -- istituì il Liceo
moderno. Relatore nella presentazione della Legge che istitutiva dei Corsi di
perfezionamento, o più comunemente Scuole pedagogiche, di durata biennale, di
preparazione per l'esercizio all'ispettorato o per la direzione didattica delle
scuole. Fu l'ispiratore della legge Daneo-C., che stabiliva che lo stipendio
dei maestri delle scuole elementari fosse a carico del bilancio dello Stato, e
non più dei Comuni, contribuendo così in maniera determinante all'eliminazione
dell'analfabetismo in Italia. Prima di questa legge, infatti, i comuni di
campagna e quelli più poveri, specie nel Sud, non erano in grado di istituire e
mantenere scuole elementari e pertanto rendevano di fatto inapplicata la legge
Coppino sull'obbligo scolastico. Si
interessa attivamente dei problemi agricoli e forestali di Sondrio. Autore di numerosi
saggi, in particolare sui Kant e Herbart.
Commissario Generale Civile della Venezia Tridentina, ossia la suprema
autorità del Trentino-Alto Adige che sta per essere fannesso all'Italia. In
tale veste tentò una politica particolarmente conciliante verso la minoranza di
lingua tedesca e rispettosa dell'ordinamento amministrativo de-centrato della
regione. In seguito, anche a causa delle pressioni dei nazionalisti, la sua
politica nei confronti della minoranza di lingua tedesca si fece più intransigente.
Testimonianza ne è la cosiddetta Lex Corbino,elaborata da Credaro,
sull'istituzione di scuole elementari nelle nuove province che è considerata da
una parte della storiografia strumento per potenziare la presenza italiana
soprattutto nel territorio misti-lingue della regione a danno della minoranza
tedesca. Ciononostante, sube l'assalto di una squadra d'azione fascista che lo
costrinse alle dimissioni per far luogo all'insediamento di un prefetto di
Trento. Termina quindi la sua carriera politica in disparte rispetto al regime
che si andava consolidando. Altre opere: “Lo scetticismo degli platonisti (Roma,
Terme Diocleziane); La libertà di volere (Milano, Bernardoni); Herbart, Torino,
Paravia), “Razionalismo trascendente in Italia” Catania, Battiato); Wundt (Milano,
Società Anonima Editrice Dante Alighieri). Andrea Di Michele,
L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra
Italia liberale e fascismo, Alessandria, Orso, Analfabetismo, Dizionario
biografico degli italiani, Cr. un italiano d'altri tempi articolo di Romano,
Corriere della Sera, Sondrio. Se il nome
di Carneade non è completamente ignorato dalle persone colte, che non si
occupano di storia della filosofia, si deve alla parte giuridica del suo
pensiero, la cui conoscenza è tratta quasi interamente da pochi frammenti della
famosa orazione (quasi-Trasimaco) *contro* il concetto dello giusto tenuta a
Roma frammenti conservati da Lattanzio, il quale li ha presi dal trattato della
repubblica di CICERONE. Questa orazione alla Trasimaco *contro* la coerenza del
concetto dello giusto – gius – giustiziato, juratum, giurato cf. Cicerone
jusjuratum --, che fa epoca nella storia della cultura del popolo romano, non
deve essere considerata solamente un episodio della vita di Carneade, una
semplice millanteria del facondo oratore, che volesse fare impressione sugli
animi dei Romani; ma il suo contenuto deve venire integrato colle altre vedute
di Carneade per cercarne il legame ed esaminarne il valore. A tale fine bisogna
anche qui muovere dallo stoicismo. L'orazione *contro* lo giurato
(Cicerone – iusiuratum) giustiziato ha qualche rapporto con esso? Si sa che
tutti e tre i filosofi ambasciatori -- Carneade accademico, Diogene stoico e
Critolao peripatetico -- durante il lungo soggiorno a Roma, sia per invito
avuto dalla cittadinanza, che in quel tempo godeva la pice decorsa tra la
battaglia di Pidna e la terza guerra punica, sia di propria iniziativa, per
desiderio di far mostra di tutta la potenza della loro parola e della loro
scienza filosofica, a beneficio eziandio della causa che patrocinavano, aprirono
un corso di conferenze (GELLIO, Noct. Att.; MACROBIO, Saturn.). É probabile che
tutti e tre filosofi – Carneade accademico, Critolao peripatetico del liceo – e
Diogene stoico -- abbiano scelto l'argomento delle loro orazioni dalla
filosofia pratica, come quella che interessa vivamente i loro ospiti, tutti
dati alle armi, agli affari, alla politica, all'amministrazione; anzi e le cito
supporre che ciascuno abbia esposte le idee della sua scuola – l’accademia, il
lizio, e il portico -- intorno al “giurato” – Cicerone iusiuratum, il principio
o imperativo più importante della vita pubblica e privata. Il soggetto del
giurato – Cicerone, iusiuratum – dove soddisfare pienamente le esigenze e i desideri
dell'uditorio, poichè i romani, a ragione o a torto, si credeno gli uomini più
giusti (giuratura, iusiuraturus) e alla virtù del giurato (Cicerone iusiuratum)
attribuivano la grandezza, alla quale era pervenuta la propria patria. In
questa ipotesi lo stoico Diogene, con parola modesta e sobria, come attesta POLIBIO,
che ebbe opportunità di ascoltarlo, spiega ai Romani l'idealismo morale e il
cosmo-politismo della sua setta. L'anima di tutti gli uomini è uguale; e come
tutte le cose uguali si attraggono, cosi anche gli esseri razionali; per ciò
l'istinto della società è insito nella stessa ragione, la quale insegna a
ciascuno di noi che esiste una sola città, un solo stato, la grande società
umana; ciascuno si sente parte integrante di questo immenso organismo governato
da una sola legge (ius) e da un solo diritto, la retta ragione (ius). Questa
legge (ius) conforme alla natura si fa sentire in tutti, immutabile,
sempiterna, divina; invita col comando al dovere, col divieto allontana dalla
frode. È suprema, assoluta; non è lecito crearne altre contrarie, nè abrogarla
totalmente o parzialmente; non voto di popolo, non decreto di senato possono
dispensare dall'ubbidirla; nessuno ha bisogno d'interprete per comprenderla; è
la medesima in Atene e in Roma, oggi e domani e sempre; l'inventore e il
promulgatore di essa è uno solo, il maestro e il comandante di tutti, Dio. Chi
non vi obbedisce, va contro la natura e per questo fatto solo soffrirà tutte le
pene. L'uomo pensa e opera moralmente (mos: costume) solo in quanto conformasi
a questa unica legge; e poichè questa è la medesima in tutti gli uomini, tutti
debbono tendere allo stesso scopo, al bene universale. Il uomo non deve vivere
per sè, ma per l'umanità; l'interesse personale deve essere asso lutarnente
subordinato a quello umano Cic., de fin.; de rep.; Plut., de comm. notit.; Zeller).
In questo stato politico ed etico regna perfetta concordia ed armonia. Tutti i
cittadini hanno vivo il sentimento dell'ordine, coltivano la virtù e reprimono
gli appetiti irrazionali, che sono la causa dell’inimicizia e della guerra
(bellum, polemos). Sono sottomessi alla volontà divina, al fato, alla serie
universale e interminabile delle cause e degli effetti. I doveri fondamentali sono
il giurato (iusiuratum), in qua virtutis splendor est maximus, e la benevolenza
e la beneficenza.Questedue virtù sono le basi della società civile (CICERONE,
de fin.). Intorno ad esse Diogene puo parlare a lungo ai Romani, perchè nel
Portico e stato soggetto di molte dispute e di scritti. Il suo tutore Crisippo
gli aveva insegnato in proposito una dottrina propria. Tutti gli altri esseri
sono nati per il bene degli uomini e degli dei, due uomini per formare una
popolazione, una società, una comunanza, una communita, un comune; è inerente
alla natura che tra l'uomo e il genere umano, come tra parte e tutto, interceda
un diritto naturale. Colui che lo osserva è giusto (promuove il giurato –
iusiurato); ingiusto chi lo trasgredisce. Tra il diritto pubblico e quello
privato non avvi opposizione (CICERONE, de fin.). Un uomo non si trova in rapporti
giuridici con una bestia, ma solo con suo simile. Affinchè si realizzi il regno
del giurato (iusiuratum) e della moralità occorre che la perfetta ragione sia
presente in tutti. La ragione invece si trova solamente nel sapiente; si
formarono quindi gli stati singoli, che tengono divisa l'umanità. Come gli
stati, così le istituzioni che li governano sono effetto di errore e stoltezza:
quali l’istituzione del matrimonio, l’istituzione della famiglia, l’istituzione
della proprietà, l’istituzione dela moneta, l’istituzione del ribunale, l’istituzione
del ginnasio (Diog. L.). Stato conforme alla natura umana, con istituzioni
veramente buone, non esiste. Edotto di questo idealismo politico, puo sul
Campidoglio il pretore romano A. ALBINO, uomo erudito e versato nella lingua
greca, dire per ischerzo volgendosi a Carneade. “A te, Carneade, non sembra io
sia un pretore, nè questa una città, nè in essa abitino cittadini). A cui
Carneade, che subito capisce di essere stato preso per il collega del Portico.
“A questo del Portico non sembra cosi.” I filosofi ateniesi non lasciano di
contendere neppure in paese straniero; o certo Carneade e stato assai lieto di
osservare che al senso pratico dei romani la dottrina de' suoi avversari si
presenta come assolutamente *ridicola*; e tornato in patria, crede il fatto
degno di essere raccontato a' suoi discepoli (L'aneddoto è ricordato da
Clitomaco. CICERONE, Ac.). Sogliono gli storici narrarci che Carneade tenne a
Roma *due* discorsi ispirati a scopo opposto. Il primo giorno dimostra l'esistenza
del diritto naturale e loda la giustizia (il giurato – il iusiuratum – dike –
cf. lex). Il secondo giorno sostenne tutto il contrario; onde gridano
all'immoralità, all’audacia e alla sfacciataggine del filosofo, che non si
vergognò di difendere contraddizione si anorme. Anche non tenendo conto che, se
si applicasse questo criterio, tutta la filosofia dei accademici sarebbe un'
immoralità, perchè il loro metodo e di difendere in ogni quistione le soluziori
opposte. Idue discorsi (tesi ed antitesi, positio e contra-positio, posizione e
contra-posizione), tenuti in giorni successivi, abbiano un'unità perfetta (la
sintesi, o com-posizione) e si propongano il medesimo fine: mostrare la falsità
della dottrina della tesi di Diogene intorno al giurato; e siccome costoro in
questa parte della filosofia, molto più che in altre, sono dipendenti da Platone
e da Aristotele, bisogna prendere le mosse da questi. Leggiamo in LATTANZIO.
Carneades autem, ut Aristotelem refelleret ac Platonem, IVSTITIAE patronos,
prima illa disputatione collegit ea omnia, quae pro IVSTITIA dicebantur, ut
posset illa, sicut fecit, evertere. Carneades, quoniam erant infirma, quæ a
philosophis adserebantur, sumsit audaciam refellendi, quia refelli posse
intellexit (Lattanzio, Instit. div.). E al trove. Nec immerito extitit
Carneades, homo summo ingenio et acumine, qui refelleret istorum (Platone e
Aristotele ) orationem et iustitiam, quæ fundamentum stabile non habebat,
everteret, non quia vituperandam esse iustitiam sentiebat, sed ut illos
defensores eius ostenderet nihil certi, nihil firmi de iustitia disputare
(Epit.). Di qui è evidente che la prima orazione non era che un esordio,
un'introduzione, uno sguardo storico alla questione, un'esposizione delle idee
accettate da Diogene, che Carneade s'appresta a confutare nel vegnente giorno
(CICERONE., de rep.); confutazione, la quale non ha per iscopo di vituperare la
giustizia in sé, ma di colpire i filosofi avversari, o almeno la loro teoria
dommatica – il domma. Non è la virtù del Portico, che Carneade demole, ma il
sapere. E caso a noi pervennero frammenti solamente della seconda orazione.
Questa sola offre una filosofia nuova, da una scossa inaspettata e forte
all'intelligenza dei romani. Perciò eam disputationem, qua IVSTITIA evertitur,
apud CICERONE L. FURIO recordatur
(Lattanzio, Instit. dio.). E noi ora possiamo tentare di ricostruire questo
singolare discorso nelle sue linee generali. Per Carneade, non esiste una
giustizia (giurato – iusiurato) naturale nè verso due uomini. Se esso esiste, le
medesimecose sarebbero giurate (iusiurata) giuste o ingiuste, buone o cattive,
morali o immorali, per ogni uomo, come le cose calde e le fredde, le dolci e le
amare. Invece, chi conosce il mondo e la storia, sa che regna una grandissima
diversità di apprezzamenti morali e giuridici, di consuetudini tra il popolo romano
e il popolo sabino, da Roma a Sabinia, dal Tevere al Trastevere, da tempo a
tempo. I cretesi e gl’etoli reputano cosa onesta il brigantaggio. I lacedemoni
dichiarano loro proprietà tutti i campi che potevano toccare col giavellotto. Gl’ateniesi
soleno annunciare pubblicamente che loro appartene ogni terra che producesse
olive e biade. I barbari galli stimano disonorevole cosa procurarsi il frumento
col lavoro, invece che colle armi. I romani vietano ai transalpini la
coltivazione dell'ulivo e della vite, per impedire la concorrenza ai loro
prodotti e dar a questi un valore più elevato. Gli semitici egiziani, che hanno
una storia di moltissimi secoli, adorano come divinità il bue e belve di ogni
genere. I semitici persiani, disprezzano gli dei dell'Ellade, ne incendiarono i
tempii, persuasi essere cosa illecita che gli dei, i quali hanno per abitazione
tutto il mondo, fossero rinchiusi tra pareti. Filippo il Macedone idea e
Alessandro manda ad esecuzione la guerra contro i greci per punire quei numi. I
Tauri, gli Egiziani, i barbari galli (“Norma”) e i Fenici credeno che
tornassero assai accetti alle loro deità il sacrifizio umano. Si dice: E dovere
dell'uomo che fa il giurato (iusiuratum) ubbidire alla legge. Quale legge? A la
legge di ieri, o alla legge di oggi? A quelle fatte in questo lato del Tevere,
o nel Trastevere? Se una un imperativo o una legge suprema, universale, trascendente,
kantiana, costante s'impone alla coscienza dell’uomo, come pretende Diogene,
coteste variazioni non sarebbero possibili. Perciò non esiste un diritto
naturale, nè un uomo che per natura arriva al giurato (iusiuratum). Il diritto (IVS)
è una invenzione dell’uomo a scopo di utilità e didifesa; come prova anche il
fatto che non raramente la legge, le quale e fatta dal sesso maschile, assicura
a questo sesso un particolare vantaggio a danno di quello femminile. Nessuna ‘legislazione’,
attentamente esaminata, appare l'espressione di un imperative o principio
fisso, naturale, vero, immutabile, divino. Invece al profondo osservatore non
isfugge che ogni disposizione legale move da ragione di utile e viene cambiata
appena non risponde più ai bisogni e agl'interessi di coloro che hanno nelle
mani il potere. Ogni nazione cerca di provvedere al proprio bene e considera,
per istinto di natura, gl’animali e le altre nazione come istrumenti della
propria conservazione e felicità (CICERONE., de rep.). La storia insegna che
ogni popolo che diventa grande, potente, ricco, non pensa ai vantaggi altrui,
ma unicamente ai proprii. Voi stessi o ROMANI, dice Carneade parlando a un SCIPIONE
Emiliano, il futuro distruttore di Cartagine e di Numanzia, a LELIO il saggio,
al letterato FURIO Filone, a SCEVOLA il futuro giureconsulto, all'erudito
SUPICIO Gallo, al grande oratore GALBA, al vecchio CATONE, l'implacabile nemico
di Cartagine, al fiore di tutta la cittadinanza e alla presenza dei colti
ostaggi achei trasportati in Italia, tra i quali il grande storico e generale
Polibio. Voi stessi, o Romani, non vi siete impadroniti del mondo colla GIUSTIZIA.
Se volete essere giusti, restituite le cose tolte agl’altri, ritornate alle
vostre capanne a vivere nella povertà e nella miseria. Il criterio direttivo
della vostra vita non e il giurato
(iusiuratum), bensi l'utilità, che invano cercate di mascherara. Poichè voi, coll'intimare
la guerra per mezzo di araldi, col recare *in-giurie* sotto un pretesto di
legalità, col desiderare l'altrui, col rubire, siete per venuti al possesso di
tutto il mondo. Ma per temperare il cattivo effetto, che avesse potuto produrre
negli animi dei Romani questa audace analisi dei fattori della loro grandezza
politica, l'avveduto ambasciatore ateniese ricorda altri esempi, che sono celebri
e lodati in tutto il mondo. Rammenta la ben nota risposta data dal pirata
catturato ad Alessandro il grande. Io infesto breve tratto di mare con una sola
fusta, con quel medesiino diritto, col quale tu, o Alessandro, infesti tutto il
mondo con grande esercito e flotta. Il patriottismo, questa virtù somma e
perfetta, che suole essere portata fino al cielo colle lodi, è la negazione del
giurato (iusiuratum), perchè si alimenta della discordia seminata tra gli
uomini e consiste nell'aumentare la prosperità del proprio paese, naturalmente
a danno di un altro, coll’nvadere violentemente il territorio altrui, estendere
il dominio, aumentare le gabelle. Patriotta è colui che acquista dei beni alla
patria colla distruzione di altre città e nazioni, colma l'erario di denaro,
rese più ricchi i concittadini. E, quel che è peggio, non solo il popolo e la
classe incolta, ma eziandio i filosofi esortano e incoraggiano a commettere
cotali atti ingiusti. Cosicchè alla malvagità non manca neppure l'autorità
della scienza. Ovunque regnano inganno e ingiustizia, che invano si tentano di
nascondere e legittimare. Tutti quelli che hanno diritto di vita e di
morte sul popolo sono tiranni. Ma essi preferiscono chiamarsire per volontà
divina. Quando alcuni, o per ricchezze, o per ischiatta, o per potenza, hanno
nelle mani l'amministrazione di una città, costituiscono una setta. Ma i membri
prendono il nome di “ottimato”. Se il popolo ha il sopravvento nel maneggio dei
pubblici affari, la forma di governo si chiama libertà; ma è licenza. Ma poichè
gli uomini si temono l'un l'altro, e una classe ha paura dell'altra, interviene
una specie di *patto* o contratto fra popolo e potenti e si costituisce una
forma mista di governo, dove la giustizia è un effetto non di natura o di
volontà, ma di debolezza. Ed è naturale che cosi avvenga. Se l'uomo deve
scegliere tra le seguenti condizioni: recare *in-giuria* e non riceverne; e
farne e riceverne; nè farne, nè riceverne, egli repute ottima la prima, perchè
soddisfa meglio i suoi istinti. Poscia la terza, che dona quiete e sicurezza;
ultima e più infelice la condizione di chi sia costretto ad essere continuamente
in armi, sia perchè faccia, sia perché riceva *in-giurie”. Adunque alla Hobbes lo
stato naturale dei rapporti tra uomo e uomo è la lotta (uomo uominis lupo), la
guerra, la discordia, la rapina, la violenza, l'inganno, in una parola, la
negazione del giurato (giusgiurato). La giustizia è una virtù che si esercita
per effetto di debolezza e per proprio tornaconio. Ma Diogene, come vedemmo,
considera il giurato (iusiuratum) verso gli uomini. Carneade dove notare che
l’istituzione del tempio esiste solamente nel l'immaginazione de' suoi
avversari e dei filosofi, dai quali essi attinsero i loro principii. Non si
acquista, non si allarga potere, non si fonda regno senza le armi, le guerre,
le vittorie; le quali alla loro volta in generale presuppongono la presa e la
distruzione di città. E dalle distruzioni non vanno immuni le oggetti addorati
nei tempi, ne dalle stragi si sottragge il sacerdote del tempio; né dalle
rapine i tesori e gli arredi sacri. Quanti trofei di divinità
nemiche, quante sacre immagini, quante spoglie di tempii resero splendidi i
trionfi dei generali romani! E non sono cotesti sacrilegi? Non sono atti di somma
ingiustizia? No, innanzi al giudizio del popolo, all'opinione della gente
colta, degli storici, dei letterati, questa è gloria, è patriottismo, è
prudenza, sapienza, giustizia. Dunque la giustizia non solamente non viene
osservata in pratica, ma non esiste nep pure in fondo alla coscienza generale
dell’uomo. Anch'essa viene subordinata all'utile. Ma non s'arresta qui la
critica di Carneade. Con un esame sottile e profondo dell'antinomia esistente
tra i due concetti del ‘scitum’ e del ‘giurato’ e della natura morale dell'uomo
quale in realtà è, e quale egli si crede e vorrebbe essere, Carneade ha
chiarito un contrasto del cuore (ragione pratica) e della mente (ragione
teorica) umana, che tuttavia rimane e che ha servito di fondamento alle teorie
utilitaristiche inglesi di tempi a noi vicini. Lo ‘scitum’ – la sapienza
politica comanda al Cittadino di accrescere la potenza e la ricchezza della
patria, estenderne i confini e il dominio, renderne più intensa la vita con
nuove sorgenti di guadagni e di piaceri; e tutto questo non si può compiere senza
danno di altre genti. Il giurato (iusiuratum) invece comanda di risparmiare
tutti, di beneficare i propri simili indistintamente, restituire a ciascuno il
suo, non toccare i beni, non turbare i possedimenti altrui, non sminuire la
felicità d'alcuno. Ma se un uomo di stato vuole essere giusto, non ha mai
l'approvazione de' suoi amministrati, non gloria, non onori, i quali il popolo
attribuisce non al giusto (che promueve il giurato) e onesto e inetto; bensì al
sapiente, al prudente, all'accorto. Non per il giurato, ma per il ‘scitum’ i generali
di Roma hanno il soprannome di grandi. La violenza, la forza, la negazione
del giurato, hanno dato potere e consistenza agli stati. Ma per nascondere la
propria origine e fuggire la taccia de negare il giurato (iusiuratum), il
popolo, fatto grande e divenuto dominatore, va immaginando delle favole da
sostituire alla storia vera, come il mercante arricchito agogna un titolo di
nobiltà. Le stesse qualità, e solamente le stesse, mantengono gli stati liberi
o forti. Non ha nazione tanto stolta, la quale non preferisce il comandare con
la negazione del giurato, all'ubbidire con la promozione del giurato
(iusiuratum). La ragione di stato e la salvezza pubblica vincono e soffocano il
sentiment *dis-interessato*. Uno stato vuole vivere a prezzo di qualsiasi
negazione del giurato (iusiuratum), perchè sa che alla vittoria, con qualunque
mezzo acquistata, tien dietro la gloria. Nel concetto degli antichi, la fine
della propria nazione non sembra avvenimento naturale, come la morte di un
individuo, pel quale questa non solo è necessaria, ma talvolta anche
desiderabile. L'estinzione della patria era per essi in certo qual modo
l'estinzione di tutto il mondo. Dato questo concetto e un sentimento della
gloria diverso e molto più intenso che non sia in noi moderni, doveno in certa
guisa parere *giustificati* (giusti-ficati – fatto giurato – iusiuratum --
anche gli atti di violenza e di frode, che avevano per I scopo la conservazione
e la potenza del proprio stato; o, per meglio dire, il popolo e gl'individui
non hanno coscienza di un principio o imperativo che governa la propria vita.
Credeno, I ROMANI pei primi, di promovere il giurato (iusiuratum) e invece sommamente
negano il giurato (iusiuratum). Carneade fu il primo a chiarire questa opposizione
tra fatto e idea, tra sapienza machiavelica politica e il giurato (iusiuratum)
(Cic., de fin.). Il medesimo conflitto tra il giurato e il ‘scitum’ dimostra
egli esistere nella vita privata, intendendo per sapiente l'uomo che sa
difendere il proprio interesse; e giusto colui che non lede quello degli altri.
Sono suoi i seguenti esempi, tolti dalla vita giornaliera e assai chiari e appropriati
alla vita romana affogata negli affari. Un tale vuole vendere uno schiavo, che
ha l'abitudine di fuggire, o una casa insalubre. Egli solo conosce questi
difetti. Ne rende avvisato il compratore? Se si, s'acquista fama di uomo onesto, perchè non inganna,
maeziandio di stolto, per che vende a piccolo prezzo, o non vende affatto; se
no, sarà reputato sapiente, perchè fa il proprio interesse, ma malvagio, perchè
inganna. Parimenti, se egli s'incontra in uno che vende oro per oricalco, o
argento per piombo, tace per comperare a buon prezzo, o indica al venditore lo
sbaglio e sborsa di più per l'acquisto? Solamente lo stolto vorrà pagare a
maggior prezzo la merce. Se un tale, la cui morte a te recherebbe vantaggio,
sta per porsi a sedere in luogo, dove si nasconde serpe velenoso, e tu il sai,
dovrai avvertirlo del pericolo, o tacere? Se taci, sarai improbo, ma accorto; se
parli, sarai probo, ma stolto (Cic., de rep.). Dunque qui pure si presenta la
contraddizione: chi è giusto, è stolto; chi è sapiente, è ingiusto. Ma in
questi casi si tratta di una quantità maggiore o minore di denaro e di vantaggi
più o meno rilevanti, e v'ha chi potrebbe essere contento e felice della
povertà. Ma quando andasse di mezzo la vita, il conflitto diventerebbe più spiccato.
Un tale in un naufragio, mentre è poco lontano dall'affogare, vede un altro più
debole di lui mettersi in salvo appoggiandosi a una tavola, che vale a
sostenere uno solo. Nessuno testimonio è presente. Si fa sua la tavola e si
pone in salvo, lasciundo che l'altro perisca. Oppure, se, dopo che i suoi
furono sconfitti, incontra nella fuga un ferito a cavallo, che va sottraendosi
al ferro dei nemici inseguenti, lo getterà a terra per porre se stesso in
sella, o si lasce raggiungere e uccidere. Se egli è uomo sapiente, si salva a
qualunque costo. Ma se poi antepone il morire al far morire, sarà giusto, ma
stolto. Tale è il giudizio che intorno al suo operato porteranno il uomo. Cosicchè il giure naturale, la giustizia
naturale è stoltezza. Il giure civile è sapienza politica. Tutto è lotta
d'interessi. Si ha ragione di credere che Carneade nel suo discorso *contro* il
giurato civile tocca anche la questione della schiavitù, dicendo essere un
fatto che nega il giurato (iusiudicatum) naturale, che uomo servisse a uomo --
principio che, riconosciuto vero, puo essere assai valido per far conoscere
quanto esteso fosse il dominio della negazione del giurato e dare alla sua tesi
una grande forza. E ciò si induce a credere dal vedere che in più frammenti il
difensore del giurato, ossia il suo contraddittore, viene svolgendo la tesi
opposta, perchè la schiavitù, rettamente conservata, torna a utilità del stesso
schiavo, il quale sotto un governo buono e forte vive in maggiore sicurezza e
viene meglio educato che allo stato di libertà; e come Dio comanda all'uomo,
l'anima al corpo, la ragione alle parti appetitive dell'anima, cosi il
conquistatore tiene a freno il conquistato, il quale diventa tali appunto
perchè e peggiore di quello. Un tenue indizio ci sarebbe anche per farci
credere che egli risolve il rimorso nella paura della pena, negando che fosse
un sentimento più profondo e disinteressato. Diogene obbietta che in questa ipotesi
il malvagio sarebbe semplicemente un incauto e il buono uno scaltro (Cic. de
leg.). In conclusione: per Diogene, fondamento della morale e del diritto è
l'inclinazione ad amare gli uomini e a rispettare la divinità, inclinazione che
ha radice nella natura, la quale sola offre la norma per distinguere il giurato
dalla sua assenza, il bene dal male. Per Carneade, generatrice del diritto è
l'utilità, e l'utilità sola, e ogni giudizio morale e altrettanta opinione, la
quale non deriva da un imperativo kantiano, o un principio naturale fisso, come
provano la loro varietà e il dissenso degli uomini (Cic., de leg.). Alla teoria
giuridica di Carneade non si deve attribuire un significato di domma o dommatico,
che sarebbe in cotraddizione colle premesse teoretiche della sua filosofia. L'egoismo
e l'utilitarismo proclamato da Carneade in opposizione all'idealismo morale di
Diogene, non è una dottrina *precettiva*, alla Kant (il sollen) ma
l'investigazione e l'esposizione di un fatto psicologico e sociale – come il
principio cooperativo di Grice. Carneade non pare credere all'effetto pratico
della morale normativa e si limita ad analizzare il cuore dell’uomo, la ragione
pratica, saggezza, prudential, il quale, per la sua tendenza nativa, è assai
lontano dal realizzare il precetto dommatico stoico. Ma da filosofo prudente
s'astiene dal proporne del proprio precetto (idiosincrazia). Nota il fatto che
si presenta all'osservazione quotidiana con tutti i caratteri della
verosimiglianza più alta e sforzano a credere o ad operare; ma nè costruisce una
teoria assoluta, ne formula un domma. iusiuro: swear to a binding formula. NA
Wundt/1/IV/D/XIII/1 Estate Wundt Zeitungsausschnitte 100. Geburtstag Wundt NA Wundt. Estate Wundt Brief von Luigi
Credaro an Wilhelm Wundt Ricerca Sofistica Lingua Nota disambigua.svg
Disambiguazione – "Illuminismo greco" rimanda qui. Se stai cercando
il movimento culturale greco del XVIII secolo, vedi Nuovo illuminismo greco. La
sofistica (in greco σοφιστική τέχνη, sofistiké téchne) è stata una corrente
filosofica[1] sviluppatasi nell'antica Grecia, ad Atene in particolare, a
partire dalla seconda metà del V secolo a.C., la quale, in polemica con la
scuola eleatica e avvalendosi del metodo dialettico di Zenone di Elea, pose al
centro della propria riflessione l'uomo e le problematiche relative alla morale
e alla vita sociale e politica. Non si trattò di una vera e propria scuola né
di un movimento omogeneo, ma fu estremamente variegata al suo interno: i suoi
esponenti (detti appunto sofisti), seppur accomunati dalla professione di
«maestro di virtù», si interessarono di vari ambiti del sapere, giungendo
ognuno a conclusioni differenti e a volte tra loro
contrastanti. L'Acropoli e l'agorà di Atene: qui fiorì la sofistica I
sofisti rinunciarono alla vastità delle congetture cosmologiche dei filosofi
naturalisti, concentrandosi sulla soggettività dell'uomo, sulla legittimità
delle opinioni e il valore dei fenomeni. L'approccio dei sofisti era quindi
orientato all'individualismo e al relativismo, alla critica dei valori
tradizionali, al razionalismo. I contemporanei avvertirono in queste posizioni
il rischio di derive ateistiche e di corruzione dei costumi. Certa storiografia
moderna ha invece evocato l'idea di un illuminismo greco. Etimologia.
Anticamente il termine σοφιστής (sophistés, sapiente) era sinonimo di σοφός
(sophòs, saggio) e si riferiva ad un uomo esperto conoscitore di tecniche
particolari e dotato di un'ampia cultura. A partire dal V secolo, invece, si
chiamarono «sofisti» quegli intellettuali che facevano professione di sapienza
e la insegnavano dietro compenso:[6] quest'ultimo fatto, che alla mentalità del
tempo appariva scandaloso, portò a giudicare negativamente questa corrente.
Nell'antichità, il termine era spesso posto in antitesi con la parola
«filosofia», intesa come ricerca del sapere, che presuppone socraticamente il
fatto di non possedere alcun sapere. I sofisti vennero ritenuti falsi sapienti,
interessati al successo e ai soldi, più che alla verità. Il termine mantiene
anche nel linguaggio corrente un carattere negativo: con «sofismi» si intendono
discorsi ingannevoli basati sulla semplice forza retorica delle argomentazioni.
La sofistica è stata rivalutata, e oggi è riconosciuta come un momento
fondamentale della filosofia antica. Contesto storico-culturale
Magnifying glass icon mgx2. Svg Lo stesso argomento in dettaglio:
Pentecontaetiae Guerra del Peloponneso. Veduta dell’Acropoli di Atene Lo
sviluppo della sofistica ad Atene è legato a un insieme di fattori culturali,
economici e politico-sociali. Con la sconfitta dei Persiani a Salamina le
poleis greche affermarono la propria autonomia, e la loro potenza si ampliò
progressivamente nel corso dei successivi cinquant'anni di pace (la cosiddetta
Pentecontaetia). In particolare, a primeggiare su tutte furono le città rivali,
ovvero Sparta e Atene: la prima espanse la propria influenza su quasi tutto il
Peloponneso attraverso un'ampia rete di alleanze, mentre Atene, membro di primo
piano della Lega delio-attica, con l'avvento di Pericle finì con l'assumerne il
comando. Con il potere politico ed economico crebbe però anche l'ostilità tra
le due città, e il desiderio di supremazia sull'intera Grecia portò al disastro
della Guerra del Peloponneso. Pericle Pericle, leader carismatico
della fazione democratica, governò Atene per circa un trentennio, portando la
città al suo massimo splendore. Egli fece trasferire il tesoro della Lega
delio-attica da Deload Atene, e trasformò il volto della città con un imponente
piano di riforma architettonica (simbolo del potere dell'epoca sono gli edifici
dell'Acropoli: il Partenone, l'Eretteo, i Propilei); inoltre, si
intensificarono i rapporti con le altre città, attraverso alleanze e scambi
commerciali. Fu proprio questo nuovo clima di pace a favorire l'affermarsi
della sofistica, poiché permise ai sofisti, «maestri di virtù» itineranti, di
spostarsi di città in città, seguendo le rotte commerciali. Visitando luoghi
con tradizioni e ordinamenti politici differenti, talvolta varcando addirittura
i confini dell'Ellade, essi iniziarono ad interrogarsi sul valore intrinseco
delle leggi e della morale, giungendo ad un sostanziale relativismo eticoche
riconosceva il valore delle norme morali solo in relazione alle usanze della
città in cui ci si trova ad operare: la stessa areté (virtù) da loro insegnata
si riduceva all'insieme delle norme e delle convenzioni riconosciute valide dai
cittadini, alle quali il retore si deve adeguare per avere successo e buona
fama. Tuttavia, bisogna considerare che non erano considerati “cittadini” le
donne, gli stranieri (meteci) e gli schiavi. L'età di Pericle fu dunque al
tempo stesso l'età dello splendore e della crisi della polis, poiché coincise
con la crisi dei valori tradizionali, di cui i sofisti furono protagonisti;
come scrive Mario Untersteiner, la sofistica è «l'espressione naturale di una
coscienza nuova pronta ad avvertire quanto contraddittoria, e perciò tragica,
sia la realtà». Il primo interesse dei sofisti è la rottura con la tradizione
giuridica, sociale, culturale, religiosa, fatta di regole basate sulla forza dell'autorità
e del mito (e per questo motivo sono talvolta guardati come "precursori
dell'Illuminismo"), a cui veniva contrapposta una morale flessibile,
basata sulla retorica. D'altra parte, la stessa retorica che essi insegnavano
aveva un'enorme importanza per la vita civile nel regime democratico
dell'epoca, il quale riconosceva a tutti i cittadini l'uguaglianza giuridica
(isonomia) e la libertà di parola durante l'assemblea pubblica
(parresia). Il tramonto dell'aristocrazia segnò il tramonto di una
mentalità, di un'epoca con le sue aspirazioni eroiche. Le eroiche lotte
sostenute contro i Persiani, le nuove leggi e le nuove costituzioni crearono un
grande senso di fiducia in se stessi. Nel pensiero dei sofisti si rispecchiano
le esigenze delle àlacri classi borghesi, l'arrivismo degli uomini nuovi,
l'irriverenza verso le tradizioni sacre ed il beffardo disprezzo del passato,
le violente lotte fra città e città, la corsa sfrenata alle cariche politiche.
I sofisti Rosa, Protagora e Democrito I sofisti erano considerati maestri di
virtù che si facevano pagare per i propri insegnamenti. Per questo motivo essi
furono aspramente criticati dai loro contemporanei, soprattutto da Platone e
Aristotele, ed erano offensivamente chiamati «prostituti della cultura». Ironicamente,
i sofisti furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di cultura
(paideia), intesa non come un insieme di conoscenze specialistiche, ma come
"metodo di formazione" di un individuo nell'ambito di un popolo o di
un contesto sociale. Essi riscossero successo soprattutto presso i ceti
altolocati. La figura del sofista, come persona che si guadagna da vivere
vendendo il proprio sapere, si pone come precursore dell'educatore e
dell'insegnante professionista. Argomento centrale del loro insegnamento è la
retorica: mediante il potere persuasivo della parola essi insegnavano la
morale, le leggi, le costituzioni politiche; il loro intento era di educare i
giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici e, per
essere tali, oltre ad una buona preparazione, bisognava anche essere
convincenti e saper padroneggiare le tecniche retoriche. I sofisti, a
differenza dei filosofi greci precedenti, non si interessano alla cosmologia e
alla ricerca dell'archèoriginario, ma si concentrano sulla vita umana,
diventando così i primi filosofi morali. Vengono distinte due generazioni di
sofisti: Sofisti della prima generazione: Protagora, Gorgia, Prodico e
Ippia Sofisti della seconda generazione: solitamente allievi dei primi, sono a
loro volta distinguibili in: Sofisti politici: Antifonte, Crizia, Trasimaco,
Licofrone, Callicle, Alcidamante, Polo, l'Anonimo di Giamblico Sofisti della
physis, si interessano del rapporto natura-uomo, spesso conducendo studi naturalistici:
Antifonte, (Ippia) Eristi, portano all'esasperazione il metodo dialettico:
Eutidemo e Dionisodoro, Eubulide di Mileto Altri: Seniade di Corinto, forse
l'anonimo autore dei Dissoi logoi Stando alle fonti, pare che anche il filosofo
Aristipposia stato un sofista prima di incontrare Socrate e unirsi a lui; in
particolare pare fosse allievo di Protagora e sappiamo per certo che diede
lezioni di eloquenza a pagamento. A questo proposito si racconta un aneddoto:
protagonisti sono Aristippo e il padre di un suo alunno, il quale, contestando
il prezzo troppo alto della retta annuale, gli avrebbe detto: «Mille dracme? Ma
io con mille dracme ci compro uno schiavo!», e Aristippo avrebbe risposto: «E
tu compralo questo schiavo, così ne avrai due in casa, questo e tuo figlio!». A
quanto pare Aristippo praticava tariffe differenziate in base alle capacità
degli allievi, così che se uno di questi aveva la sfortuna di essere poco
dotato la sua tariffa aumentava vertiginosamente, mentre se al contrario era
particolarmente brillante e intuitivo la tariffa ammontava a poco più di 1
dracma, praticamente gratis. Caratteri generali della sofistica
Magnifying glass icon mgx 2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Relativismo
etico sofistico. La sofistica, come detto, fu un movimento disomogeneo, e ogni
sofista differiva dagli altri per interessi e posizioni personali. Tuttavia, è
possibile riconoscere in questi autori alcuni caratteri comuni.
Centralità dell'uomo. I sofisti si interessarono prevalentemente di problematiche
umane ed antropologiche, tanto che gli studiosi parlano di antropocentrismo
sofistico. Essi approfondirono i temi legati alla vita dell'uomo, che venne
analizzata soprattutto dal punto di vista gnoseologico (ciò che l'uomo può
conoscere e ciò che non può conoscere), etico (ciò che è bene e ciò che è male)
e politico (il problema dello Stato e della giustizia). L'essere umano veniva
considerato a partire dalla sua condizione di individuo posto all'interno di
una comunità, caratterizzata da determinati valori culturali, morali, religiosi
e via dicendo. Essi insegnavano pertanto a osservare formalmente le leggi e le
tradizioni della polis, così da diventare cittadini rispettati e di successo –
quindi virtuosi. Rottura con la “fisiologia” presocratica. Come conseguenza del
punto precedente, i sofisti in genere trascurarono le discipline naturalistiche
e scientifiche, che invece erano state tenute in grande considerazione dai
filosofi precedenti. Per questa ragione alcuni studiosi hanno definito
"cosmologica" la filosofia precedente ed "umanistico" o
"antropologico" il pensiero sofistico. In realtà, va precisato che
tale generalizzazione è per certi versi limitativa, poiché ad essa fanno
eccezione i casi di Ippia di Elide (che, mirando ad un sapere enciclopedico,
coltivò studi inerenti a vari campi scientifici, tra cui matematica, geometria
e astronomia) e Antifonte (il quale, studioso dei testi ippocratici, fu esperto
di anatomia umana ed embriologia). Relativismo ed empirismo. I sofisti
concepivano la verità come una forma di conoscenza sempre e comunque relativa
al soggetto che la produce e al suo rapporto con l'esperienza. Non esiste
un'unica verità, poiché essa si frantuma in una miriade di opinioni soggettive,
le quali, proprio in quanto relative, finiscono per essere considerate comunque
valide ed equivalenti: si parla pertanto di relativismo gnoseologico. Questo
relativismo investe tutti gli ambiti della conoscenza, dall'etica alla
politica, dalla religione alle scienze della natura.Dialettica e retorica. Le
tecniche dialettiche dell'argomentare (cioè dimostrare, attraverso passaggi
logici rigorosi, la verità di una tesi) e del confutare (cioè dimostrare
logicamente la falsità dell'antitesi, l'affermazione contraria alla tesi) erano
già state utilizzate da Zenone all'interno della scuola eleatica, ma fu
soprattutto con i sofisti che esse si affermarono e si affinarono. La
dialettica divenne una disciplina filosofica essenziale e influenzò
profondamente la retorica, ponendo l'accento sull'aspetto persuasivo dei
discorsi, fino a scadere nell'eristica.Alla luce di tutto ciò, alcuni studiosi
hanno voluto vedere nel movimento sofistico una sorta di “illuminismo greco”
ante litteram, in quanto i miti e le credenze tradizionali vennero criticati e
sostituiti con nozioni razionali: in altre parole la sofistica avrebbe in un
certo senso anticipato alcuni motivi tipici di quel movimento culturale
sviluppatosi in Europa nel XVIII secolo, l'Illuminismo appunto.
L'insegnamento Greuter, "Socrate e i suoi studenti", XVII secolo.
Nell'Atene era costume che i maestri tenessero lezione all'aperto, in piazza o
sotto i portici Con la comparsa dei sofisti nascono nuovi luoghi deputati
all'insegnamento: le case dei cittadini più ricchi, le palestre pubbliche e le
piazze, le quali includevano dei portici in cui i maestri potevano passeggiare
con i loro discepoli o sedere in banchi dove potevano discutere. In genere, la
scelta del luogo in cui tenere lezione era legata al tipo di "sapienza"
professata: Socrate, ad esempio, scelse la piazza pubblica per mostrare la sua
disponibilità verso tutti i cittadini e il disinteresse per il denaro – e lo
stesso faranno i cinici in epoca successiva – mentre gli accademici, i
peripatetici e gli stoici preferiranno luoghi attrezzati con strumenti
scientifici e biblioteche. D'altra parte, va ricordato ancora una volta che la
sofistica non fu una scuola filosofica, bensì un movimento caratterizzato da un
ampio e variegato dibattito interno. Capisaldi dell'insegnamento
sofistico sono: L'insegnabilità della virtù: essendo i sofisti
"maestri di virtù", il loro insegnamento si basava sulle strategie
per conseguirla, con fini eminentemente utilitaristici; non essendo infatti
possibile conoscere il Bene in sé, l'educazione era volta a diffondere i valori
più convenienti alla vita civile dell'individuo. Per questo motivo, essi si
rivolsero non solo agli aristocratici, ma anche ai ceti emergenti che
aspiravano al successo.La retorica: i sofisti non furono degli scienziati,
poiché non limitavano il campo del loro sapere ad una disciplina specifica;
piuttosto, per loro era importante il metodo di comunicazione, e per
apprenderlo erano previsti due momenti, la dialettica e l'eristica: la prima
consiste nell'arte di saper argomentare, la seconda nel saper vincere in una
discussione. Il loro insegnamento abbracciava molte tematiche, e oltre alla
morale si occuparono di problemi di diritto, ponendo la questione
dell'esistenza o meno del diritto naturale (physis) e del suo rapporto col
diritto positivo (nomos).Per quanto riguarda le leggi e le norme i sofisti,
spostandosi di città in città, si accorsero che ogni cultura ha diverse regole
e leggi[23]. Ciò fece sorgere in loro domande quali: Ci sono regole
uguali per tutti? In genere i sofisti propendono per il no, cioè per il
relativismo etico. Vi è una cultura superiore alle altre? Porre la domanda già
equivale ad una critica delle tradizioni e ad una propensione per il
relativismo culturale. La Seconda sofisticaModifica Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Seconda sofistica.
L'imperatore ADRIANO, in veste greca, offre un sacrificio ad Apollo (Londra,
British Museum) Dopo il successo del V secolo a.C., nel secolo successivo la
sofistica vide un progressivo ridimensionamento della propria importanza,
soprattutto a causa delle già menzionate critiche rivolte ai sofisti dai
filosofi Platone e Aristotele, e dalle loro scuole. Tuttavia, a partire
dall'inizio del II secolo d.C. (quindi a distanza di circa 400 anni) si
assiste, in piena età imperiale, ad una rinascita della sofistica, grazie a un
movimento filosofico-letterario definito da Filostrato Seconda sofistica[24]
(detta anche Nuova sofistica o Neosofistica, per differenziarla da quella
antica). Diversamente dalla sofistica del V secolo, però, la Seconda sofistica
abbandona i temi di interesse filosofico ed etico (come la divinità, la virtù e
via dicendo), per occuparsi esclusivamente di oratoriae retorica. La Nuova
sofistica si presenta così subito come un movimento di impronta essenzialmente
letteraria, orientato allo studio e all'esercizio dell'oratoria e ben distante
dall'impegno politico e culturale dei sofisti dell'età di Pericle. I nuovi
sofisti mirano all'affermazione personale e al successo pubblico, cercando
(eccetto che in rari casi) di ingraziarsi la simpatia e i favori dei potenti;
la loro produzione letteraria, improntata alla ricercatezza stilistica secondo
lo stile del cosiddetto asianesimo, spazia attraverso vari generi: dialoghi,
trattati, opere satiriche, novelle, fino a ben più leggere opere di
intrattenimento, brani in cui veniva ostentata la propria bravura
retorica. Tra i vari autori di lingua greca che rientrano in questo
fenomeno letterario, i più importanti sono: Dione Crisostomo («dalla
bocca d'oro») ricoprì varie cariche politiche e svolse la propria attività di
retore e insegnante in Bitinia e a ROMA, dove però è condannato all'esilio. Erode
Attico, tra i più importanti e rinomati, insegnante di retorica e amico
dell'imperatore stoico Marco Aurelio ANTONINO, ricoprì vari incarichi
nell'amministrazione pubblica romana, tra cui il consolato. Elio Aristide,
allievo di Erode Attico, famoso soprattutto per le opere di onirocritica e per
la sua devozione al dio Asclepio; Luciano di Samosata, uomo vicino alla
famiglia imperiale romana -- dinastia degli Antonini --, è autore di vari saggi
sui più disparati argomenti, nonché modello di purismo linguistico. Flavio
Filostrato, membro di una famiglia di celebri retori e sofisti, è tra i più
potenti letterati alla corte dei Severi. La Seconda sofistica perdura. Tratti
tipici di questo movimento sono rintracciabili in filosofi come Imerio,
Libanio, Temistio e Sinesio, per giungere infine alla Scuola di Gaza. La
storiografia moderna considera comunemente i sofisti come filosofi. Si veda a
proposito: M. Untersteiner, Le origini sociali della sofistica, appendice a: I
sofisti, Milano Guthrie, The Sophists, Cambridge Kerferd, I sofisti, trad. it.,
Bologna Reale, Il pensiero antico, Milano Kerferd, I sofisti, trad. it.,
Bologna. Più precisamente, Mario Untersteiner, riprendendo a sua volta H.I.
Marrou e A. Levi, scrive: «Fu più volte riconosciuto che nella sofistica non
devesi scorgere una scuola filosofica abbastanza uniforme e coerente, ma
piuttosto sia meglio accogliere l'opinione molto diffusa nell'antichità, “che
considerava sofisti coloro che andavano da una città all'altra della Grecia per
insegnarvi pubblicamente la loro σοφία dietro retribuzione. Il contenuto di
questa sapienza variava secondo gli insegnanti di essa; però (nemmeno Gorgia
rappresenta un'eccezione) tutti i sofisti professavano di essere maestri di ἀρετή
(virtù), ossia dichiaravano d'impartire ai loro discepoli un insegnamento
rivolto a finalità insieme individuali e sociali”» (I sofisti, Milano
sofistica, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Il
sostantivo σοφιστής deriva dal verbo σοφίζειν (sophízein), che significa
«rendere sapiente». Cfr. Guthrie, The Sophists, Cambridge Per le varie
accezioni del sostantivo si veda anche: L. Rocci, Dizionario Greco Italiano,
Firenze Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Sofista» in origine indicava
generalmente una personalità ritenuta sapiente, e fu utilizzata per riferirsi
anche a poeti come Omero ed Esiodo. ^ DK 79 2a, 3. La rivalutazione della
sofistica come corrente filosofica iniziò a opera di Hegel e Nietzsche. Oggi ai
sofisti è riconosciuto lo statusnon solo di filosofi morali ma anche di
teoreti. Cfr. G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Untersteiner, I
sofisti, Milano Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Untersteiner, I sofisti,
Milano Faggin, Storia della filosofia, volume primo, Principato editore,
Milano, Così li definisce Socrate in: Senofonte, Memorabili Jaeger, Paideia,
trad. it., Firenze Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze Kerferd, I sofisti,
trad. it., Bologna Diogene Laerzio II, 65. ^ Plutarco, De liberis educandis
Untersteiner, I sofisti, Milano Questo è l'argomento su cui verte il
Teetetoplatonico, nel quale si analizza la dottrina protagorea dell’homo
mensura (Cfr. DK 80A1). Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Tra i cittadini
ateniesi abbienti che patrocinarono l'attività dei sofisti, il più famoso è
senz'altro Callia, che compare come personaggio nel Protagora di Platone (è in
casa sua che avviene il dialogo e sono ospitati Protagora, Prodico e Ippia). ^
M. Untersteiner, I sofisti, Milano Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna
Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze Illuminanti al riguardo sono le
affermazioni di Antifonte (DK) e quelle contenute nei cosiddetti Dissoi logoi
(DK Filostrato, Vite dei sofisti I Corno, Letteratura greca, Milano Corno,
Letteratura greca, Milano Edizioni dei
frammentiModifica I frammenti e le testimonianze sui sofisti sono raccolti in
Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di Hermann Diels e Walther Kranz. In
traduzione italiana sono consultabili: I presocratici. Testimonianze e
frammenti, a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari: Laterza 1979. I presocratici.
Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e
dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale,
Milano: Bompiani, 2006. I sofisti. Testimonianze e frammenti, a cura di M.
Untersteiner e A.M. Battegazore, Firenze: La Nuova Italia, 1949-1962 (nuova
edizione: Milano: Bompianim con introduzione di G. Reale). I sofisti, a cura di
M. Bonazzi, pref. di F. Trabattoni, Milano: BUR, Abbagnano, Giovanni Fornero,
Protagonisti e testi della filosofia, Volume A, Tomo 1, Paravia Bruno
Mondadori, Torino Mauro Bonazzi, I sofisti, Roma: Carocci, Guthrie, The Sophists,
Cambridge: Cambridge University Press, Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna:
Il Mulino, 1988 M. Isnardi Parente, Sofistica e democrazia antica, Firenze:
Sansoni, Jaeger, Paideia. La formazione dell'uomo greco, Firenze, La nuova
Italia (nuova edizione con un'introduzione di Giovanni Reale, Bompiani: Milano
2003). H.-I. Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità, Roma: Studium,
Levi, Storia delle Sofistica, Napoli, Morano, 1966. E. Paci, Storia del
pensiero presocratico, Roma: Edizioni Radio Italiana, Plebe, Breve storia della
retorica antica, Bari: Laterza, Reale, Il pensiero antico, Milano: Vita e
Pensiero, Schreiber, Aristotle on false reasoning: language and the world in
the Sophistical refutations, State University of New York Press, Untersteiner,
I sofisti, Milano: Bruno Mondadori Antropocentrismo Demagogia Dissoi logoi
(Sofistica) Eristica Presocratici Relativismo culturale Relativismo etico
sofistico Retorica Seconda sofistica Sofisma. «sofista» Sofistica, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Taylor e Mi-Kyoung Lee,
The Sophists, su Stanford Encyclopedia of Philosophy. George Duke, The Sophists (Ancient Greek), su Internet Encyclopedia of
Philosophy. Portale
Antica Grecia Portale Filosofia. Protagora retore e filosofo greco
antico Eristica arte della contesa verbale Dissoi logoi opera
filosofica. Luigi Credaro. Keywords: i sofisti, il giurato, iusiuratum,
Carneade, il secondo discorso, contro Democrito, ragione pratica (saggezza),
ragione teorica, a philosopher in political linguistics: German minority,
Italian majority in Trento. Il prefetto di Trento. Lingua tedesca, lingua
italiana, ordinamento amministrativode-centrato, Wundt, Kant, razionalismo
trascendente, Herbart, scetticismo, accademia, prima accademia, seconda
accademia, terza accademia, liberta di
volere, freewill, volere libero, ambiascata ateniense a roma, influenza
dell’academia nell’elite romana – l’accademia come perfezionamento per la dirigenza
romana, Wundt, positivismo, suggestione, i primordii del kantismo in Italia,
Hegel vacuo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Credaro” – The Swimming-Pool
Librrary. Credaro.
Grice
e Crescente: la ragione conversazionale al cinargo a Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.
A member of the Cinargo in Rome. Taziano regards him as a greedy immoral
hypocrite.
Grice e Vastarini: la ragione conversazionale
-- cappuccino e ciserciano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (L’Aquila). Essential Italian
philosopher. Filosofo italiano. Esponente di una nota famiglia abruzzese,
grande studioso nonché maestro di scherma, quindi, alla morte della madre, e
decise di entrare nell'ordine dei frati minori cappuccini. Dotato di una brillante
vocazione predicatoria che lo porta sino alla corte di Urbano VIII. Venne
pubblicamente lodato anche dal Duca di Osuna che gli propose il vescovato di
Pozzuoli e dal Granduca di Toscana che gli propose quello di Fiesole, ma in
entrambi i casi V. rifiuta. Nella prima
metà Professoresi prodigò per aprire una sede dei cappuccini nell’Aquila,
colpito dalla morte di un suo confratello che il medico non era riuscito a
soccorrere nell'allora sede di San Giuseppe fuori le mura. Acquista un vasto
terreno sul margine orientale della cinta muraria e vi costruì il convento e la
chiesa di S. Michele, oggi inglobati nel complesso monumentale dell'Emiciclo.
Camerlengo dell'Aquila. Giacomo Di
Marco, Storia del complesso architettonico, in Zazzara, Palazzo dell’Emiciclo e
palazzina ex G.I. Maschile. Rigenerazione e adeguamento sismico a L’Aquila,
Pescara, Carsa. Alfonso Dragonetti 234
Frati minori cappuccini d'Abruzzo, Le attività del Convento Santi
Francesco e Chiara di L'Aquila, su frati cappuccini. L'Emiciclo Rinasce, La
storia, su emiciclo rinasce. Dragonetti,
“Le vite degli illustri aquilani” (L'Aquila, Perchiazzi). PER
DNA DIFFAMAZIONE CON ABUSO DI UFFICIO
Il R. Commissario della S. Casa dogi' Incurabili E I
COMPONENTI della disciolta Amministrazione ...
se vuoi che il ver ti sia ascoso Tutt' al contrario la storia
converti; Che i Greci vinti fur Troia vittrice E che Penelopea fu
meritrice ! Ariosto Orlando Furioso e. XXXV.
NAPOLI TIPOGRAFIA F. BIDERI 1891
Oigitized by Google HAIVABD
COILEBE UHUIY THE6IFT0P Hi NELSON GAY
r Digitized by Google
Indice Generale Parte Prima
Prefazione Servizio Ospedaliero. PROGETTI PER
NUOVE COSTRUZIONI E NUOVI OSPEDALI RESTRIZIONE DEL NUMERO DEI
MALATI . . RIDUZIONE DI SPESA PER MANTENIMENTO DEGLI
INFERMI LA SOPPRESSIONE DEL VINO E L'ALTERA- ZIONE DELLA
VITTITAZIONE VIOLAZIONE DEL CONTRATTO PER LA FOR- NITURA
DELLA CARNE BIANCHERIA E CASERMAGGIO LA
SOMMINISTRAZIONE DELLE MEDICATURE ANTISETTICHE Pag.
9 14 19 20 21 23
26 32 Parte Seconda
Condizioni finanziarie della Pia Casa. . . » 45 Canee ohe
prodassero le attuali condizioni economiche » 54 Entrate
» 55 Riduzioni di corrisposte ESCOMPUTI D'AMBRA, MOCCIA
E IZZO. . . » 55 RIDUZIONE DI ESTAGLIO DEL FONDO SALI- CELLE »
56 Digitized by Google
Riduzioni di Canoni. ESCOMPUTO SIGILLO Pag. 58
Riduzioni nei fitti dei fabbricati. CONTRATTO ED ESCOMPUTO
FORINO ... » 63 Cauzione > 66 Inventario e consegna
dei fondi urbani. . » 67 Fabbricati affidati in esazione al
Tesoriere » 69 Fondi in Ariano » 70 Spese » 70
Personale Amministrativo e Sanitario . . » 71 Lavori »
75 Forniture » 87 Provvedimenti per far danaro
PRELEVAMENTI SULLE CAUZIONI » 91 Alligato
Rapporto del Sig. Cav. Gaetano Antonelli . IGIENE DEI
LOCALI MANUTENZIONE CASA DI SALUTE CASA DI
MATERNITÀ STANZE D' ISOLAMENTO STANZE DI
OPERAZIONI CUCINA CASERMAGGIO CONSULTAZIONI
GRATUITE, SALA IDROTE- RAPICA E STANZA PER RICEZIONE. . . .
DISCIPLINA DEL BASSO PERSONALE .... DIREZIONE DELL'OSPEDALE
STANZA DI MEDICATURA Ili IV »
V VI » VII Vili
IX X XI XII Digitized
by Google Parte Prima
Digitized by Google Digitized
by Google PREFAZIONE V
anno iSgi il giorno io novembre in Napoli. Si sono riuniti in casa del
Comm. Vastarini- Cresi, il Comm. Prof. Sal- vatore Trinchese y il Cav.
avv. Girolamo Lo Savio , il pro- fessore aw. Domenico De Roberto ed il
sig. Luigi Cosenza. Constatatosi che tutti gP intervenuti hanno
letto P opu- scolo intitolato u Relazione del R. Commissario della S.
Casa degli Jhcurabili sulla gestione del 4 settembre al 4 novembre
1891, firmato Luigi Napodano Deputato ai Parlamento „, sono stati
unanimemente d'avviso che si debba rispondere a tale pubblicazione per
rimettere le cose a posto, smentire le infon- date accuse e respingere gli
ingiusti apprezzamenti sugli atti cofnpiuti dalla disciolta
Amministrazione , che sono a studio travisati nel loro contenuto.
U avvocato Vastarini ha fatto rilevare che P opuscolo del R.
Commissario, più che essere diretto a calunniare gli atti compiuti dalla
disciolta amministrazione, ha tutto il ca- rattere delP aggressione
personale contro P ex So pr aintenden- te : se sonosi coti/use a studio
le responsabilità delle diverse amministrazioni ciò si e fatto allo scopo
di colpire, senza riguardo e mi sur a ^ la sua persona. Per la qual cosa
egli ri- Digitized by Google
— 10 — vendica a se il diritto di rispondere personalmente
alla sud- detta relazione per assumere tutta la responsabilità
della forma da dare alla risposta e della sostanza di quegli atti
che non riguardano i componenti del governo disciolto. V avv. Lo
Savio ha fatto anch' egli rilevare: che gli addebbiti contenuti nella
relazione del R. Commissario ri- guardano in minima parte la disciolta
Amministrazione la qua- le è rimasta in ufficio solamente dal 30 dicembre
1890 al 3 set- tembre 1891; che parte degli ingiusti apprezzamenti
della relazione stessa si riferiscono ad epoca in cui egli
collaborò nella qualità di Governatore col Sopraintendente
Vastarini e coti altri Governatori ; — che molti altri riguardano r
Am- ministrazione precedente presieduta dal conte Spinelli; — che
in ogni caso, essendo appunti rivolti al potere esecutivo del Consiglio
di Governo, feriscono direttamente tutti coloro che tale potere
esercitarono. Per la qual cosa aderisce al desi- derio espresso dal Comm.
Vastarini, ma non credendosi egli , nella qualità di Governatore
delegato, disinteressato nella di- sputa, intende di assumere , anche per
parte sua , tutta la responsabilità della sostanza e della forma della
risposta da dare al R. Commissario, nella compilazione della quale
vuol collaborare col Comm. Vastarini. Dopo le suddette
dichiarazioni, i convenuti sono discesi alP esame degli addebbiti
contenuti rie Ila Relazione del R. Com- missario ed hanno constatato, che
non si riferiscono alla di- sciolta Amminis trazione gli addebiti:
1.° Per la deficienza della biancheria nel guardaroba; 2.°
Per i criteri che informarono la impostazione delle som- me all'attivo ed
al passivo nel preventivo 1890; 3.° Per gli escomputi di estaglio
agli affìttuarii Moccia, d' Ambra e Izzo; 4.° Per la
riduzione d' estaglio al fondo Salicelle, affittato al d' Ambra;
5.° Pel conto 1887, 1888, 1889; 6.° Per Tescomputo accordato
airenfiteuta Giovanni Sigillo, 7.° Per la nuova pianta del
personale amministrativo. 8.° Per i lavori eseguiti fino a 30
dicembre 1890. Digitized by Google
— 11 — Che quelli rifer enfisi alla disciolfa Amminis
frazione sono limitati: i." Alla spesa votata per gì
ingegneri; 2.° Al deliberato aumento di un farmacista ;
j.° Ai lavori eseguiti nel 1891; . 4? Alla generica ed
indimostrata accusa di sperpero di denaro. Fatta tale
constatazione \ i signori Trinchese, Di Rober- to e Cosenza hanno
dichiarato che avendo essi a suo tempo preso cognizione esatta di molti
atti compiuti dal Comm. Va- sfarini coi poteri del Consiglio dal 4
settembre al 30 dicem- bre iSgo, epoca in etti non esisteva un governo
regolare; ed avendo ratificato tali atti a norma della Legge e del
Re- golamento^ non intendono scindere la loro responsabilità da
quella dei signori V astar ini e Lo Savio. Ma questi ultimi hanno
vivamente insistito nelle già fatte dichiarazioni e sulla necessita che
la risposta al R. Com- missario , almeno per quanto riguarda la forma ,
abbia un carattere tutto personale. Per la qual cosa i signori
Trin- chescy De Roberto e Cosenza, pur rimanendo solidali con i
signori Vastarmi e Lo Savio nella responsabilità degli atti, compiuti col
loro concorso o da loro ratificati > lasciano a que- sti la libertà di
rispondere in quella maniera che crederanno più conveniente a difendere
il decoro della disciolta Ammi- nistrazione e quello delle persone
singolarmente prese di mi- ra dalla relazione del R. Commissario.
A. Vastarini Cresi G. Lo Savio S. Trinchese
D. Di Roberto L. Cosenza Digitized
by Google Digitized by
Google mmsm Mentre eravamo, il
giorno 7 del corrente mese, innanzi al- l' Ecc.ma Sezione IV del
Consiglio di Stato per discutere la nostra domanda di sospensione del r.
decreto 31 Agosto 1891, T on. Avvocato Erariale, nostro contraddittore,
con cavalleresca cortesia ci mostrò un opuscolo a stampa del quale
vedevamo altri esemplari innanzi a ciascun componente dell' alto
consesso amministrativo. Ne leggemmo V intestazione, che dicea:
Rela- zione del r. Commissario della 5. Casa degli Incurabili sulla
gestione dal 4 Settembre al 4 Novembre iSgi, e ci riservammo di
procurarcene copia e di esaminarlo più tardi. È una pubblicazione,
che vorrebbe indirettamente combattere il ricorso , col quale i
rappresentanti della disciolta Ammini- strazione impugnarono il detto
real decreto, senza parere d' es- sere stata compilata a cotal fine.
La forma inurbana e sgrammaticata (1), e il contenuto ri- boccante
di malafede , ci avrebbero consigliato di rispondervi con la parola di
Cambronne , se qualcuno ci avesse imposto V increscioso compito di
discuterne col redattore; ma tale non (1) Eccone un saggio per ora:
via via ne daremo altri' Pag. 36. * Una rilevante quantità di fondi
che 1* Opera Pia ha in Ariano, aventi una rendita annua di circa lire
8000, è affidata in amministrazione ad una persona del luogo; la quale
non ha mai comunicato i contratti che da lui si facevano, e da oltre 10
anni non ha inviato i resoconti della sua gestione (che ora soltanto dopo
la mia nomina, ha trasmesso) limitandosi a mandare di quanto in quanto
quel pò di danaro che egli credeva. Digitized by
Google — 14 — è il nostro dovere ,
e ne rendiamo grazie agli Dei immortali* Una cosa soltanto
c'importa di stabilir chiaramente, ed è che, dimostrato in modo
innegabile dal nostro ricorso, non es- sere la relazione del sig.
Ministro dell' Interno, precedente P im- pugnato decreto di scioglimento
e redatta sulla falsariga d' un rapporto prefettizio , se non un tessuto
di audaci e meditate inesattezze, si tenta ora con una mal dissimulata
manovra di spostar la questione e di fuorviare la pubblica
opinione. Da ciò noi tragghiamo gli auspici più lieti per l'esito
della nostra causa innanzi alPEcc.ma Sezione IV del Consiglio di
Stato, dappoiché ivi la disputa è circoscritta fra termini precisi ed
inamovibili, quali sono, da una parte il real decreto con la relativa
motivazione, e dalP altra il ricorso coi suoi mezzi di annullamento. Il
nostro avversario, che fa proporre, come un litigante volgare , eccezioni
dilatorie d' incompetenza , sfatate, prima ancora d'essere svolte; che s*
ingegna, con pubblicazioni,, come quella , di cui dovremo occuparci , di
uscir fuori dalla lizza e di trascinarvi noi ed il pubblico , ci dà il
gradito an- nunzio della vittoria, precorrendo la decisione dell'alto
consesso» amministrativo. Ad uomini però, come quelli, che
componevano la disciolta Amministrazione, non può bastare una decisione,
che, per la necessaria limitazione degli istituti sociali, soltanto prò
veritate habetur: essi han bisogno d* invocare il giudizio d 1 un tribunale
più alto, del tribunale della pubblica opinione, che confermi il
pronunziato di quella e lo completi. A questo giudice supremo è
appunto rivolta la risposta, che ci accingiamo a dare al libello famoso,
che reca la firma del R. Commissario per la temporanea gestione della S.
Casa de- gP Incurabili. SERVIZIO OSPEDALIERO
Progetti per nuove costruzioni e nuovi Ospedali. — li libello
comincia dal rilevare che il Governo della Santa Casa u preoc-
cupato da strani progetti per nuovi Ospedali da fondare, per nuove
costruzioni ed abbellimenti da compiere, mentre per quelli non si peritò
di spendere somme rilevanti, studiò una severa Digitized
by Google — 15 — economia nel
servizio ospedaliero con deplorevoli conseguenze per i poveri ammalati.
„ Una reminiscenza di pudore, fenomeno riflesso d'una sen-
sazione irrevocabilmente passata, fece premettere al redattore di cotesto
periodo una timida frase: Se non vado errato. Ora noi, se
parlassimo con lui, gli diremmo: Avete errato, e se con più coscienza
aveste consultato i precedenti d' archi- vio, ve ne sareste avveduto,
perchè avreste trovato traccia di quel che andiamo a riferirvi.
Sul finire del 1889, prima ancora che il Parlamento discu- tesse il
progetto di legge sugli istituti pubblici di beneficenza, al
Soprintendente della disciolta Amministrazione balenò in mente il
pensiero di concentrare nell' Ospedale degli Incurabili gì* infermi dei
nosocomi dipendenti dal R. Albergo dei Poveri, Cesarea, Vita e Loreto.
Era un pensiero, che, attuato, aVrebbe potuto essere fecondo di
grandi vantaggi per tutti e due i colossi della carità napo-
litana. La S. Casa degl' Incurabili, assumendo il ricovero e la
cura degl' infermi del Real Albergo contro il pagamento annuale
della somma stessa, che questo spendeva per codesto titolo, avrebbe
profittato di tutta la differenza, che può derivare dalla unifica- zione
di un servizio duplicato. Le spese generali, come direbbe un
commerciante, pel mantenimento dei 300 infermi del R. Al- bergo,
sarebbero state interamente, o quasi, economizzate, perchè rispetto ad
essi sarebbero state sufficienti, o con qualche lie- vissimo aumento,
quelle che sia si facevano per gl'infermi della S. Casa* — L'
insegnamento ne avrebbe risentito senza dubbio il benefico influsso,
perchè 300 letti di più avrebbero allargato d' oltre un terzo il
materiale clinico , ciò che avrebbe richia- mato un numero maggiore di
studiosi in quel libero ateneo della scienza medica napolitana, che il
Soprintendente sognava di far assorgere al grado di rivaleggiare senza
svantaggio con T insegnamento ufficiale di qualsivoglia Università
d'Europa. Per l'Albergo dei Poveri il disegno non era meno
proficuo, perchè, liberandosi dalle cure proprie degli istituti
ospitalieri, avrebbe circoscritto i suoi fini al ricovero dei vecchi
inabili d* ambo i sessi ed all' istruzione ed educazione degli
adolescenti. Digitized by Google
— 16 — Riacquistata la disponibilità dei vasti locali
, occupati dai tre nosocomi, esso avrebbe potuto curare V antica piaga,
che rode quella grande istituzione, e che le ha sempre impedito di
dare i frutti, che Napoli ha dritto di aspettarne, poiché avrebbe
po- tuto separare completamente la famiglia dei vecchi , corrotti ,
avanzi di pena, incorreggibili, dalla famiglia giovane, educabile, la
quale può produrre operai per ogni mestiere , agricoltori , giardinieri ,
marinari etc. , ed aprire per tal via una corrente nuova di vita con
elementi istruiti ed educati nelle sfere in- feriori della nostra
popolazione. Tolti di mezzo 300 letti, i locali avrebbero di molto
supe- rato i bisogni della doppia famiglia dei vecchi e dei
giovani, e rimanendone disponibile qualcuno, poiché non per anco la
crisi edilizia s' era allora dichiarata, avrebbe potuto essere alie- nato
a buone condizioni. Con ciò un fabbricato, che per un istituto
pubblico di bene- ficenza rappresenta una passività, perchè soggetto alle
tasse ed alla manutenzione, si sarebbe trasformato in capitale fruttifero,
atto a riequilibrare il bilancio del R. Albergo, se ne avesse avuto
bisogno. Ma perchè il pensiero del Soprintendente si fosse potuto
av- vicinare air attuazione, era mestieri che la S. Casa avesse
avuto i locali necessari per ricevere i 300 infermi, che il R. Albergo
avrebbe dovuto affidare agli Incurabili. Domandi lo scrittore della
relazione ai suoi colleghi in Par- lamento, on.li De Riseis e De Martino,
e saprà che il Governo del R. Albergo," in seguito ad una accurata
relazione del secondo, nella quale ebbe la cortesia di rilevare, con una
forma ben di- versa dalla sua , appartenersi l' iniziativa di quel
progetto al Soprintendente degl' Incurabili, il governo del R. Albergo,
di- ciamo, prese una deliberazione che commetteva ai due lodati
gentiluomini V incarico di trattare col governo della S. Casa.
Sorse così la necessità di far procedere allo studio dei pro- getti
per le nuove costruzioni, che determinò la spesa di quella somma, che il
R. Commissario avrebbe dovuto trovare tutt'altro che inutile, se dice sul
serio a pag. 4, di voler procedere al raggruppamento dei servizi
ospedalieri della città. L' amplia- Digitized by
Google — 17 — mento, che esigerà
cotesta impresa, non può aver luogo altri- menti che sulla base di quei
progetti. Le trattative iniziate col governo del R. Albergo furono
in- terrotte pel sopravvenire della legge sulle Opere Pie, e per
non essersi trovata allora una via per regolare il trattamento d'un
basso personale d' infermieri, addetto agli Ospedali di quello, ma
composto di ricoverati , che non si poteva assumere da- gl' Incurabili.
Ciò non ostante le difficoltà si sarebbero vinte sicuramente, se V una e
1' altra Amministrazione non avessero dovuto, per le frequenti crisi ,
mutare e rimutare governatori. Ma, posto pure che a nulla fossero
approdate quelle tratta- tive, la necessità e 1' urgenza di ampliare i
locali della S. Casa s* imponevano e s' impongono a chiunque non è del
tutto de- stituito di sentimento umano. Il modo come sono allogati
gl'in- felici, affetti da tisi, è tale che stringe il cuore a chiunque
vi- sita queir asilo di dolori, non leniti da alcuna speranza. I
re- clami del corpo sanitario, insistenti, continui, giustificati,
non ispirarono al Soprintendente della disciolta Amministrazione,
il giudizio che hanno ispirato al R. Commissario intorno al niun
bisogno ed alla niuna urgenza di quei progetti ; ed egli , non solamente
non si pente di averli ordinati, ma, se fosse rimasto in ufficio, li
avrebbe certamente attuati. E questo per i progetti , riferentisi
alle nuove costruzioni ; quanto ai nuovi Ospedali, da fondare,
l'allusione è diretta in-^ dubbiamente alla succursale di Torre del
Greco. Ivi la S. Casa possiede un podere ed un vecchio edificio,
destinato principal- mente agli idropici ed a coloro, che un tempo si
curavano con le stufe di vinacce, e poi, per tolleranza dell'
Amministrazione, agi' infermi che il Municipio del luogo vi manda a
pagamento, perchè non ha un ospedale proprio. Nella stessa
condizione di Torre del Greco, ossia senza ospe- dale proprio, si trovano
le finitime città di Resina, di Portici, di S. Giorgio a Cremano, di
Ponticelli e di Barra, e i loro in- fermi, affluendo a Napoli, gravano
senza corrispettivo i bilanci degli Ospedali di quest' ultima, perchè,
come è noto, non v'ha nelle province meridionali una legge che obblighi i
comuni al rimborso delle spese di spedalità. Trovar modo di
diminuire 1' aggravio, che i suddetti muni- Digitized by
Google — 18 — cipii producono al
bilancio della S. Casa , e far sorgere una nuova ed importante
istituzione parve al Soprintendente una iniziativa non indegna della sua
sollecitudine. Ed accarezzando codesto pensiero, immaginò una forma
di consorzio, pel quale i mentovati municipii con le rispettive
Con- greghe di Carità, così per Y impianto, come pel mantenimento,
avrebbero fissato la misura del proprio concorso proporzional- mente al
numero dei letti, che ciascuno avrebbe richiesto pei rispettivi bisogni.
La S. Casa vi sarebbe intervenuta col nome, col corpo sanitario, con la
farmacia, con la somma stessa che vi spende attualmente e con la cessione
del suolo. Poteva sor- gere in tal guisa un ospedale di duecento letti,
che, costruito e disposto secondo le ultime esigenze della scienza; con
padi- glioni segregati per le malattie infettive e con una trentina
di stanze a pagamento, principalmente pei forestieri; servito dalle
più grandi illustrazioni medico-chirurgiche , sarebbe stato in quella
incantevole posizione il nucleo vero d' una interessantis- sima stazione
sanitaria. Se le città concorrenti e l' istituto promotore se ne
sarebbero vantaggiate, non è mestieri dimostrare, tanto la cosa è per
sé stessa evidente. Si fu perciò che fu commesso al Governatore
prof, Giovanni Antonelli l'incarico di studiare il problema, e di dare ad
un ingegnere l' indirizzo scientifico pel progetto d'arte che avrebbe
dovuto risolverlo. V insigne uomo vi si dedicò con amore, ed il progetto
con la relazione si trovano ora nell'ar- chivio del Pio Luogo.
Nocque all' idea 1' esser nata nel cervello d' un uomo poli- tico,
perchè le bieche passioni di parte attraversarono a costui siffattamente
la via, che non gli fu possibile di tentare nem- meno di promuovere il
consorzio. Rimane non pertanto il progetto, ed il giorno, in cui la
bu- fera politica sarà passata, non vi sarà uomo di retti intendi-
menti , il quale non troverà che la somma , occorsa per quel progetto ,
che potrà esser sempre utilmente ripreso , fu spesa assai meglio di
quella , che è servita per dare alle stampe le tremila copie del libello
famoso del r. Commissario. Digitized by
Google — 19 — Restrizione del numero dei
malati— Questo signore, del quale non sapremmo dire se è maggiore V
ignoranza o la fallacia , aggiunge che " mentre si spendeva nei
progetti e nelle costru- zioni, indicate di sopra, si lasciò che i
maggiori risparmi s'in- troducessero nel servizio dell' ospedale.
a II quale fu ridotto ad un numero di malati inferiore a quello che
era in passato e che il Regolamento prescrive. „ Se egli non avesse
ignorato quel Regolamento , che cita a sproposito, avrebbe saputo che,
non dallo stesso, ma dall'ar- ticolo 1 1 dello Statuto organico , è
stabilito , che hanno per anno, deliberandosi il bilancio preventivo , il
Consiglio d' am- ministrazione determina il numero dei letti , che ,
secondo la capacità dei locali e la disponibilità dei mezzi finanziari,
rav- visa potersi mantenere nel corso dell' esercizio. — Se avesse
letto il citato articolo, avrebbe domandato la deliberazione presa nella
discussione del bilancio 1891 ed avrebbe trovato che il numero degli
infermi era stato fissato ad ottocento, mentre nell' esercizio precedente
era stato di ottocento cinquanta. — E se avesse spinto più oltre le sue
indagini, come ne aveva il dovere, prima di scrivere ciò che scrisse,
avrebbe appreso che la misura non poteva essere più ragionevole.
L' Ospedale degl* Incurabili , per una strana antifrasi tra la sua
denominazione e il suo Statuto, non può accogliere che gì 1 infermi
cronici di malattie curabili, ed è contro il suo fine accogliere quelli
affetti da morbi incurabili, per guisa che, quando si constata che tale è
divenuta la condizione d' un qualche in- fermo , gli si dà la qualifica
di depositario e lo si restituisce alla famiglia o s' invitano le
autorità municipali del comune, cui appartiene, per mandarlo a rilevare
(1). Nel corso del 1890 si verificò che cotesti depositari
erano mano mano giunti ad un centinaio, e poiché ciò contraddiceva
allo scopo dell' Opera Pia, in quanto che essi occupavano letti, che
potevano essere occupati da altri infermi, i quali con pochi
(1) Art. 546 del Reg. Gl'infermi dichiarati insanabili, detti depositari,
sono consegnati alle rispettive famiglie. Se non abbiano
parenti in Napoli, il Direttore ne informa caso per caso la
Sopraintendenza per richiedere le rispettive autorità municipali di mandarli
a rilevare. Digitized by
Google 20 giorni di degenza potevan
guarire , fu dato ordine alla Dire- zione di rientrare nell* osservanza
del Regolamento , fateendo sgombrare i letti dai depositari. — Havvi in
archivio una vo- luminosa corrispondenza coi Sindaci, col Prefetto, e col
Que- store di Napoli , che si riferisce a tale argomento e che il
r. Commissario non ha letta. Sbarazzate le sale dai
depositari , la forza fu diminuita di cinquanta infermi e si rimase così
nei limiti del numero ordi- nario di quelli che effettivamente la S. Casa
ha obbligo di ri- cevere. Non è vero dunque che il numero
degF infermi fosse stato ridotto al di sotto di quello che il
Regolamento, ossia lo Sta- tuto , prescrive ; ed è men vero ancora che
fosse ristretto a settecento. Il regio Commissario non sa che
neir Ospedale si compilano i quadri della statistica mensile : glielo
facciamo saper noi. Li consulti; li metta a raffronto coi registri e se
egli riuscirà ad indicarci una sola giornata, nella quale il numero degli
infermi sia stato di 700, noi ci obblighiamo a far onorevole
ammenda ed a proclamarlo un uomo di buona fede. Riduzione di
spesa pel mantenimento degli infermi. — Quanto abbiamo detto basterebbe a
dimostrare che la riduzione di L. 28,000 nella cifra stanziata nel
bilancio preventivo del 1891, pel mantenimento dei malati , era una
conseguenza diretta e necessaria della riduzione del numero dei letti. Ma
non voglia- mo contentarci di questa sola risposta, perchè abbiamo da
darne un' altra ancor più calzante. Per T esercizio 1889 era
stata prevista pel vitto degli infermi la spesa di lire 160,000, delle
quali si trovarono spese in meno a chiusura di conto lire 16,057,07 ; e
perciò la previsione si riconobbe eccessiva per una somma eguale (Vedi
doc. V allig. al ricorso. Relaz. del Segretario Generale sul conto 1889,
pag. 28 air art. 22 Appalti). Il conto deir esercizio
suddetto fu dato il 3 agosto 1890, vale a dire, circa un mese prima che
si deliberasse il presun- tivo del 1891, e per conseguenza le previsioni
furono commi- surate alle risultanze di quello. Digitized
by Google — 21 — Ora il regio
Commissario avrebbe riputata prudente la con- dotta della disciolta
Amministrazione, se, non ostante la pro- vata eccedenza del preventivo
per 850 infermi, avesse mante- nuti invariati gli stanziamenti, anche
quando il numero veniva ridotto ad 800. E dire che l'Italia
s' abbia a dibattere nelle angustie d'una crisi economica e finanziaria
così intensa e così prolungata, mentre possiede un genio di questa forza
che potrebbe salvarla. — La soppressione del vino e Y alterazione
della vittitazione — u Per gì' infermi ridotti a così scarso numero
con inopportune u ed insane (!) economie fu alterata la vittitazione —
così con- u tinua il libello famoso — e quindi per ordine dell' attuale
Di- u rettore, con autorizzazione del Governo della Pia Opera, fu u
soppressa totalmente la distribuzione normale del vino, che u il
Regolamento prescrive tassativamente fra V alimentazione u ordinaria; e
fu mantenuto in proporzioni molto tenui il quan- u titativo del cibo, che
a ciascuno era fornito. „ Dalle trascritte parole ognuno avrà
compreso che si calun- nia il Regolamento, prestando agli egregi uomini,
che lo com- pilarono criteri, che non ebbero, né potettero avere.
A loro non passò mai pel capo, che con ogni specie d' in- fermità
fosse compatibile V uso del vino, sicché potessero berne senza
pregiudizio i cardiaci al pari dei tubercolotici, quelli af- fetti da
malattie dell' apparecchio genito-urinario, come i col- piti da lesioni
violente: da commozione cerebrale, etc. E non poteva cotesta
stranezza passar loro pel capo in quanto che non mancarono di farsi
assistere, come risulta dalla relazione che precede il Regolamento
stesso, da un' apposita Commissione Sanitaria , che li avrebbe certamente
trattenuti dal prendere il dirizzone che loro attribuisce il r.
Commissa- rio. — Lo legga dunque il Regolamento, o lo legga meglio,
se non lo lesse bene la prima volta, e troverà a pag. 268 la ta-
bella indicativa della razione giornaliera per gì' infermi nelle sale
comuni ed in quelle a pagamento, e nell' angolo a destra, destra della
pagina, tra le annotazioni generali per tutti gl'in- fermi, vedrà 1'
ultima segnata con la lettera A così concepita: la razione del vino è
data solo quando è prescritta dal medico ! Digitized
by Google Richiami, dopo di ciò, le mappe
della vittitazione giornaliera, riferentisi all' epoca della quale parla,
e se un qualche morbo non gli ha offeso la retina , leggerà che i
professori , non a tutti gì' infermi indistintamente, permisero Y uso del
vino, ma solo ad alcuni, così come si fa pel latte, per le aranciate,
gra- nite e limonate. Quando avrà fatto cotesto esame si
persuaderà che , non dalla passata Amministrazione, ma da lui è stato
violato il Re- golamento del P. Luogo e quello del senso comune !
Per le proporzioni molto tenui del quantitativo del cibo il r.
Commissàrio avrebbe dovuto sapere che esse non si deter- minavano dall'
Amministrazione, ma dalla tabella annessa al Regolamento ed esistente
alla citata pagina 268. Per constatare poi se il Regolamento si osservava
dalla dispensa e dalla cu- cina doveva richiamare le mappe speciali di
ciascuna. sala, e quella generale di tutte; confrontare le prescrizioni
mediche con le emissioni della dispensa e con le ricevute della
cucina; e se avesse trovate non regolari le liquidazioni , allora
avreb- be avuto il diritto di parlare, altrimenti avrebbe fatto
meglio a tacere (1). (1) Art. 642. Compilata la mappa,
il capo-sala la rassegna allo esame ed alla firma del professore, e poi
ne dà comunicazione all' ufficiale liquidatore. 643. L'ufficiale
liquidatore, riunite le mappe di ciascuna sala, le esamina attentamente
per accertare lo effettivo numeri) degli infermi presenti, tenuto conto
degli esistenti nel giorno precedente , di quelli ricevuti in giornata e
degli usciti e trapassati, e compila lo stato di giornata del movimento di
tutti gì' infermi. 644. Riconsegna poi le mappe di ciascuna
infermeria ai rispettivi capi-sala per servir loro di riscontro nella
distribuzione del vitto: ed essi ne fanno l'in- domani trasmissione
all'ispettore contabile. 643. Liquidato l'effettivo numero
degl'infermi presenti, l'ufficiale liquidatore lo ripartisce sul modello in
istampa, approvato dalla Soprintendenza, in di- stinte categorie, secondo
il trattamento disposto dai- professori di razioni in- tere ed a metà, di
dieta lattea e di ogni altra somministrazione straordinaria. 647.
In conformità del risultato di verificazione di cui all'art. 643, lo
uffi- ciale liquidatore rilascia, coll'approvazione del Direttore, le
richieste ai capi-sala per rilevare il pane dalla dispensa a mezzo dei
serventi, e comunica alla di- spensa stessa ed alla cucina le quatti ita
e le qualità delle somministrazioni, tanto per la mattina, che per la
sera, notando parimenti le quantità del sale Digitized
by Google — -2:ì — Violazione
del contratto per la fornitura della carne — Ma se errò per
ignoranza nel formulare le accuseche precedono, non si può dire
altrettanto per V addebito relativo al contratto della carne. Egli
scrisse che " con deplorevole condiscendenza s' era permesso al
fornitore della carne , violando il contratto di appalto, che avesse dato
in vece della carne di manzo, quella cosidetta di maglione „. Noi non
troviamo la parola adatta a definire cotesta asserzione: quella che ci
verrebbe sotto la penna, non vogliamo scriverla. Né può
esimerlo dallo stigma che avremmo diritto di inflig- gergli T aver citato
in pruova della sua assertiva le dichiara- zioni di anonimi malati,
usciti dall' Ospedale , quando il fatto affermato poteva e doveva esser
dimostrato dalle dichiarazioni delle Suore , che sovrintendono alla
cucina , e ricevonsi ogni giorno la carne; da quelle dell' Economo, che
dee presenziare air immissione e respingere i generi , se non
corrispondono ai contratti, non meno che da quelle dell'Ispettore
contabile, che ha il dovere di controllare la qualità e le quantità dei
ge- neri stessi (1). e del condimento corrispondente alle
proporzioni di regola, fissate dall'Ammi- nistrazione. Art.
64S. Il vitto è trasportato dalla cucina alle infermerie ed è sommini-
strato agli infermi per cura dei rispettivi serventi. I capi sala e
le suore di carità vigliano la distribuzione, onde siano esat- tamente
osservate le prescrizioni dei direttori di sala. (1) Art. 064. Il
servizio della cucina è affidato ad una suora di carità o ad apposito
cuoco con quel numero di basso personale che il Consiglio creda competente.
Art. 668. La persona preposta alla cucina, suora o cuoco, deve rifiutare
i generi , che non le risultassero di buona qualità , facendone rapporto
al Di- rettore. Art. 104. L'Economo ha obbligo di verificare
l'immissione dei generi , di esaminarne la qualità e quantità e non deve
autorizzarne il ricevimento, se non quando siasi accertato che essi
corrispondono esattamente ai campioni ed alle condizioni dei contratti
per le qualità' ed alle richieste per le quantità'. Art. 96 Egli
(l'Ispettore contabile) adempie al disposto negli articoli 644, 646, 649,
714 e 718, ed ha incarico precipuo di verificare la esattezza dello stato
generale della visitazione giornaliera etc, che i generi che si
forniscono dagli appaltatori, o di ufficio dell' Economato, rispondano
per qualità e quan- tità al disposto dell'art. 104."
Digitized by Google — 24 —
Il raccomandare le proprie asserzioni ad ipotetici infermi usciti
dall'Ospedale rivela, o che non si ebbe la temerità d'in- terpellare per
iscritto, come doveasi, coloro che avrebbero po- tuto dar le vere
notizie; o che s' ebbe il coraggio di nascon- derne le dichiarazioni.
Neil' un caso o neir altro, si può esser più ameni ? Eppure
il r. Commissario lo è stato. In fatti quest' accusa era andata su
pei giornali della Pre- fettura, come una delle più maravigliose scoperte
del r. Com- missario, che si sarebbe affrettato ad informarne P Ill.mo
Sig. Prefetto. Allora dai componenti della disciolta
Amministrazione si fece notare che era una brutta e sciocca invenzione,
perchè all'Ospedale non era entrata mai carne di maglione odi buf-
fala, come pure allora si diceva; essersi invece dato il manzetto, che è
un genere di carne migliore del manzo. Ed a questo proposito si faceva
notare altresì era stato incaricato il Direttore della Farmacia. Prof.
Reale di fare il confronto tra il valore nutritivo del brodo di manzo e
del brodo di manzetto. — Il r. Commissario, in seguito di ciò, ebbe, per
bontà sua, la ma- gnanimità d' interpellare il Prof. Reale, che gli
rispose in iscrit- to esser vero che la disciolta Amministrazione gli
aveva dato 1' incarico di far 1' analisi comparativa dei due brodi, di
averla egli fatta e di aver trovato che quello di manzetto era più
nutritivo (1). Ed // Paese, organo della Prefettura e del r.
Commissario, Di conseguenza, tutti gli atti, relativi agli indicati
movimenti, non possono considerarsi per le liquidazioni dei conti in
danaro , se non siano mun ti del visto di riscontro dell' Ispettore
contabile. Art. 97. L' Ispettore deve apporre il visto suddetto
ogni volta che non ab- bia ad osservare irregolarità.
(1) Al pubblico, e non al R. Commissario, che li ha letti, facciamo
sapere che i rapporti del Prof. Reale, diretti al governatore del carico,
cav. Cosenza, hanno le date del 27 e 29 Aprile ultimo, e che il primo
prese il n. di pro- tocollo alla ricezione 1701, e 1' altro 1738.
Da questo fatto si può giudicare che, se si negarono al Soprintendente
della disciolta Amministrazione le copie legali dei documenti, ciò si
fece per poter diffamare a proprio libito, senza preoccupazione di
possibili smentite. Digitized by
Google agli 8 ottobre ultimo, anno III, n. 278,
pubblicò' la lettera del chiaro Professore, concepita nei seguenti
termini : " Ottemperando alle orali disposizioni della S. V.
IlLma, mi u pregio di rassegnarle quanto appresso : u
Incaricato dal Governo di questa Santa Casa, sottoposi " ad analisi
il brodo fornitomi dalla cucina della Pia Casa. u Con rapporti del
24 (è un errore , deve dir 27) e del 29 " aprile di questo anno
dettagliatamente mostrai i risultamenti u delle mie analisi , epperò la
composizione dei brodi esami- a nati etc. etc. „. Dopo di
ciò, la realtà del fatto non si poteva più revocare in dubbio, ed il
giornale, per non mostrare d' essere stato ac- coppato addirittura,
chiudeva il suo articoletto di cronaca, ri- volgendo al Prof. Reale le
due seguenti interrogazioni: a Crede egli d' aver analizzato due
brodi dell'identico tipo ? — " cioè ottenuti da quantità uguali ed
in modo uguale ? „ Ora il r. Commissario scrive che il signor Reale
ha espres- samente dichiarato, non solo di non aver manifestato
l'opinione che manifestò, ma di non esser stato mai interrogato su
tale questione. Ci vuole una bella faccia! Chi scrive non sa
se la carne di maglione sia poco o molto dura, perchè è la prima volta in
vita sua che ne sente par- lare. La relazione dice che è durissima, ma
v'è da scommet- tere cento contro uno che non supera quella della faccia
del- l' on. r. Commissario. In ultimo la relazione afferma
" che dalle dichiarazioni, fatte dallo stesso fornitore signor
Pirozzi, è risultato che si era pre- scelta quella qualità di carne per
un sentimento di malintesa economia. „ Se son vere coteste
dichiarazioni — e noi protestiamo di non credervi , perchè il Pirozzi ,
nella sua modesta condizione di beccaio, è uno dei più onesti
galantuomini del mercato di Na- poli — chi scrisse la relazione dev'
essere persona d' una. . . . ingenuità della forza di cento
cavalli. Come ? Se s' era permesso con deplorevole condiscendenza
al fornitore della carne di violare il contratto, non è da pensare
che egli si prendesse cotesta licenza nell' interesse della S. Casa. L'
economia dovrebbe averla fatta lui: eppure, a dare ascolto
Digitized by Google — 26 —
al r. Commissario, egli proprio, il Pirozzi, gli avrebbe rivelato
che era stata inspirata da un malinteso sentimento! Pel Pirozzi sarebbe
stato altro che ben inteso. Il r. Commissario poteva dar la pruova
del fatto asserito, se avesse avuto i più elementari rudimenti di cose
amministrative e doveva darla, una volta che il fatto lo aveva asserito.
Egli non avrebbe avuto che a richiamare le liquidazioni dei conti
del Pirozzi, e a rilevare dalle stesse se la carne era stata a costui
pagata in conformità dei contratto, mentre ne aveva for- nito di qualità
inferiore allo stabilito. In questo caso si sarebbe verificato un furto
patente, nella consumazione dei quale non potevano non esser coinvolte le
suore addette alla cucina, l'E- conomo dell' Ospedale, e V Ispettore
contabile: ed il r. Commis- sario doveva denunziarli al potere
giudiziario insieme al Pirozzi ed ai componenti della disciolta Amministrazione
, se il fatto era seguito col loro consenso. Se non l'ha fatto o se noi
fa, egli dà la pruova d'essere.... quello che è. Se poi -le
liquidazioni si son fatte sul prezzo della carne di maglione, la
responsabilità è della Ragioneria — di quella Ra- gioneria, che ha avuto
le lodi del relatore (p. 27), mentre es- sa, se non presenta un ordine
scritto del Soprintendente o del Governo , che a ciò la autorizzava ,
avrebbe proceduto a rovescio del suo dovere , passando sopra al
contratto. E in questo caso il r. Commissario, lungi dal far gli elogi
del Ra- gioniere, dovrebbe avere il coraggio di destituirlo.
II r. Commissario però non fa né questo né quello, perchè sa di non
poterlo fare, essendo la sua una vera innegabile e cosciente...
inesattezza. Biancheria e casermaggio — Veniamo ora al servizio
della biancheria e del casermaggio " ridotto nelle più squallide
con- dizioni, perchè la disciolta Amministrazione , non avendo per
due anni consecutivi speso quasi nulla per lo acquisto di detti generi,
la scorta precedentemente esistente s' era venuta assot- tigliando di
giorno in giorno. I mobili , i letti e le matarasse sono in pessima
condizione e per mancanza di lenzuola non possono bene spesso rifarsi i
letti agli ammalati. „ A prescindere dalla smaccata esagerazione,
con la quale è Digitized by Google
presentata la suesposta accusa , convien rilevare, per
rispon- dervi, che T ultima provvista di biancheria fu fatta nel
1887, e doveva servire, non solo per detto esercizio, ma anche pel
successivo del 1888, Nel maggio del 1889 air amministrazione del
sig. conte Spi- nelli succedette quella del sottoscritto, il quale trovò,
com'era naturale , deliberato ed in gran parte speso od impegnato
il bilancio preventivo. In questo , air art 25 , era stanziata per
biancheria una cifra di lire 25,000, la quale, come risulta dalla citata
relazione del Segretario Generale, fu quasi interamente spesa, poiché, a
chiusura del conto, non si trovò che un re- siduo di lire 705.63.
Deliberato il bilancio del 1890, calcato sulle stesse orme di
quello precedente per le ragioni esposte nella nota, diretta il 16 maggio
1890 all' Illustrissimo signor Prefetto Codronchi, il sottoscritto ed i
suoi colleghi, dal modo imbarazzato, col quale procedeva il servizio di
cassa, si accorsero che le condizioni economiche dell' istituto, a loro
affidato, non eran quelle che avevan creduto dapprima.
Istituite perciò delle indagini sopra ogni singolo ramo di ser-
vizio ebbero ad intravedere che il bilancio della S. Casa era tra-
vagliato da un disavanzo di circa lire 170,000 Queste circostanze
il r. Commissario avrebbe potuto rilevare dall' incartamento relativo ai
conti, nel quale si legge la sopra- detta nota del 16 maggio 1890 (V.
alligati al ricorso doc. IV, p. 17), che fu il primo grido d 1 allarme
dato dal Soprintendente Vastarini-Cresi. Da quel momento il Governo del
P. Luogo diede opera allo studio diligente ed accurato dei conti; rimasti
indi- scussi, 1887 (secondo semestre) 1888 e 1889, per avere al più
presto il concetto preciso della vera condizione finanziaria del- l'
Istituto; e, com' era ben naturale, si tennero stretti i cordoni della
borsa, e s'andò spendendo con grandissima parsimonia il bilancio del
1890, sopratutto in quegli articoli che portavano i maggiori
stanziamenti, tra' quali era pur quello relativo alla biancheria. Alla
chiusura del conto 1890 si trova in fatti che della cifra stanziata
rimasero non erogate lire 17,632,55. A tre agosto 1890 soltanto,
con la deliberazione che appro- vava i conti dei tre esercizii anzidetti
1887, 1888. e 1889, si Digitized by
Google — 28 — potè veder chiaro nella
situazione, e cessò la ragione dell'in- cedere prudente e riservato nelle
spese. Ma, se a quella data i dubbi della situazione eransi
dileguati, l' Amministrazione s' era venuta sciogliendo. Il cav.
Gaetano- Savarese, per gli affari del suo commercio era rimasto
lunga- mente a Parigi, ed al suo ritorno si credette in dovere di
ras- segnare le proprie dimissioni da Governatore. Il conte Ludolf,
o poco prima o poco dopo di lui , aveva fatto altrettanto. Il Prof.
Giovanni Antonelli intervenne per V ultima volta in ufficio per prender
parte alla deliberazione del 3 agosto e per mera deferenza personale al
Soprintendente. Non rimasero in carica che quest' ultimo e il cav. Lo
Savio, i quali a 4 settembre 1890, prima ancora che giungesse in Napoli
il comm. Basile, per prendere il posto del conte Codronchi , tramutato in
Milano, si affrettarono a spedire le proprie dimissioni (Ved. doc.
XVII allig. al ricorso pag. 77). Non ricevendo alcuna
risposta, il Soprintendente a 20 set- tembre rinnovò le sue preghiere
all' illustrissimo signor Prefetto, perchè prendesse atto delie date
dimissioni e provvedesse alla ricostituzione dell' Amministrazione (V.
doc. XVIII alligato al ricorso pag. 78). Se il sottoscritto
dicesse oggi che, essendo dimissionario, non credette d' avere il diritto
di trattare un affare così importante come era la rifornitura del
casermaggio e delia biancheria, il r. Commissario che, certo misura dalla
propria 1' altrui buona fede, e che, gestore temporaneo con mandato d'una
legittimità molto discutibile, non esita ad affrontare la responsabilità
d'un prestito di mezzo milione, sorriderebbe d' incredulità. Ma chi
scrive lo disse allora, il 20 settembre 1890, nella chiusa della citata
lettera "... io son costretto a far deliberazioni di ur- * genza per
una parte, e per un' altra a rimandare molte cose " importanti con
detrimento degli interessi dell' Istituto. „ AH' Illustrissimo
signor Prefetto piacque di prolungare per ben quattro mesi la situazione
anormale della S. Casa, e più ancora V avrebbe prolungata, se il
Vastarini-Cresi non gli avesse rotti gli alti sonni nella testa il 17
dicembre 1890 (V. doc. XIX allig. al ricorso p. 79) e se non si fosse
tolto, per giunta,. la briga di chiedere il concorso di quattro
gentiluomini , ai Digitized by
Google — 29 — quali ha il rimorso d'aver
procurato tutte le molestie, che si ponno subire, quando s* ha a
combattere con V inurbanità e la malafede. Per le ragioni
sovraesposte, gli strali, che al r. Commissario hanno temprato un
Ragioniere ed un Segretario di prefettura, e che egli, grottesco Griso
del fiero Innominato, crede di av- ventare suir aborrito capo dei
Vastarini-Cresi , vanno a colpire in pieno petto la venerata persona del
Comm. Basile. Meno male che il r. Commissario " ritiene presso di sé
una tovaglia, rinvenuta nelle stanze degli ammalati a pagamento, e che
vuol conservare a memoria a" imperituro disdoro^ certamente
del Prefetto, che fu causa che la biancheria non si rifornisse,
per- chè con essa potrà asciugare il sangue e fasciar le ferite che
gli ha prodotto per aberrazione di colpi ! Invece, della lancia, sarà la
tovaglia di Achille (Basile), che ferisce e sana ! Ma tutta cotesta
lunga storia, ci si potrà dire, non riguarda che il 18 C X), e, dato pure
che vi si mandi buona, essa giusti- fica un' Amministrazione che non è
quella che è stata sciolta. Ora voi dovete giustificare
l'Amministrazione nominata il 31 dicembre 1890, che è rimasta in ufficio
fino al 4 settembre 1891. Che cosa ha essa fatto per provvedere
alla biancheria ? Se non era il r. Commissario non si sarebbe nemmeno
saputo che il Grande Ospedale versava in quelle angustie. — La
negligenza per questa parte indubitabilmente è grave; e non si limita
sol- tanto alla biancheria ed al casermaggio. Se non era
quella mente di aquila del r. Commissario , la disciolta Amministrazione
avrebbe esaurito il periodo sessen- nale della sua gestione e non avrebbe
pensato alle sale di ope- razioni segregate, come ci ha dovuto pensare
lui, per non far sentire agli altri ammalati le grida strazianti dei
paziente. E non e' è che lui , il quale abbia pensato " ad una
distri- buzione razionale e sicura degli ammalati nei varii reparti,
per evitare lo sconcio, da lui riconosciuto, di veder confusi tra
gl'in- fermi comuni, alcuni affetti da tubercolosi e simili ,,.
Non e' è che lui, che abbia pensato u ad invitare la com- missione
sanitaria a guardare il modo come trovansi aerate le sale, studiando se
sia il caso di adottare per alcune di esse o Digitized
by Google 30 per tutte
appositi ventilatori, non senza badare alla tenuta dei cessi e della loro
disinfezione. „ Non e' è che lui, che " ha creduto di
migliorare col nuovo bilancio la condizione dei salarii al personale
degli inservienti e delle camminanti : e a quest' ultime (che ne erano
prive e non aveano facoltà di uscire, e non son morte) ha dato il
vitto ogni giorno ed ai primi il vitto solamente nei giorni di guardia:
„ Non e' è che lui, che abbia pensato u a nominare una com-
missione di professori sanitari e di un illustre ingegnere (sic) per
istudiare un piano regolatore per i diversi servizi e per i definitivi
adattamenti dell' Ospedale affinchè questo, mentre in- tende a
raggiungere lo scopo umanitario, sia altresì condotto (sic) all' altezza
dei progressi scientifici e civili (sic) richiesti dall'odierna coltura!
„. Non e' è che lui, il quale " abbia fatto notare al signor
Pre- fetto, che probabilmente lo ignorava, come e qualmente la S.
Casa, mentre appresta agi' infermi la cura ospedaliera, fornisce del pari
alla gioventù studiosa il mezzo di compiere la propria cultura (sic)
professionale, mediante il suo (di chi ?) vasto ma- teriale clinico
! Non e' è che lui ! Non e' è che lui ! — O Scarpetta, quante
volte, nel leggere la relazione del r. Commissario per la tem- poranea
gestione della S. Casa degli Incurabili, la tua figura, sbucando tra le
carte, che ingombrano il mio scrittoio, come le tentazioni nel quadro del
S. Antonio di Morelli, mi guarda con quel sorriso tra lo scemo e il
malizioso che ne costituisce la nota caratteristica, e mi ripete: Non e'
è che lui ! non e' è che lui! E T illusione per un momento mi
esilara e mi rinfranca; ma poi di nuovo la penna, impotente a tradurre
con la parola il sentimento d'infinito disprezzo che m* invade, freme
sulla carta; perchè non sa lasciarvi scorrere i feroci giambi di
Archiloco. Alle iniziative ed ai meriti, che il r. Commissario con
tanta modestia si attribuisce, non v' è che una lieve osservazione
a fare , ed è quella che si desume da una deliberazione , presa
dalla disciolta Amministrazione il 17 giugno ultimo sovra un rapporto del
Direttore dell' Ospedale, sig. cav. Gaetano Anto- nella Riportiamo qui il
testo della prima ed in alligato quello Digitized by
Google — 31 — del secondo,
avendone, per fortuna , il Governatore Cosenza , che concorse largamente
a ciò che forma il tema dell' una e dell' altro, conservato le copie tra
le sue carte. Se il r. Commissario — e non ci parrebbe strano —
volesse contestare V autenticità dei due menzionati documenti,
tutto- ché non ne ignori V esistenza in archivio , ed ha provato di
non ignorarla, saccheggiandoli, sarà utile che sappia altra co- pia del
rapporto del Direttore trovasi nelle mani del chiarissimo prof.
Cardarelli, che potrà anche informarlo da chi, perchè, co- me e quando la
ricevette. Ciò premesso, ecco la deliberazione: u
Presenti il funzionante Sopraintendente cav. Lo Savio e i governanti
comm. Trinchese e cav. Cosenza — assistiti dal Se- gretario Generale
barone De Marinis. " Vista la elaborata relazione del
Direttore di questo Ospe- dale in data 16 corrente mese, con la quale da
una parte si rassegnano diverse proposte per provvedere: a)
air igiene dei locali: b) alla buona manutenzione: e)
al miglioramento della casa di salute per gli infermi a pagamento:
d) della casa di maternità: e) della cucina: f)
della Direzione Ospedaliera; g) della sala di medicatura;
h) della formazione di nuovi locali per stanze d'isola- mento, per
stanze di ricezione, per la sala idroterapica e per le consultazioni
gratuite; e da altra parte si riferisce sul biso- gno di provvedere il
nuovo casermaggio e sui mezzi più ac- conci per attuare questo intento,
senza apportare alcuno spo- stamento al bilancio della pia Opera.
„ Ritenuto il pregio e V importanza del detto lavoro e ri-
conosciuta 1' utilità di seguirne le tracce: a Ritenuto che in
quanto alla prima parte, si rivela oppor- tuno di procedere con un piano
regolatore , commettendo ad un ingegnere l' incarico di compilare un regolare
disegno esti- mativo per T attuazione delle sopraindicate molteplici
proposte; Ritenuto che in ordine alla seconda parte, è necessario
per Digitized by Google
— 32 — procedere all' appalto per la provvista del nuovo
casermaggio, e per dismettere tutto il vecchio materiale inutile, un
regolare capitolato, da redigersi da persone competenti sotto tutti
i rapporti; " DELIBERA u 1° Esprimere la più
sentita soddisfazio ne al Direttore per la pregevole relazione, diretta a
questo Consiglio, sui più im- portanti miglioramenti da apportare all'
opera ospedaliera. " 2° Commettere al Soprintendente di far
compilare da un ingegnere, che egli crederà prescegliere, il piano
regolatore col progetto indicativo della spesa occorrevole alla relativa
attua- zione in base alle proposte contenute nella relazione
suddetta. fc 3° Commettere ad una commissione, presieduta dal
Go- vernatore del carico cav. Cosenza e composta dal Segretario
Generale di quest* Amministrazione e dello stesso Direttore del- l'
Ospedale, l' incarico di compilare un capitolato che possa servire di
base all'appalto pel nuovo casermaggio „. Or come si vede dalla
riferita deliberazione, ed an che me- glio dalla Relazione del Direttore,
che si legge in alligato, non erano indispensabili gli sforzi di quel
poderoso intelletto del regio Commissario per discoprire i bisogni dell'
Ospedale e per proporre i mezzi di accorrervi. Quello che sarebbe stato
co- mandato dalla più elementare decenza, era di non tradire la
verità col manifesto fine di far emergere la propria persona, diffamando,
con la circostanza aggravante del mandato rice- vuto, altri, che tenea
modestamente a fare il bene senza pla- gii e senza gran cassa.
La somministrazione delle medicature antisettiche — Un ul- timo
addebito la relazione del r. Commissario rivolge alla di- sciolta
Amministrazione per ciò che tiene al servizio ospeda- liere e vogliamo
riferirlo con le parole testuali della relazione medesima: a
Un altro fatto gravissimo, tollerato dalla disciolta Am- " ?nini s
tra sione a danno degli infermi ho trovato nella som- u ministrazione
delle medicature antisettiche, la quale è affidata u ad un appaltatore
per V annuo corrispettivo di lire dodicimila. Digitized
by Google — 33 — u Tale
servizio procedeva nel modo più irregolare che possa " immaginarsi,
sia perchè i preparati più costosi non venivano " forniti addirittura,
sia perchè quelli che erano apprestati non " solo erano di pessime
qualità , ma ancora di quantità infe- u riore a quella richiesta.
u Tutto ciò ho assodato non pure di persona (?), ma anche u dai
reclami di molti professori, Direttori di sale chirurgiche " e delle
suore della Carità, preposte a tale servizio , e sopra- " tutto da
un rapporto del Professore Annibale di Giacomo , " direttore
primario della sala delle lesioni violente. u E debbo aggiungere
che questo appaltatore è un impie- u gato stipendiato della S. Casa, che
avrebbe dovuto prestare " servizio in qualità di farmacista, ma per
i favori che godeva " facilmente si esimeva dai suoi obblighi , e
tutto ciò mentre " il Regolamento vieta in modo assoluto agli
impiegati di con- " correre o prender parte agli appalti di
qualsiasi natura „. Innanzi tutto ci sia permesso di rilevare che,
se rispondesse alla realtà dei fatti, quanto afferma il r. Commissario,
ci tro- veremmo di fronte ad un vero e proprio reato, qual' è
quello preveduto dall' articolo 321 del codice penale, che suona
così: " Chiunque essendo autorizzato alla vendita di sostanze
me- dicinali, le somministra in ispecie , qualità o quantità non
cor- rispondente alle ordinazioni mediche o diversa da quella di-
chiarata , o pattuita ,. è punito con la reclusione sino ad un anno e con
la multa da lire cinquanta a cinquecento. „ Cotesto reato, a
prescindere da tutte le prove che si ricor- dano nella relazione, il r.
Commissario V ha assodato di persona in tutte e tre le forme, in cui si è
palesato, cioè nel non for- nirsi a dirittura i preparati più costosi, nel
dar quelli, che si fornivano, di pessima qualità, nel darli di quantità
inferiore a quella richiesta. Tutto ciò ho assodato di persona, egli
dice. Or, ciò non ostante, il r. Commissario non ha denunziato
al potere giudiziario il fornitore ed i suoi complici,; che, come
ve- dremo, sarebbero stati parecchi; anzi non ha nemmeno inten-
tato contro di quello un giudizio civile per la risoluzione del con-
tratto ed il risarcimento dei danni. Che vuol dire ciò? — Una cosa
soltanto: che il r. Com- missario sa di non aver detto il vero. Ed
eccorie la dimostra- zione limpida, matematica, irrecusabile.
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— Allorquando entrò neir amministrazione il sottoscritto,
trovò che il suo predecessore aveva concesso a trattativa privata
la fornitura a cottimo delle medicature antisettiche al signor Al-
fonso D' Anna, che è precisamente il fornitore, che la relazione presenta
nel modo accennato di sopra. Siccome il Vastarini aveva ed ha pel
signor conte Spinelli, e pei suoi colleghi d' Amministrazione, tra i
quali vi era nien- temeno che il comm. Francesco Saverio Correrà (un
secolo di probità e di dottrina!), non già la stima ordinaria, che si
ha per ogni galantuomo, ma quel rispetto che s' avvicina alla ve-
nerazione, tenne per criterio direttivo dei suoi giudizii sugli atti dei
suoi predecessori, che nulla vi potesse essere che. non ri- specchiasse
la più alta ed incontestabile moralità. E molti prov- vedimenti, dei
quali non poteva raccogliere dagli incartamenti la motivazione; li
confermò sulla considerazione che non po- tevano non essere giusti ed
equi. Di tal natura ritenne che fos- se il contratto stipulato col
D'Anna, prima d' essersi informato della ragione òhe lo aveva determinato
; e se ne confermò , dopo che T ebbe conosciuta. Essa gli risultò essere
stata que- sta, che nell'anno precedente al contratto medesimo,
quando i generi di medicatura si fornivano a consumo e non a cotti-
mo, erasi constatata una spesa di L. 24000, mentre il D' Anna offrì di fare
servizio e lo lece per sole 12000. Il d'Anna, anche allora,
figurava nella pianta degli stipen- diati in qualità di farmacista del P.
Luogo, ma non è altrimenti vero che per i favori che godeva si esimesse
dai suoi obbli- ghi. Egli invece non prestava sotto V amministrazione
Spinelli, come non ha prestato sotto la amministrazione Vastarini,
il servizio di farmacista, perchè comandato a soprintendere al
forno. E neir esercizio di questa funzione egli portò tale una diligente
e coscienziosa sorveglianza, che la spesa pel panifìcio, che era di L.
500 mensili , discese a sole 300, dal giorno in cui il D' Anna se ne ebbe
ad occupare. Il r. Commissario non ha che a riscontrare in
contabilità i documenti e si convincerà della verità di quanto
affermiamo. Scaduto il termine del contratto, stipulato dal D'Anna
col- T Amministrazione Spinelli, alla fine del 1890, furono banditi
gì' incanti per la fornitura delle medicature antisettiche, come
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per ogni altra provvista; fu indicata, come base dell'asta, la
somma stabilita nel contratto scaduto; ma non vi fu gara. All'
infuori del D'Anna, nessuno si presentò per la conces- sione dell'
appalto. In tale stato di cose non vi erano che due soluzioni del
problema: o ripigliare il servizio in economia con l'eventualità, più che
certa, di ritornare al consumo di L. 24,000; od accettare la offerta del
D'Anna, esaminando i documenti, in base dei quali egli chiedeva d' essere
autorizzato ad assu- mere f appalto, quantunque fosse uno stipendiato del
P. Luogo. Egli esibì i documenti stessi, che aveva esibiti al conte
Spinelli. Erano certificati di parecchi Professori, che, letti dal
Vastarini, lo determinarono così come avevano determinato lo Spinelli,
a concedere la domandata autorizzazione. Ora che di ciò è piaciuto
al r. Commissario plasmare un'ac- cusa, il Vastarini ha richiesto al
D'Anna quei documenii per farne argomento della propria difesa, e il
D'Anna glieli ha fatto tenere con 1' aggiunta di due altri, che meritano
1' onore d' es- sere intercalati nel testo di questa risposta.
Dei detti certificati, due furono rilasciati in settembre del 1881
dai professori di chirurgia Folinea e Mazziotti ed uno il 27 agosto dello
stesso anno dal signor professore Annibale Di Gia- como, direttore
primario della Sala delle lesioni violente, come dice la relazione, per
renderne più ponderosa V autorità. I si- gnori Folinea e Mazziotti
attestavano d'essersi serviti per le rispettive cliniche chirurgiche delle
medicature Lister dal sig. Alfonso D' Anna e d' averle trovate di ottima
qualità e per- fettamente corrispondenti allo scopo. Il prof.
Di Giacomo poi certificava, ed il documento è tutto di pugno del lodato
Professore , u che gli oggetti di medica- u tura alla Lister, che vende
il farmacista d'Anna, sono di ot- u tima qualità ed identici a quelli che
adopera lo stesso Lister a a Londra (!?!), come avea potuto convincersi
dal nome della u Casa inglese, dalla quale li ritirava il D' Anna , non
che in u parecchi casi di operazioni , nei quali egli (il Di
Giacomo) u li aveva adoperati. " Ed in fede etc. etc. „
(1) (1) I certificati anzidetti trovansi presso il sottoscritto,
che è pronto a mo- strarli a chiunque avesse vaghezza di
esaminarli. Digitized by Google
— 36 — Sarebbe deplorevole che il prof. Di Giacomo
avesse con leg- gerezza rilasciato il documento del 27 agosto 1881, perchè
esso principalmente fu quello, che determinò la risoluzione del Va-
starini, stante che il suo redattore, autorevole quanto gli altri due,
gli era personalmente noto, come uomo di carattere in- tegro ed incapace
di rilasciar certificati o di far rapporti a partita doppia, secondo che
ora vorrebbe far credere la rela- zione del regio Commissario.
Noi prevediamo che si potrà dire d' esser vero il certificato del
Di Giacomo di dieci anni fa, ma siccome è possibile che il D'Anna siasi
mutato da quel che era allora, non è impos- sibile che il giudizio
portato dal Di Giacomo sulla qualità delle medicature, da lui ora
fornite, sia anche mutato, e quindi sia vero il rapporto che dice il r.
Commissario aver ricevuto dal eh. professore. Tutto questo
ragionamento , come si vede , è fondato sulla supposizione che il D' Anna
non sia più quel coscienzioso for- nitore di una volta; ma a combattere
codesta supposizione da- remo lettura del documeuto che segue, invitando
il n Commis- sario ad ascoltarla nella posizione dell' attenti ! e con la
mano al berretto. Eccola: IL PREFETTO DELLA PROVINCIA DI
NAPOLI (Udite !) u Veduta la deliberazione in data 27 maggio p. p.,
con cui " il Consiglio d' amministrazione dello Spedale Clinico di
questa '■ Città ha chiesta V autorizzazione di procedere, mediante
trat- " tativa privata, all' appalto per la somministrazione degli
ar- 41 ticoli di medicatura a tutto 1' anno 1892; "
Ritenuto che dall'atto predetto risulta dimostrata la con- u venienza e V
opportunità che V appalto in parola sia affidato " al sig. Alfonso
D' Anna, il quale tiene in appalto la detta som- " ministrazione
{Udite !) per 1' Ospedale militare di questa Di- " visione, per
quello del 2° Dipartimento marittimo e per quello " degl' Incurabili
e dà le maggiori garantie {Udite! Udite!) per u il buon andamento del
servizio; u Ritenuto inoltre che i prezzi dell' offerta, presentata
dal u D'Anna ( Udite /), sono notevolmente inferiori a quelli
corri- Digitized by Google
— 37 — u sposti finora per tale somministrazione ; talché 1*
Ospedale u Clinico potrà ritrarre una rilevante economia dal novello
ap- u paltò ; u Veduti gli articoli ecc. ecc. Decreta
: " V Ospedale Clinico è autorizzato a concedere,
mediante u trattativa privata , al sig. Alfonso D' Anna Y appalto per la
" somministrazione degli articoli di medicatura fino a tutto il u
1892 ed in base alla tariffa alligata alla deliberazione 27 " maggio
p. p. del Consiglio di amministrazione. u Napoli {Udite!) 6 luglio
1891. Ma l'apprezzamento del decreto prefettizio è solamente
pre- ventivo. Ascolti ancora il r. Commissario, senza ritirar la
mano dal berretto, perchè ora ce la mettiamo anche noi: Quando
parlano uomini, come quello; del quale ci apprestiamo a riferir la
parola, si ha il dovere, qualunque sia la posizione dell'a- scoltatore,
di serbare P attitudine del rispetto , che impone la canizie, congiunta
alla scienza ed alla probità indiscutibili. " OSPEDALE CLINICO
DI NAPOLI „ u Certifico io qui sottoscritto che il sig. Alfonso
D'Anna, dal u mese di giugno del volgente anno, somministra a quest'
O- u spedale gli articoli di medicatura (bende compresse, garza
ec.) u e che non ha dato motivo ad alcun reclamo per la buona u
qualità degli articoli somministrati. u In fede del vero {udite !)
ed a richiesta dell' interessato. Napoli 12 novembre 1891
77 Presidente del Consiglio di Ammiitistrasionv {Udite!
udite!) Carlo Gallozzi u Visto per la firma del signor Carlo
Gallozzi nel presente " certificato. u Napoli 23
novembre 1891 u II Delegalo Municipale u Avv. Di Giulio
„ Digitized by Google
— 38 — Dopo di ciò potremmo cessare: abbiamo rivendicato
l'onore di un galantuomo , che per deferenza a noi , come al nostro
predecessore, ha fatto con grandissimi sacrifizi un servizio inap-
puntabile air Ospedale, che fu già affidato alle nostre cure; e ne
avevamo il dovere, dappoiché egli fu calunniato, non per- chè ne avesse
dato il menomo pretesto, ma perchè aveva la sventura d'esercitare uh
servizio così delicato, che, quando non si fa con coscienza, mette in
giuoco la vita degli infelici. Lanciare sul viso ai componenti
della disciolta Amministra- zione T accusa del fatto gravissimo (il regio
Commissario ne intese tutta V importanza) d* aver tollerato a danno degli
in- fermi che quel servizio procedesse nel modo più irregolare che
possa htimaginarsi , era V ingiuria più atroce che si po- tesse far loro.
Essa non ha un equivalente che in quella che si facesse ad un soldato d'
onore di avere tradita la consegna per oscitanza nelP adempimento del
proprio dovere, perchè l'uno e gli altri avrebbero consegnato al nemico
le vite umane, alla lealtà, così dell' uno, come degli altri,
affidata. Rappresentando i componenti del disciolto Governo
come traditori, non per proposito, ma per ignavia, il regio Commis-
sario li ha designati al pubblico disprezzo. A poterlo fare
logicamente però, egli doveva passare a tra- verso del povero D' Anna;
non ostante che questi fosse inno- cente. Ma ciò, che importava? — 11
regio Commissario non ha forse la missione di dimostrare che il decreto
del 31 agosto ultimo era stato giusto e provvido, e che il Prefetto di
Napoli è un fior di filantropo, che , oltre 1' affetto per 1' umanità
soffe- rente, non aveva nessun altro motivo — ci spieghiamo nessun
altro motivo — per volerne alla disciolta Amministrazione, anzi al solo
Soprintendente ? E chi oserà dire che innanzi al bisogno di
ottenere cotesto risultato dovesse arrestarsi , perchè rovinava un padre
di fa- miglia nella riputazione e negli interessi? Il r. Commissario
è milite obbediente e disciplinato, e a la guerre, comme à la
guerre ! Potremmo cessare; ma non vogliamo, perchè il r.
Commis- sario ha pagato di persona , assumendo d' aver egli ,
proprio egli, assodato che i preparati più costosi non venivano
forniti, Digitized by Google
— 39 — e che quelli, che erano apprestati, non solo erano di
pessima qualità, ma ancora di quantità inferiore a quella richiesta. Ora
noi dobbiamo costringerlo con la forza inesorabile della logica a
confessare che non ha detto il vero, o , che in un' ipotesi più mite ,
quando 'parla o scrive , non ha la coscienza degli atti suoi.
Prima di ogni altro rileviamo che non si è contentato di af-
fermare il fatto , che poteva esser caduto sotto la sua perso- nale
osservazione, ma dice che quel fatto fu tollerato dalla di- sciolta
Amministrazione, ossia precedentemente alla sua entrata neir Ospedale e
che ciò l'ha assodato dai reclami di molti prò- fessovi. Direttori di
sale chirurgiche e delle Suore di carità, preposte a tale servizio. Noi
lo sfidiamo a produrre un solo di tali reclami, diretto o alla Direzione
dell' Ospedale od alla So- printendenza od al Governatore del carico; ma
deve produrlo col numero di protocollo, che ne accerti la data di ricezione
dal Segretariato Generale e con la immancabile decretazione, che sta in
tutte le centinaia di migliaia di carte di pugno del So- printendente o
del Governatore Delegato. Se non lo fa, ha scritto una....
inesattezza. Egli dice d' aver assodato di persona i fatti, che
denunzia. Noi gli abbiamo dimostrato che sono reati, ora gli
aggiungia- mo che non potevano esser consumati senza la complicità
delle Suore, del Ragioniere, del vice-Direttore e dei professori di
Chi- rurgia. li D' Anna deve fornire a cottimo tutta quella
quantità di generi, che occorrono per le svariate operazioni. La Suora,
che è preposta al servizio , gliene deve far la richiesta. Egli
deve dalla Suora ritirare la ricevuta di ciò che fornisce , non
solo per garentir sé medesimo dalle sottrazioni, che possono corn-
ili ettere i suoi dipendenti, ma per presentarla alla Ragioneria, che a
sua volta deve mettere a riscontro le richieste con le ricevute, per aver
la pruova che fu osservato il contratto e che si possono compilare i
mandati pel pagamento. Or se la Suora ha fatta la richiesta e non ha
avuto il genere, e come mai avrà rilasciata la ricevuta ? e se non 1* ha
rilasciata, in base a qual documento la Ragioneria avrà preparato i
mandati e sot- toposti alla firma del Soprintendente ?
Digitized by Google — 40 —
Avrà mentito la Suora e il Ragioniere, e perchè ? per far lu- crare
al D' Anna qualche centinaio di lire , che avranno poi diviso fra loro?
Evi si sono arrischiati, non ostante gl'immancabili clamori dei
Direttori di sala, degli assistenti, dei coadiutori ? E impossibile. È
assurdo. Ma sapete voi come si fa la distribuzione dei generi di
me- dicatura ? Vi assiste il signor Tigani, infermiere maggiore,
fun- zionante da Vice-Direttore, o almeno vi si assisteva al tempo
della passata Amministrazione. Senza la sua presenza non si apre un
pacchetto di cotone, né si taglia un metro di garza. Se il genere
richiesto non si trova, o se è di pessima qua- lità o se è in quantità
minore di quella richiesta, Tigani lo deve sapere, lo deve consentire, ne
deve trarre un corrispet- tivo. Senza di lui la frode è impossibile. Egli
non ha fatto alcun reclamo mai, né al Direttore, né al Soprintendente, né
al Go- vernatore del carico; dunque, se la frode è avvenuta, il
com- plice necessario è Tigani. Ma chi è costui? Il r.
Commissario lo sa, quanto noi. È il marito d'una Musolino, stretto affine
di S. E. il Ministro del- l' Interno. Quest' indicazione dovrebbe bastare
per far ricono- scere al r. Commissario quale assurdo egli abbia
sballato, quando ha scritto che i generi più costosi non si fornivano, o
si for- nivano in quantità o qualità diverse dal contratto.
Ma se egli, senza pensare, ha insultato con la sua afferma- zione
un uomo, che per le attinenze familiari ha il dovere di credere onesto,
ha egli pensato almeno all' ingiuria atrocissima, che ha rivolto ai
professori di chirurgia scrivendo quelle insen- sate parole?
Un professore Direttore di Sala, nella più parte dei casi in-
segnante, procede ad una grande operazione chirurgica in pre- senza dei
suoi alunni. Si tratta di una laparotomia, di una ne- frectomia, di una
grande amputazione. Il chirurgo ha fatta una giusta diagnosi; V occhio
della fronte V ha servito bene, come quello della mente; la mano armata
del ferro ha secondato il pensiero. L'angoscia che ha turbato
per tanti giorni l'operatore, più crudele di quella che tormenta il
giuocatore, quando segue con Digitized by
Google 41 lo sguardo smarrito il
moto circolare della rollina , si calma. L'operazione è riuscita; ma!.,
mancano i preparati più costosi per assicurarne il risultato !... La vita
del malato è in pericolo !... T ammalato muore... e non pel fatto del
chirurgo, ma per l'in- gordigia dell' appaltatore delle medicature. Il
chirurgo è costretto a scrivere nel suo passivo una partita perduta per
colpa del- l' appaltatore : deve esporsi alla maldicenza degli emuli ,
alla critica degli invidiosi, alla sfiducia degli alunni, perchè?— Per-
chè il D'Anna gli ha fatto mancare dieci pacchi di cotone fe- nicato o
quindici metri di garza! E il professore tace, e tacciono gli
assistenti, 'e tacciono le Suore e tacciono gl'inservienti e i preti e i
colleghi e gli alunni e tutti, perchè D'Anna possa dare meno di quel che
dovrebbe per lire dodicimila! Eh ! via, ditelo ! non sentite
che quello che avete affermato, di fronte a quel che noi vi diciamo, è un
assurdo di cosi sfol- gorante evidenza, che la sua luce, percotcndo nel
torbido spec- chio della vostra coscienza, rimbalza e vi sospinge fino al
labro ribelle la confessione d' aver mentito ? Prima
di dar la parola a chi ha esercitato, in qualità di Go- vernatore
delegato, al pari di noi, il potere esecutivo dell'Am- ministrazione , al
nostro egregio e carissimo amico cav. Lo Savio, per rispondere a quella
parte della relazione, che tratta delle Condizioni finanziarie della Pia
Casa, sentiamo il dovere di trovare una formola, che chiuda logicamente
questo scritto. L' abbiamo cercata, ma non a lungo, perchè era sul
nostro tavolo un opuscolo , dal titolo — La maggioranza del
disciolto Consiglio Provinciale di Napoli al Paese— Memorandum— 22
gen- naio 1889 — Tipi Giannini, In quest' opuscolo ,
sottoscritto fra altri , anche dall' attuale r. Commissario per la
temporanea gestione della S. Casa degli Incurabili, evvi un capitolo,
intitolato : u Le feste Pompeiane, Un presidente contabile — nel quale
per sei pagine fitte in8 j grande, si leggono a carico d'un uomo, che
copri V ufficio di Presidente del Consiglio provinciale di Napoli, accuse
tali, che parea dovessero, se fondate, sbarrargli per sempre la via
del ritorno all' alto seggio. 3 Digitized
by Google — 42 — Eppure queir
uomo v' è ritornato e col voto dei r. Commis- sario, sottoscrittore del
ricordato memorandum ! Anzi, a dimo- strazione palpabile della confessata
calunnia; queir uomo con- cede a questo il permesso di farsi nominare suo
Vice-Presidente e di portarsi insieme con lui nella stessa lista candidato
a con- sigliere comunale di Napoli ! 11 capitolo, cui
alludiamo, è preceduto da una epigrafe tolta dal libro dei Proverbi, Capo
26 n. 27, nel suo testo latino, e con la corrispondente traduzione
italiana. È la conclusione più calzante, che si possa dare a tutto
quanto innanzi abbiamo detto. Qui
fodit foveam incidet in eam, et qui volvit lapidem, re- vertetur ad
eum. Chi scava la fossa vi cadrà, e la pietra cadrà addosso a chi
l'ha smossa! Napoli, 30 Novembre 1891. Alfonso
Vastarini— Cresi Digitized by
Google Parte Seconda Digitized
by Google t è
Digitized by Google
£S^D^og5^.. Digitized by
Google — 71 — PERSONALE AMMINISTRATIVO E
SANITARIO Gravissima, dice il rapporto, é la quistione del
personale am- ministrativo , sanitario e di assistenza addetto alla pia
Casa. Esso, calcolate le pensioni, assorbisce quasi la metà delle
ren- dite nette del Luogo pio. E di ciò sono responsabili tutte le
amministrazioni, non esclusa l'amministrazione Vastarini-Cresi, che è,
manco a dirlo, la più colpevole. Dopo ciò ognuno s'aspetta di
sentire, non solo in che consista questa colpa , ma quali sono i criteri
del r. Commissario per procedere ad una razionale riforma del personale
amministra- tivo , sanitario e di assistenza: di questi due ultimi
specialmente che assorbiscono i quattro quinti di quella metà delle
rendite di cui parla il regio Commissario. Ma niente di tutto
ciò. Il Regio funzionante sa che un eser- cito di 1*20 professori, 86
inservienti, 50 infermiere o caminanti, 36 suore di carità, 20
ecclesiastici, rattoppatrici, lavandaie, ba- cilari per i teatri
anatomici e trasporto de' cadaveri , uscieri, portieri; oltie un
personale speciale per i gabinetti batteriolo- gico, idroterapico,
chimico, elettroterapico, ortopedico ecc., in- sieme ai letti, biancheria
, locale ecc. formano proprio V opera ospedaliera. Dire che la somma
sjjesa per tale personale è sot- tratta al mantenimento dei malati è lo
stesso che dire che la spesa per le indennità ad un segretario ed un
ragioniere di prefettura che aiutano il r. Commissario a dire tante corbellerie
ed i de- nari sciupati nello stampare tante calunnie , sanano le
piaghe dei poveri infermi!!... E un argomento a contrariis, come
dicono gli scolastici. Ma tanto è vero che lo scrittore o
firmatario del rapporto sa- peva che il personale sanitario e di assistenza
non dovesse es- sere compreso a titolo di biasimo nell'ammontare della
spesa sottratta al mantenimento dei malati , che immediatamente se
ne scorda, e restringe i suoi benevoli, quanto esatti apprezzamenti,
al personale amministrativo. Ed allora perchè parlare, con
evidente malafede, di metà della Digitized by
Google spesa sottratta alla cura dei poveri infermi?
Perchè non par- lare col linguaggio onesto delle cifre, e dire che, sopra
un'en- trata annua che rasenta il milione, la spesa del personale
am- ministrativo è di lire 63,010.00 e non oltre , e che in questa
sono compresi gli stipendi ed i salari per tutto il personale della
Direzione ospedaliera e sue dipendenze , che potrebbe a buon dritto dirsi
destinata al servizio sanitario ? Se il regio Commissario fosse
stato assistito da buona fede e non avesse dovuto rispondere alle
esigenze di una diffamazione organizzata a detrimento di parecchi
galantuomini , si sarebbe reso conto delle innumerevoli difficoltà
amministrative della azienda affidata alla sua temporanea gestione, ed
avrebbe con- statato di quale e quanta attitudine, di quale e quanto
concorso efficace di tutti fa d'uopo per porsi in grado di veder
chiaro in ogni singolo atto amministrativo e nel complesso di
tutti. Se di ciò si fosse reso conto il r. Commissario non si
ve- drebbe ora posto alla gogna delle nostre categoriche smentite.
Ma rientriamo presto nell'argomento della spesa pel personale amministrativo
e sbrighiamocene in poche parole. Col regolamento generale del pio
Luogo del 1879, con le piante N. 1 e '*, la spesa per gli stipendii
amministrativi fu fissata a L. 40,420.00 a cui aggiunto il compenso di
esazione dovuto al tesoriere, compreso in detta pianta, ma non indicato,
per il suo ammontare di L. 4000,00, si ha un totale di. . L.
41,420.00 le quali, con le modificazioni al regolamento delibe-
rate nel 1885, discesero a L. 42,160.00 Però con l'attuazióne di
detta pianta un personale di stralcio rimase tagliato fuori, ma che però
presta- va un servizio indispensabile, e che nel 1886 gravava sul
bilancio per L. 20,850.00 Sicché la spesa totale annua fu di L.
63,010.00 come fu rinvenuta dal Vastarini-Cresi.
L'amministsazione da questo presieduta, con deliberazione 17
novembre 1889 , approvata dalla Giunta provinciale il 21 gen-
Digitized by Google — 73 —
naio 1890, approvò una nuova pianta per l'ammontare di li- re
63,880 ridotta poi a L. 57,680.00 Mantenne fuori pianta alcuni
impiegati che gravano sul bilancio per L. 5,330.00 sino a
raggiungere le L. 63,010.00 che si pagavano prima. Se
il regio Commissario non ha perduto, fra l'altro, la virtù di comprendere
l'eloquenza delle cifre, dica come L. 63,010.00 sono superiori a L.
63,010.00. E se questa è la sostanza, qual valore possono avere gli
ap- prezzamenti del r. Commissario? Meno male che non ha
trovato modo di giustificare, con ar- gomenti simili a quelli adoperati
finora, la formazione di una novella pianta per il personale contenzioso
come fece la rela- zione ministeriale. E per quanto riguarda la voluta
pianta per il personale tecnico e l'aumento dei farmacisti, riproduciamo
dal ricorso alla IV sezione del Consiglio di Stato il brano che a
questi due argomenti si riferisce: « Non differenti apprezzamenti
l'altro appunto sulla spesa deliberata per gl'Ingegneri. «
Basta far notare che la Giunta provinciale amministrativa ha approvata
tale spesa (Vedi verbale 16 settembre 1891 per notar Merola), renduta
necessaria dalla esecuzione del contratto per l'assunzione a partito
forzoso delle rendite e della manu- tenzione dei fabbricati ; e che,
approvata per lire 7,000, se ne sono assegnate solo 4680 per tre
ingegneri ispettori, che deb- bono vegliare alla esecuzione della
manutenzione. « Qui però cade in acconcio far notare che non si
tratta di una spesa di carattere organico e permanente , ma
puramente transitorio , che vive la vita di un' esercizio finanziario, e
che, mentre, il contratto di manutenzione ha avuto principio il 4 maggio
1890, la spesa per gli ingegneri ispettóri non ha gravato
Digitized by Google — 74 —
« neanche il bilancio 1891, essendosi stanziata per la prima
volta sul bilancio del 1892. (( E si noti ancora che uno
degli ingegneri ispettori, il signor Errico Migliaccio, era già impiegato
antico dell'Amministrazione con uno stipendio uguale a quello che oggi
percepisce in lire 1680 e che perciò in definitivo la novella spesa si
riduce a L. 3000.00. « Se l'amministrazione disciolta ha in
ultimo chiesto all'au- torità tutoria r autorizzazione per aumentare uno
e non due posti nell'organico dei farmacisti, ciò ha fatto per le
aumentate esigenze del servizio. « In fatti, oltre che l'uso
delle specialità chimiche e l'introduzione degli alcaloidi mila
farmacopea rendono più penoso il servizio far- maceutico,
l'amministrazione ha impreso a fornire i farmachi a due altri istituti
Pii, al Manicomio provinciale di S. France- sco di Sales, ed ai tre
ospedali (Vita, Cesarea e Loreto), dipen- denti dal Reale Albergo dei
Poveri. Come possa l' antico perso- nale rispondere alle nuove esigenze
lo dica l'imparzialità della IV Sezione del Consiglio di Stato (e qui la
verecondia del R. Commissario ! ) « Da tutto ciò chiaramente
emerge che non infruttuosi ri- chiami della R. Prefettura vi furono , non
aggravio di novelli stanziamenti nel 1891 per un aumento di personale,
non crea- zione di nuovi organici, non ingiustificata proposta di
aumento di farmacisti ; ma vigile e solerte cura degli amministratori
nel migliorare le rendite del pio Istituto e nel restringere il
pas- sivo nei limiti del puro necessario ». E tutto ciò
potrebbe bastare in risposta alle calunniose men- zogne contenute per
questa parte nel rapporto del R. Commis- sario. Ma per dare un'altra
prova della serietà dei suoi studii giuridici, a titolo di amenità,
riportiamo l'articolo 231 del re- golamento del pio Luogo, dal quale
vorrebbesi trarre l' obbligo da parte degli ingegneri inscritti nell'
albo , a norma dell' art. 222, di prestar l'opera loro gratuitamente per
l'ispezione per- manente di cui nel contratto di manutenzione.
Digitized by Google — 75
— « Art. 231. In generale, per tutti i lavori commessi agli
in- a gegneri ed architetti, questi non hanno dritto a riscuotere «
compensi o rimborsi di spese dal pio Luogo e salvo ai medesimi lo
esigere direttamente dagl' intraprenditori « nel caso di esecuzione delle
opere e senzi responsabilità del Pio Luogo, « quei diritti e rimborsi che
potessero loro competere. Non è il caso di far commenti ! ! !
Che dire poi dello appunto fatto per aver dato un alloggio
conveniente al Direttore dell' importante nosocomio ? Ha compreso
perfettamente il R. Commissario che, votata la nuova pianta , non era più
il caso di far ricorso alla disposi- zione del regolamento, che assegnava
al Direttore una casa della pigione di L. 400 all'anno, ed allora ha
detto che lo alloggio, di cui parla la nuova pianta , dovesse limitarsi a
due o tre stanze nello interno dell'ospedale. Per verità, se
V autore del rapporto si fosse doluto che un sem- plice infcrmieie
maggiore occupa una casa alla discesa Maria Longo della pigione di L. 125
al mese sol perchè parente d' un Mini- stro (e che Ministro!) lo avremmo
compreso, tanto più che ora il R. Commissario ha concesso allo stesso
impiegato un allog- gio suppletivo come fosse un supplemento di stipendio
! Ma rivolgere censura air amministrazione Vastarini per aver
concesso al Direttore un alloggio rispondente alla importanza del posto
che occupa, è la prova provata che il R. Commissario, compreso dal
voluttuoso desiderio di riuscir gradito al sig. Pre- fetto, ha voluto
parlar del Direttore in un modo purchessia, co- noscendo che la corda
sensibile del cuore del chiaro uomo che siede sulle cose della Provincia
di Napoli avrebbe vibrato con insolita frequenza! C'intendiamo, onorevole
R. Com- missario? LAVORI Se per combattere le
altre affermazioni del R. Commissario ci ò bastato riassumere le accuse
uà esporre i fatti da cui ri- Digitized by
Google — 76 — sultava la evidente malafede
con cui lanciavansi tali accuse; per quanto riguarda la rubrica lavori
non possiamo fare altrettanto. Sono così condensate e tante le ingiuste
affermazioni del R. Commissario, che bisogna averle presenti nel loro
contesto per comprendere, dopo averle esaminato, qua! malgoverno si è
fatto della riputazione dell' amministrazione Vastarini col famoso
rapporto. Prima però di esporre i brani testuali della relazione del
R. Commissario, faremo precedere una breve ma chiara esposizione
dello stato contabile e contrattuale dei lavori , prima dell' am-
ministrazione Vastarini , cioè fino a tutto dicembre 1889 , du- rante il
1890 , e per il periodo dal 30 dicembre 1890 al 2 set- tembre 1891, che
riguarda la dimoila amministrazione. Il 28 febbraio 1884 F
amministrazione presieduta dal signor Conte Spinelli, dietro regolare
autorizzazione della Deputazione provinciale, e previo esperimento dei
pubblici incanti, stipulò con gF imprenditori Vincenzo d'Errico, Mauro
Abate e Antonio d'Ambrosio un contratto di appalto generale per tutti i
lavori bisognevoli ai fabbricati del pio Luogo, di muratura ,
falegna- meria e dipintura, per qualsivoglia ammontare e per la
durata di tutto il dicembre 1889. La tariffa posta a base di tale
con- tratto era quella del genio civile, il ribasso contrattuale per
i lavori in muratura era il 6 OjO, la liquidazione ed il pagamento
si convenne dovesse farsi dietro regolare misura degli ingegneri
direttori dei lavori. In virtù del suddetto contratto furono
affidati ai suddetti im- prenditori tutti i lavori di manutenzione dell'
ospedale e del va- stissimo patrimonio urbano appartenente al Pio luogo;
i lavori di riparazione e rifazione delle diverse infermerie dell'
ospedale; od in fine tutti i lavori necessari a ricostruire e ritornare
in parte il diruto ex monastero della Consolazione appartenente al
Pio luogo e clie non dava un soldo di rendita. Iniziati tali lavori
nel 1884, furono alacremente proseguiti negli anni successivi.
Nel 1886 però in parecchi importantissimi caseggiati del
Digitized by Google — 77 —
Pio luogo, per le condizioni speciali del sottosuolo di Napoli, per
Io stato deplorevole delle fondazioni dei fabbricati di Na- poli in
generale, per le infiltrazioni delle acque di Serino, e per il rigurgito
di quelle delle antiche conserve , sopravvennero schiacciamenti e lesioni
in gran numero con imminente peri- colo di mina di molti fabbricati, per
cui fu necessario accor- rere prontamente ad eseguire le più urgenti
riparazioni. Ognuno comprenderà di leggieri che ci riesce
impossibile in- dicare la spesa occorsa per tanta e cosi importante
quantità di lavori, per non avere a nostra disposizione la ragionerìa o
l'ar- chivio del Pio luogo e perchè non riguardano gestioni della
di- sciolta amministrazione. Però basterà fai* sapere che a
chiusura di conto 1889, dietro ordini severissimi e perentori del Vastarini,
i sig. ingegneri del Pio luogo fecero pervenire tutte le misure dei
lavori ordinati dalle precedenti amministrazioni ed eseguiti nel 1887,
1888 e 1889 e, secondo la liquidazione fatta dalla Ra- gioneria del Pio
luogo di tali misure , il loro ammontare com- plessivo ascese alla cifra
di lire 211,003:89, di cui figurava pa- gata la somma di lire 42,841:00,
era a pagar la rimanenza di li- re 168,162,89 (1). (I) Nelle
suddette misure liquidate perla suindicata somma di lire 211003.89 figuravano
: L. 70 mila circa per lavori di sottofondazione e ricostruzione
eseguiti nel gran caseggiato a via Cisterna dell' Olio ; L.
50 mila per lavori eseguiti nel locale dell' ex monastero della
Consolazione, pel quale si erano spese, negli anni precedenti, altre L.
70 mila già pagate, e ciò allo scopo di ridurre detto locale
redditizio. L. 20 mila per lavori di sottofondazione e
ricostruzione nel fabbricato in via Carbonara n. 109. L. 13
mila per consimili lavori eseguiti nei caseggiati in via Montagnola ;
L. 150 mila in uno per lavori di carattere straordinario e patrimoniale.
Le ri- manenti L. 70 mila rappresentavano V importo dei lavori
eseguiti nel 1889 per la manutenzione dei caseggiati e del fabbricato
ospe- daliero, non che per la rinnovazione di due infermerie ncll'
ospe- dale stesso. Digitized by
Google A — 78 — Poiché
però si avea ragione di ritenere che la liquidazione eseguita dalla
ragioneria non fosse stata rigorosamente esatta e le misure stesse
inviate dai sig. ingegneri risentissero della fretta con cui erano state
compilate, il Governo si riserbò di sottoporre le liquidazioni dei lavori
ad una severa revisione con- tabile, tecnica e contrattuale. E, come fu
dichiarato a pag. 21 della relazione morale a stampa sul conto 1890, «
tale revisione « eseguita per la parte tecnica dall' egregio prof.
Udalrico Ma- « soni, per la parte contabile e contrattuale dalla
Segreteria e « dal Governatore Lo Savio (non dalla ragioneria) si ottenne
una (( RIDUZIONE D2 SPESA SULLA SEMPLICE PARTITA DELLE OPERE MURARIE
« di ben l. 33,670:53 ». Se si tien conto che di tutti i
lavori liquidati a chiusura di conto 1889, solo una minima parte, per
pochissime migliaia di lire e per bisogni impellenti, fu ordinata dal
Vastarini : — che tutti iudistintamente tali lavori furono eseguiti in
base al rego- lare contratto del 26 febbraio 1884 e per bisogni
riconosciuti dai precedenti amministratori: — che sulla primitiva
liquidazione già approvata dall'autorità tutoria, si fece la rilevante
economia di L. 33,670.53 come risulta dal rendiconto 1890: che la
disciolta am- ministrazione infine non fece essa la spesa, ma fu ben essa
in- vece a far Y economia suindicata, se si tien conto di tutto
ciò, Ora trattandosi di lavori eseguiti nel 1889 ed anni
precedenti, la responsa- bilità non può spettare ai Vastarini, nò per
quanto si riferisce alla ordinazione loro, nò per quanto tiene alla
esecuzione. E se tale responsabilità non spetta al Vastarini, molto
meno spetta alla dì- sciolta amministrazione che fu nominata con decreto
30 dicembre 1890. Se però si fa accenno a tale divisione di
responsabilità, è perchè il R. Com- missario sappia a chi sono dirette le
sue ingiuste e calunniose osservazioni. Che per quanto tiene al merito
degli apprezzamenti suoi sugli atti compiuti dall' amministrazione
Spinelli, sappia il R. Commissario che per tutta la gran quantità di
lavori eseguiti dal 1884 in poi, essa non ebbe bisogno di altre ri- sorse
straordinarie fuorché delle lire 60(X) di rendita alienate nel 1888, le quali
furono compensate dal maggior utile rctratto dai locali della Consolazione,
che ora rendono L. 14 mila all'anno. Digitized
by Google — 79 — diciamo,
qual uomo di buona fede presterà ascolto ai calunniosi apprezzamenti del
R. Commissario ? Questo per quanto si riferisce ai lavori eseguiti
fino a tutto il 1889. Per quanto poi riguarda i lavori
eseguiti nel 1890 bisogna aver presente che, scaduto il contratto con gì'
imprenditori d'Errico, d'Ambrosio ed Abate col 31 dicembre 1889 e procedutosi
a cottimo chiuso col Forino per la riscossione delle rendite e ma-
nutenzione dei fabbricaliy il quale contratto dovea avere il principio
della sua esecuzione col 4 maggio 1890, era giuocoforza prov- vedere alla
manutenzione dell'importante patrimonio immobi- liare per 4 mesi, cioè
dal 31 dicembre 1889 al 4 maggio 1890. Se negli anni precedenti la
manutenzione aveva assorbito la somma di lire COmila all'anno, tutto
lasciava supporre che tale manutenzione per un quadrimestre (e nei 4 mesi
invernali spe- cialmente) avrebbe assorbito la somma di oltre L.
20mila. Dall' altro canto il Forino, che in tale quadrimestre dovea
pro- cedere ai novelli affitti per suo conto, avea il massimo
interesse a che gli accomodi locativi fossero fatti in conformità dei
patti da stipulare con i nuovi inquilini, verso dei quali egli era 1'
u- nico responsabile. Perciò l'amministrazione con deliberazione 12
gennaio 1890 concesse a forfait al Forino la manutenzione anticipata di
tutti gli stabili compresi nel capitolato di appalto per il compenso
unico di L. lOmila. Se il R. Commissario si fosse fatto guidare da
quel sentimento di onesta equanimità che invano si cerca nelle 45 pagine
del suo rapporto, avrebbe dovuto rilevare che i soli preventivi già
presentati dagli ingegneri per lavori di manutenzione, fino al 12
gennaio, epoca in cui fu adottata la deliberazione, superavano le L* i
Ornila accordate al Forino come compenso a cottimo per lutto il quadrimestre.
Né valga il dire che bisognava sottoporre all'approvazione
dell'autorità tutoria tale, deliberazione , poiché la spesa trova- vasi
stanziata in bilancio e veniva erogata in limiti molto in- feriori allo
stanziamento corrispondente; e poi , approvato dal- Digitized
by Google — 80 — T autorità
tutoria il contratto Forino, non era neeessario sotto* porre a novella
approvazione un atto che, altro non faceva che anticiparne la esecuzione,
anticipandone i vantaggi. Esposte queste indispensabili notizie
sullo stato contabile e contrattuale dei lavori , veniamo alle accuse
ganeriche del R. Commissario. Udite : « Dopo gli
stipendii, la spesa che fino ad ora ha assorbito le k migliori risorse
della Pia opera, ò stata quella dei lavori d'ogni « genere che si sono
eseguiti, laddove, essendo la manutenzione « dei fabbricati appaltata al
riscuotitore di essi, non si sarebbe a dovuto che erogare le somme
occorrenti nei lavori di carattere « straordinario che si fossero potuti
verificare ed in quelli di « manutenzioae del fabbricato ospedaliero e
delle poche case, la a cui esigenza è mantenuta direttamente
dall'Amministrazione b. Se quest'accusa generica fosse stata
corroborata con esempii, per verità la serietà del R. Commissario se ne
sarebbe avvan- taggiata un tantino, non fosse altro nella forma, pur
rimanendo vacua nella sostanza. Ma veniamo a discuterla. Se
si tratta di lavori eseguiti fino a tutto il 18R9, questi non ci
riguardano, come abbiamo dimostrato: e d' altronde, non es- sendo la
manutenzione appaltata, ma eseguita in economia, in base a regolare
contratto per la valutazione dei lavori, e com- prendendo gran parte
delle somme spese fino a tal epoca; lavori necessarii alla conservazione
del patrimonio, l'accusa si appa- lesa ingiusta e calunniosa per tale
periodo precedente al di- cembre 1889. Se poi si tratta di
lavori eseguiti nel 1890, bisogna aver pre- sente: 1. Che il
contratto della manutenzione a cottimo ha avuto inizio il 4 maggio 1890 e
che perciò la manutenzione per un quadrimestre era a carico dell'
amministrazione la quale erogò la somma suddetta di L. 10,000.00
2. Che essendo esclusa dal contratto Forino la manutenzione dell'
Opera ospedaliera e sue di- Digitized by
Google — 81 — pendenze , tale manutenzione
preventivata per lire 18mila si è verificata, per le opere straor-
dinarie occorse nell' ospedale, per ....;) 28,376.41) (1) 3. Cke è
occorso pagare col bilancio 1890: a) Parte dei lavori eseguiti nel
1889 per ri-', fare la seconda sala donne . . L. 3954,60] b)
Parte dei lavori eseguiti anche f nel 1889 per ricostruire la sala
oftal- ; 11,240.80 (2) mici s. 4000,001 e) Parte dei
lavori eseguiti per la ] lavanderia a vapore ;, 3292,20'
4. Che non essendo comprese nel contratto Forino le case soggette
ad espropriazione per un valore di L. 700 mila, e non essendo state
espro- priate per tutto il 1889, come si era convenuto, è stato
giocoforza manutenerle per poterle af- iìttare, erogando una somma
di circa . . » 6,000,00 Tutte le suddette somme hanno gravato sul
bi- lancio 1890 per lo ammontare complessivo di » 55,623.36 E
sapete voi, onorevole regio Commissario, per quanto figura nel consuntivo
1890 la cifra riguar- dante la partita lavori, ossia per gli art. 14 e
44 del bilancio ? figura per » 68,702,11 Da cui sottratta la somma
di L. 55,623.36, che ha gravato sul 1890 per le cause su esposte,
si ha che la spesa sostenuta in detto esercizio per i lavori straordinari
è di sole .... » 13,079.76 (1) Vedi conto del Tesoriere 1890 e relazione
a stampa del Segretario Ge- nerale del Pio luogo su detto conto pag. 10.
donde risulta che sull'art. 44 (Fabbricato ospedaliero) fu fatto uno
storno in aumento per L. 10,37f>,46. (2) I lavori (a) furono
eseguiti dai fratelli Russo con regolare contratto su preventivo degli
ingegneri Giambarba e Curcio ed ammontarono a L. 12 mila circa — I lavori
(b) furono eseguiti dal D* Errico in base al contratto 28 feb- braio 1884
— I lavori (e) dallo stesso D' Errico col citato contratto 28 febbraio
1884 e per speciale autorizzazione dell' autorità tutoria (Ingegnere
Fulvio). 6 Digitized by
Google* — 82 — E tenuto conto dello stato
gravissimo di molti fabbricati, dei lavori che si sono eseguiti a piazza
Cavour, a Porta Carrese a Montecalvario , a Cisterna dell' Olio ecc.,
domandiamo alla lealtà del R. Commissario se gli pare, non diciamo
grossa, tale cifra ma almeno sufficiente a provvedere ai più urgenti
bisogni. Ed allora perchè buttare delle frasi generiche e vuote e
che non sono altro se non la espressione della più sballata posa da
grand' uomo ? Ma qui non s' arresta il R. Commissario. Egli seguita
a dire: I lavori si eseguivano senza autorizzazione, senza contratto,
senza preventivo, illegalmente, per colpa sempre
dell'Amministrazione, che anzi, con suo rincrescimento, .ce ne dispiace
davvero per lui) in ciò ha riscontrato le maggiori colpe e le più gravi ;
fino al punto da essere indotto ."senza rincrescimento, crediamo) a
pro- muovere giudizio di responsabilità verso i passati
amministratori. Era naturale. Premessa la incoscienza completa ed
assoluta delle condizioni contabili e contrattuali dei lavori e la
deplore- vole costante oscitanza delle disposizioni di quelle leggi
che invoca sempre a sproposito, un simile linguaggio, se non si
scusa si spiega ! È il linguaggio di tutti coloro che, a corto di
argo- menti e di fatti, vogliono produrre una certa impressione.
E diciamo a corto di argomenti e di fatti; perchè quelli citati dal
R. Commissario stanno contro la sua tesi. Esaminiamoli.
Sarebbero illegali i lavori eseguiti per riduzione della casa del
Direttore dell' Ospedale, perchè ordinati dal Soprintendente Vastarini,
in data 10 dicembre 1 889, senza autorizzazione del Con- siglio.
Per lo statuto organico del pio Luogo il Sopraintendente è il
potere esecutivo dell' amministrazione. Il Consiglio vota il bi- lancio
preventivo , il Sopraintendente spende le somme tutte comprese nei singoli
capitoli del bilancio. Tale disposizione , chiara, categorica, precisa ,
giammai sconosciuta o posta sem- plicemente in dubbio dall' autorità
tutoria , dava il diritto al Soprintendente di autorizzare la spesa per
quello, come per al- Digitized by
Google — 83 — tri lavori — E tale spesa fa
primieramente autorizzata per Li- re 3000 e si elevò a Lire 8278,62 per
essersi riconosciuta po- steriormente la necessità di rifare i lastrici
solari grandemente avariati. E tali lavori furono eseguiti dallo
imprenditore d' Er- rico in virtù del contratto 28 febbraio 1884, con uno
speciale ribasso del 10 0[0 ottenuto dal Soprintendente,
Sarebbero illegali , secondo il rapporto del R. Commissario , i
lavori eseguiti a Piazza Cavour, :c per i quali dall'Ingegnere « Curcio
il 22 dicembre 1890 furono presentati quattro conti « ammontanti ciascuno
a Lire 499,97, 499,94, 499,96, 423,55». Per i gravissimi ed improvvisi
danni manifestatisi nei fab- bricati a Piazza Cavour nel settembre 1890,
fu dato ordine im- mediato agli ingegneri Curcio e Fulvio di far procedere
alla puntellatura della estesa zona di case pericolanti ed ai
lavori pili urgenti per assicurarne la stabilità. Nel tempo stesso
ai suddetti signori ingegneri fu dato incarico di preparare un
esti- mativo generale e complessivo per la sistemazione definitiva
di tutta la zona dei fabbricati minaccianti ruina. Non
ostante ripetuti richiami dall'Amministrazione, i suddetti ingegneri
tardarono a preparare V estimativo, per non essere fa- cile rendersi un
conto preciso dello stato delle fondazioni e per non potersi procedere ad
una prova di esse, pendente una perizia giudiziaria, che si espletava per
assodare la causa delle lesioni. Sui primi di dicembre,
impartiti gli ordini a tutti gì' inge- gneri di liquidare senza ritardo,
sia con misure finali, sia con misure parziali, tutti i lavori eseguiti
nel 1890, agli effetti della chiusura di conto; V ingegnere Curcio inviò,
per quelli eseguiti a Piazza Cavour, le quattro liquidazioni indicate dal
R. Com- missario. Però, mentre furono inviate alla ragioneria
per essere te- nute presenti agli effetti del conto lavori 1890, allo
steso inge- gnere Curcio fu impartito l'ordine di presentare il
preventivo generale complessivo e comprendervi anche lo ammontare dei
lavori eseguiti e liquidali, acciò la Giunta provinciale, esaminando
la Digitized by Google
— 84 — pratica, potesse avere sott' occhio la vera e precisa
esposizione delle cose. E così avvenne. Inviato dagli
ingegneri Curcio e Fulvio il preventivo generale in cui i lavori già
eseguiti e liquidati erano com- presi non solo, ma portavano una speciale
indicazione, fu dal Governo, con deliberazione 12 Febbraio 1891 ,
approvato tale preventivo per lire 7260,94, e tale spesa fu sanzionata
dall'autorità tuto- ria alla quale furono esposti i fatti nel modo
surriferito. Non pare al R. Commissario che prima di lanciare una
ca- lunnia, avrebbe avuto il dovere di esaminare l'incartamento di
piazza Cavour, piuttosto che prendere a casaccio delle mi- sure in mano e
dirne di così marchiane ? Porti i nostri rin- graziamenti a chi lo ha
servito così bene: egli lo conosce !!! Non occorre parlare dei
lavori di manutenzione concessi a fortait al Forino per il quadrimestre
gennaio-maggio 1890 e per L. 10 mila, avendone discorso estesamente
innanzi. Non siamo in grado di dare una risposta air accusa
che riguarda i lavori del 1891 coi numeri del registro di ragione-
ria 7, 17, 34, 35, 36, 37, 48, 51, 68, 69, 74, 75, 77, 78, 80, 81, 82, e
83 (tombola !) ammontanti a L. 6000 complessivamente , perchè non abbiamo
presente il registro di ragioneria e non ci ha fatto l'onore il R.
Commissario di indicare la natura dei lavori eseguiti, altrimenti avrebbe
avuto per questa parte la degna risposta. Però è facile
argomentare che, trattandosi di 18 lavori dif- ferenti per T ammontare di
L. 6000, deve ognuno avere un im- porto inferiore a L. 500, e deve
riguardare ognuno una sin- gola partita di lavoro. Prosegue
il R. Commissario che sono illegali « i lavori in « corso di restauro
della casa in via Oronzio Costa n. 12 afB- « dati senza contralto all'
appaltatore medesimo e che egli ha fatto « perciò immediatamento
sospendere ». I lavori in via Oronzio Costa n. 12 sono lavori in
condominio e riguardano sottofondazioni e ricostruzioni di muro comune,
e furono concessi, di accordo fra tutti i condomini, all' imprendi-
Digitized by Google — 85
— tore Francesco Palmieri con conlraUo privalo del 27 ottobre
1890 {Beg. n. 9580 ufficio atti priv. il 6 novembre 90, voi. 63 fol.
117 ecc.), tra la S. Casa, Antonio Zampella, Cristina Pizzoli e Ni-
cola Tagliatetela. La tariffa che è a base del contratto è quella
Folinea del 1886, tipi Giannini. Ah! occhi di lince d'un R.
Commissario ! !.... Non è altrimenti vero e non risulta dall'
incartamento, a cui fa appello il R. Commissario, che i primi lavori
della lavanderia si siano dovuti distruggere per non essersi posto mente
a pro- porzionarli alla dimensione delle macchine; ma invece si son
dovuti modificare i primitivi lavori per modifiche apportale dallo stesso
fornitore delle macchine Ing*De Bollari nella dimensione ed ubica- zione
di queste. Ciò risulta da un rapporto dell' Ing. Fulvio di cui non
ricordiamo la data e che è negli atti. Né possiamo tampoco
preoccuparci dell'altro appunto pel quale si vorrebbe far credere che
sono stati posti a carico della S. Casa dei lavori per l'ammontare di
lire 2360,69 che avreb- bero dovuto cedere a carico di Forino. La
stessa forma generica dell'accusa, la dimostrata ignoranza da parte del
R. Commissario dei patti e condizioni del capito- lato di appalto, ci
autorizzano a ritenere che', tali lavori sono stati posti a carico della
S. Casa, perchè sono dipendenti da al- tri lavori di costruzione di
volte, muri maestri o fondazioni. E ciò conformemente a quanto è
disposto nel capitolato, il quale pone a carico del pio Luogo la spesa
per lavori straor- dinarii di costruzione ecc. e per lavori da questi
dipendenti. La dimostrazione poi dell' asserita mancanza di preventivo,
nella esecuzione dei lavori il R. Commissario dice, che « è ri- « sultata
dall' aver fatto verificare da un ingegnere di sua fi- « ducia(sic)
alcuni lavori nell'ospedale a pagamento delle donne, « per i quali, negli
ultimi giorni dell'Amministrazione Vastarini, « era stato presentato
dall'ingegnere Migliaccio un preventivo « e dall'essersi trovato che i
lavori stessi erano invece da tempo « stati eseguiti ». Perii che,
opportunamente interrogalo il Migliaccio, Digitized by
Google — 86 — ha per iscritto
dichiarato che i lavori erano slati [verbalmente ordinati
dall'Amministrazione dicendoglisi di compilarlo poi il preventivo per
cor- redo della pratica ecc. Anche a quest'altra speciosa ed
amena invenzione una breve e precisa smentita. Sorto il
bisogno di riformare il reparto dei pagamenti donne, fu dall'
Amministrazione dato incarico air ingegnere Migliaccio di compilare il
preventivo per tali lavori. Il preventivo fu re- golarmente compilato ;
furono banditi i pubblici incanti per lo appalto dei lavori stessi e ne
rimase aggiudicatario l'imprendi- tore Vincenzo d'Errico col ribasso del
33 0[0. Essendosi però preveduto il caso del probabile aumento
dei lavori oltre il limite del preventivo , nella bozza del
capitolato di appalto preparato dalla Segreteria , il Governatore Lo
Savio (quello in balia di cui restava l'amministrazione, secondo la
re- lazione ministeriale) aggiunse di suo pugno la clausola, che in
caso di aumento dei lavori per qualsiasi ammontare, anche oltre il quinta
voluto dalla legge (quella sui lavori pubblici, onorevole R. Com-
missario ! ) / lavori si sarebbero intesi fatti alle medesime condizioni
del- r aggiudicazione. L' aggiudicazione avvenne , come
abbiam detto col 33 OjO di ribasso. Lungo il corso dei lavori
il Governatore Cosenza, che sorve- gliava personalmente l'andamento di
essi, riconobbe la neces- sità di aumentarsi il numero delle camere a
pagamento, e quindi di accordo col Soprintendente e col Governatore Lo
Savio, diede ordine di trasformarsi a camere a pagamento per le donne
un gran salone che aveva prima avuto altra destinazione. Da ciò 1'
aumento di lavori e la necessità di un preventivo suppletivo per
integrare la pratica. Ma era naturale che essendosi preveduto nel
capitolato di ap- palto il probabile aumento dei lavori, ed essendo stati
valida- mente garentiti gli interessi della S. Casa con la clausola
su- . espressa, si poteva anche far di meno dell'altro preventivo;
potendo bastare che nella misura finale fosse compresa la mag-
Digitized by Google — 87 —
gìor quantità di lavori eseguiti alle tnedesime condizioni della
pri- mitiva aggiudicazione. Questo è quanto risulta dai
documenti, onorevole R. Commis- sario, ed affermando il contrario, (ciò
che non può essere) l'in- gegnere Migliaccio ha mentito. E
forte dubitiamo che l'ingegnere Migliaccio abbia affermato ciò che
asserisce il R. Commissario ; perchè , almeno questa volta , trattandosi
di una dichiarazione scritta, avrebbe dovuto pubblicarne il testo
preciso. Non diciamo parola sul fatto per il quale il R.
Commissario dice di aver prodotto formale denunzia air autorità
giudiziaria, poiché non saremo noi che preoccuperemo il libero corso
della giustizia. Però non vogliamo tacere che non può un'ammini-
strazione essere tenuta responsabile dell'accordo fraudolento tra un
ingegnere ed un imprenditore, se tale accordo vi fu. Dopo avere
esposto con la maggiore brevità possibile , ma crediamo, con ugual
chiarezza, l'organizzazione di questo ramo di servizio , e dopo aver
distrutto i fatti che dal R. Commis- sario sono posti a base dei suoi
ingiusti apprezzamenti, vegga ognuno se le ultime parole contenute nel
suo rapporto che ac- cennano a enorme disordine, ad abusi, a sistematico
disprezzo delle leggi, possono meritare una seria considerazione o non ci
autorizzano piuttosto ad esclamare: :: Le sue parole ci fan
1' effetto che ci farebbe fuso di femi- netta o di fanciullo stocco!...
FORNITURE Coloro che hanno seguito la storia dello
scioglimento del- l' Amministrazione degli Incurabili, ricorderanno che,
fra le ac- cuse della relazione ministeriale, ve n'era una la quale
affer- mava che, quando nell'aggiudicazione delle forniture
seguivasi il sistema delle pubbliche aste , non si osservavano le regole
della legge di contabilità. Il fatto posto a base di tale
accusa era il seguente: Digitized by
Google — 88 — Procedutosi agli incanti
pubblici per l'aggiudicazione della fornitura di carte e stampe , sorse
divergenza sulla interpetra- zione di una cifra contenuta in una scheda
di offerta di ribasso. Il Soprintendente, che presiedeva alle aste,
invitò tutti i concor- renti a leggere la scheda allo scopo di evitare
contestazioni, e tutti meno uno , tal Guadagno , ritennero che la scheda
conte- nesse il ribasso del 46 OjO sul prezzo d'asta. Siccome
era quella la scheda che portava il maggior ribasso, a quell'offerente fu
aggiudicato lo appalto delle carte e stampe. Il Guadagno reclamò ,
contro tale provvedimento , ma il re- clamo fu respinto
dall'amministrazione. Ripetuto il reclamo al Prefetto, questi non vi
provvide nei trenta giorni voluti dalla legge. Ma dopo parecchi mesi,
quando l'aggiudicatario avea già fatto gran parte della fornitura, il
signor Prefetto, che già co- vava nell'animo il malcelato disegno di
colpire i malvisi ammi- nistratori, mise fuori il reclamo Guadagno e
minacciando l'an- nullamento dell" asta seguita e dell 1 aggiudicazione
verificata, pretese che V amministrazione trovasse modo di far tacere il
Gua- dagno !! Tale indecoroso aggiustamento fu respinto dal
Consiglio di Governo, che con sua novella deliberazione confermò le
prece- denti. Il Prefetto inviò la pratica al Ministero
dell'interno perchè fòsse annullata l' asta per violazione di legge : e
prima che il Consiglio di Stato (Sezione interni) si fosse pronunziato
sul chie- sto annullamento , la relazione ministeriale lanciò 1' accusa
di inosservanza delle norme della legge e del regolamento di con- tabilità.
Ma nello scorso settembre , la domanda del signor Prefetto per
l'annullamento della suddetta asta, sottoposta all'esame del Consiglio di
Stato, fu da questo respinta , per non essersi ri- scontrata nella
deliberazione della disciolta amministrazione al- cuna violazione di
legge e per avere il Soprintendente, che pre- siedeva alle aste, bene
giudicato in fatto. Altra accusa contenuta nella relazione
ministeriale era che, Digitized by
Google^ — 89 — parecchie forniture, anche superanti
le lire 500 9 si aggiudicassero a trattativa privata e senza alcuna
autorizzazione. Il R. Commissario ha taciuto della decisione del
Consiglio di Stato sopra riferita, e non ha potuto fare a meno di
constatare che tutte le forniture sono regolari nella forma (questa
volta il R. Commissario smentisce il Prefetto ed il Ministro —
Cielo!) Però siccome più che l'interesse della verità e della
giustizia, lo muove il malvolere ed il bisogno prepotente di
calunniare, sostiene che, gli appalti hanno nel più gran numero il
difetto di essere stati conclusi, a trattativa privata, in seguito a
diser- zione d' incanti , e con diminuzione del prezzo di base d' asta;
il che farebbe suppone che si fissassero i prezzi alti negli incanti
apposi- tamente per [irli andare deserti (?!!) e conchiudere poi i
contratti con prezzi molto vantaggiosi con persone che si credeva di
favorire. Il fatto sta precisamente come asserisce il R.
Commissario! Alcuni incanti andarono deserti, ma non peri prezzi alU, bensì
per i prezzi bassi messi a base delle aste. Ma ad onta dei prezzi
bassi, e delle diserzioni dagli incanti, per quasi tutti i contratti
stipulati a trattativa privata, e con debita autorizzazione, anche per
somme inferiori a lire 500 , o fu dai contraenti ottenuto un lieve
ri- basso sul già basso prezzo d'asta , o fu accettato puramente e
semplicemente il prezzo d'asta ad onta che per la sua bassezza avesse
allontanato i concorrenti. £ per tal modo la Santa Casa potè
ottenere delle economie di carattere contrattuale per parecchie migliaia
di lire. E sappia # l'onorevole Commissario che i prezzi furono fissati
dietro indi- cazioni ufficiali ricevute dal Presidente della Camera di
Com- mercio !... Non rileviamo neanche la sconcia irriverenza
contenuta nelle ultime parole surriferite del rapporto, che vorrebbe far
credere al premeditato favoritismo seguito nelle aste, poiché grazie
al Cielo, i disciolti governatori' non sono né il Deputato di S. An-
gelo dei Lombardi, ne il Vice Presidente del Consiglio provin- ciale di
Napoli . Digitized by
Google — 00 — Che dire poi dell'altro
addebito mosso dal Regio Commissario sull'appalto degli apparecchi medici
e chirurgi ? Egli ha affermato che per tale fornitura il ribasso
offerto deir80 e 90 per cento si credè senza giustificato motivo ridurlo
al 63 e 53 °[ . Basterà esporre come andarono le cose (e
risulta dallo incar- tamento) per convincersi che anche in ciò il R.
Commissario è in aperta mala fede. L'asta per la fornitura
degli oggetti medici e chirurgi fu aperta sulla base di un ribasso del 30
0[0 sui prezzi della ta- riffa precedentemente adottata dalla S.
Casa. Apertisi gli incanti ed accesasi calorosa gara fra i
concorren- ti, il Giannattasio, esasperato per vedersi contrastare un
servi- zio che egli facea da moltissimi anni, offrì d'un colpo il
ribasso del 90,05 0|0 sui prezzi della sua stessa tariffa, e rimase
aggiu- dicatario dell'appalto. Riunitosi il Consiglio di
Governo considerò che era immorale ed iniquo profittare di un momento di
aberrazione di un for- nitore e costringerlo ad eseguire lo appalto a
disastrose condi- zioni, e che d'altra parie potea indurlo a non fornire
un ma- teriale atto al buon servizio ospedaliero ; chiese perciò ,
con apposita deliberazione, alla Giunta provinciale autorizzazione
di ridurre tale ribasso al 63 e 53 per cento , che pur era sempre
superiore a quello offerto da altri concorrenti, E la Giunta
Provinciale, a relazione del senatore De Siervo, accordò la chiesta
autorizzazione , trovando giusto e morale il provvedimento del
Governo. In verità il R. Commissario comprenderà di leggieri che
tra l'accusa che muove da lui e l'encomio del Senatore De Siervo
(una probità indiscussa) la scelta, per ogni uomo che si rispet- ta, non
può esser dubbia e non se l'abbia a malo ! Tanto più che il R.
Commissario fa come padre Zappata che predica bene e razzola male.
Ed infatto ha violato la legge ed il contratto facendo stam- pare
il rapporto dal suo tipografo particolare e non dal forni-
■* Digitized by Google
— 91 — tore dell'Amministrazione, erogando una spesa
superiore a lire 500 (lire 700) senza lo esperimento dei pubblici incanti
e senza dispensa dell'autorità tutoria. PROVVEDIMENTI PER FAR
DENARO Prelevazioni sulle cauzioni — Siamo alla fine del rapporto
e ci vediamo costretti a deplorare ancora una volta la completa
incoscienza deiraccuratore. « Tali sistemi di amministrazione
dovevano naturalmente t creare un continuo dissesto nelle condizioni
della pia Casa, « (prosegue il rapporto) , la quale bene spesso veniva
perciò a « trovarsi in urgente bisogno di denaro. » (pag. 42)
Se il R. Commissario si fosse reso conto delle date delle sca-
denze mensili degli incassi e delle spese della S. a Casa, avrebbe
appreso che non ai deplorati sistemi di Amministrazione del disciolto
Governo deve attribuirsi Yurgente bisogno di danaro in cui normal- mente
si trova l'opera pia, ma alla speciale natura del maturo delle spese e
delle rendite. Legga ed apprenda! Gli potrà servire per
misurare tutta l'importanza degli im- pegni che assume e delle spese che
autorizza a casaccio duran- te la sua gestione. Supposto un
preventivo in pareggio , e sia quello del 1890 ; nel mese di gennaio si
incassano per interesse de' capitali, esta- gli , affìtti fabbricati ,
quote di arrendamene , infermi a paga- mento , tesoreria ecc. ( con poche
varianti in più od in meno per ogni anno) L. 46,532.17 Si
pagano invece nello stesso mese di gennaio :•; 62,583.60
Risulta una deficienza di .... » 16,051,43 Tale deficienza
nel mese di febbraio, per la dif- ferenza in più della spesa
sull'incasso, è di . . L. 36,187.35 per la qual cosa l'ammontare
complessivo della de- ficienza a fine febbraio aumenta a s
52,238.78 Digitized by Google
— 92 — Riporto L. 52,238.78 In marzo il
supero della epesa sull'incasso è di » 17,589.97 Nell'aprile si
verifica per » 18,394.64 In maggio continua ancora per »
14,647.31 Per modo che a fine maggio la deficienza rag- ■
giunge l'ammontare complessivo di .... » 102,870.70 Nel
giugno invece, pel fatto dell'incasso del seme- stre a fine mese,
l'introito supera la spesa per » 41,102.25 perciò la dficienza
verificatasi nei mesi precedenti discende a » 58,768.45
A luglio riprende però il suo cammino ascen- dente; aumenta di »
17,655.99 ed ammonta perciò a fine luglio a » 76,404.44
Nell'agosto per un avanzo di « 202.84 vidiscende a »
76,201.60 Ma risale nel settembre per » 10,772.50 Sale
ancora nell'ottobre per >~^®^®^ ^^®~^^ -^-^i--'«-^-^-~&-
Rapporto del Sig. Cav. Gaetano Antonelli Direttore Amministrativo
dell' Ospedale degl' Incurabili All' III. sig.
Soprintendente dello Stabilimento stesso Napoli, li 16 Luglio
t891. In seguito dei più accurati studii, fatti col concorso dell'
ili. mo signor Go- vernatore cav. Cosenza, circa le attuali condizioni
del nostro Ospedale, rela- tive alla igiene dei locali, alla loro
manutenzione, alla Casa di Salute, a quella di Maternità, alle stanze
d'isolamento, a quelle di operazioni, alla cucina, al casermaggio , alle
consultazioni gratuite , alla sala idroterapica , ed alle stanze per la
ricezione, alla disciplina del basso personale ed alla Direzione dell' O-
spedale; e quali dovrebbero essere per ottenere che questo grande Istituto
di beneficenza risponda alle esigenze del progresso della scienza, e che
di nulla manchi per venire in sollievo della umanità languente",
pregiomi sottometterle tutto un piano di riforme, che, se troveranno
benigna eco nell'animo dei si- gnori componenti l'ilLmo Consiglio, salvo
quelle savie modifiche che crederà apportarvi, certamente potrà dirsi:
Maria Longo fondò gì* Incurabili, e l'attuale Amministrazione li
riformò. Digitized by Google
— IV — Pria di entrare nell' argomento, ho il dovere di dirle
che base degli studii è stata la riforma totale, progressiva, accelerata
dell'Opera, senza aggravare l'attuale bilancio, onde il pareggio
conseguito possa rimanere stazionario. Igiene dbi locali
Le attuali infermerie certamente non si possono abbattere per poi
ricostruirle, ma essendo antigieniche possono essere bonificate, sia con
l'apertura di vani nelle pareti interne per renderle maggiormente
arieggiate, sia con lo sterro di una superfìcie quadrata di terrapieno,
che attualmente trovasi a ridosso di al- cune di esse nella Sezione
" uomini „. Dividere l'Ospedale chirurgia da quello medico,
giacche la promiscuità pro- cura agl'infermi in chirurgia delle infezioni
che lo isolamento ovvia del tutto. Rifare l' Ospedale a donne „ sul
tipo delle poche sale, rifatte in quello a uo- mini „, togliendo le sale,
che sono fomite e ricetto d'infezioni. Costruire i cessi in modo,
che, pur rimanendo in vicinanza immediata delle sale per comodo
degl'infermi, non mandino alle sale stesse tutti quei miasmi, di cui oggi
sono infetti e non propaghino tutti quei microrganismi che nelle fecci di
essi son contenuti, badando che il sistema del cesso offra solidità e
abbia tutte le garenzie per essere inodoro. Manutenzione
L' attuale manutenzione è del tutto derisoria, poiché il danaro vien
profuso per accomodare, a misura del bisogno urgente, un fabbricato
vecchio ,sorto a spezzoni, senza apportare alcuna modifica radicale al
fabbricato stesso, ma producendo invece del danno nel modo come vengono
eseguiti i rappezzi, giac- che le fabbriche nuove pel proprio rassetto e
per lo scuotimento che produ- cesi alle vecchie, ne fa conseguire la
necessità di rifare quello che poco prima si rifece, e, per la verità,
informino i corsi sottostanti 1' Ospedale. Verificare l'attuale
incanalamento delle acque di rifiuto, le quali ora si in- filtrano in
tutte le fabbriche, e si assiste al miserando spettacolo, che mura, spes-
se parecchi palmi, piovano a permanenza. Digitized by
Google Anche le grondaie anno oggi la missione
di depreziare il fabbricato per la loro cattiva costruzione e
manutenzione. Sicché risulta necessaria la radicale ricostruz 1 me
di quanto vi è di fradicio, onde per parecchi anni si possa essere esenti
da manutenzioni, ovvero fare la parte minima, cioè imbianchimento,
rappezzi d'intonaco, tegole ed altro, con mezzi economici e con qualche
operaio del Pio luogo, evitando così la permanenza nelT Ospedale di
imprenditori di manutenzione e di squadre di mu- ratori,che sono la causa
precipua dei guasti che si verificano e che essi stessi producono per poi
poter lavorare su più vasta scala. Casa di Salute L'attuale
ordinamento della Casa di salute, se la rende non passiva, non può
calcolarsi come un cespite rilevante, se tengonsi presenti le spese che
per essa si erogano in quanto a vitto e casermaggio speciale ed alle
rette che si esigono. Pur apprezzando l'operato dell' ill.mo Governo per
aver disposto il miglioramento delle località e del mobile, certamente
non si raggiungerà lo scopo di avere una Casa di Salute, accessibile al
gentiluomo, come all'indi- viduo del medio ceto, mantenendo ciascuno nel
proprio ambiente e con que- gli agi relativi alla retta che ciascuno paga
secondo la classe. La promiscuità delle diverse classi nello stesso
appartamento condannerà il gentiluomo a non uscire di camera per
non trovarsi a contatto con persone che non sono del suo grado, e
farà nascere invidia e sospetto nell'animo di chi paga in meno, in
vista del migliore trattamento che vedrà usato, sia per vitto che
per servitù, a chi ne ha dritto per contributo di retta maggiore.
In fatti oggi vedesi qualche gentiluomo capitare nella nostra Casa di
Salu- te, il quale resta confinato nella sua stanza fino alla guarigione,
privo anche del benefizio di poter scambiare una parola, poiché la
maggioranza degl'infermi è gente del basso ceto. Si figuri la
S. V. illustrissima, quando la retta sarà aumentata e qualcu- no crederà,
venendo, di trovarsi in un ambiente di gente del suo rango, e troverà poi
della gente del volgo, quale discredito gitterà costui sulla Casa di Sa-
lute, ed allora sarà accessibile soltanto alle infime classi sociali con le
rette Digitized by Google
— VI — mìnime, rimanendo vuote, con tutte le migliorìe
apportate, quelle stanze, la cui retta dovrebbe formare il cespite
maggiore della Casa di Salute. Risulta manifesta la necessità di
ampliare la Casa di Salute di un secondo piamo, onde ottenere la
divisione completa delle diverse classi, facendo vivere ogni elemento nel
proprio ambiente, e per conseguire lo scopo basterà costruire due sole
tese di scala in seguito delle esistenti e servirsi del suppenno so-
prastante la Casa di Salute, ove le mura già sono abbastanza sviluppate,
tra- sferendo la Biblioteca ad altro posto, per ottenere un quadrato
completo, così nella parte settostante, come nella superiore.
Casa di maternità' La nostra casa di maternità forse è la
prima in Italia pel numero delle in- cinte, che vi affluisce e per le
operazioni, che in essa si praticano, e per la valentia dei professori,
ma non è certamente all'altezza dei tempi per le sue condizioni
igieniche. Le incinte sono addossate l' una all' altra, e l' aria
che vi si respira non è la migliore: i pavimenti, le pareti ed il
soffitto lasciano a desiderare; le stanze del puerperio, quelle di
operazioni, l'altra da bagno sono in condizioni pes- sime e mancano tutt'
affatto le stanze d' isolamento per quelle donne che du- rante il
puerperio vanno soggette a complicanze. Devesi venire in soccorso
di tale istituzione, e porla in grado di funzionare secondo le esigenze
della igiene e della scienza e fare che risponda alle pre- scrizioni del
Regolamento circa la inaccessibilità a chiunque, mentre attual- mente è
un via vai di persone estranee, in barba al Regolamento. Stanze d'
isolamento Il difetto assoluto di stanze d' isolamento nell'
ospedale genera ogni giorno giustissime doglianze da parte del Corpo
Sanitario, poiché, sviluppatasi una infezione qualsiasi in un infermo,
questo resta in sala con grave danno degli altri, segnatamente per le
sale di chirurgia, ove sonovi operati di recente. Cito un esempio:
oggi dalla nostra casa di maternità od anche per ricezio-
Digitized by Google — VII
ne alla porla, perviene all' Ospedale una donna affetta da infezione
puerperale: questa devesi attualmente collocare in sala comune ed
essendosi in massima risoluto che in tali casi devesi collocare in sala
di medicina per non comuni- care l' infezione in quelle di chirurgia,
pure non si è assolutamente certi della immunità per le ragioni che dirò
in seguito. Le stanze d' isolamento sono necessarie , tanto per i
casi citati , come per tanti altri, cioè per pustola maligna, tetano ecc.
e debbono essere poste fuori T ambito dell' Ospedale, poiché è risaputo
che, non solo la vicinanza dello in- fermo infetto propaga agli altri la
infezione, ma veicolo certo d' infezione può essere il Medico, colui che
è adibito per la medicatura, ovvero il basso per- sonale destinato al
cambio della biancheria, al rifacimento del letto, all'appre- stamento
del cibo etc. Ond' è mestieri che due quartierini nelT Interno
deli' atrio dell' Ospedale* e propriamente quelli che oggi sono tenuti
dal Rettore con l'altro soprastante, vengano sfittati e messi a
disposizione per lo isolamento, uno per gli uomini ed uno per le donne ,
adattando due stanze pei tetanici, delegandovi un per- sonale a parte,
sia medico come assistente ed inserviente. Stanze di
Operazioni Per quanto 1' antisepsi è garenzia di quasi tutte le
operazioni chirurgiche, pure per molte di esse è necessità assoluta che
l'ambiente, in cui si opera, sia del tutto asettico e che l' infermo,
dopo subita la operazione, possa essere trasferito in una stanzetta
attigua, restandovi per qualche giorno pria di pas- sare in sala comune,
ond* evitare possibili complicanze. Si rendono massimamente
necessarie dal punto di vista, che dovendosi pra- ticare apertura
dell'addome, l'ambiente, nel quale si opera, deve prestarsi ad un facile
riscaldamento, come ad una facilissima disinfezione completa, quindi
loca- lità piccola, ben disposta, pavimento di asfalto dipinto, letto di
operazione sem- plicissimo, e corredato^ di quanto è necessario per
potere operare con tutti' i rigori prescritti dai più recenti progressi
scientifici. Digitized by Google
— Vili — Cucina L'attuale cucina, come ho
avuto l'onore altra volta d'intrattenere laS. V., non risponde per la sua
costruzione alla buona preparazione del cibo in ge- nerale e della pasta
in particolare, la quale, non potendosi cuocere in acqua a parte , dev'
essere cotta col brodo; riducendo questo , non dico guasto, ma certamente
non buono, sia per 1' acqua che vi si aggiunge per cuocere la pa- sta,
sia per le impurità che questa vi lascia durante le ebollizioni.
Pel posto ov' è collocata, cioè tanto lontana dalle infermerie, che il
vitto ar- riva in esse quasi immangiabile, rendendosi vani gli sforzi per
ottenere dai fornitori materie prime buone, quando la cattiva
preparazione e la lontananza della cucina contribuiscono efficacemente a
rendere guasto il cibo , tale lonta- nanza rende quel servizio quasi
privo di sorveglianza, tanto necessaria pel suo buon andamento.
Per ovviare a tutti siffatti sconci basta collocare la cucina in una
località più eentrale per potere apprestare con maggiore faciltà e
sollecitudine il vitto alle diverse infermerie, ed anche per esercitarvi,
durante la preparazione dei cibi, un' attiva vigilanza , costruendola in
modo che la preparazione delle vi- vande riesca tale da evitare
gl'inconvenienti di sopra enunciati. Casermaggio Le
condizioni del casermaggio nell' Ospedale degl' Incurabili sono
deplorevo- lissime, come anche altra volta ho avuto l'onore di
rassegnarle, però non ba- sterebbe il rifornire di tela la guardaroba,
ovviando cosi alle esigenze urgen- ti, ma credo che debbasi radicalmente
riformare il casermaggio dell'Opera in tutte le sue più minute
parti. I letti esistenti, composti di spalliere e tavole, sono covo
d' insetti nella sta- gione calda e fomite perenne d'infezione pei
microrganismi che in essi annidano. I pagliericci anch'essi sono
fomite perenne di infezione e coi progressi della scienza sono
assolutamente da abolirsi. Le materasse sono deficienti di lana e
la lana che contengono è tale , che dev' essere lavata e cardata.
Digitized by Google — IX
— I guanciali trovansi nelle stesse condizioni delle
materasse. Le lenzuola, camice e camici, cusciniere, traverse,
salvietti, berretti etc. so- no oggi in tale deficienza che manca magari
il servizio giornaliero. I zoccoli per gì' infermi sono indecenti e
parmi si dovessero abolire, sosti- tuendo le pantofole col sughero
interno coverto, tanto per decenza, quanto per evitare lo assorbimento da
parte del legno, che oggi funziona da suola, men- tre le pantofole che si
propongono possono facilmente sterilizzarsi con la stufa. Quindi
per ottenere un casermaggio che riesca soddisfacente per le esigen- ze
della scienza, occorre: a) Sostituire alle spalliere e tavole un
letto in ferro con grata di ferro in- vece delle tavole, leggiero, svelto,
con le minori connessure possibili, senza pomi, ond' evitare che in esso
trovino nido microbi infettivi. b) Sostituire all'attuale
paglierìccio un secondo materasso di lana nera, la quale, costando molto
meno di quella bianca, si presta benissimo al lavaggio ed alla
disinfezione più completa. e) Lavare e cardare l'attuale lana,
aggiungendone tant'altra, per quanto basti a rendere più soffici le
attuali materasse e guanciali. d) Provvedere ad una fornitura di
tela, che possa bastare non solamente ai bisogni ordinarli, ma bensì per
tenere un deposito di effetti nuovi, corri- spondenti ad una metà almeno
della dotazione generale in uso. e) Abolire le scodelle sotto i
letti e sostituirle con le sputacchiere di metallo. Consultazioni
gratuite, sala Idroterapica e stanze per ricezione
Trasferendo la cucina in posto più centrale, gli attuali locali della
cucina, uniti a quelli della ricezione, dovrebbero servire a concentrare
in un punto solo, con entrata a parte, senza alcuna comunicazione con
l'Ospedale, tanto le stanze per la ricezione, quanto quelle per le
consultazioni gratuite, ed il ga- binetto idroterapico con l'aggiunzione
di una sala da bagno. Così facendo, potrebbero fittarsi gli attuali
locali di via Consolazione, adi- biti per le consultazioni gratuite ; si
eviterebbe un via vai di gente nell'Ospe- dale, che recatisi al gabinetto
idroterapico ; si avrebbero le sale per la ricezione più decenti ed
igieniche, segnatamente per la stagione invernale; si avrebbe
Digitized by Google un dispensano
celtico decente, giacché lo esistente è indegno e con l'aggiun- ta della
sala da bagno, si potrebbero spedire sulle infermerie gli ammalati ri-
cevuti, netti, senza insetti e vestiti con gli abiti dell'Ospedale.
Disciplina del bas3o personale Per mantenere alta la
disciplina nell'Ospedale e per richiedere dal basso personale assistenza
agli infermi, nettezza dei locali, rifiuto delle mance, leci- te ed
illecite, e per essere certi che non si perpetrino furti a danno del Pio
Istituto ; è mestieri migliorare le condizioni economiche della classe degl'
in- serventi e delle camminanti. Dal modo come è pagato
attualmente il basso personale, pare tacitamente autorizzato a commettere
furti; giacche, percependo un' inserviente soli 23 soldi al giorno
risolve un problema, se, dopo di aver lavorato una giornata intera, può
satollare di solo pane i figli. Cito un caso che può servire di
pruova a quanto dico. Havvi un inser- viente che fino ad ieri ha tenuto
delegati tutt' i suoi averi per pigione, e pure ha risoluto il problema
della vita. Domando come lo ha risoluto, essendo stato sempre nell'
Ospedale e non avendo avuto altri prowenti ? Io non voglio ma- lignare,
ma certamente a danno di qualcuno avrà risoluto il problema dell' esi-
stenza per sé e per la sua famiglia. Le camminanti con sole 16 lire
mensili, dovendo provvedere a vitto e ve- stito debbono, se non altro,
mangiare a danno delle povere inferme, sottraen- do dal cibo comune
quanto basta ai loro bisogni. Riconosciuta la necessità di
migliorare le condizioni economiche di tale elas- se, è evidente che il
miglioramento debba essere razionale e progressivo , e senza spostare di
molto, come dissi, la finanza del Pio Luogo. Nell'attuale basso
personale vi sono degli ottimi elementi, come ve ne so- no di quelli non
suscettivi di miglioramento, e per fare che il basso perso- nale ben
risponda alle esigenze del servizio, ritengo debba dividersi in due
classi distinte, cioè infermieri ed inservienti. GÌ' infermieri
dovrebbero essere quegli inservienti e camminanti intelligenti, che
previo esame dessero garenzia di capacità a prestar la cura prescritta
dai professori agi' infermi, ed evitare pure che continuasse il grave
sconcio che, Digitized by Google
— XI — mentre si opera un infermo , lo inserviente che
appresta al professore opera- tore quant' occorre per operare, tolga dal
letto di un infermo la traversa spor- ca, o venga dalla pulizia del
cesso. Essi, gì' infermieri, dovrebbero solamente assistere alla
medicatura, alle ope- razioni, allo esatto adempimento delle prescrizioni
mediche ed alla distribuzione del cibo. GÌ' inservienti, cioè
V attuale personale meno intelligente dovrebb' essere adi- bito alla
nettezza dei pavimenti ed alle latrine, al trasporto del vitto dalla
cucina nelle infermerie ed a quello della biancheria lurida dalle infermerie
alla lavanderia e viceversa. Ai primi concedere un aumento di
salario, dividendo il servizio di 12 in 12 ore, senz' altro dritto, e pei
secondi concedere il vitto a quelli di guardia. Direzione dell'
Ospedale L' Ufficio di Direzione, ove attualmente trovasi, può
essere considerato fuor dell' Ospedale, giacche tutto il movimento
svolgesi alla porta maggiore. Alla porta maggiore affluisce il
pubblico, che intende visitare gl'infermi nel- l' Ospedale.
Alla porta maggiore presentansi gì' infermi per chiedere l'ammissione
straor- dinaria. Alla porta maggiore si presenta il maggior
numero dei professori addetti nelle diverse sale. Per la
porta maggiore entra ed esce il basso personale e succedono tante
contrattazioni col pubblico, che è meglio tacerne. Alla porta
maggiore risiedono i Professori di guardia, delegati per la rice- zione
degl'infermi e pei soccorsi urgenti. Alla porta maggiore deve
risiedere il Direttore, onde ovviare all' entrata nel- V Ospedale di
tante persone estranee al servizio, proibire 1' uscita del perso- nale e
trovarsi nel centro dell' Ospedale, onde poter sorvegliare tutti gli sva-
riati servizii. Per le ragioni espresse dovrebbesi trasferire la
Direzione alla porta mag- giore, chiudendo l' attuale porta che mena
sull' Ospedale Donne. Digitized by
Google — XII — Stanza di medicatura
Per un Ospedale come il nostro, che riceve le colpite da lesioni violenti,
si rende di somma necessità una stanza di medicatura, atta a fornire i
primi soccorsi alle infelici che si presentano, corredata in modo da non
lasciare a desiderare, con un corredo di ferri cerusici occorrevoli,
tanto per le ferite ed altre lesioni, quanto per venire in soccórso dei
bisogni urgenti nelT Ospedale senz' attendere che si apra 1'
armamentario, segnatamente di notte. Ecco detto in quali condizioni
versa 1' Ospedale degli Incurabili , e quanto è necessario che si faccia
per poter vedere all'altezza dei tempi e dei pro- gressi scientifici
questo grande Istituto di beneficenza. Ora panni necessario
discutere del modo come conseguire gli scopi innanzi premessi, senz'
aggravare la finanza dell' Istituto, onde non abbia del poetico il
presente progetto. Attualmente 1' Amministrazione degf Incurabili
spende annualmente per l'O- spedale una vistosa cifra per mantenere un
vecchio carname senza mai potere ricostruire radicalmente nulla.
Se all' attuale spesa si aggiungesse altra cifra di circa lire 20,000 si
otter- rebbe una cifra totale rilevantissima da potersi iscrìvere nel
bilancio per le spese di fabbriche. Se T Amministrazione
dell'Ospedale ordinasse un piano regolatore generale per le riforme
accennate, ponendo come base il migliore conseguimento pos- sibile sulla
pianta dello attuale fabbricato e la massima economia, potrebbesi bene
erogare la cifra di lire 500.000 per sola ricostruzione dell' Ospedale,
sen- za tenere conto dei pavimenti, che già fanno parte di altro contratto
e pel quale la cifra annuale già è prevista in bilancio. Pagandosi a lire
50.000 an- nue con l'interesse del 5 p. 0j0 a scalare, sarebbe più che
sufficiente la ci- fra iscritta, giacché in essa sarebbero anche compresi
gl'interessi. Mi si potrebbe domandare, e l'altra cifra di 20,000
lire per venire in soc- corso dell' attuale spesa per manutenzione
? La Casa di Salute, com' è attualmente tenuta, e ristretta com' è,
dà all'Am- ministrazione un'entrata di circa L. 30,000 lorde; ma ampliata,
come si desi- dera, e con F aumento delle rette, F introito sarebbe senz'
altro triplicato. Digitized by
Google — XIII — E quello che asserisco non
potrà in verun modo venire smentito, dal mo- mento che tutt' i giorni
debbono respingersi individui richiedenti per mancanza di posti nella
Casa di Salute. A maggiormente confortare questa mia asserzione,
valga anche l'ultima de- liberazione dell'onorevole Consiglio circa la
cura delle malattie di occhi nella Casa di Salute. Oggi quasi
tutti i provinciali benestanti affluiscono in Napoli sulle locande e colà
sona operati e rimangono in un ambiente settico, dovendo pagare 'cibo
assistenza, e parecchie migliaia di lire per operazioni. Ma quando
la nostra Casa di Salute potrà allogare per bene siffatti infer- mi, ad
essi converrà pagare anche una retta giornaliera di oltre lire 20, poi-
ché in essa è compreso alloggio, vitto, assistenza e cura, e qualunque
possa essere la durata della degenza nell'Ospedale di un tale infermo,
gli costerà sempre molto meno di quanto pagherebbe privatamente.
Rifacendo l'Ospedale, come ho detto, non si avrebbe bisogno di
manuten- zione pei primi dieci anni, ma solamente jii conservazioni.
Qneste potrebbero eseguirsi economicamente, aggiungendo all'attuale
operaio fabbricatore, che già paga 1* Amministrazione , un secondo per
imbiancare le pareti delle sale an- nualmente, tanto per mantenerle,
quanto per disinfettarle, fare qualche rappezzo -d' intonaco o di
asfalto, rimettere qualche tegola o quadrone, senza andare in- contro a
contratti di manutenzione. Circa poi alla esecuzione del lavoro son
certo che non uno ma dieci im- prenditori verrebbero alla subasta per
aggiudicazione, essendo certa la riscos- sione di una vistosa cifra in
ogni fine di anno, ovvero Y imprenditore , aven- do bisogno di danaro,
troverà sicuramente i fondi a collocare mercè una inft- nitisimale
differenza d'interesse. Vengo ora alla seconda parte della riforma,
cioè al casermaggio. Potrebbe 1' Amministrazione nelle attuali
condizioni del bilancio, appena con- seguito il pareggio e tenendo ancora
iscritte delle cifre in esito per debiti pre- cedenti, affrontare la
grave spesa per riformare tutto il casermaggio? Si potrà conseguire
lo scopo di mutare fondatamente 1' attuale casermaggio con le risorse
normali del bilancio? Converrà all' Amministrazione vendere gli
attuali letti per comprarne altri, se- Digitized by
Google — XIV — condo le norme più
innanzi descritte, senza subire la camorra di chi compra roba
vecchia? Ed ammesso che si avveri questa ultima previsione, sarà
conveniente ag- gravare V erario dell' Opera, iscrivendo una grossa cifra
per casermaggio a de- trimento di altri impegni del bilancio?
Converrà all' Ammintstrazione, non potendo venire in soccorso del
caser- maggio con le risorse normali, fare una operazione finanziaria per
attuare la riforma con celerità, onde non andare incontro a vedere per
parecchi anni 1' Ospedale messo per una porzione sul sistema moderno e
per 1' altra sul- T antico ? Io credo che qualunque dei mezzi
sopra citati non può essere conveniente per T Amministrazione, giacche, o
non si otterrebbe la riforma progressiva, ac- celerata di questa branca
di servizio, ovvero ne soffrirebbe non poco la fi- nanza del Pio luogo.
Una sola via resta, onde compiere con sollecitudine e senza grave spesa
la riforma accennata, ed è la seguente: Bandire gì' incanti
con un capitolato redatto in modo da non lasciare scap- patoie all'
aggiudicatario, e questo scopo si raggiunge presto, quando alla Di-
rezione degli Ufficii Amministrativi presiede quelf Egregio funzionario che è
il barone De Marinis, dando il casermaggio per retta giornaliera, per
persona e giornata di degenza, comprendendovi la lavatura ed il
rattoppo. Base dell' incanto dovrebb' essere il consumo di
casermaggio sulla media della spesa e degl' infermi di un decennio , da
stabilire questo dato la retta giornaliera per fornitura di casermaggio,
lavatura e rattoppo da corrispondersi al fornitore. Mettere
per base all' inca nto un campionario completo di letti, e quanto al- tro
occorre agl'infermi di ambo i sessi coi rispettivi prezzi di acquisto,
pagati dall' Amministrazione , con 1' obbligo all' aggiudicatario di
rinnovare una sala per ogni mese. Apprezzare, mercè periti
scelti di accordo fra l'Amministrazione ed il for- nitore, tutto quanto
possiede 1' Ospedale e sui prezzi del campionario calcolare il valore dei
capitale impiegato dal fornitore pel nuovo impianto, giusta il nu- mero
dei letti completi ed accessorii forniti. Digitized by
Google — XV — La differenza fra i
due capitali sarebbe rimborsata al fornitore in tante rate mensili con
gì' interessi a scalare dal primo all' ultimo mese dell' appalto.
Come ben vede la S. V. IH. questo sarebbe certamente un mezzo da
rifor- mare in tempo brevissimo tutto il casermaggio della Pia Opera,
senza che l'O- pera stessa si aggravi di una spesa ingente, e noti che
come ho avuto l'o- nore di esporle, in fine dello appalto tutto il
materiale sarebbe di esclusiva pro- prietà del Pio Luogo, senza essere
forzati a ricorrere ad un secondo appalto. Aggiungo un' ultima
riflessione e poi avrò finito. Ammesso che 1' aggiudicatario
dovesse spendere per mettere il casermaggio nei modi richiesti L. 50,(KJ0
e che il nostro materiale attuale non valesse altro che 20,000, le 30,000
lire di differenza spese dall' aggiudicatario sarebbero rimborsate in un
novennio, mese per mese, importando una maggiore spesa mensile di lire
300 circa, ma, scaduto il contratto, 1' Amministrazione si trove- rebbe
un capitale reale e non nominale di effetti per casermaggio di lire 50,000
, giacche, com' è risaputo, l' aggiudicatario in fine dello appalto deve
consegnare gli effetti come li ha ricevuti, rifacendo i danni ove le
condizioni si verificas- sero diverse. Ed ora conchiudo con
una speranza ed un augurio; la speranza, che, se ho mancato di senno
amministrativo e di forma nella esposizione delle mie idee, voglia F
Illustrissimo Governo essermi di ausilio, riparandovi con la sua saggezza
; F augurio ò che , dopo un accurato esame e quelle modifiche che crederà
F 111. Governo apportarvi, venga attuato il presente progetto. Il
Direttore — G. AntonklliVastarini Cresi.
Vastarini-Cresi. Vastarini. Perhaps under C? -- Refs.: The H. P. Grice Papers,
Bancroft, MS – Luigi Speranza,, “Grice e Vastarini: cappuccino e ciserciani” –
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Grice e Crespi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Antonino e compagnia – filosofia
romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “Crespi is an interesting figure; Strawson
calls him an Englishman since he became a Brit! My favourite is his edition of
Marcauurelio’s remembrances – which is a n irony: he was a roman, but left his
remembrances in Hellenic; and the Italians needed a translation! It would be as
if Pocahontas’s remembrances were in Anglo-Saxon!” Collaboratore della
Critica sociale, si avvicina alle posizione modernista. Collaboraa Il
Rinnovamento, L'Unità, La Rivoluzione liberale, Coenobium. Emigrato durante il
fascismo, ospita numerosi esuli antifascisti. Altre opere: “Le vie della fede”
(Roma, Libreria editrice romana); “Sintesi religiosa” (Firenze, Tip.
Bonducciana di A. Meozzi); “L’impero romano” (Milano, Treves); “Dall'io al tu”
(Modena, Guanda). Nunzio Dell'Erba, Rosselli e Sturzo, "Annali della
Fondazione Ugo La Malfa", Luigi Sturzo, Mario Sturzo, Carteggio, Roma,
Edizioni di storia e letteratura-Istituto Luigi Sturzo, Giovanni Bonomi, Angelo
Crespi, Cremona, Padus). Wikipedia Ricerca Filosofia ellenistica periodo della
filosofia greca antica Lingua Segui Modifica La filosofia ellenistica è il
periodo della filosofiaoccidentale e della filosofia greca antica durante il
periodo ellenistico. StoriaModifica Il mondo ellenistico nel 300
a.C. Il periodo ellenistico seguì le conquiste di Alessandro Magno, che aveva
diffuso la cultura greca antica in tutto il Medio Oriente e nell'Asia
occidentale, dopo il precedente periodo culturale della Grecia classica. Il
periodo classico della filosofia greca antica era iniziato con Socrate, il cui
allievo Platone aveva insegnato ad Aristotele, che a sua volta aveva istruito
Alessandro. Mentre i pensatori classici avevano per lo più sede ad Atene, il
periodo ellenistico vide i filosofi attivi in tutto l'impero. Il periodo iniziò
con la morte di Alessandro nel 323 a.C. (poi quella di Aristotele), e fu
seguito dal predominio della filosofia dell'antica Roma durante il periodo
imperiale romano. Sviluppi e dibattiti sul pensieroModifica I fondatori
dell'Accademia, i peripatetici, i seguaci del cinismo e del cirenaismo erano
stati tutti allievi di Socrate, mentre lo stoicismo era soltanto indirettamente
influenzato da lui.Il pensiero di Socrate fu quindi influente per molte di
queste scuole dell'epoca, portandole a concentrarsi sull'etica e su come
raggiungere l'eudaimonia (la bella vita), e alcune di loro seguirono il suo
esempio di usare l'autodisciplina e l'autarchia a tal fine.[2] Secondo AC
Grayling, la maggiore insicurezza e perdita di autonomia dell'epoca spinse
alcuni a usare la filosofia come mezzo per cercare sicurezza interiore dal
mondo esterno.[3] Questo interesse nell'usare la filosofia per migliorare la
vita è stato colto nell'affermazione di Epicuro: "vuote sono le parole di
quel filosofo che offre una terapia per nessuna sofferenza
umana".[4] EpistemologiaModifica L'epistemologia degli epicurei era
empirica, con la conoscenza che alla fine proveniva dai sensi.[4]Epicuro
sosteneva che le informazioni sensoriali non sono mai false, anche se a volte
possono essere fuorvianti, e che "Se combatti contro tutte le sensazioni,
non avrai uno standard contro il quale giudicare anche quelle di coloro che
dici si sbagliano".[5] Rispose a un'obiezione all'empirismo fatta da
Platone in Menone, secondo la quale non si può cercare informazioni senza avere
un'idea preesistente di cosa cercare, quindi significa che la conoscenza deve
precedere l'esperienza.[6] La risposta epicurea è che la prolepsi (preconcetti)
sono concetti generali che consentono di riconoscere cose particolari e che
queste emergono da ripetute esperienze di cose simili.
PlatonismoModifica Il Platonismo rappresenta la filosofia dell'allievo di
Socrate, Platone, e i sistemi filosofici da esso strettamente derivati.
Antica AccademiaModifica Il platonismo primitivo, noto come "l'Antica
Accademia", inizia con Platone, seguito da Speusippo(nipote di Platone),
che gli succedette come capo della scuola (fino al 339 a.C.), e da Senocrate
(fino al 313 a.C.). Entrambi cercarono di fondere le speculazioni pitagoriche
sul numero con la teoria delle forme di Platone. Scetticismo
accademicoModifica Carneade, copia romana dalla statua esposta nell'Agorà
di Atene, c. 150 a.C., Museo Glyptothek Lo scetticismo accademico è il periodo
dell'antico platonismo risalente intorno al 266 a.C., quando Arcesilao divenne
capo dell'Accademia platonica, fino a circa il 90 a.C., quando Antioco di
Ascalona respinse lo scetticismo, sebbene i singoli filosofi, come Favorino e
il suo maestro Plutarco, continuassero a difendere lo scetticismo accademico
dopo questa data. Gli scettici accademici sostenevano che la conoscenza delle
cose è impossibile. Le idee o le nozioni non sono mai vere; tuttavia, ci sono
gradi di somiglianza con la verità, e quindi gradi di credenza, che consentono
di agire. La scuola era caratterizzata dai suoi attacchi agli stoici e al dogma
stoico che impressioni convincenti portavano alla vera conoscenza.
Arcesilao Carneade Cicerone Medioplatonismo Antioco di Ascalona respinse lo
scetticismo, lasciando il posto al periodo noto come Medioplatonismo, in cui il
platonismo era fuso con alcuni dogmi peripatetici e molti stoici. Nel
medioplatonismo, le forme platoniche non erano trascendenti ma immanenti alle
menti razionali, e il mondo fisico era un essere vivente e animato, l'anima del
mondo. La natura eclettica del platonismo in questo periodo è dimostrata dalla
sua incorporazione nel pitagorismo (Numenio di Apamea) e nella filosofia
ebraica (Filone di Alessandria). Plutarco Neoplatonismo Il Neoplatonismo,
o plotinismo, era una scuola di filosofia religiosa e mistica fondata da
Plotino nel III secolo e basata sugli insegnamenti di Platone e degli altri
platonici. Il vertice dell'esistenza era l'Assoluto o il Bene, la fonte di
tutte le cose. Nella virtù e nella meditazione l'anima aveva il potere di
elevarsi per raggiungere l'unione con l'Assoluto, la vera funzione degli esseri
umani. I neoplatonici non cristiani erano soliti attaccare il cristianesimo
fino a quando cristiani come Agostino, Boezio ed Eriugena non adottarono il
neoplatonismo. Plotino Porfirio Giamblico Proclo CirenaismoModifica Il
Cirenaismo fu fondato nel IV secolo a.C. da Aristippo, allievo di Socrate.
Aristippo il Giovane, nipote del fondatore, sosteneva che il motivo per cui il
piacere era buono era che era evidente nel comportamento umano fin dalla più
giovane età, perché questo lo rendeva naturale e quindi buono (il cosiddetto
argomento della culla).I Cirenaici credevano anche che il piacere presente
liberasse dall'ansia del futuro e dai rimpianti del passato, lasciandoci in
pace.Queste idee furono prese ulteriormente da Anniceride di Cirene, che espanse
il piacere per includere cose come l'amicizia e l'onore. Teodoro l'Ateo non era
d'accordo e sosteneva che i legami sociali dovrebbero essere tagliati e
dovrebbe essere sposata l'autosufficienza. Egesia di Cirene, d'altra parte,
affermava che la vita alla fine non poteva essere complessivamente
piacevole. Cinismo Il pensiero dei Cinici si basava sul vivere con
il minimo necessario e nel rispetto della natura. Il primo cinico fu Antistene,
che era un allievo di Socrate. Introdusse le idee di ascetismo e opposizione
alle norme sociali Il suo seguace fu Diogene, che seguì questa direzione. Invece
del piacere, i cinici promuovevano il vivere intenzionalmente in difficoltà
(ponos). Tutto questo perché era visto come naturale e quindi buono, mentre la
società era innaturale e quindi cattiva, così come i benefici materiali. I
piaceri forniti dalla natura (che sarebbero stati immediatamente accessibili)
erano tuttavia accettabili. Cratete di Tebe affermava quindi che "la
filosofia è un chilo di fagioli e non si cura di nulla". Altri cinici
includevano Menippo e Demetrio (10–80). Scuola peripatetica. Un busto in
marmo di Aristotele La scuola peripatetica era composta dai filosofi che
avevano mantenuto e sviluppato la filosofia di Aristotele. Sostenevano l'esame
del mondo per comprendere il fondamento ultimo delle cose. Lo scopo della vita
era l'eudaimonia che nasceva da azioni virtuose, che consistevano nel mantenere
la media tra i due estremi del troppo e del troppo poco. Teofrasto Stratone di Lampsaco Alessandro di Afrodisia
Aristocle di Messene Pirronismo Pirro d'Elide, testa in marmo, copia
romana, Museo Archeologico di Corfù Il Pirronismo era una scuola di scetticismo
filosoficoche ebbe origine con Pirrone e fu ulteriormente avanzata da Enesidemo
nel I secolo a.C. Il suo obiettivo era l'atarassia (essere mentalmente
imperturbabile), che si ottiene attraverso l'epoché(cioè la sospensione del
giudizio) su questioni non evidenti (cioè, questioni di credenza).
Pirrone Timone di Fliunte Enesidemo Sesto Empirico Epicureismo Busto
romano di Epicuro L'epicureismo fu fondato da Epicuro. La sua epistemologia era
basata sull'empirismo, ritenendo che le esperienze sensoriali non possano
essere false, anche se possono essere fuorvianti, poiché sono il prodotto del
mondo che interagisce con il proprio corpo. Ripetute esperienze sensoriali
possono quindi essere utilizzate per formare concetti (prolepsi) sul mondo, e
tali concetti ampiamente condivisi ("concezioni comuni") possono
fornire ulteriormente le basi per la filosofia. Applicando il suo empirismo,
Epicuro sostenne l'atomismo notando che la materia non poteva essere distrutta
poiché alla fine si sarebbe ridotta a nulla e che doveva esserci vuotoaffinché
la materia potesse muoversi. Anche se questo di per sé non provava l'esistenza
degli atomi, si oppose all'alternativa osservando che gli oggetti infinitamente
divisibili sarebbero infinitamente grandi, simili ai paradossi di
Zenone.[19] Considerava l'universo governato dal caso, senza alcuna
interferenza da parte degli dei. Considerava l'assenza di dolore come il più
grande piacere e sosteneva una vita semplice. Epicuro Metrodoro Ermarco
di Mitilene Zenone di Sidone (I secolo a.C.) Filodemo di Gadara Lucrezio StoicismoModifica Zenone di Cizio, il
fondatore dello stoicismo Lo stoicismo fu fondato da Zenone di Cizio nel III
secolo a.C. Basato sulle idee etiche dei cinici, insegnava che l'obiettivo
della vita era vivere in accordo con la natura. Sostenne lo sviluppo
dell'autocontrollo e della forza d'animo come mezzi per superare le emozioni
distruttive. Zenone di Cizio Cleante Crisippo Panezio Posidonio Seneca
Epitteto Marco Aurelio Giudaismo ellenisticoModifica Il giudaismo ellenistico
era un tentativo di stabilire la tradizione religiosa ebraica all'interno della
cultura e della lingua dell'ellenismo. Il suo principale rappresentante fu
Filone di Alessandria. Filone di Alessandria Flavio Giuseppe
NeopitagorismoModifica Il neopitagorismo era una scuola di filosofia che faceva
rivivere le dottrine pitagoriche, prominente nel I e II secolo. Era un
tentativo di introdurre un elemento religioso nella filosofia greca, adorare
Dio vivendo una vita ascetica, ignorando i piaceri del corpo e tutti gli
impulsi sensoriali, per purificare l'anima. Publio Nigidio Figulo. Apollonio
di Tiana. Numenio di Apamea. Cristianesimo ellenisticoModifica Il cristianesimo
ellenistico fu il tentativo di riconciliare il cristianesimo con la filosofia
greca, a partire dalla fine del II secolo. Attingendo in particolare al
platonismo e al neoplatonismo emergente, figure come Clemente Alessandrino
cercarono di fornire al cristianesimo un quadro filosofico. Clemente
Alessandrino. Origene. Agostino d'Ippona. Elia Eudocia. Voci correlate
Filosofia greca Filosofia antica Ellenismo Religione ellenistica Cento scuole
di pensiero Grayling, The History of Philosophy, Penguin, Peter Adamson,
Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Grayling, The History of Philosophy, Penguin, John Sellars, Hellenistic
Philosophy, Oxford University Press, Adamson, Philosophy in the Hellenistic and
Roman Worlds, Oxford University Press, Sellars, Hellenistic Philosophy, Oxford
University Press, Platonismo su Enciclopedia Britannica. Adamson, Philosophy in
the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Adamson, Philosophy
in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Adamson, Philosophy in
the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Peter Adamson,
Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in
the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford University Press, Peter Adamson,
Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in
the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford, Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic
and Roman Worlds, Oxford University Press, Peter Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford Long, Sedley, The Hellenistic Philosophers,
Cambridge, Reale, The Systems of the Hellenistic Age: History of Ancient
Philosophy (Suny Series in Philosophy), edito e tradotto dall'italiano da
Catan, Albany, State of New York Universit "Platonismo." Cross, FL,
ed. nel dizionario di Oxford della chiesa cristiana . New York: Oxford. Portale
Antica Grecia Portale Antica Roma Portale Filosofia
Atarassia termine filosofico Scuola cirenaica Autarchia (filosofia)
Wikipedia IlAngelo Crespi. Grice: “His essay on Antonino
is brilliant – his philosophy of history is controversial. Keywords:
la filosofia dell’impero romano, impero, impero romano, impero britannico,
funzione dell’impero, funzione storica dell’impero, filosofia imperial,
imperialismo, imperialismo romano, imperialism britannico, post-imperialismo,
Antonino. Filosofia della storia – aporie,
lingua latina, impero romano, lingua nazionale, nazione romana, nazione
italiana, lingua italiana, lingua fiorentina, lingua toscana, toscano, -- Refs.:
Luigi Speranza, “Crespi e Grice” – The Swimming-Pool Library. Crespi.
Grice e Crespo: la ragione
conversazionale -- filosofo italiano.
Grice e Critolao: la ragione
conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sent as a
deputation to Rome. He emphasizes the relative unimportance of material
comforts for the good life.
Grice e Croce: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’idealismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescasseroli). Filosofo italiano. Grice: “I would think the
fashionable Englishwoman may think Croce is the most important philosopher that
ever lived!” -- vide under “Grice as Croceian” -- Grice as Croceian: expression
and intention -- Croce, B., philosopher. I
genitori appartenevano a due abbienti famiglie abruzzesi: la famiglia Sipari,
quella materna, originaria della stessa Pescasseroli, ma radicatasi anche in
Capitanata e Terra di Lavoro, particolarmente legata agli ideali liberali, e
l'altra, quella paterna, originaria di Montenerodomo (in provincia di Chieti),
ma trapiantata a Napoli, legata invece ad una mentalità di stampo borbonico. C.
crebbe in un ambiente profondamente cattolico, dal quale però, ancora
adolescente, si distaccò, non riaccostandosi più per tutta la vita alla
religiosità tradizionale. Il terremoto di Casamicciola A diciassette anni
perse i genitori, Pasquale C. e Luisa Sipari, e la sorella Maria, periti durante il terremoto di Casamicciola,
nell'isola d'Ischia, dove C. si trovava in vacanza con la famiglia. Un
terremoto durato non più di 90 secondi ma dalla potenza devastatrice enorme - e
per questo rimasto come esempio terribile di distruzione nel modo di dire delle
popolazioni coinvolte - dove lo stesso Benedetto rimase «sepolto per parecchie
ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo. Il "problema del
male", in sottofondo alla sua filosofia ottimistica sul progresso, rimarrà
insoluto, se non addirittura negato, e dietro le quinte del suo pensiero,
influenzato da questi eventi giovanili come evidenziato dalle meditazioni
private dei Taccuini personali. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi:
i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia
fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri
di suicidio.Fra i primi ad accorrere in suo aiuto fu il cugino Petroni, la
famiglia del quale lo assisté affettuosamente nei mesi seguenti nella loro
residenza di campagna a San Cipriano Picentino, paese non troppo distante da
Salerno. In seguito a questo tragico episodio fu affidato, assieme al fratello superstite
Alfonso, alla tutela del cugino Silvio Spaventa, figlio della prozia Maria Anna
C. e fratello del filosofo Spaventa, che, mettendo da parte dei dissapori
storici che aveva con la famiglia Croce, lo accolse nella propria casa a Roma,
dove il giovane Benedetto trascorse gli anni dell'adolescenza ed ebbe modo di
formarsi culturalmente[14] fino all'età di vent'anni. Nel circolo culturale
nella casa dello zio Silvio, C. ebbe modo di frequentare importanti uomini
politici ed intellettuali tra cui Labriola che lo inizierà al marxismo. Pur
essendo iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Napoli,
Croce frequentò le lezioni di filosofia morale a Roma tenute dal Labriola. Non
terminò mai i suoi studi universitari, ma si appassionò a studi eruditi e
filosofici, trascurando il pensiero hegeliano, di cui criticava la forma
incomprensibile. Il ritorno a Napoli Lasciata la Roma troppo accesa di
passioni politiche, Tornò a Napoli, dove acquistò, per abitarvi, la casa dove
aveva trascorso la sua vita VICO, il filosofo napoletano amato da C. per la
concezione filosofica anticipatrice, per certi aspetti, della sua. Fu tra i
fondatori della Società dei Nove Musi, un cenacolo di intellettuali. Compì
numerosi viaggi in Spagna, Germania, Francia e Regno Unito mentre nella sua
formazione culturale cresceva l'interesse per gli studi storici e letterari, in
particolare per la poesia di Carducci, e per le opere di Sanctis. Attraverso
Antonio Labriola con cui era rimasto in contatto, si interessò al marxismo, di
cui però criticava come astorica la visione che dava del capitalismo. Da Marx
risalì alla filosofia hegeliana che cominciò ad apprezzare e ad
approfondire. La fondazione de La critica e la vita politica Uscì il
primo numero della rivista La critica, con la collaborazione di Gentile, e
stampata a sue spese, allorché subentrò l'editore Laterza. Venne nominato per
censo senator e fu Ministro della Pubblica Istruzione nel quinto e ultimo
governo Giolitti. Con regio decreto dgli
fu concesso il titolo di "Nobile". Elaborò una riforma della pubblica
istruzione che fu poi ripresa e attuata da Gentile. Posizione nella prima
guerra mondiale «Ardenti e vivacissime furono in quei dieci mesi le polemiche
tra «interventisti» e «neutralisti», come erano chiamati non si può dire che
[gli interventisti] avessero torto, come non si può dire che l'avessero i loro
oppositori, perché dissidî di questa sorta non sono materia, nonché di
tribunali, neppure di critica scientifica, e hanno questo carattere entrambe le
tesi, appassionatamente difese, sono necessarie per l'effetto politico e, come
suona il motto, che, se una delle due opposizioni non ci fosse, converrebbe
inventarla. Più di un cosiddetto «neutralista» si sentiva talvolta scosso dalla
tesi avversaria e inclinava ad accoglierla, e il medesimo accadeva a più di un
«interventista. Storia d'Italia Bari, Laterza) Il filosofo, nella scelta tra le
due posizioni, neutralismo o interventismo alla prima guerra mondiale, si
rivolse alla prima; ma il suo era un neutralismo che contemperava le posizioni
liberali con la possibilità dell'intervento (rimase comunque poco favorevole
alla guerra, e, non obbligato ad arruolarsi, per limiti di età - 49 anni -, non
andò mai al fronte a differenza di altri intellettuali come D'Annunzio,
volontario. Scriveva a Bigot che era pronto ad accettare quella guerra che
saremo costretti a fare, quale che sia, anche contro la Germania, ad accettarla
come una dolorosa necessità, risoluto a non provocarla per ragioni
antinazionali e settarie» (C., Epistolario, Napoli) Il rapporto con il
fascismo L'iniziale fiducia al governo fascista C. nella sua biblioteca
Inizialmente C. fu vicino al fascismo. Ascoltò e applaudì il discorso di MUSSOLINI
al teatro San Carlo di Napoli, durante l'adunata preparatoria per la marcia su
Roma. In occasione delle votazioni al Senato, successive all'uccisione del
deputato socialista Matteotti, fu tra i 225 senatori che votarono la fiducia al
governo MUSSOLINI, insieme a Gentile e Morello. In seguito C. spiegò in
un'intervista che il suo non era stato un voto fascista, ha votato a favore del
regime perché pensava che MUSSOLINI, se sostenuto, puo esser sottratto
all'estremismo fascista a cui C. fa risalire la responsabilità del delitto
Matteotti. Abbiamo deciso di dare il voto di fiducia. Ma, intendiamoci,
fiducia condizionata. Nell'ordine del giorno che abbiamo redatto è detto
esplicitamente che il senato si aspetta che il Governo restauri la legalità e
la giustizia, come del resto Mussolini ha promesso nel suo discorso. A questo
modo noi lo teniamo prigioniero, pronti a negargli la fiducia se non tiene fede
alla parola data. Vedete: il fascismo è stato un bene; adesso è divenuto un
male, e bisogna che se ne vada. Ma deve andarsene senza scosse, nel momento
opportuno, e questo momento potremo sceglierlo noi, giacché la permanenza di
Mussolini al potere è condizionata al nostro beneplacito. C. scrive su Il Giornale
d'Italiache il regime mussoliniano «non poteva e non doveva essere altro che un
ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime
liberale». La rottura e il Manifesto degli intellettuali antifascisti Il
filosofo abruzzese si allontanò definitivamente dal regime allorché, su
sollecitazione di Amendola, scrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti
in replica al Manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile. Lo scritto,
pubblicato sul quotidiano Il Mondo, tra l'altro sosteneva. Contaminare politica
e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si faccia, come
in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la
soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore generoso.
E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti, un atto che risplende di
molto delicato sentire verso la patria, i cui travagli non è lecito sottoporre
al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di
guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie
nazioni. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la
nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e,
d'altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo
spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli
all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di
violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di
atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di
corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della cultura e di conati
sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e
di cinismo. Per questa caotica e inafferrabile "religione" noi non ci
sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due
secoli e mezzo è stata l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna;
quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia,
di generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione intellettuale e
morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni
avanzamento.» Secondo Norberto Bobbio, il Manifesto degli intellettuali
antifascisti sancì l'assunzione da parte di C. del ruolo di coscienza morale
dell'antifascismo italiano» e di «filosofo della libertà. Lo scritto segnò
inoltre la rottura dell'amicizia con Gentile, a causa delle ormai
inconciliabili divergenze filosofiche e politiche. In seguito Croce fu l'unica
voce fuori dal coro tollerata dal regime. Il ruolo di Croce come coscienza
dell'antifascismo è testimoniato, tra gli altri, da Primo Levi, che ricordò che
negli anni del fascismo e della guerra, segnati per gli antifascisti da
smarrimento morale, isolamento e incertezze, solo «La Bibbia, C., la geometria,
la fisica, ci apparivano fonti di certezza. Il mio liberalismo è cosa che porto
nel sangue, come figlio morale degli uomini che fecero il Risorgimento
italiano, figlio di Sanctis e degli altri che ho salutato sempre miei maestri
di vita. La storia mi metterà tra i vincitori o mi getterà tra i vinti. Ciò non
mi riguarda. Io sento che ho quel posto da difendere, che pel bene dell'Italia
quel posto dev'essere difeso da qualcuno, e che tra i qualcuni sono chiamato
anch'io a quell'ufficio. Ecco tutto.» (Lettera a Alfieri) Rifiutò di
entrare nell'Accademia d'Italia, e dopo un breve appoggio al movimento
antifascista Alleanza Nazionale per la Libertà, fondato dal poeta Lauro De
Bosis, si allontanò dalla vita politica, continuando peraltro ad esprimere
liberamente le sue idee politiche, senza che il regime fascista lo censurasse,
almeno esplicitamente. L'unico atto di ostilità violenta ed esplicita compiuto
dal fascismo verso C. fu la devastazione della sua casa napoletana. Negl’anni
successivi, quelli della sua affermazione e del cosiddetto consenso, il
fascismo ritenne C. un avversario poco temibile, sostenitore com'era della tesi
di un fascismo inteso come malattia morale inevitabilmente superata dal
progresso della storia. Inoltre la fama di C. presso l'opinione pubblica
europea lo proteggeva da interventi oppressivi da parte del regime. Ha altresì
blandi rapporti culturali con intellettuali in qualche modo vicini al regime,
anche se marginali, come un carteggio epistolare con il tradizionalista Julius
Evola, a cui espresse l'apprezzamento formale per due opere, da pubblicare
presso Laterza con il benestare dello stesso C., Saggi sull'idealismo magico,
Teoria dell'individuo assoluto e, successivamente, La tradizione ermetica. Il
governo fascista richiese ai docenti delle università italiane un atto di
formale adesione al regime in base all'articolo del regio decreto (il
cosiddetto giuramento di fedeltà al fascismo). A seguito di tale provvedimento,
i docenti avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo alla patria,
secondo quanto già imposto dal regolamento generale universitario, ma anche al
regime fascista. In quell'occasione, C. incoraggiò professori come Calogero e
Einaudi a rimanere all'università, «per continuare il filo dell'insegnamento secondo
l'idea di libertà. Se la sua figura fu importante per l'area politica del
liberalismo, la sua scuola ha durante tutto il ventennio fascista una platea
assai più ampia di allievi: del resto, già prima dalle sue idee avevano tratto
esempio anche Gramsci e il gruppo comunista de L'Ordine Nuovo.Polemica sulla
Giornata della fede La non adesione di C. al fascismo parve messa in discussione
dal gesto compiuto durante la Guerra d'Etiopia, quando il filosofo, in
occasione della Giornata della fede dona la propria medaglietta da senatore
accompagnandola con questa secca lettera al presidente del Senato. Eccellenza,
quantunque io non approvi la politica del Governo, ho accolto in omaggio al
nome della Patria, l'invito dell'E.V., e ho rimesso alla questura del Senato la
mia medaglia, Il gesto suscita negl’ambienti dell'antifascismo italiano, in
patria e all'estero, sorpresa, dolore e polemiche che colpirono dolorosamente C..
Al termine di un drammatico colloquio con Ceva, inviata a sostenere il punto di
vista degl’antifascisti, dopo un iniziale tentativo di giustificazione, C. affermò.
Dica che io sono sempre lo stesso, che sono sempre con loro. Il regime varò la
legislazione anti-semita. C. non era presente nell'aula del Senato, quale forma
di protesta. Egli fu uno dei pochi a esprimersi contro di esse a livello
pubblico. Il governo invia a tutti i professori universitari e i membri delle
accademie un questionario da compilare ai fini della classificazione
"razziale". Tutti gl’interpellati risposero. L'unico intellettuale
non ebreo che rifiuta di compilare il questionario è Croce. L'unico
effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo
me, che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare
che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata. Il filosofo,
invece di restituire compilata la scheda, invia una lettera al presidente
dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, in cui scrive sarcasticamente.
Gentilissimo collega, ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto
rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito, preferendo di
farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa
sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato alla vita politica del suo
paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose? (C. a Messedaglia,
Presidente dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti di Venezia, in A.
CAPRISTO, L’espulsione degl’ebrei dalle accademie italiane, Torino, Zamorani. C.
è quindi espulso da quasi tutte le accademie di cui è membro, comprese
l'Accademia Nazionale dei Lincei e la Società Napoletana di Storia
Patria. All'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, unica accademia
che lo mantenne socio, alla fine della guerra C. riconosce il merito di non
averlo espulso durante il regime fascista. Dopo aver denunciato la persecuzione
degl’ebrei, C. però critica anche gli atteggiamenti degl’ebrei stessi, sia
quelli che hanno aderito al fascismo, sia quelli che vivevano separati,
ritenendo la specificità ebraica come pericolosa per gl’ebrei stessi. Quando
s'iniziò l'infame persecuzione contro gl’ebrei, io ebbi, con un brivido di
orrore, la piena rivelazione della sostanziale delinquenza che è nel fascismo,
come chi fosse costretto ad assistere allo sgozzamento a freddo di un innocente
e mi misi di lancio dalla loro parte con tutto l'esser mio per fare quello che
per loro si poteva a lenire o diminuire il loro strazio. Molti danni e molte
iniquità compiute dal fascismo non si possono ora riparare per essi come per
altr’italiani che le soffersero, né essi vorranno chiedere privilegi o
preferenze, e anzi il loro studio dovrebbe essere di fondersi sempre meglio con
gl’altri italiani; procurando di cancellare quella distinzione e divisione
nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto
in passato alle persecuzioni, è da temere ne dia ancora in avvenire l'idea di popolo
eletto, che è tanto poco saggia che la fece sua Hitler, il quale, purtroppo,
aveva a suo uso i mezzi che lo resero ardito a tentarne la folle attuazione.
Essi disconoscono le premesse storiche -- Grecia, ROMA, Cristianità -- della
civiltà di cui dovrebbero venire a fare parte. Lettera a Merzagora) Espresse
quindi una posizione di perplessità per il sionismo. Il rientro nella vita
politica Dopo la caduta del regime C. rientra in politica, accettando la nomina
a presidente del Partito Liberale Italiano. Durante la Resistenza cercò di
mediare tra i vari partiti antifascisti e fu Ministro senza portafoglio nel
secondo governo Badoglio, benché non stimasse né il Maresciallo né il re
Vittorio Emanuele III, a causa della loro compromissione col fascismo. Subito
dopo la liberazione di Roma entrò a far parte del secondo governo Bonomi,
sempre come ministro senza portafoglio, ma diede le dimissioni qualche mese
dopo. Egli avrebbe preferito
l'abdicazione diretta del sovrano in favore del piccolo Vittorio Emanuele (con
rinuncia di Umberto al trono), la reggenza a Badoglio e l'incarico di capo del
governo a Carlo Sforza, ma i rappresentanti del Regno Unito si opposero. Al
referendum sulla forma dello Stato votò per la monarchia, inducendo tuttavia il
Partito Liberale (di cui rimane presidente) a non schierarsi, per far sì che
prevalesse sulla questione piena ed effettiva libertà di scelta, e dichiarando
in seguito: «il buon senso fece considerare a quei milioni di votanti
favorevoli alla monarchia, che, se anche essi avessero riportato la maggioranza
legale, una monarchia con debole maggioranza non avrebbe avuto il prestigio e
l'autorità necessaria, e perciò meglio valeva accettare la forma nuova della
Repubblica e procurar di farla vivere nel miglior modo, apportandovi lealmente
il contributo delle proprie forze. C. con Altavilla e il Capo provvisorio dello
Stato, Concetti che C. aveva, nella loro sostanza, già espresso; ben prima che
Umberto II, nel messaggio ribadisse tale indicazione. Eletto all'Assemblea
Costituente, non accettò la proposta di essere candidato a Capo provvisorio
dello Stato, così come in seguito rifiutò la proposta, avanzata da Luigi
Einaudi, di nomina a senatore a vita. Si oppose strenuamente alla firma del
Trattato di pace, con un accorato e famoso intervento all'Assemblea
costituente, ritenendolo indecoroso per la nuova Repubblica. Fonda a
Napoli l'Istituto italiano per gli studi storici destinando per la sede un
appartamento di sua proprietà, accanto alla propria abitazione e biblioteca nel
Palazzo Filomarino dove oggi ha sede la Fondazione Biblioteca C. Presidente
dell'associazione PEN International e, negli stessi anni, entrò a far parte del
Consiglio di Amministrazione dell'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli. Per
un ictus cerebrale rimase semiparalizzato e si ritirò in casa continuando a
studiare: morì seduto in poltrona nella sua biblioteca. I funerali solenni si
tennero nella sua Napoli e le sue spoglie tumulate nella tomba di famiglia al
Cimitero di Poggioreale. Il rapporto con la cultura cattolica «Pure filosofo
quale sono io stimo che il più profondo rivolgimento spirituale compiuto
dall'umanità sia stato il cristianesimo, e il cristianesimo ho ricevuto e
serbo, lievito perpetuo, nella mia anima. Il rapporto di C. con la cultura
cattolica varia nel corso del tempo. I filosofi idealisti, come C. e Gentile,
avevano esercitato assieme alla cultura cattolica una comune critica al
positivismo ottocentesco. Alla fine degli anni venti vi era stato un
progressivo allontanamento della cultura laica e idealistica dalla cultura
cattolica. Croce, pur non essendo un anticlericale militante, riteneva
importante la separazione liberale tra culto e stato, propugnata da CAVOUR. Il
culto con i Patti Lateranensi ha ormai raggiunto un rapporto equilibrato con le
istituzioni statali italiane distaccandosi quindi dalle posizioni politiche
antifasciste dell'idealismo crociano. C. fu contrario al Concordato e dichiara
apertamente in Senato che accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi
valer bene una messa, sono altri per i quali l'ascoltare o no una messa è cosa
che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza. Mussolini
gli rispose dichiarandolo «un imboscato della storia», e accusando il filosofo
di passatismo e di viltà di fronte al progresso storico. Quando C. scrive la
Storia d'Europa, il Vaticano critica aspramente l'autore che difendeva le
filosofie esaltanti una religione della libertà senza Dio. Il Sant'Uffizio pose
all'Indice questo saggio ma, non ottenendo negli anni successivi da C. un qualsiasi
ripensamento, ninserì nell'elenco dei libri proibiti tutti i suoi scritti. La
polemica anti-concordataria crociana vide l'adesione del giovane filosofo
nonviolento e liberalsocialista Aldo Capitini che a Firenze, a casa di Luigi
Russo, aveva avuto modo di conoscere C., a cui aveva consegnato un pacco di
dattiloscritti che il filosofo napoletano aveva apprezzato e fatto pubblicare
nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo
Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventarono uno
tra i principali riferimenti letterari della gioventù antifascista. La
posizione personale di C. nei confronti della religione cattolica è ben
espressa nel suo saggio Perché non possiamo non dirci "cristiani". Il
termine "cristiani" inserito nel titolo tra virgolette non voleva
indicare l'adesione a un credo confessionale, bensì la consapevolezza di
un'inevitabile appartenenza culturale rappresentata nella sua particolare
prospettiva dal fenomeno del cristianesimo: non si trattava di una professione
di fede cristiana dovuta a un rinnegamento dell'agnosticismo come volle fare
intendere la propaganda fascista, ma di riconoscere il valore storico e di
«rivolgimento spirituale»: «Il cristianesimo è stato la più grande
rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e
profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo
attuarsi, che non maraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un
miracolo, una rivelazione dall'alto, un intervento di Dio nelle cose umane, che
da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo. Tutte le altre
rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana,
non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate.
Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell'arte, della
filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per la capacità dei
princìpi cristiani di contrastare il neopaganesimo e l'ateismo propagandati dal
nazismo e dal comunismo sovietico. Sono profondamente convinto e persuaso che
il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell'impulso dato
da Gesù e da Paolo. Su di ciò ho scritto una breve nota, di carattere storico,
che pubblicherò appena ne avrò lo spazio disponibile. Del resto non sente Ella
che in questa terribile guerra mondiale ciò che è in contrasto è una concezione
ancora cristiana della vita con un'altra che potrebbe risalire all'età
precristiana, e anzi pre-ellenica e pre-orientale, e riattaccare quella
anteriore alla civiltà, la barbarica violenza dell'orda? C., in sintesi, vede
nel cristianesimo il fondamento storico della civiltà occidentale ma non
ripudia l'immanentismo radicale del suo pensiero che vede nella religione un
momento della realizzazione storica dello spirito che si avvia, superandolo, ad
una più alta sintesi. All'Assemblea Costituente lotterà contro
l'inserimento, voluto dalla DC, e dal comunista Togliatti, dei Patti
Lateranensi nel secondo comma dell'articolo della Costituzione della Repubblica
Italiana, giudicandolo come "sfacciata prepotenza pretesca". In vista
delle elezioni politiche, tuttavia, si accordò con il segretario della
Democrazia Cristiana, Alcide De Gasperi, per dare vita a un manifesto comune,
Europa, cultura e libertà, contro i totalitarismi passati e presenti. A seguito
della vittoria della DC, replicò severamente ai laici benpensanti schierati col
Fronte Popolare che sbeffeggiavano il ceto umile e contadino di cui era
composto in prevalenza l'elettorato cattolico: «Beneditele quelle beghine
di cui ridete, perché senza il loro voto e il loro impegno oggi non saremmo
liberi. Lasciando disposizioni per la sua morte (che avverrà tre anni dopo)
scriverà invece che la sensibilità religiosa della moglie cattolica le
consentirà di evitare che un sacerdote tenti di "redimerlo"
all'ultimo minuto, perché è "cosa orrenda profittare delle infermità per
strappare a un uomo una parola che sano egli non avrebbe mai detta". C. fu legato sentimentalmente e convisse con
Angelina Zampanelli, fino alla morte di lei. La coppia prese alloggio a Palazzo
Filomarino, a Napoli. Angelina, sofferente di cuore, morì poco più che
quarantenne a Raiano, dove insieme a Croce ella soggiornava spesso d'estate,
presso il Palazzo Rossi-Sagaria, ospiti della cugina del filosofo, Petroni,
moglie di Rossi. C. sposa a Torino, con rito religioso e poi civile, Adele
Rossi, da cui ha V figli: Giulio, Elena, Alda, Lidia (moglie dello scrittore e
dissidente anticomunista polacco Grudziński) e Silvia. Il filosofo, oggi, deve
non già fare il puro filosofo, ma esercitare un qualche mestiere, e in primo
luogo, il mestiere dell'uomo.» (C., Lettere a Vittorio Enzo Alfieri, Sicilia
Nuova Editrice, Milazzo. L'opera di Croce può essere suddivisa in tre periodi:
quello degli studi storici, letterari e il dialogo con il marxismo, quello
della maturità e delle opere filosofiche sistematiche e quello
dell'approfondimento teorico e revisione della filosofia dello spirito in
chiave storicista. Come idealista, ritiene che la realtà sia quella che viene
concepita dal soggetto, in quanto riflesso della sua idea e interiorità, ed è
convinto che la razionalità e la libertà emergano nella storia, pur tra immani
difficoltà. La filosofia idealista riconduce totalmente l'essere al pensiero,
negando esistenza autonoma alla realtà fenomenica, ritenuta il riflesso di
un'attività interna al soggetto; l'idealismo, come in Hegel, implica una
concezione etica fortemente rigorosa, come ad esempio nel pensiero di Fichte
che è incentrato sul dovere morale dell'uomo di ricondurre il mondo al
principio ideale da cui esso ha origine; in C. questo ideale è la libertà
umana. Definito da Gramsci "papa laico della cultura italiana", a sua
filosofia ha goduto di enorme credito nella cultura italiana del XX secolo,
perlomeno fino agli anni settanta e ottanta, in cui si sono levate molte
critiche verso il suo approccio, ritenuto superato. Croce fu un intellettuale
rispettato anche al di fuori dell'Italia: la rivista Time gli dedicò la
copertina e contestualmente alla rivalutazione del pensiero crociano, si è
registrato l'interesse della collana editoriale di Stanford, mentre la rivista
statunitense di politica internazionale Foreign Affairs lo inserì tra i
pensatori più attuali, accanto a intellettuali come Berlin, Fukuyama e Trotsky.
Parallelamente allo studio del marxismo, C. approfondisce anche il pensiero di
Hegel; secondo entrambi la realtà si dà come spirito che continuamente si
determina e, in un certo senso, si produce. Lo spirito è quindi la forza
animatrice della realtà, che si auto-organizza dinamicamente divenendo storia
secondo un processo razionale. Da Hegel egli recupera soprattutto il carattere
razionalistico e dialettico in sede gnoseologica: la conoscenza si produrrebbe
allora attraverso processi di mediazione dal particolare all'universale, dal
concreto all'astratto, per cui C. afferma che la conoscenza è data dal giudizio
storico, nel quale universale e particolare si fondono recuperando la sintesi a
priori di Kant e lo storicismo di VICO, suo altro filosofo di riferimento. Da
destra, Giovanni Laterza, Jacini, C. e Secly. Il divenire e la logica della
dialettica, in Hegel e in Marx, è esso stesso verità in movimento; anche per C.
la verità è dialettica, ma occorre esprimere un giudizio storico ed esistono
delle regole che arginano la pretesa giustificativa di ogni fenomeno: in Croce
lo Spirito - in quanto intelletto umano - si realizza nella storia ma nel
rispetto della libertà. Per questo ogni fatto è quindi calato nella realtà
storica, ma questo non può giustificare, con la scusa del divenire e del
progresso, aspetti deplorevoli come, ad esempio, il totalitarismo fascista o
comunista, il primo come necessario (concezione di Gentile e della sua idea di
realtà come atto puro di pensare e agire) e il secondo come fase storica
obbligata (seguendo il concetto marxiano della dittatura del proletariato, di cui
il filosofo tedesco parla nella sua teoria "razionalista" del
materialismo storico). Quindi il materialismo dialettico di Engels e quello
storico di Marx sono da ritenersi errati. In questo, il suo storicismo si
differenzia dal pensiero di un altro filosofo liberale, Popper, secondo cui
dialettica e storicismo finiscono invece per generare quasi sempre
totalitarismo (concezione assai diffusa nel pensiero del liberalismo
novecentesco). Al contrario di Popper e Arendt, per C. la radice totalitaria è
proprio nell'antistoricismo, cioè nel rifiuto dello storicismo stesso. Il
neoidealismo entrò in crisi, sostituito da nuove filosofie come
l'esistenzialismo e la fenomenologia; sempre in nome del libertà e
dell'umanesimo, C. critica l'esistenzialista Heidegger, divenuto poi
anti-umanistico e colpevole di accondiscendenza verso il nazismo, definendolo
anche "un Gentile più dotto e più acuto, ma sostanzialmente della stessa
pasta morale. Esprime così un tagliente
giudizio sul filosofo di Essere e tempo. Scrittore di generiche sottigliezze,
arieggiante a un Proust cattedratico, egli che, nei suoi libri non ha dato mai
segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia,
dell'etica, della politica, della poesia, dell'arte, della concreta vita
spirituale nelle sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri
filosofi tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi
si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la
storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e
materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come
celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l'unico e
vero attore, l'umanità. E così si appresta o si offre a rendere servigi
filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la
filosofia.» (Conversazioni Critiche, Serie Quinta, Bari, Laterza. L'asserzione
di Hegel che "la storia sia storia di libertà" viene da Croce
inquadrata nella sua concezione dialettica della libertà vista nel suo iniziale
nascere, nel successivo crescere e infine nel raggiungimento di uno stadio
finale e definitivo di maturità. C. fa proprio questo detto hegeliano chiarendo
però che non si vuole «assegnare alla storia il tema del formarsi di una
libertà che prima non era e che un giorno sarà, ma per affermare la libertà
come l'eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia. Come
tale essa è per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per
l'altro, l'ideale morale dell'umanità». I popoli e gli individui anelano sempre
alla libertà, e come dice Hegel «ciò che è razionale è reale» (cioè la ragione
concepisce quello che può diventare reale) e «ciò che è reale è razionale»
(cioè esiste un'intrinseca razionalità, anche minima, in ogni fenomeno storico,
anche se non tutto il reale è ovviamente razionale). Alcuni storici, senza ben
rendersi conto di quello che scrivono, sostengono che ormai la libertà ha
abbandonato la scena della storia. Ma affermare che la libertà è morta vorrebbe
dire che è morta la vita. Non esiste nella storia un ideale che possa
sostituire quello della libertà «che è l'unica che faccia battere il cuore
dell'uomo, nella sua qualità di uomo». Ciò significa che la libertà non è una
fase di presa di coscienza che conduce allo Stato etico o al socialismo,
venendo superata, ma è essa stessa la verità nel divenire, non una fase. Egli
critica Hegel, poiché secondo lui il filosofo ha concepito la dialettica in
modo riduttivo, ovvero semplicemente come dialettica degli opposti, mentre
secondo C. sussiste anche una logica dei distinti: non ogni negazione è infatti
opposizione, ma può essere semplice distinzione. Ciò significa che certi atti
ed eventi devono essere sempre considerati appunto distinti rispetto ad altri
ordini di atti ed eventi, e non ad essi opposti. Elabora, quindi, un vero e
proprio sistema, da lui denominato la filosofia dello spirito. Inoltre, la
prima importante differenza con Hegel è che nel sistema crociano non vi rientra
né la religione, né la natura. La religione sarebbe infatti un complesso
miscuglio di elementi poetici, morali e filosofici che le impediscono di
presentarsi come forma autonoma dello Spirito. La natura poi non è altro che
l'oggetto "mascherato" dell'attività economica, è il frutto della
considerazione economica diretta al mondo. Qui la realtà in quanto attività
(ovvero produzione dello spirito o della storia) è articolata in quattro forme
fondamentali, suddivise per modo (teoretico o pratico) e grado (particolare o
universale): estetica (teoretica - particolare), logica (teoretica-universale),
economia (pratica - particolare), etica (pratica - universale). La relazione
tra queste quattro forme opera la suddetta logica dei distinti, mentre
all'interno di ognuna di esse si ha la dialettica degli opposti. All'interno
dell'estetica infatti si ha opposizione dialettica tra bello e brutto,
all'interno della logica, l'opposizione è tra vero e falso; nella economia tra
utile e inutile e infine nell'etica tra bene e male. Estetica C. scrisse
anche importanti opere di critica letteraria (saggi su Goethe, Ariosto,
Shakespeare e Corneille, "La letteratura della nuova Italia" e
"La poesia di Dante"). Egli si mosse nell'ambito della sua teoria
estetica che mirava alla scoperta delle motivazioni profonde dell'ispirazione
artistica. Quest'ultima era ritenuta tanto più valida quanto più coerente con
le categorie di bello-brutto. La prima parte della teoria estetica la
ritroviamo in opere come Estetica come scienza dell'espressione e linguistica
generale, Breviario di estetica e Aesthetica in nuce. In seguito modificò
questa iniziale teoria stabilendo per la storia un nesso con la filosofia.
L'estetica, dal significato originario del termine aisthesis (sensazione), si
configura in primo luogo come attività teoretica relativa al sensibile, si
riferisce alle rappresentazioni e alle intuizioni che noi abbiamo della
realtà. Come conoscenza del particolare l'intuizione estetica è la prima
forma della vita dello Spirito. Prima logicamente e non cronologicamente poiché
tutte le forme sono presenti insieme nello spirito. L'arte, come aspetto
dell'Estetica, è una forma della vita spirituale che consiste nella conoscenza,
intuizione del particolare che: come forma dello spirito, come creatività
non è sensazione, conoscenza sensibile che è un aspetto passivo dello spirito
rispetto ad una materia oscura e ad esso estranea; come conoscenza (prima forma
dell'attività teoretica) non ha a che fare con la vita pratica. Bisogna quindi
respingere tutte le estetiche che abbiano fini edonistici, sentimentali e
moralistici; quale espressione di un valore autonomo dello spirito, l'arte non
può né deve essere giudicata secondo criteri di verità, moralità o godimento;
come intuizione pura va distinta dal concetto che è conoscenza dell'universale:
compito proprio della filosofia. L'arte può essere definita quindi come
intuizione-espressione, due termini inscindibili per cui non è possibile
intuire senza esprimere né è possibile espressione senza intuizione. Ciò che
l'artista intuisce è la stessa immagine (pittorica, letteraria, musicale ecc.)
che egli per ispirazione crea da una considerazione del reale, nel senso che
l'opera artistica è l'unità indifferenziata della percezione del reale e della
semplice immagine del possibile. La distinzione tra arte e non arte risiede nel
grado di intensità dell'intuizione-espressione. Tutti noi intuiamo ed
esprimiamo: ma l'artista è tale perché ha un'intuizione più forte, ricca e
profonda a cui sa far corrispondere un'espressione adeguata. Coloro che
sostengono di essere artisti potenziali poiché hanno delle intense intuizioni
ma che non sono capaci di tradurre in espressioni, non si rendono conto che in
realtà non hanno alcuna intuizione poiché se la possedessero veramente essa si
tradurrebbe in espressione. L'arte non è aggiunta di una forma ad un contenuto
ma espressione, che non vuol dire comunicare, estrinsecare, ma è un fatto
spirituale, interiore come l'atto inscindibile da questa che è l'intuizione.
Nell'estetica dobbiamo far rientrare anche quella forma dell'espressione che è
il linguaggio che nella sua natura spirituale fa tutt'uno con la poesia.
L'estetica quindi come una «linguistica in generale». Dall'estetica deriva la
critica letteraria crociana, espressa in molti saggi. Della logica, Croce
tratta essenzialmente nella Logica come scienza del concetto puro); essa
corrisponde al momento in cui l'attività teoretica non è più affidata alla sola
intuizione (all'ambito estetico), ma partecipa dell'elemento razionale, che
attinge dalla sfera dell'universale. Il punto di arrivo di questa attività è
l'elaborazione del concetto puro, universale e concreto che esprime la verità
universale di una determinazione. La logica crociana è anche storica, nella
misura in cui essa deve analizzare la genesi e lo sviluppo (storico) degli
oggetti di cui si occupa. Il termine logica in C. assume quindi un significato
più vicino al termine dialettica ovvero ricerca storiografica. In genere, la
Logica di C. è lontana da criteri scientifico-razionali, e si ispira ai metodi
dell'immaginazione artistica e dell'eleganza estetico-letteraria, nei quali il
filosofo raggiunge risultati eccellenti. Di carattere decisamente diverso è
invece la filosofia delle scienze fisiche, matematiche e naturali delle quali C.
non si occupa affatto nei suoi studi. Del resto, come segnala Geymonat nel suo
Corso di filosofia - immagini dell'uomo, la vera indubbia grandezza di C. va
cercata assai più nella sua opera di storiografo, di critico letterario, ecc.,
che non nella sua opera di filosofo. Gentile ai tempi del direttorato alla
Scuola normale di Pisa. In ogni caso la logica e la filosofia della scienza è
stata sviluppata in Italia da altre correnti di pensiero contemporaneo a quello
crociano, con studiosi fra quali Peano e lo stesso Geymonat. Un orientamento
parzialmente diverso ebbe invece Giovanni Gentile che, pur criticando gli
eccessi del positivismo, intrattenne anche rapporti con matematici e fisici
italiani e cercò di instaurare un rapporto costruttivo con la cultura
scientifica. Invece C. ha con la logica e la scienza un rapporto difficile. La
sua posizione portò in Italia nella prima metà del Novecento ad uno scontro
dialettico fra due culture contrapposte: quella artistico-letteraria e quella
tecnico-scientifica. Il rapporto conflittuale con le scienze matematiche e
sperimentali Un caso emblematico del giudizio di C. nei confronti della
matematica e delle scienze sperimentali è la sua nota diatriba con il
matematico e filosofo della scienza Enriques, avvenuta in seno al congresso
della Società Filosofica Italiana, fondata e presieduta dallo stesso Enriques.
Questi sostene che una filosofia degna di una nazione progredita non potesse
ignorare gli apporti delle più recenti scoperte scientifiche. La visione di
Enriques mal si confaceva a quella idealistica di C. e Gentile, come pure a
gran parte degli esponenti della filosofia italiana di allora, per lo più
formata da idealisti crociani. C., in particolare, rispose ad
Enriques[84], liquidando in modo deciso - "antifilosofico" secondo
Enriques - la proposta di considerare la scienza come un valido apporto alle
problematiche filosofiche e sostenendo, anzi, che matematica e scienza non sono
vere forme di conoscenza, adatte solo agli «ingegni minuti» degli scienziati e
dei tecnici, contrapponendovi le «menti universali», vale a dire quelle dei
filosofi idealisti, come C. medesimo. I concetti scientifici non sono veri e
propri concetti puri ma degli pseudoconcetti, falsi concetti, degli strumenti
pratici di costituzione fittizia. La realtà è storia e solo storicamente
la si conosce, e le scienze la misurano bensì e la classificano come è pur
necessario, ma non propriamente la conoscono né loro ufficio è di conoscerla
nell'intrinseco. Sul tema C. sostenne, tra l'altro, che: «Gli uomini di
scienza [...] sono l'incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla
sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all'organismo
filosofico-storico.» (C. da Il risveglio filosofico e la cultura
italiana, A proposito dello sviluppo della logica matematica e
dell'introduzione dei formalismi simbolici, ad opera di matematici e filosofi
quali Frege, Peano, Russell, C. dichiara. I nuovi congegni della logica
matematica sono stati offerti sul mercato. E tutti, sempre, li hanno stimati
troppo costosi e complicati, cosicché non sono finora entrati né punto né poco
nell'uso. Vi entreranno nell'avvenire? La cosa non sembra probabile e, ad ogni
modo, è fuori della competenza della filosofia e appartiene a quella della
pratica riuscita: da raccomandarsi, se mai, ai commessi viaggiatori che
persuadano dell'utilità della nuova merce e le acquistino clienti e mercati. Se
molti o alcuni adotteranno i nuovi congegni logici, questi avranno provato la
loro grande o piccola utilità. Ma la loro nullità filosofica rimane, sin da
ora, pienamente provata. (C. da Logica come scienza del concetto puro. Anni
dopo, ancora scrive. Le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona
grazia, hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse
rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono
concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la
meditazione del vero. C. da Indagini su Hegel e e schiarimenti filosofici e
ribadiva come: «Le finzioni delle scienze naturali e matematiche
postulano di necessità l'idea di un'idea che non sia finta. La logica, come
scienza del conoscere, non può essere, nel suo oggetto proprio, scienza di
finzioni e di nomi, ma scienza della scienza vera e perciò del concetto
filosofico e quindi filosofia della filosofia. C. da Indagini su Hegel e schiarimenti
filosofici. Tuttavia ebbe altresì un cordiale e rispettoso scambio epistolare
con Albert Einstein. Secondo diversi storici e filosofi (es. Giorello, Bellone,
Massarenti), l'influenza antiscientifica di C. e di Gentile sarebbe stata
fortemente deleteria sia sul piano dell'istituzione scolastica per gli
orientamenti pedagogici della scuola italiana, che si sarebbe indirizzata
prevalentemente agli studi umanistici considerando quelli scientifici di
secondo piano, sia per la formazione di una classe politica e dirigente che
attribuisse importanza alla scienza e alla tecnica e portando, per conseguenza,
ad un ritardo dello sviluppo tecnologico e scientifico nazionale. La
scuola sarà caratterizzata dal primato dell'umanesimo letterario e in
particolare dell'umanesimo classico. Tutte le istituzioni culturali saranno
improntate al primato delle lettere, della filosofia e della storia. Giorello
nel quarantennale della morte di C. ha scritto che "predicò la religione
della libertà e per questo gli siamo riconoscenti. Ma la sua condanna della
scienza e la sua estetica hanno causato danni gravissimi alla nostra cultura.
Che ora esige riparazione. Lo stesso
Giorello però ha in parte ritrattato l'affermazione, negando che sia da
attribuire a C. il mancato sviluppo scientifico italiano, adducendo che quelle
che lui considerava una "colpa" sarebbero da accreditare maggiormente
alla Chiesa, agli scienziati stessi e alla classe politica, più che
all'idealismo, che trascura le scienze ma nemmeno le ostacola, definendo la
filosofia di Croce «interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando
si parla di scienza. C. riteneva le scienze umane e sociali prive di qualunque
validità e del tutto inutili per lo studio dei fenomeni umani. Lui stesso
dichiarò più volte di non riuscire a capire perché si dovesse sprecare del
tempo a studiare «i cretini, i bambini e i selvaggi, quando esistono pensatori
come Kant. ilosofia della pratica «La legge morale è la suprema forza della
vita e la realtà della Realtà.» (Filosofia della pratica. Etica ed
economica, Laterza, Bari) Economia ed etica vengono trattate in Filosofia della
pratica. Economica ed etica. C. dà molto rilievo alla volizione individuale che
è poi l'economia, avendo egli un forte senso della realtà e delle pulsioni che
regolano la vita umana. L'utile, che è razionale, non sempre è identico a
quello degli altri: nascono allora degli utili sociali che organizzano la vita
degli individui. Il diritto, nascendo in questo modo, è in un certo qual senso
amorale, poiché i suoi obiettivi non coincidono con quelli della morale vera e
propria. Egualmente autonoma è la sfera politica, che è intesa come luogo di
incontro-scontro tra interessi differenti, ovvero essenzialmente conflitto,
quello stesso conflitto che caratterizza il vivere in generale. C. critica
anche l'idea di Stato etico elaborata da Hegel ed estremizzata da Gentile. Lo stato
non ha nessun valore filosofico e morale, è semplicemente l'aggregazione di
individui in cui si organizzano relazioni giuridiche e politiche. L'etica è poi
concepita come l'espressione della volizione universale, propria dello spirito;
non vi è un'etica naturale o un'etica formale, e dunque non vi sono contenuti
eterni propri dell'etica, ma semplicemente essa è l'attuazione dello spirito,
che manifesta in modo razionale atti e comportamenti particolari. Questo
avviene sempre in quell'orizzonte di continuo miglioramento umano. Teoria e
storia della storiografia «La storia non è giustiziera, ma
giustificatrice» C., Teoria e storia della storiografia) La storia e lo
spirito: lo storicismo assoluto VICO Come si evince anche da Teoria e
storia della storiografia la filosofia di C., ispirata soprattutto a VICO, è
fortemente storicista. Per ciò, se volessimo riassumere con una formula la
filosofia di C., questa sarebbe storicismo assoluto, ossia la convinzione che
tutto è storia, affermando che tutta la realtà è spirito e che questo si
dispiega nella sua interezza all'interno della storia. La storia non è dunque
una sequela capricciosa di eventi, ma l'attuazione della Ragione. La conoscenza
storica ci illumina a proposito delle genesi dei fatti, è una comprensione dei
fatti che li giustifica con il suo dispiegarsi. Si delinea in quest'ottica il
compito dello storico: egli, partendo dalle fonti storiche, deve superare ogni
forma di emotività nei confronti dell'oggetto studiato e presentarlo in forma
di conoscenza. In questo modo la storia perde la sua passionalità e diviene
visione logica della realtà. Quanto appena affermato si può evincere dalla
celebre frase «la storia non è giustiziera, ma giustificatrice». Con questo
afferma che lo storico non giudica e non fa riferimento al bene o al male.
Quest'ultimo delinea, inoltre, come la storia abbia anche un preciso orizzonte
gnoseologico, poiché in primo luogo è conoscenza, e conoscenza contemporanea,
ovvero la storia non è passata, ma viva in quanto il suo studio è motivato da
interessi del presente. Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio
storico, conferisce a ogni storia il carattere di "storia
contemporanea", perché, per remoti e remotissimi che sembrino
cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre
riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano
le loro vibrazioni.La storiografia è in seconda istanza utile per comprendere
l'intima razionalità del processo dello spirito, e in terzo luogo essa è
conoscenza non astratta, ma basata su fatti ed esperienze ben precise. Anche se
subisce l'influsso dello storicismo di Voltaire, C. critica gli illuministi e
in generale tutti coloro che pretendono di individuare degli assoluti che
regolino la storia o la trascendano: invece la realtà è storia nella sua
totalità, e la storia è la vita stessa che si svolge autonomamente, secondo i
propri ritmi e le proprie ragioni. La storia è un cammino progressivo per
cui «Nulla c'è al di fuori dello spirito che diviene e progredisce
incessantemente: nulla c'è al di fuori della storia che è per l'appunto questo
progresso e questo divenire. Ma il positivo destinato a superare storicamente
la negatività dei periodi bui della storia non è una certezza su cui adagiarsi:
questa consapevolezza del progresso storico deve essere confermata da un
impegno costante degli uomini in azioni i cui risultati non sono mai scontati
né prevedibili. La storia diviene, allora, anche storia di libertà, dei modi in
cui l'uomo promuove e realizza al meglio la propria esistenza. La libertà si
traduce, sul piano politico, in liberalismo: una sorta di religione della
libertà o di metodo interpretativo della storia e di orientamento dell'azione,
che è imprescindibile nel processo del progresso storico-politico, come si
evince dal volume. La storia come pensiero e come azione Per Croce la libertà
può essere apprezzata solo difendendola costantemente in maniera dialettica,
poiché la storia è necessariamente contrasto. Chi desideri in breve persuadersi
che la libertà non può vivere diversamente da come è vissuta e vivrà sempre
nella storia, di vita pericolosa e combattente, pensi per un istante a un mondo
di libertà senza contrasti, senza minacce e senza oppressioni di nessuna sorta;
e subito se ne ritrarrà inorridito come dall'immagine, peggio che della morte,
della noia infinita.» (La storia come pensiero e come azione). Ciò però
non vuol dire che Croce giustifichi la violenza come necessaria; nello stesso
saggio ammonisce infatti che «la violenza non è forza ma debolezza, né mai può
essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla». La concezione
storica crociana ebbe grande seguito in Italia per molto tempo ed ebbe notevole
influenza anche all'estero, ad esempio per quanto riguarda la formazione del
maggior storico americano del nazismo, George Mosse. C. interviene al congresso
liberale. C. critico letterario, specie quello di Poesia e non poesia, esercitò
molta influenza successiva, quasi una "dittatura intellettuale sulla
cultura italiana, ma ricevette anche critiche: ad esempio furono ritenute
scorrette, "pseudoconcetti" (riprendendo una parola usata da Croce),
poiché non presentate come opinione personale ma come veri canoni estetici,
varie tesi, come la sua opposizione alle novità letterarie europee,
esemplificate dalle stroncature verso gran parte dell'opera di Annunzio,
Pascoli (di cui apprezzò solo alcune parti di Myricae e dei Canti di
Castelvecchio criticando i saggi e le poesie civili), del crepuscolarismo e di Leopardi:
di quest'ultimo salvò, nei Canti, gli idilli e i canti pisano-recanatesi, ma
criticò le poesie "dottrinali" e polemiche (in particolare i
Paralipomeni della Batracomiomachia e la Palinodia al marchese Gino Capponi) e
le opere filosofiche (apprezzò solo una minima parte delle Operette morali),
affermando che quella leopardiana non era vera filosofia, ma solo uno sfogo
poetico in prosa, inferiore comunque alle liriche, dovuto esclusivamente alle
condizioni fisiche e psicologiche del poeta recanatese. C. non considera
Leopardi un vero filosofo, come Schopenhauer, a cui invece riconosce dignità
filosofica ma che non apprezza come individuo poiché ritenuto cinico e
indifferente, ma solo un pensatore, il cui pensiero è essenzialmente al
servizio della sua poesia. Sulla scorta di Sanctis, esprime simpatia umana al
poeta recanatese per lo spirito civile, l'impegno e la lotta eroica contro le
sofferenze fisiche, come espresso nella poesia La Ginestra. Egli fu grande
ammiratore soprattutto del Carducci, in quanto classicista, razionale e sentimentale
al tempo stesso, ma senza scadere nel sentimentalismo irrazionale, e, a
proposito del decadentismo e degli autori di questo movimento, scrisse, in Del
carattere della più recente letteratura italiana: «Nel passare da Carducci a
questi tre, sembra, a volte, come di passare da un uomo sano a tre malati di
nervi». La polemica contro il decadentismo è figlia di quella contro il
positivismo: Croce sostiene che il misticismo decadente, che egli disapprova
come sintomo di vuoto spirituale e filosofico (Croce è razionalista e idealista
al tempo stesso), è figlio dello scientismo positivistico e delle pseudoscienze
da esso generate (come lo spiritismo): «Di qua il positivismo, di fronte il
misticismo; perché questo è figlio di quello: un positivista dopo la gelatina
dei gabinetti, non credo abbia altro di più caro che l'inconoscibile, cioè la
gelatina dove si coltiva il microbio del misticismo». Le opere di Croce
spaziano dalla filosofia, alla storiografia, all'aneddotica, alla critica
letteraria e all'erudizione storica. Qui si indicano le più importanti. Per un
elenco completo si veda L'opera di Benedetto Croce, bibliografia a cura di S.
Borsari, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, I principi
dell'estetica crociana, oltre ad essere formulati in opere organiche, trovarono
anche applicazione critica in prefazioni e curatele di opere altrui. Tale è, ad
esempio, la prefazione all'opera di Parodi, Poesia e letteratura: conquista di
anime e studi di critica, pubblicata postuma da Laterza, a cura di C.. Il
filosofo napoletano collaborò inoltre con numerosi articoli su vari argomenti
pubblicati su molti giornali e riviste stranieri e italiani (Cfr. Panetta,
Settant'anni di militanza: C., tra riviste e quotidiani) Ad esempio la sua collaborazione
con il quotidiano Il Resto del Carlino dura per più di 40 anni. Filosofia dello
spirito Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale Logica
come scienza del concetto puro Filosofia della pratica. Economica ed Etica
Teoria e storia della storiografia; Problemi di estetica e contributi alla
storia dell'estetica italiana La filosofia di VICO Saggio sullo Hegel seguito
da altri scritti di storia della filosofia Materialismo storico ed economia
marxistica Nuovi saggi di estetica Etica e politica. La poesia. Introduzione
alla critica e storia della poesia e della letteratura La storia come pensiero
e come azione Il carattere della filosofia moderna Discorsi di varia filosofia;
Filosofia e storiografia; Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici; Perché
non possiamo non dirci "cristiani"; Primi saggi Cultura e vita morale
L'Italia. Pagine sulla guerra Pagine sparse; Nuove pagine sparse; Terze pagine
sparse; Scritti e discorsi politici; Carteggio C.-Vossler; C. - Papini,
Carteggio; Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana; Saggi
sulla letteratura italiana del Seicento La rivoluzione napoletana La letteratura
della nuova Italia; I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo
decimottavo La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza Conversazioni
critiche Storie e leggende napoletane Manifesto degli intellettuali
antifascisti Goethe Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici
Ariosto, Shakespeare e Corneille Storia della storiografia italiana nel secolo
decimonono; La poesia di Dante Poesia e non poesia Storia del Regno di Napoli
Uomini e cose della vecchia Italia Storia d'Italia; Storia dell'età barocca in
Italia Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento Storia d'Europa nel
secolo decimonono Poesia popolare e poesia d'arte Varietà di storia letteraria
e civile Vite di avventure, di fede e di passione Poesia antica e moderna Poeti
e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento La letteratura italiana del
Settecento Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della
poesia Aneddoti di varia letteratura Morra e Castro Edizione nazionale La casa
editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione l'edizione nazionale delle
opere di C., promossa con Decreto del Presidente della Repubblica. Eugenio
Montale, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, Enciclopedia italiana Treccani
alla voce "neoidealismo"
Emanuele Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia
contemporanea, Milano, Rizzoli, Giorello, Dimenticare Croce? C. - Senato
Partito Liberale Italiano «nato nel 1924, sciolto durante il fascismo e
ricostituito». In Enciclopedia Treccani alla voce "Partito Liberale
Italiano" Pagina jpg del Corriere del Mezzogiorno: Luigi Mosca,
L'America innamorata di C. La prestigiosa rivista USA "Foreign
Affairs" lo incorona tra i pensatori più attuali, Einaudi infatti
sosteneva che «il liberismo non è né punto né poco "un principio
economico", non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico; è una
"soluzione concreta" che talvolta e, diciamo pure, abbastanza
sovente, gli economisti danno al problema, ad essi affidato, di cercare con
l’osservazione e il ragionamento quale sia la via più adatta, lo strumento più
perfetto per raggiungere quel fine o quei fini, materiali o spirituali che il
politico o il filosofo, od il politico guidato da una certa filosofia della
vita ha graduato per ordine di importanza subordinandoli tutti al
raggiungimento della massima elevazione umana.» (in Einaudi, Il buongoverno.
Saggi di economia politica, a cura di Rossi, Il filosofo dedica ai paesi degli
avi, sia paterni che materni, due monografie, intitolate Montenerodomo: storia
di un comune e due famiglie e Pescasseroli, uscite per Laterza e in seguito
collocate in appendice alla Storia del Regno di Napoli (Laterza, Bari). È noto, a tal proposito, l'aneddoto narrato
in un testo coevo, secondo il quale il padre del filosofo, prima di morire tra
le macerie, avrebbe detto al figlio «offri centomila lire a chi ti salva». Cfr.
Balzo, Cronaca del tremuoto di Casamicciola, Tip. De Blasio e C., Napoli, Un'analisi
di quella traumatica esperienza anche in relazione all'opera di Croce è in S.
Cingari, Il giovane Croce. Una biografia etico-politica, Rubbettino, Soveria
Mannelli, Il problema del male nell’indagine di Cucci. Testimonianza di Croce
sul terremoto C., Memorie della mia
vita, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli. "Il superstite è accolto allora nella
casa romana del politico Silvio Spaventa, cugino del padre e fratello del
filosofo Bertrando. Il lutto, lo spaesamento, l’adolescenza: non stupisce che
questa miscela abbia precipitato il giovane in una crisi d’ipocondria; e
l’ostentato contegno olimpico dell’adulto deriva forse da questo periodo
oscuro. «Quegli anni», confessa l’autore del Contributo, furono «i soli nei quali
assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato
di non svegliarmi al mattino». Nella Roma del trasformismo, Benedetto si chiude
in biblioteca. Ma a scuoterlo è Labriola, che con le lezioni sull’etica di
Herbart gli offre un appiglio cui aggrapparsi nel naufragio della fede. C. ricorda
di averne recitato più volte i capisaldi sotto le coperte, come una
preghiera": v. A cento anni dal “Contributo” di C., di Matteo Marchesini,
Sole 24 ore, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Ministri
della Pubblica Istruzione, su storia.camera.
Ultimo Governo Giolitti, su storia.camera. Jannazzo, C. e la corsa verso
la guerra, in Idem, C. e il prepartito degli intellettuali, Edizioni La Zisa,
Palermo, Levi della Vida, Fantômes retrouvés, Diogène, Antonio Gnoli, C. e il
suo fantasma, in la Repubblica, Camera dei deputati - Portale storico; citato
in G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia, Salvatore
Guglielmino/Hermann Grosser, Il sistema letterario. Guida alla storia
letteraria e all'analisi testuale: Novecento; Casa Editrice G. Principato
S.p.A.,. Guglielmino/Grosser, Sambugar, Salà, Letteratura italiana, C. e il
manifesto antifascista. Levi, Potassio,
in Il sistema periodico, poi in Opere, Torino, Einaudi, «La più efficace difesa
della civiltà e della cultura si è avuta in Italia, per opera di C.. Se da noi
solo una frazione della classe colta ha capitolato di fronte al nemico a
differenza di quel che è avvenuto in Germania, moltissimo è dovuto al C.. (Ruggiero)
Osserva Nicola Abbagnano nella sua Storia della filosofia: «Il regime fascista,
certo per costituirsi un alibi di fronte agli ambienti internazionali della
cultura, consentì tacitamente a C. una certa libertà di critica politica; e Croce
si avvalse di questa possibilità [...] per una difesa degli ideali di
libertà... Negli anni del fascismo e della seconda guerra mondiale la figura di
C. ha assunto perciò, agli occhi degli italiani, il valore di un simbolo della
loro aspirazione alla libertà, e ad un mondo in cui lo spirito prevalga sulla
violenza. E tale si mantiene a distanza di anni. Il terzo volume del carteggio
tra C. e Laterza (l'editore delle opere crociane) offre una grande quantità di
esempi delle difficoltà di mantenersi in equilibrio “tra l'opposizione concreta
e organizzata al fascismo, e l'adesione o la cinica indifferenza”. Esempi
“quasi tutti orientati però verso una precisa direzione: quella
dell'autocensura, a volte praticata, altre volte orgogliosamente respinta...
Tra i molti casi che potrebbero essere citati a illustrazione di questo
atteggiamento, è notevole quello sorto attorno alla dedica apposta da Paolo
Treves, nel libro sulla filosofia di Campanella, al padre Claudio, scrittore e
parlamentare socialista, famigerato tra i fascisti soprattutto per il celebre
duello ingaggiato con Mussolini. La dedica recitava: “A mio padre, che mi
additò con l'esempio la dignità della vita”. Laterza scrive a C. accostando,
con diplomatica sottigliezza, la lettura di un volgare trafiletto anticrociano
e antilaterziano sul “Lavoro fascista” alla questione della dedica, che egli
propone al Treves di limitare “alle prime tre parole essenziali, non essendo
opportuno motivarla allo stato attuale delle cose”. Alla lettera C. risponde il
giorno dopo, tranquillizzando Laterza sulla “purezza” del lavoro storico del
Treves e sull'assenza in esso di riferimenti al presente, e aggiungendo, con
maliziosa e retorica ingenuità: “ma veramente non capisco perché vi abbia fatto
senso quella dedica affettuosa di un figlio al padre. O che la dignità della
vita (il corsivo è ovviamente di Croce) è un fatto politico del giorno?”.
Comunque sia, la dedica uscì poi nella versione “purgata”. Maurizio Tarantino,
recensione a C.-Giovanni Laterza, Carteggio, a c. di Antonella Pompilio,
Napoli, Roma-Bari, Istituto italiano per gli studi storici, Laterza, “L'indice”. L'episodio è narrato con dovizia
di particolari in una lettera di Nicolini a Gentile riportata da Sasso in Per
invigilare me stesso, Bologna, Il mulino, Alessandro Barbera (a cura di), La
biblioteca esoterica. Carteggi editoriali Evola-C.-Laterza, Roma, Fondazione
Julius Evola, Cesare Medail, Evola: mi manda Don Benedetto, in Corriere della
Sera, Cfr. la prefazione del testo Lettere di Julius Evola a C.. Regio Decreto
Legge, Disposizioni sull'istruzione superiore (pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale del Regno d'Italia, Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, La
Repubblica, Giarrizzo rivendicò con una punta di orgoglio l'essere annoverato
tra i “nipotini” di C. (se, nel corso di uno sgradevole scontro, sono stato per
Martino un «basco verde di Palazzo Filomarino. Giarrizzo, Giuseppe, Di C. e del
filosofare sine titulo, Archivio di storia della cultura: Napoli: Liguori, si veda: Gramsci, Il materialismo storico e
la filosofia di C. C., Epistolario, I,
Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, La vicenda è descritta e
analizzata da Sasso, La guerra d'Etiopia e la “patria”, in Per invigilare me
stesso, Bologna, Il mulino, Battista, Corriere della Sera, B. Croce, Taccuini
di lavoro, Napoli, La tentazione antisemita di tre antifascisti liberali Dante Lattes, Ferruccio Pardo, C. e l'inutile
martirio d'Israele. L'ebraismo secondo C. e secondo la filosofia crociana Sarfatti, Il ritorno alla vita: vicende e
diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Tompkins,
L'altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel
racconto di un protagonista, Il Saggiatore, Croce rimase fermo sulle sue
posizioni: l'unica condizione alla quale i partiti antifascisti
dell'opposizione avrebbero accettato di entrare nel governo di Badoglio era
l'abdicazione di Vittorio Emanuele III. Era stato il re, disse Croce, ad aprire
le porte al fascismo, favorendolo, appoggiandolo e servendolo per vent'anni». Tompkins, Piero Operti, Lettera aperta a C.,
Torino, Lattes, Mazzini, poi in Scritti e discorsi politici, II, Bari, Laterza;
sulle caratteristiche "affettive" del pronunciamento di C. al
referendum, vedi Fulvio Tessitore, Il percorso psicologico dalla monarchia alla
repubblica attraverso i Taccuini di lavoro di C., in C. e la nascita della
Repubblica. Atti del convegno tenutosi presso il Senato della Repubblica,
Soveria Mannelli, Rubbettino, "non
sono veri liberali...coloro che si fregiano, come ora taluni hanno preso a
fare, del nome di monarchici, perché il liberalismo non ha altro fine che
quello di garantire la libertà" e se "la forma Repubblicana gli offre
questa...garanzia quando non gliene offre sicura la monarchia, sarà anche
eventualmente repubblicano" (Taccuini di lavoro; "se il tentativo la
duplice abdicazione di Vittorio Emanuele III e di Umberto II] fallisse, noi
sosterremo il partito della Repubblica, adoperandoci a farla sorgere temperata
e non sfrenata, sennata e non dissennata" (Taccuini di lavoro. C., mai
nominato, formalmente rifiutò prima ancora che la sua ventilata nomina potesse
concretizzarsi.» (In Galliani, Il Capo dello Stato e le leggi, Giuffrè, Ente
Morale, su Uni SOB.na.Senato della Repubblica-Cinecittà Luce, Il filosofo della
libertà: Napoli - il funerale di C. C., Maria Curtopassi, Dialogo su Dio:
carteggio, Archinto, Il carteggio fra C. e Curtopassi è stato pubblicato presso
la casa editrice Archinto da Giovanni Russo, autore anche della nota
introduttiva, Maurizio Griffo, Il pensiero di C. tra religione e laicità. La
citazione è tratta da: C, Taccuini di lavoro, vol. 6, Napoli. C., Perché non
possiamo non dirci anticoncordatari. Discorso contro i patti lateranensi,
tratto da: C., Discorsi parlamentari, Bardi editore, Roma, Atti parlamentari
della Camera: Guido Verucci, Idealisti all'Indice. C., Gentile e la condanna del
Sant'Uffizio, Laterza, Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il
Saggiatore, Milano, La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta
da C., Il ministro dell'Educazione Nazionale, Bottai alluse ironicamente
all'operetta crociana con un articolo intitolato Benedetto Croce rincristianito
per dispetto (In Ruggiero Romano, Paese Italia: venti secoli di identità,
Donzelli Editore,Perché non possiamo non dirci "cristiani, in La Critica;
poi in Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari, Croce, M. Curtopassi, Dialogo
su Dio. Carteggio op.cit. ibidem. Focher, Rc. a Capanna, La religione in C.. Il
momento della fede nella vita dello spirito e la filosofia come religione,
Bari, in Rivista di studi crociati, Sandro Magister, Colloquio con Foa (Da
l'Espresso, Documenti) In Vittorio
Messori, Pensare la storia: una lettura cattolica dell'avventura umana,
Paoline, Nello Ajello, Solo per amore, "La Repubblica, Sasso, Per
invigliare me stesso, Bologna, Il mulino, Nel registro mortuario di Raiano,
vicino a L'Aquila, viene indicata erroneamente come "moglie del senatore C."
Benedetto Croce e l'amore Ottaviano
Giannangeli, C. a Raiano, in "L'Osservatore politico letterario",
Milano-Roma, Morta Alda C., figlia di C.
È morta Silvia C. l'ultima nata del filosofo Morta Lidia, l'ultima figlia ancora vivente
di C. Si è spenta a Napoli. Il pensiero filosofico di C. - senato C., La
storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari Saggio sullo Hegel C., da "papa laico" a grande
dimenticato Grassano, La filosofia
politica di Popper: 1 - La critica della dialettica hegeliana e dello storicismo;
commento a La società aperta e i suoi nemici e Miseria dello storicismo di
Popper Croce e il totalitarismo Carteggio C.-Omodeo Hegel, Lineamenti di
filosofia del diritto, Bompiani, Milano In opposizione al positivismo che
voleva riportare la storia ad una forma della scienza, Croce si era interessato
dell'estetica nella quale avrebbe dovuto essere compresa la storia; cfr. La
storia sotto il concetto generale dell'arte, Bari. Per questo motivo C. della Divina Commedia di
Dante apprezza la prima cantica dell'Inferno in quanto risultato di una forte e
sentita intuizione-espressione, mentre apprezza meno la cantica del Paradiso
dove Dante mescolerebbe poesia e filosofia
Nella premessa C. scrive di aver trattato l'argomento nello scritto
intitolato Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro pubblicato
negli Atti dell’Accademia pontaniana. In effetti però avverte C. che il volume «È
una seconda edizione del mio pensiero, piuttosto che del mio libro» (C.,
Logica, Cent'anni di ricerca in Italia. Un passato da salvare, conferenza del
prof. Bernardini, dal sito Centro Studi Enriques, C., La storia come pensiero e
come azione, Laterza, Bari. Quel che si scrivevano Einstein e C. Dimenticare C.? (Corriere della Sera) La scienza negata. Il caso italiano, Codice,
l'Italia della scienza negata (dal blog de Il Sole 24 Ore) Ministro dell'Istruzione del governo MUSSOLINI,
promotore della riforma scolastica varata in Italia. Radice in O. Pompeo
Faracovi (a cura di), Federico Enriques, Approssimazione e verità, Belforte,
Livorno, Giorello, Dimenticare Croce?, in Il Corriere della Sera, L'arretratezza
dell'Italia in campo scientifico è il risultato di cattive scelte dei politici
da una parte e di resistenze culturali e di incapacità degli scienziati stessi
a comunicare dall'altra e che quindi risultano indipendenti dall'idealismo
crociano. A livello culturale, casomai, esistono altre forze che potrebbero
essere imputate del ritardo scientifico, si veda per esempio la nefasta
influenza della Chiesa in merito ad alcuni aspetti delle ricerche bioetiche. La
mia perplessità nei confronti di Croce non riguarda le pretese conseguenze
della sua filosofia sullo sviluppo tecnico-scientifico del nostro Paese. Mi
sembra che sia una polemica datata e ormai superata. Non credo che dalle
posizioni antiscientifiche di Croce derivi un ritardo della società italiana
nei confronti della scienza. Quella di C. è una filosofia interessante sotto
altri profili, ma poco interessante, quando si parla di scienza e quindi è
deficitaria sotto il profilo di una seria trattazione del problema della
conoscenza.» (Giorello), in È vero che C. odiava la scienza? - Dialogo tra
Giorello e Ocone, Matera, Biscaldi, Giusti, Pezzotti, Rosci, Scienze umane -
Corso integrato, Marietti Scuola, 9.
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convegno internazionale di studi in occasione dell’anniversario della morte:
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di C. con elenco opere, su giornale difilosofia. net. Il problema
dell'impressione nella ricerca filosofica del giovane C., su giornaledi filosofia.net.
L'elenco dei volumi dell'Edizione Nazionale, su bibliopolis. C., su Camera -
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full text a «La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia» ai
«Quaderni della “Critica”» su biblioteca filosofia.uniroma1. C., il filosofo
liberale, sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Alessandra Tarquini, C., il
filosofo liberale, Radio3. Aus dieser Schule sind die beiden großen
zeitgenössischen Philosophen Italiens hervorgegangen, C. und Gentile.
Beide Denker knüpfen an die J Gentile, Che cosa e il fascismo. Gentile hat
einen Neudruck seiner Werke veranlaßt. In seiner ,,Introduzione alla
filosotia' sagt er: Damit aus einem Volke eine Nation werde, muß es sich
seiner Nationalität, seiner Kraft und seiner Kultur bewußt
sein. Philosophie Hegels an, die gerade in Italien, namentlich an der
Universität Neapel, von jeher gepflegt wurde. C. übernimmt von dem großen
deutschen Denker den Leitgedanken, nämlich die Idee des Geistes als einer
dialektischen Tätigkeit, die sich im Rhytmus von Gegensätzen bewegt. Diese
Gegensätze formuliert er allerdings etwas anders als Siegel, indem er
zwischen kontradiktorischen und nur konträren Momenten unterscheidet. Ferner
lehnt C. die empirischen Gedanken völlig ab; für ihn erzeugt nur der Geist die
Realität. Es gibt in der Welt nichts, was nicht Manifestation des Geistes
wäre. Er gliedert sich in zwei Hauptformen: theoretische Aktivität
(Erkennen) und praktische (Wollen und Handeln). Unterformen sind:
intuitives Anschauen (Kunst), intellektuelles Denken (Wissenschaft),
ulititalisches Handeln (Ökonomie), moralisches Wollen (Ethik). So schrieb
denn C. ein Buch über Lebendiges und Totes in Hegels Philosophie und
betonte seine innere Verwandtschaft mit Vico, dessen Lehre er gleichfalls
eine besondere Schrift gewidmet hat. Diese Verwandtschaft tritt besonders
in C. Werken über Historik und Ästhetik hervor. Diese und andere Bücher
des italienischen Philosophen haben internationales Ansehen erlangt.
Gentile schließt sich zwar im allgemeinen an den Geist der Hegelschen Dialektik
an. Er faßt sie aber nicht als abstrakte Reflexion auf, sondern als
konkretes Denken, das zugleich ein landein ist. Daher bezeichnet er seine
Philosophie als Aktualismus. Die wahre Realität liegt in dem
schöpferischen Akt des Geistes. Dieser ist nicht etwa nur Bewußtsein und
Kontemplation der Welt, sondern schöpferisches Hervorbringen der Welt;
Ethik und Politik sind daher ein Ausfluß des Geistes. Selbst die
historische Schau bedeutet nicht nur einen Bericht über Geschehnisse der
Vergangenheit, sondern auch eine geistige Schöpfung 1). In dieser Lehre
erblickt Gentile eine Fortführung der italienischen Tradition, die von
Bruno bis auf Vico, Gioberti und Spaventa reicht. Er hat sich vollkommen
dem Faschismus angeschlossen, war eine Zeitlang Unterrichtsminister und
Urheber einer tiefgreifenden Schulreform. Gentile hat auch wichtige
Beiträge zur Staatstheorie des Faschismus geliefert 2 ), welche weiter
unten erwähnt werden sollen. Es sei noch hinzugefügt, daß auf dem Gebiete
der Rechtsphilosophie sich G. Del Vecchio auch außerhalb Italiens einen Namen
gemacht hat durch seinen Kampf gegen den reinen Rechtspositivismus und
seine philosophische Begründung des Imperialismus; dadurch hat seine
Lehre eine nahe Beziehung zum Faschismus. Von den zahlreichen
Schriften Gentiles ist ,,Der aktuale Idealismus“ auch in deutscher
Übersetzung erschienen. -I Vgl. besonders „Che cosa e il
fascismo", „La filosolia de] fascismo“. Charakteristisch ist der Satz: ,,Lo
stato del fascismo e una creazionc tutta spirituale". Benedetto
Croce. Croce. Keywords: idealism, la
filosofia di Croce come antecedente del fascismo, Mussolini giornalista, la
ruttura Croce-Gentile – l’idealismo di Croce pre-fascismo come fascista: hegel,
idea dello spirito, idealism assoluto, la relazione tra Vico e Hegel. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Croce:
implicatura: intenzione, espressione, e communicazione” Croce.
Grice e Cuoco: l’implicatura conversazionale di
Platone in Italia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Civitacampomarano). Filosofo italiano. Vincenzo
Cuoco. Litografia di Vincenzo Cuoco del 1840 Direttore del Tesoro del Regno di
Napoli Durata mandato28 febbraio 1812 – 1815 MonarcaGioacchino Murat Dati
generali Partito politicoMurattiani ProfessioneGiurista, economista. Targa
posta sulla casa natìa di Vincenzo Cuoco a Civitacampomarano Cuoco nacque a
Civitacampomarano, un piccolo borgo del Contado di Molise, nel Regno di Napoli
(attualmente in provincia di Campobasso), figlio di Michelangelo Cuoco, un
avvocato e studioso di economia, appartenente ad una famiglia della locale
borghesia di provincia, e di Colomba de Marinis. Ricevuta una prima
istruzione nel vivace ambiente illuministico del paese natìo, animato dalla
famiglia Pepe, a cui era imparentato (tra i parenti ebbe come cugino Gabriele
Pepe), nel 1787 si recò a Napoli per studiarvi diritto e fu allievo privato di
Ignazio Falconieri. Non terminò gli studi di legge, ma a partire da questo
periodo si interessò di questioni economiche, sociali, culturali, filosofiche e
politiche, materie che resteranno sempre al centro della sua attività e dei
suoi interessi. Nell'ambiente culturale napoletano conobbe ed entrò in
contatto con intellettuali illuminati del Sud, tra i quali anche il conterraneo
Galanti, che in una lettera del 4 settembre del 1790 al padre Michelangelo,
descrive Vincenzo: «capace, di molta abilità e di molto talento», ma
«trascurato» e «indolente», forse non soddisfatto appieno della collaborazione
di Vincenzo alla stesura della sua Descrizione geografica e politica delle
Sicilie. Partecipò attivamente alla costituzione della Repubblica
Napoletana nel 1799 ed alle sue vicissitudini, ricoprendovi le cariche di
segretario del suo ex docente Ignazio Falconieri (che ricopriva la carica di
comandante militare del Dipartimento del Volturno) e di organizzatore del
Dipartimento del Volturno. In seguito alla capitolazione della Repubblica
per mano delle truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo ed al susseguente
ritorno al potere dei Borboni, conobbe il carcere per alcuni mesi, venendo
inoltre condannato alla confisca dei beni e quindi costretto all'esilio,
dapprima a Parigi e poi a Milano, dove già nel 1801 pubblicò il suo capolavoro,
il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, poi ampliato nella successiva
edizione del 1806. Sempre a Milano, tra il 1802 ed il 1804 diresse il
Giornale Italiano, dando un'impronta economica di rilievo al periodico e
svolgendo una vivace attività pubblicistica, che proseguirà anche a Napoli con
la sua collaborazione al Monitore delle Sicilie. Nel 1806 pubblicò il suo
Platone in Italia, originale romanzo utopistico proposto in forma epistolare, e
quindi rientrò nel Regno di Napoli governato da Giuseppe Bonaparte,
ricoprendovi importanti incarichi pubblici, prima come Consigliere di
Cassazione e poi Direttore del Tesoro, dove si distinse inoltre come uno dei
più importanti consiglieri del governo di Gioacchino Murat. In questo
ambito preparò nel 1809 un Progetto per l'ordinamento della pubblica istruzione
nel Regno di Napoli, nel quale l'istruzione pubblica è vista come
indispensabile strumento per la formazione di una coscienza nazional popolare.
Seguace del Pestalozzi, Cuoco prospetta «un'istruzione generale, pubblica ed
uniforme». [1] Dal 1810 ebbe l'incarico di Capo del Consiglio Provinciale
del Molise e, durante la durata di tale impiego, scrisse nel 1812 Viaggio in
Molise, opera storico-descrittiva sulla sua regione natale a cui restò legato
grazie anche alla stretta parentela con la famiglia Pepe (Gabriele Pepe),
presso la quale si conservano ancora suoi scritti e ritratti. Gli ultimi
suoi anni furono funestati dalla follia, che lo colpì a partire dal 1816 (forse
anche a causa del travaglio interiore scatenato dalla Restaurazione),
spingendolo alla distruzione di molti suoi manoscritti, rimasti dunque inediti,
e costringendolo a ridurre progressivamente le sue attività sino alla morte,
avvenuta a Napoli nel 1823, per le conseguenze di una frattura del femore,
riportata in seguito a una caduta. Opere Studioso di letteratura,
giurisprudenza e filosofia, Vincenzo Cuoco si segnala, oltre che per la sua
attività pubblicistica, per il Platone in Italia, originale romanzo utopistico
in forma epistolare e, soprattutto, per il Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799, opera di fondamentale importanza nella nostra
storiografia, forse non studiata e conosciuta quanto meriterebbe. Lavorò ad
altri saggi e opere letterarie, rimaste in gran parte incompiute (salvo il
saggio Viaggio nel Molise, scritto nel 1812) e da lui stesso distrutte nel
corso delle crisi nervose causate dalla malattia che lo accompagnò nei suoi
ultimi anni. Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 «Tutte
le volte che in quest'opera si parla di "nome", di
"opinione", di "grado", s'intende sempre di quel grado, di
quella opinione, di quel nome che influiscono sul popolo, che è il grande, il
solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni.» (V. Cuoco -
Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Prefazione alla seconda
edizione) Il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 fu
scritto durante l'esilio a Parigi e pubblicato a Milano in forma anonima nel
1801. L'opera narra gli eventi occorsi a Napoli tra il dicembre del 1798
(fuga di re Ferdinando IV di Borbone in Sicilia) e la caduta della Repubblica
Napoletana, comprese le rappresaglie che ne seguirono la fine. Il saggio
conobbe un vasto successo (fu presto tradotto anche in tedesco) e andò
abbastanza rapidamente esaurito, tanto da spingere l'autore - anche per
scoraggiare i tentativi di ristampa abusiva - a porre mano ad una nuova
edizione ampliata, che vide la luce nel 1806. Nel 1807 il saggio fu tradotto
anche in francese (quasi contemporaneamente ad analoga traduzione del Platone
in Italia). Accanto alla dimensione puramente storiografica, attraverso
la quale vengono ripercorsi gli eventi che condussero alla nascita e alla
rapida fine dell'effimero esperimento repubblicano (inquadrati dall'autore nel
burrascoso contesto delle invasioni napoleoniche in Italia), l'opera si propone
come un commento storico e mira a delineare una lettura critica della vicenda
rivoluzionaria. Il racconto degli accadimenti viene proposto sotto forma
di indagine rigorosa dei fatti e investe l'esposizione dei principi teorici che
mossero gli artefici della rivoluzione napoletana. Senza indulgere in
enfasi e retorica, viene in tal modo offerto al lettore uno spaccato della
vivace e avanzata cultura filosofica e politica d'inizio secolo nella capitale
del Sud d'Italia (all'epoca in Europa seconda solo a Parigi per estensione),
ove gli insegnamenti di Mario Pagano (1748-1799), di Antonio Genovesi, di
Gaetano Filangieri (1752-1788), e di Giambattista Vico confluiscono a filtrare
e aggiornare la lettura sempre valida de Il Principe di Niccolò
Machiavelli. «I Francesi furono costretti a dedurre i princìpi loro dalla
più astrusa metafisica, e caddero nell'errore nel qual cadono per l'ordinario
gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte, che è quello di confonder
le proprie idee con le leggi della natura.» (V. Cuoco - Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana del 1799, cap. VII) Poste a confronto la
Rivoluzione francese e quella partenopea, Vincenzo Cuoco indaga le ragioni del
fallimento di quest'ultima e ne individua con lucidità e senza pregiudizi le
cause: ispirata e poi di fatto imposta dagli stranieri, la rivoluzione
coinvolge a Napoli solo un’élite molto limitata numericamente (e largamente
impreparata alla difficile arte del governo), senza penetrare nella coscienza
popolare e senza tenere in alcun conto le peculiarità, tradizioni, necessità
reali e aspirazioni più autentiche che caratterizzavano le genti
napoletane: «Se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la
costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui
bisogni e sugli usi del popolo; se un'autorità, che il popolo credeva legittima
e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva,
gli avesse procurato de' beni reali, e liberato lo avesse da que' mali che
soffriva; forse… noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria
desolata e degna di una sorte migliore.» (V. Cuoco - Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799, cap.XV) Se da un lato, secondo Cuoco, il
governo rivoluzionario cadde vittima - prima di tutto - della sua stessa
imperizia tecnico-politica, dall'altro l'esperimento era votato in partenza al
fallimento in quanto mirava ad applicare ciecamente il modello della
Rivoluzione francese, tal quale, senza minimamente preoccuparsi di adattarlo
alla realtà napoletana e alle sue peculiarità. D'altra parte, osserva
Cuoco con spirito squisitamente moderno e rara acutezza, si pretendeva che il
popolo aderisse ciecamente a una rivoluzione della quale non poteva capire né i
valori, né le ragioni: "«Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema»…
Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua
felicità?" (Saggio..., cap. XIX) La Rivoluzione fu dunque imposta al
popolo, piuttosto che proposta o sorta dalle sue istanze più autentiche e profonde,
determinando pertanto una profonda e insanabile frattura tra gli intellettuali
che la guidarono e la popolazione che se ne sentì sostanzialmente estranea e
che spontaneamente seppe riconoscerla per quel che certo essa era a livello
geopolitico: un regime imposto dall'interesse di una potenza straniera.
L'acuta e onesta critica di Cuoco - sempre sostenuto nella sua opera da un raro
attaccamento al realismo e da una logica incalzante - nel condannare la cieca
fiducia delle élite in teorie generali che non tengono nel giusto conto la
storia e la cultura più profonde e vere dei popoli, individua dunque già
all'alba del XIX secolo nella frattura tra classi dirigenti e istanze popolari
quello che sarà forse il più grave dramma dell'intera avventura risorgimentale
italiana e che tanto dovrà pesare sulla storia dell'Italia unita, sino ai
giorni nostri. Critiche al saggio storico L'opera di Vincenzo Cuoco
ricevette aspre critiche per la sua documentazione storiografica. Al di là
delle convinzioni politiche, gli è stata rimproverata una certa parzialità
nella ricerca storiografica. L'abate Domenico Sacchinelli, segretario del
cardinale Fabrizio Ruffo, fondatore e comandante dell'Esercito della Santa Fede
in Nostro Signore Gesù Cristo, principale responsabile della sanguinaria caduta
della Repubblica e della restaurazione dei Borboni al trono, criticò aspramente
la sua opera. Al fine di far conoscere la sua versione dei fatti,
Domenico Sacchinelli pubblicò un'opera intitolata Memorie storiche sulla vita
del cardinale Fabrizio Ruffo (1836), scritta nove anni dopo la morte di
Fabrizio Ruffo nella quale, essendo stato segretario del cardinale e possedendo
dei documenti del periodo, contestava molte delle notizie su Ruffo e sui
sanfedisti. Sacchinelli, nella prefazione, asserisce che Cuoco, a sua
differenza, non poteva sapere quello che l'esercito della Santa Fede aveva
fatto per filo e per segno, in quali paesi era stato e quali paesi aveva
saccheggiato o incendiato.[2] Per contro, Benedetto Croce la segnalò
quale "[...] prima vigorosa manifestazione del pensiero vichiano,
antiastrattista e storico, e l'inizio della nuova storiografìa, fondata sul
concetto dello svolgimento organico dei popoli, e della nuova politica, la
politica del liberalismo nazionale, rivoluzionario e moderato insieme."
(B. Croce, Storia della storiografia italiana, Volume primo, Laterza,
1921) Platone in Italia Platone in Italia, 1916 «Se l'arte
dell'eloquenza è l'arte di persuadere, non vi è altra eloquenza che quella di
dire sempre il vero, il solo vero, il nudo vero. Le parole, onde è necessità di
nostra inferma natura di rivestire il pensiero, saranno tanto più potenti,
quanto più atte al fine, cioè quanto più nudo lasceranno il vero, che è nel
pensiero.» (V. Cuoco - Platone in Italia) Il Platone in Italia,
diviso in due volumi, è un originale esempio di romanzo storico scritto in
forma epistolare che l'autore finge di aver tradotto dal greco. L'opera,
scritta prima del suo rientro a Napoli nel 1806 (e pubblicata nello stesso
anno), è dedicata alla celebrazione del mito di un'immaginata "Italia
pitagorica", intesa come antico e mitico luogo della saggezza. Nel
racconto immaginario di Cuoco si descrive il viaggio intrapreso dal giovane
Cleobolo, discepolo di Platone, in visita nella Magna Grecia in compagnia del
suo maestro: il viaggio fornisce lo spunto per esaltare l'originalità e la
natura primigenia della civiltà italiana, vista da Cuoco come più antica di
quella ellenica: è nell'Italia meridionale che quelle popolazioni raggiungono
per prime l'apice sia nel campo delle istituzioni civili, sia nelle scienze e
nelle arti. Anche in quest'opera è chiaramente rintracciabile l'influsso
di Vico e del suo De antiquissima Italorum sapientia, laddove Cuoco ne coglie
non solo la dimensione storica, ma anche quella filosofica. Importante
dal punto di vista ideologico, l'opera intende affermare la supremazia
culturale italiana rispetto alla Francia e al resto d'Europa e può essere
considerata un preannuncio della corrente d'orgoglio nazionale che si svilupperà
in tutto il primo Ottocento e che culminerà nel celebre Del primato morale e
civile degli Italiani di Vincenzo Gioberti. A tratti disorganica e
monotona, l'opera non rende giustizia al suo autore da un punto di vista
squisitamente letterario, specie se confrontata con lo stile straordinariamente
persuasivo, agile ed efficace del Saggio sulla rivoluzione napoletana.
Opere Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, in Scrittori
d'Italia 43, Bari, Laterza, 1913. Platone in Italia, in Scrittori d'Italia 74,
vol. 1, 2ª ed., Bari, Laterza, 1928. Platone in Italia, in Scrittori d'Italia
92, vol. 2, Bari, Laterza, 1924. Scritti vari, in Scrittori d'Italia 93, vol.
1, Bari, Laterza, 1924. Scritti vari, in Scrittori d'Italia 94, vol. 2, Bari,
Laterza, 1924. Note ^ Rapporto al re Gioacchino Marat e Progetto di decreto per
l'ordinamento della Pubblica Istruzione nel Regno di Napoli, vedi Carlo
Salinari Carlo Ricci, Storia della letteratura italiana, Volume terzo, Parte
prima, Edizioni Laterza, Bari 1981. p 11 ^ sacchinelli-memorie, prefazione.
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Tipografia di Carlo Calanco, 1836. Altri progetti Collabora a Wikisource
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Collegamenti esterni Cuòco, Vincenzo, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
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italiani del XIX secoloPersonalità del RisorgimentoPersonalità della Repubblica
Napoletana (1799)[altre] L'opera filosofica di Cuoco nella Repubblica e nel
Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del “Giornale
italiano”. La filosofia italica di Cuoco si continua nel “Platone in Italia”,
nuova ed alta testimonianza di quello spirito che vediamo in opera
ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo
sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori
di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il suo
Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive che “ama di
morir per la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non esiste”, mentre Cuoco vive ancora, ed aggiungeva che
ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre di più di
quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce dalla
pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo stesso:
creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa
le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone in Italia”
nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice Cuoco, in una
lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica degl'italiani,
ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della
milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di Cuoco perciò è
un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo
riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente l'ulteriore
valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non accorgersi di
questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo
che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama del “Platone in
Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che Cuoco quasi non se ne accorge, onde
appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa un viaggio
culturale nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e il suo
scolaro visitano le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto, Metaponto,
Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente o
indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G.
Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana.
La lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari. Cuoco, Saggio storico.
BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al
Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro.
dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte,
disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un
bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un
contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce
la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo
originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante
quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in
Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior
parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un
semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello
vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il
viaggio. Lo scopo e l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più
agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio,
come del resto anche il romanzo-epistolario, perchè col suo meccanismo si piega
ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di Cuoco anzi è nello stesso tempo
viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo
l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come forma letteraria, può
servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto. E cera, che può
ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il
capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera, più
pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun limite trovate
al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace; immaginare
ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da' costumi al
l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi, tutto solo,
nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere, a vostro
grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui, visioni e rac
conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v ' impone il tal
contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone un limite, che
non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine che avete in
mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate con l'opera
cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto fine che il
nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente, manca del
tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo egli
persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci mostra
come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al
molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno,
buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo
di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e
per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui
immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà
un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto
(2 ). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina
tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il
romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una
deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione
scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico,
perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa,
ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è
lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima
accennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una
scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non
nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS,
Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital., 1804; 21, 23, 25
gennaio; n. 9, 10, 11, pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (vedi p. 163
del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è
nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve
unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e
didascalici. E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non
sono. Noi li vediamo e non li vediamo. Soprattutto, noi non li vediamo mai in
azione, in atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo
dire che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo
scolaro italiano -- appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in
certi antichi componimenti teatrali, che si limita ad annunciare ciò che fu o
sarà e fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne
potrebbero avere un altro. Non sono essi quelli che contano, conta quel che
dicono, o che per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente,
scaturisce un dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè
può avere un fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore:
il rammentare agl’italiani che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici,
he furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo
spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima italorum sapiential” si pone
dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre dalle origini
della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo essere
professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di dimostrare che,
nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra penisola, ve ne
furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino anteriore alla civiltà
ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa. E come chi voglia
intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto del suo titolo e
del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei
riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci latine, per
considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco pretende
rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima italica, e
che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere costruita da
esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del “Platone in Italia”
di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come dalla faticosa
ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità. Esso non
esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco,
scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e non
sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno, per
esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla
religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera
dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile.
L’opera del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di
vista dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti
dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da
Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini
di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni
opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la
finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi
possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici,
e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa
godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così
bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è
quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa
persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L.
SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così,
passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la
sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia,
innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è
quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa
di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia
pitagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da
ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande
nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È
questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di
tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico,
perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone
di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano
appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo
preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non
filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal
l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità
con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del
reale. Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a
trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare
creature vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco
non si dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli
sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè
retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per
cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico,
senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e
ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno
ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che
tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed
ivi ritorneranno e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p.
375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto;
e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del
tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si
placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di
tinte forti calde sfumanti (1 ); poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un
fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre
in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma
una matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte
del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI
apparve degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in
quel poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più
delizioso della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo
propriamente sulla sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la
quale, ren dendo più ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più
forti i sensi del cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco
venticello della sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del
colle. Eravamo soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue
in quella languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera,
forse più grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo
in tempo io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava;
ella li abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li
rial zava, quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello
di cotogno? — mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi
come il vento, che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare
che sfoghi tutta la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello?
Quanta verità è in quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno
fiorito, che il vento della primavera afferra per la chioma e ne con torce
tutti i teneri rami!... Tu non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io
tu non li hai detti tutti.... Esso è stato nudrito colla fresca onda del
ruscello che gli scorre vicino; ma nel mio cuore un vento secco, simile al
soffio del vento di Tra cia, divora.... Io voleva continuare; ma ella mi guardò
e le vossi.... Qual potere era mai in quel guardo, in quell'atto?... Io non lo
so; so che tacqui, mi levai e ritornai in casa, se guendola sempre un passo
indietro, senza poter mai più alzar gli occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi
le antiche istituzioni del Sannio; sia che valuti i germi della futura
grandezza di Roma, sia che da questi discenda ai fatti moderni, e
indirettamente dica della rivoluzione francese e de' popoli, che tra un l'altro
amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare la pace in un Napoleone,
tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre un uomo d'alta coscienza,
con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo. Noi dimentichiamo l'artista
mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico poco sicuro, ma ammiriamo
il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana trae un non perituro
insegnamento. Cuoco parla non a sè stesso, poi che non si pone dal rigido punto
di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a noi italiani; e per noi
vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non parla al suo discepolo
Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio non parla ai suoi
sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a noi, e il loro
insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo questa
posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti già
precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano, ma,
se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le ripetizioni
non appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice il Cuoco, di
conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga,
spesso do lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non
è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi
sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che
per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della
quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero.
L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini
greche del pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per
cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è
parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà
scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato
di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema
d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di
Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi,
vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono
molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato
glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e
nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano
i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti
architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni
filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a
Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne'
tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi
e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però
facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso
dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro
imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai
antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa,
l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle
innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della
prim. Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico,
una sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella
natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è
alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi
fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così
nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e
modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone,
riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un
tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco.
Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo
d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco;
l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di
questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de'
vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli
etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e
favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci
estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte
le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla
Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era
troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario,
onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato
a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha
ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello
della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome
“etrusco”. Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè
consiglio, nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero
origine grandi mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de'
costumi produce la corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed
istrumenti ed effetti, e poi generò la corruzione della religione, la quale,
corrotta, accelera la morte delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò
per legge naturale di cose. Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino
Platone, qualunque altro impero ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non
cessa la disunione tra le varie città che la compongono, tra gl’uomini che
abitano ciascuna città. Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al
l'unità. All'unità si tende ovunque è virtù, il fine della quale è di render i
cittadini concordi e simili. Nè possono. esserlo se non son buoni. La vita
istessa di tutti gl’esseri non è se non lo sforzo degl’elementi, che li
compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè
virtù, nè vita, e si corre a gran giornate alla morte. Ma la morte non è mai
interamente morte, bensì tra sformazione, cioè riduzione in nuove forme di
vita, forme nuove, che della prima vita mantengono alcuni elementi originari ed
altri novelli acquistano. Così l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si
ripopola di genti, di città, si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta
composta all'ammirazione universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire
pitagorea, nella sua essenza è pur essa autoctona, se pure apparentemente
ellenistica. Quando le colonie si sono stabilite in Italia, le stirpi indigene
dalle montagne eran discese al piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi
disputiamo, osserva un italico a Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian popolata
l'Italia o gl'italiani abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e l'altra
regione sono state forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre comune
degl’elleni e degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma,
stanziatisi in diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più precoce
che non gl’ellenici, che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più civili,
i maestri degl’italiani in ogni campo dell'umana attività. L'antico primato
italico però ancor si conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si
manifesta. Su questo primato italico il Cuoco insiste, insiste, insiste
calorosamente. E la sua tesi nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed
evoluta, allorquando Panco, fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la
battaglia di Maratona, riempiendo di stupore i suoi concittadini per la
rassomiglianza che seppe mettere nelle immagini dei duci greci e dei capitani
nemici [Furono gl'italiani che primi danno opera alle matematiche, e ne fecero
un istrumento principale della loro filosofia. Prima che Teodoro reca
agl’elleni la scienza degli italiani, in Grecia, le idee geometriche sono
puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani, potenti per un
istrumento di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte ammirabili in
tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla quantità: nella
geometria, nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed hanno spinte al
punto più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre che versan sulla
qualità. La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia si perde nella
remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici mantengono
indiscussa la loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è duello,
scienza rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio urto di
masse e organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola la
convivenza nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima
esperienza sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni
eterogenee. Le romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune
storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il
romano, discendente da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice
Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più
antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che
voi dite aver imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’
dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio
sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le
ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici,
l’assemblee del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e
che so io! Queste dunque già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti
stadi e valicare un mare tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le
ha. Tre quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi
rimane una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo
l’imitazione, perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un
altro. Tali sono le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità,
sulle tutele. Ma queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto
diverso dal nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati
de' legati in Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non
ciò che volevano, ma ciò che non volevano fare. Passando nel campo delle arti
belle, tra gl’elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani.
Ben poche olimpiadi, dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo,
contate dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando
il siciliano Epicarmo si ha già meritato quel titolo di principe della
commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri
filosofi, Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un dialogo goffo e villano,
che tutta ancor oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la
commedia tra voi nasceva, tra noi era già adulta. I poemi omerici stessi nel
loro nucleo fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole
omeriche gl’italiani ne hanno più degl’elleni, e quelle elleniche cominciano
ove le italiche finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito
preso, la volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori
afferma, l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi,
vale a fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo
iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I
vari popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono
fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni, lotte sono
frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una
parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle
acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia intero,
qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il rimanente dell'area,
mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi, antichi, ma che
oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali materiali han formato
un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare un'altra volta. Ma
l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità che si è infranta,
per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata la debolezza della
molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di alcune stirpi, come
i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma questa molteplicità tende
quasi per fatale legge di natura all'unità, e dall'indistinto pullulare delle
genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola gente, un nome unico: ‘Italia.’
Pure, se tu osservi attentamente e con costanza, ti avvedrai che le pietre, le
quali formano quei mucchi di rovine, cangiano ogni giorno di sito; non le
ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par di riconoscere un certo quasi
fermento intestino e la mano d'un architetto ignoto che lavora ad innalzare un
edificio no vello. È la gran fede del
Cuoco. Da questa unità o da questa frammentarietà dipende l'avvenire della
penisola. Tutta l'Italia, dice Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di
cielo e di caratteri, e nel tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e
forti, che per essi mi par che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani
nella storia, come han dato finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di
virtù, di forza e di debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino
alla distruzione. Tu conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in
Grecia in molti secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco
però ha fede che questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si
concreta in una entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte
vite darà organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo,
ma quasi conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di
continuo risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito
disegno di ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare.
Pitagora volea far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino
ha un campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare
continuamente con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer
suoi fratelli e la divisione degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come
nemici. E l'energia di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più
vigorosamente difender la patria comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il
nome di barbari a tutti coloro che s’intromettono armati in un paese che non è
loro patria, e chiama poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una
stessa lingua, non sanno vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese
l'aiuto degli stranieri. Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate
ripete agl’elleni. Tra voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi
chiamate guerra, è sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria,
dovreste arrossire. Sia stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia
egli invece un'idea, un mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene,
nel quale esse han fatto confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari
esperienze, ciò dimostra l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza
collettiva del problema unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a
posizioni che noi già sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico
insieme. A questa meta non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini
civili. Onde non vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e
chi possa venderla. Ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie
della viltà e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È
necessario istruir il popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che
diserta le campagne: spirando con minor forza il vento delle montagne lucane,
porta sulle ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario
istruir coloro che devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre
bisogno di una mente per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente
per agire. Ma quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve
essere per sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia,
secondante le infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere
educazione vera, cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e
non fuori di essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella
delle classi povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si
volgono alla stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un
popolo, dicono alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe
il più saggio ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi
di tutta la terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e
formatene una città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde
il Cuoco o Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città,
perchè le mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di
cittadini. La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata
e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario
perciò ai fini dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i
poveri accanto ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di
forze distinte che è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è
che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad
ottener l'uno e l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la
subordinazione. Diversa sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti.
Ma una educazione per i primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere
la loro stima. Non perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo
non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica
severissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso
frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il
popolo è ingiusto? Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi. Tutt’i
doveri son nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare tutto
ciò che è necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più
utile il lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è
necessaria la conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della
medesima può render più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle
stesse cose. Al volgo conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe
farne quell'uso che ne fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in
cui la sua mente si acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi
non gli direte una cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i
filosofi che credono opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a contatto
con i sublimi princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura del dotto
filosofo e del popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso
e fantasia. Il popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente,
più sensi che ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso
linguaggio che s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e
massime già fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e
parlarne con il linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi.
Se è vero che gl’esempi muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono
altro che esempi, debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi
possono sembrare inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli
per i quali furono immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo
scopo prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con
mezzi diversi di quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza:
la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I
pregiudizi, gl’errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono
come le onde del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel
bacino, che tu vuoi scavare a poco a poco per formarne un porto. È necessità
piantare con mano potente una diga, che freni la violenza delle onde sempre
mobili. Prima di avvezzare il popolo a ragionare, convien comandargli di
credere. E, per convincerlo che il vero sia quello che tu gli dici, convien per
suadergli, prima, che non possa essere vero quello che tu non dici. Non
cerchiamo l'uomo che abbia detto più verità, ma quello che ha persuase verità
più utili. E, se talora la necessità ha mossi i grandi uomini ad illudere il
popolo, cerchiamo solo se l'hanno utilmente illuso. Sono queste conclusioni che
già sono implicite nel saggio storico, ma riescono sempre interessanti, sia per
il loro intrinseco valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le
prospetta. Questa educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla
virtù, e quindi a radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività
legislativa, se non si vuole che essa cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le
leggi della tua città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver fatto,
se non avrai anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e
la costume sono i principali oggetti di tutta la scienza politica. La prima
risponde all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò buono e vero; i se
condi invece presentano estreme varietà, e, nella maggior parte dei casi, ci si
presentano anzi che come correttivo delle prime, come deviazione da esse; onde
coloro, che traggono da una corrotta natura de' popoli le norme obiettive del
vivere, invece di evitare il male, spesso lo sancisce, e la sua opera
pedagogica manca. La legge è sempre una, perchè la natura dell'intelligenza è
immutabile. Mutabile è la natura della materia, di cui gli uomini sono in gran
parte composti; e quindi è che il costume inclina sempre ad allontanarsi dalla
legge. È necessità, dunque, conoscere del pari la natura sempre mobile di
questo fango di cui siamo formati, onde sapere per quali cagioni i nostri
costumi si allontanano dalle leggi, per quali modi, per quali arti possano
riavvicinarsi alle medesime; il che forma l'oggetto di tutta la scienza
dell’educazione. Nn di quella educazione che le balie soglion dare ai nostri
fanciulli, ma di quell'altra che Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli
spartani ed ai cretesi. La ignoranza di una di queste due scienze ha
moltiplicati sulla terra i funesti esempi di quei legisla tori, i quali,
volendo tentare riforme di popoli, hanno o cagionata o accellerata la loro
ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle sole idee intellettuali delle leggi
ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li hanno spinti ad una meta a cui non
potevan pervenire, perdendo in tal modo il buono che poteano ottenere, per
avere un ottimo che era follia sperare; o, conoscendo solo i costumi ed igno
rando il vero bene ed il vero male, hanno sancito i me desimi, ed han fatto
come quel nocchiero, il quale, non conoscendo il porto in cui dovea entrare, e
servendo ai venti ed all'onde, ha rotto miseramente il suo legno tra gli
scogli. La legge però resterà sempre un
astratto, se gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più
conta, la sua utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da
pene, onde possa con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da
premi, onde possa allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin
guaggio utilitario ed edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa
scienza, che si occupa dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili
sono senza premî e pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so
pra tutto delle pene con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve
studiare non tanto i rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di
essi rapporti, entità concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto
in veste d’educatore, anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza
delle pene e de' premî » dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla
pubblica educazione. La legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti
ad eseguirle, che veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono
nell'ordine eterno delle cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute
provenienti dalla divi nità. Perciò il primo dovere degli esecutori è di
comandare ne' limiti di esse, sovra la loro base, poichè solo così si adempie
l'universa volontà di Dio, o meglio, s'attua l'ar monia immanente nelle cose. «
Ora, ordinate le leggi di una città, per qual modo ritroveremo noi gli uomini
degni di eseguirle? Questa èla parte più difficile della scienza della
legislazione: perchè, da una parte, le buone leggi senza il buon governo sono
inutili; e, dall'altra, sulla natura del migliore de’governi gli uomini son più
discordi che su quella delle buone leggi. Anche questo secondo problema è di
natura spirituale e pedagogica: la preparazione della classe dirigente, la sua
natura, ecc. non possono non rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto
i caratteri e le forme. In quanto al problema subordinato se sia da accogliere
il governo di un solo, di pochi, o di molti; il governo ereditario o
l'elettivo; e tra quest'ultimo quello regolato dalla nascita, dagli averi,
dalla sorte, questo è un pro blema essenzialmente relativo e che del resto
abbiamo già storicamente esaminato in altra parte di questo la voro. La
risoluzione è offerta dal Cuoco in poche parole che giova riportare. « Noi
diremo il miglior de' governi esser quello che non è affidato ad uno solo,
perchè un solo può aver delle debolezze; non a tutti, perchè tra tutti il
maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi sempre sono gli ottimi. E
questi pochi avranno obbligo di render ragione delle opere loro, onde la spe
ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per negligenza le leggi o a
conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il pubblico potere in modo che
le diverse parti del medesimo si temperino e bilancino a vicenda, e, dando a
ciascuna classe di cittadini quella parte a cui pare per natura più atta,
riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e di tutti. Ma piuttosto
altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad un punto troppo caro al
Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le considerazioni intorno alla
religione. Abbiamo già visto i rapporti tra autorità reli giosa ed autorità
statale, il posto che la religione deve occupare nello Stato, e lo abbiamo
visto da un punto essenzialmente storico, cioè in rapporto ai tempi del mo
lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso problema da un diverso punto,
osservando quale posto può occupare la religione nella formazione spirituale
dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal quale non si può
prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali credon poter
tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter colla
religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite dei
cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante lo
stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi, religione
e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il bisogno della religione
per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto su ragioni pratiche. Lo
Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli occhi de'singoli e acquista
maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò menomi la religione, in quanto
vita dello spirito, poi che esso assorbe quel che può assorbire, infine il lato
estrinseco e mondano della religione, lasciando intatto il dommatico. I
paesi, in cui i patrizi conservano autorità, sono quelli in cui essi esercitano
il sacerdozio, e in questi paesi la religione può moltissimo sui costumi. « E
forse queste due cose [ religione e costumi, Stato e Chiesa) sono naturalmente
inseparabili tra loro; perchè nè mai religione emen derà utilmente i costumi se
non sarà dipendente dal go verno; nè mai religione, che non emendi i costumi e
non ispiri l'amor della patria, potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora
concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e
degli stolti, il Cuoco riguarda la vita pubblica come una loro armonizzazione
continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio,
ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione
superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi eccezionali, onde
quasi sempre, nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso stolto.
L'opposizione tra savi e stolti si può in linea generalis sima presentare come
opposizione tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i
patrizi, cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e
perpetuano la loro posizione dirigente per eredità di sangue e di censo, sono,
per lunga consuetudine e pratica pubblica, i più atti al reggimento civile,
mentre i plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti guadagni, sono di
solito inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno della cosa
statale. Il segreto della varia vita delle città è nella saggia ar monia di
queste due forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza audace delle
classi nuove. Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri difensori dei loro
diritti lan guirono: i patres non vollero essere giusti, preferirono es sere i
più forti, onde fu mestieri che divenissero tirannici ed oppressori:
conservarono i loro privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu la debolezza
dello Stato, che al primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in
cui la plebe per atto rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero
sempre costituzioni ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono
durare, per lo più, breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben
diversa è la vita degli Stati, ove si giunge ad una reciproca graduale
integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È nell'ordine eterno delle
cose che « le idee non possano mai retrocedere », ed hanno vita felice soltanto
« quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque
transazioni. Ma pur tuttavia il Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo
come un utile spediente, purché mantenuta ne' limiti della legge per giungere
ad un buono e durevole reggimento politico, ma come necessità di vita: e qui è
un punto fermo della sua dottrina politica, che nel suo saggio storico non
appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in Italia,” si rivela nella sua luminosa
chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna tra gli ottimati e la plebe, tra i
ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non solo di Roma, di Atene, di Sparta,
ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi non è vita: ivi un giogo di ferro
impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni dell'uomo e, con esse, il
germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più grandi imprese. Al cospetto
del gran re, nessun uomo emula più l'altro: e che invidierebbe, se son tutti
nulla? Quanto dura la vera vita di una città? Tanto quanto dura la disputa.
Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e quasi diresti fatale, il quale
incomincia dall'estrema barbarie, cioè dall'estrema ignoranza ed op pressione,
e finisce nell'estrema licenza di ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età
i padri han tutto, sanno tutto, fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si
rima nessero sempre così, la città sarebbe sempre barbara, cioè sempre
fanciulla. È necessario che si ceda alla plebe, poco a poco, ed in modo che non
se le dia ne meno nè più di quello che le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso
porta seco o pericolosa sedizione o languore più funesto della sedizione
istessa. È necessario che il popolo prosperi sempre e che abbia sempre nuovi
bisogni, per chè questo è il segno più certo della sua prosperità. Guai a
quella città in cui il popolo non ha nulla ! Ma due volte ma guai a
quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la miseria
gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche
l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la
gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con
gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da queste considerazioni il
molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte
plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur
necessaria per attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui
convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo perciò è varietà, e
non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi
un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno
sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi industriosi e
molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi
si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei. Allorquando la plebe
avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più avranno a cedere, allora,
« dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si vorranno eguagliare anche
gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà l'eguaglianza anco dei
beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose. Eterne, perchè la
ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre poveri, vi saranno sempre
uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno di meritar molto.
Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più numerosa del
popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali, nulla avendo
che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare.... Le assemblee
diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I cittadini dalle
sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti nascerà la necessità
che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà vincitore di tutti. Ed
avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò scaturisce un'altra
conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre osservazioni circa la
politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento non sono nè i ricchi,
pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in senso inverso dei ricchi,
ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e diversi aspetti, secondo i
vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello stato. I migliori ordini
pubblici sono inutili se non vengono affidati ai migliori cittadini. Quelli
sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini, i quali fan sì che la somma
delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi. Ma dove sono gli uomini
ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i massimi, corrotti sempre
dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città, avviliti sempre dalla miseria.
Ecco qui ritornare il concetto da noi già esaminato di un governo temperato,
equilibrio di forze opposte, e perciò armonia e giustizia, la quale giustizia
null'altro è se non obiettiva elisione d'ogni antagonismo e d'ogni dissension.
Ove avvien che siavi un ordine scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti
d'entrarvi, tostochè per le loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti
gli scogli del l'oligarchia e della democrazia. Il popolo non permetterà che i
grandi, per gelosia di ordine, trascurino il merito; i grandi non soffriranno
che altri si elevi per via di viltà e di corruzione: per opra de’secondi
eviterai quella dissi pazione che ne' tempi di pace dissolve le città popolari;
per opra de' primi eviterai quella viltà per cui le città oligarchiche temono i
pericoli, e quel livore col quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed
ardito, e che vien dal timore dei grandi di dover ricorrere al merito di un
uomo il quale non appartenga al loro numero. Queste città così temperate sono
quelle che fanno più grandi cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le
pro ponga nè chi le esegua. Soltanto attraverso questa coscienza politica dei
diri genti, attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa
organizzazione di classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel
pensiero del Cuoco: fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come
nelle singole città è possibile un contemperamento di interessi e di volontà
singole, così nella più vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi,
di genti, d' ideali diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede
dal l'interno all'esterno, poichè una tirannia imposta estrin secamente è
sempre nociva e deleteria; nell'Italia il processo unitario può essere
affrettato dalla conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica,
dalla religione unica e dalla legge unica. Il primo effetto della filosofia,
dice il Cuoco, è quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non
come un mezzo di distrug gersi, ma di difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di
fende spesso più validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion
civile, la sua legge agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi
d'attività belli gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora
morte. La conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca
forza, ma deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà,
plasmarle di sè, unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto. Questa,
ammonisce il Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli della
penisola, che Platone e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina,
missione il cui spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo
Platone e Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai
potuto dire quel che Vincenzo pone in bocca loro; ma le loro osservazioni, per
quanto il nostro spirito critico le riferisca all'autore del romanzo, non
possono non commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano. In una
prima età, scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e
perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno
guerra, o con le armi o con le sottigliezze del commercio; ma questa conoscenza
e questa guerra non sono mai distruzione, ma reciproca integrazione: « da
questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo
un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi; e, siccome ciascuna
di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche..., così veggo che, ad
impedire la servitù del genere umano ed a conservar più lungamente la pace
sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di
molte città il numero de' cittadini, prima e principal parte di quella forza,
contro la quale la virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non
calcolabile fortuna può dar talora la vittoria ». « Non pare a te » continua il
filosofo antico caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco «
che la natura, colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari,
colla varietà delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli, da cui
dipende la diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo
dificazione degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini
hanno appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari
suoni esterni; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli
abitanti di ciascuna regione: — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare
una nazione sola? Da ciò scaturisce la
necessità della conquista come mezzo per affrettare dall'esterno un processo
naturale: chi si assume questa missione, diviene arbitro e stru mento della
Provvidenza, Provvidenza che per il Cuoco, come del resto per Giambattista
Vico, è nell'immanenza della storia, piuttosto che nella celeste trascendenza
del divino posto fuori di noi: questo l'intimo concetto, se pur qualche volta
tradito dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè da una certa
oscillanza di pensiero. In Italia, intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò
capace, il romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità
effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord
imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in
un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non
solo li debellerà come entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me
diterraneo e del mondo. Rimarrà un solo popolo dominatore di tutta la terra,
innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano tacerà; ed i superbi
vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno nelle proprie viscere il
pugnale ancor fumante del sangue del genere umano; e quando tutte le idee
liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l'im menso potere
che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le nazioni prive di
vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e
talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù, vizi comuni,
sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle grandi
crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli uomini per
emendare la loro indocile razza. Grande sogno questo, in cui vibra tutto
l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici non dob biamo
lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non ritornerà più,
ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del 1806, che noi
vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata da straniere
superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità era davvero
un sogno; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi, ma divenire,
e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi, della nostra
maggiore unità, e poi del vario mondo dei commerci e delle genti, che noi non
vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am
miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina.
Considerato da questo punto di vista altamente poli tico, prescindendo da ogni
considerazione artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una
grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo
valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale
della formazione dello spirito pubblico italiano. È l'animato ricordo d'un tempo
che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si
pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose belle della
vita, la poesia, il teatro, la musica, la scultura, la pittura, che da essa
intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui
l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non si ripresenterà più
se non forse nel Rinascimento: ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo
presente, perchè molte considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero
etrusco, alla Magna Grecia, a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano
alla nostra travagliata vita moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui
importanza trascende la sua deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico.
Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Platone e un altro grande
libro, il Primato morale e civile degli italiani, come quelli il cui obietto è
uno solo, e la materia alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia
politica. Questo parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi
sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio
abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi
vichiani, p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3 ) P. HAZARD, op.
cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti
e dice che il “Platone in Italia” è la preparazione del Primato morale e civile
degli Italiani. Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na zione
non può esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse
usare, se non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza di
poterle sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna nutrire un
orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo, non
arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur riannodan
dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il
suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità religiosa e
d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato
al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il Cuoco, pur mantenendo
ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana,
pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo,
questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse
da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro
sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello Stato laico,
insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure
una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare.
E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna
parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di
Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini,
tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del
futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel
pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. Cuoco.
Grice e Curcio: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale dei corpi esistenti – lucrezio epicureo –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Noto).
Filosofo. Grice:
“Curcio is what we could call at Oxford a poet; he wrote a little book
‘Esistentee,’ an obvious parody on Sartre, ‘L’essistentialismo e un umanesimo.’
– His background is philososophical though, and it shows!” Ensegna a Noto e Messina. Direttore Generale per
l'Ordine Ginnasiale. Altre opere:
“Armonia e dissonanza” – consonanza e dissonanza (Noto) – etimologia di armonia
– cognata con ‘armento’ e ‘aritmetica’ – “La sfinge” – “La piramide”. “Il
prezzo della salute” (Noto). Commenti, libri I-XXIV – Roma” – “Il giro del
templo” (Bonacci, Roma); “Mottetto” (Bonacci, Roma); “Fugato” (Bonacci, Roma);
“II grano di follia” (Bonacci, Roma); “Senza più peso” (Bonacci, Roma); “Assolo,
(Bonacci, Roma); “A due voci” (Bonacci, Roma); “L'avita vocazione” (Bonacci,
Roma); “Esistente” (Bonacci, Roma); “Altri occhi” (Bonacci, Roma); “Le due
cene” (Bonacci, Roma); “Sitio” (Bonacci, Roma); “Consummatum” (Bonacci, Roma);
“Derelictus” (Bonacci, Roma); “In horto” (Bonacci, Roma); “Paradossale”
(Bonacci, Roma); “Felix” (Bonacci, Roma); “Deliramentum” (Bonacci, Roma). MARIUS THE EPICUREAN. THE RENAISSANCE : Studies in Art and Poetry.
Globe. IMAGINARY PORTRAITS : A Prince of Court Painters— Denys
I'Auxerrois — Sebastian van Storck — Diike Carl of Rosen- mold. Globe, APPRECIATIONS,
with an Essay on Style. Globe. PLATO AND PLATONISM : A Series of Lectures.
Globe. MARIUS THE EPICUREAN. HIS SENSATIONS AND IDEAS. WALTER PATER. FELLOW OF
BRASENOSE. a Xfiiiepivis Svapos, Sre fi^Kiarai ai
viKTCs m^ LIBRARY MACMILLAN AND CO.,
Ltd. The Religion of Numa. White-nights. Change of Air. The Tree of
Knowledge 5. The Golden Book 6. Euphuism. A Pagan End. Animula
Vagula. New Cyrenaicism. On the Way. The Most Religious City in the World. The
Divinity that doth hedge a King. The "Mistress and Mother" of Palaces
.Manly Amusement. Stoicism at Court. Second Thoughts. Beata Urbs. The Ceremony
of the Dart. The Will as Vision Two Curious Houses. Guests. Two Curious
Houses. The Church in Cecilia's House. The Minor Peace of the
Church. Divine Service. A Conversation not Imaginary . . Sunt Lacrim^e Rerum. The
Martyrs. The Triumph of Marcus Aurelius. Anima naturaliter Christiana. MARIUS THE EPICUREAN BY WALTER
PATER. ESSAYS FROM THE GUARDIAN. Extra Crown 8vo. 6s. G
ASTON DE LATOUR : An Unfinished Romance. Prepared for the Press by
CHARLES L. SHADWELL, Fellow of Oriel College. Extra Crown 8vo. 7s.
6d. MISCELLANEOUS STUDIES : A Series of Essays. Pre- pared
for the Press by CHARLES L. SHADWELL, Fellow of Oriel College. Extra
Crown GREEK STUDIES : A Series of Essays. Prepared for the Press by SHADWELL,
Fellow of Oriel. MARIUS THE EPICUREAN. His Sensations and Ideas. IMAGINARY
PORTRAITS : A Prince of Court Painters ; Denys 1'Auxerrois : Sebastian
van Storck ; Duke Carl of Rosenmold. THE RENAISSANCE : Studies in Art and
Poetry. Extra. PLATO AND PLATONISM : A Series of Lectures. Extra
Crown 8vo. 8s. APPRECIATIONS, with an Essay on Style. Extra Crown. LIFE OF
WALTER PATER. By ARTHUR C. BENSON. English Men of Letters Series.
MACMILLAN AND CO., LTD., LONDON. MARIUS THE
EPICUREAN HIS SENSATIONS AND IDEAS WALTER PATER. FELLOW OF
BRASENOSE, OXFORD. Xet/u/nvos oVetpos, ore pjjcurrat at MACMILLAN
AND CO., LIMITED ST. MARTIN'S STREET, LONDON. STOICISM AT COURT. SECOND
THOUGHTS. BEATA URBS. THE CEREMONY OF THE DART. THE WILL AS VISION. TWO CURIOUS
HOUSES i. GUESTS .TWO CURIOUS HOUSES 2. THE CHURCH IN CECILIA'S
HOUSE. THE MINOR PEACE OF THE CHURCH. DIVINE
SERVICE. A CONVERSATION NOT IMAGINARY. SUNT LACRIM^E RERUM. THE MARTYRS. THE
TRIUMPH OF MARCUS AURELIUS . . 197 28. ANIMA NATURALITER CHRISTIANA.
Marius the Epicurean HIS SENSATIONS AND IDEAS. PATER. London. (The
Library Edition.). The Religion of Numa. White-Nights 3. Change of
Air 4. The Tree of Knowledge 5. The Golden Book 6. Euphuism. A
Pagan End. Animula Vagula. New Cyrenaicism On the Way. The Most Religious
City in the World. The Divinity that Doth Hedge a King. The “Mistress and
Mother” of Palaces 14. Manly Amusement. I have placed an asterisk
immediately after each of Pater’s footnotes and a + sign after my own notes,
and have listed each of my notes at that chapter’s end. Greek typeface:
For this full-text edition, I have transliterated Pater’s Greek quotations. If
there is a need for the original Greek, it can be viewed at my site,
http://www.ajdrake.com/etexts, a Victorianist archive that contains the
complete works of Walter Pater and many other nineteenth-century texts, mostly
in first editions. MARIUS THE EPICUREAN, VOLUME ONE WALTER PATER
Χειμερινὸς ὄνειρος, ὅτε μήκισται αἱ νύκτες+ +“A winter’s
dream, when nights are longest.” Lucian, The Dream/ MARIUS THE EPICUREAN.
“THE RELIGION OF NUMA” -- As, in the triumph of Christianity, the old
religion lingered latest in the country, and died out at last as but
paganism—the religion of the villagers, before the advance of the Christian
Church; so, in an earlier century, it was in places remote from town-life that
the older and purer forms of paganism itself had survived the longest. While,
in Rome, new religions had arisen with bewildering complexity around the dying
old one, the earlier and simpler patriarchal religion, “the religion of Numa,”
as people loved to fancy, lingered on with little change amid the pastoral
life, out of the habits and sentiment of which so much of it had grown.
Glimpses of such a survival we may catch below the merely artificial attitudes
of Latin pastoral poetry; in Tibullus especially, who has preserved for us many
poetic details of old Roman religious usage. At mihi contingat patrios
celebrare Penates, Reddereque antiquo menstrua thura Lari: —he
prays, with unaffected seriousness. Something liturgical, with repetitions of a
consecrated form of words, is traceable in one of his elegies, as part of the
order of a birthday sacrifice. The hearth, from a spark of which, as one form
of old legend related, the child Romulus had been miraculously born, was still
indeed an altar; and the worthiest sacrifice to the gods the perfect physical
sanity of the young men and women, which the scrupulous ways of that religion
of the hearth had tended to maintain. A religion of usages and sentiment rather
than of facts and belief, and attached to very definite things and places—the
oak of immemorial age, the rock on the heath fashioned by weather as if by some
dim human art, the shadowy grove of ilex, passing into which one exclaimed
involuntarily, in consecrated phrase, Deity is in this Place! Numen Inest!—it
was in natural harmony with the temper of a quiet people amid the spectacle of
rural life, like that simpler faith between man and man, which Tibullus
expressly connects with the period when, with an inexpensive worship, the old
wooden gods had been still pressed for room in their homely little
shrines. And about the time when the dying Antoninus Pius ordered his
golden image of Fortune to be carried into the chamber of his successor (now
about to test the truth of the old Platonic contention, that the world would at
last find itself happy, could it detach some reluctant philosophic student from
the more desirable life of celestial contemplation, and compel him to rule it),
there was a boy living in an old country-house, half farm, half villa, who, for
himself, recruited that body of antique traditions by a spontaneous force of
religious veneration such as had originally called them into being. More than a
century and a half had past since Tibullus had written; but the restoration of
religious usages, and their retention where they still survived, was meantime
come to be the fashion through the influence of imperial example; and what had
been in the main a matter of family pride with his father, was sustained by a
native instinct of devotion in the young Marius. A sense of conscious powers
external to ourselves, pleased or displeased by the right or wrong conduct of
every circumstance of daily life—that conscience, of which the old Roman
religion was a formal, habitual recognition, was become in him a powerful
current of feeling and observance. The old-fashioned, partly puritanic awe, the
power of which Wordsworth noted and valued so highly in a northern peasantry,
had its counterpart in the feeling of the Roman lad, as he passed the spot,
“touched of heaven,” where the lightning had struck dead an aged labourer in
the field: an upright stone, still with mouldering garlands about it, marked
the place. He brought to that system of symbolic usages, and they in turn
developed in him further, a great seriousness—an impressibility to the
sacredness of time, of lifeand its events, and the circumstances of family
fellowship; of such gifts to men as fire, water, the earth, from labour on
which they live, really understood by him as gifts—a sense of eligious responsibility
in the reception of them. It was a religion for the most part of fear, of
multitudinous scruples, of a year-long burden of forms; yet rarely (on clear
summer mornings, for instanrce) the thought of those heavenly powers afforded a
welcome channel for the almost stifling sense of health and delight in him, and
relieved it as gratitude to the gods. The day of the “little” or private
Ambarvalia was come, to be celebrated by a single family for the welfare of all
belonging to it, as the great college of the Arval Brothers offici ated at
Rome in the interest of the whole state. At the appointed time all work ceases;
the instruments of labour lie untouched, hung with wreaths of flowers, while
masters and servants together go in solemn procession along the dry paths of
vineyard and cornfield, conducting the victims whose blood is presently to be
shed for the purification from all natural or supernatural taint o f the
lands they have “gone about.” The old Latin words of the liturgy, to be said as
the procession moved on its way, though their precise meaning was long since
become unintelligible, were recited from an ancient illuminated roll, kept in
the painted chest in the hall, together with the family records. Early on that
day the girls of the farm had been busy in the great portico, filling large
baskets with flowers plucked short from branches of apple and cherry, then in
spacious bloom, to strew before the quaint images of the gods—Ceres and
Bacchus and the yet more mysterious Dea Dia—as they passed through the fields,
carried in their little houses on the shoulders of white-clad youths, who were
understood to proceed to this office in perfect temperance, as pure in soul and
body as the air they breathed in the firm weather of that early summer-time.
The clean lustral water and the full incense-box were carried after them. The
altars were gay with garlands of wool and the more sumptuous sort of blossom
and green herbs to be thrown into the sacrificial fire, fresh-gathered this
morning from a particular plot in the old garden, set apart for the purpose.
Just then the young leaves were almost as fragrant as flowers, and the scent of
the bean-fields mingled pleasantly with the cloud of incense. But for the
monotonous intonation of the liturgy by the priests, clad in their strange,
stiff, antique vestments, and bearing ears of green corn upon their heads,
secured by flowing bands of white, the procession moved in absolute stillness,
all persons, even the children, abstaining from speech after the utterance of
the pontifical formula, Favete linguis!—Silence! Propitious Silence!—lest any
words save those proper to the occasion should hinder the religious efficacy of
the rite. With the lad Marius, who, as the head of his house, took a
leading part in the ceremonies of the day, there was a devout effort to
complete this impressive outward silence by that inward tacitness of mind,
esteemed so important by religious Romans in the performance of these sacred
functions. To him the sustained stillness without seemed really but to be
waiting upon that interior, mental condition of preparation or expectancy, for
which he was just then intently striving. The persons about him, certainly, had
never been challenged by those prayers and ceremonies to any ponderings on the
divine nature: they conceived them rather to be the appointed means of setting
such troublesome movements at rest. By them, “the religion of Numa,” so staid,
ideal and comely, the object of so much jealous conservatism, though of direct
service as lending sanction to a sort of high scrupulosity, especially in the
chief points of domestic conduct, was mainly prized as being, through its
hereditary character, something like a personal distinction—as contributing,
among the other accessories of an ancient house, to the production of that
aristocratic atmosphere which separated them from newly-made people. But in the
young Marius, the very absence from those venerable usages of all definite
history and dogmatic interpretation, had already awakened much speculative activity;
and to-day, starting from the actual details of the divine service, some very
lively surmises, though scarcely distinct enough to be thoughts, were moving
backwards and forwards in his mind, as the stirring wind had done all day among
the trees, and were like the passing of some mysterious influence over all the
elements of his nature and experience. One thing only distracted him—a certain
pity at the bottom of his heart, and almost on his lips, for the sacrificial
victims and their looks of terror, rising almost to disgust at the central act
of the sacrifice itself, a piece of everyday butcher’s work, such as we
decorously hide out of sight; though some then present certainly displayed a
frank curiosity in the spectacle thus permitted them on a religious pretext.
The old sculptors of the great procession on the frieze of the Parthenon at
Athens, have delineated the placid heads of the victims led in it to sacrifice,
with a perfect feeling for animals in forcible contrast with any indifference
as to their sufferings. It was this contrast that distracted Marius now in the
blessing of his fields, and qualified his devout absorption upon the scrupulous
fulfilment of all the details of the ceremonial, as the procession approached
the altars. The names of that great populace of “little gods,” dear to
the Roman home, which the pontiffs had placed on the sacred list of the
Indigitamenta, to be invoked, because they can help, on special occasions, were
not forgotten in the long litany—Vatican who causes the infant to utter his
first cry, Fabulinus who prompts his first word, Cuba who keeps him quiet in
his cot, Domiduca especially, for whom Marius had through life a particular
memory and devotion, the goddess who watches over one’s safe coming home. The
urns of the dead in the family chapel received their due service. They also
were now become something divine, a goodly company of friendly and protecting
spirits, encamped about the place of their former abode—above all others, the
father, dead ten years before, of whom, remembering but a tall, grave figure
above him in early childhood, Marius habitually thought as a genius a little
cold and severe. Candidus insuetum miratur limen Olympi, Sub pedibusque
videt nubes et sidera.— Perhaps!—but certainly needs his altar here
below, and garlands to-day upon his urn. But the dead genii were satisfied with
little—a few violets, a cake dipped in wine, or a morsel of honeycomb. Daily,
from the time when his childish footsteps were still uncertain, had Marius
taken them their portion of the family meal, at the second course, amidst the
silence of the company. They loved those who brought them their sustenance;
but, deprived of these services, would be heard wandering through the house,
crying sorrowfully in the stillness of the night. And those simple gifts,
like other objects as trivial—bread, oil, wine, milk—had regained for him, by
their use in such religious service, that poetic and as it were moral
significance, which surely belongs to all the means of daily life, could we but
break through the veil of our familiarity with things by no means vulgar in
themselves. A hymn followed, while the whole assembly stood with veiled faces.
The fire rose up readily from the altars, in clean, bright flame—a favourable
omen, making it a duty to render the mirth of the evening complete. Old wine
was poured out freely for the servants at supper in the great kitchen, where
they had worked in the imperfect light through the long evenings of winter. The
young Marius himself took but a very sober part in the noisy feasting. A
devout, regretful after-taste of what had been really beautiful in the ritual
he had accomplished took him early away, that he might the better recall in
reverie all the circumstances of the celebration of the day. As he sank into a
sleep, pleasant with all the influences of long hours in the open air, he
seemed still to be moving in procession through the fields, with a kind of
pleasurable awe. That feeling was still upon him as he awoke amid the beating
of violent rain on the shutters, in the first storm of the season. The thunder
which startled him from sleep seemed to make the solitude of his chamber almost
painfully complete, as if the nearness of those angry clouds shut him up in a
close place alone in the world. Then he thought of the sort of protection which
that day’s ceremonies assured. To procure an agreement with the gods—Pacem
deorum exposcere: that was the meaning of what they had all day been busy upon.
In a faith, sincere but half-suspicious, he would fain have those Powers at
least not against him. His own nearer household gods were all around his bed.
The spell of his religion as a part of the very essence of home, its intimacy,
its dignity and security, was forcible at that moment; only, it seemed to
involve certain heavy demands upon him. To an instinctive seriousness, the
material abode in which the childhood of Marius was passed had largely added.
Nothing, you felt, as you first caught sight of that coy, retired place,—surely
nothing could happen there, without its full accompaniment of thought or
reverie. White-nights! so you might interpret its old Latin name.* “The red
rose came first,” says a quaint German mystic, speaking of “the mystery of
so-called white things,” as being “ever an after-thought—the doubles, or
seconds, of real things, and themselves but half-real, half-material—the white
queen, the white witch, the white mass, which, as the black mass is a travesty
of the true mass turned to evil by horrible old witches, is celebrated by young
candidates for the priesthood with an unconsecrated host, by way of rehearsal.”
So, white-nights, I suppose, after something like the same analogy, should be
nights not of quite blank forgetfulness, but passed in continuous dreaming,
only half veiled by sleep. Certainly the place was, in such case, true to its
fanciful name in this, that you might very well conceive, in face of it, that
dreaming even in the daytime might come to much there. * _Ad Vigilias
Albas_. The young Marius represented an ancient family whose estate
had come down to him much curtailed through the extravagance of a certain
Marcellus two generations before, a favourite in his day of the fashionable
world at Rome, where he had at least spent his substance with a correctness of
taste Marius might seem to have inherited from him; as he was believed also to
resemble him in a singularly pleasant smile, consistent however, in the younger
face, with some degree of sombre expression when the mind within was but
slightly moved. As the means of life decreased, the farm had crept nearer
and nearer to the dwelling-house, about which there was therefore a trace of
workday negligence or homeliness, not without its picturesque charm for some,
for the young master himself among them. The more observant passer-by would
note, curious as to the inmates, a certain amount of dainty care amid that
neglect, as if it came in part, perhaps, from a reluctance to disturb old
associations. It was significant of the national character, that a sort of
elegant gentleman farming, as we say, had been much affected by some of the
most cultivated Romans. But it became something more than an elegant diversion,
something of a serious business, with the household of Marius; and his actual
interest in the cultivation of theearth and the care of flocks had brought him,
at least, intimately near to those elementary conditions of life, a reverence
for which, the great Roman poet, as he has shown by his own half-mystic
pre-occupation with them, held to be the ground of primitive Roman religion, as
of primitive morals. But then, farm-life in Italy, including the culture of the
olive and the vine, has a grace of its own, and might well contribute to
the production of an ideal dignity of character, like that of nature itself in
this gifted region. Vulgarity seemed impossible. The place, though
impoverished, was still deservedly dear, full of venerable memories, and with a
living sweetness of its own for to-day. To hold by such ceremonial
traditions had been a part of the struggling family pride of the lad’s father,
to which the example of the head of the state, old Antoninus Pius—an example to
be still further enforced by his successor—had given a fresh though perhaps
somewhat artificial popularity. It had been consistent with many another homely
and old-fashioned trait in him, not to undervalue the charm of exclusiveness
and immemorial authority, which membership in a local priestly college,
hereditary in his house, conferred upon him. To set a real value on these
things was but one element in that pious concern for his home and all that
belonged to it, which, as Marius afterwards discovered, had been a strong
motive with his father. The ancient hymn—Fana Novella!—was still sung by his
people, as the new moon grew bright in the west, and even their wild custom of
leaping through heaps of blazing straw on a certain night in summer was not
discouraged. The privilege of augury itself, according to tradition, had at one
time belonged to his race; and if you can imagine how, once in a way, an impressible
boy might have an inkling, an inward mystic intimation, of the meaning and
consequences of all that, what was implied in it becoming explicit for him, you
conceive aright the mind of Marius, in whose house the auspices were still
carefully consulted before every undertaking of moment. The devotion of
the father then had handed on loyally—and that is all many not unimportant
persons ever find to do—a certain tradition of life, which came to mean much
for the young Marius. The feeling with which he thought of his dead father was
almost exclusively that of awe; though crossed at times by a not unpleasant
sense of liberty, as he could but confess to himself, pondering, in the actual
absence of so weighty and continual a restraint, upon the arbitrary power which
Roman religion and Roman law gave to the parent over the son. On the part of
his mother, on the other hand, entertaining the husband’s memory, there was a
sustained freshness of regret, together with the recognition, as Marius
fancied, of some costly self-sacrifice to be credited to the dead. The life of
the widow, languid and shadowy enough but for the poignancy of that regret, was
like one long service to the departed soul; its many annual observances
centering about the funeral urn—a tiny, delicately carved marble house, still
white and fair, in the family-chapel, wreathed always with the richest flowers
from the garden. To the dead, in fact, was conceded in such places a somewhat
closer neighbourhood to the old homes they were thought still to protect, than
is usual with us, or was usual in Rome itself—a closeness which the living
welcomed, so diverse are the ways of our human sentiment, and in which the more
wealthy, at least in the country, might indulge themselves. All this Marius
followed with a devout interest, sincerely touched and awed by his mother’s
sorrow. After the deification of the emperors, we are told, it was considered
impious so much as to use any coarse expression in the presence of their
images. To Marius the whole of life seemed full of sacred presences, demanding
of him a similar collectedness. The severe and archaic religion of the villa,
as he conceived it, begot in him a sort of devout circumspection lest he should
fall short at any point of the demand upon him of anything in which deity was
concerned. He must satisfy with a kind of sacred equity, he must be very
cautious lest he be found wanting to, the claims of others, in their joys and
calamities—the happiness which deity sanctioned, or the blows in which it made
itself felt. And from habit, this feeling of a responsibility towards the world
of men and things, towards a claim for due sentiment concerning them on his
side, came to be a part of his nature not to be put off. It kept him serious
and dignified amid the Epicurean speculations which in after years much
engrossed him, and when he had learned to think of all religions as
indifferent, serious amid many fopperies and through many languid days, and
made him anticipate all his life long as a thing towards which he must carefully
train himself, some great occasion of self-devotion, such as really came, that
should consecrate his life, and, it might be, its memory with others, as the
early Christian looked forward to martyrdom at the end of his course, as a seal
of worth upon it. The traveller, descending from the slopes of Luna, even
as he got his first view of the Port-of-Venus, would pause by the way, to read
the face, as it were, of so beautiful a dwelling-place, lying away from the
white road, at the point where it began to decline somewhat steeply to the
marsh-land below. The building of pale red and yellow marble, mellowed by age,
which he saw beyond the gates, was indeed but the exquisite fragment of a once
large and sumptuous villa. Two centuries of the play of the sea-wind were in
the velvet of the mosses which lay along its inaccessible ledges and angles.
Here and there the marble plates had slipped from their places, where the
delicate weeds had forced their way. The graceful wildness which prevailed in
garden and farm gave place to a singular nicety about the actual habitation,
and a still more scrupulous sweetness and order reigned within. The old Roman
architects seem to have well understood the decorative value of the floor—the
real economy there was, in the production of rich interior effect, of a
somewhat lavish expenditure upon the surface they trod on. The pavement of the
hall had lost something of its evenness; but, though a little rough to the
foot, polished and cared for like a piece of silver, looked, as mosaic-work is
apt to do, its best in old age. Most noticeable among the ancestral masks, each
in its little cedarn chest below the cornice, was that of the wasteful but
elegant Marcellus, with the quaint resemblance in its yellow waxen features to
Marius, just then so full of animation and country colour. A chamber, curved
ingeniously into oval form, which he had added to the mansion, still contained
his collection of works of art; above all, that head of Medusa, for which the
villa was famous. The spoilers of one of the old Greek towns on the coast had
flung away or lost the thing, as it seemed, in some rapid flight across the
river below, from the sands of which it was drawn up in a fisherman’s net, with
the fine golden laminae still clinging here and there to the bronze. It was
Marcellus also who had contrived the prospect-tower of two storeys with the
white pigeon-house above, so characteristic of the place. The little glazed
windows in the uppermost chamber framed each its dainty landscape—the pallid crags
of Carrara, like wildly twisted snow-drifts above the purple heath; the distant
harbour with its freight of white marble going to sea; the lighthouse temple of
Venus Speciosa on its dark headland, amid the long-drawn curves of white
breakers. Even on summer nights the air there had always a motion in it, and
drove the scent of the new-mown hay along all the passages of the house.
Something pensive, spell-bound, and but half real, something cloistral or
monastic, as we should say, united to this exquisite order, made the whole
place seem to Marius, as it were, sacellum, the peculiar sanctuary, of his
mother, who, still in real widowhood, provided the deceased Marius the elder
with that secondary sort of life which we can give to the dead, in our intensely
realised memory of them—the “subjective immortality,” to use a modern phrase,
for which many a Roman epitaph cries out plaintively to widow or sister or
daughter, still in the land of the living. Certainly, if any such
considerations regarding them do reach the shadowy people, he enjoyed that
secondary existence, that warm place still left, in thought at least, beside
the living, the desire for which is actually, in various forms, so great a
motive with most of us. And Marius the younger, even thus early, came to think
of women’s tears, of women’s hands to lay one to rest, in death as in the sleep
of childhood, as a sort of natural want. The soft lines of the white hands and
face, set among the many folds of the veil and stole of the Roman widow, busy
upon her needlework, or with music sometimes, defined themselves for him as the
typical expression of maternity. Helping her with her white and purple wools,
and caring for her musical instruments, he won, as if from the handling of such
things, an urbane and feminine refinement, qualifying duly his country-grown
habits—the sense of a certain delicate blandness, which he relished, above all,
on returning to the “chapel” of his mother, after long days of open-air
exercise, in winter or stormy summer. For poetic souls in old Italy felt,
hardly less strongly than the English, the pleasures of winter, of the hearth,
with the very dead warm in its generous heat, keeping the young myrtles in
flower, though the hail is beating hard without. One important principle, of fruit
afterwards in his Roman life, that relish for the country fixed deeply in him;
in the winters especially, when the sufferings of the animal world became so
palpable even to the least observant. It fixed in him a sympathy for all
creatures, for the almost human troubles and sicknesses of the flocks, for
instance. It was a feeling which had in it something of religious veneration
for life as such—for that mysterious essence which man is powerless to create
in even the feeblest degree. One by one, at the desire of his mother, the lad
broke down his cherished traps and springes for the hungry wild birds on the
salt marsh. A white bird, she told him once, looking at him gravely, a bird
which he must carry in his bosom across a crowded public place—his own soul was
like that! Would it reach the hands of his good genius on the opposite side,
unruffled and unsoiled? And as his mother became to him the very type of
maternity in things, its unfailing pity and protectiveness, and maternity
itself the central type of all love;—so, that beautiful dwelling-place lent the
reality of concrete outline to a peculiar ideal of home, which throughout the
rest of his life he seemed, amid many distractions of spirit, to be ever
seeking to regain. And a certain vague fear of evil, constitutional in
him, enhanced still further this sentiment of home as a place of tried
security. His religion, that old Italian religion, in contrast with the really
light-hearted religion of Greece, had its deep undercurrent of gloom, its sad,
haunting imageries, not exclusively confined to the walls of Etruscan tombs.
The function of the conscience, not always as the prompter of gratitude for
benefits received, but oftenest as his accuser before those angry heavenly
masters, had a large part in it; and the sense of some unexplored evil, ever
dogging his footsteps, made him oddly suspicious of particular places and
persons. Though his liking for animals was so strong, yet one fierce day in
early summer, as he walked along a narrow road, he had seen the snakes
breeding, and ever afterwards avoided that place and its ugly associations, for
there was something in the incident which made food distasteful and his sleep
uneasy for many days afterwards. The memory of it however had almost passed
away, when at the corner of a street in Pisa, he came upon an African showman
exhibiting a great serpent: once more, as the reptile writhed, the former
painful impression revived: it was like a peep into the lower side of the real
world, and again for many days took all sweetness from food and sleep. He
wondered at himself indeed, trying to puzzle out the secret of that repugnance,
having no particular dread of a snake’s bite, like one of his companions, who
had put his hand into the mouth of an old garden-god and roused there a
sluggish viper. A kind of pity even mingled with his aversion, and he could
hardly have killed or injured the animals, which seemed already to suffer by
the very circumstance of their life, being what they were. It was something
like a fear of the supernatural, or perhaps rather a moral feeling, for the
face of a great serpent, with no grace of fur or feathers, so different from
quadruped or bird, has a sort of humanity of aspect in its spotted and clouded
nakedness. There was a humanity, dusty and sordid and as if far gone in
corruption, in the sluggish coil, as it awoke suddenly into one metallic spring
of pure enmity against him. Long afterwards, when it happened that at Rome he
saw, a second time, a showman with his serpents, he remembered the night which
had then followed, thinking, in Saint Augustine’s vein, on the real greatness
of those little troubles of children, of which older people make light; but
with a sudden gratitude also, as he reflected how richly possessed his life had
actually been by beautiful aspects and imageries, seeing how greatly what was
repugnant to the eye disturbed his peace. Thus the boyhood of Marius
passed; on the whole, more given to contemplation than to action. Less
prosperous in fortune than at an earlier day there had been reason to expect,
and animating his solitude, as he read eagerly and intelligently, with the
traditions of the past, already he lived much in the realm of the imagination,
and became betimes, as he was to continue all through life, something of an
idealist, constructing the world for himself in great measure from within, by
the exercise of meditative power. A vein of subjective philosophy, with the
individual for its standard of all things, there would be always in his
intellectual scheme of the world and of conduct, with a certain incapacity
wholly to accept other men’s valuations. And the generation of this peculiar
element in his temper he could trace up to the days when his life had been so
like the reading of a romance to him. Had the Romans a word for unworldly? The
beautiful word umbratilis perhaps comes nearest to it; and, with that precise
sense, might describe the spirit in which he prepared himself for the
sacerdotal function hereditary in his family—the sort of mystic enjoyment he had
in the abstinence, the strenuous self-control and ascêsis, which such
preparation involved. Like the young Ion in the beautiful opening of the play
of Euripides, who every morning sweeps the temple floor with such a fund of
cheerfulness in his service, he was apt to be happy in sacred places, with a
susceptibility to their peculiar influences which he never outgrew; so that
often in after-times, quite unexpectedly, this feeling would revive in him with
undiminished freshness. That first, early, boyish ideal of priesthood, the
sense of dedication, survived through all the distractions of the world, and
when all thought of such vocation had finally passed from him, as a ministry,
in spirit at least, towards a sort of hieratic beauty and order in the conduct
of life. And now what relieved in part this over-tension of soul was the
lad’s pleasure in the country and the open air; above all, the ramble to the
coast, over the marsh with its dwarf roses and wild lavender, and delightful
signs, one after another—the abandoned boat, the ruined flood-gates, the flock
of wild birds—that one was approaching the sea; the long summer-day of idleness
among its vague scents and sounds. And it was characteristic of him that he
relished especially the grave, subdued, northern notes in all that—the charm of
the French or English notes, as we might term them—in the luxuriant Italian
landscape. Dilexi decorem domus tuae. That almost morbid religious
idealism, and his healthful love of the country, were both alike developed by
the circumstances of a journey, which happened about this time, when Marius was
taken to a certain temple of Aesculapius, among the hills of Etruria, as was
then usual in such cases, for the cure of some boyish sickness. The religion of
Aesculapius, though borrowed from Greece, had been naturalised in Rome in the
old republican times; but had reached under the Antonines the height of its
popularity throughout the Roman world. That was an age of valetudinarians, in
many instances of imaginary ones; but below its various crazes concerning
health and disease, largely multiplied a few years after the time of which I am
speaking by the miseries of a great pestilence, lay a valuable, because partly
practicable, belief that all the maladies of the soul might be reached through
the subtle gateways of the body. Salus, salvation, for the Romans, had
come to mean bodily sanity. The religion of the god of bodily health, Salvator,
as they called him absolutely, had a chance just then of becoming the one
religion; that mild and philanthropic son of Apollo surviving, or absorbing,
all other pagan godhead. The apparatus of the medical art, the salutary mineral
or herb, diet or abstinence, and all the varieties of the bath, came to have a
kind of sacramental character, so deep was the feeling, in more serious
minds, of a moral or spiritual profit in physical health, beyond the obvious
bodily advantages one had of it; the body becoming truly, in that case, but a
quiet handmaid of the soul. The priesthood or “family” of Aesculapius, a vast
college, believed to be in possession of certain precious medical secrets, came
nearest perhaps, of all the institutions of the pagan world, to the Christian
priesthood; the temples of the god, rich in some instances with the accumulated
thank-offerings of centuries of a tasteful devotion, being really also a kind
of hospitals for the sick, administered in a full conviction of the
religiousness, the refined and sacred happiness, of a life spent in the
relieving of pain. Elements of a really experimental and progressive
knowledge there were doubtless amid this devout enthusiasm, bent so faithfully
on the reception of health as a direct gift from God; but for the most part his
care was held to take effect through a machinery easily capable of misuse for
purposes of religious fraud. Through dreams, above all, inspired by
Aesculapius himself, information as to the cause and cure of a malady was
supposed to come to the sufferer, in a belief based on the truth that dreams do
sometimes, for those who watch them carefully, give many hints concerning the
conditions of the body—those latent weak points at which disease or death may
most easily break into it. In the time of Marcus Aurelius these medical dreams
had become more than ever a fashionable caprice. Aristeides, the “Orator,” a
man of undoubted intellectual power, has devoted six discourses to their
interpretation; the really scientific Galen has recorded how beneficently they
had intervened in his own case, at certain turning-points of life; and a belief
in them was one of the frailties of the wise emperor himself. Partly for the
sake of these dreams, living ministers of the god, more likely to come to one
in his actual dwelling-place than elsewhere, it was almost a necessity that the
patient should sleep one or more nights within the precincts of a temple
consecrated to his service, during which time he must observe certain rules
prescribed by the priests. For this purpose, after devoutly saluting the
Lares, as was customary before starting on a journey, Marius set forth one
summer morning on his way to the famous temple which lay among the hills beyond
the valley of the Arnus. It was his greatest adventure hitherto; and he had
much pleasure in all its details, in spite of his feverishness. Starting early,
under the guidance of an old serving-man who drove the mules, with his wife who
took all that was needful for their refreshment on the way and for the offering
at the shrine, they went, under the genial heat, halting now and then to pluck
certain flowers seen for the first time on these high places, upwards, through
a long day of sunshine, while cliffs and woods sank gradually below their path.
The evening came as they passed along a steep white road with many windings
among the pines, and it was night when they reached the temple, the lights of
which shone out upon them pausing before the gates of the sacred enclosure,
while Marius became alive to a singular purity in the air. A rippling of water
about the place was the only thing audible, as they waited till two priestly
figures, speaking Greek to one another, admitted them into a large,
white-walled and clearly lighted guest-chamber, in which, while he partook of a
simple but wholesomely prepared supper, Marius still seemed to feel pleasantly
the height they had attained to among the hills. The agreeable sense of
all this was spoiled by one thing only, his old fear of serpents; for it was
under the form of a serpent that Aesculapius had come to Rome, and the last
definite thought of his weary head before he fell asleep had been a dread
either that the god might appear, as he was said sometimes to do, under this
hideous aspect, or perhaps one of those great sallow-hued snakes themselves,
kept in the sacred place, as he had also heard was usual. And after an
hour’s feverish dreaming he awoke—with a cry, it would seem, for some one had
entered the room bearing a light. The footsteps of the youthful figure which
approached and sat by his bedside were certainly real. Ever afterwards, when
the thought arose in his mind of some unhoped-for but entire relief from
distress, like blue sky in a storm at sea, would come back the memory of that
gracious countenance which, amid all the kindness of its gaze, had yet a
certain air of predominance over him, so that he seemed now for the first time
to have found the master of his spirit. It would have been sweet to be the
servant of him who now sat beside him speaking. He caught a lesson from
what was then said, still somewhat beyond his years, a lesson in the skilled
cultivation of life, of experience, of opportunity, which seemed to be the aim
of the young priest’s recommendations. The sum of them, through various
forgotten intervals of argument, as might really have happened in a dream, was
the precept, repeated many times under slightly varied aspects, of a diligent
promotion of the capacity of the eye, inasmuch as in the eye would lie for him
the determining influence of life: he was of the number of those who, in the
words of a poet who came long after, must be “made perfect by the love of
visible beauty.” The discourse was conceived from the point of view of a theory
Marius found afterwards in Plato’s Phaedrus, which supposes men’s spirits
susceptible to certain influences, diffused, after the manner of streams or currents,
by fair things or persons visibly present—green fields, for instance, or
children’s faces—into the air around them, acting, in the case of some peculiar
natures, like potent material essences, and conforming the seer to themselves
as with some cunning physical necessity. This theory,* in itself so fantastic,
had however determined in a range of methodical suggestions, altogether quaint
here and there from their circumstantial minuteness. And throughout, the
possibility of some vision, as of a new city coming down “like a bride out of
heaven,” a vision still indeed, it might seem, a long way off, but to be
granted perhaps one day to the eyes thus trained, was presented as the motive
of this laboriously practical direction. * [Transliteration:] Ê aporroê
tou kallous. +Translation: “Emanation from a thing of beauty.” “If
thou wouldst have all about thee like the colours of some fresh picture, in a
clear light,” so the discourse recommenced after a pause, “be temperate in thy
religious notions, in love, in wine, in all things, and of a peaceful heart
with thy fellows.” To keep the eye clear by a sort of exquisite personal
alacrity and cleanliness, extending even to his dwelling-place; to
discriminate, ever more and more fastidiously, select form and colour in things
from what was less select; to meditate much on beautiful visible objects, on
objects, more especially, connected with the period of youth—on children at
play in the morning, the trees in early spring, on young animals, on the
fashions and amusements of young men; to keep ever by him if it were but a
single choice flower, a graceful animal or sea-shell, as a token and
representative of the whole kingdom of such things; to avoid jealously, in his
way through the world, everything repugnant to sight; and, should any
circumstance tempt him to a general converse in the range of such objects, to
disentangle himself from that circumstance at any cost of place, money, or
opportunity; such were in brief outline the duties recognised, the rights
demanded, in this new formula of life. And it was delivered with conviction; as
if the speaker verily saw into the recesses of the mental and physical being of
the listener, while his own expression of perfect temperance had in it a
fascinating power—the merely negative element of purity, the mere freedom from
taint or flaw, in exercise as a positive influence. Long afterwards, when
Marius read the Charmides—that other dialogue of Plato, into which he seems to
have expressed the very genius of old Greek temperance—the image of this
speaker came back vividly before him, to take the chief part in the
conversation. It was as a weighty sanction of such temperance, in almost
visible symbolism (an outward imagery identifying itself with unseen
moralities) that the memory of that night’s double experience, the dream of the
great sallow snake and the utterance of the young priest, always returned to
him, and the contrast therein involved made him revolt with unfaltering
instinct from the bare thought of an excess in sleep, or diet, or even in
matters of taste, still more from any excess of a coarser kind. When he
awoke again, still in the exceeding freshness he had felt on his arrival, and
now in full sunlight, it was as if his sickness had really departed with the
terror of the night: a confusion had passed from the brain, a painful dryness
from his hands. Simply to be alive and there was a delight; and as he bathed in
the fresh water set ready for his use, the air of the room about him seemed
like pure gold, the very shadows rich with colour. Summoned at length by one of
the white-robed brethren, he went out to walk in the temple garden. At a
distance, on either side, his guide pointed out to him the Houses of Birth and
Death, erected for the reception respectively of women about to become mothers,
and of persons about to die; neither of those incidents being allowed to
defile, as was thought, the actual precincts of the shrine. His visitor of the
previous night he saw nowhere again. But among the official ministers of the place
there was one, already marked as of great celebrity, whom Marius saw often in
later days at Rome, the physician Galen, now about thirty years old. He was
standing, the hood partly drawn over his face, beside the holy well, as Marius
and his guide approached it. This famous well or conduit, primary cause
of the temple and its surrounding institutions, was supplied by the water of a
spring flowing directly out of the rocky foundations of the shrine. From the
rim of its basin rose a circle of trim columns to support a cupola of singular
lightness and grace, itself full of reflected light from the rippling surface,
through which might be traced the wavy figure-work of the marble lining below
as the stream of water rushed in. Legend told of a visit of Aesculapius to this
place, earlier and happier than his first coming to Rome: an inscription around
the cupola recorded it in letters of gold. “Being come unto this place the son
of God loved it exceedingly:”—Huc profectus filius Dei maxime amavit hunc
locum;—and it was then that that most intimately human of the gods had given
men the well, with all its salutary properties. The element itself when
received into the mouth, in consequence of its entire freedom from adhering
organic matter, was more like a draught of wonderfully pure air than water; and
after tasting, Marius was told many mysterious circumstances concerning it, by
one and another of the bystanders:—he who drank often thereof might well think
he had tasted of the Homeric lotus, so great became his desire to remain always
on that spot: carried to other places, it was almost indefinitely conservative
of its fine qualities: nay! a few drops of it would amend other water; and it
flowed not only with unvarying abundance but with a volume so oddly rhythmical
that the well stood always full to the brim, whatever quantity might be drawn
from it, seeming to answer with strange alacrity of service to human needs,
like a true creature and pupil of the philanthropic god. Certainly the little
crowd around seemed to find singular refreshment in gazin g on it. The
whole place appeared sensibly influenced by the amiable and healthful spirit of
the thing. All the objects of the country were there at their freshest. In the
great park-like enclosure for the maintenance of the sacred animals offered by
the convalescent, grass and trees were allowed to grow with a kind of graceful
wildness; otherwise, all was wonderfully nice. And thatfreshness seemed to have
something moral in its influence, as if it acted upon the body and the merely
bodily powers of apprehension, through the intelligence; and to the end of his
visit Marius saw no more serpents. A lad was just then drawing water for
ritual uses, and Marius followed him as he returned from the well, more and
more impressed by the religiousness of all he saw, on his way through a long
cloister or corridor, the walls well-nigh hidden under votive inscriptions
recording favours from the son of Apollo, and with a distant fragrance of
incense in the air, explained when he turned aside through an open doorway into
the temple itself. His heart bounded as the refined and dainty magnificence of
the place came upon him suddenly, in the flood of early sunshine, with the
ceremonial lights burning here and there, and withal a singular expression of
sacred order, a surprising cleanliness and simplicity. Certain priests, men
whose countenances bore a deep impression of cultivated mind, each with his
little group of assistants, were gliding round silently to perform their
morning salutation to the god, raising the closed thumb and finger of the right
hand with a kiss in the air, as the y came and went on their sacred
business, bearing their frankincense and lustral water. Around the walls, at
such a level that the worshippers might read, as in a book, the story of the
god and his sons, the brotherhood of the Asclepiadae, ran a series of
imageries, in low relief, their delicate light and shade being heightened, here
and there, with gold. Fullest of inspired and sacred expression, as if in this
place the chisel of the artist had indeed dealt not with marble but
with the very breath of feeling and thought, was the scene in which the
earliest generation of the sons of Aesculapius were transformed into healing
dreams; for “grown now too glorious to abide longer among men, by the aid of
their sire they put away their mortal bodies, and came into another country,
yet not indeed into Elysium nor into the Islands of the Blest. But being made
like to the immortal gods, they began to pass about through the world, changed
thus far from their first form that they appear eternally young, as many
persons have seen them in many places—ministers and heralds of their father,
passing to and fro over the earth, like gliding stars. Which thing is, indeed,
the most wonderful concerning them!” And in this scene, as throughout the
series, with all its crowded personages, Marius noted on the carved faces the
same peculiar union of unction, almost of hilarity, with a certain
self-possession and reserve, which was conspicuous in the living ministrants
around him. In the central space, upon a pillar or pedestal, hung, ex
voto, with the richest personal ornaments, stood the image of Aesculapius
himself, surrounded by choice flowering plants. It presented the type, still with
something of the severity of the earlier art of Greece about it, not of an aged
and crafty physician, but of a youth, earnest and strong of aspect, carrying an
ampulla or bottle in one hand, and in the other a traveller’s staff, a pilgrim
among his pilgrim worshippers; and one of the ministers explained to Marius
this pilgrim guise.—One chief source of the master’s knowledgeof healing had
been observation of the remedies resorted to by animals labouring under disease
or pain—what leaf or berry the lizard or dormouse lay upon its wounded fellow;
to which purpose for long years he had led the life of a wanderer, in wild
places. The boy took his place as the last comer, a little way behind the group
of worshippers who stood in front of the image. There, with uplifted face, the
palms of his two hands raised and open before him, and taught by the priest, he
said his collect of thanksgiving and prayer (Aristeides has recorded it at the
end of his Asclepiadae) to the Inspired Dreams:— “O ye children of
Apollo! who in time past have stilledthe waves of sorrow for many people,
lighting up a lamp of safety before those who travel by sea and land, be
pleased, in your great condescension, though ye be equal in glory with your
elder brethren the Dioscuri, and your lot in immortal youth be as theirs, to
accept this prayer, which in sleep and vision ye have inspired. Order it
arig ht, I pray you, according to your loving-kindness to men. Preserve me
from sickness; and endue my body with such a measure of health as may suffice
it for the obeying of the spirit, that I maypass my days unhindered and in
quietness.” On the last morning of his visit Marius entered the shrine
again, and just before his departure the priest, who had been his special
director during his stay at the place, lifting a cunningly contrived panel,
which formed the back of one of the carved seats, bade him look through. What
he saw was like the vision of a new world, by the opening of some unsuspected
window in a familiar dwelling-place. He looked out upon a long-d rawn
valley of singularly cheerful aspect, hidden, by the peculiar conformation of
the locality, from all points of observation but this. In a green meadow at the
foot of the steep olive-clad rocks below, the novices were taking their exercise.
The softly sloping sides of the vale lay alike in full sunlight; and its
distant opening was closed by a beautifully formed mountain, from which the
last wreaths of morning mist were rising under the heat. It might have seemed
the very presentment of a land of hope, its hollows brimful of a shadow of blue
flowers; and lo! on the one level space of the horizon, in a long dark line,
were towers and a dome: and that was Pisa.—Or Rome, was it? asked Marius, ready
to believe the utmost, in his excitement. All this served, as he
understood afterwards in retrospect, at once to strengthen and to purify a
certain vein of character in him. Developing the ideal, pre-existent there, of
a religious beauty, associated for the future with the exquisite splendour of
the temple of Aesculapius, as it dawned upon him on that morning of his first
visit—it developed that ideal in connexion with a vivid sense of the value of
mental and bodily sanity. And this recognition of the beauty, even for the
aesthetic sense, of mere bodily health, now acquired, operated afterwards as an
influence morally salutary, counteracting the less desirable or hazardous
tendencies of some phases of thought, through which he was to pass. He
came home brown with health to find the health of his mother failing; and about
her death, which occurred not long afterwards, there was a circumstance which
rested with him as the cruellest touch of all, in an event which for a time
seemed to have taken the light out of the sunshine. She died away from home, but
sent for him at the last, with a painful effort on her part, but to his great
gratitude, pondering, as he always believed, that he might chance otherwise to
look back all his life long upon a single fault with something like remorse,
and find the burden a great one. For it happened that, through some sudden,
incomprehensible petulance there had been an angry childish gesture, and a
slighting word, at the very moment of her departure, actually for the last
time. Remembering this he would ever afterwards pray to be saved from offences
against his own affections; the thought of that marred parting having peculiar
bitterness for one, who set so much store, both by principle and habit, on the
sentiment of home. O mare! O littus! verum secretumque Mouseion,+ quam multa
invenitis, quam multa dictatis! Pliny’s Letters. It would hardly
have been possible to feel more seriously than did Marius in those grave years
of his early life. But the death of his mother turned seriousness of feeling
into a matter of the intelligence: it made him a questioner; and, by bringing
into full evidence to him the force of his affections and the probable
importance of their place in his future, developed in him generally the more
human and earthly elements of character. A singularly virile consciousness of
the realities of life pronounced itself in him; still however as in the main a
poetic apprehension, though united already with something of personal ambition
and the instinct of self-assertion. There were days when he could suspect,
though it was a suspicion he was careful at first to put from him, that that
early, much cherished religion of the villa might come to count with him as but
one form of poetic beauty, or of the ideal, in things; as but one voice, in a
world where there were many voices it would be a moral weakness not to listen
to. And yet this voice, through its forcible pre-occupation of his childish
conscience, still seemed to make a claim of a quite exclusive character,
defining itself as essentially one of but two possible leaders of his spirit,
the other proposing to him unlimited self-expansion in a world of various
sunshine. The contrast was so pronounced as to make the easy, light-hearted,
unsuspecting exercise of himself, among the temptations of the new phase of
life which had now begun, seem nothing less than a rival religion, a rival
religious service. The temptations, the various sunshine, were those of the old
town of Pisa, where Marius was now a tall schoolboy. Pisa was a place lying
just far enough from home to make his rare visits to it in childhood seem like
adventures, such as had never failed to supply new and refreshing impulses to
the imagination. The partly decayed pensive town, which still had its commerce
by sea, and its fashion at the bathing-season, had lent, at one time the vivid
memory of its fair streets of marble, at another the solemn outline of the dark
hills of Luna on its background, at another the living glances of its men and
women, to the thickly gathering crowd of impressions, out of which his notion
of the world was then forming. And while he learned that the object, the
experience, as it will be known to memory, is really from first to last the
chief point for consideration in the conduct of life, these things were feeding
also the idealism constitutional with him—his innate and habitual longing for a
world altogether fairer than that he saw. The child could find his way in
thought along those streets of the old town, expecting duly the shrines at
their corners, and their recurrent intervals of garden-courts, or side-views of
distant sea. The great temple of the place, as he could remember it, on turning
back once for a last look from an angle of his homeward road, counting its tall
gray columns between the blue of the bay and the blue fields of blossoming flax
beyond; the harbour and its lights; the foreign ships lying there; the sailors’
chapel of Venus, and her gilded image, hung with votive gifts; the seamen
themselves, their women and children, who had a whole peculiar colour-world of
their own—the boy’s superficial delight in the broad light and shadow of all
that was mingled with the sense of power, of unknown distance, of the danger of
storm and possible death. To this place, then, Marius came down now from
White-nights, to live in the house of his guardian or tutor, that he might
attend the school of a famous rhetorician, and learn, among other things,
Greek. The school, one of many imitations of Plato’s Academy in the old
Athenian garden, lay in a quiet suburb of Pisa, and had its grove of cypresses,
its porticoes, a house for the master, its chapel and images. For the memory of
Marius in after-days, a clear morning sunlight seemed to lie perpetually on
that severe picture in old gray and green. The lad went to this school daily
betimes, in state at first, with a young slave to carry the books, and
certainly with no reluctance, for the sight of his fellow-scholars, and their
petulant activity, coming upon the sadder sentimental moods of his childhood,
awoke at once that instinct of emulation which is but the other side of
sympathy; and he was not aware, of course, how completely the difference of his
previous training had made him, even in his most enthusiastic participation in
the ways of that little world, still essentially but a spectator. While all
their heart was in their limited boyish race, and its transitory prizes, he was
already entertaining himself, very pleasurably meditative, with the tiny drama
in action before him, as but the mimic, preliminary exercise for a larger
contest, and already with an implicit epicureanism. Watching all the gallant
effects of their small rivalries—a scene in the main of fresh delightful
sunshine—he entered at once into the sensations of a rivalry beyond them, into
the passion of men, and had already recognised a certain appetite for fame, for
distinction among his fellows, as his dominant motive to be. The fame he
conceived for himself at this time was, as the reader will have anticipated, of
the intellectual order, that of a poet perhaps. And as, in that gray monastic
tranquillity of the villa, inward voices from the reality of unseen things had
come abundantly; so here, with the sounds and aspects of the shore, and amid
the urbanities, the graceful follies, of a bathing-place, it was the reality,
the tyrannous reality, of things visible that was borne in upon him. The real
world around—a present humanity not less comely, it might seem, than that of
the old heroic days—endowing everything it touched upon, however remotely, down
to its little passing tricks of fashion even, with a kind of fleeting beauty,
exercised over him just then a great fascination. That sense had come
upon him in all its power one exceptionally fine summer, the summer when, at a
somewhat earlier age than was usual, he had formally assumed the dress of
manhood, going into the Forum for that purpose, accompanied by his friends in
festal array. At night, after the full measure of those cloudless days, he
would feel well-nigh wearied out, as if with a long succession of pictures and
music. As he wandered through the gay streets or on the sea-shore, the real
world seemed indeed boundless, and himself almost absolutely free in it, with a
boundless appetite for experience, for adventure, whether physical or of the
spirit. His entire rearing hitherto had lent itself to an imaginative
exaltation of the past; but now the spectacle actually afforded to his untired
and freely open senses, suggested the reflection that the present had, it might
be, really advanced beyond the past, and he was ready to boast in the very fact
that it was modern. If, in a voluntary archaism, the polite world of that day
went back to a choicer generation, as it fancied, for the purpose of a
fastidious self-correction, in matters of art, of literature, and even, as we
have seen, of religion, at least it improved, by a shade or two of more
scrupulous finish, on the old pattern; and the new era, like the Neu-zeit of
the German enthusiasts at the beginning of our own century, might perhaps be
discerned, awaiting one just a single step onward—the perfected new manner, in
the consummation of time, alike as regards the things of the imagination and
the actual conduct of life. Only, while the pursuit of an ideal like this
demanded entire liberty of heart and brain, that old, staid, conservative
religion of his childhood certainly had its being in a world of somewhat narrow
restrictions. But then, the one was absolutely real, with nothing less than the
reality of seeing and hearing—the other, how vague, shadowy, problematical! Could
its so limited probabilities be worth taking into account in any practical
question as to the rejecting or receiving of what was indeed so real, and, on
the face of it, so desirable? And, dating from the time of his first
coming to school, a great friendship had grown up for him, in that life of so
few attachments—the pure and disinterested friendship of schoolmates. He had
seen Flavian for the first time the day on which he had come to Pisa, at the
moment when his mind was full of wistful thoughts regarding the new life to
begin for him to-morrow, and he gazed curiously at the crowd of bustling
scholars as they came from their classes. There was something in Flavian a
shade disdainful, as he stood isolated from the others for a moment, explained
in part by his stature and the distinction of the low, broad forehead; though
there was pleasantness also for the newcomer in the roving blue eyes which
seemed somehow to take a fuller hold upon things around than is usual with
boys. Marius knew that those proud glances made kindly note of him for a
moment, and felt something like friendship at first sight. There was a tone of
reserve or gravity there, amid perfectly disciplined health, which, to his
fancy, seemed to carry forward the expression of the austere sky and the clear
song of the blackbird on that gray March evening. Flavian indeed was a creature
who changed much with the changes of the passing light and shade about him, and
was brilliant enough under the early sunshine in school next morning. Of all
that little world of more or less gifted youth, surely the centre was this lad
of servile birth. Prince of the school, he had gained an easy dominion over the
old Greek master by the fascination of his parts, and over his fellow-scholars
by the figure he bore. He wore already the manly dress; and standing there in
class, as he displayed his wonderful quickness in reckoning, or his taste in
declaiming Homer, he was like a carved figure in motion, thought Marius, but
with that indescribable gleam upon it which the words of Homer actually
suggested, as perceptible on the visible forms of the gods—hoia theous
epenênothen aien eontas.+ A story hung by him, a story which his comrades
acutely connected with his habitual air of somewhat peevish pride. Two points
were held to be clear amid its general vagueness—a rich stranger paid his
schooling, and he was himself very poor, though there was an attractive
piquancy in the poverty of Flavian which in a scholar of another figure might
have been despised. Over Marius too his dominion was entire. Three years older
than he, Flavian was appointed to help the younger boy in his studies, and
Marius thus became virtually his servant in many things, taking his humours
with a sort of grateful pride in being noticed at all, and, thinking over all
this afterwards, found that the fascination experienced by him had been a
sentimental one, dependent on the concession to himself of an intimacy, a
certain tolerance of his company, granted to none beside. That was in the
earliest days; and then, as their intimacy grew, the genius, the intellectual
power of Flavian began its sway over him. The brilliant youth who loved dress,
and dainty food, and flowers, and seemed to have a natural alliance with, and
claim upon, everything else which was physically select and bright, cultivated
also that foppery of words, of choice diction which was common among the élite
spirits of that day; and Marius, early an expert and elegant penman,
transcribed his verses (the euphuism of which, amid a genuine original power,
was then so delightful to him) in beautiful ink, receiving in return the profit
of Flavian’s really great intellectual capacities, developed and accomplished
under the ambitious desire to make his way effectively in life. Among other
things he introduced him to the writings of a sprightly wit, then very busy
with the pen, one Lucian—writings seeming to overflow with that intellectual
light turned upon dim places, which, at least in seasons of mental fair
weather, can make people laugh where they have been wont, perhaps, to pray.
And, surely, the sunlight which filled those well-remembered early mornings in
school, had had more than the usual measure of gold in it! Marius, at least,
would lie awake before the time, thinking with delight of the long coming hours
of hard work in the presence of Flavian, as other boys dream of a
holiday. It was almost by accident at last, so wayward and capricious was
he, that reserve gave way, and Flavian told the story of his father—a freedman,
presented late in life, and almost against his will, with the liberty so fondly
desired in youth, but on condition of the sacrifice of part of his peculium—the
slave’s diminutive hoard—amassed by many a self-denial, in an existence
necessarily hard. The rich man, interested in the promise of the fair child
born on his estate, had sent him to school. The meanness and dejection,
nevertheless, of that unoccupied old age defined the leading memory of Flavian,
revived sometimes, after this first confidence, with a burst of angry tears amid
the sunshine. But nature had had her economy in nursing the strength of that
one natural affection; for, save his half-selfish care for Marius, it was the
single, really generous part, the one piety, in the lad’s character. In him
Marius saw the spirit of unbelief, achieved as if at one step. The much-admired
freedman’s son, as with the privilege of a natural aristocracy, believed only
in himself, in the brilliant, and mainly sensuous gifts, he had, or meant to
acquire. And then, he had certainly yielded himself, though still with
untouched health, in a world where manhood comes early, to the seductions of
that luxurious town, and Marius wondered sometimes, in the freer revelation of
himself by conversation, at the extent of his early corruption. How often,
afterwards, did evil things present themselves in malign association with the
memory of that beautiful head, and with a kind of borrowed sanction and charm
in its natural grace! To Marius, at a later time, he counted for as it were an
epitome of the whole pagan world, the depth of its corruption, and its
perfection of form. And still, in his mobility, his animation, in his eager
capacity for various life, he was so real an object, after that visionary
idealism of the villa. His voice, his glance, were like the breaking in of the
solid world upon one, amid the flimsy fictions of a dream. A shadow, handling
all things as shadows, had felt a sudden real and poignant heat in them.
Meantime, under his guidance, Marius was learning quickly and abundantly, because
with a good will. There was that in the actual effectiveness of his figure
which stimulated the younger lad to make the most of opportunity; and he had
experience already that education largely increased one’s capacity for
enjoyment. He was acquiring what it is the chief function of all higher
education to impart, the art, namely, of so relieving the ideal or poetic
traits, the elements of distinction, in our everyday life—of so exclusively
living in them—that the unadorned remainder of it, the mere drift or débris of
our days, comes to be as though it were not. And the consciousness of this aim
came with the reading of one particular book, then fresh in the world, with
which he fell in about this time—a book which awakened the poetic or romantic
capacity as perhaps some other book might have done, but was peculiar in giving
it a direction emphatically sensuous. It made him, in that visionary reception
of every-day life, the seer, more especially, of a revelation in colour and
form. If our modern education, in its better efforts, really conveys to any of
us that kind of idealising power, it does so (though dealing mainly, as its
professed instruments, with the most select and ideal remains of ancient
literature) oftenest by truant reading; and thus it happened also, long ago,
with Marius and his friend. NOTES 43. +Transliteration:
Mouseion. The word means “seat of the muses.” Translation: “O sea! O shore! my
own Helicon, / How many things have you uncovered to me, how many things suggested!”
Pliny, Letters, Book I, ix, to Minicius Fundanus. 50.
+Transliteration: hoia theous epenênothen aien eontas. Translation: “such as
the gods are endowed with.” Homer, Odyssey, 8.365. The two lads were
lounging together over a book, half-buried in a heap of dry corn, in an old
granary—the quiet corner to which they had climbed out of the way of their
noisier companions on one of their blandest holiday afternoons. They looked
round: the western sun smote through the broad chinks of the shutters. How like
a picture! and it was precisely the scene described in what they were reading,
with just that added poetic touch in the book which made it delightful and
select, and, in the actual place, the ray of sunlight transforming the rough
grain among the cool brown shadows into heaps of gold. What they were intent on
was, indeed, the book of books, the “golden” book of that day, a gift to
Flavian, as was shown by the purple writing on the handsome yellow wrapper,
following the title Flaviane!—it said, Flaviane! lege Felicitur! Flaviane!
Vivas! Fioreas! Flaviane! Vivas! Gaudeas! It was perfumed with oil
of sandal-wood, and decorated with carved and gilt ivory bosses at the ends of
the roller. And the inside was something not less dainty and fine, full
of the archaisms and curious felicities in which that generation delighted,
quaint terms and images picked fresh from the early dramatists, the lifelike
phrases of some lost poet preserved by an old grammarian, racy morsels of the
vernacula r and studied prettinesses:—all alike, mere playthings for the
genuine power and natural eloquence of the erudite artist, unsuppressed by his
erudition, which, however, made some people angry, chiefly less well “got-up”
people, and especially those who were untidy from indolence. No! it was
certainly not that old-fashioned, unconscious ease of the early literature,
which could never come again; which, after all, had had more in common with the
“infinite patience” of Apuleius than with the hack-work readiness of his
detractors, who might so well have been “self-conscious” of going slip-shod.
And at least his success was unmistakable as to the precise literary effect he
had intended, including a certain tincture of “neology” in expression—nonnihil
interdum elocutione novella parum signatum—in the language of Cornelius Fronto,
the contemporary prince of rhetoricians. What words he had found for conveying,
with a single touch, the sense of textures, colours, incidents! “Like
jewellers’ work! Like a myrrhine vase!”—admirers said of his writing. “The golden
fibre in the hair, the gold thread-work in the gown marked her as the
mistress”—aurum in comis et in tunicis, ibi inflexum hic intextum, matronam
profecto confitebatur—he writes, with his “curious felicity,” of one of his
heroines. Aurum intextum: gold fibre:—well! there was something of that kind in
his own work. And then, in an age when people, from the emperor Aurelius
downwards, prided themselves unwisely on writing in Greek, he had written for
Latin people in their own tongue; though still, in truth, with all the care of
a learned language. Not less happily inventive were the incidents
recorded—story within story—stories with the sudden, unlooked-for changes of
dreams. He had his humorous touches also. And what went to the ordinary boyish
taste, in those somewhat peculiar readers, what would have charmed boys more
purely boyish, was the adventure:—the bear loose in the house at night, the
wolves storming the farms in winter, the exploits of the robbers, their
charming caves, the delightful thrill one had at the question—“Don’t you know
that these roads are infested by robbers?” The scene of the romance was
laid in Thessaly, the original land of witchcraft, and took one up and down its
mountains, and into its old weird towns, haunts of magic and incantation, where
all the more genuine appliances of the black art, left behind her by Medea when
she fled through that country, were still in use. In the city of Hypata,
indeed, nothing seemed to be its true self—“You might think that through the murmuring
of some cadaverous spell, all things had been changed into forms not their own;
that there was humanity in the hardness of the stones you stumbled on; that the
birds you heard singing were feathered men; that the trees around the walls
drew their leaves from a like source. The statues seemed about to move, the
walls to speak, the dumb cattle to break out in prophecy; nay! the very sky and
the sunbeams, as if they might suddenly cry out.” Witches are there who can
draw down the moon, or at least the lunar virus—that white fluid she sheds, to
be found, so rarely, “on high, heathy places: which is a poison. A touch of it
will drive men mad.” And in one very remote village lives the sorceress
Pamphile, who turns her neighbours into various animals. What true humour in
the scene where, after mounting the rickety stairs, Lucius, peeping curiously
through a chink in the door, is a spectator of the transformation of the old
witch herself into a bird, that she may take flight to the object of her
affections—into an owl! “First she stripped off every rag she had. Then opening
a certain chest she took from it many small boxes, and removing the lid of one
of them, rubbed herself over for a long time, from head to foot, with an
ointment it contained, and after much low muttering to her lamp, began to jerk
at last and shake her limbs. And as her limbs moved to and fro, out burst the
soft feathers: stout wings came forth to view: the nose grew hard and hooked:
her nails were crooked into claws; and Pamphile was an owl. She uttered a
queasy screech; and, leaping little by little from the ground, making trial of
herself, fled presently, on full wing, out of doors.” By clumsy imitation
of this process, Lucius, the hero of the romance, transforms himself, not as he
had intended into a showy winged creature, but into the animal which has given
name to the book; for throughout it there runs a vein of racy, homely satire on
the love of magic then prevalent, curiosity concerning which had led Lucius to
meddle with the old woman’s appliances. “Be you my Venus,” he says to the
pretty maid-servant who has introduced him to the view of Pamphile, “and let me
stand by you a winged Cupid!” and, freely applying the magic ointment, sees
himself transformed, “not into a bird, but into an ass!” Well! the proper
remedy for his distress is a supper of roses, could such be found, and many are
his quaintly picturesque attempts to come by them at that adverse season; as he
contrives to do at last, when, the grotesque procession of Isis passing by with
a bear and other strange animals in its train, the ass following along with the
rest suddenly crunches the chaplet of roses carried in the High-priest’s
hand. Meantime, however, he must wait for the spring, with more than the
outside of an ass; “though I was not so much a fool, nor so truly an ass,” he
tells us, when he happens to be left alone with a daintily spread table, “as to
neglect this most delicious fare, and feed upon coarse hay.” For, in truth, all
through the book, there is an unmistakably real feeling for asses, with bold
touches like Swift’s, and a genuine animal breadth. Lucius was the original
ass, who peeping slily from the window of his hiding-place forgot all about the
big shade he cast just above him, and gave occasion to the joke or proverb
about “the peeping ass and his shadow.” But the marvellous, delight in
which is one of the really serious elements in most boys, passed at times,
those young readers still feeling its fascination, into what French writers
call the macabre—that species of almost insane pre-occupation with the
materialities of our mouldering flesh, that luxury of disgust in gazing on
corruption, which was connected, in this writer at least, with not a little
obvious coarseness. It was a strange notion of the gross lust of the actual
world, that Marius took from some of these episodes. “I am told,” they read,
“that when foreigners are interred, the old witches are in the habit of
out-racing the funeral procession, to ravage the corpse”—in order to obtain
certain cuttings and remnants from it, with which to injure the
living—“especially if the witch has happened to cast her eye upon some goodly
young man.” And the scene of the night-watching of a dead body lest the witches
should come to tear off the flesh with their teeth, is worthy of Théophile
Gautier. But set as one of the episodes in the main narrative, a true gem
amid its mockeries, its coarse though genuine humanity, its burlesque horrors,
came the tale of Cupid and Psyche, full of brilliant, life-like situations, speciosa
locis, and abounding in lovely visible imagery (one seemed to see and handle
the golden hair, the fresh flowers, the precious works of art in it!) yet full
also of a gentle idealism, so that you might take it, if you chose, for an
allegory. With a concentration of all his finer literary gifts, Apuleius had
gathered into it the floating star-matter of many a delightful old
story.— The Story of Cupid and Psyche. In a certain city
lived a king and queen who had three daughters exceeding fair. But the beauty
of the elder sisters, though pleasant to behold, yet passed not the measure of
human praise, while such was the loveliness of the youngest that men’s speech
was too poor to commend it worthily and could express it not at all. Many of
the citizens and of strangers, whom the fame of this excellent vision had
gathered thither, confounded by that matchless beauty, could but kiss the
finger-tips of their right hands at sight of her, as in adoration to the
goddess Venus herself. And soon a rumour passed through the country that she
whom the blue deep had borne, forbearing her divine dignity, was even then
moving among men, or that by some fresh germination from the stars, not the sea
now, but the earth, had put forth a new Venus, endued with the flower of
virginity. This belief, with the fame of the maiden’s loveliness, went
daily further into distant lands, so that many people were drawn together to
behold that glorious model of the age. Men sailed no longer to Paphos, to
Cnidus or Cythera, to the presence of the goddess Venus: her sacred rites were
neglected, her images stood uncrowned, the cold ashes were left to disfigure
her forsaken altars. It was to a maiden that men’s prayers were offered, to a
human countenance they looked, in propitiating so great a godhead: when the
girl went forth in the morning they strewed flowers on her way, and the victims
proper to that unseen goddess were presented as she passed along. This
conveyance of divine worship to a mortal kindled meantime the anger of the true
Venus. “Lo! now, the ancient parent of nature,” she cried, “the fountain of all
elements! Behold me, Venus, benign mother of the world, sharing my honours with
a mortal maiden, while my name, built up in heaven, is profaned by the mean
things of earth! Shall a perishable woman bear my image about with her? In vain
did the shepherd of Ida prefer me! Yet shall she have little joy, whosoever she
be, of her usurped and unlawful loveliness!” Thereupon she called to her that
winged, bold boy, of evil ways, who wanders armed by night through men’s
houses, spoiling their marriages; and stirring yet more by her speech his
inborn wantonness, she led him to the city, and showed him Psyche as she
walked. “I pray thee,” she said, “give thy mother a full revenge. Let
this maid become the slave of an unworthy love.” Then, embracing him closely,
she departed to the shore and took her throne upon the crest of the wave. And
lo! at her unuttered will, her ocean-servants are in waiting: the daughters of
Nereus are there singing their song, and Portunus, and Salacia, and the tiny
charioteer of the dolphin, with a host of Tritons leaping through the billows.
And one blows softly through his sounding sea-shell, another spreads a silken
web against the sun, a third presents the mirror to the eyes of his mistress,
while the others swim side by side below, drawing her chariot. Such was the
escort of Venus as she went upon the sea. Psyche meantime, aware of her
loveliness, had no fruit thereof. All people regarded and admired, but none sought
her in marriage. It was but as on the finished work of the craftsman that they
gazed upon that divine likeness. Her sisters, less fair than she, were happily
wedded. She, even as a widow, sitting at home, wept over her desolation, hating
in her heart the beauty in which all men were pleased. And the king,
supposing the gods were angry, inquired of the oracle of Apollo, and Apollo
answered him thus: “Let the damsel be placed on the top of a certain mountain,
adorned as for the bed of marriage and of death. Look not for a son-in-law of
mortal birth; but for that evil serpent-thing, by reason of whom even the gods
tremble and the shadows of Styx are afraid.” So the king returned home
and made known the oracle to his wife. For many days she lamented, but at last
the fulfilment of the divine precept is urgent upon her, and the company make
ready to conduct the maiden to her deadly bridal. And now the nuptial torch
gathers dark smoke and ashes: the pleasant sound of the pipe is changed into a
cry: the marriage hymn concludes in a sorrowful wailing: below her yellow
wedding-veil the bride shook away her tears; insomuch that the whole city was
afflicted together at the ill-luck of the stricken house. But the mandate
of the god impelled the hapless Psyche to her fate, and, these solemnities
being ended, the funeral of the living soul goes forth, all the people
following. Psyche, bitterly weeping, assists not at her marriage but at her own
obsequies, and while the parents hesitate to accomplish a thing so unholy the
daughter cries to them: “Wherefore torment your luckless age by long weeping?
This was the prize of my extraordinary beauty! When all people celebrated us
with divine honours, and in one voice named the New Venus, it was then ye
should have wept for me as one dead. Now at last I understand that that one
name of Venus has been my ruin. Lead me and set me upon the appointed place. I
am in haste to submit to that well-omened marriage, to behold that goodly
spouse. Why delay the coming of him who was born for the destruction of the
whole world?” She was silent, and with firm step went on the way. And
they proceeded to the appointed place on a steep mountain, and left there the
maiden alone, and took their way homewards dejectedly. The wretched parents, in
their close-shut house, yielded themselves to perpetual night; while to Psyche,
fearful and trembling and weeping sore upon the mountain-top, comes the gentle
Zephyrus. He lifts her mildly, and, with vesture afloat on either side, bears
her by his own soft breathing over the windings of the hills, and sets her
lightly among the flowers in the bosom of a valley below. Psyche, in
those delicate grassy places, lying sweetly on her dewy bed, rested from the
agitation of her soul and arose in peace. And lo! a grove of mighty trees, with
a fount of water, clear as glass, in the midst; and hard by the water, a
dwelling-place, built not by human hands but by some divine cunning. One
recognised, even at the entering, the delightful hostelry of a god. Golden pillars
sustained the roof, arched most curiously in cedar-wood and ivory. The walls
were hidden under wrought silver:—all tame and woodland creatures leaping
forward to the visitor’s gaze. Wonderful indeed was the craftsman, divine or
half-divine, who by the subtlety of his art had breathed so wild a soul into
the silver! The very pavement was distinct with pictures in goodly stones. In
the glow of its precious metal the house is its own daylight, having no need of
the sun. Well might it seem a place fashioned for the conversation of gods with
men! Psyche, drawn forward by the delight of it, came near, and, her
courage growing, stood within the doorway. One by one, she admired the
beautiful things she saw; and, most wonderful of all! no lock, no chain, nor living
guardian protected that great treasure house. But as she gazed there came a
voice—a voice, as it were unclothed of bodily vesture—“Mistress!” it said, “all
these things are thine. Lie down, and relieve thy weariness, and rise again for
the bath when thou wilt. We thy servants, whose voice thou hearest, will be
beforehand with our service, and a royal feast shall be ready.” And
Psyche understood that some divine care was providing, and, refreshed with
sleep and the Bath, sat down to the feast. Still she saw no one: only she heard
words falling here and there, and had voices alone to serve her. And the feast
being ended, one entered the chamber and sang to her unseen, while another
struck the chords of a harp, invisible with him who played on it. Afterwards the
sound of a company singing together came to her, but still so that none were
present to sight; yet it appeared that a great multitude of singers was
there. And the hour of evening inviting her, she climbed into the bed;
and as the night was far advanced, behold a sound of a certain clemency
approaches her. Then, fearing for her maidenhood in so great solitude, she
trembled, and more than any evil she knew dreaded that she knew not. And now
the husband, that unknown husband, drew near, and ascended the couch, and made
her his wife; and lo! before the rise of dawn he had departed hastily. And the
attendant voices ministered to the needs of the newly married. And so it
happened with her for a long season. And as nature has willed, this new thing,
by continual use, became a delight to her: the sound of the voice grew to be
her solace in that condition of loneliness and uncertainty. One night the
bridegroom spoke thus to his beloved, “O Psyche, most pleasant bride! Fortune
is grown stern with us, and threatens thee with mortal peril. Thy sisters,
troubled at the report of thy death and seeking some trace of thee, will
come to the mountain’s top. But if by chance their cries reach thee, answer
not, neither look forth at all, lest thou bring sorrow upon me and destruction
upon thyself.” Then Psyche promised that she would do according to his will.
But the bridegroom was fled away again with the night. And all that day she
spent in tears, repeating that she was now dead indeed, shut up in that golden
prison, powerless to console her sisters sorrowing after her, or to see their
faces; and so went to rest weeping. And after a while came the bridegroom
again, and lay down beside her, and embracing her as she wept, complained, “Was
this thy promise, my Psyche? What have I to hope from thee? Even in the arms of
thy husband thou ceasest not from pain. Do now as thou wilt. Indulge thine own
desire, though it seeks what will ruin thee. Yet wilt thou remember my warning,
repentant too late.” Then, protesting that she is like to die, she obtains from
him that he suffer her to see her sisters, and present to them moreover what
gifts she would of golden ornaments; but therewith he ofttimes advised her
never at any time, yielding to pernicious counsel, to enquire concerning his
bodily form, lest she fall, through unholy curiosity, from so great a height of
fortune, nor feel ever his embrace again. “I would die a hundred times,” she
said, cheerful at last, “rather than be deprived of thy most sweet usage. I
love thee as my own soul, beyond comparison even with Love himself. Only bid
thy servant Zephyrus bring hither my sisters, as he brought me. My honeycomb!
My husband! Thy Psyche’s breath of life!” So he promised; and after the
embraces of the night, ere the light appeared, vanished from the hands of his
bride. And the sisters, coming to the place where Psyche was abandoned,
wept loudly among the rocks, and called upon her by name, so that the sound
came down to her, and running out of the palace distraught, she cried, “Wherefore
afflict your souls with lamentation? I whom you mourn am here.” Then, summoning
Zephyrus, she reminded him of her husband’s bidding; and he bare them down with
a gentle blast. “Enter now,” she said, “into my house, and relieve your sorrow
in the company of Psyche your sister.” And Psyche displayed to them all
the treasures of the golden house, and its great family of ministering voices,
nursing in them the malice which was already at their hearts. And at last one
of them asks curiously who the lord of that celestial array may be, and what
manner of man her husband? And Psyche answered dissemblingly, “A young man,
handsome and mannerly, with a goodly beard. For the most part he hunts upon the
mountains.” And lest the secret should slip from her in the way of further
speech, loading her sisters with gold and gems, she commanded Zephyrus to bear
them away. And they returned home, on fire with envy. “See now the
injustice of fortune!” cried one. “We, the elder children, are given like
servants to be the wives of strangers, while the youngest is possessed of so
great riches, who scarcely knows how to use them. You saw, Sister! what a hoard
of wealth lies in the house; what glittering gowns; what splendour of precious
gems, besides all that gold trodden under foot. If she indeed hath, as she
said, a bridegroom so goodly, then no one in all the world is happier. And it
may be that this husband, being of divine nature, will make her too a goddess.
Nay! so in truth it is. It was even thus she bore herself. Already she looks
aloft and breathes divinity, who, though but a woman, has voices for her
handmaidens, and can command the winds.” “Think,” answered the other, “how
arrogantly she dealt with us, grudging us these trifling gifts out of all that
store, and when our company became a burden, causing us to be hissed and driven
away from her through the air! But I am no woman if she keep her hold on this
great fortune; and if the insult done us has touched thee too, take we counsel
together. Meanwhile let us hold our peace, and know naught of her, alive or
dead. For they are not truly happy of whose happiness other folk are
unaware.” And the bridegroom, whom still she knows not, warns her thus a
second time, as he talks with her by night: “Seest thou what peril besets thee?
Those cunning wolves have made ready for thee their snares, of which the sum is
that they persuade thee to search into the fashion of my countenance, the
seeing of which, as I have told thee often, will be the seeing of it no more
for ever. But do thou neither listen nor make answer to aught regarding thy
husband. Besides, we have sown also the seed of our race. Even now this bosom
grows with a child to be born to us, a child, if thou but keep our secret, of
divine quality; if thou profane it, subject to death.” And Psyche was glad at
the tidings, rejoicing in that solace of a divine seed, and in the glory of
that pledge of love to be, and the dignity of the name of mother. Anxiously she
notes the increase of the days, the waning months. And again, as he tarries
briefly beside her, the bridegroom repeats his warning: “Even now the
sword is drawn with which thy sisters seek thy life. Have pity on thyself,
sweet wife, and upon our child, and see not those evil women again.” But the
sisters make their way into the palace once more, crying to her in wily tones,
“O Psyche! and thou too wilt be a mother! How great will be the joy at home!
Happy indeed shall we be to have the nursing of the golden child. Truly if he
be answerable to the beauty of his parents, it will be a birth of Cupid
himself.” So, little by little, they stole upon the heart of their
sister. She, meanwhile, bids the lyre to sound for their delight, and the
playing is heard: she bids the pipes to move, the quire to sing, and the music
and the singing come invisibly, soothing the mind of the listener with sweetest
modulation. Yet not even thereby was their malice put to sleep: once more they
seek to know what manner of husband she has, and whence that seed. And Psyche,
simple over-much, forgetful of her first story, answers, “My husband comes from
a far country, trading for great sums. He is already of middle age, with
whitening locks.” And therewith she dismisses them again. And returning
home upon the soft breath of Zephyrus one cried to the other, “What shall be
said of so ugly a lie? He who was a young man with goodly beard is now in
middle life. It must be that she told a false tale: else is she in very truth
ignorant what manner of man he is. Howsoever it be, let us destroy her quickly.
For if she indeed knows not, be sure that her bridegroom is one of the gods: it
is a god she bears in her womb. And let that be far from us! If she be called
mother of a god, then will life be more than I can bear.” So, full of
rage against her, they returned to Psyche, and said to her craftily, “Thou
livest in an ignorant bliss, all incurious of thy real danger. It is a deadly
serpent, as we certainly know, that comes to sleep at thy side. Remember the
words of the oracle, which declared thee destined to a cruel beast. There are
those who have seen it at nightfall, coming back from its feeding. In no long
time, they say, it will end its blandishments. It but waits for the babe to be
formed in thee, that it may devour thee by so much the richer. If indeed the solitude
of this musical place, or it may be the loathsome commerce of a hidden love,
delight thee, we at least in sisterly piety have done our part.” And at last
the unhappy Psyche, simple and frail of soul, carried away by the terror of
their words, losing memory of her husband’s precepts and her own promise,
brought upon herself a great calamity. Trembling and turning pale, she answers
them, “And they who tell those things, it may be, speak the truth. For in very
deed never have I seen the face of my husband, nor know I at all what manner of
man he is. Always he frights me diligently from the sight of him, threatening
some great evil should I too curiously look upon his face. Do ye, if ye can
help your sister in her great peril, stand by her now.” Her sisters
answered her, “The way of safety we have well considered, and will teach thee.
Take a sharp knife, and hide it in that part of the couch where thou art wont
to lie: take also a lamp filled with oil, and set it privily behind the
curtain. And when he shall have drawn up his coils into the accustomed place,
and thou hearest him breathe in sleep, slip then from his side and discover the
lamp, and, knife in hand, put forth thy strength, and strike off the serpent’s
head.” And so they departed in haste. And Psyche left alone (alone but
for the furies which beset her) is tossed up and down in her distress, like a
wave of the sea; and though her will is firm, yet, in the moment of putting
hand to the deed, she falters, and is torn asunder by various apprehension of
the great calamity upon her. She hastens and anon delays, now full of distrust,
and now of angry courage: under one bodily form she loathes the monster and
loves the bridegroom. But twilight ushers in the night; and at length in haste
she makes ready for the terrible deed. Darkness came, and the bridegroom; and
he first, after some faint essay of love, falls into a deep sleep. And
she, erewhile of no strength, the hard purpose of destiny assisting her, is
confirmed in force. With lamp plucked forth, knife in hand, she put by her sex;
and lo! as the secrets of the bed became manifest, the sweetest and most gentle
of all creatures, Love himself, reclined there, in his own proper loveliness!
At sight of him the very flame of the lamp kindled more gladly! But Psyche was
afraid at the vision, and, faint of soul, trembled back upon her knees, and
would have hidden the steel in her own bosom. But the knife slipped from her
hand; and now, undone, yet ofttimes looking upon the beauty of that divine
countenance, she lives again. She sees the locks of that golden head, pleasant
with the unction of the gods, shed down in graceful entanglement behind and
before, about the ruddy cheeks and white throat. The pinions of the winged god,
yet fresh with the dew, are spotless upon his shoulders, the delicate plumage
wavering over them as they lie at rest. Smooth he was, and, touched with light,
worthy of Venus his mother. At the foot of the couch lay his bow and arrows,
the instruments of his power, propitious to men. And Psyche, gazing
hungrily thereon, draws an arrow from the quiver, and trying the point upon her
thumb, tremulous still, drave in the barb, so that a drop of blood came forth.
Thus fell she, by her own act, and unaware, into the love of Love. Falling upon
the bridegroom, with indrawn breath, in a hurry of kisses from eager and open
lips, she shuddered as she thought how brief that sleep might be. And it
chanced that a drop of burning oil fell from the lamp upon the god’s shoulder.
Ah! maladroit minister of love, thus to wound him from whom all fire comes;
though ’twas a lover, I trow, first devised thee, to have the fruit of his
desire even in the darkness! At the touch of the fire the god started up, and
beholding the overthrow of her faith, quietly took flight from her
embraces. And Psyche, as he rose upon the wing, laid hold on him with her
two hands, hanging upon him in his passage through the air, till she sinks to
the earth through weariness. And as she lay there, the divine lover, tarrying
still, lighted upon a cypress tree which grew near, and, from the top of it,
spake thus to her, in great emotion. “Foolish one! unmindful of the command of
Venus, my mother, who had devoted thee to one of base degree, I fled to thee in
his stead. Now know I that this was vainly done. Into mine own flesh pierced
mine arrow, and I made thee my wife, only that I might seem a monster beside
thee—that thou shouldst seek to wound the head wherein lay the eyes so full of
love to thee! Again and again, I thought to put thee on thy guard concerning
these things, and warned thee in loving-kindness. Now I would but punish thee
by my flight hence.” And therewith he winged his way into the deep sky.
Psyche, prostrate upon the earth, and following far as sight might reach the
flight of the bridegroom, wept and lamented; and when the breadth of space had
parted him wholly from her, cast herself down from the bank of a river which
was nigh. But the stream, turning gentle in honour of the god, put her forth
again unhurt upon its margin. And as it happened, Pan, the rustic god, was
sitting just then by the waterside, embracing, in the body of a reed, the
goddess Canna; teaching her to respond to him in all varieties of slender
sound. Hard by, his flock of goats browsed at will. And the shaggy god called
her, wounded and outworn, kindly to him and said, “I am but a rustic herdsman,
pretty maiden, yet wise, by favour of my great age and long experience; and if
I guess truly by those faltering steps, by thy sorrowful eyes and continual
sighing, thou labourest with excess of love. Listen then to me, and seek not
death again, in the stream or otherwise. Put aside thy woe, and turn thy
prayers to Cupid. He is in truth a delicate youth: win him by the delicacy of
thy service.” So the shepherd-god spoke, and Psyche, answering nothing,
but with a reverence to his serviceable deity, went on her way. And while she,
in her search after Cupid, wandered through many lands, he was lying in the
chamber of his mother, heart-sick. And the white bird which floats over the
waves plunged in haste into the sea, and approaching Venus, as she bathed, made
known to her that her son lies afflicted with some grievous hurt, doubtful of
life. And Venus cried, angrily, “My son, then, has a mistress! And it is
Psyche, who witched away my beauty and was the rival of my godhead, whom he
loves!” Therewith she issued from the sea, and returning to her golden
chamber, found there the lad, sick, as she had heard, and cried from the
doorway, “Well done, truly! to trample thy mother’s precepts under foot, to
spare my enemy that cross of anunworthy love; nay, unite her to thyself, child
as thou art, that I might have a daughter-in-law who hates me! I will make thee
repent of thy sport, and the savour of thy marriage bitter. There is one who
shall chasten this body of thine, put out thy torch and unstring thy bow. Not
till she has plucked forth that hair, into which so oft these hands have
smoothed the golden light, and sheared away thy wings, shall I feel the injury
done me avenged.” And with this she hastened in anger from the doors. And
Ceres and Juno met her, and sought to know the meaning of her troubled
countenance. “Ye come in season,” she cried; “I pray you, find for me Psyche.
It must needs be that ye have heard the disgrace of my house.”And they,
ignorant of what was done, would have soothed her anger, saying, “What fault,
Mistress, hath thy son committed, that thou wouldst destroy the girl he loves?
Knowest thou not that he is now of age? Because he wears his years so lightly
must he seem to thee ever but a child? Wilt thou for ever thus pry into the
pastimes of thy son, always accusing his wantonness, and blaming in him those
delicate wiles which are all thine own?” Thus, in secret fear of the boy’s bow,
did they seek to please him with their gracious patronage. But Venus, angry at
their light taking of her wrongs, turned her back upon them, and with hasty
steps made her way once more to the sea. Meanwhile Psyche, tost in soul,
wandering hither and thither, rested not night or day in the pursuit of her
husband, desiring, if she might not soothe his anger by the endearments of a
wife, at the least to propitiate him with the prayers of a handmaid. And seeing
a certain temple on the top of a high mountain, she said, “Who knows whether
yonder place be not the abode of my lord?” Thither, therefore, she turned her
steps, hastening now the more because desire and hope pressed her on, weary as
she was with the labours of the way, and so, painfully measuring out the
highest ridges of the mountain, drew near to the sacred couches. She sees ears
of wheat, in heaps or twisted into chaplets; ears of barley also, with sickles
and all the instruments of harvest, lying there in disorder, thrown at random
from the hands of the labourers in the great heat. These she curiously sets
apart, one by one, duly ordering them; for she said within herself, “I may not
neglect the shrines, nor the holy service, of any god there be, but must rather
win by supplication the kindly mercy of them all.” And Ceres found her
bending sadly upon her task, and cried aloud, “Alas, Psyche! Venus, in the
furiousness of her anger, tracks thy footsteps through the world, seeking for
thee to pay her the utmost penalty; and thou, thinking of anything rather than
thine own safety, hast taken on thee the care of what belongs to me!” Then
Psyche fell down at her feet, and sweeping the floor with her hair, washing the
footsteps of the goddess in her tears, besought her mercy, with many
prayers:—“By the gladdening rites of harvest, by the lighted lamps and mystic
marches of the Marriage and mysterious Invention of thy daughter Proserpine,
and by all beside that the holy place of Attica veils in silence, minister, I
pray thee, to the sorrowful heart of Psyche! Suffer me to hide myself but for a
few days among the heaps of corn, till time have softened the anger of the
goddess, and my strength, out-worn in my long travail, be recovered by a little
rest.” But Ceres answered her, “Truly thy tears move me, and I would fain
help thee; only I dare not incur the ill-will of my kinswoman. Depart hence as
quickly as may be.” And Psyche, repelled against hope, afflicted now with
twofold sorrow, making her way back again, beheld among the half-lighted woods
of the valley below a sanctuary builded with cunning art. And that she might
lose no way of hope, howsoever doubtful, she drew near to the sacred doors. She
sees there gifts of price, and garments fixed upon the door-posts and to the
branches of the trees, wrought with letters of gold which told the name of the
goddess to whom they were dedicated, with thanksgiving for that she had done.
So, with bent knee and hands laid about the glowing altar, she prayed saying,
“Sister and spouse of Jupiter! be thou to these my desperate fortune’s Juno the
Auspicious! I know that thou dost willingly help those in travail with child;
deliver me from the peril that is upon me.” And as she prayed thus, Juno in the
majesty of her godhead, was straightway present, and answered, “Would that I
might incline favourably to thee; but against the will of Venus, whom I have
ever loved as a daughter, I may not, for very shame, grant thy prayer.”
And Psyche, dismayed by this new shipwreck of her hope, communed thus with
herself, “Whither, from the midst of the snares that beset me, shall I take my
way once more? In what dark solitude shall I hide me from the all-seeing eye of
Venus? What if I put on at length a man’s courage, and yielding myself unto her
as my mistress, soften by a humility not yet too late the fierceness of her
purpose? Who knows but that I may find him also whom my soul seeketh after, in
the abode of his mother?” And Venus, renouncing all earthly aid in her
search, prepared to return to heaven. She ordered the chariot to be made ready,
wrought for her by Vulcan as a marriage-gift, with a cunning of hand which had
left his work so much the richer by the weight of gold it lost under his tool.
From the multitude which housed about the bed-chamber of their mistress, white
doves came forth, and with joyful motions bent their painted necks beneath the
yoke. Behind it, with playful riot, the sparrows sped onward, and other birds
sweet of song, making known by their soft notes the approach of the goddess.
Eagle and cruel hawk alarmed not the quireful family of Venus. And the clouds
broke away, as the uttermost ether opened to receive her, daughter and goddess,
with great joy. And Venus passed straightway to the house of Jupiter to
beg from him the service of Mercury, the god of speech. And Jupiter refused not
her prayer. And Venus and Mercury descended from heaven together; and as they
went, the former said to the latter, “Thou knowest, my brother of Arcady, that
never at any time have I done anything without thy help; for how long time,
moreover, I have sought a certain maiden in vain. And now naught remains but
that, by thy heraldry, I proclaim a reward for whomsoever shall find her. Do
thou my bidding quickly.” And therewith she conveyed to him a little scrip, in
the which was written the name of Psyche, with other things; and so returned
home. And Mercury failed not in his office; but departing into all lands,
proclaimed that whosoever delivered up to Venus the fugitive girl, should
receive from herself seven kisses—one thereof full of the inmost honey of her
throat. With that the doubt of Psyche was ended. And now, as she came near to
the doors of Venus, one of the household, whose name was Use-and-Wont, ran out
to her, crying, “Hast thou learned, Wicked Maid! now at last! that thou hast a
mistress?” And seizing her roughly by the hair, drew her into the presence of
Venus. And when Venus saw her, she cried out, saying, “Thou hast deigned then
to make thy salutations to thy mother-in-law. Now will I in turn treat thee as
becometh a dutiful daughter-in-law!” And she took barley and millet and
poppy-seed, every kind of grain and seed, and mixed them together, and laughed,
and said to her: “Methinks so plain a maiden can earn lovers only by
industrious ministry: now will I also make trial of thy service. Sort me this
heap of seed, the one kind from the others, grain by grain; and get thy task
done before the evening.” And Psyche, stunned by the cruelty of her bidding,
was silent, and moved not her hand to the inextricable heap. And there came
forth a little ant, which had understanding of the difficulty of her task, and
took pity upon the consort of the god of Love; and he ran deftly hither and
thither, and called together the whole army of his fellows. “Have pity,” he
cried, “nimble scholars of the Earth, Mother of all things!—have pity upon the
wife of Love, and hasten to help her in her perilous effort.” Then, one upon
the other, the hosts of the insect people hurried together; and they sorted
asunder the whole heap of seed, separating every grain after its kind, and so
departed quickly out of sight. And at nightfall Venus returned, and
seeing that task finished with so wonderful diligence, she cried, “The work is
not thine, thou naughty maid, but his in whose eyes thou hast found favour.”
And calling her again in the morning, “See now the grove,” she said, “beyond
yonder torrent. Certain sheep feed there, whose fleeces shine with gold. Fetch
me straightway a lock of that precious stuff, having gotten it as thou
mayst.” And Psyche went forth willingly, not to obey the command of
Venus, but even to seek a rest from her labour in the depths of the river. But
from the river, the green reed, lowly mother of music, spake to her: “O Psyche!
pollute not these waters by self-destruction, nor approach that terrible flock;
for, as the heat groweth, they wax fierce. Lie down under yon plane-tree, till
the quiet of the river’s breath have soothed them. Thereafter thou mayst shake
down the fleecy gold from the trees of the grove, for it holdeth by the
leaves.” And Psyche, instructed thus by the simple reed, in the humanity
of its heart, filled her bosom with the soft golden stuff, and returned to
Venus. But the goddess smiled bitterly, and said to her, “Well know I who was
the author of this thing also. I will make further trial of thy discretion, and
the boldness of thy heart. Seest thou the utmost peak of yonder steep mountain?
The dark stream which flows down thence waters the Stygian fields, and swells
the flood of Cocytus. Bring me now, in this little urn, a draught from its innermost
source.” And therewith she put into her hands a vessel of wrought
crystal. And Psyche set forth in haste on her way to the mountain,
looking there at last to find the end of her hapless life. But when she came to
the region which borders on the cliff that was showed to her, she understood
the deadly nature of her task. From a great rock, steep and slippery, a
horrible river of water poured forth, falling straightway by a channel
exceeding narrow into the unseen gulf below. And lo! creeping from the rocks on
either hand, angry serpents, with their long necks and sleepless eyes. The very
waters found a voice and bade her depart, in smothered cries of, Depart hence!
and What doest thou here? Look around thee! and Destruction is upon thee! And
then sense left her, in the immensity of her peril, as one changed to
stone. Yet not even then did the distress of this innocent soul escape
the steady eye of a gentle providence. For the bird of Jupiter spread his wings
and took flight to her, and asked her, “Didst thou think, simple one, even
thou! that thou couldst steal one drop of that relentless stream, the holy
river of Styx, terrible even to the gods? But give me thine urn.” And the bird
took the urn, and filled it at the source, and returned to her quickly from
among the teeth of the serpents, bringing with him of the waters, all
unwilling—nay! warning him to depart away and not molest them. And she,
receiving the urn with great joy, ran back quickly that she might deliver it to
Venus, and yet again satisfied not the angry goddess. “My child!” she said, “in
this one thing further must thou serve me. Take now this tiny casket, and get
thee down even unto hell, and deliver it to Proserpine. Tell her that Venus
would have of her beauty so much at least as may suffice for but one day’s use,
that beauty she possessed erewhile being foreworn and spoiled, through her
tendance upon the sick-bed of her son; and be not slow in returning.” And
Psyche perceived there the last ebbing of her fortune—that she was now thrust
openly upon death, who must go down, of her own motion, to Hades and the
Shades. And straightway she climbed to the top of an exceeding high tower,
thinking within herself, “I will cast myself down thence: so shall I descend
most quickly into the kingdom of the dead.” And the tower again, broke forth
into speech: “Wretched Maid! Wretched Maid! Wilt thou destroy thyself? If the
breath quit thy body, then wilt thou indeed go down into Hades, but by no means
return hither. Listen to me. Among the pathless wilds not far from this place
lies a certain mountain, and therein one of hell’s vent-holes. Through the
breach a rough way lies open, following which thou wilt come, by straight
course, to the castle of Orcus. And thou must not go empty-handed. Take in each
hand a morsel of barley-bread, soaked in hydromel; and in thy mouth two pieces
of money. And when thou shalt be now well onward in the way of death, then wilt
thou overtake a lame ass laden with wood, and a lame driver, who will pray thee
reach him certain cords to fasten the burden which is falling from the ass: but
be thou cautious to pass on in silence. And soon as thou comest to the river of
the dead, Charon, in that crazy bark he hath, will put thee over upon the
further side. There is greed even among the dead: and thou shalt deliver to
him, for the ferrying, one of those two pieces of money, in such wise that he
take it with his hand from between thy lips. And as thou passest over the
stream, a dead old man, rising on the water, will put up to thee his mouldering
hands, and pray thee draw him into the ferry-boat. But beware thou yield not to
unlawful pity. “When thou shalt be come over, and art upon the causeway,
certain aged women, spinning, will cry to thee to lend thy hand to their work;
and beware again that thou take no part therein; for this also is the snare of
Venus, whereby she would cause thee to cast away one at least of those cakes
thou bearest in thy hands. And think not that a slight matter; for the loss of
either one of them will be to thee the losing of the light of day. For a
watch-dog exceeding fierce lies ever before the threshold of that lonely house
of Proserpine. Close his mouth with one of thy cakes; so shalt thou pass by
him, and enter straightway into the presence of Proserpine herself. Then do
thou deliver thy message, and taking what she shall give thee, return back
again; offering to the watch-dog the other cake, and to the ferryman that other
piece of money thou hast in thy mouth. After this manner mayst thou return again
beneath the stars. But withal, I charge thee, think not to look into, nor open,
the casket thou bearest, with that treasure of the beauty of the divine
countenance hidden therein.” So spake the stones of the tower; and Psyche
delayed not, but proceeding diligently after the manner enjoined, entered into
the house of Proserpine, at whose feet she sat down humbly, and would neither
the delicate couch nor that divine food the goddess offered her, but did
straightway the business of Venus. And Proserpine filled the casket secretly
and shut the lid, and delivered it to Psyche, who fled therewith from Hades
with new strength. But coming back into the light of day, even as she hasted
now to the ending of her service, she was seized by a rash curiosity. “Lo!
now,” she said within herself, “my simpleness! who bearing in my hands the
divine loveliness, heed not to touch myself with a particle at least therefrom,
that I may please the more, by the favour of it, my fair one, my beloved.” Even
as she spoke, she lifted the lid; and behold! within, neither beauty, nor
anything beside, save sleep only, the sleep of the dead, which took hold upon
her, filling all her members with its drowsy vapour, so that she lay down in
the way and moved not, as in the slumber of death. And Cupid being healed
of his wound, because he would endure no longer the absence of her he loved,
gliding through the narrow window of the chamber wherein he was holden, his
pinions being now repaired by a little rest, fled forth swiftly upon them, and
coming to the place where Psyche was, shook that sleep away from her, and set
him in his prison again, awaking her with the innocent point of his arrow. “Lo!
thine old error again,” he said, “which had like once more to have destroyed
thee! But do thou now what is lacking of the command of my mother: the rest
shall be my care.” With these words, the lover rose upon the air; and being
consumed inwardly with the greatness of his love, penetrated with vehement wing
into the highest place of heaven, to lay his cause before the father of the
gods. And the father of gods took his hand in his, and kissed his face and said
to him, “At no time, my son, hast thou regarded me with due honour. Often hast
thou vexed my bosom, wherein lies the disposition of the stars, with those busy
darts of thine. Nevertheless, because thou hast grown up between these mine
hands, I will accomplish thy desire.” And straightway he bade Mercury call the
gods together; and, the council-chamber being filled, sitting upon a high
throne, “Ye gods,” he said, “all ye whose names are in the white book of the
Muses, ye know yonder lad. It seems good to me that his youthful heats should
by some means be restrained. And that all occasion may be taken from him, I
would even confine him in the bonds of marriage. He has chosen and embraced a
mortal maiden. Let him have fruit of his love, and possess her for ever.”
Thereupon he bade Mercury produce Psyche in heaven; and holding out to her his
ambrosial cup, “Take it,” he said, “and live for ever; nor shall Cupid ever
depart from thee.” And the gods sat down together to the marriage-feast.
On the first couch lay the bridegroom, and Psyche in his bosom. His rustic
serving-boy bare the wine to Jupiter; and Bacchus to the rest. The Seasons
crimsoned all things with their roses. Apollo sang to the lyre, while a little
Pan prattled on his reeds, and Venus danced very sweetly to the soft music.
Thus, with due rites, did Psyche pass into the power of Cupid; and from them
was born the daughter whom men call Voluptas. So the famous story
composed itself in the memory of Marius, with an expression changed in some
ways from the original and on the whole graver. The petulant, boyish Cupid of
Apuleius was become more like that “Lord, of terrible aspect,” who stood at
Dante’s bedside and wept, or had at least grown to the manly earnestness of the
Erôs of Praxiteles. Set in relief amid the coarser matter of the book, this
episode of Cupid and Psyche served to combine many lines of meditation, already
familiar to Marius, into the ideal of a perfect imaginative love, centered upon
a type of beauty entirely flawless and clean—an ideal which never wholly faded
from his thoughts, though he valued it at various times in different degrees.
The human body in its beauty, as the highest potency of all the beauty of
material objects, seemed to him just then to be matter no longer, but, having
taken celestial fire, to assert itself as indeed the true, though visible, soul
or spirit in things. In contrast with that ideal, in all the pure brilliancy,
and as it were in the happy light, of youth and morning and the springtide,
men’s actual loves, with which at many points the book brings one into close
contact, might appear to him, like the general tenor of their lives, to be
somewhat mean and sordid. The hiddenness of perfect things: a shrinking
mysticism, a sentiment of diffidence like that expressed in Psyche’s so
tremulous hope concerning the child to be born of the husband she had never yet
seen—“in the face of this little child, at the least, shall I apprehend
thine”—in hoc saltem parvulo cognoscam faciem tuam: the fatality which seems to
haunt any signal+ beauty, whether moral or physical, as if it were in itself
something illicit and isolating: the suspicion and hatred it so often excites
in the vulgar:—these were some of the impressions, forming, as they do, a
constant tradition of somewhat cynical pagan experience, from Medusa and Helen
downwards, which the old story enforced on him. A book, like a person, has its
fortunes with one; is lucky or unlucky in the precise moment of its falling in
our way, and often by some happy accident counts with us for something more
than its independent value. The Metamorphoses of Apuleius, coming to Marius
just then, figured for him as indeed The Golden Book: he felt a sort of
personal gratitude to its writer, and saw in it doubtless far more than was
really there for any other reader. It occupied always a peculiar place in his
remembrance, never quite losing its power in frequent return to it for the revival
of that first glowing impression. Its effect upon the elder youth was a
more practical one: it stimulated the literary ambition, already so strong a
motive with him, by a signal example of success, and made him more than ever an
ardent, indefatigable student of words, of the means or instrument of the
literary art. The secrets of utterance, of expression itself, of that through
which alone any intellectual or spiritual power within one can actually take
effect upon others, to over-awe or charm them to one’s side, presented
themselves to this ambitious lad in immediate connexion with that desire for
predominance, for the satisfaction of which another might have relied on the
acquisition and display of brilliant military qualities. In him, a fine instinctive
sentiment of the exact value and power of words was connate with the eager
longing for sway over his fellows. He saw himself already a gallant and
effective leader, innovating or conservative as occasion might require, in the
rehabilitation of the mother-tongue, then fallen so tarnished and languid; yet
the sole object, as he mused within himself, of the only sort of patriotic
feeling proper, or possible, for one born of slaves. The popular speech was
gradually departing from the form and rule of literary language, a language
always and increasingly artificial. While the learned dialect was yearly
becoming more and more barbarously pedantic, the colloquial idiom, on the other
hand, offered a thousand chance-tost gems of racy or picturesque expression, rejected
or at least ungathered by what claimed to be classical Latin. The time was
coming when neither the pedants nor the people would really understand Cicero;
though there were some indeed, like this new writer, Apuleius, who, departing
from the custom of writing in Greek, which had been a fashionable affectation
among the sprightlier wits since the days of Hadrian, had written in the
vernacular. The literary prog ramme which Flavian had already
designed for himself would be a work, then, partly conservative or reactionary,
in its dealing with the instrument of the literary art; partly popular and
revolutionary, asserting, so to term them, the rights of the proletariate of
speech. More than fifty years before, the younger Pliny, himself an effective
witness for the delicate power of the Latin tongue, had said,—“I am one of
those who admire the ancients, yet I do not, like some others, underrate
certain instances of genius which our own times afford. For it is not true that
nature, as if weary and effete, no longer produces what is admirable.” And he,
Flavian, would prove himself the true master of the opportunity thus indicated.
In his eagerness for a not too distant fame, he dreamed over all that, as the
young Caesar may have dreamed of campaigns. Others might brutalise or
neglect the native speech, that true “open field” for charm and sway over men.
He would make of it a serious study, weighing the precise power of every phrase
and word, as though it were precious metal, disentangling the later
associations and going back to the original and native sense of each,—restoring
to full significance all its wealth of latent figurative expression, reviving
or replacing its outworn or tarnished images. Latin literature and the Latin
tongue were dying of routine and languor; and what was necessary, first of all,
was to re-establish the natural and direct relationship between thought and
expression, between the sensation and the term, and restore to words their
primitive power. For words, after all, words manipulated with all his
delicate force, were to be the apparatus of a war for himself. To be forcibly
impressed, in the first place; and in the next, to find the means of making
visible to others that which was vividly apparent, delightful, of lively
interest to himself, to the exclusion of all that was but middling, tame, or
only half-true even to him—this scrupulousness of literary art actually awoke
in Flavian, for the first time, a sort of chivalrous conscience. What care for
style! what patience of execution! what research for the significant tones of
ancient idiom—sonantia verba et antiqua! What stately and regular
word-building—gravis et decora constructio! He felt the whole meaning of the
sceptical Pliny’s somewhat melancholy advice to one of his friends, that he
should seek in literature deliverance from mortality—ut studiis se literarum a
mortalitate vindicet. And there was everything in the nature and the training
of Marius to make him a full participator in the hopes of such a new literary
school, with Flavian for its leader. In the refinements of that curious spirit,
in its horror of profanities, its fastidious sense of a correctness in external
form, there was something which ministered to the old ritual interest, still
surviving in him; as if here indeed were involved a kind of sacred service
tothe mother-tongue. Here, then, was the theory of Euphuism, as
manifested in every age in which the literary conscience has been awakened to
forgotten duties towards language, towards the instrument of expression: infact
it does but modify a little the principles of all effective expression at all
times. ’Tis art’s function to conceal itself: ars est celare artem:—is a
saying, which, exaggerated by inexact quotation, has perhaps been oftenest and
most confidently quoted by those who have had little literary or other art to
conceal; and from the very beginning of professional literature, the “labour of
the file”—a labour in the case of Plato, for instance, or Virgil, like that of
the oldest of goldsmiths as described by Apuleius, enriching the work by far
more than the weight of precious metal it removed—has always had its function.
Sometimes, doubtless, as in later examples of it, this Roman Euphuism,
determined at any cost to attain beauty in writing—es kallos graphein+—might
lapse into its characteristic fopperies or mannerisms, into the “defects of its
qualities,” in truth, not wholly unpleasing perhaps, or at least excusable,
when looked at as but the toys (so Cicero calls them), the strictly congenial
and appropriate toys, of an assiduously cultivated age, which could not help
being polite, critical, self-conscious. The mere love of novelty also had, of
course, its part there: as with the Euphuism of the Elizabethan age, and of the
modern French romanticists, its neologies were the ground of one of the
favourite charges against it; though indeed, as regards these tricks of taste
also, there is nothing new, but a quaint family likeness rather, between the
Euphuists of successive ages. Here, as elsewhere, the power of “fashion,” as it
is called, is but one minor form, slight enough, it may be, yet distinctly
symptomatic, of that deeper yearning of human nature towards ideal perfection,
which is a continuous force in it; and since in this direction too human nature
is limited, such fashions must necessarilyreproduce themselves. Among other
resemblances to later growths of Euphuism, its archaisms on the one hand, and
its neologies on the other, the Euphuism of the days of Marcus Aurelius had, in
the composition of verse, its fancy for the refrain. It was a snatch from a
popular chorus, something he had heard sounding all over the town of Pisa one
April night, one of the firstbland and summer-like nights of the year, that
Flavian had chosen for the refrain of a poem he was then pondering—the
Pervigilium Veneris—the vigil, or “nocturn,” of Venus. Certain elderly
counsellors, filling what may be thought a constant part in the little
tragi-comedy which literature and its votaries are playing in all ages, would
ask, suspecting some affectation or unreality in that minute culture of
form:—Cannot those who have a thing to say, say it directly? Why not be simple
and broad, like the old writers of Greece? And this challenge had at least the
effect of setting his thoughts at work on the intellectual situation
as it lay between the children of the present and those earliest masters.
Certainly, the most wonderful, the unique, point, about the Greek genius, in
literature as in everything else, was the entire absence of imitation in its productions.
How had the burden of precedent, laid upon every artist, increased since then!
It was all around one:—that smoothly built world of old classical taste, an
accomplished fact, with overwhelming authority on every detail of the conduct
of one’s work. With no fardel on its own back, yet so imperious towards those
who came labouring after it, Hellas, in its early freshness, looked as distant
from him even then as it does from ourselves. There might seem to be no place
left for novelty or originality, —place only for a patient, an infinite,
faultlessness. On this question too Flavian passed through a world of curious
art-casuistries, of self-tormenting, at the threshold of his work. Was poetic
beauty a thing ever one and the same, a type absolute; or, changing always with
the soul of time itself, did it depend upon the taste, the peculiar trick of
apprehension, the fashion, as we say, of each successive age? Might one recover
that old, earlier sense of it, that earlier manner, in a mas terly effort
to recall all the complexities of the life, moral and intellectual, of the
earlier age to which it had belonged? Had there been really bad ages in art or
literature? Were all ages, even those earliest, adventurous, matutinal days, in
themselves equally poetical or unpoetical; and poetry, the literary beauty, the
poetic ideal, always but a borrowed light upon men’s actual life? Homer
had said— Hoi d’hote dê limenos polybentheos entos hikonto, Histia men
steilanto, thesan d’ en nêi melainê... Ek de kai autoi bainon epi phêgmini
thalassês.+ And how poetic the simple incident seemed, told just
thus! Homer was always telling things after this manner. And one might think
there had been no effort in it: that here was but the almost mechanical
transcript of a time, naturally, intrinsically, poetic, a time in which one
could hardly have spoken at all without ideal effect, or, the sailors pulled
down their boat without making a picture in “the great style,” against a sky
charged with marvels. Must not the mere prose of an age, itself thus ideal,
have coun ted for more than half of Homer’s poetry? Or might the closer
student discover even here, even in Homer, the really mediatorial function of
the poet, as between the reader and the actual matter of his experience; the
poet waiting, so to speak, in an age which had felt itself trite and
commonplace enough, on his opportunity for the touch of “golden alchemy,” or at
least for the pleasantly lighted side of things themselves? Might not another,
in one’s own prosaic and used-up time, so uneventful as it had been through the
long reign of these quiet Antonines, in like manner, discover his ideal, by a
due waiting upon it? Would not a future generation, looking back upon this,
under the power of the enchanted-distance fallacy, find it ideal to view, in
contrast with its own languor—the languor that for some reason (concerning
which Augustine will one day have his view) seemed to haunt men always? Had
Homer, even, appeared unreal and affected in his poetic flight, to some of the
people of his own age, as seemed to happen with every new literature in turn?
In any case, the intellectual conditions of early Greece had been—how different
from these! And a true literary tact would accept that difference in forming
the primary conception of the literary function at a later time. Perhaps the
utmost one could get by conscious effort, in the way of a reaction or return to
the conditions of an earlier and fresher age, would be but novitas, artificial
artlessness, naïveté; and this quality too might have its measure of euphuistic
charm, direct and sensible enough, though it must count, in comparison with
that genuine early Greek newness at the beginning, not as the freshness of the
open fields, but only of a bunch of field-flowers in a heated room. There
was, meantime, all this:—on one side, the old pagan culture, for us but a
fragment, for him an accomplished yet present fact, still a living, united,
organic whole, in the entirety of its art, its thought, its religions, its
sagacious forms of polity, that so weighty authority it exercised on every
point, being in reality only the measure of its charm for every one: on the
other side, the actual world in all its eager self-assertion, with Flavian
himself, in his boundless animation, there, at the centre of the situation.
From the natural defects, from the pettiness, of his euphuism, his assiduous
cultivation of manner, he was saved by the consciousness that he had a matter
to present, very real, at least to him. That preoccupation of the dilettante
with what might seem mere details of form, after all, did but serve the purpose
of bringing to the surface, sincerely and in their integrity, certain strong
personal intuitions, a certain vision or apprehension of things as really
being, with important results, thus, rather than thus,—intuitions which the
artistic or literary faculty was called upon to follow, with the exactness of
wax or clay, clothing the model within. Flavian too, with his fine clear
mastery of the practically effective, had early laid hold of the principle, as
axiomatic in literature: that to know when one’s self is interested, is the
first condition of interesting other people. It was a principle, the forcible
apprehension of which made him jealous and fastidious in the selection of his
intellectual food; often listless while others read or gazed diligently; never
pretending to be moved out of mere complaisance to people’s emotions: it served
to foster in him a very scrupulous literary sincerity with himself. And it was
this uncompromising demand for a matter, in all art, derived immediately from
lively personal intuition, this constant appeal to individual judgment, which
saved his euphuism, even at its weakest, from lapsing into mere artifice.
Was the magnificent exordium of Lucretius, addressed to the goddess Venus, the
work of his earlier manhood, and designed originally to open an argument less
persistently sombre than that protest against the whole pagan heaven which
actually follows it? It is certainly the most typical expression of a mood,
still incident to the young poet, as a thing peculiar to his youth, when he
feels the sentimental current setting forcibly along his veins, and so much as
a matter of purely physical excitement, that he can hardly distinguish it from
the animation of external nature, the upswelling of the seed in the earth, and
of the sap through the trees. Flavian, to whom, again, as to his later
euphuistic kinsmen, old mythology seemed as full of untried, unexpressed
motives and interest as human life itself, had long been occupied with a kind
of mystic hymn to the vernal principle of life in things; a composition shaping
itself, little by little, out of a thousand dim perceptions, into singularly
definite form (definite and firm as fine-art in metal, thought Marius) for
which, as I said, he had caught his “refrain,” from the lips of the young men,
singing because they could not help it, in the streets of Pisa. And as oftenest
happens also, with natures of genuinely poetic quality, those piecemeal beginnings
came suddenly to harmonious completeness among the fortunate incidents, the
physical heat and light, of one singularly happy day. It was one of the
first hot days of March—“the sacred day”—on which, from Pisa, as from many
another harbour on the Mediterranean, the Ship of Isis went to sea, and every
one walked down to the shore-side to witness the freighting of the vessel, its
launching and final abandonment among the waves, as an object really devoted to
the Great Goddess, that new rival, or “double,” of ancient Venus, and like her
a favourite patroness of sailors. On the evening next before, all the world had
been abroad to view the illumination of the river; the stately lines of
building being wreathed with hundreds of many-coloured lamps. The young men had
poured forth their chorus— Cras amet qui nunquam amavit, Quique amavit
cras amet— as they bore their torches through the yielding crowd,
or rowed their lanterned boats up and down the stream, till far into the night,
when heavy rain-drops had driven the last lingerers home. Morning broke,
however, smiling and serene; and the long procession started betimes. The
river, curving slightly, with the smoothly paved streets on either side,
between its low marble parapet and the fair dwelling-houses, formed the main
highway of the city; and the pageant, accompanied throughout by innumerable
lanterns and wax tapers, took its course up one of these streets, crossing the
water by a bridge up-stream, and down the other, to the haven, every possible
standing-place, out of doors and within, being crowded with sight-seers, of
whom Marius was one of the most eager, deeply interested in finding the
spectacle much as Apuleius had described it in his famous book. At the
head of the procession, the master of ceremonies, quietly waving back the
assistants, made way for a number of women, scattering perfumes. They were
succeeded by a company of musicians, piping and twanging, on instruments the
strangest Marius had ever beheld, the notes of a hymn, narrating the first
origin of this votive rite to a choir of youths, who marched behind them
singing it. The tire-women and other personal attendants of the great goddess
came next, bearing the instruments of their ministry, and various articles from
the sacred wardrobe, wrought of the most precious material; some of them with
long ivory combs, plying their hands in wild yet graceful concert of movement
as they went, in devout mimicry of the toilet. Placed in their rear were the
mirror-bearers of the goddess, carrying large mirrors of beaten brass or
silver, turned in such a way as to reflect to the great body of worshippers who
followed, the face of the mysterious image, as it moved on its way, and their
faces to it, as though they were in fact advancing to meet the heavenly visitor.
They comprehended a multitude of both sexes and of all ages, already initiated
into the divine secret, clad in fair linen, the females veiled, the males with
shining tonsures, and every one carrying a sistrum—the richer sort of silver, a
few very dainty persons of fine gold—rattling the reeds, with a noise like the
jargon of innumerable birds and insects awakened from torpor and abroad in the
spring sun. Then, borne upon a kind of platform, came the goddess herself,
undulating above the heads of the multitude as the bearers walked, in mystic
robe embroidered with the moon and stars, bordered gracefully with a fringe of
real fruit and flowers, and with a glittering crown upon the head. The train of
the procession consisted of the priests in long white vestments, close from
head to foot, distributed into various groups, each bearing, exposed aloft, one
of the sacred symbols of Isis—the corn-fan, the golden asp, the ivory hand of
equity, and among them the votive ship itself, carved and gilt, and adorned bravely
with flags flying. Last of all walked the high priest; the people kneeling as
he passed to kiss his hand, in which were those well-remembered roses.
Marius followed with the rest to the harbour, where the mystic ship, lowered
from the shoulders of the priests, was loaded with as much as it could carry of
the rich spices and other costly gifts, offered in great profusion by the
worshippers, and thus, launched at last upon the water, left the shore,
crossing the harbour-bar in the wake of a much stouter vessel than itself with
a crew of white-robed mariners, whose function it was, at the appointed moment,
finally to desert it on the open sea. The remainder of the day was spent
by most in parties on the water. Flavian and Marius sailed further than they had
ever done before to a wild spot on the bay, the traditional site of a little
Greek colony, which, having had its eager, stirring life at the time when
Etruria was still a power in Italy, had perished in the age of the civil wars.
In the absolute transparency of the air on this gracious day, an infinitude of
detail from sea and shore reached the eye with sparkling clearness, as the two
lads sped rapidly over the waves—Flavian at work suddenly, from time to time,
with his tablets. They reached land at last. The coral fishers had spread their
nets on the sands, with a tumble-down of quaint, many-hued treasures, below a
little shrine of Venus, fluttering and gay with the scarves and napkins and
gilded shells which these people had offered to the image. Flavian and Marius
sat down under the shadow of a mass of gray rock or ruin, where the sea-gate of
the Greek town had been, and talked of life in those old Greek colonies. Of
this place, all that remained, besides those rude stones, was—a handful of
silver coins, each with a head of pure and archaic beauty, though a little
cruel perhaps, supposed to represent the Siren Ligeia, whose tomb was formerly
shown here—only these, and an ancient song, the very strain which Flavian had
recovered in those last months. They were records which spoke, certainly, of
the charm of life within those walls. How strong must have been the tide of
men’s existence in that little republican town, so small that this circle of
gray stones, of service now only by the moisture they gathered for the
blue-flowering gentians among them, had been the line of its rampart! An
epitome of all that was liveliest, most animated and adventurous, in the old
Greek people of which it was an offshoot, it had enhanced the effect of these
gifts by concentration within narrow limits. The band of “devoted youth,”—hiera
neotês.+—of the younger brothers, devoted to the gods and whatever luck the
gods might afford, because there was no room for them at home—went forth,
bearing the sacred flame from the mother hearth; itself a flame, of power to
consume the whole material of existence in clear light and heat, with no
smouldering residue. The life of those vanished townsmen, so brilliant and
revolutionary, applying so abundantly the personal qualities which alone just
then Marius seemed to value, associated itself with the actual figure of his
companion, standing there before him, his face enthusiastic with the sudden
thought of all that; and struck him vividly as precisely the fitting
opportunity for a nature like his, so hungry for control, for ascendency over
men. Marius noticed also, however, as high spirits flagged at last, on
the way home through the heavy dew of the evening, more than physical fatigue
in Flavian, who seemed to find no refreshment in the coolness. There had been
something feverish, perhaps, and like the beginning of sickness, about his
almost forced gaiety, in this sudden spasm of spring; and by the evening of the
next day he was lying with a burning spot on his forehead, stricken, as was
thought from the first, by the terrible new disease. NOTES
93. +Corrected from the Macmillan edition misprint “singal.”
98. +Transliteration: es kallos graphein. Translation: “To write
beautifully.”Iliad 1.432-33, 437. Transliteration: Hoi d’ hote dê
limenos polybentheos entos hikonto, Histia men steilanto, thesan d’ en nêi
melainê... Ek de kai autoi bainon epi phêgmini thalassês. Etext
editor’s translation: When they had safely made deep harbor They
took in the sail, laid it in their black ship... And went ashore just past the
breakers. 109. +Transliteration: hiera neotês. Pater translates the
phrase, “devoted youth.” For the fantastical colleague of the philosophic
emperor Marcus Aurelius, returning in triumph from the East, had brought in his
train, among the enemies of Rome, one by no means a captive. People actually
sickened at a sudden touch of the unsuspected foe, as they watched in dense
crowds the pathetic or grotesque imagery of failure or success in the triumphal
procession. And, as usual, the plague brought with it a power to develop all
pre-existent germs of superstition. It was by dishonour done to Apollo himself,
said popular rumour—to Apollo, the old titular divinity of pestilence,
that the poisonous thing had come abroad. Pent up in a golden coffer
consecrated to the god, it had escaped in the sacrilegious plundering of his
temple at Seleucia by the soldiers of Lucius Verus, after a traitorous surprise
of that town and a cruel massacre. Certainly there was something which baffled
all imaginable precautions and all medical science, in the suddenness with
which the disease broke out simultaneously, here and there, among both soldiers
and citizens, even in places far remote from the main line of its march in the
rear of the victorious army. It seemed to have invaded the whole empire, and
some have even thought that, in a mitigated form, it permanently remained
there. In Rome itself many thousands perished; and old authorities tell of
farmsteads, whole towns, and even entire neighbourhoods, which from that time
continued without inhabitants and lapsed into wildness or ruin. Flavian
lay at the open window of his lodging, with a fiery pang in the brain, fancying
no covering thin or light enough to be applied to his body. His head being relieved
after a while, there was distress at the chest. It was but the fatal course of
the strange new sickness, under many disguises; travelling from the brain to
the feet, like a material resident, weakening one after another of the organic
centres; often, when it did not kill, depositing various degrees of lifelong
infirmity in this member or that; and after such descent, returning upwards
again, now as a mortal coldness, leaving the entrenchments of the fortress of
life overturned, one by one, behind it. Flavian lay there, with the enemy
at his breast now in a painful cough, but relieved from that burning fever in
the head, amid the rich-scented flowers—rare Paestum roses, and the like
—procured by Marius for his solace, in a fancied convalescence; and would, at
intervals, return to labour at his verses, with a great eagerness to
complete and transcribe the work, while Marius sat and wrote at his dictation,
one of the latest but not the poorest specimens of genuine Latin poetry.
It was in fact a kind of nuptial hymn, which, taking its start from the thought
of nature as the universal mother, celebrated the preliminary pairing and
mating together of all fresh things, in the hot and genial spring-time—the
immemorial nuptials of the soul of spring itself and the brown earth; and was
full of a delighted, mystic sense of what passed between them in that fantastic
marriage. That mystic burden was relieved, at intervals, by the familiar
playfulness of the Latin verse-writer in dealing with mythology, which, though
coming at so late a day, had still a wonderful freshness in its old age.—“Amor
has put his weapons by and will keep holiday. He was bidden go without apparel,
that none might be wounded by his bowand arrows. But take care! In truth he is
none the less armed than usual, though he be all unclad.” In the
expression of all this Flavian seemed, while making it his chief aim to retain
the opulent, many-syllabled vocabulary of the Latin genius, at some points even
to have advanced beyond it, in anticipation of wholly new laws of taste as
regards sound, a new range of sound itself. The peculiar resultant note,
associating itself with certain other experiences of his, was to Marius like
the foretaste of an entirely novel world of poetic beauty to come. Flavian had
caught, indeed, something of the rhyming cadence, the sonorous organ-music of
the medieval Latin, and therewithal something of its unction and mysticity of
spirit. There was in his work, along with the last splendour of the
classical language, a touch, almost prophetic, of that transformed life it was
to have in the rhyming middle age, just about to dawn. The impression thus
forced upon Marius connected itself with a feeling, the exact inverse of that,
known to every one, which seems to say, You have been just here, just thus,
before!—a feeling, in his case, not reminiscent but prescient of the future,
which passed over him afterwards many times, as he came across certain places
and people. It was as if he detected there the process of actual change to a
wholly undreamed-of and renewed condition of human body and soul: as if he saw
the heavy yet decrepit old Roman architectureabout him, rebuilding on an
intrinsically better pattern. Could it have been actually on a new musical
instrument that Flavian had first heard the novel accents of his verse? And
still Marius noticed there, amid all its richness of expression and
imagery, that firmness of outline he had always relished so much in the
composition of Flavian. Yes! a firmness like that of some master of noble
metal-work, manipulating tenacious bronze or gold. Even now that haunting
refrain, with its impromptu variations, from the throats of those strong young
men, came floating through the window. Cras amet qui nunquam amavit,
Quique amavit cras amet! —repeated Flavian, tremulously, dictating
yet one stanza more. What he was losing, his freehold of a soul and body
so fortunately endowed, the mere liberty of life above-ground, “those sunny
mornings in the cornfields by the sea,” as he recollected them one day, when
the window was thrown open upon the early freshness—his sense of all this, was
from the first singularly near and distinct, yet rather as of something he was
but debarred the use of for a time than finally bidding farewell to. That was
while he was still with no very grave misgivings as to the issue of his
sickness, and felt the sources of life still springing essentially unadulterate
within him. From time to time, indeed, Marius, labouring eagerly at the poem
from his dictation, was haunted by a feeling of the triviality of such work
just then. The recurrent sense of some obscure danger beyond the mere danger of
death, vaguer than that and by so much the more terrible, like the menace of
some shadowy adversary in the dark with whose mode of attack they had no
acquaintance, disturbed him now and again through those hours of excited
attention to his manuscript, and to the purely physical wants of Flavian.
Still, during these three days there was much hope and cheerfulness, and even
jesting. Half-consciously Marius tried to prolong one or another relieving
circumstance of the day, the preparations for rest and morning refreshment, for
instance; sadly making the most of the little luxury of this or that, with
something of the feigned cheer of the mother who sets her last morsels before
her famished child as for a feast, but really that he “may eat it and
die.” On the afternoon of the seventh day he allowed Marius finally to
put aside the unfinished manuscript. For the enemy, leaving the chest quiet at
length though much exhausted, had made itself felt with full power again in a
painful vomiting, which seemed to shake his body asunder, with great consequent
prostration. From that time the distress increased rapidly downwards. Omnia tum
vero vitai claustra lababant;+ and soon the cold was mounting with sure pace
from the dead feet to the head. And now Marius began more than to suspect
what the issue must be, and henceforward could but watch with a sort of
agonised fascination the rapid but systematic work of the destroyer, faintly
relieving a little the mere accidents of the sharper forms of suffering.
Flavian himself appeared, in full consciousness at last—in clear-sighted,
deliberate estimate of the actual crisis—to be doing battle with his adversary.
His mind surveyed, with great distinctness, the various suggested modes of
relief. He must without fail get better, he would fancy, might he be removed to
a certain place on the hills where as a child he had once recovered from
sickness, but found that he could scarcely raise his head from the pillow
without giddiness. As if now surely foreseeing the end, he would set himself,
with an eager effort, and with that eager and angry look, which is noted as one
of the premonitions of death in this disease, to fashion out, without formal
dictation, still a few more broken verses of his unfinished work, in hard-set
determination, defiant of pain, to arrest this or that little drop at least
from the river of sensuous imagery rushing so quickly past him. But at
length delirium—symptom that the work of the plague was done, and the last
resort of life yielding to the enemy—broke the coherent order of words and
thoughts; and Marius, intent on the coming agony, found his best hope in the
increasing dimness of the patient’s mind. In intervals of clearer consciousness
the visible signs of cold, of sorrow and desolation, were very painful. No
longer battling with the disease, he seemed as it were to place himself at the
disposal of the victorious foe, dying passively, like some dumb creature, in
hopeless acquiescence at last. That old, half-pleading petulance, unamiable,
yet, as it might seem, only needing conditions of life a little happier than
they had actually been, to become refinement of affection, a delicate grace in
its demand on the sympathy of others, had changed in those moments of full
intelligence to a clinging and tremulous gentleness, as he lay—“on the very
threshold of death”—with a sharply contracted hand in the hand of Marius, to
his almost surprised joy, winning him now to an absolutely self-forgetful
devotion. There was a new sort of pleading in the misty eyes, just because they
took such unsteady note of him, which made Marius feel as if guilty;
anticipating thus a form of self-reproach with which even the tenderest ministrant
may be sometimes surprised, when, at death, affectionate labour suddenly
ceasing leaves room for the suspicion of some failure of love perhaps, at one
or another minute point in it. Marius almost longed to take his share in the
suffering, that he might understand so the better how to relieve it. It
seemed that the light of the lamp distressed the patient, and Marius
extinguished it. The thunder which had sounded all day among the hills, with a
heat not unwelcome to Flavian, had given way at nightfall to steady rain; and
in the darkness Marius lay down beside him, faintly shivering now in the sudden
cold, to lend him his own warmth, undeterred by the fear of contagion which had
kept other people from passing near the house. At length about day-break he
perceived that the last effort had come with a revival of mental clearness, as
Marius understood by the contact, light as it was, in recognition of him there.
“Is it a comfort,” he whispered then, “that I shall often come and weep over
you?”—“Not unless I be aware, and hear you weeping!” The sun shone out on
the people going to work for a long hot day, and Marius was standing by the
dead, watching, with deliberate purpose to fix in his memory every detail, that
he might have this picture in reserve, should any hour of forgetfulness
hereafter come to him with the temptation to feel completely happy again. A
feeling of outrage, of resentment against nature itself, mingled with an agony
of pity, as he noted on the now placid features a certain look of humility,
almost abject, like the expression of a smitten child or animal, as of one,
fallen at last, after bewildering struggle, wholly under the power of a
merciless adversary. From mere tenderness of soul he would not forget one
circumstance in all that; as a man might piously stamp on his memory the
death-scene of a brother wrongfully condemned to die, against a time that may
come. The fear of the corpse, which surprised him in his effort to watch
by it through the darkness, was a hint of his own failing strength, just in
time. The first night after the washing of the body, he bore stoutly enough the
tax which affection seemed to demand, throwing the incense from time to time on
the little altar placed beside the bier. It was the recurrence of the thing—that
unchanged outline below the coverlet, amid a silence in which the faintest
rustle seemed to speak—that finally overcame his determination. Surely, here,
in this alienation, this sense of distance between them, which had come over
him before though in minor degree when the mind of Flavian had wandered in his
sickness, was another of the pains of death. Yet he was able to make all due
preparations, and go through the ceremonies, shortened a little because of the
infection, when, on a cloudless evening, the funeral procession went forth;
himself, the flames of the pyre having done their work, carrying away the urn
of the deceased, in the folds of his toga, to its last resting-place in the
cemetery beside the highway, and so turning home to sleep in his own desolate
lodging. Quis desiderio sit pudor aut modus Tam cari
capitis?—+ What thought of others’ thoughts about one could there
be with the regret for “so dear a head” fresh at one’s heart? NOTES
116. +Lucretius, Book VI.1153. 120. +Horace, Odes
I.xxiv.1-2. Animula, vagula, blandula Hospes comesque corporis, Quae nunc
abibis in loca? Pallidula, rigida, nudula. The Emperor Hadrian to
his Soul Flavian was no more. The little marble chest with its dust
and tears lay cold among the faded flowers. For most people the actual
spectacle of death brings out into greater reality, at least for the
imagination, whatever confidence they may entertain of the soul’s survival in
another life. To Marius, greatly agitated by that event, the earthly end of Flavian
came like a final revelation of nothing less than the soul’s extinction.
Flavian had gone out as utterly as the fire among those still beloved ashes.
Even that wistful suspense of judgment expressed by the dying Hadrian,
regarding further stages of being still possible for the soul in some dim
journey hence, seemed wholly untenable, and, with it, almost all that remained
of the religion of his childhood. Future extinction seemed just then to be what
the unforced witness of his own nature pointed to. On the other hand, there
came a novel curiosity as to what the various schools of ancient philosophy had
had to say concerning that strange, fluttering creature; and that curiosity
impelled him to certain severe studies, in which his earlier religious conscience
seemed still to survive, as a principle of hieratic scrupulousness or integrity
of thought, regarding this new service to intellectual light. At this
time, by his poetic and inward temper, he might have fallen a prey to the
enervating mysticism, then in wait for ardent souls in many a melodramatic
revival of old religion or theosophy. From all this, fascinating as it might
actually be to one side of his character, he was kept by a genuine virility
there, effective in him, among other results, as a hatred of what was
theatrical, and the instinctive recognition that in vigorous intelligence,
after all, divinity was most likely to be found a resident. With this was
connected the feeling, increasing with his advance to manhood, of a poetic
beauty in mere clearness of thought, the actually aesthetic charm of a cold
austerity of mind; as if the kinship of that to the clearness of physical light
were something more than a figure of speech. Of all those various religious
fantasies, as so many forms of enthusiasm, he could well appreciate the
picturesque; that was made easy by his natural Epicureanism, already prompting
him to conceive of himself as but the passive spectator of the world around
him. But it was to the severer reasoning, of which such matters as Epicurean
theory are born, that, in effect, he now betook himself. Instinctively
suspicious of those mechanical arcana, those pretended “secrets unveiled” of
the professional mystic, which really bring great and little souls to one
level, for Marius the only possible dilemma lay between that old, ancestral
Roman religion, now become so incredible to him and the honest action of his
own untroubled, unassisted intelligence. Even the Arcana Celestia of
Platonism—what the sons of Plato had had to say regarding the essential
indifference of pure soul to its bodily house and merely occasional
dwelling-place—seemed to him while his heart was there in the urn with the
material ashes of Flavian, or still lingering in memory over his last agony,
wholly inhuman or morose, as tending to alleviate his resentment at nature’s
wrong. It was to the sentiment of the body, and the affections it defined—the
flesh, of whose force and colour that wandering Platonic soul was but so frail
a residue or abstract—he must cling. The various pathetic traits of the
beloved, suffering, perished body of Flavian, so deeply pondered, had made him
a materialist, but with something of the temper of a devotee. As a
consequence it might have seemed at first that his care for poetry had passed
away, to be replaced by the literature of thought. His much-pondered manuscript
verses were laid aside; and what happened now to one, who was certainly to be
something of a poet from first to last, looked at the moment like a change from
poetry to prose. He came of age about this time, his own master though with
beardless face; and at eighteen, an age at which, then as now, many youths of
capacity, who fancied themselves poets, secluded themselves from others chiefly
in affectation and vague dreaming, he secluded himself indeed from others, but
in a severe intellectual meditation, that salt of poetry, without which all the
more serious charm is lacking to the imaginative world. Still with something of
the old religious earnestness of hischildhood, he set himself—Sich im Denken zu
orientiren—to determine his bearings, as by compass, in the world of thought—to
get that precise acquaintance with the creative intelligence itself, its
structure and capacities, its relation to other parts of himself and to other
things, without which, certainly, no poetry can be masterly. Like a young
man rich in this world’s goods coming of age, he must go into affairs, and
ascertain his outlook. There must be no disguises. An exact estimate of
realities, as towards himself, he must have—a delicately measured gradation of
certainty in things—from the distant, haunted horizon of mere surmise or
imagination, to the actual feeling of sorrow in his heart, as he reclined one
morning, alone instead of in pleasant company, to ponder the hard sayings of an
imperfect old Greek manuscript, unrolled beside him. His former gay companions,
meeting him in the streets of the old Italian town, and noting the graver lines
coming into the face of the sombre but enthusiastic student of intellectual
structure, who could hold his own so well in the society of accomplished older
men, were half afraid of him, though proud to have him of their company.
Why this reserve?—they asked, concerning the orderly, self-possessed youth,
whose speech and carriage seemed so carefully measured, who was surely no poet
like the rapt, dishevelled Lupus. Was he secretly in love, perhaps, whose toga
was so daintily folded, and who was always as fresh as the flowers he wore; or
bent on his own line of ambition: or even on riches? Marius, meantime,
was reading freely, in early morning for the most part, those writers chiefly
who had made it their business to know what might be thought concerning that
strange, enigmatic, personal essence, which had seemed to go out altogether,
along with the funeral fires. And the old Greek who more than any other was now
giving form to his thoughts was a very hard master. From Epicurus, from the
thunder and lightning of Lucretius—like thunder and lightning some distance
off, one might recline to enjoy, in a garden of roses—he had gone back to the
writer who was in a ce rtain sense the teacher of both, Heraclitus of
Ionia. His difficult book “Concerning Nature” was even then rare, for people
had long since satisfied themselves by the quotation of certain brilliant,
isolated, oracles only, out of what was at best a taxing kind of lore. But the
difficulty of the early Greek prose did but spur the curiosity of Marius; the
writer, the superior clearness of whose intellectual view had so sequestered
him from other men, who had had so little joy of that superiority, being
avowedly exacting as to the amount of devout attention he required from the
student. “The many,” he said, always thus emphasising the difference between
the many and the few, are “like people heavy with wine,” “led by children,”
“knowing not whither they go;” and yet, “much learning doth not make wise;” and
again, “the ass, after all, would have his thistles rather than fine
gold.” Heraclitus, indeed, had not under-rated the difficulty for “the
many” of the paradox with which his doctrine begins, and the due reception of
which must involve a denial of habitual impressions, as the necessary first
step in the way of truth. His philosophy had been developed in conscious,
outspoken opposition to the current mode of thought, as a matter requiring some
exceptional loyalty to pure reason and its “dry light.” Men are subject to
an illusion, he protests, regarding matters apparent to sense. What the
uncorrected sense gives was a false impression of permanence or fixity in
things, which have really changed their nature in the very moment in which we
see and touch them. And the radical flaw in the current mode of thinking would
lie herein: that, reflecting this false or uncorrected sensation, it attributes
to the phenomena of experience a durability which does not really belong to
them. Imaging forth from those fluid impressions a world of firmly out-lined
objects, it leads one to regard as a thing stark and dead what is in reality
full of animation, of vigour, of the fire of life—that eternal process of
nature, of which at a later time Goethe spoke as the “Living Garment,” whereby
God is seen of us, ever in weaving at the “Loom of Time.” And the appeal
which the old Greek thinker made was, in the first instance, from confused to
unconfused sensation; with a sort of prophetic seriousness, a great claim and
assumption, such as we may understand, if we anticipate in this preliminary
scepticism the ulterior scope of his speculation, according to which the universal
movement of all natural things is but one particular stage, or measure, of that
ceaseless activity wherein the divine reason consists. The one true being—that
constant subject of all early thought—it was his merit to have conceived, not
as sterile and stagnant inaction, but as a perpetual energy, from the restless
stream of which, at certain points, some elements detach themselves, and harden
into non-entity and death, corresponding, as outward objects, to man’s inward
condition of ignorance: that is, to the slowness of his faculties. It is with
this paradox of a subtle, perpetual change in all visible things, that the high
speculation of Heraclitus begins. Hence the scorn he expresses for anything
like a careless, half-conscious, “use-and-wont” reception of our experience,
which took so strong a hold on men’s memories! Hence those many precepts
towards a strenuous self-consciousness in all we think and do, that loyalty to
cool and candid reason, which makes strict attentiveness of mind a kind of
religious duty and service. The negative doctrine, then, that the objects
of our ordinary experience, fixed as they seem, are really in perpetual change,
had been, as originally conceived, but the preliminary step towards a large
positive system of almost religious philosophy. Then as now, the illuminated
philosophic mind might apprehend, in what seemed a mass of lifeless matter, the
movement of that universal life, in which things, and men’s impressions of
them, were ever “coming to be,” alternately consumed and renewed. That
continual change, to be discovered by the attentive understanding where
common opinion found fixed objects, was but the indicator of a subtler but
all-pervading motion—the sleepless, ever-sustained, inexhaustible energy of the
divine reason itself, proceeding always by its own rhythmical logic, and
lendingto all mind and matter, in turn, what life they had. In this “perpetual
flux” of things and of souls, there was, as Heraclitus conceived, a
continuance, if not of their material or spiritual elements, yet of orderly
intelligible relationships, like the harmony of musical notes, wrought out in
and through the series of their mutations—ordinances of the divine reason,
maintained throughout the changes of the phenomenal world; and this harmony in
their mutation and opposition, was, after all, a principle of sanity, of
reality, there. But it happened, that, of all this, the first, merely sceptical
or negative step, that easiest step on the threshold, had alone remained in
general memory; and the “doctrine of motion” seemed to those who had felt its
seduction to make all fixed knowledge impossible. The swift passage of things,
the still swifter passage of those modes of our conscious being which seemed to
reflect them, might indeed be the burning of the divine fire: but what was
ascertained was that they did pass away like a devouring flame, or like the
race of water in the mid-stream—too swiftly for any real knowledge of them to
be attainable. Heracliteanism had grown to be almost identical with the famous
doctrine of the sophist Protagoras, that the momentary, sensible apprehension
of the individual was the only standard of what is or is not, and each one the
measure of all things to himself. The impressive name of Heraclitus had become
but an authority for a philosophy of the despair of knowledge. And as it
had been with his original followers in Greece, so it happened now with the
later Roman disciple. He, too, paused at the apprehension of that constant
motion of things—the drift of flowers, of little or great souls, of ambitious
systems, in the stream around him, the first source, the ultimate issue, of
which, in regions out of sight, must count with him as but a dim problem. The
bold mental flight of the old Greek master from the fleeting, competing objects
of experience to that one universal life, in which the whole sphere of physical
change might be reckoned as but a single pulsation, remained by him as
hypothesis only—the hypothesis he actually preferred, as in itself most
credible, however scantily realisable even by the imagination—yet still as but
one unverified hypothesis, among many others, concerning the first principle of
things. He might reserve it as a fine, high, visionary consideration, very
remote upon the intellectual ladder, just at the point, indeed, where that
ladder seemed to pass into the clouds, but for which there was certainly no
time left just now by his eager interest in the real objects so close to him,
on the lowlier earthy steps nearest the ground. And those childish days of
reverie, when he played at priests, played in many another day-dream, working
his way from the actual present, as far as he might, with a delightful sense of
escape in replacing the outer world of other people by an inward world as
himself really cared to have it, had made him a kind of “idealist.” He was
become aware of the possibility of a large dissidence between an inward and
somewhat exclusive world of vivid personal apprehension, and the unimproved,
unheightened reality of the life of those about him. As a consequence, he was
ready now to concede, somewhat more easily than others, the first point of his
new lesson, that the individual is to himself the measure of all things, and to
rely on the exclusive certainty to himself of his own impressions. To move
afterwards in that outer world of other people, as though taking it at their
estimate, would be possible henceforth only as a kind of irony. And as with the
Vicaire Savoyard, after reflecting on the variations of philosophy, “the first
fruit he drew from that reflection was the lesson of a limitation of his
researches to what immediately interested him; to rest peacefully in a profound
ignorance as to all beside; to disquiet himself only concerning those things
which it was of import for him to know.” At least he would entertain no theory
of conduct which did not allow its due weight to this primary element of
incertitude or negation, in the conditions of man’s life. Just here he joined
company, retracing in his individual mental pilgrimage the historic order of
human thought, with another wayfarer on the journey, another ancient Greek
master, the founder of the Cyrenaic philosophy, whose weighty traditional
utterances (for he had left no writing) served in turn to give effective
outline to the contemplations of Marius. There was something in the doctrine
itself congruous with the place wherein it had its birth; and for a time Marius
lived much, mentally, in the brilliant Greek colony which had given a dubious
name to the philosophy of pleasure. It hung, for his fancy, between the
mountains and the sea, among richer than Italian gardens, on a certain breezy
table-land projecting from the African coast, some hundreds of miles southward
from Greece. There, in a delightful climate, with something of transalpine
temperance amid its luxury, and withal in an inward atmosphere of temperance
which did but further enhance the brilliancy of human life, the school of
Cyrene had maintained itself as almost one with the family of its founder;
certainly as nothing coarse or unclean, and under the influence of accomplished
women. Aristippus of Cyrene too had left off in suspense of judgment as
to what might really lie behind—flammantia moenia mundi: the flaming ramparts
of the world. Those strange, bold, sceptical surmises, which had haunted the
minds of the first Greek enquirers as merely abstract doubt, which had been
present to the mind of Heraclitus as one element only in a system of abstract
philosophy, became with Aristippus a very subtly practical worldly-wisdom. The
difference between him and those obscure earlier thinkers is almost like that
between an ancient thinker generally, and a modern man of the world: it was the
difference between the mystic in his cell, or the prophet in the desert, and
the expert, cosmopolitan, administrator of his dark sayings, translating the
abstract thoughts of the master into terms, first of all, of sentiment. It has
been sometimes seen, in the history of the human mind, that when thus
translated into terms of sentiment—of sentiment, as lying already half-way
towards practice—the abstract ideas of metaphysics for the first time reveal
their true significance. The metaphysical principle, in itself, as it were,
without hands or feet, becomes impressive, fascinating, of effect, when translated
into a precept as to how it were best to feel and act; in other words, under
its sentimental or ethical equivalent. The leading idea of the great master of
Cyrene, his theory that things are but shadows, and that we, even as they,
never continue in one stay, might indeed have taken effect as a languid,
enervating, consumptive nihilism, as a precept of “renunciation,” which would
touch and handle and busy itself with nothing. But in the reception of
metaphysical formulae, all depends, as regards their actual and ulterior
result, on the pre-existent qualities of that soil of human nature into which
they fall—the company they find already present there, on their admission into
the house of thought; there being at least so much truth as this involves in
the theological maxim, that the reception of this or that speculative
conclusion is really a matter of will. The persuasion that all is vanity, with
this happily constituted Greek, who had been a genuine disciple of Socrates and
reflected, presumably, something of his blitheness in the face of the world,
his happy way of taking all chances, generated neither frivolity nor sourness,
but induced, rather, an impression, just serious enough, of the call upon men’s
attention of the crisis in which they find themselves. It became the stimulus
towards every kind of activity, and prompted a perpetual, inextinguishable
thirst after experience. With Marius, then, the influence of the
philosopher of pleasure depended on this, that in him an abstract doctrine,
originally somewhat acrid, had fallen upon a rich and genial nature, well
fitted to transform it into a theory of practice, of considerable stimulative
power towards a fair life. What Marius saw in him was the spectacle of one of
the happiest temperaments coming, so to speak, to an understanding with the
most depressing of theories; accepting the results of a metaphysical system
which seemed to concentrate into itself all the weakening trains of thought in
earlier Greek speculation, and making the best of it; turning its hard, bare
truths, with wonderful tact, into precepts of grace, and delicate wisdom, and a
delicate sense of honour. Given the hardest terms, supposing our days are
indeed but a shadow, even so, we may well adorn and beautify, in scrupulous
self-respect, our souls, and whatever our souls touch upon—these wonderful
bodies, these material dwelling-places through which the shadows pass together
for a while, the very raiment we wear, our very pastimes and the intercourse of
society. The most discerning judges saw in him something like the graceful
“humanities” of the later Roman, and our modern “culture,” as it is termed;
while Horace recalled his sayings as expressing best his own consummate amenity
in the reception of life. In this way, for Marius, under the guidance of
that old master of decorous living, those eternal doubts as to the criteria of
truth reduced themselves to a scepticism almost drily practical, a scepticism
which developed the opposition between things as they are and our impressions
and thoughts concerning them—the possibility, if an outward world does really
exist, of some faultiness in our apprehension of it—the doctrine, in short, of
what is termed “the subjectivity of knowledge.” That is a consideration,
indeed, which lies as an element of weakness, like some admitted fault or flaw,
at the very foundation of every philosophical account of the universe; which
confronts all philosophies at their starting, but with which none have really
dealt conclusively, some perhaps not quite sincerely; which those who are not
philosophers dissipate by “common,” but unphilosophical, sense, or by religious
faith. The peculiar strength of Marius was, to have apprehended this weakness
on the threshold of human knowledge, in the whole range of its consequences.
Our knowledge is limited to what we feel, he reflected: we need no proof that
we feel. But can we be sure that things are at all like our feelings? Mere
peculiarities in the instruments of our cognition, like the little knots and
waves on the surface of a mirror, may distort the matter they seem but to
represent. Of other people we cannot truly know even the feelings, nor how far
they would indicate the same modifications, each one of a personality really
unique, in using the same terms as ourselves; that “common experience,” which
is sometimes proposed as a satisfactory basis of certainty, being after all
only a fixity of language. But our own impressions!—The light and heat of that
blue veil over our heads, the heavens spread out, perhaps not like a curtain
over anything!—How reassuring, after so long a debate about the rival criteria
of truth, to fall back upon direct sensation, to limit one’s aspirations after
knowledge to that! In an age still materially so brilliant, so expert in the
artistic handling of material things, with sensible capacities still in
undiminished vigour, with the whole world of classic art and poetry outspread
before it, and where there was more than eye or ear could well take in—how
natural the determination to rely exclusively upon the phenomena of the senses,
which certainly never deceive us about themselves, about which alone we can
never deceive ourselves! And so the abstract apprehension that the little
point of this present moment alone really is, between a past which has just
ceased to be and a future which may never come, became practical with Marius,
under the form of a resolve, as far as possible, to exclude regret and desire,
and yield himself to the improvement of the present with an absolutely
disengaged mind. America is here and now—here, or nowhere: as Wilhelm Meister
finds out one day, just not too late, after so long looking vaguely across the
ocean for the opportunity of the development of his capacities. It was as if,
recognising in perpetual motion the law of nature, Marius identified his own
way of life cordially with it, “throwing himself into the stream,” so to speak.
He too must maintain a harmony with that soul of motion in things, by
constantly renewed mobility of character. Omnis Aristippum decuit color
et status et res.— Thus Horace had summed up that perfect manner in
the reception of life attained by his old Cyrenaic master; and the first
practical consequence of the metaphysic which lay behind that perfect manner,
had been a strict limitation, almost the renunciation, of metaphysical enquiry
itself. Metaphysic—that art, as it has so often proved, in the words of
Michelet, _de s’égarer avec méthode_, of bewildering oneself methodically:—one
must spend little time upon that! In the school of Cyrene, great as was its
mental incisiveness, logical and physical speculation, theoretic interests
generally, had been valued only so far as they served to give a groundwork, an
intellectual justification, to that exclusive concern with practical ethics
which was a note of the Cyrenaic philosophy. How earnest and enthusiastic, how
true to itself, under how many varieties of character, had been the effort of
the Greeks after Theory—Theôria—that vision of a wholly reasonable world,
which, according to the greatest of them, literally makes man like God: how
loyally they had still persisted in the quest after that, in spite of how many
disappointments! In the Gospel of Saint John, perhaps, some of them might have
found the kind of vision they were seeking for; but not in “doubtful
disputations” concerning “being” and “not being,” knowledge and appearance.
Men’s minds, even young men’s minds, at that late day, might well seem
oppressed by the weariness of systems which had so far outrun positive
knowledge; and in the mind of Marius, as in that old school of Cyrene, this
sense of ennui, combined with appetites so youthfully vigorous, brought about
reaction, a sort of suicide (instances of the like have been seen since) by
which a great metaphysical acumen was devoted to the function of proving
metaphysical speculation impossible, or useless. Abstract theory was to be
valued only just so far as it might serve to clear the tablet of the mind from
suppositions no more than half realisable, or wholly visionary, leaving it in flawless
evenness of surface to the impressions of an experience, concrete and
direct. To be absolutely virgin towards such experience, by ridding
ourselves of such abstractions as are but the ghosts of bygone impressions—to
be rid of the notions we have made for ourselves, and that so often only
misrepresent the experience of which they profess to be the
representation—_idola_, idols, false appearances, as Bacon calls them later—to
neutralise the distorting influence of metaphysical system by an all-accomplished
metaphysic skill: it is this bold, hard, sober recognition, under a very “dry
light,” of its own proper aim, in union with a habit of feeling which on the
practical side may perhaps open a wide doorway to human weakness, that gives to
the Cyrenaic doctrine, to reproductions of this doctrine in the time of Marius
or in our own, their gravity and importance. It was a school to which the young
man might come, eager for truth, expecting much from philosophy, in no ignoble
curiosity, aspiring after nothing less than an “initiation.” He would be sent
back, sooner or later, to experience, to the world of concrete impressions, to
things as they may be seen, heard, felt by him; but with a wonderful machinery
of observation, and free from the tyranny of mere theories. So, in
intervals of repose, after the agitation which followed the death of Flavian,
the thoughts of Marius ran, while he felt himself as if returned to the fine,
clear, peaceful light of that pleasant school of healthfully sensuous wisdom,
in the brilliant old Greek colony, on its fresh upland by the sea. Not
pleasure, but a general completeness of life, was the practical ideal to which
this anti-metaphysical metaphysic really pointed. And towards such a full or
complete life, a life of various yet select sensation, the most direct and
effective auxiliary must be, in a word, Insight. Liberty of soul, freedom from
all partial and misrepresentative doctrine which does but relieve one element
in our experience at the cost of another, freedom from all embarrassment alike
of regret for the past and of calculation on the future: this would be but
preliminary to the real business of education—insight, insight through culture,
into all that the present moment holds in trust for us, as we stand so briefly
in its presence. From that maxim of Life as the end of life, followed, as a
practical consequence, the desirableness of refining all the instruments of
inward and outward intuition, of developing all their capacities, of testing
and exercising one’s self in them, till one’s whole nature became one complex
medium of reception, towards the vision—the “beatific vision,” if we really
cared to make it such—of our actual experience in the world. Not the conveyance
of an abstract body of truths or principles, would be the aim of the right
education of one’s self, or of another, but the conveyance of an art—an art in
some degree peculiar to each individual character; with the modifications, that
is, due to its special constitution, and the peculiar circumstances of its
growth, inasmuch as no one of us is “like another, all in all.” Such were
the practical conclusions drawn for himself by Marius, when somewhat later he
had outgrown the mastery of others, from the principle that “all is vanity.” If
he could but count upon the present, if a life brief at best could not
certainly be shown to conduct one anywhere beyond itself, if men’s highest
curiosity was indeed so persistently baffled—then, with the Cyrenaics of all
ages, he would at least fill up the measure of that present with vivid
sensations, and such intellectual apprehensions, as, in strength and directness
and their immediately realised values at the bar of an actual experience, are
most like sensations. So some have spoken in every age; for, like all theories which
really express a strong natural tendency of the human mind or even one of its
characteristic modes of weakness, this vein of reflection is a constant
tradition in philosophy. Every age of European thought has had its Cyrenaics or
Epicureans, under many disguises: even under the hood of the monk.
But—Let us eat and drink, for to-morrow we die!—is a proposal, the real import
of which differs immensely, according to the natural taste, and the acquired
judgment, of the guests who sit at the table. It may express nothing better
than the instinct of Dante’s Ciacco, the accomplished glutton, in the mud of
the Inferno;+ or, since on no hypothesis does man “live by bread alone,” may
come to be identical with—“My meat is to do what is just and kind;” while the
soul, which can make no sincere claim to have apprehended anything beyond the
veil of immediate experience, yet never loses a sense of happiness in
conforming to the highest moral ideal it can clearly define for itself; and
actually, though but with so faint hope, does the “Father’s business.” In
that age of Marcus Aurelius, so completely disabused of the metaphysical
ambition to pass beyond “the flaming ramparts of the world,” but, on the other
hand, possessed of so vast an accumulation of intellectual treasure, with so
wide a view before it over all varieties of what is powerful or attractive in
man and his works, the thoughts of Marius did but follow the line taken by the
majority of educated persons, though to a different issue. Pitched to a really
high and serious key, the precept—Be perfect in regard to what is here and now:
the precept of “culture,” as it is called, or of a complete education—might at
least save him from the vulgarity and heaviness of a generation, certainly of
no general fineness of temper, though with a material well-being abundant
enough. Conceded that what is secure in our existence is but the sharp apex of
the present moment between two hypothetical eternities, and all that is real in
our experience but a series of fleeting impressions:—so Marius continued the
sceptical argument he had condensed, as the matter to hold by, from his various
philosophical reading:—given, that we are never to get beyond the walls of the
closely shut cell of one’s own personality; that the ideas we are somehow
impelled to form of an outer world, and of other minds akin to our own, are, it
may be, but a day-dream, and the thought of any world beyond, a day-dream
perhaps idler still: then, he, at least, in whom those fleeting
impressions—faces, voices, material sunshine—were very real and imperious,
might well set himself to the consideration, how such actual moments as they
passed might be made to yield their utmost, by the most dexterous training of
capacity. Amid abstract metaphysical doubts, as to what might lie one step only
beyond that experience, reinforcing the deep original materialism or
earthliness of human nature itself, bound so intimately to the sensuous world,
let him at least make the most of what was “here and now.” In the actual
dimness of ways from means to ends—ends in themselves desirable, yet for the
most part distant and for him, certainly, below the visible horizon—he would at
all events be sure that the means, to use the well-worn terminology, should
have something of finality or perfection about them, and themselves partake, in
a measure, of the more excellent nature of ends—that the means should justify
the end. With this view he would demand culture, paideia,+ as the
Cyrenaics said, or, in other words, a wide, a complete, education—an education
partly negative, as ascertaining the true limits of man’s capacities, but for
the most part positive, and directed especially to the expansion and refinement
of the power of reception; of those powers, above all, which are immediately relative
to fleeting phenomena, the powers of emotion and sense. In such an education,
an “aesthetic” education, as it might now be termed, and certainly occupied
very largely with those aspects of things which affect us pleasurably through
sensation, art, of course, including all the finer sorts of literature, would
have a great part to play. The study of music, in that wider Platonic sense,
according to which, music comprehends all those matters over which the Muses of
Greek mythology preside, would conduct one to an exquisite appreciation of all
the finer traits of nature and of man. Nay! the products of the imagination
must themselves be held to present the most perfect forms of life—spirit and
matter alike under their purest and most perfect conditions—the most strictly
appropriate objects of that impassioned contemplation, which, in the world of
intellectual discipline, as in the highest forms of morality and religion, must
be held to be the essential function of the “perfect.” Such manner of life
might come even to seem a kind of religion—an inward, visionary, mystic piety,
or religion, by virtue of its effort to live days “lovely and pleasant” in
themselves, here and now, and with an all-sufficiency of well-being in the
immediate sense of the object contemplated, independently of any faith, or hope
that might be entertained as to their ulterior tendency. In this way, the true
aesthetic culture would be realisable as a new form of the contemplative life,
founding its claim on the intrinsic “blessedness” of “vision”—the vision of
perfect men and things. One’s human nature, indeed, would fain reckon on an
assured and endless future, pleasing itself with the dream of a final home, to
be attained at some still remote date, yet with a conscious, delightful
home-coming at last, as depicted in many an old poetic Elysium. On the other
hand, the world of perfected sensation, intelligence, emotion, is so close to
us, and so attractive, that the most visionary of spirits must needs represent
the world unseen in colours, and under a form really borrowed from it. Let me
be sure then—might he not plausibly say?—that I miss no detail of this life of
realised consciousness in the present! Here at least is a vision, a theory,
theôria,+ which reposes on no basis of unverified hypothesis, which makes no
call upon a future after all somewhat problematic; as it would be unaffected by
any discovery of an Empedocles(improving on the old story of Prometheus) as to
what had really been the origin, and course of development, of man’s actually
attained faculties and that seemingly divine particle of reason or spirit in
him. Such a doctrine, at more leisurable moments, would of course have its
precepts to deliver on the embellishment, generally, of what is near at hand,
on the adornment of life, till, in a not impracticable rule of conduct, one’s
existence, from day to day, came to be like a well-executed piece of music;
that “perpetual motion” in things (so Marius figured the matter to himself,
under the old Greek imageries) according itself to a kind of cadence or
harmony. It was intelligible that this “aesthetic” philosophy might find
itself (theoretically, at least, and by way of a curious question in casuistry,
legitimate from its own point of view) weighing the claims of that eager, concentrated,
impassioned realisation of experience, against those of the received morality.
Conceiving its own function in a somewhat desperate temper, and becoming, as
every high-strung form of sentiment, as the religious sentiment itself, may
become, somewhat antinomian, when, in its effort towards the order of
experiences it prefers, it is confronted with the traditional and popular
morality, at points where that morality may look very like a convention, or a
mere stage-property of the world, it would be found, from time to time,
breaking beyond the limits of the actual moral order; perhaps not without some
pleasurable excitement in so bold a venture. With the possibility of some
such hazard as this, in thought or even in practice—that it might be, though
refining, or tonic even, in the case of those strong and in health, yet, as
Pascal says of the kindly and temperate wisdom of Montaigne, “pernicious for
those who have any natural tendency to impiety or vice,” the line of reflection
traced out above, was fairly chargeable.—Not, however, with “hedonism” and its
supposed consequences. The blood, the heart, of Marius were still pure. He knew
that his carefully considered theory of practice braced him, with the effect of
a moral principle duly recurring to mind every morning, towards the work of a
student, for which he might seem intended. Yet there were some among his
acquaintance who jumped to the conclusion that, with the “Epicurean stye,” he
was making pleasure—pleasure, as they so poorly conceived it—the sole motive of
life; and they precluded any exacter estimate of the situation by covering it
with a high-sounding general term, through the vagueness of which they were
enabled to see the severe and laborious youth in the vulgar company of Lais.
Words like “hedonism”— terms of large and vague comprehension—above all when
used for a purpose avowedly controversial, have ever been the worst examples of
what are called “question-begging terms;” and in that late age in which Marius
lived, amid the dust of so many centuries of philosophical debate, the air was
full of them. Yet those who used that reproachful Greek term for the philosophy
of pleasure, were hardly more likely than the old Greeks themselves (on whom
regarding this very subject of the theory of pleasure, their masters in the art
of thinking had so emphatically to impress the necessity of “making
distinctions”) to come to any very delicately correct ethical conclusions by a
reasoning, which began with a general term, comprehensive enough to cover
pleasures so different in quality, in their causes and effects, as the
pleasures of wine and love, of art and science, of religious enthusiasm and
political enterprise, and of that taste or curiosity which satisfied itself
with long days of serious study. Yet, in truth, each of those pleasurable modes
of activity, may, in its turn, fairly become the ideal of the “hedonistic”
doctrine. Really, to the phase of reflection through which Marius was then
passing, the charge of “hedonism,” whatever its true weight might be, was not
properly applicable at all. Not pleasure, but fulness of life, and “insight” as
conducting to that fulness—energy, variety, and choice of experience, including
noble pain and sorrow even, loves such as those in the exquisite old story of
Apuleius, sincere and strenuous forms of the moral life, such as Seneca and
Epictetus—whatever form of human life, in short, might be heroic, impassioned,
ideal: from these the “new Cyrenaicism” of Mariustook its criterion of values.
It was a theory, indeed, which might properly be regarded as in great degree
coincident with the main principle of the Stoics themselves, and an older
version of the precept “Whatsoever thy hand findeth to do, do it with thy
might”—a doctrine so widely acceptable among the nobler spirits of that time.
And, as with that, its mistaken tendency would lie in the direction of a kind
of idolatry of mere life, or natural gift, or strength—l’idôlatrie des
talents. To understand the various forms of ancient art and thought, the
various forms of actual human feeling (the only new thing, in a world almost
too opulent in what was old) to satisfy, with a kind of scrupulous equity, the
claims of these concrete and actual objects on his sympathy, his intelligence,
his senses—to “pluck out the heart of their mystery,” and in turn become the
interpreter of them to others: this had now defined itself for Marius as a very
narrowly practical design: it determined his choice of a vocation to live by.
It was the era of the rhetoricians, or sophists, as they were sometimes called;
of men who came in some instances to great fame and fortune, by way of a
literary cultivation of “science.” That science, it has been often said, must
have been wholly an affair of words. But in a world, confessedly so opulent in
what was old, the work, even of genius, must necessarily consist very much in
criticism; and, in the case of the more excellent specimens of his class, the
rhetorician was, after all, the eloquent and effective interpreter, for the
delighted ears of others, of what understanding himself had come by, in years
of travel and study, of the beautiful house of art and thought which was the
inheritance of the age. The emperor Marcus Aurelius, to whose service Marius
had now been called, was himself, more or less openly, a “lecturer.” That late
world, amid many curiously vivid modern traits, had this spectacle, so familiar
to ourselves, of the public lecturer or essayist; in some cases adding to his
other gifts that of the Christian preacher, who knows how to touch people’s
sensibilities on behalf of the suffering. To follow in the way of these
successes, was the natural instinct of youthful ambition; and it was with no
vulgar egotism that Marius, at the age of nineteen, determined, like many
another young man of parts, to enter as a student of rhetoric at Rome.
Though the manner of his work was changed formally from poetry to prose, he
remained, and must always be, of the poetic temper: by which, I mean, among
other things, that quite independently of the general habit of that pensive age
he lived much, and as it were by system, in reminiscence. Amid his eager
grasping at the sensation, the consciousness, of the present, he had come to
see that, after all, the main point of economy in the conduct of the present, was
the question:—How will it look to me, at what shall I value it, this day next
year?—that in any given day or month one’s main concern was its impression for
the memory. A strange trick memory sometimes played him; for, with no natural
gradation, what was of last month, or of yesterday, of to-day even, would seem
as far off, as entirely detached from him, as things of ten years ago. Detached
from him, yet very real, there lay certain spaces of his life, in delicate
perspective, under a favourable light; and, somehow, all the less fortunate
detail and circumstance had parted from them. Such hours were oftenest those in
which he had been helped by work of others to the pleasurable apprehension of
art, of nature, or of life. “Not what I do, but what I am, under the power of
this vision”—he would say to himself—“is what were indeed pleasing to the
gods!” And yet, with a kind of inconsistency in one who had taken for his
philosophic ideal the monochronos hêdonê+ of Aristippus—the pleasure of the
ideal present, of the mystic now—there would come, together with that
precipitate sinking of things into the past, a desire, after all, to retain
“what was so transitive.” Could he but arrest, for others also, certain clauses
of experience, as the imaginative memory presented them to himself! In those
grand, hot summers, he would have imprisoned the very perfume of the flowers.
To create, to live, perhaps, a little while beyond the allotted hours, if it
were but in a fragment of perfect expression:—it was thus his longing defined itself
for something to hold by amid the “perpetual flux.” With men of his vocation,
people were apt to say, words were things. Well! with him, words should be
indeed things,—the word, the phrase, valuable in exact proportion to the
transparency with which it conveyed to others the apprehension, the emotion,
the mood, so vividly real within himself. Verbaque provisam rem non invita
sequentur:+ Virile apprehension of the true nature of things, of the true
nature of one’s own impression, first of all!—words would follow that
naturally, a true understanding of one’s self being ever the first condition of
genuine style. Language delicate and measured, the delicate Attic phrase, for
instance, in which the eminent Aristeides could speak, was then a power to which
people’s hearts, and sometimes even their purses, readily responded. And there
were many points, as Marius thought, on which the heart of that age greatly
needed to be touched. He hardly knew how strong that old religious sense of
responsibility, the conscience, as we call it, still was within him—a body of
inward impressions, as real as those so highly valued outward ones—to offend
against which, brought with it a strange feeling of disloyalty, as to a person.
And the determination, adhered to with no misgiving, to add nothing, not so
much as a transient sigh, to the great total of men’s unhappiness, in his way
through the world:—that too was something to rest on, in the drift of mere
“appearances.” All this would involve a life of industry, of industrious
study, only possible through healthy rule, keeping clear the eye alike of body
and soul. For the male element, the logical conscience asserted itself now,
with opening manhood—asserted itself, even in his literary style, by a certain
firmness of outline, that touch of the worker in metal, amid its richness.
Already he blamed instinctively alike in his work and in himself, as youth so
seldom does, all that had not passed a long and liberal process of erasure. The
happy phrase or sentence was really modelled upon a cleanly finished structure
of scrupulous thought. The suggestive force of the one master of his
development, who had battled so hard with imaginative prose; the utterance, the
golden utterance, of the other, so content with its living power of persuasion
that he had never written at all,—in the commixture of these two qualities he
set up his literary ideal, and this rare blending of grace with an intellectual
rigour or astringency, was the secret of a singular expressiveness in it.
He acquired at this time a certain bookish air, the somewhat sombre habitude of
the avowed scholar, which though it never interfered with the perfect tone,
“fresh and serenely disposed,” of the Roman gentleman, yet qualified it as by
an interesting oblique trait, and frightened away some of his equals in age and
rank. The sober discretion of his thoughts, his sustained habit of meditation,
the sense of those negative conclusions enabling him to concentrate himself,
with an absorption so entire, upon what is immediately here and now, gave him a
peculiar manner of intellectual confidence, as of one who had indeed been
initiated into a great secret.—Though with an air so disengaged, he seemed to
be living so intently in the visible world! And now, in revolt against that
pre-occupation with other persons, which had so often perturbed his spirit, his
wistful speculations as to what the real, the greater, experience might be,
determined in him, not as the longing for love—to be with Cynthia, or
Aspasia—but as a thirst for existence in exquisite places. The veil that was to
be lifted for him lay over the works of the old masters of art, in places where
nature also had used her mastery. And it was just at this moment that a summons
to Rome reached him. NOTES 145. +Canto VI. 147.
+Transliteration: paideia. Definition “rearing, education.” 149.
+Transliteration: theôria. Definition “a looking at ... observing ...
contemplation.” 154. +Transliteration: monochronos hêdonê. Pater’s definition
“the pleasure of the ideal present, of the mystic now.” The definition is
fitting; the unusual adjective monokhronos means, literally, “single or unitary
time.” 155. +Horace, Ars Poetica 311. +Etext editor’s translation:
“The subject once foreknown, the words will follow easily.” Mirum est ut
animus agitatione motuque corporis excitetur. Pliny’s Letters. Many
points in that train of thought, its harder and more energetic practical
details especially, at first surmised but vaguely in the intervals of his
visits to the tomb of Flavian, attained the coherence of formal principle amid
the stirring incidents of the journey, which took him, still in all the
buoyancy of his nineteen years and greatly expectant, to Rome. That summons had
come from one of the former friends of his father in the capital, who had kept
himself acquainted with the lad’s progress, and, assured of his parts, his
courtly ways, above all of his beautiful penmanship, now offered him a place,
virtually that of an amanuensis, near the person of the philosophic emperor.
The old town-house of his family on the Caelian hill, so long neglected, might
well require his personal care; and Marius, relieved a little by his
preparations for travelling from a certain over-tension of spirit in which he
had lived of late, was presently on his way, to await introduction to Aurelius,
on his expected return home, after a first success, illusive enough as it was
soon to appear, against the invaders from beyond the Danube. The opening
stage of his journey, through the firm, golden weather, for which he had
lingered three days beyond the appointed time of starting—days brown with the
first rains of autumn—brought him, by the byways among the lower slopes of the
Apennines of Luna, to the town of Luca, a station on the Cassian Way;
travelling so far mainly on foot, while the baggage followed under the care of
his attendants. He wore a broad felt hat, in fashion not unlike a more modern
pilgrim’s, the neat head projecting from the collar of his gray paenula, or
travelling mantle, sewed closely together over the breast, but with its two
sides folded up upon the shoulders, to leave the arms free in walking, and was
altogether so trim and fresh, that, as he climbed the hill from Pisa, by the
long steep lane through the olive-yards, and turned to gaze where he could just
discern the cypresses of the old school garden, like two black lines down the
yellow walls, a little child took possession of his hand, and, looking up at
him with entire confidence, paced on bravely at his side, for the mere pleasure
of his company, to the spot where the road declined again into the valley
beyond. From this point, leaving the servants behind, he surrendered himself, a
willing subject, as he walked, to the impressions of the road, and was almost
surprised, both at the suddenness with which evening came on, and the distance
from his old home at which it found him. And at the little town of Luca,
he felt that indescribable sense of a welcoming in the mere outward appearance
of things, which seems to mark out certain places for the special purpose of
evening rest, and gives them always a peculiar amiability in retrospect. Under
the deepening twilight, the rough-tiled roofs seem to huddle together side by
side, like one continuous shelter over the whole township, spread low and broad
above the snug sleeping-rooms within; and the place one sees for the first
time, and must tarry in but for a night, breathes the very spirit of home. The
cottagers lingered at their doors for a few minutes as the shadows grew larger,
and went to rest early; though there was still a glow along the road through
the shorn corn-fields, and the birds were still awake about the crumbling gray
heights of an old temple. So quiet and air-swept was the place, you could
hardly tell where the country left off in it, and the field-paths became its
streets. Next morning he must needs change the manner of his journey. The light
baggage-wagon returned, and he proceeded now more quickly, travelling a stage
or two by post, along the Cassian Way, where the figures and incidents of the
great high-road seemed already to tell of the capital, the one centre to which
all were hastening, or had lately bidden adieu. That Way lay through the heart
of the old, mysterious and visionary country of Etruria; and what he knew of
its strange religion of the dead, reinforced by the actual sight of the funeral
houses scattered so plentifully among the dwelling-places of the living,
revived in him for a while, in all its strength, his old instinctive yearning
towards those inhabitants of the shadowy land he had known in life. It seemed
to him that he could half divine how time passed in those painted houses on the
hillsides, among the gold and silver ornaments, the wrought armour and
vestments, the drowsy and dead attendants; and the close consciousness of that
vast population gave him no fear, but rather a sense of companionship, as he
climbed the hills on foot behind the horses, through the genial
afternoon. The road, next day, passed below a town not less primitive, it
might seem, than its rocky perch—white rocks, that had long been glistening
before him in the distance. Down the dewy paths the people were descending from
it, to keep a holiday, high and low alike in rough, white-linen smocks. A
homely old play was just begun in an open-air theatre, with seats hollowed out
of the turf-grown slope. Marius caught the terrified expression of a child in
its mother’s arms, as it turned from the yawning mouth of a great mask, for
refuge in her bosom. The way mounted, and descended again, down the steep
street of another place, all resounding with the noise of metal under the
hammer; for every house had its brazier’s workshop, the bright objects of brass
and copper gleaming, like lights in a cave, out of their dark roofs and
corners. Around the anvils the children were watching the work, or ran to fetch
water to the hissing, red-hot metal; and Marius too watched, as he took his
hasty mid-day refreshment, a mess of chestnut-meal and cheese, while the
swelling surface of a great copper water-vessel grew flowered all over with
tiny petals under the skilful strokes. Towards dusk, a frantic woman at the
roadside, stood and cried out the words of some philter, or malison, in verse,
with weird motion of her hands, as the travellers passed, like a wild picture
drawn from Virgil. But all along, accompanying the superficial grace of
these incidents of the way, Marius noted, more and more as he drew nearer to
Rome, marks of the great plague. Under Hadrian and his successors, there had
been many enactments to improve the condition of the slave. The ergastula+ were
abolished. But no system of free labour had as yet succeeded. A whole mendicant
population, artfully exaggerating every symptom and circumstance of misery,
still hung around, or sheltered themselves within, the vast walls of their old,
half-ruined task-houses. And for the most part they had been variously stricken
by the pestilence. For once, the heroic level had been reached in rags,
squints, scars—every caricature of the human type—ravaged beyond what could
have been thought possible if it were to survive at all. Meantime, the farms
were less carefully tended than of old: here and there they were lapsing into
their natural wildness: some villas also were partly fallen into ruin. The
picturesque, romantic Italy of a later time—the Italy of Claude and Salvator
Rosa—was already forming, for the delight of the modern romantic
traveller. And again Marius was aware of a real change in things, on
crossing the Tiber, as if some magic effect lay in that; though here, in truth,
the Tiber was but a modest enough stream of turbid water. Nature, under the
richer sky, seemed readier and more affluent, and man fitter to the conditions
around him: even in people hard at work there appeared to be a less burdensome
sense of the mere business of life. How dreamily the women were passing up
through the broad light and shadow of the steep streets with the great
water-pots resting on their heads, like women of Caryae, set free from slavery
in old Greek temples. With what a fresh, primeval poetry was daily existence
here impressed—all the details of the threshing-floor and the vineyard; the
common farm-life even; the great bakers’ fires aglow upon the road in the
evening. In the presence of all this Marius felt for a moment like those old,
early, unconscious poets, who created the famousGreek myths of Dionysus, and
the Great Mother, out of the imagery of the wine-press and the ploughshare. And
still the motion of the journey was bringing his thoughts to systematic form.
He seemed to have grown to the fulness of intellectual manhood, on his way
hither. The formative and literary stimulus, so to call it, of peaceful
exercise which he had always observed in himself, doing its utmost now, the
form and the matter of thought alike detached themselves clearly and with
readiness from the healthfully excited brain.—“It is wonderful,” says Pliny,
“how the mind is stirred to activity by brisk bodily exercise.” The presentable
aspects of inmost thought and feeling became evident to him: the structure of
all he meant, its order and outline, defined itself: his general sense of a
fitness and beauty in words became effective in daintily pliant sentences, with
all sorts of felicitous linking of figure to abstraction. It seemed just then
as if the desire of the artist in him—that old longing to produce—might be
satisfied by the exact and literal transcript of what was then passing around
him, in simple prose, arresting the desirable moment as it passed, and
prolonging its life a little.—To live in the concrete! To be sure, at least, of
one’s hold upon that!—Again, his philosophic scheme was but the reflection of
the data of sense, and chiefly of sight, a reduction to the abstract, of the
brilliant road he travelled on, through the sunshine. But on the seventh
evening there came a reaction in the cheerful flow of our traveller’s thoughts,
a reaction with which mere bodily fatigue, asserting itself at last over his
curiosity, had much to do; and he fell into a mood, known to all passably
sentimental wayfarers, as night deepens again and again over their path, in
which all journeying, from the known to the unknown, comes suddenly to figure
as a mere foolish truancy—like a child’s running away from home—with the
feeling that one had best return at once, even through the darkness. He had
chosen to climb on foot, at his leisure, the long windings by which the road
ascended to the place where that day’s stage was to end, and found himself
alone in the twilight, far behind the rest of his travelling-companions. Would
the last zigzag, round and round those dark masses, half natural rock, half
artificial substructure, ever bring him within the circuit of the walls above?
It was now that a startling incident turned those misgivings almost into actual
fear. From the steep slope a heavy mass of stone was detached, after some
whisperings among the trees above his head, and rushing down through the
stillness fell to pieces in a cloud of dust across the road just behind him, so
that he felt the touch upon his heel. That was sufficient, just then, to rouse
out of its hiding-place his old vague fear of evil—of one’s “enemies”—a
distress, so much a matter of constitution with him, that at times it would
seem that the best pleasures of life could but be snatched, as it were hastily,
in one moment’s forgetfulness of its dark, besetting influence. A sudden
suspicion of hatred against him, of the nearness of “enemies,” seemed all at
once to alter the visible form of things, as with the child’s hero, when he
found the footprint on the sand of his peaceful, dreamy island. His elaborate
philosophy had not put beneath his feet the terror of mere bodily evil; much
less of “inexorable fate, and the noise of greedy Acheron.” The
resting-place to which he presently came, in the keen, wholesome air of the
market-place of the little hill-town, was a pleasant contrast to that last
effort of his journey. The room in which he sat down to supper, unlike the
ordinary Roman inns at that day, was trim and sweet. The firelight danced
cheerfully upon the polished, three-wicked lucernae burning cleanly with the
best oil, upon the white-washed walls, and the bunches of scarlet carnations
set in glass goblets. The white wine of the place put before him, of the true
colour and flavour of the grape, and with a ring of delicate foam as it mounted
in the cup, had a reviving edge or freshness he had found in no other wine.
These things had relieved a little the melancholy of the hour before; and it
was just then that he heard the voice of one, newly arrived at the inn, making
his way to the upper floor—a youthful voice, with a reassuring clearness of
note, which completed his cure. He seemed to hear that voice again in
dreams, uttering his name: then, awake in the full morning light and gazing
from the window, saw the guest of the night before, a very honourable-looking
youth, in the rich habit of a military knight, standing beside his horse, and
already making preparations to depart. It happened that Marius, too, was to
take that day’s journey on horseback. Riding presently from the inn, he
overtook Cornelius—of the Twelfth Legion—advancing carefully down the steep
street; and before they had issued from the gates of Urbs-vetus, the two young
men had broken into talk together. They were passing along the street of the
goldsmiths; and Cornelius must needs enter one of the workshops for the repair
of some button or link of his knightly trappings. Standing in the doorway,
Marius watched the work, as he had watched the brazier’s business a few days
before, wondering most at the simplicity of its processes, a simplicity,
however, on which only genius in that craft could have lighted.—By what
unguessed-at stroke of hand, for instance, had the grains of precious metal
associated themselves with so daintily regular a roughness, over the surface of
the little casket yonder? And the conversation which followed, hence arising,
left the two travellers with sufficient interest in each other to insure an
easy companionship for the remainder of their journey. In time to come, Marius
was to depend very much on the preferences, the personal judgments, of the
comrade who now laid his hand so brotherly on his shoulder, as they left the
workshop. Itineris matutini gratiam capimus,+—observes one of our
scholarly travellers; and their road that day lay through a country,
well-fitted, by the peculiarity of its landscape, to ripen a first acquaintance
into intimacy; its superficial ugliness throwing the wayfarers back upon each
other’s entertainment in a real exchange of ideas, the tension of which,
however, it would relieve, ever and anon, by the unexpected assertion of
something singularly attractive. The immediate aspect of the land was, indeed,
in spite of abundant olive and ilex, unpleasing enough. A river of clay seemed,
“in some old night of time,” to have burst up over valley and hill, and
hardened there into fantastic shelves and slides and angles of cadaverous rock,
up and down among the contorted vegetation; the hoary roots and trunks seeming
to confess some weird kinship with them. But that was long ago; and these
pallid hillsides needed only the declining sun, touching the rock with purple,
and throwing deeper shadow into the immemorial foliage, to put on a peculiar,
because a very grave and austere, kind of beauty; while the graceful outlines
common to volcanic hills asserted themselves in the broader prospect. And, for
sentimental Marius, all this was associated, by some perhaps fantastic
affinity, with a peculiar trait of severity, beyond his guesses as to the
secret of it, which mingled with the blitheness of his new companion.
Concurring, indeed, with the condition of a Roman soldier, it was certainly
something far more than the expression of military hardness, or ascêsis; and
what was earnest, or even austere, in the landscape they had traversed
together, seemed to have been waiting for the passage of this figure to
interpret or inform it. Again, as in his early days with Flavian, a vivid
personal presence broke through the dreamy idealism, which had almost come to
doubt of other men’s reality: reassuringly, indeed, yet not without some sense
of a constraining tyranny over him from without. For Cornelius, returning
from the campaign, to take up his quarters on the Palatine, in the imperial
guard, seemed to carry about with him, in that privileged world of comely usage
to which he belonged, the atmosphere of some still more jealously exclusive
circle. They halted on the morrow at noon, not at an inn, but at the house of
one of the young soldier’s friends, whom they found absent, indeed, in
consequence of the plague in those parts, so that after a mid-day rest only,
they proceeded again on their journey. The great room of the villa, to which
they were admitted, had lain long untouched; and the dust rose, as they
entered, into the slanting bars of sunlight, that fell through the half-closed
shutters. It was here, to while away the time, that Cornelius bethought himself
of displaying to his new friend the various articles and ornaments of his
knightly array—the breastplate, the sandals and cuirass, lacing them on, one by
one, with the assistance of Marius, and finally the great golden bracelet on
the right arm, conferred on him by his general for an act of valour. And as he
gleamed there, amid that odd interchange of light and shade, with the staff of
a silken standard firm in his hand, Marius felt as if he were face to face, for
the first time, with some new knighthood or chivalry, just then coming into the
world. It was soon after they left this place, journeying now by carriage,
that Rome was seen at last, with much excitement on the part of our travellers;
Cornelius, and some others of whom the party then consisted, agreeing, chiefly
for the sake of Marius, to hasten forward, that it might be reached by
daylight, with a cheerful noise of rapid wheels as they passed over the
flagstones. But the highest light upon the mausoleum of Hadrian was quite gone
out, and it was dark, before they reached the Flaminian Gate. The abundant
sound of water was the one thing that impressed Marius, as they passed down a
long street, with many open spaces on either hand: Cornelius to his military
quarters, and Marius to the old dwelling-place of his fathers. . +E-text
editor’s note: ergastula were the Roman agrarian equivalent of
prison-workhouses. 168. +Apuleius, The Golden Ass, I.17.
Marius awoke early and passed curiously from room to room, noting for
more careful inspection by and by the rolls of manuscripts. Even greater than
his curiosity in gazing for the first time on this ancient possession, was his
eagerness to look out upon Rome itself, as he pushed back curtain and shutter,
and stepped forth in the fresh morning upon one of the many balconies, with an
oft-repeated dream realised at last. He was certainly fortunate in the time of
his coming to Rome. That old pagan world, of which Rome was the flower, had
reached its perfection in the things of poetry and art—a perfection which
indicated only too surely the eve of decline. As in some vast intellectual
museum, all its manifold products were intact and in their places, and with
custodians also still extant, duly qualified to appreciate and explain them.
And at no period of history had the material Rome itself been better worth
seeing—lying there not less consummate than that world of pagan intellect which
it represented in every phase of its darkness and light. The various work of
many ages fell here harmoniously together, as yet untouched save by time,
adding the final grace of a rich softness to its complex expression. Much which
spoke of ages earlier than Nero, the great re-builder, lingered on, antique,
quaint, immeasurably venerable, like the relics of the medieval city in the
Paris of Lewis the Fourteenth: the work of Nero’s own time had come to have
that sort of old world and picturesque interest which the work of Lewis has for
ourselves; while without stretching a parallel too far we might perhaps liken
the architectural finesses of the archaic Hadrian to the more excellent
products of our own Gothic revival. The temple of Antoninus and Faustina was
still fresh in all the majesty of its closely arrayed columns of cipollino;
but, on the whole, little had been added under the late and present emperors,
and during fifty years of public quiet, a sober brown and gray had grown apace
on things. The gilding on the roof of many a temple had lost its garishness:
cornice and capital of polished marble shone out with all the crisp freshness
of real flowers, amid the already mouldering travertine and brickwork, though
the birds had built freely among them. What Marius then saw was in many
respects, after all deduction of difference, more like the modern Rome than the
enumeration of particular losses might lead us to suppose; the Renaissance, in
its most ambitious mood and with amplest resources, having resumed the ancient
classical tradition there, with no break or obstruction, as it had happened, in
any very considerable work of the middle age. Immediately before him, on the
square, steep height, where the earliest little old Rome had huddled itself together,
arose the palace of the Caesars. Half-veiling the vast substruction of rough,
brown stone—line upon line of successive ages of builders—the trim,
old-fashioned garden walks, under their closely-woven walls of dark glossy
foliage, test of long and careful cultivation, wound gradually, among choice
trees, statues and fountains, distinct and sparkling in the full morning
sunlight, to the richly tinted mass of pavilions and corridors above, centering
in the lofty, white-marble dwelling-place of Apollo himself. How often
had Marius looked forward to that first, free wandering through Rome, to which
he now went forth with a heat in the town sunshine (like a mist of fine
gold-dust spread through the air) to the height of his desire, making the dun
coolness of the narrow streets welcome enough at intervals. He almost feared,
descending the stair hastily, lest some unforeseen accident should snatch the
little cup of enjoyment from him ere he passed the door. In such morning
rambles in places new to him, life had always seemed to come at its fullest: it
was then he could feel his youth, that youth the days of which he had already
begun to count jealously, in entire possession. So the grave, pensive figure, a
figure, be it said nevertheless, fresher far than often came across it now,
moved through the old city towards the lodgings of Cornelius, certainly not by
the most direct course, however eager to rejoin the friend of yesterday.
Bent as keenly on seeing as if his first day in Rome were to be also his last,
the two friends descended along the _Vicus Tuscus_, with its rows of
incense-stalls, into the _Via Nova_, where the fashionable people were busy
shopping; and Marius saw with much amusement the frizzled heads, then _à la
mode_. A glimpse of the _Marmorata_, the haven at the river-side, where
specimens of all the precious marbles of the world were lying amid great white
blocks from the quarries of Luna, took his thoughts for a moment to his distant
home. They visited the flower-market, lingering where the _coronarii_ pressed
on them the newest species, and purchased zinias, now in blossom (like painted
flowers, thought Marius), to decorate the folds of their togas. Loitering to
the other side of the Forum, past the great Galen’s drug-shop, after a glance
at the announcements of new poems on sale attached to the doorpost of a famous
bookseller, they entered the curious library of the Temple of Peace, then a
favourite resort of literary men, and read, fixed there for all to see, the
_Diurnal_ or Gazette of the day, which announced, together with births and
deaths, prodigies and accidents, and much mere matter of business, the date and
manner of the philosophic emperor’s joyful return to his people; and,
thereafter, with eminent names faintly disguised, what would carry that day’s
news, in many copies, over the provinces—a certain matter concerning the great
lady, known to be dear to him, whom he had left at home. It was a story, with
the development of which “society” had indeed for some time past edified or
amused itself, rallying sufficiently from the panic of a year ago, not only to
welcome back its ruler, but also to relish a _chronique scandaleuse;_ and thus,
when soon after Marius saw the world’s wonder, he was already acquainted with
the suspicions which have ever since hung about her name. Twelve o’clock was
come before they left the Forum, waiting in a little crowd to hear the
_Accensus_, according to old custom, proclaim the hour of noonday, at the
moment when, from the steps of the Senate-house, the sun could be seen standing
between the _Rostra_ and the _Græcostasis_. He exerted for this function a
strength of voice, which confirmed in Marius a judgment the modern visitor may
share with him, that Roman throats and Roman chests, namely, must, in some
peculiar way, be differently constructed from those of other people. Such
judgment indeed he had formed in part the evening before, noting, as a
religious procession passed him, how much noise a man and a boy could make,
though not without a great deal of real music, of which in truth the Romans
were then as ever passionately fond. Hence the two friends took their way
through the Via Flaminia, almost along the line of the modern Corso, already
bordered with handsome villas, turning presently to the left, into the
Field-of-Mars, still the playground of Rome. But the vast public edifices were
grown to be almost continuous over the grassy expanse, represented now only by
occasional open spaces of verdure and wild-flowers. In one of these a crowd was
standing, to watch a party of athletes stripped for exercise. Marius had been
surprised at the luxurious variety of the litters borne through Rome, where no
carriage horses were allowed; and just then one far more sumptuous than the
rest, with dainty appointments of ivory and gold, was carried by, all the town
pressing with eagerness to get a glimpse of its most beautiful woman, as she
passed rapidly. Yes! there, was the wonder of the world—the empress Faustina
herself: Marius could distinguish, could distinguish clearly, the well-known
profile, between the floating purple curtains. For indeed all Rome was
ready to burst into gaiety again, as it awaited with much real affection,
hopeful and animated, the return of its emperor, for whose ovation various
adornments were preparing along the streets through which the imperial
procession would pass. He had left Rome just twelve months before, amid immense
gloom. The alarm of a barbarian insurrection along the whole line of the Danube
had happened at the moment when Rome was panic-stricken by the great
pestilence. In fifty years of peace, broken only by that conflict in the
East from which Lucius Verus, among other curiosities, brought back the plague,
war had come to seem a merely romantic, superannuated incident of bygone history.
And now it was almost upon Italian soil. Terrible were the reports of the
numbers and audacity of the assailants. Aurelius, as yet untried in war, and
understood by a few only in the whole scope of a really great character, was
known to the majority of his subjects as but a careful administrator, though a
student of philosophy, perhaps, as we say, a dilettante. But he was also the
visible centre of government, towards whom the hearts of a whole people turned,
grateful for fifty years of public happiness—its good genius, its
“Antonine”—whose fragile person might be foreseen speedily giving way under the
trials of military life, with a disaster like that of the slaughter of the
legions by Arminius. Prophecies of the world’s impending conflagration were easily
credited: “the secular fire” would descend from heaven: superstitious fear had
even demanded the sacrifice of a human victim. Marcus Aurelius, always
philosophically considerate of the humours of other people, exercising also
that devout appreciation of every religious claim which was one of his
characteristic habits, had invoked, in aid of the commonwealth, not only all
native gods, but all foreign deities as well, however strange.—“Help! Help! in
the ocean space!” A multitude of foreign priests had been welcomed to Rome,
with their various peculiar religious rites. The sacrifices made on this
occasion were remembered for centuries; and the starving poor, at least, found
some satisfaction in the flesh of those herds of “white bulls,” which came into
the city, day after day, to yield the savour of their blood to the gods.
In spite of all this, the legions had but followed their standards
despondently. But prestige, personal prestige, the name of “Emperor,” still had
its magic power over the nations. The mere approach of the Roman army made an
impression on the barbarians. Aurelius and his colleague had scarcely reached
Aquileia when a deputation arrived to ask for peace. And now the two imperial
“brothers” were returning home at leisure; were waiting, indeed, at a villa
outside the walls, till the capital had made ready to receive them. But
although Rome was thus in genial reaction, with much relief, and hopefulness
against the winter, facing itself industriously in damask of red and gold,
those two enemies were still unmistakably extant: the barbarian army of the
Danube was but over-awed for a season; and the plague, as we saw when Marius
was on his way to Rome, was not to depart till it had done a large part in the
formation of the melancholy picturesque of modern Italy—till it had made, or
prepared for the making of the Roman Campagna. The old, unaffected, really
pagan, peace or gaiety, of Antoninus Pius—that genuine though unconscious
humanist—was gone for ever. And again and again, throughout this day of varied
observation, Marius had been reminded, above all else, that he was not merely
in “the most religious city of the world,” as one had said, but that Rome was
become the romantic home of the wildest superstition. Such superstition
presented itself almost as religious mania in many an incident of his long
ramble,—incidents to which he gave his full attention, though contending in
some measure with a reluctance on the part of his companion, the motive of
which he did not understand till long afterwards. Marius certainly did not
allow this reluctance to deter his own curiosity. Had he not come to Rome
partly under poetic vocation, to receive all those things, the very impress of
life itself, upon the visual, the imaginative, organ, as upon a mirror; to reflect
them; to transmute them into golden words? He must observe that strange medley
of superstition, that centuries’ growth, layer upon layer, of the curiosities
of religion (one faith jostling another out of place) at least for its
picturesque interest, and as an indifferent outsider might, not too deeply
concerned in the question which, if any of them, was to be the survivor.
Superficially, at least, the Roman religion, allying itself with much
diplomatic economy to possible rivals, was in possession, as a vast and complex
system of usage, intertwining itself with every detail of public and private
life, attractively enough for those who had but “the historic temper,” and a
taste for the past, however much a Lucian might depreciate it. Roman religion,
as Marius knew, had, indeed, been always something to be done, rather than
something to be thought, or believed, or loved; something to be done in
minutely detailed manner, at a particular time and place, correctness in which
had long been a matter of laborious learning with a whole school of
ritualists—as also, now and again, a matter of heroic sacrifice with certain
exceptionally devout souls, as when Caius Fabius Dorso, with his life in his
hand, succeeded in passing the sentinels of the invading Gauls to perform a
sacrifice on the Quirinal, and, thanks to the divine protection, had returned
in safety. So jealous was the distinction between sacred and profane, that, in
the matter of the “regarding of days,” it had made more than half the year a
holiday. Aurelius had, indeed, ordained that there should be no more than a
hundred and thirty-five festival days in the year; but in other respects he had
followed in the steps of his predecessor, Antoninus Pius—commended especially
for his “religion,” his conspicuous devotion to its public ceremonies—and whose
coins are remarkable for their reference to the oldest and most hieratic types
of Roman mythology. Aurelius had succeeded in more than healing the old feud
between philosophy and religion, displaying himself, in singular combination,
as at once the most zealous of philosophers and the most devout of polytheists,
and lending himself, with an air of conviction, to all the pageantries of
public worship. To his pious recognition of that one orderly spirit, which, according
to the doctrine of the Stoics, diffuses itself through the world, and animates
it—a recognition taking the form, with him, of a constant effort towards inward
likeness thereto, in the harmonious order of his own soul—he had added a warm
personal devotion towards the whole multitude of the old national gods, and a
great many new foreign ones besides, by him, at least, not ignobly conceived.
If the comparison may be reverently made, there was something here of the
method by which the catholic church has added the cultus of the saints to its
worship of the one Divine Being. And to the view of the majority, though
the emperor, as the personal centre of religion, entertained the hope of
converting his people to philosophic faith, and had even pronounced certain
public discourses for their instruction in it, that polytheistic devotion was
his most striking feature. Philosophers, indeed, had, for the most part,
thought with Seneca, “that a man need not lift his hands to heaven, nor ask the
sacristan’s leave to put his mouth to the ear of an image, that his prayers
might be heard the better.”—Marcus Aurelius, “a master in Israel,” knew all
that well enough. Yet his outward devotion was much more than a concession to
popular sentiment, or a mere result of that sense of fellow-citizenship with
others, which had made him again and again, under most difficult circumstances,
an excellent comrade. Those others, too!—amid all their ignorances, what were
they but instruments in the administration of the Divine Reason, “from end to
end sweetly and strongly disposing all things”? Meantime “Philosophy” itself
had assumed much of what we conceive to be the religious character. It had even
cultivated the habit, the power, of “spiritual direction”; the troubled soul
making recourse in its hour of destitution, or amid the distractions of the
world, to this or that director—philosopho suo—who could really best understand
it. And it had been in vain that the old, grave and discreet religion of
Rome had set itself, according to its proper genius, to prevent or subdue all
trouble and disturbance in men’s souls. In religion, as in other matters,
plebeians, as such, had a taste for movement, for revolution; and it had been
ever in the most populous quarters that religious changes began. To the
apparatus of foreign religion, above all, recourse had been made in times of
public disquietude or sudden terror; and in those great religious celebrations,
before his proceeding against the barbarians, Aurelius had even restored the
solemnities of Isis, prohibited in the capital since the time of Augustus,
making no secret of his worship of that goddess, though her temple had been
actually destroyed by authority in the reign of Tiberius. Her singular and in
many ways beautiful ritual was now popular in Rome. And then—what the
enthusiasm of the swarming plebeian quarters had initiated, was sure to be
adopted, sooner or later, by women of fashion. A blending of all the religions
of the ancient world had been accomplished. The new gods had arrived, had been
welcomed, and found their places; though, certainly, with no real security, in
any adequate ideal of the divine nature itself in the background of men’s
minds, that the presence of the new-comer should be edifying, or even refining.
High and low addressed themselves to all deities alike without scruple;
confusing them together when they prayed, and in the old, authorised, threefold
veneration of their visible images, by flowers, incense, and ceremonial
lights—those beautiful usages, which the church, in her way through the world,
ever making spoil of the world’s goods for the better uses of the human spirit,
took up and sanctified in her service. And certainly “the most religious
city in the world” took no care to veil its devotion, however fantastic. The
humblest house had its little chapel or shrine, its image and lamp; while
almost every one seemed to exercise some religious function and responsibility.
Colleges, composed for the most part of slaves and of the poor, provided for
the service of the Compitalian Lares—the gods who presided, respectively, over
the several quarters of the city. In one street, Marius witnessed an incident
of the festival of the patron deity of that neighbourhood, the way being strewn
with box, the houses tricked out gaily in such poor finery as they possessed,
while the ancient idol was borne through it in procession, arrayed in gaudy
attire the worse for wear. Numerous religious clubs had their stated
anniversaries, on which the members issued with much ceremony from their
guild-hall, or schola, and traversed the thoroughfares of Rome, preceded, like
the confraternities of the present day, by their sacred banners, to offer
sacrifice before some famous image. Black with the perpetual smoke of lamps and
incense, oftenest old and ugly, perhaps on that account the more likely to
listen to the desires of the suffering—had not those sacred effigies sometimes
given sensible tokens that they were aware? The image of the Fortune of
Women—Fortuna Muliebris, in the Latin Way, had spoken (not once only) and
declared; Bene me, Matronae! vidistis riteque dedicastis! The Apollo of Cumae
had wept during three whole nights and days. The images in the temple of Juno
Sospita had been seen to sweat. Nay! there was blood—divine blood—in the hearts
of some of them: the images in the Grove of Feronia had sweated blood!
From one and all Cornelius had turned away: like the “atheist” of whom Apuleius
tells he had never once raised hand to lip in passing image or sanctuary, and
had parted from Marius finally when the latter determined to enter the crowded
doorway of a temple, on their return into the Forum, below the Palatine hill,
where the mothers were pressing in, with a multitude of every sort of children,
to touch the lightning-struck image of the wolf-nurse of Romulus—so tender to
little ones!—just discernible in its dark shrine, amid a blaze of lights.
Marius gazed after his companion of the day, as he mounted the steps to his
lodging, singing to himself, as it seemed. Marius failed precisely to catch the
words. And, as the rich, fresh evening came on, there was heard all
over Rome, far above a whisper, the whole town seeming hushed to catch it
distinctly, the lively, reckless call to “play,” from the sons and daughters of
foolishness, to those in whom their life was still green—Donec virenti canities
abest!—Donec virenti canities abest!+ Marius could hardly doubt how Cornelius
would have taken the call. And as for himself, slight as was the burden of
positive moral obligation with which he had entered Rome, it was to no wasteful
and vagrant affections, such as these, that his Epicureanism had committed
him. NOTES 187. +Horace, Odes I.ix.17. Translation: “So long
as youth is fresh and age is far away.” But ah! Maecenas is yclad in
claye, And great Augustus long ygoe is dead, And all the worthies liggen wrapt
in lead, That matter made for poets on to playe.+ Marcus Aurelius
who, though he had little relish for them himself, had ever been willing to
humour the taste of his people for magnificent spectacles, was received back to
Rome with the lesser honours of the Ovation, conceded by the Senate (so great
was the public sense of deliverance) with even more than the laxity which had
become its habit under imperial rule, for there had been no actual bloodshed in
the late achievement. Clad in the civic dress of the chief Roman magistrate,
and with a crown of myrtle upon his head, his colleague similarly attired
walking beside him, he passed up to the Capitol on foot, though in solemn
procession along the Sacred Way, to offer sacrifice to the national gods. The
victim, a goodly sheep, whose image we may still see between the pig and the ox
of the Suovetaurilia, filleted and stoled almost like some ancient canon of the
church, on a sculptured fragment in the Forum, was conducted by the priests,
clad in rich white vestments, and bearing their sacred utensils of massive
gold, immediately behind a company of flute-players, led by the great
choir-master, or conductor, of the day, visibly tetchy or delighted, according
as the instruments he ruled with his tuning-rod, rose, more or less adequately
amid the difficulties of the way, to the dream of perfect music in the soul
within him. The vast crowd, including the soldiers of the triumphant army, now
restored to wives and children, all alike in holiday whiteness, had left their
houses early in the fine, dry morning, in a real affection for “the father of
his country,” to await the procession, the two princes having spent the
preceding night outside the walls, at the old Villa of the Republic. Marius,
full of curiosity, had taken his position with much care; and stood to see the
world’s masters pass by, at an angle from which he could command the view of a
great part of the processional route, sprinkled with fine yellow sand, and
punctiliously guarded from profane footsteps. The coming of the pageant
was announced by the clear sound of the flutes, heard at length above the
acclamations of the people—Salve Imperator!—Dii te servent!—shouted in regular
time, over the hills. It was on the central figure, of course, that the whole
attention of Marius was fixed from the moment when the procession came in
sight, preceded by the lictors with gilded fasces, the imperial image-bearers,
and the pages carrying lighted torches; a band of knights, among whom was
Cornelius in complete military, array, following. Amply swathed about in the
folds of a richly worked toga, after a manner now long since become obsolete
with meaner persons, Marius beheld a man of about five-and-forty years of age,
with prominent eyes—eyes, which although demurely downcast during this
essentially religious ceremony, were by nature broadly and benignantly
observant. He was still, in the main, as we see him in the busts which
represent his gracious and courtly youth, when Hadrian had playfully called
him, not Verus, after the name of his father, but Verissimus, for his candour
of gaze, and the bland capacity of the brow, which, below the brown hair,
clustering thickly as of old, shone out low, broad, and clear, and still
without a trace of the trouble of his lips. You saw the brow of one who, amid
the blindness or perplexity of the people about him, understood all things
clearly; the dilemma, to which his experience so far had brought him, between
Chance with meek resignation, and a Providence with boundless possibilities and
hope, being for him at least distinctly defined. That outward serenity,
which he valued so highly as a point of manner or expression not unworthy the
care of a public minister—outward symbol, it might be thought, of the inward
religious serenity it had been his constant purpose to maintain—was increased
to-day by his sense of the gratitude of his people; that his life had been one
of such gifts and blessings as made his person seem in very deed divine to
them. Yet the cloud of some reserved internal sorrow, passing from time to time
into an expression of fatigue and effort, of loneliness amid the shouting
multitude, might have been detected there by the more observant—as if the
sagacious hint of one of his officers, “The soldiers can’t understand you, they
don’t know Greek,” were applicable always to his relationships with other
people. The nostrils and mouth seemed capable almost of peevishness; and Marius
noted in them, as in the hands, and in the spare body generally, what was new
to his experience—something of asceticism, as we say, of a bodily gymnastic, by
which, although it told pleasantly in the clear blue humours of the eye, the
flesh had scarcely been an equal gainer with the spirit. It was hardly the
expression of “the healthy mind in the healthy body,” but rather of a sacrifice
of the body to the soul, its needs and aspirations, that Marius seemed to
divine in this assiduous student of the Greek sages—a sacrifice, in truth, far
beyond the demands of their very saddest philosophy of life. Dignify
thyself with modesty and simplicity for thine ornaments!—had been ever a maxim
with this dainty and high-bred Stoic, who still thought manners a true part of
morals, according to the old sense of the term, and who regrets now and again
that he cannot control his thoughts equally well with his countenance. That
outward composure was deepened during the solemnities of this day by an air of
pontifical abstraction; which, though very far from being pride—nay, a sort of
humility rather—yet gave, to himself, an air of unapproachableness, and to his
whole proceeding, in which every minutest act was considered, the character of
a ritual. Certainly, there was no haughtiness, social, moral, or even philosophic,
in Aurelius, who had realised, under more trying conditions perhaps than any
one before, that no element of humanity could be alien from him. Yet, as he
walked to-day, the centre of ten thousand observers, with eyes discreetly fixed
on the ground, veiling his head at times and muttering very rapidly the words
of the “supplications,” the rich, fresh evening came on, there was
heard all over Rome, far above a whisper, the whole town seeming hushed to
catch it distinctly, the lively, reckless call to “play,” from the sons and
daughters of foolishness , to those in whom their life was still
green—Donec virenti canities abest!—Donec virenti canities abest!+ Marius could
hardly doubt how Cornelius would have taken the call. And as for himself, slight
as was the burden of positive moral obligation with which he had entered Rome,
it was to no wasteful and vagrant affections, such as these, that his
Epicureanism had committed him. . +Horace, Odes I.ix.17. Translation: “So
long as youth is fresh and age is far away.” But ah! Maecenas is yclad in
claye, And great Augustus long ygoe is dead, And all the worthies liggen wrapt
in lead, That matter made for poets on to playe.+ Marcus Aurelius
who, though he had little relish for them himself, had ever been willing to
humour the taste of his people for magnificent spectacles, was received back to
Rome with the lesser honours of the Ovation, conceded by the Senate (so great
was the public sense of deliverance) with even more than the laxity which had
become its habit under imperial rule, for there had been no actual bloodshed in
the late achievement. Clad in the civic dress of the chief Roman magistrate,
and with a crown of myrtle upon his head, his colleague similarly attired
walking beside him, he passed up to the Capitol on foot, though in solemn
procession along the Sacred Way, to offer sacrifice to the national gods. The
victim, a goodly sheep, whose image we may still see between the pig and the ox
of the Suovetaurilia, filleted and stoled almost like some ancient canon of the
church, on a sculptured fragment in the Forum, was conducted by the priests,
clad in rich white vestments, and bearing their sacred utensils of massive
gold, immediately behind a company of flute-players, led by the great
choir-master, or conductor, of the day, visibly tetchy or delighted, according
as the instruments he ruled with his tuning-rod, rose, more or less adequately
amid the difficulties of the way, to the dream of perfect music in the soul
within him. The vast crowd, including the soldiers of the triumphant army, now
restored to wives and children, all alike in holiday whiteness, had left their
houses early in the fine, dry morning, in a real affection for “the father of
his country,” to await the procession, the two princes having spent the
preceding night outside the walls, at the old Villa of the Republic. Marius,
full of curiosity, had taken his position with much care; and stood to see the
world’s masters pass by, at an angle from which he could command the view of a
great part of the processional route, sprinkled with fine yellow sand, and
punctiliously guarded from profane footsteps. The coming of the pageant
was announced by the clear sound of the flutes, heard at length above the
acclamations of the people—Salve Imperator!—Dii te servent!—shouted in regular
time, over the hills. It was on the central figure, of course, that the whole
attention of Marius was fixed from the moment when the procession came in
sight, preceded by the lictors with gilded fasces, the imperial image-bearers,
and the pages carrying lighted torches; a band of knights, among whom was
Cornelius in complete military, array, following. Amply swathed about in the
folds of a richly worked toga, after a manner now long since become obsolete
withmeaner persons, Marius beheld a man of about five-and-forty years of age,
with prominent eyes—eyes, which although demurely downcast during this
essentially religious ceremony, were by nature broadly and benignantly
observant. He was still, in the main, as we see him in the busts which
represent his gracious and courtly youth, when Hadrian had playfully called
him, not Verus, after the name of his father, but Verissimus, for his
candour of gaze, and the bland capacity of the brow, which, below the brown
hair, clustering thickly as of old, shone out low, broad, and clear, and still
without a trace of the trouble of his lips. You saw the brow of one who, amid
the blindness or perplexity of the people about him, understood all things
clearly; the dilemma, to which his experience so far had brought
him, between Chance with meek resignation, and a Providence with boundless
possibilities and hope, being for him at least distinctly defined. That
outward serenity, which he valued so highly as a point of manner or expression
not unworthy the care of a public minister—outward symbol, it might be thought,
of the inward religious serenity it had been his constant purpose to
maintain—was increased to-day by his sense of the gratitude of his people; that
his life had been one of such gifts and blessings as made his person seem in
very deed divine to them. Yet the cloud of some reserved internal sorrow,
passing from time to time into an expression of fatigue and effort, of
loneliness amid the shouting multitude, might have been detected there by the
more observant—as if the sagacious hint of one of his officers, “The soldiers
can’t understand you, they don’t know Greek,” were applicable always to his
relationships with other people. The nostrils and mouth seemed capable almost
of peevishness; and Marius noted in them, as in the hands, and in the spare
body generally, what was new to his experience—something of asceticism, as
we say, of a bodily gymnastic, by which, although it told pleasantly in the
clear blue humours of the eye, the flesh had scarcely been an equal gainer with
the spirit. It was hardly the expression of “the healthy mind in the healthy
body,” but rather of a sacrifice of the body to the soul, its needs and
aspirations, that Marius seemed to divine in this assiduous student of the
Greek sages—a sacrifice, in truth, far beyond the demands of their very saddest
philosophy of life. Dignify thyself with modesty and simplicity for thine
ornaments!—had been ever a maxim with this dainty and high -bred Stoic,
who still thought manners a true part of morals, according to the old sense of
the term, and who regrets now and again that he cannot control his thoughts
equally well with his countenance. That outward composure was deepened during
the solemnities of this day by an air of pontifical abstraction; which, though
very far from being pride—nay, a sort of humility rather—yet gave, to himself,
an air of unapproachableness, and to his whole proceeding, in which every
minutest act was considered, the character of a ritual. Certainly, there was no
haughtiness, social, moral, or even philosophic, in Aurelius, who had realised,
under more trying conditions perhaps than any one before, that no element of
humanity could be alien from him. Yet, as he walked to-day, the centre of ten
thousand observers, with eyes discreetly fixed on the ground, veiling his head
at times and muttering very rapidly the words of the “supplications,” there was
something many spectators may have noted as a thing new in their experience,
for Aurelius, unlike his predecessors, took all this with absolute seriousness.
The doctrine of the sanctity of kings, that, in the words of Tacitus, Princes
are as Gods—Principes instar deorum esse—seemed to have taken a novel, because
a literal, sense. For Aurelius, indeed, the old legend of his descent from
Numa, from Numa who had talked with the gods, meant much. Attached in very
early years to the service of the altars, like many another noble youth, he was
“observed to perform all his sacerdotal functions with a constancy and
exactness unusual at that age; was soon a master of the sacred music; and had
all the forms and ceremonies by heart.” And now, as the emperor, who had not
only a vague divinity about his person, but was actually the chief religious
functionary of the state, recited from time to time the forms of invocation, he
needed not the help of the prompter, or ceremoniarius, who then approached, to
assist him by whispering the appointed words in his ear. It was that pontifical
abstraction which then impressed itself on Marius as the leading outward
characteristic of Aurelius; though to him alone, perhaps, in that vast crowd of
observers, it was no strange thing, but a matter he had understood from of
old. Some fanciful writers have assigned the origin of these triumphal
processions to the mythic pomps of Dionysus, after his conquests in the East;
the very word Triumph being, according to this supposition, only Thriambos-the
Dionysiac Hymn. And certainly the younger of the two imperial “brothers,” who,
with the effect of a strong contrast, walked beside Aurelius, and shared the
honours of the day, might well have reminded people of the delicate Greek god
of flowers and wine. This new conqueror of the East was now about thirty-six
years old, but with his scrupulous care for all the advantages of his person,
and a soft curling beard powdered with gold, looked many years younger. One
result of the more genial element in the wisdom of Aurelius had been that, amid
most difficult circumstances, he had known throughout life how to act in union
with persons of character very alien from his own; to be more than loyal to the
colleague, the younger brother in empire, he had too lightly taken to himself,
five years before, then an uncorrupt youth, “skilled in manly exercises and fitted
for war.” When Aurelius thanks the gods that a brother had fallen to his lot,
whose character was a stimulus to the proper care of his own, one sees that
this could only have happened in the way of an example, putting him on his
guard against insidious faults. But it is with sincere amiability that the
imperial writer, who was indeed little used to be ironical, adds that the
lively respect and affection of the junior had often “gladdened” him. To be
able to make his use of the flower, when the fruit perhaps was useless or
poisonous:—that was one of the practical successes of his philosophy; and his
people noted, with a blessing, “the concord of the two Augusti.” The
younger, certainly, possessed in full measure that charm of a constitutional
freshness of aspect which may defy for a long time extravagant or erring habits
of life; a physiognomy, healthy-looking, cleanly, and firm, which seemed
unassociable with any form of self-torment, and made one think of the muzzle of
some young hound or roe, such as human beings invariably like to stroke—a
physiognomy, in effect, with all the goodliness of animalism of the finer sort,
though still wholly animal. The charm was that of the blond head, the
unshrinking gaze, the warm tints: neither more nor less than one may see every
English summer, in youth, manly enough, and with the stuff which makes brave
soldiers, in spite of the natural kinship it seems to have with playthings and
gay flowers. But innate in Lucius Verus there was that more than womanly
fondness for fond things, which had made the atmosphere of the old city of
Antioch, heavy with centuries of voluptuousness, a poison to him: he had come
to love his delicacies best out of season, and would have gilded the very
flowers. But with a wonderful power of self-obliteration, the elder brother at
the capital had directed his procedure successfully, and allowed him, become
now also the husband of his daughter Lucilla, the credit of a “Conquest,”
though Verus had certainly not returned a conqueror over himself. He had
returned, as we know, with the plague in his company, along with many another
strange creature of his folly; and when the people saw him publicly feeding his
favourite horse Fleet with almonds and sweet grapes, wearing the animal’s image
in gold, and finally building it a tomb, they felt, with some un-sentimental
misgiving, that he might revive the manners of Nero.—What if, in the chances of
war, he should survive the protecting genius of that elder brother? He
was all himself to-day: and it was with much wistful curiosity that Marius
regarded him. For Lucius Verus was, indeed, but the highly expressive type of a
class,—the true son of his father, adopted by Hadrian. Lucius Verus the elder,
also, had had the like strange capacity for misusing the adornments of life,
with a masterly grace; as if such misusing were, in truth, the quite adequate
occupation of an intelligence, powerful, but distorted by cynical philosophy or
some disappointment of the heart. It was almost a sort of genius, of which
there had been instances in the imperial purple: it was to ascend the throne, a
few years later, in the person of one, now a hopeful little lad at home in the
palace; and it had its following, of course, among the wealthy youth at Rome,
who concentrated no inconsiderable force of shrewdness and tact upon minute
details of attire and manner, as upon the one thing needful. Certainly, flowers
were pleasant to the eye. Such things had even their sober use, as making the
outside of human life superficially attractive, and thereby promoting the first
steps towards friendship and social amity. But what precise place could there
be for Verus and his peculiar charm, in that Wisdom, that Order of divine
Reason “reaching from end to end, strongly and sweetly disposing all things,”
from the vision of which Aurelius came down, so tolerant of persons like him?
Into such vision Marius too was certainly well-fitted to enter, yet, noting the
actual perfection of Lucius Verus after his kind, his undeniable achievement of
the select, in all minor things, felt, though with some suspicion of himself,
that he entered into, and could understand, this other so dubious sort of
character also. There was a voice in the theory he had brought to Rome with him
which whispered “nothing is either great nor small;” as there were times when
he could have thought that, as the “grammarian’s” or the artist’s ardour of
soul may be satisfied by the perfecting of the theory of a sentence, or the
adjustment of two colours, so his own life also might have been fulfilled by an
enthusiastic quest after perfection—say, in the flowering and folding of a
toga. The emperors had burned incense before the image of Jupiter,
arrayed in its most gorgeous apparel, amid sudden shouts from the people of
Salve Imperator! turned now from the living princes to the deity, as they
discerned his countenance through the great open doors. The imperial brothers
had deposited their crowns of myrtle on the richly embroidered lapcloth of the
god; and, with their chosen guests, sat down to a public feast in the temple
itself. There followed what was, after all, the great event of the day:—an
appropriate discourse, a discourse almost wholly de contemptu mundi, delivered
in the presence of the assembled Senate, by the emperor Aurelius, who had thus,
on certain rare occasions, condescended to instruct his people, with the double
authority of a chief pontiff and a laborious student of philosophy. In those
lesser honours of the ovation, there had been no attendant slave behind the
emperors, to make mock of their effulgence as they went; and it was as if with
the discretion proper to a philosopher, and in fear of a jealous Nemesis, he
had determined himself to protest in time against the vanity of all outward
success. The Senate was assembled to hear the emperor’s discourse in the
vast hall of the Curia Julia. A crowd of high-bred youths idled around, or on
the steps before the doors, with the marvellous toilets Marius had noticed in
the Via Nova; in attendance, as usual, to learn by observation the minute
points of senatorial procedure. Marius had already some acquaintance with them,
and passing on found himself suddenly in the presence of what was still the
most august assembly the world had seen. Under Aurelius, ever full of
veneration for this ancient traditional guardian of public religion, the Senate
had recovered all its old dignity and independence. Among its members many
hundreds in number, visibly the most distinguished of them all, Marius noted
the great sophists or rhetoricians of the day, in all their magnificence. The
antique character of their attire, and the ancient mode of wearing it, still
surviving with them, added to the imposing character of their persons, while
they sat, with their staves of ivory in their hands, on their curule chairs—almost
the exact pattern of the chair still in use in the Roman church when a Bishop
pontificates at the divine offices—“tranquil and unmoved, with a majesty that
seemed divine,” as Marius thought, like the old Gaul of the Invasion. The rays
of the early November sunset slanted full upon the audience, and made it
necessary for the officers of the Court to draw the purple curtains over the
windows, adding to the solemnity of the scene. In the depth of those warm
shadows, surrounded by her ladies, the empress Faustina was seated to listen.
The beautiful Greek statue of Victory, which since the days of Augustus had
presided over the assemblies of the Senate, had been brought into the hall, and
placed near the chair of the emperor; who, after rising to perform a brief
sacrificial service in its honour, bowing reverently to the assembled fathers
left and right, took his seat and began to speak. There was a certain
melancholy grandeur in the very simplicity or triteness of the theme: as it
were the very quintessence of all the old Roman epitaphs, of all that was
monumental in that city of tombs, layer upon layer of dead things and people.
As if in the very fervour of disillusion, he seemed to be composing—Hôsper
epigraphas chronôn kai holôn ethnôn+—the sepulchral titles of ages and whole
peoples; nay! the very epitaph of the living Rome itself. The grandeur of the
ruins of Rome,—heroism in ruin: it was under the influence of an imaginative
anticipation of this, that he appeared to be speaking. And though the impression
of the actual greatness of Rome on that day was but enhanced by the strain of
contempt, falling with an accent of pathetic conviction from the emperor
himself, and gaining from his pontifical pretensions the authority of a
religious intimation, yet the curious interest of the discourse lay in this,
that Marius, for one, as he listened, seemed to forsee a grass-grown Forum, the
broken ways of the Capitol, and the Palatine hill itself in humble occupation.
That impression connected itself with what he had already noted of an actual
change even then coming over Italian scenery. Throughout, he could trace
something of a humour into which Stoicism at all times tends to fall, the
tendency to cry, Abase yourselves! There was here the almost inhuman impassibility
of one who had thought too closely on the paradoxical aspect of the love of
posthumous fame. With the ascetic pride which lurks under all Platonism,
resultant from its opposition of the seen to the unseen, as falsehood to
truth—the imperial Stoic, like his true descendant, the hermit of the middle
age, was ready, in no friendly humour, to mock, there in its narrow bed, the
corpse which had made so much of itself in life. Marius could but contrast all
that with his own Cyrenaic eagerness, just then, to taste and see and touch;
reflecting on the opposite issues deducible from the same text. “The world,
within me and without, flows away like a river,” he had said; “therefore let me
make the most of what is here and now.”—“The world and the thinker upon it, are
consumed like a flame,” said Aurelius, “therefore will I turn away my eyes from
vanity: renounce: withdraw myself alike from all affections.” He seemed tacitly
to claim as a sort of personal dignity, that he was very familiarly versed in
this view of things, and could discern a death’s-head everywhere. Now and again
Marius was reminded of the saying that “with the Stoics all people are the
vulgar save themselves;” and at times the orator seemed to have forgotten his
audience, and to be speaking only to himself. “Art thou in love with
men’s praises, get thee into the very soul of them, and see!—see what judges
they be, even in those matters which concern themselves. Wouldst thou have
their praise after death, bethink thee, that they who shall come hereafter, and
with whom thou wouldst survive by thy great name, will be but as these, whom
here thou hast found so hard to live with. For of a truth, the soul of him who
is aflutter upon renown after death, presents not this aright to itself, that
of all whose memory he would have each one will likewise very quickly depart,
until memory herself be put out, as she journeys on by means of such as are
themselves on the wing but for a while, and are extinguished in their
turn.—Making so much of those thou wilt never see! It is as if thou wouldst
have had those who were before thee discourse fair things concerning
thee. “To him, indeed, whose wit hath been whetted by true doctrine, that
well-worn sentence of Homer sufficeth, to guard him against regret and fear.—
Like the race of leaves The race of man is:— The wind in autumn strows The
earth with old leaves: then the spring the woods with new
endows.+ Leaves! little leaves!—thy children, thy flatterers, thine
enemies! Leaves in the wind, those who would devote thee to darkness, who scorn
or miscall thee here, even as they also whose great fame shall outlast them.
For all these, and the like of them, are born indeed in the spring season—Earos
epigignetai hôrê+: and soon a wind hath scattered them, and thereafter the wood
peopleth itself again with another generation of leaves. And what is common to
all of them is but the littleness of their lives: and yet wouldst thou love and
hate, as if these things should continue for ever. In a little while thine eyes
also will be closed, and he on whom thou perchance hast leaned thyself be
himself a burden upon another. “Bethink thee often of the swiftness with
which the things that are, or are even now coming to be, are swept past thee:
that the very substance of them is but the perpetual motion of water: that
there is almost nothing which continueth: of that bottomless depth of time, so
close at thy side. Folly! to be lifted up, or sorrowful, or anxious, by reason
of things like these! Think of infinite matter, and thy portion—how tiny a
particle, of it! of infinite time, and thine own brief point there; of destiny,
and the jot thou art in it; and yield thyself readily to the wheel of Clotho,
to spin of thee what web she will. “As one casting a ball from his hand,
the nature of things hath had its aim with every man, not as to the ending
only, but the first beginning of his course, and passage thither. And hath the
ball any profit of its rising, or loss as it descendeth again, or in its fall?
or the bubble, as it groweth or breaketh on the air? or the flame of the lamp,
from the beginning to the end of its brief story? “All but at this
present that future is, in which nature, who disposeth all things in order,
will transform whatsoever thou now seest, fashioning from its substance
somewhat else, and therefrom somewhat else in its turn, lest the world grow
old. We are such stuff as dreams are made of—disturbing dreams. Awake, then!
and see thy dream as it is, in comparison with that erewhile it seemed to thee.
“And for me, especially, it were well to mind those many mutations of empire in
time past; therein peeping also upon the future, which must needs be of like
species with what hath been, continuing ever within the rhythm and number of
things which really are; so that in forty years one may note of man and of his
ways little less than in a thousand. Ah! from this higher place, look we down
upon the ship-wrecks and the calm! Consider, for example, how the world went,
under the emperor Vespasian. They are married and given in marriage, they breed
children; love hath its way with them; they heap up riches for others or for
themselves; they are murmuring at things as then they are; they are seeking for
great place; crafty, flattering, suspicious, waiting upon the death of others:—festivals,
business, war, sickness, dissolution: and now their whole life isno longer
anywhere at all. Pass on to the reign of Trajan: all things continue the same:
and that life also is no longer anywhere at all. Ah! but look again, and
consider, one after another, as it were the sepulchral inscriptions of all
peoples and times, according to one pattern.—What multitudes, after their
utmost striving—a little afterwards! were dissolved again into their
dust. “Think again of life as it was far off in the ancient world; as it
must be when we shall be gone; as it is now among the wild heathen. How many
have never heard your names and mine, or will soon forget them! How soon may
those who shout my name to-day begin to revile it, because glory, and the memory
of men, and all things beside, are but vanity—a sand-heap under the senseless
wind, the barking of dogs, the quarrelling of children, weeping incontinently
upon their laughter. “This hasteth to be; that other to have been: of
that which now cometh to be, even now somewhat hath been extinguished. And wilt
thou make thy treasure of any one of these things? It were as if one set his
love upon the swallow, as it passeth out of sight through the air!
“Bethink thee often, in all contentions public and private, of those whom men
have remembered by reason of their anger and vehement spirit—those famous
rages, and the occasions of them—the great fortunes, and misfortunes, of men’s
strife of old. What are they all now, and the dust of their battles? Dust and
ashes indeed; a fable, a mythus, or not so much as that. Yes! keep those before
thine eyes who took this or that, the like of which happeneth to thee, so
hardly; were so querulous, so agitated. And where again are they? Wouldst thou
have it not otherwise with thee? Consider how quickly all things vanish
away—their bodily structure into the general substance; the very memory of them
into that great gulf and abysm of past thoughts. Ah! ’tis on a tiny space of
earth thou art creeping through life—a pigmy soul carrying a dead body to its
grave. “Let death put thee upon the consideration both of thy body and
thy soul: what an atom of all matter hath been distributed to thee; what a
little particle of the universal mind. Turn thy body about, and consider what
thing it is, and that which old age, and lust, and the languor of disease can
make of it. Or come to its substantial and causal qualities, its very type:
contemplate that in itself, apart from the accidents of matter, and then
measure also the span of time for which the nature of things, at the longest,
will maintain that special type. Nay! in the very principles and first
constituents of things corruption hath its part—so much dust, humour,
stench , and scraps of bone! Consider that thy marbles are but the earth’s
callosities, thy gold and silver its faeces; this silken robe but a worm’s
bedding, and thy purple an unclean fish. Ah! and thy life’s breath is not
otherwise, as it passeth out of matters like these, into the like of them
again. “For the one soul in things, taking matter like wax in the hands,
moulds and remoulds—how hastily!—beast, and plant, and the babe, in turn: and
that which dieth hath not slipped out of the order of nature, but, remaining
therein, hath also its changes there, disparting into those elements of
which nature herself, and thou too, art compacted. She changes without
murmuring. The oaken chest falls to pieces with no more complaining than when
the carpenter fitted it together. If one told thee certainly that on the morrow
thou shouldst die, or at the furthest on the day after, it would be no great
matter to thee to die on the day after to-morrow, rather than to-morrow. Strive
to think it a thing no greater that thou wilt die—not to-morrow, but a year, or
two years, or ten years f rom to-day. “I find that all things are
now as they were in the days of our buried ancestors—all things sordid in their
elements, trite by long usage, and yet ephemeral. How ridiculous, then, how
like a countryman in town, is he, who wonders at aught. Doth the sameness, the
repetition of the public shows, weary thee? Even so doth that likeness of
events in the spectacle of the world. And so must it be with thee to the end.
For the wheel of the world hath ever the same motion, upward and downward, from
generation to generation. When, when, shall time give place to eternity?
“If there be things which trouble thee thou canst put them away, inasmuch as
they have their being but in thine own notion concerning them. Consider what
death is, and how, if one does but detach from it the appearances, the notions,
that hang about it, resting the eye upon it as in itself it really is, it must
be thought of but as an effect of nature, and that man but a child whom an
effect of nature shall affright. Nay! not function and effect of nature, only;
but a thing profitable also to herself. “To cease from action—the ending
of thine effort to think and do: there is no evil in that. Turn thy thought to
the ages of man’s life, boyhood, youth, maturity, old age: the change in every
one of these also is a dying, but evil nowhere. Thou climbedst into the ship,
thou hast made thy voyage and touched the shore. Go forth now! Be it into some
other life: the divine breath is everywhere, even there. Be it into
forgetfulness for ever; at least thou wilt rest from the beating of sensible
images upon thee, from the passions which pluck thee this way and that like an
unfeeling toy, from those long marches of the intellect, from thy toilsome
ministry to the flesh. “Art thou yet more than dust and ashes and bare
bone—a name only, or not so much as that, which, also, is but whispering and a
resonance, kept alive from mouth to mouth of dying abjects who have hardly
known themselves; how much less thee, dead so long ago! “When thou
lookest upon a wise man, a lawyer, a captain of war, think upon another gone.
When thou seest thine own face in the glass, call up there before thee one of
thine ancestors—one of those old Caesars. Lo! everywhere, thy double before
thee! Thereon, let the thought occur to thee: And where are they? anywhere at
all, for ever? And thou, thyself—how long? Art thou blind to that thou art—thy
matter, how temporal; and thy function, the nature of thy business? Yet tarry,
at least, till thou hast assimilated even these things to thine own proper
essence, as a quick fire turneth into heat and light whatsoever be cast upon
it. “As words once in use are antiquated to us, so is it with the names
that were once on all men’s lips: Camillus, Volesus, Leonnatus: then, in a
little while, Scipio and Cato, and then Augustus, and then Hadrian, and then
Antoninus Pius. How many great physicians who lifted wise brows at other men’s
sick-beds, have sickened and died! Those wise Chaldeans, who foretold, as a
great matter, another man’s last hour, have themselves been taken by surprise.
Ay! and all those others, in their pleasant places: those who doated on a
Capreae like Tiberius, on their gardens, on the baths: Pythagoras and Socrates,
who reasoned so closely upon immortality: Alexander, who used the lives of
others as though his own should last for ever—he and his mule-driver alike
now!—one upon another. Well-nigh the whole court of Antoninus is extinct.
Panthea and Pergamus sit no longer beside the sepulchre of their lord. The
watchers over Hadrian’s dust have slipped from his sepulchre.—It were jesting
to stay longer. Did they sit there still, would the dead feel it? or feeling
it, be glad? or glad, hold those watchers for ever? The time must come when
they too shall be aged men and aged women, and decease, and fail from their
places; and what shift were there then for imperial service? This too is but
the breath of the tomb, and a skinful of dead men’s blood. “Think again
of those inscriptions, which belong not to one soul only, but to whole families:
Eschatos tou idiou genous:+ He was the last of his race. Nay! of the burial of
whole cities: Helice, Pompeii: of others, whose very burial place is
unknown. “Thou hast been a citizen in this wide city. Count not for how
long, nor repine; since that which sends thee hence is no unrighteous judge, no
tyrant, but Nature, who brought thee hither; as when a player leaves the stage
at the bidding of the conductor who hired him. Sayest thou, ‘I have not played
five acts’? True! but in human life, three acts only make sometimes an entire
play. That is the composer’s business, not thine. Withdraw thyself with a good
will; for that too hath, perchance, a good will which dismisseth thee from thy
part.” The discourse ended almost in darkness, the evening having set in
somewhat suddenly, with a heavy fall of snow. The torches, made ready to do him
a useless honour, were of real service now, as the emperor was solemnly
conducted home; one man rapidly catching light from another—a long stream of
moving lights across the white Forum, up the great stairs, to the palace. And,
in effect, that night winter began, the hardest that had been known for a
lifetime. The wolves came from the mountains; and, led by the carrion scent,
devoured the dead bodies which had been hastily buried during the plague, and,
emboldened by their meal, crept, before the short day was well past, over the
walls of the farmyards of the Campagna. The eagles were seen driving the flocks
of smaller birds across the dusky sky. Only, in the city itself the winter was
all the brighter for the contrast, among those who could pay for light and
warmth. The habit-makers made a great sale of the spoil of all such furry
creatures as had escaped wolves and eagles, for presents at the Saturnalia; and
at no time had the winter roses from Carthage seemed more lustrously yellow and
red. NOTES 188. +Spenser, Shepheardes Calendar, October,
61-66. 200. +Transliteration: Hôsper epigraphas chronôn kai holôn
ethnôn. Pater’s Translation: “the sepulchral titles of ages and whole
peoples.” 202. +Homer, Iliad VI.146-48. 202.
+Transliteration: Earos epigignetai hôrê. Translation: “born in springtime.”
Homer, Iliad VI.147. 210. +Transliteration: Eschatos tou idiou
genous. Translation: “He was the last of his race.” After that sharp,
brief winter, the sun was already at work, softening leaf and bud, as you might
feel by a faint sweetness in the air; but he did his work behind an evenly
white sky, against which the abode of the Caesars, its cypresses and bronze
roofs, seemed like a picture in beautiful but melancholy colour, as Marius
climbed the long flights of steps to be introduced to the emperor Aurelius.
Attired in the newest mode, his legs wound in dainty fasciae of white leather,
with the heavy gold ring of the ingenuus, and in his toga of ceremony, he still
retained all his country freshness of complexion. The eyes of the “golden
youth” of Rome were upon him as the chosen friend of Cornelius, and the
destined servant of the emperor; but not jealously. In spite of, perhaps partly
because of, his habitual reserve of manner, he had become “the fashion,” even
among those who felt instinctively the irony which lay beneath that remarkable
self-possession, as of one taking all things with a difference from other
people, perceptible in voice, in expression, and even in his dress. It was, in
truth, the air of one who, entering vividly into life, and relishing to the
full the delicacies of its intercourse, yet feels all the while, from the point
of view of an ideal philosophy, that he is but conceding reality to
suppositions, choosing of his own will to walk in a day-dream, of the
illusiveness of which he at least is aware. In the house of the chief
chamberlain Marius waited for the due moment of admission to the emperor’s presence.
He was admiring the peculiar decoration of the walls, coloured like rich old
red leather. In the midst of one of them was depicted, under a trellis of fruit
you might have gathered, the figure of a woman knocking at a door with
wonderful reality of perspective. Then the summons came; and in a few minutes,
the etiquette of the imperial household being still a simple matter, he had
passed the curtains which divided the central hall of the palace into three
parts—three degrees of approach to the sacred person—and was speaking to
Aurelius himself; not in Greek, in which the emperor oftenest conversed with
the learned, but, more familiarly, in Latin, adorned however, or disfigured, by
many a Greek phrase, as now and again French phrases have made the adornment of
fashionable English. It was with real kindliness that Marcus Aurelius looked
upon Marius, as a youth of great attainments in Greek letters and philosophy;
and he liked also his serious expression, being, as we know, a believer in the
doctrine of physiognomy—that, as he puts it, not love only, but every other
affection of man’s soul, looks out very plainly from the window of the
eyes. The apartment in which Marius found himself was of ancient aspect,
and richly decorated with the favourite toys of two or three generations of
imperial collectors, now finally revised by the high connoisseurship of the
Stoic emperor himself, though destined not much longer to remain together
there. It is the repeated boast of Aurelius that he had learned from old
Antoninus Pius to maintain authority without the constant use of guards, in a
robe woven by the handmaids of his own consort, with no processional lights or
images, and “that a prince may shrink himself almost into the figure of a
private gentleman.” And yet, again as at his first sight of him, Marius was
struck by the profound religiousness of the surroundings of the imperial
presence. The effect might have been due in part to the very simplicity, the
discreet and scrupulous simplicity, of the central figure in this splendid
abode; but Marius could not forget that he saw before him not only the head of
the Romanreligion, but one who might actually have claimed something like
divine worship, had he cared to do so. Though the fantastic pretensions of
Caligula had brought some contempt on that claim, which had become almost a
jest under the ungainly Claudius, yet, from Augustus downwards, a vague
divinity had seemed to surround the Caesars even in this life; and the peculiar
character of Aurelius, at once a ceremonious polytheist never forgetful of his
pontifical calling, and a philosopher whose mystic speculation encircled him
with a sort of saintly halo, had restored to his person, without his intending
it, something of that divine prerogative, or prestige. Though he would never
allow the immediate dedication of altars to himself, yet the image of his
Genius—his spirituality or celestial counterpart—was placed among those of the
deified princes of the past; and his family, including Faustina and the young
Commodus, was spoken of as the “holy” or “divine” house. Many a Roman courtier
agreed with the barbarian chief, who, after contemplating a predecessor of
Aurelius, withdrew from his presence with t he exclamation:—“I have seen a
god to-day!” The very roof of his house, rising into a pediment or gable, like
that of the sanctuary of a god, the laurels on either side its doorway, the
chaplet of oak-leaves above, seemed to designate the place for religious
veneration. And notwithstanding all this, the household of Aurelius was singularly
modest, with none of the wasteful expense of palaces after the fashion of Lewis
the Fourteenth; the palatial dignity being felt only in a peculiar sense of
order, the absence of all that was casual, of vulgarity and discomfort. A
merely official residence of his predecessors, the Palatine had become the
favourite dwelling-place of Aurelius; its many-coloured memories suiting,
perhaps, his pensive character, and the crude splendours of Nero and Hadrian
being now subdued by time. The window-less Roman abode must have had much of
what toa modern would be gloom. How did the children, one wonders, endure
houses with so little escape for the eye into the world outside? Aurelius, who
had altered little else, choosing to live there, in a genuine homeliness, had
shifted and made the most of the level lights, and broken out a quite medieval
window here and there, and the clear daylight, fully appreciated by his
youthful visitor, made pleasant shadows among the objects of the imperial
collection. Some of these, indeed, by reason of their Greek simplicity and
grace, themselves shone out like spaces of a purer, early light, amid the
splendours of the Roman manufacture. Though he looked, thought Marius,
like a man who did not sleep enough, he was abounding and bright to-day, after
one of those pitiless headaches, which since boyhood had been the “thorn in his
side,” challenging the pretensions of his philosophy to fortify one in humble
endurances. At the first moment, to Marius, remembering the spectacle of the emperor
in ceremony, it was almost bewildering to be in private conversation with him.
There was much in the philosophy of Aurelius—much consideration of mankind at
large, of great bodies, aggregates and generalities, after the Stoic
manner—which, on a nature less rich than his, might have acted as an inducement
to care for people in inverse proportion to their nearness to him. That has
sometimes been the result of the Stoic cosmopolitanism. Aurelius, however,
determined to beautify by all means, great or little, a doctrine which had in
it some potential sourness, had brought all the quickness of his intelligence,
and long years of observation, to bear on the conditions of social intercourse.
He had early determined “not to make business an excuse to decline the offices
of humanity—not to pretend to be too much occupied with important affairs to
concede what life with others may hourly demand;” and with such success, that,
in an age which made much of the finer points of that intercourse, it was felt
that the mere honesty of his conversation was more pleasing than other men’s
flattery. His agreeableness to his young visitor to-day was, in truth, a
blossom of the same wisdom which had made of Lucius Verus really a brother—the
wisdom of not being exigent with men, any more than with fruit-trees (it is his
own favourite figure) beyond their nature. And there was another person, still
nearer to him, regarding whom this wisdom became a marvel, of equity—of
charity. The centre of a group of princely children, in the same
apartment with Aurelius, amid all the refined intimacies of a modern home, sat
the empress Faustina, warming her hands over a fire. With her long fingers
lighted up red by the glowing coals of the brazier Marius looked close upon the
most beautiful woman in the world, who was also the great paradox of the age,
among her boys and girls. As has been truly said of the numerous
representations of her in art, so in life, she had the air of one curious,
restless, to enter into conversation with the first comer. She had certainly
the power of stimulating a very ambiguous sort of curiosity about herself. And
Marius found this enigmatic point in her expression, that even after seeing her
many times he could never precisely recall her features in absence. The lad of
six years, looking older, who stood beside her, impatiently plucking a rose to
pieces over the hearth, was, in outward appearance, his father—the young
Verissimus—over again; but with a certain feminine length of feature, and with
all his mother’s alertness, or license, of gaze. Yet rumour knocked at
every door and window of the imperial house regarding the adulterers who
knocked at them, or quietly left their lovers’ garlands there. Was not that
likeness of the husband, in the boy beside her, really the effect of a shameful
magic, in which the blood of the murdered gladiator, his true father, had been
an ingredient? Were the tricks for deceiving husbands which the Roman poet
describes, really hers, and her household an efficient school of all the arts of
furtive love? Or, was the husband too aware, like every one beside? Were
certain sudden deaths which happened there, really the work of apoplexy, or the
plague? The man whose ears, whose soul, those rumours were meant to
penetrate, was, however, faithful to his sanguine and optimist philosophy, to
his determination that the world should be to him simply what the higher reason
preferred to conceive it; and the life’s journey Aurelius had made so far,
though involving much moral and intellectual loneliness, had been ever in
affectionate and helpful contact with other wayfarers, very unlike himself.
Since his days of earliest childhood in the Lateran gardens, he seemed to
himself, blessing the gods for it after deliberate survey, to have been always
surrounded by kinsmen, friends, servants, of exceptional virtue. From the great
Stoic idea, that we are all fellow-citizens of one city, he had derived a
tenderer, a more equitable estimate than was common among Stoics, of the
eternal shortcomings of men and women. Considerations that might tend to the
sweetening of his temper it was his daily care to store away, with a kind of
philosophic pride in the thought that no one took more good-naturedly than he
the “oversights” of his neighbours. For had not Plato taught (it was not
paradox, but simple truth of experience) that if people sin, it is because they
know no better, and are “under the necessity of their own ignorance”? Hard to
himself, he seemed at times, doubtless, to decline too softly upon unworthy
persons. Actually, he came thereby upon many a useful instrument. The empress
Faustina he would seem at least to have kept, by a constraining affection, from
becoming altogether what most people have believed her, and won in her (we must
take him at his word in the “Thoughts,” abundantly confirmed by letters, on
both sides, in his correspondence with Cornelius Fronto) a consolation, the
more secure, perhaps, because misknown of others. Was the secret of her actual
blamelessness, after all, with him who has at least screened her name? At all
events, the one thing quite certain about her, besides her extraordinary
beauty, is her sweetness to himself. No! The wise, who had made due
observation on the trees of the garden, would not expect to gather grapes of
thorns or fig-trees: and he was the vine, putting forth his genial fruit, by
natural law, again and again, after his kind, whatever use people might make of
it. Certainly, his actual presence never lost its power, and Faustina was glad
in it to-day, the birthday of one of her children, a boy who stood at her knee
holding in his fingers tenderly a tiny silver trumpet, one of his birthday
gifts.—“For my part, unless I conceive my hurt to be such, I have no hurt at
all,”—boasts the would-be apathetic emperor:—“and how I care to conceive of the
thing rests with me.” Yet when his children fall sick or die, this pretence
breaks down, and he is broken-hearted: and one of the charms of certain of his
letters still extant, is his reference to those childish sicknesses.—“On my return
to Lorium,” he writes, “I found my little lady—domnulam meam—in a fever;” and
again, in a letter to one of the most serious of men, “You will be glad to hear
that our little one is better, and running about the room—parvolam nostram
melius valere et intra cubiculum discurrere.” The young Commodus had
departed from the chamber, anxious to witness the exercises of certain
gladiators, having a native taste for such company, inherited, according to
popular rumour, from his true father—anxious also to escape from the too
impressive company of the gravest and sweetest specimen of old age Marius had
ever seen, the tutor of the imperial children, who had arrived to offer his
birthday congratulations, and now, very familiarly and affectionately, made a part
of the group, falling on the shoulders of the emperor, kissing the empress
Faustina on the face, the little ones on the face and hands. Marcus Cornelius
Fronto, the “Orator,” favourite teacher of the emperor’s youth, afterwards his
most trusted counsellor, and now the undisputed occupant of the sophistic
throne, whose equipage, elegantly mounted with silver, Marius had seen in the
streets of Rome, had certainly turned his many personal gifts to account with a
good fortune, remarkable even in that age, so indulgent to professors or
rhetoricians. The gratitude of the emperor Aurelius, always generous to his
teachers, arranging their very quarrels sometimes, for they were not always
fair to one another, had helped him to a really great place in the world. But
his sumptuous appendages, including the villa and gardens of Maecenas, had been
borne with an air perfectly becoming, by the professor of a philosophy which,
even in its most accomplished and elegant phase, presupposed a gentle contempt
for such things. With an intimate practical knowledge of manners,
physiognomies, smiles, disguises, flatteries, and courtly tricks of every
kind—a whole accomplished rhetoric of daily life—he applied them all to the
promotion of humanity, and especially of men’s family affection. Through a long
life of now eighty years, he had been, as it were, surrounded by the gracious
and soothing air of his own eloquence—the fame, the echoes, of it—like warbling
birds, or murmuring bees. Setting forth in that fine medium the best ideas of matured
pagan philosophy, he had become the favourite “director” of noble youth.
Yes! it was the one instance Marius, always eagerly on the look-out for such,
had yet seen of a perfectly tolerable, perfectly beautiful, old age—an old age
in which there seemed, to one who perhaps habitually over-valued
the expression of youth, nothing to be regretted, nothing really lost, in
what years had taken away. The wise old man, whose blue eyes and fair skin were
so delicate, uncontaminate and clear, would seem to have replaced carefully and
consciously each natural trait of youth, as it departed from him, by an
equivalent grace of culture; and had the blitheness, the placid cheerfulness,
as he had also the infirmity, the claim on stronger people, of a delightful
child. And yet he seemed to be but awaiting his exit from life—that moment with
which the Stoics were almost as much preoccupied as the Christians, however
differently—and set Marius pondering on the contrast between a placidity like
this, at eighty years, and the sort of desperateness he was aware of in his own
manner of entertaining that thought. His infirmities nevertheless had been
painful and long-continued, with losses of children, of pet grandchildren. What
with the crowd, and the wretched streets, it was a sign of affection which had
cost him something, for the old man to leave his own house at all that day; and
he was glad of the emperor’s support, as he moved from place to place among the
children he protests so often to have loved as his own. For a strange
piece of literary good fortune, at the beginning of the present century, has
set freethe long-buried fragrance of this famous friendship of the old world,
from below a valueless later manuscript, in a series of letters, wherein the
two writers exchange, for the most part their evening thoughts, especially at
family anniversaries, and with entire intimacy, on their children, on the art
of speech, on all the various subtleties of the “science of images”—rhetorical
images—above all, of course, on sleep and matters of health. They are full of
mutual admiration of each other’s eloquence, restless in absence till they see
one another again, noting, characteristically, their very dreams of each other,
expecting the day which will terminate the office, the business or duty, which
separates them—“as superstitious people watch for the star, at the rising of
which they may break their fast.” To one of the writers, to Aurelius, the
correspondence was sincerely of value. We see him once reading his letters with
genuine delight on going to rest. Fronto seeks to deter his pupil from writing
in Greek.—Why buy, at great cost, a foreign wine, inferior to that from one’s
own vineyard? Aurelius, on the other hand, with an extraordinary innate
susceptibility to words—la parole pour la parole, as the French say—despairs,
in presence of Fronto’s rhetorical perfection. Like the modern visitor to
the Capitoline and some other museums, Fronto had been struck, pleasantly
struck, by the family likeness among the Antonines; and it was part of his
friendship to make much of it, in the case of the children of Faustina. “Well!
I have seen the little ones,” he writes to Aurelius, then, apparently, absent
from them: “I have seen the little ones—the pleasantest sight of my life; for
they are as like yourself as could possibly be. It has well repaid me for my
journey over that slippery road, and up those steep rocks; for I beheld you,
not simply face to face before me, but, more generously, whichever way I
turned, to my right and my left. For the rest, I found them, Heaven be thanked!
with healthy cheeks and lusty voices. One was holding a slice of white bread,
like a king’s son; the other a crust of brown bread, as becomes the offspring
of a philosopher. I pray the gods to have both the sower and the seed in their
keeping; to watch over this field wherein the ears of corn are so kindly alike.
Ah! I heard too their pretty voices, so sweet that in the childish prattle of
one and the other I seemed somehow to be listening—yes! in that chirping of your
pretty chickens—to the limpid+ and harmonious notes of your own oratory. Take
care! you will find me growing independent, having those I could love in your
place:—love, on the surety of my eyes and ears.” +“Limpid” is misprinted
“Limped.” “Magistro meo salutem!” replies the Emperor, “I too have
seen my little ones in your sight of them; as, also, I saw yourself in reading
your letter. It is that charming letter forces me to write thus:” with
reiterations of affection, that is, which are continual in these letters, on
both sides, and which may strike a modern reader perhaps as fulsome; or, again,
as having something in common with the old Judaic unction of friendship. They
were certainly sincere. To one of those children Fronto had now brought the
birthday gift of the silver trumpet, upon which he ventured to blow softly now
and again, turning away with eyes delighted at the sound, when he thought the
old man was not listening. It was the well-worn, valetudinarian subject of
sleep, on which Fronto and Aurelius were talking together; Aurelius always
feeling it a burden, Fronto a thing of magic capacities, so that he had written
an encomium in its praise, and often by ingenious arguments recommends his
imperial pupil not to be sparing of it. To-day, with his younger listeners in
mind, he had a story to tell about it:— “They say that our father
Jupiter, when he ordered the world at the beginning, divided time into two
parts exactly equal: the one part he clothed with light, the other with
darkness: he called them Day and Night; and he assigned rest to the night and
to day the work of life. At that time Sleep was not yet born and men passed the
whole of their lives awake: only, the quiet of the night was ordained for them,
instead of sleep. But it came to pass, little by little, being that the minds
of men are restless, that they carried on their business alike by night as by
day, and gave no part at all to repose. And Jupiter, when he perceived that
even in the night-time they ceased not from trouble and disputation, and that
even the courts of law remained open (it was the pride of Aurelius, as Fronto
knew, to be assiduous in those courts till far into the night) resolved to
appoint one of his brothers to be the overseer of the night and have authority
over man’s rest. But Neptune pleaded in excuse the gravity of his constant
charge of the seas, and Father Dis the difficulty of keeping in subjection the
spirits below; and Jupiter, having taken counsel with the other gods, perceived
that the practice of nightly vigils was somewhat in favour. It was then, for
the most part, that Juno gave birth to her children: Minerva, the mistress of
all art and craft, loved the midnight lamp: Mars delighted in the darkness for
his plots and sallies; and the favour of Venus and Bacchus was with those who
roused by night. Then it was that Jupiter formed the design of creating Sleep;
and he added him to the number of the gods, and gave him the charge over night
and rest, putting into his hands the keys of human eyes. With his own hands he
mingled the juices wherewith Sleep should soothe the hearts of mortals—herb of
Enjoyment and herb of Safety, gathered from a grove in Heaven; and, from the
meadows of Acheron, the herb of Death; expressing from it one single drop only,
no bigger than a tear one might hide. ‘With this juice,’ he said, ‘pour slumber
upon the eyelids of mortals. So soon as it hath touched them they will lay
themselves down motionless, under thy power. But be not afraid: they shall
revive, and in a while stand up again upon their feet.’ Thereafter, Jupiter
gave wings to Sleep, attached, not, like Mercury’s, to his heels, but to his
shoulders, like the wings of Love. For he said, ‘It becomes thee not to
approach men’s eyes as with the noise of chariots, and the rushing of a swift
courser, but in placid and merciful flight, as upon the wings of a swallow—nay!
with not so much as the flutter of the dove.’ Besides all this, that he might
be yet pleasanter to men, he committed to him also a multitude of blissful
dreams, according to every man’s desire. One watched his favourite actor;
another listened to the flute, or guided a charioteer in the race: in his
dream, the soldier was victorious, the general was borne in triumph, the
wanderer returned home. Yes!—and sometimes those dreams come true! Just
then Aurelius was summoned to make the birthday offerings to his household
gods. A heavy curtain of tapestry was drawn back; and beyond it Marius gazed
for a few moments into the Lararium, or imperial chapel. A patrician youth, in
white habit, was in waiting, with a little chest in his hand containing incense
for the use of the altar. On richly carved consoles, or side boards, around
this narrow chamber, were arranged the rich apparatus of worship and the golden
or gilded images, adorned to-day with fresh flowers, among them that image of
Fortune from the apartment of Antoninus Pius, and such of the emperor’s own
teachers as were gone to their rest. A dim fresco on the wall commemorated the
ancient piety of Lucius Albinius, who in flight from Rome on the morrow of a
great disaster, overtaking certain priests on foot with their sacred utensils,
descended from the wagon in which he rode and yielded it to the ministers of
the gods. As he ascended into the chapel the emperor paused, and with a grave
but friendly look at his young visitor, delivered a parting sentence, audible
to him alone: _Imitation is the most acceptable part of worship:—the gods had
much rather mankind should resemble than flatter them. Make sure that those to
whom you come nearest be the happier by your presence!_ It was the very
spirit of the scene and the hour—the hour Marius had spent in the imperial
house. How temperate, how tranquillising! what humanity! Yet, as he left the
eminent company concerning whose ways of life at home he had been so youthfully
curious, and sought, after his manner, to determine the main trait in all this,
he had to confess that it was a sentiment of mediocrity, though of a mediocrity
for once really golden. During the Eastern war there came a moment
when schism in the empire had seemed possible through the defection of Lucius
Verus; when to Aurelius it had also seemed possible to confirm his allegiance
by no less a gift than his beautiful daughter Lucilla, the eldest of his
children—the domnula, probably, of those letters. The little lady, grown now to
strong and stately maidenhood, had been ever something of the good genius, the
better soul, to Lucius Verus, by the law of contraries, her somewhat cold and
apathetic modesty acting as counterfoil to the young man’s tigrish fervour.
Conducted to Ephesus, she had become his wife by form of civil marriage, the
more solemn wedding rites being deferred till their return to Rome. The
ceremony of the Confarreation, or religious marriage, in which bride and
bridegroom partook together of a certain mystic bread, was celebrated
accordingly, with due pomp, early in the spring; Aurelius himself assisting,
with much domestic feeling. A crowd of fashionable people filled the space
before the entrance to the apartments of Lucius on the Palatine hill, richly
decorated for the occasion, commenting, not always quite delicately, on the
various details of the rite, which only a favoured few succeeded in actually
witnessing. “She comes!” Marius could hear them say, “escorted by her young
brothers: it is the young Commodus who carries the torch of white-thornwood,
the little basket of work-things, the toys for the children:”—and then, after a
watchful pause, “she is winding the woollen thread round the doorposts. Ah! I
see the marriage-cake: the bridegroom presents the fire and water.” Then, in a
longer pause, was heard the chorus, Thalassie! Thalassie! and for just a few
moments, in the strange light of many wax tapers at noonday, Marius could see
them both, side by side, while the bride was lifted over the doorstep: Lucius
Verus heated and handsome—the pale, impassive Lucilla looking very long and
slender, in her closely folded yellow veil, and high nuptial crown. As
Marius turned away, glad to escape from the pressure of the crowd, he found
himself face to face with Cornelius, an infrequent spectator on occasions such
as this. It was a relief to depart with him—so fresh and quiet he looked,
though in all his splendid equestrian array in honour of the ceremony—from the
garish heat of the marriage scene. The reserve which had puzzled Marius so much
on his first day in Rome, was but an instance of many, to him wholly
unaccountable, avoidances alike of things and persons, which must certainly
mean that an intimate companionship would cost him something in the way of
seemingly indifferent amusements. Some inward standard Marius seemed to detect
there (though wholly unable to estimate its nature) of distinction, selection,
refusal, amid the various elements of the fervid and corrupt life across which
they were moving together:—some secret, constraining motive, ever on the alert
at eye and ear, which carried him through Rome as under a charm, so that Marius
could not but think of that figure of the white bird in the market-place as
undoubtedly made true of him. And Marius was still full of admiration for this
companion, who had known how to make himself very pleasant to him. Here was the
clear, cold corrective, which the fever of his present life demanded. Without
it, he would have felt alternately suffocated and exhausted by an existence, at
once so gaudy and overdone, and yet so intolerably empty; in which people, even
at their best, seemed only to be brooding, like the wise emperor himself, over
a world’s disillusion. For with all the severity of Cornelius, there was such a
breeze of hopefulness—freshness and hopefulness, as of new morning, about him.
For the most part, as I said, those refusals, that reserve of his, seemed
unaccountable. But there were cases where the unknown monitor acted in a
direction with which the judgment, or instinct, of Marius himself wholly
concurred; the effective decision of Cornelius strengthening him further
therein, as by a kind of outwardly embodied conscience. And the entire drift of
his education determined him, on one point at least, to be wholly of the same
mind with this peculiar friend (they two, it might be, together, against the
world!) when, alone of a whole company of brilliant youth, he had withdrawn
from his appointed place in the amphitheatre, at a grand public show, which
after an interval of many months, was presented there, in honour of the
nuptials of Lucius Verus and Lucilla. And it was still to the eye,
through visible movement and aspect, that the character, or genius of Cornelius
made itself felt by Marius; even as on that afternoon when he had girt on his
armour, among the expressive lights and shades of the dim old villa at the
roadside, and every object of his knightly array had seemed to be but sign or
symbol of some other thing far beyond it. For, consistently with his really
poetic temper, all influence reached Marius, even more exclusively than he was
aware, through th e medium of sense. From Flavian in that brief early
summer of his existence, he had derived a powerful impression of the “perpetual
flux”: he had caught there, as in cipher or symbol, or low whispers more
effective than any definite language, his own Cyrenaic philosophy, presented
thus, for the first time, in an image or person, with much attractiveness,
touched also, consequently, with a pathetic sense of personal sorrow:—a
concrete image, the abstract equivalent of which he could recognise afterwards,
when the agitating personal influence had settled down for him, clearly enough,
into a theory of practice. But of what possible intellectual formula could this
mystic Cornelius be the sensible exponent; seeming, as he did, to live ever in
close relationship with, and recognition of, a mental view, a source of
discernment, a light upon his way, which had certainly not yet sprung up for
Marius? Meantime, the discretion of Cornelius, his energetic clearness and
purity, were a charm, rather physical than moral: his exquisite correctness of
spirit, at all events, accorded so perfectly with the regular beauty of his
person, as to seem to depend upon it. And wholly different as was this later
friendship, with its exigency, its warnings, its restraints, from the feverish
attachment to Flavian, which had made him at times like an uneasy slave, still,
like that, it was a reconciliation to the world of sense, the visible world.
From the hopefulness o f this gracious presence, all visible things around
him, even the commonest objects of everyday life—if they but stood together to
warm their hands at the same fire—took for him a new poetry, a delicate fresh
bloom, and interest. It was as if his bodily eyes had been indeed mystically
washed, renewed, strengthened. And how eagerly, with what a light heart,
would Flavian have taken his placein the amphitheatre, among the youth of his
own age! with what an appetite for every detail of the entertainment, and its
various accessories:—the sunshine, filtered into soft gold by the vela, with
their serpentine patterning, spread over the more select part of the company;
the Vestal virgins, taking their privilege of seats near the empress Faustina,
who sat there in a maze of double-coloured gems, changing, as she moved, like
the waves of the sea; the cool circle of shadow, in which the wonderful toilets
of the fashionable told so effectively around the blazing arena, covered again
and again during the many hours’ show, with clean sand for the absorption of
certain great red patches there, by troops of white-shirted boys, for whom the
good-natured audience provided a scramble of nuts and small coin, flung to them
over a trellis-work of silver-gilt and amber, precious gift of Nero, while a
rain of flowers and perfume fell over themselves, as they paused between the
parts of their long feast upon the spectacle of animal suffering. During
his sojourn at Ephesus, Lucius Verus had readily become a patron, patron or
protégé, of the great goddess of Ephesus, the goddess of hunters; and the show,
celebrated by way of a compliment to him to-day, was to present some incidents
of her story, where she figures almost as the genius of madness, in animals, or
in the humanity which comes in contact with them. The entertainment would have
an element of old Greek revival in it, welcome to the taste of a learned and
Hellenising society; and, as Lucius Verus was in some sense a lover of animals,
was to be a display of animals mainly. There would be real wild and domestic
creatures, all of rare species; and a real slaughter. On so happy an occasion,
it was hoped, the elder emperor might even concede a point, and a living
criminal fall into the jaws of the wild beasts. And the spectacle was,
certainly, to end in the destruction, by one mighty shower of arrows, of a
hundred lions, “nobly” provided by Aurelius himself for the amusement of his
people.—Tam magnanimus fuit! The arena, decked and in order for the first
scene, looked delightfully fresh, re-inforcing on the spirits of the audience
the actual freshness of the morning, which at this season still brought the
dew. Along the subterranean ways that led up to it, the sound of an advancing
chorus was heard at last, chanting the words of a sacred song, or hymn to
Diana; for the spectacle of the amphitheatre was, after all, a religious
occasion. To its grim acts of blood-shedding a kind of sacrificial character still
belonged in the view of certain religious casuists, tending conveniently to
soothe the humane sensibilities of so pious an emperor as Aurelius, who, in his
fraternal complacency, had consented to preside over the shows. Artemis
or Diana, as she may be understood in the actual development of her worship,
was, indeed, the symbolical expression of two allied yet contrasted elements of
human temper and experience—man’s amity, and also his enmity, towards the wild
creatures, when they were still, in a certain sense, his brothers. She is the
complete, and therefore highly complex, representative of a state, in which man
was still much occupied with animals, not as his flock, or as his servants
after the pastoral relationship of our later, orderly world, but rather as his
equals, on friendly terms or the reverse,—a state full of primeval sympathies
and antipathies, of rivalries and common wants—while he watched, and could
enter into, the humours of those “younger brothers,” with an intimacy, the
“survivals” of which in a later age seem often to have had a kind of madness
about them. Diana represents alike the bright and the dark side of such
relationship. But the humanities of that relationship were all forgotten to-day
in the excitement of a show, in which mere cruelty to animals, their useless
suffering and death, formed the main point of interest. People watched their
destruction, batch after batch, in a not particularly inventive fashion; though
it was expected that the animals themselves, as living creatures are apt to do
when hard put to it, would become inventive, and make up, by the fantastic
accidents of their agony, for the deficiencies of an age fallen behind in this
matter of manly amusement. It was as a Deity of Slaughter—the Taurian goddess
who demands the sacrifice of the shipwrecked sailors thrown on her coasts—the
cruel, moonstruck huntress, who brings not only sudden death, but rabies, among
the wild creatures that Diana was to be presented, in the person of a famous
courtesan. The aim at an actual theatrical illusion, after the first
introductory scene, was frankly surrendered to the display of the animals,
artificially stimulated and maddened to attack each other. And as Diana was
also a special protectress of new-born creatures, there would be a certain
curious interest in the dexterously contrived escape of the young from their
mother’s torn bosoms; as many pregnant animals as possible being carefully
selected for the purpose. The time had been, and was to come again, when
the pleasures of the amphitheatre centered in a similar practical joking upon
human beings. What more ingenious diversion had stage manager ever contrived
than that incident, itself a practical epigram never to be forgottten, when a
criminal, who, like slaves and animals, had no rights, was compelled to present
the part of Icarus; and, the wings failing him in due course, had fallen into a
pack of hungry bears? For the long shows of the amphitheatre were, so to speak,
the novel-reading of that age—a current help provided for sluggish
imaginations, in regard, for instance, to grisly accidents, such as might
happen to one’s self; but with every facility for comfortable inspection.
Scaevola might watch his own hand, consuming, crackling, in the fire, in the
person of a culprit, willing to redeem his life by an act so delightful to the
eyes, the very ears, of a curious public. If the part of Marsyas was called
for, there was a criminal condemned to lose his skin. It might be almost
edifying to study minutely the expression of his face, while the assistants
corded and pegged him to the bench, cunningly; the servant of the law waiting
by, who, after one short cut with his knife, would slip the man’s leg from his
skin, as neatly as if it were a stocking—a finesse in providing the due amount
of suffering for wrong-doers only brought to its height in Nero’s living
bonfires. But then, by making his suffering ridiculous, you enlist against the
sufferer, some real, and all would-be manliness, and do much to stifle any
false sentiment of compassion. The philosophic emperor, having no great taste
for sport, and asserting here a personal scruple, had greatly changed all that;
had provided that nets should be spread under the dancers on the tight-rope,
and buttons for the swords of the gladiators. But the gladiators were still
there. Their bloody contests had, under the form of a popular amusement, the
efficacy of a human sacrifice; as, indeed, the whole system of the public shows
was understood to possess a religious import. Just at this point, certainly,
the judgment of Lucretius on pagan religion is without reproach— Tantum
religio potuit suadere malorum. And Marius, weary and indignant,
feeling isolated in the great slaughter-house, could not but observe that, in
his habitual complaisance to Lucius Verus, who, with loud shouts of applause
from time to time, lounged beside him, Aurelius had sat impassibly through all
the hours Marius himself had remained there. For the most part indeed, the
emperor had actually averted his eyes from the show, reading, or writing on
matters of public business, but had seemed, after all, indifferent. He was
revolving, perhaps, that old Stoic paradox of the Imperceptibility of pain;
which might serve as an excuse, should those savage popular humours ever again
turn against men and women. Marius remembered well his very attitude and
expression on this day, when, a few years later, certain things came to pass in
Gaul, under his full authority; and that attitude and expression defined
already, even thus early in their so friendly intercourse, and though he was
still full of gratitude for his interest, a permanent point of difference
between the emperor and himself—between himself, with all the convictions of
his life taking centre to-day in his merciful, angry heart, and Aurelius, as
representing all the light, all the apprehensive power there might be in pagan
intellect. There was something in a tolerance such as this, in the bare fact
that he could sit patiently through a scene like this, which seemed to Marius
to mark Aurelius as his inferior now and for ever on the question of
righteousness; to set them on opposite sides, in some great conflict, of which
that difference was but a single presentment. Due, in whatever proportions, to
the abstract principles he had formulated for himself, or in spite of them,
there was the loyal conscience within him, deciding, judging himself and every
one else, with a wonderful sort of authority:—You ought, methinks, to be
something quite different from what you are; here! and here! Surely Aurelius
must be lacking in that decisive conscience at first sight, of the intimations
of which Marius could entertain no doubt—which he looked for in others. He at
least, the humble follower of the bodily eye, was aware of a crisis in life, in
this brief, obscure existence, a fierce opposition of real good and real evil
around him, the issues of which he must by no means compromise or confuse; of
the antagonisms of which the “wise” Marcus Aurelius was unaware. That
long chapter of the cruelty of the Roman public shows may, perhaps, leave with
the children of the modern world a feeling of self-complacency. Yet it might
seem well to ask ourselves—it is always well to do so, when we read of the
slave-trade, for instance, or of great religious persecutions on this side or
on that, or of anything else which raises in us the question, “Is thy servant a
dog, that he should do this thing?”—not merely, what germs of feeling we may
entertain which, under fitting circumstances, would induce us to the like; but,
even more practically, what thoughts, what sort of considerations, may be
actually present to our minds such as might have furnished us, living in
another age, and in the midst of those legal crimes, with plausible excuses for
them: each age in turn, perhaps, having its own peculiar point of blindness,
with its consequent peculiar sin—the touch-stone of an unfailing conscience in
the select few. Those cruel amusements were, certainly, the sin of
blindness, of deadness and stupidity, in the age of Marius; and his light had
not failed him regarding it. Yes! what was needed was the heart that would make
it impossible to witness all this; and the future would be with the forces that
could beget a heart like that. His chosen philosophy had said,—Trust the eye:
Strive to be right always in regard to the concrete experience: Beware of
falsifying your impressions. And its sanction had at least been effective here,
in protesting—“This, and this, is what you may not look upon!” Surely evil was
a real thing, and the wise man wanting in the sense of it, where, not to have
been, by instinctive election, on the right side, was to have failed in
life. The very finest flower of the same company Aurelius with the
gilded fasces borne before him, a crowd of exquisites, the empress
Faustina her- self, and all the elegant blue -stockings of the day,
who maintained, people said, their private " sophists " to
whisper philosophy into their ears winsomely as they performed the duties
of the toilet was assembled again a few months later, in a
different place and for a very different purpose. The temple of Peace, a
" modernis- ing" foundation of Hadrian, enlarged by a
library and lecture-rooms, had grown into an institution like something
between a college and a literary club ; and here Cornelius Pronto was
to pronounce a discourse on the Nature of Morals. There were some,
indeed, who had desired the emperor Aurelius himself to declare his
whole mind on this matter. Rhetoric was become almost a function of
the state : philosophy was upon the throne ; and had from time to time,
by request, delivered an official utterance with well- nigh divine
authority. And it was as the delegate of this authority, under the full
sanction of the philosophic emperor emperor and pontiff, that the
aged Pronto purposed to-day to expound some parts of the Stoic doctrine,
with the view of recommending morals to that refined but perhaps
prejudiced company, as being, in effect, one mode of comeliness in things
as it were music, or a kind of artistic order, in life. And he did
this earnestly, with an outlay of all his science of mind, and that
eloquence of which he was known to be a master. For Stoicism was no
longer a rude a nd unkempt thing. Received at court, it had largely
decorated itself: it was grown persuasive and insinuating, and sought
not only to convince men's intelligence but to allure their souls.
Associated with the beautiful old age of the great rhetorician, and his
winning voice, it was almost Epicurean. And the old man was at his
best on the occasion ; the last on which he ever appeared in this way.
To-day was his own birthday. Early in the morning the imperial
letter of congratulation had reached him ; and all the pleasant animation
it had caused was in his face, when assisted by his daughter Gratia
he took his place on the ivory chair, as president of the Athenaeum of
Rome, wearing with a wonderful grace the philosophic pall, in
reality neither more nor less than the loose woollen cloak of the common
soldier, but fastened on his right shoulder with a magnificent
clasp, the emperor's birthday gift. It was an age, as
abundant evidence shows, whose delight in rhetoric was but one result of
a general susceptibility an age not merely taking pleasure in
words, but experiencing a great moral power in them. Fronto's quaintly
fashionable audience would have wept, and also assisted with their
purses, had his present purpose been, as sometimes happened, the
recommendation of an object of charity. As it was, arranging them-
selves at their ease among the images and flowers, these amateurs of
exquisite language, with their tablets open for careful record of
felicitous word or phrase, were ready to give themselves wholly to
the intellectual treat prepared for them, applauding, blowing loud kisses
through the air sometimes, at the speaker's triumphant exit from
one of his long, skilfully modulated sentences ; while the younger of
them meant to imitate everything about him, down to the inflections
of his voice and the very folds of his mantle. Certainly there was
rhetoric enough : a wealth of imagery ; illustrations from painting,
music, mythology, the experiences of love ; a manage- ment, by
which subtle, unexpected meaning was brought out of familiar terms, like
flies from morsels of amber, to use Fronto's own figure. But with
all its richness, the higher claim of his style was rightly understood to
lie in gravity and self-command, and an especial care for the purities
of a vocabulary which rejected every expression unsanctioned by the
authority of approved ancient models. And it happened with
Marius, as it will sometimes happen, that this general discourse to
a general audience had the effect of an utterance adroitly designed for
him. His conscience still vibrating painfully under the shock of that
scene in the amphitheatre, and full of the ethical charm of
Cornelius, he was questioning himself with much impatience as to the
possibility of an adjustment between his own elaborately thought- /
out intellectual scheme and the " old morality." In that
intellectual scheme indeed the old morality had so far been allowed no
place, as seeming to demand from him the admission of certain first
principles such as might misdirect or retard him in his efforts towards a
complete, many-sided existence ; or distort the revelations of the
experience of life ; or curtail his natural liberty of heart and mind.
But now (his imagination being occupied for the moment with the
noble and resolute air, the gallantry, so to call it, which composed the
outward mien and presentment of his strange friend's inflexible
ethics) he felt already some nascent suspicion of his philosophic
programme, in regard, precisely, to the question of good taste. There was
the taint of a graceless " antinomianism " perceptible in
it, a dissidence, a revolt against accustomed modes, the actual
impression of which on other men might rebound upon himself in some loss
of that personal pride to which it was part of his theory of life
to allow so much. And it was exactly a moral situation such as this that
Pronto appeared to be contemplating. He seemed to have before his
mind the case of one Cyrenaic or Epicurean, as the courtier tends to be,
by habit and instinct, if not on principle who yet experiences,
actually, a strong tendency to moral assents, and a desire, with as
little logical incon- sistency as may be, to find a place for duty
and righteousness in his house of thought. And the Stoic
professor found the key to this problem in the purely aesthetic beauty of
the old morality, as an element in things, fascinating to the
imagination, to good taste in its most highly developed form, through
association a system or order, as a matter of fact, in possession, not
only of the larger world, but of the rare minority of elite
intelligences ; from which, therefore, least of all would the sort of
Epicurean he had in view endure to become, so to speak, an outlaw.
He supposed his hearer to be, with all sincerity, in search after
some principle of conduct (and it was here that he seemed to Marius to be
speaking straight to him) which might give unity of motive to an
actual rectitude, a cleanness and probity of life, determined partly by
natural affection, partly by enlightened self-interest or the
feeling of honour, due in part even to the mere fear of penalties ; no
element of which, however, was distinctively moral in the agent
himself as such, and providing him, therefore, no common ground with a
really moral being like Cornelius, or even like the philosophic
emperor. Performing the same offices ; actually satisfying, even as
they, the external claims of others ; rendering to all their dues one
thus circum- stanced would be wanting, nevertheless, in the secret
of inward adjustment to the moral agents around him. How tenderly more
tenderly than many stricter souls he might yield himself to kindly
instinct ! what fineness of charity in passing judgment on others ! what
an exquisite conscience of other men's susceptibilities ! He knows
for how much the manner, because the heart itself, counts, in doing a
kindness. He goes beyond most people in his care for all weakly
creatures ; judging, instinctively, that to be but sentient is to possess
rights. He con- ceives a hundred duties, though he may not call
them by that name, of the existence of which purely duteous souls may
have no suspicion. He has a kind of pride in doing more than they, in
a way of his own. Sometimes, he may think that those men of line
and rule do not really under- stand their own business. How narrow,
inflex- ible, unintelligent ! what poor guardians (he may reason)
of the inward spirit of righteousness, are some supposed careful walkers
according to its letter and form. And yet all the while he admits,
as such, no moral world at all : no theoretic equivalent to so large
a proportion of the facts of life. But, over and above such
practical rectitude, thus determined by natural affection or
self-love or fear, he may notice that there is a rem- nant of right
conduct, what he does, still more what he abstains from doing, not so
much through his own free election, as from a defer- ence, an
" assent," entire, habitual, unconscious, to custom to the actual
habit or fashion of others, from whom he could not endure to break
away, any more than he would care to be out of agreement with them on
questions of mere manner, or, say, even, of dress. Yes ! there were
the evils, the vices, which he avoided as, essentially, a failure in good
taste. An assent, such as this, to the preferences of others, might
seem to be the weakest of motives, and the rectitude it could determine
the least consider- able element in a moral life. Yet here, accord-
ing to Cornelius Pronto, was in truth the revealing example, albeit
operating upon com- parative trifles, of the general principle
required. There was one great idea associated with which that
determination to conform to precedent was elevated into the clearest, the
fullest, the weightiest principle of moral action ; a principle
under which one might subsume men's most strenuous efforts after
righteousness. And he proceeded to expound the idea of Humanity of
a universal commonwealth of mind, which becomes explicit, and as if
incarnate, in a select communion of just men made perfect. 'O
Koo-fjios axravel 7ro\t9 <rrw the world is as it were a
commonwealth, a city : and there are observances, customs, usages,
actually current in it, things our friends and companions will
expect of us, as the condition of our living there with them at all, as
really their peers or fellow- citizens. Those observances were, indeed,
the creation of a visible or invisible aristocracy in it, whose
actual manners, whose preferences from of old, become now a weighty
tradition as to the way in which things should or should not be
done, are like a music, to which the intercourse of life proceeds such a
music as no one who had once caught its harmonies would willingly
jar. In this way, the becoming, as in Greek TO irpiirov : or T^ rj#?7,
mores, manners, as both Greeks and Romans said, would indeed be a
comprehensive term for duty. Righteous- ness would be, in the words of
" Caesar " himself, of the philosophic Aurelius, but a "
following of the reasonable will of the oldest, the most venerable,
of cities, of polities of the royal, the law-giving element, therein
forasmuch as we are citizens also in that supreme city on high, of
which all other cities beside are but as single habitations." But as
the old man spoke with animation of this supreme city, this
invisible society, whose conscience was become explicit in its
inner circle of inspired souls, of whose common spirit, the trusted
leaders of human conscience had been but the mouthpiece, of whose
successive personal preferences in the conduct of life, the " old
morality " was the sum, Marius felt that his own thoughts were
pass- ing beyond the actual intention of the speaker ; not in the
direction of any clearer theoretic or abstract definition of that ideal
commonwealth, but rather as if in search of its visible locality
and abiding-place, the walls and towers of which, so to speak, he
might really trace and tell, according to his own old, natural habit of
mind. ^ It would be the fabric, the outward fabric, of a system
reaching, certainly, far beyond the great city around him, even if
conceived in all the machinery of its visible and invisible
influences at their grandest as Augustus or Trajan might have conceived
of them however well the visible Rome might pass for a figure of
that new, unseen, Rome on high. At moments, Marius even asked himself
with surprise, whether it might be some vast secret society the
speaker had in view : that august community, to be an outlaw from which,
to be foreign to the manners of which, was a loss so much greater
than to be excluded, into the ends of the earth, from the sovereign Roman
common- wealth. Humanity, a universal order, the great polity, its
aristocracy of elect spirits, the mastery of their example over their
successors these were the ideas, stimulating enough in their way, by
association with which the Stoic professor had attempted to elevate, to
unite under a single principle, men's moral efforts, himself lifted
up with so genuine an enthusiasm. But where might Marius search for
all this, as more than an intellectual abstraction ? Where were
those elect souls in whom the claim of Humanity became so amiable, winning,
persuasive whose footsteps through the world were so beautiful in
the actual order he saw whose faces averted from him, would be more than
he could bear ? Where was that comely order, to which as a great
fact of experience he must give its due ; to which, as to all other
beautiful " phenomena " in life, he must, for his own peace,
adjust himself ? Rome did well to be serious. The
discourse ended somewhat abruptly, as the noise of a great crowd in
motion was heard below the walls ; whereupon, the audience, following the
humour of the younger element in it, poured into the colonnade,
from the steps of which the famous procession, or transvectio y of the
military knights was to be seen passing over the Forum, from their
trysting-place at the temple of Mars, to the temple of the Dioscuri. The
ceremony took place this year, not on the day accustomed-
anniversary of the victory of Lake Regillus, with its pair of celestial
assistants and amid the heat and roses of a Roman July, but, by anticipation,
some months earlier, the almond- trees along the way being still in
leafless flower. Through that light trellis-work, Marius watched
the riders, arrayed in all their gleaming orna- ments, and wearing
wreaths of olive around their helmets, the faces below which, what
with battle and the plague, were almost all youthful. It was a flowery
scene enough, but had to-day its fulness of war-like meaning ; the
return of the army to the North, where the enemy was again upon the move,
being now imminent. Cornelius had ridden along in his place, and,
on the dismissal of the company, passed below the steps where Marius
stood, with | that new song he had heard once before floating from
his lips. And Marius, for his part, was grave enough. The discourse
of Cornelius Pronto, with its wide prospect over the human, the
spiritual, horizon, had set him on a review on a review of the
isolating narrowness, in particular, of his own theoretic scheme. Long
after the very latest roses were faded, when " the town "
had departed to country villas, or the baths, or the war, he
remained behind in Rome ; anxious to try the lastingness of his own
Epicurean rose- garden ; setting to work over again, and deliberately
passing from point to point of his old argument with himself, down to its
practical conclusions. That age and our own have much in common
many difficulties and hopes. Let the reader pardon me if here and there I
seem to be passing from Marius to his modern representa- tives from
Rome, to Paris or London. What really were its claims as a theory
of practice, of the sympathies that determine practice ? It had been
a theory, avowedly, of loss and gain (so to call it) of an economy.
If, therefore, it missed something in the commerce of life, which
some other theory of practice was able to include, if it made a needless
sacrifice, then it must be, in a manner, inconsistent with itself,
and lack theoretic completeness. Did it make such a sacrifice ? What did
it lose, or cause one to lose ? And we may note, as Marius
could hardly have done, that Cyrenaicism is ever the char-
acteristic philosophy of youth, ardent, but narrow in its survey sincere,
but apt to become one- sided, or even fanatical. It is one of those
sub- jective and partial ideals, based on vivid, because limited,
apprehension of the truth of one aspect of experience (in this case, of
the beauty of the world and the brevity of man's life there) which
it may be said to be the special vocation of the young to express. In the
school of Cyrene, in that comparatively fresh Greek world, we see
this philosophy where it is least blase^ as we say , in its most
pleasant, its blithest and yet perhaps its wisest form, youthfully bright
in the youth of European thought. But it grows young again for a
while in almost every youthful soul. It is spoken of sometimes as the
appropriate utterance of jaded men ; but in them it can hardly be
sincere, or, by the nature of the case, an enthusi- asm. " Walk in
the ways of thine heart, and in the sight of thine eyes," is,
indeed, most often, according to the supposition of the book from
which I quote it, the counsel of the young, who feel that the sunshine is
pleasant along their veins, and wintry weather, though in a general
sense foreseen, a long way off. The youthful enthusi- asm or
fanaticism, the self-abandonment to one favourite mode of thought or
taste, which occurs, quite naturally, at the outset of every really
vigorous intellectual career, finds its special opportunity in a theory
such as that so carefully put together by Marius, just because it seems
to call on one to make the sacrifice, accompanied by a vivid
sensation of power and will, of what others value sacrifice of some
conviction, or doctrine, or supposed first principle for the sake
of that clear-eyed intellectual consistency, which is like spotless
bodily cleanliness, or scrupulous personal honour, and has itself for the
mind of the youthful student, when he first comes to appreciate it,
the fascination of an ideal. The Cyrenaic doctrine, then, realised
as a motive of strenuousness or enthusiasm, is not so properly the
utterance of the u jaded Epicurean," as of the strong young man in
all the freshness of thought and feeling, fascinated by the notion
of raising his life to the level of a daring theory, while, in the first
genial heat of existence, the beauty of the physical world strikes
potently upon his wide-open, unwearied senses. He discovers a great
new poem every spring, with a hundred delightful things he too has felt,
but which have never been expressed, or at least never so truly,
before. The workshops of the artists, who can select and set before us
what is really most distinguished in visible life, are open to him.
He thinks that the old Platonic, or the new Baconian philosophy, has been
better explained than by the authors themselves, or with some
striking original development, this very month. In the quiet heat of
early summer, on the dusty gold morning, the music comes, louder at
intervals, above the hum of voices from some neighbouring church, among
the flowering trees, valued now, perhaps, only for the poetically
rapt faces among priests or wor- shippers, or the mere skill and
eloquence, it may be, of its preachers of faith and righteousness.
In his scrupulous idealism, indeed, he too feels himself to be something
of a priest, and that devotion of his days to the contemplation of
what is beautiful, a sort of perpetual religious service. Afar off, how
many fair cities and delicate sea-coasts await him ! At that age,
with minds of a certain constitution, no very choice or exceptional
circumstances are needed to provoke an enthusiasm something like
this. Life in modern London even, in the heavy glow of summer, is
stuff sufficient for the fresh imagination of a youth to build its "
palace of art" of; and the very sense and enjoyment of an
experience in which all is new, are but en- hanced, like that glow of
summer itself, by the thought of its brevity, giving him something
of a gambler's zest, in the apprehension, by dex- terous act or
diligently appreciative thought, of the highly coloured moments which are
to pass away so quickly. At bottom, perhaps, in his elaborately
developed self-consciousness, his sensibilities, his almost fierce grasp
upon the things he values at all, he has, beyond all others, an
inward need of something permanent in its character, to hold by : of
which circumstance, also, he may be partly aware, and that, as with
the brilliant Claudio in Measure for Measure -, it is, in truth, but
darkness he is, " encountering, like a bride." But the
inevitable falling of the curtain is probably distant ; and in the
daylight, at least, it is not often that he really shudders at the
thought of the grave the weight above, the narrow world and its company,
within. When the thought of it does occur to him, he may say to
himself: Well ! and the rude monk, for instance, who has renounced all
this, on the security of some dim world beyond it, really
acquiesces in that " fifth act," amid all the consoling
ministries around him, as little as I should at this moment ; though I
may hope, that, as at the real ending of a play, however well
acted, I may already have had quite enough of it, and find a true
well-being in eternal sleep. And precisely in this circumstance,
that, consistently with the function of youth in general,
Cyrenaicism will always be more or less the special philosophy, or
"prophecy," of the young, when the ideal of a rich
experience comes to them in the ripeness of the receptive, if not
of the reflective, powers precisely in this circumstance, if we rightly
consider it, lies the duly prescribed corrective of that philosophy.
For it is by its exclusiveness, and by negation rather than positively,
that such theories fail to satisfy us permanently ; and what they
really need for their correction, is the complementary influence of
some greater system, in which they may find their due place. That Sturm
und Drang of the spirit, as it has been called, that ardent and
special apprehension of half-truths, in the enthusiastic, and as it were
" prophetic " advocacy of which, devotion to truth, in the
case of the young apprehending but one point at a time in the great
circumference most usually embodies itself, is levelled down, safely
enough, afterwards, as in history so in the individual, by the
weakness and mere weariness, as well as by the maturer wisdom, of our
nature. And though truth indeed, resides, as has been said, "
in the whole " in harmonisings and adjust- ments like this yet those
special apprehen- sions may still owe their full value, in this
sense of " the whole," to that earlier, one-sided but
ardent pre-occupation with them. Cynicism and Cyrenaicism : they
are the earlier Greek forms of Roman Stoicism and Epicureanism, and
in that world of old Greek thought, we may notice with some surprise
that, in a little while, the nobler form of Cyrenaicism
-Cyrenaicism cured of its faults met the nobler form of Cynicism
half-way. Starting from opposed points, they merged, each in its
most refined form, in a single ideal of temperance or moderation.
Something of the same kind may be noticed regarding some later phases
of Cyrenaic theory. If it starts with considerations opposed to the
religious temper, which the religious temper holds it a duty to repress,
it is like it, nevertheless, and very unlike any lower development
of temper, in its stress and earnest- ness, its serious application to
the pursuit of a very unworldly type of perfection. The saint, and
the Cyrenaic lover of beauty, it may be thought, would at least
understand each other | better than either would understand the
mere 1 man of the world. Carry their respective positions a point
further, shift the terms a little, and they might actually touch.
Perhaps all theories of practice tend, as they rise to their best,
as understood by their worthiest representatives, to identification with
each other. For the variety of men's possible reflections on their
experience, as of that experience itself, is not really so great as it
seems ; and as the highest and most disinterested ethical formula,
filtering down into men's everyday existence, reach the same poor
level of vulgar egotism, so, we may fairly suppose that all the highest
spirits, from whatever contrasted points they have started, would
yet be found to entertain, in the moral consciousness realised by
themselves, much the same kind of mental company ; to hold, far
more than might be thought probable, at first sight, the same
personal types of character, and even the same artistic and literary
types, in esteem or aversion ; to convey, all of them alike, the
same savour of unworldliness. And Cyrenaicism or Epicureanism too, new or
old, may be noticed, in proportion to the completeness of its
develop- ment, to approach, as to the nobler form of Cynicism, so
also to the more nobly developed phases of the old, or traditional
morality. In the gravity of its conception of life, in its pursuit
after nothing less than a perfection, in its appre- hension of the value
of time the passion and the seriousness which are like a
consecration la passion et le serieux qui consacrent it may be
conceived, as regards its main drift, to be not so much opposed to the
old morality, as an exaggeration of one special motive in it.
Some cramping, narrowing, costly preference of one part of his own
nature, and of the nature of things, to another, Marius seemed to
have detected in himself, meantime, in himself, as also in those
old masters of the Cyrenaic philo- sophy. If they did realise the
povoxpovo? fiSovij, as it was called the pleasure of the " Ideal Now
" if certain moments of their lives were high- pitched,
passionately coloured, intent with sensation, and a kind of knowledge which, in
its vivid clearness, was like sensation if, now and then, they
apprehended the world in its fulness, and had a vision, almost "
beatific," of ideal person- alities in life and art, yet these
moments were a very costly matter: they paid a great price for
them, in the sacrifice of a thousand possible sympathies, of things only
to be enjoyed through sympathy, from which they detached
themselves, in intellectual pride, in loyalty to a mere theory that
would take nothing for granted, and assent to no approximate or
hypothetical truths. In their unfriendly, repellent attitude towards
the Greek religion, and the old Greek morality, surely, they had
been but faulty economists. The Greek religion was then alive : then,
still more than in its later day of dissolution, the higher view of
it was possible, even for the philosopher. Its story made little or no
demand for a reasoned or formal acceptance. A religion, which had
grown through and through man's life, with so much natural strength ; had
meant so much for so many generations ; which ex- pressed so much
of their hopes, in forms so familiar and so winning ; linked by
associations so manifold to man as he had been and was a religion
like this, one would think, might have had its uses, even for a
philosophic sceptic. Yet those beautiful gods, with the whole round
of their poetic worship, the school of Cyrene definitely
renounced. The old Greek morality, again, with all its
imperfections, was certainly a comely thing. Yes ! a harmony, a music, in
men's ways, one might well hesitate to jar. The merely aesthetic
sense might have had a legitimate satisfaction in the spectacle of that
fair order of choice manners, in those attractive conventions,
enveloping, so gracefully, the whole of life, insuring some
sweetness, some security at least against offence, in the intercourse of
the world. Beyond an obvious utility, it could claim, indeed but
custom use -and -wont, as we say for its sanction. But then, one of
the advantages of that liberty of spirit among the Cyrenaics (in which,
through theory, they had become dead to theory, so that all theory,
as such, was really indifferent to them, and indeed nothing valuable but
in its tangible ministration to life) was precisely this, that it
gave them free play in using as their ministers or servants, things
which, to the uninitiated, must be masters or nothing. Yet, how little
the followers of Aristippus made of that whole comely system of
manners or morals, then actually in possession of life, is shown by the
bold practical consequence, which one of them main- tained (with a
hard, self-opinionated adherence to his peculiar theory of values) in the
not very amiable paradox that friendship and patriotism were things
one could do without ; while another Deaths-advocate^ as he was
called helped so many to self-destruction, by his pessimistic
eloquence on the evils of life, that his lecture-room was closed. That this
was in the range of their consequences that this was a possible, if
remote, deduction from the premisses of the discreet Aristippus was
surely an incon- sistency in a thinker who professed above all
things an economy of the moments of life. And yet those old Cyrenaics
felt their way, as if in the dark, we may be sure, like other men in
the ordinary transactions of life, beyond the narrow limits they
drew of clear and absolutely legitimate knowledge, admitting what was not
of immediate sensation, and drawing upon that " fantastic
" future which might never come. A little more of such
"walking by faith/' a little more of such not unreasonable "
assent," and they might have profited by a hundred services to their
culture, from Greek religion and Greek morality, as they actually
were. The spectacle of their fierce, exclusive, tenacious hold on their
own narrow apprehension, makes one think of a picture with no relief,
no soft shadows nor breadth of space, or of a drama without proportionate
repose. Yet it was of perfection that Marius (to return to
him again from his masters, his intellectual heirs) had been really
thinking all the time : a narrow perfection it might be objected,
the perfection of but one part of his nature his capacities of
feeling, of exquisite physical im- pressions, of an imaginative sympathy
but still, a true perfection of those capacities, wrought out to
their utmost degree, admirable enough in its way. He too is an economist
: he hopes, by that " insight " of which the old Cyrenaics
made so much, by skilful apprehension of the condi- tions of
spiritual success as they really are, the special circumstances of the
occasion with which he has to deal, the special felicities of his
own nature, to make the most, in no mean or vulgar sense, of the
few years of life ; few, indeed, for the attainment of anything like
general perfec- tion ! With the brevity of that sum of years his
mind is exceptionally impressed ; and this purpose makes him no frivolous
dilettante^ but graver than other men : his scheme is not that of a
trifler, but rather of one who gives a meaning of his own, yet a very
real one, to those old words Let us work while it is day ! He has a
strong apprehension, also, of the beauty of the visible things around him
; their fading, momentary, graces and attractions. His natural
susceptibility in this direction, enlarged by experience, seems to demand
of him an almost exclusive pre- occupation with the aspects of
things ; with their aesthetic character, as it is called their
revelations to the eye and the imagination : not so much because those
aspects of them yield him the largest amount of enjoy- ment, as
because to be occupied, in this way, with the aesthetic or imaginative
side of things, is to be in real contact with those elements of his
own nature, and of theirs, which, for him at least, are matter of the most
real kind of appre- hension. As other men are concentrated upon
truths of number, for instance, or on business, or it may be on the
pleasures of appetite, so he is wholly bent on living in that full stream
of refined sensation. And in the prosecution of this love of
beauty, he claims an entire personal liberty, liberty of heart and mind,
liberty, above all, from what may seem conventional answers to
first questions. But, without him there is a venerable system
of sentiment and idea, widely extended in time and place, in a kind of
impregnable possession of human life a system, which, like some
other great products of the conjoint efforts of human mind through
many generations, is rich in the world's experience ; so that, in
attaching oneself to it, one lets in a great tide of that
experience, and makes, as it were with a single step, a great
experience of one's own, and with great con- sequent increase to one's
sense of colour, variety, and relief, in the spectacle of men and
things. The mere sense that one belongs to a system an imperial
system or organisation has, in itself, the expanding power of a great
experience ; as some have felt who have been admitted from narrower
sects into the communion of the catholic church ; or as the old Roman
citizen felt. It is, we might fancy, what the coming into
possession of a very widely spoken language might be, with a great
literature, which is also the speech of the people we have to live
among. A wonderful order, actually in possession of / human
life ! grown inextricably through and { 7 f through it ; penetrating into
its laws, its very language, its mere habits of decorum, in a
thousand half-conscious ways ; yet still felt to be, in part, an
unfulfilled ideal ; and, as such, awaken- ing hope, and an aim, identical
with the one only consistent aspiration of mankind ! In the
apprehension of that, just then, Marius seemed to have joined company
once more with his own old self; to have overtaken on the road the
pilgrim who had come to Rome, with absolute sincerity, on the
search fo r perfection. It defined not so much a change of practice,
as of sympathy a new departure, an expansion, of sympathy. It in-
volved, certainly, some curtailment of his liberty, in concession to the
actual manner, the distinc- tions, the enactments of that great crowd
of admirable spirits, who have elected so, and not otherwise, in
their conduct of life, and are not here to give one, so to term it, an
" indulgence." But then, under the supposition of their
dis- approval, no roses would ever seem worth plucking again. The
authority they exercised was like that of classic taste an influence
so subtle, yet so real, as defining the loyalty of the scholar ; or
of some beautiful and venerable ritual, in which every observance is
become spontaneous and almost mechanical, yet is found, the more
carefully one considers it, to have a reasonable significance and a
natural history. And Marius saw that he would be but an
inconsistent Cyrenaic, mistaken in his estimate of values, of loss and
gain, and untrue to the well- considered economy of life which he had brought
with him to Rome that some drops of the great cup would fall to the
ground if he did not make that concession, if he did but remain
just there. " Many prophets and kings have desired to see the
things which ye see." The enemy on the Danube was, indeed, but
the vanguard of the mighty invading hosts of the fifth century.
Illusively repressed just now, those confused movements along the
northern boundary of the Empire were destined to unite triumphantly
at last, in the barbarism, which, powerless to destroy the Christian
church, was yet to suppress for a time the achieved culture of the
pagan world. The kingdom of Christ was to grow up in a somewhat false
alienation from the light and beauty of the kingdom of nature, of
the natural man, with a partly mistaken tradition concerning it, and an
incapacity, as it might almost seem at times, for eventual re-
conciliation thereto. Meantime Italy had armed itself once more, in
haste, and the imperial brothers set forth for the Alps. Whatever
misgiving the Roman people may have felt as to the leadership of the
younger was unexpectedly set at rest ; though with some temporary
regret for the loss of what had been, after all, a popular figure on the
world's stage. Travelling fraternally in the same litter with
Aurelius, Lucius Verus was struck with sudden and mysterious disease, and
died as he hastened back to Rome. His death awoke a swarm of
sinister rumours, to settle on Lucilla, jealous, it was said, of Fabia
her sister, perhaps of Faustina on Faustina herself, who had accompanied
the imperial progress, and was anxious now to hide a crime of her
own even on the elder brother, who, beforehand with the treasonable
designs of his colleague, should have helped him at supper to a
favourite morsel, cut with a knife poisoned ingeniously on one side only.
Aurelius, certainly, with sincere distress, his long irritations, so
duti- fully concealed or repressed, turning now into a single
feeling of regret for the human creature, carried the remains back to
Rome, and demanded of the Senate a public funeral, with a decree
for the apotheosis^ or canonisation, of the dead. For three
days the body lay in state in the Forum, enclosed in an open coffin of
cedar-wood, on a bed of ivory and gold, in the centre of a sort of
temporary chapel, representing the temple of his patroness Venus
Genetrix. Armed soldiers kept watch around it, while choirs of
select voices relieved one another in the chanting of hymns or
monologues from the great tragedians. At the head of the couch were
displayed the various personal decorations which had belonged to
Verus in life. Like all the rest of Rome, Marius went to gaze on the face
he had seen last scarcely disguised under the hood of a
travelling-dress, as the wearer hurried, at night- fall, along one of the
streets below the palace, to some amorous appointment. Unfamiliar
as he still was with dead faces, he was taken by surprise, and
touched far beyond what he had reckoned on, by the piteous change there ;
even the skill of Galen having been not wholly successful in the
process of embalming. It was as if a brother of his own were lying low
before him, with that meek and helpless expression it would have
been a sacrilege to treat rudely. Meantime, in the centre of the
Campus Martins^ within the grove of poplars which enclosed the
space where the body of Augustus had been burnt, the great funeral pyre,
stuffed with shavings of various aromatic woods, was built up in
many stages, separated from each other by a light entablature of
woodwork, and adorned abundantly with carved and tapestried images.
Upon this pyramidal or flame-shaped structure lay the corpse, hidden now
under a mountain of flowers and incense brought by the women, who
from the first had had their fond- ness for the wanton graces of the
deceased. The dead body was surmounted by a waxen effigy of great
size, arrayed in the triumphal ornaments. At last the Centurions to whom
that office belonged, drew near, torch in hand, to ignite the pile
at its four corners, while the soldiers, in wild excitement, flung
themselves around it, casting into the flames the decorations they
had received for acts of valour under the dead emperor's command.
It had been a really heroic order, spoiled a little, at the last
moment, through the some- what tawdry artifice, by which an eagle
not a very noble or youthful specimen of its kind was caused to
take flight amid the real or affected awe of the spectators, above the
perishing remains; a court chamberlain, according to ancient
etiquette, subsequently making official declaration before the Senate,
that the imperial " genius " had been seen in this way,
escaping from the fire. And Marius was present when the Fathers,
duly certified of the fact, by "acclamation," muttering their
judgment all together, in a kind of low, rhythmical chant, decreed
Gcelum the privilege of divine rank to the departed. The
actual gathering of the ashes in a white cere-cloth by the widowed Lucilla,
when the last flicker had been extinguished by drops of wine ; and
the conveyance of them to the little cell, already populous, in the
central mass of the sepulchre of Hadrian, still in all the splen-
dour of its statued colonnades, were a matter of private or domestic duty
; after the due accomplishment of which Aurelius was at liberty to
retire for a time into the privacy of his beloved apartments of the
Palatine. And hither, not long afterwards, Marius was sum- moned a
second time, to receive from the imperial hands the great pile of
manuscripts it would be his business to revise and arrange.
One year had passed since his first visit to the palace ; and as he
climbed the stairs to-day, the great cypresses rocked against the sunless
sky, like living creatures in pain. He had to traverse a long
subterranean gallery, once a secret entrance to the imperial apartments,
and in our own day, amid the ruin of all around it, as smooth and
fresh as if the carpets were but just removed from its floor after the
return of the emperor from the shows. It was here, on such an
occasion, that the emperor Caligula, at the age of twenty-nine, had come
by his end, the assassins gliding along it as he lingered a few moments
longer to watch the movements of a party of noble youths at their
exercise in the courtyard below. As Marius waited, a second time,
in that little red room in the house of the chief chamberlain, curious to
look once more upon its painted walls the very place whither the
assassins were said to have turned for refuge after the murder he could
all but see the figure, which in its surrounding light and darkness
seemed to him the most melancholy in the entire history of Rome. He
called to mind the greatness of that popularity and early promise
the stupefying height of irresponsible power, from which, after all, only
men's viler side had been clearly visible the overthrow of reason
the seemingly irredeemable memory ; and still, above all, the beautiful
head in which the noble lines of the race of Augustus were united
to, he knew not what expression of sensibility and fineness, not theirs,
and for the like of which one must pass onward to the Antonines.
Popular hatred had been careful to destroy its semblance wherever it was
to be found ; but one bust, in dark bronze-like basalt of a
wonderful perfection of finish, preserved in the museum of the Capitol,
may have seemed to some visitors there perhaps the finest extant
relic of Roman art. Had the very seal of empire upon those sombre brows,
reflected from his mirror, suggested his insane attempt upon the
liberties, the dignity of men ? " O humanity ! " he seems to
ask, " what hast thou done to me that I should so despise thee
? " And might not this be indeed the true meaning of kingship, if
the world would have one man to reign over it ? The like of this :
or, some incredible, surely never to be realised, height of
disinterestedness, in a king who should be the servant of all, quite at
the other extreme of the practical dilemma involved in such a
position. Not till some while after his death had the body been decently
interred by the piety of the sisters he had driven into exile.
Fraternity of feeling had been no invariable feature in the
incidents of Roman story. One long Vicus Sceleratus^ from its first dim
foundation in fraternal quarrel on the morrow of a common
deliverance so touching had not almost every step in it some gloomy
memory of unnatural violence ? Romans did well to fancy the traitress
Tarpeia still " green in earth," crowned, enthroned, at the
roots of the Capitoline rock. If in truth the religion of Rome was
every- where in it, like that perfume of the funeral incense still
upon the air, so also was the memory of crime prompted by a
hypocritical cruelty, down to the erring, or not erring, Vesta
calmly buried alive there, only eighty years ago, under Domitian.
It was with a sense of relief that Marius found himself in the
presence of Aurelius, whose gesture of friendly intelligence, as he
entered, raised a smile at the gloomy train of his own thoughts just
then, although since his first visit to the palace a great change
had passed over it. The clear daylight found its way now into empty
rooms. To raise funds for the war, Aurelius, his luxurious brother
being no more, had determined to sell by auction the accumulated
treasures of the im- perial household. The works of art, the dainty
furniture, had been removed, and were now " on view " in the
Forum, to be the delight or dismay, for many weeks to come, of
the large public of those who were curious in these things. In such
wise had Aurelius come to the condition of philosophic detachment
he had affected as a boy, hardly persuaded to wear warm clothing, or to
sleep in more luxurious manner than on the bare floor. But, in his
empty house, the man of mind, who had always made so much of the
pleasures of philosophic contemplation, felt freer in thought than
ever. He had been reading, with less self-reproach than usual, in the
Republic of Plato, those passages which describe the life of the
philosopher-kings like that of hired servants in their own house who,
possessed of the " gold undefiled " of intellectual vision,
forgo so cheerfully all other riches. It was one of his happy days : one
of those rare days, when, almost with none of the effort, otherwise
so constant with him, his thoughts came rich and full, and converged in a
mental view, as exhilarating to him as the prospect of some wide
expanse of landscape to another man's bodily eye. He seemed to lie
readier than was his wont to the imaginative influence of the
philosophic reason to its suggestions of a possible open country,
commencing just where all actual experience leaves off, but which
experience, one's own and not another's, may one day occupy. In fact, he
was seeking strength for himself, in his own way, before he started
for that ambiguous earthly warfare which was to occupy the remainder of
his life. " Ever remember this," he writes, " that a
happy life depends, not on many things & o\iyi(TTot,<i
tceiTai." And to-day, committing himself with a steady effort of
volition to the mere silence of the great empty apartments, he might
be said to have escaped, according to Plato's promise to those who live
closely with philosophy, from the evils of the world. In his
"conversations with himself" Marcus Aurelius speaks often of
that City on high^ of which all other cities are but single
habitations. From him in fact Cornelius Pronto, in his late
discourse, had borrowed the expression ; and he certainly meant by it
more than the whole commonwealth of Rome, in any idealisation of
it, however sublime. Incorporate somehow with the actual city whose
goodly stones were lying beneath his gaze, it was also implicate in
that reasonable constitution of nature, by devout contemplation of which
it is possible for man to associate himself to the consciousness of
God. In that New Rome he had taken up his rest for awhile on this
day, deliberately feeding his thoughts on the better air of it, as
another might have gone for mental renewal to a favourite villa.
" Men seek retirement in country-houses," he writes,
" on the sea-coast, on the mountains ; and you have yourself as much
fondness for such places as another. But there is little proof of
culture therein ; since the privilege is yours of retiring into yourself
whensoever you please, into that little farm of one's own mind, where
a silence so profound may be enjoyed." That it could make
these retreats, was a plain con- sequence of the kingly prerogative of
the mind, its dominion over circumstance, its inherent liberty.
" It is in thy power to think as thou wilt : The essence of things
is in thy thoughts about them : All is opinion, conception : No man
can be hindered by another : What is out- side thy circle of thought is
nothing at all to it ; hold to this, and you are safe : One thing
is needful to live close to the divine genius with- in thee, and
minister thereto worthily." And the first point in this true
ministry, this culture, was to maintain one's soul in a condition
of indifference and calm. How continually had public claims, the
claims of other persons, with their rough angularities of character,
broken in upon him, the shepherd of the flock. But after
all he had at least this privilege he could not part with, of thinking as
he would ; and it was well, now and then, by a conscious effort of will,
to indulge it for a while, under systematic direc- tion. The duty
of thus making discreet, systematic use of the power of imaginative
vision for purposes of spiritual culture, " since the soul
takes colour from its fantasies," is a point he has frequently insisted
on. The influence of these seasonable meditations a symbol,
or sacrament, because an intensified condition, of the soul's own ordinary
and natural life would remain upon it, perhaps for many days. There
were experiences he could not for- get, intuitions beyond price, he had
come by in this way, which were almost like the breaking of a
physical light upon his mind ; as the great Augustus was said to have
seen a mysterious physical splendour, yonder, upon the summit of
the Capitol, where the altar of the Sibyl now stood. With a prayer,
therefore, for inward quiet, for conformity to the divine reason,
he read some select passages of Plato, which bear upon the harmony
of the reason, in all its forms, with itself. "Could there be
Cosmos, that wonderful, reasonable order, in him, and nothing but
disorder in the world without ? " It was from this question he had
passed on to the vision of a reasonable, a divine, order, not in nature,
but in the condition of human affairs that unseen Celestial City,
Uranopolis, Callipolis, Urbs Eeata in which, a consciousness of the
divine will being everywhere realised, there would be, among other
felicitous differences from this lower visible world, no more quite
hopeless death, of men, or children, or of their affections. He had
tried to-day, as never before, to make the most of this vision of a New
Rome, to realise it as distinctly as he could, and, as it were, find
his way along its streets, ere he went down into a world so
irksomely different, to make his practical effort towards it, with a soul
full of compassion for men as they were. However distinct the
mental image might have been to him, with the descent of but one flight
of steps into the market-place below, it must have retreated again,
as if at touch of some malign magic wand, beyond the utmost verge of
the horizon. But it had been actually, in his clearest vision of
it, a confused place, with but a recognisable entry, a tower or fountain,
here or there, and haunted by strange faces, whose novel expression
he, the great physiognomist, could by no means read. Plato, indeed, had
been able to articulate, to see, at least in thought, his ideal
city. But just because Aurelius had passed beyond Plato, in the scope of
the gracious charities he pre-supposed there, he had been unable
really to track his way about it. Ah ! after all, according to Plato
himself, all vision was but reminiscence, and this, his heart's
desire, no place his soul could ever have visited in any region of
the old world's achievements. He had but divined, by a kind of generosity
of spirit, the void place, which another experience than his must
fill. Yet Marius noted the wonderful expression of peace, of
quiet pleasure, on the countenance of Aurelius, as he received from him
the rolls of fine clear manuscript, fancying the thoughts of the
emperor occupied at the moment with the famous prospect towards the Alban
hills, from those lofty windows. The ideas of Stoicism, so precious
to Marcus Aurelius, ideas of large generalisation, have sometimes
induced, in those over whose in- tellects they have had real power, a
coldness of heart. It was the distinction of Aurelius that he was
able to harmonise them with the kindness, one might almost say the
amenities, of a humourist, as also with the popular religion and
its many gods. Those vasty conceptions of the later Greek philosophy had
in them, in truth, the germ of a sort of austerely opinion- ative
"natural theology," and how often has that led to religious
dryness a hard contempt of everything in religion, which touches
the senses, or charms the fancy, or really concerns the affections.
Aurelius had made his own the secret of passing, naturally, and with no
violence to his thought, to and fro, between the richly coloured
and romantic religion of those old gods who had still been human beings,
and a very abstract speculation upon the impassive, I universal soul
that circle whose centre everywhere, the circumference nowhere of
which a series of purely logical necessities had evolved the formula. As
in many another instance, those traditional pieties of the place
and the hour had been derived by him from his mother : frapci rrfc Mrpbs
TO Oeoo-eftes. Puri- fied, as all such religion of concrete time
and place needs to be, by frequent confronting with the ideal of
godhead as revealed to that innate religious sense in the possession of
which Aurelius differed from the people around him, it was the
ground of many a sociability with their simpler souls, and for himself,
certainly, a consolation, whenever the wings of his own soul
flagged in the trying atmosphere of purely intellectual vision. A host of
companions, guides, helpers, about him from of old time, " the
very court and company of heaven," objects for him of personal
reverence and affection the supposed presence of the ancient
popular gods determined the character of much of his daily life, and
might prove the last stay of human nature at its weakest. " In
every time and place," he had said, " it rests with
thyself to use the event of the hour religiously : , at all seasons
worship the gods." And when he said " Worship the gods ! "
he did it, as strenuously as everything else. Yet here again,
how often must he have experienced disillusion, or even some revolt
of feeling, at that contact with coarser natures to which his
religious conclusions exposed him. At the beginning of the year one
hundred and seventy -three public anxiety was as great as ever ;
and as before it brought people's supersti- tion into unreserved play.
For seven days the images of the old gods, and some of the graver
new ones, lay solemnly exposed in the open air, arrayed in all their
ornaments, each in his separate resting-place, amid lights and
burning incense, while the crowd, following the imperial example,
daily visited them, with offerings of flowers to this or that particular
divinity, according to the devotion of each. But
supplementing these older official observ- ances, the very wildest gods
had their share of worship, strange creatures with strange secrets
startled abroad into open daylight. The deliri- ous sort of religion of
which Marius was a spectator in the streets of Rome, during the
seven days of the Lectisternium, reminded him now and again of an
observation of Apuleius : it was " as if the presence of the gods
did not do men good, but disordered or weakened them." Some
jaded women of fashion, especi- ally, found in certain oriental
devotions, at once relief for their religiously tearful souls and
an opportunity for personal display ; preferring this or that
"mystery," chiefly because the attire required in it was
suitable to their peculiar manner of beauty. And one morning
Marius encountered an extraordinary crimson object, borne in a
litter through an excited crowd -the famous courtesan Benedicta, still
fresh from the bath of blood, to which she had submitted herself,
sitting below the scaffold where the victims provided for that
purpose were slaughtered by the priests. Even on the last day of
the solemnity, when the emperor himself performed one of the oldest
ceremonies of the Roman religion, this fantastic piety had asserted
itself. There were victims enough certainly, brought from the choice
pastures of the Sabine mountains, and conducted around the city
they were to die for, in almost con- tinuous procession, covered with
flowers and well-nigh worried to death before the time by the
crowds of people superstitiously pressing to touch them. But certain
old-fashioned Romans, in these exceptional circumstances, demanded
something more than this, in the way of a human sacrifice after the
ancient pattern ; as when, not so long since, some Greeks or Gauls
had been buried alive in the Forum. At least, human blood should be
shed ; and it was through a wild multitude of fanatics, cutting their
flesh with knives and whips and licking up ardently the crimson
stream, that the emperor repaired to the temple of Bellona, and in solemn
symbolic act cast the bloodstained spear, or " dart," carefully
pre- served there, towards the enemy's country towards that unknown
world of German homes, still warm, as some believed under the faint
northern twilight, with those innocent affections of which Romans had
lost the sense. And this at least was clear, amid all doubts of
abstract right or wrong on either side, that the ruin of those
homes was involved in what Aurelius was then preparing for, with, Yes !
the gods be thanked for that achievement of an invigorat- ing
philosophy ! almost with a light heart. For, in truth, that
departure, really so difficult to him, for which Marcus Aurelius
had needed to brace himself so strenuously, came to test the power of a
long-studied theory of practice ; and it was the development of
this theory a theoria^ literally a view, an intuition, of the most
important facts, and still more im- portant possibilities, concerning man
in the world, that Marius now discovered, almost as if by accident,
below the dry surface of the manuscripts entrusted to him. The great
purple rolls contained, first of all, statistics, a general
historical account of the writer's own time, and an exact diary ; all
alike, though in three different degrees of nearness to the writer's
own personal experience, laborious, formal, self- suppressing. This
was for the instruction of the public ; and part of it has, perhaps,
found its way into the Augustan Histories. But it was for the
especial guidance of his son Commodus that he had permitted himself to
break out, here and there, into reflections upon what was pass- ing,
into conversations with the reader. And then, as though he were put off
his guard in this way, there had escaped into the heavy
matter-of-fact, of which the main portion was composed, morsels of his
conversation with him- self. It was the romance of a soul (to be
traced only in hints, wayside notes, quotations from older
masters), as it were in lifelong, and often baffled search after some
vanished or elusive golden fleece, or Hesperidean fruit-trees, or
some mysterious light of doctrine, ever retreat- ing before him. A man,
he had seemed to Marius from the first, of two lives, as we say. Of
what nature, he had sometimes wondered, on the day, for instance, when he
had inter- rupted the emperor's musings in the empty palace, might
be that placid inward guest or inhabitant, who from amid the
pre-occupations of the man of practical affairs looked out, as if
surprised, at the things and faces around. Here, then, under the tame
surface of what was meant for a life of business, Marius dis-
covered, welcoming a brother, the spontaneous self-revelation of a soul
as delicate as his own, a soul for which conversation with itself
was a necessity of existence. Marius, indeed, had always suspected
that the sense of such necessity was a peculiarity of his. But here,
certainly, was another, in this respect like himself; and again he
seemed to detect the advent of some new or changed spirit into the world,
mystic, inward, hardly to be satisfied with that wholly external
and objective habit of life, which had been sufficient for the old
classic soul. His purely literary curiosity was greatly stimulated
by this example of a book of self-portraiture. It was in fact the position
of the modern essayist, creature of efforts rather than of
achievements, in the matter of apprehending truth, but at least conscious
of lights by the way, which he must needs record, acknowledge. What
seemed to underlie that position was the desire to make the most of every
experience that might come, outwardly or from within : to
perpetuate, to display, what was so fleeting, f in a kind of instinctive,
pathetic protest against the imperial writer's own theory that
theory of the " perpetual flux " of all things to Marius
himself, so plausible from of old. There was, besides, a special
moral or doctrinal significance in the making of such conversation
with one's self at all. The Logos, the reasonable spark, in man, is
common to him with the gods KOWO? at 77/309 roi>$ 0eov9 cum diis
communis. That might seem but the truism of a certain school of
philosophy ; but in Aurelius was clearly an original and lively ap-
prehension. There could be no inward conver- sation with one's self such
as this, unless there were indeed some one else, aware of our
actual thoughts and feelings, pleased or displeased at one's
disposition of one's self. Cornelius Front* too could enounce that theory
of the reasonable community between men and God, in many different
ways. But then, he was a cheerful man, and Aurelius a singularly sad one
; and what to Pronto was but a doctrine, or a motive of mere
rhetoric, was to the other a consolation. He walks and talks, for a
spiritual refreshment lacking which he would faint by the way, with
what to the learned professor is but matter of philosophic
eloquence. In performing his public religious functions
Marcus Aurelius had ever seemed like one who took part in some great process,
a great thing really done, with more than the actually visible
assistants about him. Here, in these manu- scripts, in a hundred marginal
flowers of thought or language, in happy new phrases of his own
like the impromptus of an actual conversation, in quotations from other older
masters of the inward life, taking new significance from the
chances of such intercourse, was the record of his communion with that
eternal reason, which was also his own proper self, with the divine
companion, whose tabernacle was in the intelli- gence of men the journal
of his daily commerce with that. Chance : or Providence !
Chance : or Wis- dom, one with nature and man, reaching from end to
end, through all time and all exist- ence, orderly disposing all things,
according to fixed periods, as he describes it, in terms very like
certain well-known words of the book of Wisdom: those are the
"fenced opposites " of the speculative dilemma, the tragic
embarras^ of which Aurelius cannot too often remind himself as the
summary of man's situation in the world. If there be, however, a
provident soul like this " behind the veil," truly, even to
him, even in the most intimate of those conversations, it has never
yet spoken with any quite irresistible assertion of its presence. Yet
one's choice in that speculative dilemma, as he has found it, is on
the whole a matter of will. "'Tis in thy power," here too,
again, "to think as thou wilt." For his part he has asserted
his will, and has the courage of his opinion. " To the better
of two things, if thou findest that, turn with thy whole heart :
eat and drink ever of the best before thee." "Wisdom,"
says that other disciple of the Sapiential philosophy, " hath
mingled Her wine, she hath also prepared Herself a table." ToO
apurTov aTroXaue : "Partake ever of Her best ! " And what
Marius, peeping now very closely upon the intimacies of that
singular mind, found a thing actually * pathetic and affecting, was the
manner of the writer's bearing as in the presence of this supposed
guest ; so elusive, so jealous of any palpable manifestation of himself,
so taxing to one's faith, never allowing one to lean frankly upon
him and feel wholly at rest. Only, he would do his part, at least, in
maintaining the constant fitness, the sweetness and quiet, of the
guest-chamber. Seeming to vary with the in- tellectual fortune of the
hour, from the plainest account of experience, to a sheer fantasy,
only "believed because it was impossible/' that one hope was,
at all events, sufficient to make men's common pleasures and their common
ambition, above all their commonest vices, seem very petty indeed,
too petty to know of. It bred in him a kind of magnificence of character,
in the old Greek sense of the term ; a temper incompatible with any
merely plausible advocacy of his convic- tions, or merely superficial
thoughts about any- thing whatever, or talk about other people, or
speculation as to what was passing in their so visibly little souls, or
much talking of any kind, however clever or graceful. A soul thus
disposed had " already entered into the better life": was
indeed in some sort "a priest, a minister of the gods." Hence
his constant " re- collection " ; a close watching of his soul,
of a kind almost unique in the ancient world. Before all things
examine into thyself: strive to be at home 'with thyself ! Marius, a
sympathetic witness of all this, might almost seem to have had a
foresight of monasticism itself in the prophetic future. With this mystic
companion he had gone a step onward out of the merely objective
pagan existence. Here was already a master in that craft of
self-direction, which was about to So play so large a part in
the forming of human mind, under the sanction of the Christian
church. Yet it was in truth a somewhat melancholy service, a
service on which one must needs move about, solemn, serious, depressed,
with the hushed footsteps of those who move about the house where a
dead body is lying. Such was the impression which occurred to Marius
again and again as he read, with a growing sense of some profound
dissidence from his author. By certain quite traceable links of
association he was reminded, in spite of the moral beauty of the
philosophic emperor's ideas, how he had sat, essentially unconcerned, at
the public shows. For, actually, his contemplations had made him of
a sad heart, inducing in him that melancholy Tristitia which even the
monastic moralists have held to be of the nature of deadly sin,
akin to the sin of Desidia or Inactivity. Resignation, a sombre
resignation, a sad heart, patient bearing of the burden of a sad heart :
Yes ! this be- longed doubtless to the situation of an honest
thinker upon the world. Only, in this case there seemed to be too much of
a complacent acquiescence in the world as it is. And there could be
no true Theodicee in that ; no real accommodation of the world as it is,
to the divine pattern of the Logos y the eternal reason, over
against it. It amounted to a tolerance of evil. The soul of good,
though it moveth upon a way thou canst but little understand, yet
prospereth on the journey: If thou sufferest nothing contrary to nature,
there can be nought of evil with thee therein : If thou hast
done aught in harmony with that reason in which men are communicant
with the gods, there also can be nothing of evil with thee nothing
to be afraid of : Whatever is, is right ; as from the hand of one
dispensing to every man according to his desert : If
reason fulfil its part in things, what more dost thou require ? Dost thou
take it ill that thy stature is but of four cubits ? That which happeneth
to each of us is for the profit of the whole : The profit of
the whole, that was sufficient ! Links, in a train of thought
really generous ! of which, nevertheless, the forced and yet facile
optimism, refusing to see evil anywhere, might lack, after all, the
secret of genuine cheerfulness. It left in truth a weight upon the
spirits ; and with that weight unlifted, there could be no real
justification of the ways of Heaven to man. " Let thine air be
cheerful," he had said ; and, with an effort, did himself at times
attain to that serenity of aspect, which surely ought to accompany,
as their outward flower and favour, hopeful assumptions like those.
Still, what in Aurelius was but a passing expression, was with
Cornelius (Marius could but note the contrast) nature, and a veritable
physiognomy. With Cornelius, in fact, it was nothing less than the
joy which Dante apprehended in the blessed spirits of the perfect, the
outward semblance of which, like a reflex of physical light upon
human faces from " the land which is very far off," we
may trace from Giotto onward to its consumma- tion in the work of Raphael
the serenity, the durable cheerfulness, of those who have been
indeed delivered from death, and of which the utmost degree of that famed
" blitheness " of the Greeks had been but a transitory gleam,
as in careless and wholly superficial youth. And yet, in Cornelius,
it was certainly united with the bold recognition of evil as a fact in
the world ; real as an aching in the head or heart, which one
instinctively desires to have cured ; an enemy with whom no terms could
be made, visible, hatefully visible, in a thousand forms the ap-
parent waste of men's gifts in an early, or even in a late grave ; the
death, as such, of men, and even of animals ; the disease and pain of the
body. And there was another point of dissidence between Aurelius
and his reader. The philo- sophic emperor was a despiser of the
body. Since it is " the peculiar privilege of reason to move
within herself, and to be proof against corporeal impressions, suffering
neither sensation nor passion to break in upon her," it follows
that the true interest of the spirit must ever be to treat the body
Well ! as a corpse attached thereto, rather than as a living companion
nay, actually to promote its dissolution. In counter- poise to the
inhumanity of this, presenting itself to the young reader as nothing less
than a sin against nature, the very person of Cornelius was nothing
less than a sanction of that reverent delight Marius had always had in
the visible body of man. Such delight indeed had been but a natural
consequence of the sensuous or material- istic character of the
philosophy of his choice. } Now to Cornelius the body of man was
unmis- takeably, as a later seer terms it, the one true I
temple in the world ; or rather itself the proper object of worship, of a
sacred service, in which the very finest gold might have its
seemliness and due symbolic use : Ah ! and of what awe- stricken
pity also, in its dejection, in the perish- ing gray bones of a poor
man's grave ! Some flaw of vision, thought Marius, must be
involved in the philosopher's contempt for it- some diseased point of
thought, or moral dulness, leading logically to what seemed to him
the strangest of all the emperor's inhumanities, the temper of the
suicide ; for which there was just then, indeed, a sort of mania in the
world. " 'Tis part of the business of life," he read, "
to lose it handsomely." On due occasion, " one might give
life the slip." The moral or mental powers might fail one ; and then
it were a fair question, precisely, whether the time for taking
leave was not come : " Thou canst leave this prison when thou wilt.
Go forth boldly ! " Just there, in the bare capacity to entertain
such question at all, there was what Marius, with a soul which must
always leap up in loyal gratitude for mere physical sunshine,
touching him as it touched the flies in the air, could not away
with. There, surely, was a sign of some crookedness in the natural
power of apprehension. It was the attitude, the melancholy
intellectual attitude, of one who might be greatly mistaken in
things who might make the greatest of mistakes. A heart that
could forget itself in the mis- fortune, or even in the weakness of
others : of this Marius had certainly found the trace, as a confidant
of the emperor's conversations with himself, in spite of those jarring
inhumanities, of that pretension to a stoical indifference, and the
many difficulties of his manner of writing. He found it again not long
afterwards, in still stronger evidence, in this way. As he read one morning
early, there slipped from the rolls of manuscript a sealed letter with
the emperor's superscription, which might well be of importance, and he
felt bound to deliver it at once in person ; Aurelius being then
absent from Rome in one of his favourite retreats, at Praeneste, taking a
few days of quiet with his young children, before his departure for
the war. A whole day passed as Marius crossed the Gampagna on
horseback, pleased by the random autumn lights bringing out in the
distance the sheep at pasture, the shepherds in their picturesque dress,
the golden elms, tower and villa ; and it was after dark that he
mounted the steep street of the little hill-town to the imperial
residence. He was struck by an odd mixture of stillness and excitement
about the place. Lights burned at the windows. It seemed that
numerous visitors were within, for the courtyard was crowded with litters
and horses in waiting. For the moment, indeed, all larger cares,
even the cares of war, of late so heavy a pressure, had been forgotten in
what was passing with the little Annius Verus ; who for his part
had forgotten his toys, lying all day across the knees of his mother, as
a mere child's ear-ache grew rapidly to alarming sickness with great
and manifest agony, only suspended a little, from time to time,
when from very weariness he passed into a few moments of
unconsciousness. The country surgeon called in, had removed the
imposthume with the knife. There had been a great effort to bear this
operation, for the terrified child, hardly persuaded to submit him-
self, when his pain was at its worst, and even more for the parents. At
length, amid a company of pupils pressing in with him, as the
custom was, to watch the proceedings in the sick-room, the eminent Galen
had arrived, only to pronounce the thing done visibly useless, the
patient falling now into longer intervals of delirium. And thus, thrust
on one side by the crowd of departing visitors, Marius was forced
into the privacy of a grief, the desolate face of which went deep into
his memory, as he saw the emperor carry the child away quite
conscious at last, but with a touching expression upon it of
weakness and defeat pressed close to his bosom, as if he yearned just
then for one thing only, to be united, to be absolutely one with it, in
its obscure distress. Paratum cor meum deus ! paratum cor meum
! THE emperor demanded a senatorial decree for the erection
of images in memory of the dead prince ; that a golden one should be carried,
together with the other images, in the great procession of the Circus,
and the addition of the child's name to the Hymn of the Salian Priests
: and so, stifling private grief, without further delay set forth
for the war. True kingship, as Plato, the old master of
Aurelius, had understood it, was essentially of the nature of a service.
If so be, you can discover a mode of life more desirable than the being
a king, for those who shall be kings ; then, the true Ideal of the
State will become a possibility; but not otherwise. And if the life of
Beatific Vision be indeed possible, if philosophy really "
concludes in an ecstasy/' affording full fruition to the entire nature of
man ; then, for certain elect souls at least, a mode of life will have
been discovered more desirable than to be a king. By love or fear
you might induce such persons to forgo their privilege ; to take upon
them the distasteful task of governing other men, or even of
leading them to victory in battle. But, by the very conditions of its
tenure, their dominion would be wholly a ministry to others : they
would have taken upon them " the form of a servant ": they
would be reigning for the well- being of others rather than their own.
The true king, the righteous king, would be Saint Lewis, exiling
himself from the better land and its perfected company so real a thing to
him, definite and real as the pictured scenes of his psalter to
take part in or to arbitrate men's quarrels, about the transitory
appearances of things. In a lower degree (lower, in proportion as
the highest Platonic dream is lower than any Christian vision) the true
king would be Marcus Aurelius, drawn from the meditation of books,
to be the ruler of the Roman people in peace, and still more, in
war. To Aurelius, certainly, the philosophic mood, the
visions, however dim, which this mood brought with it, were sufficiently
pleasant to him, together with the endearments of his home, to make
public rule nothing less than a sacrifice of himself according to Plato's
requirement, now consummated in his setting forth for the cam-
paign on the Danube. That it was such a sacrifice was to Marius visible
fact, as he saw hirn ceremoniously lifted into the saddle amid all the
pageantry of an imperial departure, yet with the air less of a sanguine
and self-reliant leader than of one in some way or other already
defeated. Through the fortune of the subsequent years, passing and
repassing so inexplicably from side to side, the rumour of which reached
him amid his own quiet studies, Marius seemed always to see that
central figure, with its habitually dejected hue grown now to an
expression of positive suffering, all the stranger from its contrast
with the magnificent armour worn by the emperor on this occasion,
as it had been worn by his pre- decessor Hadrian. Totus et
argento contextus et auro : clothed in its gold and silver, dainty
as that old divinely constructed armour of which Homer tells, but
without its miraculous lightsomeness he looked out baffled, labouring,
moribund ; a mere comfortless shadow taking part in some shadowy
reproduction of the labours of Hercules, through those northern,
mist-laden confines of the civilised world. It was as if the
familiar soul which had been so friendly disposed towards him were
actually departed to Hades ; and when he read the Conversations
afterwards, though his judgment of them underwent no material
change, it was nevertheless with the allowance we make for the
dead. The memory of that suffering image, while it certainly strengthened
his adhesion to what he could accept at all in the philo- sophy of
Aurelius, added a strange pathos to what must seem the writer's mistakes.
What, after all, had been the meaning of that incident, observed as
so fortunate an omen long since, when the prince, then a little child
much younger than was usual, had stood in ceremony among the
priests of Mars and flung his crown of flowers with the rest at the
sacred image reclin- ing on the Pulvinar ? The other crowns lodged
themselves here or there ; when, Lo ! the crown thrown by Aurelius, the
youngest of them all, alighted upon the very brows of the god, as
if placed there by a careful hand ! He was still young, also, when on the
day of his adoption by Antoninus Pius he saw himself in a dream,
with as it were shoulders of ivory, like the images of the gods,
and found them more capable than shoulders of flesh. Yet he was now
well-nigh fifty years of age, setting out with two-thirds of life
behind him, upon a labour which would fill the remainder of it with
anxious cares a labour for which he had perhaps no capacity, and
certainly no taste. That ancient suit of armour was almost
the only object Aurelius now possessed from all those much
cherished articles of vertu collected by the Caesars, making the imperial
residence like a magnificent museum. Not men alone were needed for
the war, so that it became necessary, to the great disgust alike of timid
persons and of thelovers of sport, to arm the gladiators, but money
also was lacking. Accordingly, at the sole motion of Aurelius himself,
unwilling that the public burden should be further increased,
especially on the part of the poor, the whole of the imperial ornaments
and furniture, a sump- tuous collection of gems formed by Hadrian,
with many works of the most famous painters and sculptors, even the
precious ornaments of the emperor's chapel or Lararium, and the ward-
robe of the empress Faustina, who seems to have borne the loss without a
murmur, were exposed for public auction. u These treasures,"
said Aurelius, " like all else that I possess, belong by
right to the Senate and People." Was it not a characteristic of the
true kings in Plato that they had in their houses nothing they could
call their own ? Connoisseurs had a keen delight in the mere
reading of the Prtetor's list of the property for sale. For two months
the learned in these matters were daily occupied in the appraising
of the embroidered hangings, the choice articles of personal use selected
for pre- servation by each succeeding age, the great out- landish
pearls from Hadrian's favourite cabinet, the marvellous plate lying safe
behind the pretty iron wicker-work of the shops in the goldsmiths'
quarter. Meantime ordinary persons might have an interest in the
inspection of objects which had been as daily companions to people so
far above and remote from them things so fine also in workmanship
and material as to seem, with their antique and delicate air, a worthy
survival of the grand bygone eras, like select thoughts or
utterances embodying the very spirit of the vanished past. The town
became more pensive than ever over old fashions. The welcome
amusement of this last act of preparation for the great war being now
over, all Rome seemed to settle down into a singular quiet, likely
to last long, as though bent only on watching from afar the languid,
somewhat un- eventful course of the contest itself. Marius took
advantage of it as an opportunity for still closer study than of old,
only now and then going out to one of his favourite spots on the Sabine
or Alban hills for a quiet even greater than that of Rome in the
country air. On one of these occasions, as if by favour of an invisible
power withdrawing some unknown cause of dejection from around him,
he enjoyed a quite unusual sense of self-possession the possession of
his own best and happiest self. After some gloomy thoughts
over-night, he awoke under the full tide of the rising sun, himself full,
in his entire refreshment, of that almost religious appreciation of
sleep, the graciousness of its influence on men's spirits, which had made
the old Greeks conceive of it as a god. It was like one of those old
joyful wakings of childhood, now becoming rarer and rarer with him,
and looked back upon with much regret as a measure of advancing age. In
fact, the last bequest of this serene sleep had been a dream, in
which, as once before, he overheard those he loved best pronouncing his
name very pleasantly, as they passed through the rich light and
shadow of a summer morning, along the pavement of a city Ah ! fairer far
than Rome ! In a moment, as he arose, a certain oppression of late
setting very heavily upon him was lifted away, as though by some physical
motion in the air. That flawless serenity, better than the
most pleasurable excitement, yet so easily ruffled by chance
collision even with the things and persons he had come to value as the
greatest treasure in life, was to be wholly his to-day, he thought,
as he rode towards Tibur, under the early sunshine ; the marble of
its villas glistening all the way before him on the hillside. And why
could he not hold such serenity of spirit ever at command ? he
asked, expert as he was at last become in the art of setting the house of
his thoughts in order. " 'Tis in thy power to think as thou wilt :
" he repeated to himself : it was the most serviceable of all
the lessons enforced on him by those imperial conversations. " 'Tis
in thy power to think as thou wilt." And were the cheerful,
sociable, restorative beliefs, of which he had there read so much, that
bold adhesion, for instance, to the hypothesis of an eternal friend
to man, just hidden behind the veil of a mechanical and material
order, but only just behind it, ready perhaps even now to break through
: were they, after all, really a matter of choice, dependent on
some deliberate act of volition on his part ? Were they doctrines one
might take for granted, generously take for granted, and led on by
them, at first as but well-defined objects of hope, come at last into the
region of a corre- sponding certitude of the intellect ? " It is
the truth I seek," he had read, " the truth, by which no
one," gray and depressing though it might seem, "was ever
really injured." And yet, on the other hand, the imperial wayfarer,
he had been able to go along with so far on his intel- lectual
pilgrimage, let fall many things con- cerning the practicability of a
methodical and self-forced assent to certain principles or pre-
suppositions " one could not do without." Were there, as the
expression " one could not do 'without " seemed to hint,
beliefs, without which life itself must be almost impossible, principles
which had their sufficient ground of evidence in that very fact?
Experience certainly taught that, as regarding the sensible world he
could attend or not, almost at will, to this or that colour, this
or that train of sounds, in the whole tumultuous concourse of colour and
sound, so it was also, for the well-trained intelligence, in regard
to that hum of voices which besiege the inward no less than the
outward ear. Might it be not otherwise with those various and
competing hypotheses, the permissible hypotheses, which, in that
open field for hypothesis one's own actual ignorance of the origin and
tendency of our being present themselves so importunately, some of
them with so emphatic a reiteration, through all the mental changes of
successive ages ? Might the will itself be an org an of
knowledge, of vision ? On this day truly no mysterious light,
no irresistibly leading hand from afar reached him ; only the
peculiarly tranquil influence of its first hour increased steadily upon
him, in a manner with which, as he conceived, the aspects of the
place he was then visiting hadsomething to do. The air there, air
supposed to possess the singular property of restoring the whiteness of
ivory, was pure and thin. An even veil of lawn-like white cloud had
now drawn over the sky; and under its broad, shadowless light every hue
and tone of time came out upon the yellow old temples, the elegant
pillared circle of the shrine of the patronal Sibyl, the houses seemingly
of a piece with the ancient fundamental rock. Some half- conscious
motive of poetic grace would appear to have determined their grouping ;
in part resisting, partly going along with the natural wildness and
harshness of the place, its floods and precipices. An air of immense
age possessed, above all, the vegetation around a world of
evergreen trees the olives especially, older than how many generations of
men's lives ! fretted and twisted by the combining forces of life
and death, intoevery conceivable caprice of form. In the windless weather
all seemed to be listening to the roar of the immemorial waterfall,
plunging down so unassociably among these human habitations, and with a
motion so un- changing from age to age as to count, even in this
time-worn place, as an image of unalterable rest. Yet the clear sky all
but broke to let through the ray which was silently quickening
everything in the late February afternoon, and the unseen violet refined
itself through the air. / It was as if the spirit of life in nature were
but withholding any too precipitate revelation of itself, in its
slow, wise, maturing work. Through some accident to the trappings
of his horse at the inn where he rested, Marius had an unexpected
delay. He sat down in an olive- garden, and, all around him and within
still turning to reverie, the course of his own life hitherto
seemed to withdraw itself into some other world, disparted from this
spectacular point where he was now placed to survey it, like that
distant road below, along which he had travelled this morning across the
Campagna. Through a dreamy land he could see himself moving, as if
in another life, and like another person, through all his fortunes and misfortunes,
passing from point to point, weeping, delighted, escaping from
various dangers. That prospect brought him, first of all, an impulse of
lively gratitude : it was as if he must look round for some one else
to share his joy with : for some one to whom he might tell the thing, for
his own relief. Companionship, indeed, familiarity with others,
gifted in this way or that, or at least pleasant to him, had been,
through one or another long span of it, the chief delight of the
journey. And was it only the resultant general sense of such familiarity,
diffused through his memory, that in a while suggested the question
whether there had not been besides Flavian, besides Cornelius even, and
amid the solitude which in spite of ardent friendship he had
perhaps loved best of all things some other companion, an unfailing
companion, ever at his side throughout ; doubling his pleasure in
the roses by the way, patient of his peevishness or depression,
sympathetic above all with his grate- ful recognition, onward from his
earliest days, of the fact that he was there at all ? Must not the
whole world around have faded away for him altogether, had he been left
for one moment really alone in it f In his deepest apparent
solitude there had been rich entertainment. It was as if there were not
one only, but two way- farers, side by side, visible there across the
plain, as he indulged his fancy. A bird came and sang among the
wattled hedge-roses : an animal feed- ing crept nearer : the child who
kept it was gazing quietly : and the scene and the hours still
conspiring, he passed from that mere fantasy of a self not himself,
beside him in his coming and going, to those divinations of a living and
com- panionable spirit at work in all things, of which he had
become aware from time to time in his old philosophic readings in Plato
and others, , last but not least, in Aurelius. Through one
reflection upon another, he passed from such instinctive divinations, to
the thoughts which give them logical consistency, formulating at
last, as the necessary exponent of our own and the world's life, that
reasonable Ideal to which the Old Testament gives the name of
Creator, which for the philosophers of Greece is the Eternal
Reason, and in the New Testament the Father of Men even as one builds up
from act and word and expression of the friend actually visible at
one's side, an ideal of the spirit within him. In this
peculiar and privileged hour, his bodily frame, as he could recognise, although
just then, in the whole sum of its capacities, so entirely possessed by
him Nay ! actually his very self was yet determined by a
far-reaching system of material forces external to it, a thousand
combining currents from earth and sky. Its seemingly active powers of
appre- hension were, in fact, but susceptibilities to ,
influence. The perfection of its capacity might be said to depend on its
passive surrender, as of a leaf on the wind, to the motions of the
great stream of physical energy without it. And might not the
intellectual frame also, still more intimately himself as in truth it was,
after the analogy of the bodily life, be a moment only, an impulse
or series of impulses, a single process, in an intellectual or spiritual
system external to it, diffused through all time and place that
great stream of spiritual energy, of which his own imperfect thoughts,
yesterday or to-day, would be but the remote, and therefore im-
perfect pulsations ? It was the hypothesis (boldest, though in reality
the most conceivable of all hypotheses) which had dawned on the
contemplations of the two opposed great masters of the old Greek thought,
alike: the "World of Ideas," existent only because, and in so
far as, they are known, as Plato conceived ; the " creative,
incorruptible, informing mind, " sup- posed by Aristotle, so
sober-minded, yet as regards this matter left something of a mystic
after all. Might not this entire material world," the very scene
around him, the immemorial rocks, the firm marble, the olive-gardens,
the falling water, be themselves but reflections in, or a creation
of, that one indefectible mind, wherein he too became conscious, for an
hour, a day, for so many years ? Upon what other hypothesis could
he so well understand the persistency of all these things for his
own intermittent consciousness of them, for the intermittent
consciousness of so many generations, fleeting away one after another ?
It was easier to conceive of the material fabric of things as but an
element in a world of thought as a thought in a mind, than of mind as an
element, or accident, or passing condition in a world of matter,
because mind was really nearer to him- self : it was an explanation of
what was less known by what was known better. The purely material
world, that close, impassable prison- wall, seemed just then the unreal
thing, to be actually dissolving away all around him : and he felt
a quiet hope, a quiet joy dawning faintly, in the dawning of this
doctrine upon him as a really credible opinion. It was like the
break of day over some vast prospect with the " new
city," as it were some celestial New Rome, in the midst of it. That
divine companion figured no longer as but an occasional wayfarer
beside him ; but rather as the unfailing " assist- ant,"
without whose inspiration and concurrence he could not breathe or see,
instrumenting his bodily senses, rounding, supporting his imperfect
thoughts. How often had the thought of their brevity spoiled for him the
most natural pleasures of life, confusing even his present sense of
them by the suggestion of disease, of death, of a coming end, in
everything ! How had he longed, sometimes, that there were indeed
one to whose boundless power of memory he could commit his own most
fortunate moments, his admiration, his love, Ay ! the very sorrows
of which he could not bear quite to lose the sense : one strong to retain
them even though he forgot, in whose more vigorous consciousness
they might subsist for ever, beyond that mere quickening of capacity
which was all that remained of them in himself ! " Oh ! that
they might live before Thee " To-day at least, in the peculiar
clearness of one privileged hour, he seemed to have apprehended that in
which the experiences he valued most might find, one by one, an
abiding-place. And again, the result- ant sense of companionship, of a
person beside him, evoked the faculty of conscience of conscience,
as of old and when he had been at his best, in the form, not of fear, nor
of ] self-reproach even, but of a certain lively gratitude.
Himself his sensations and ideas never fell again precisely into
focus as on that day, | yet he was the richer by its experience.
But for once only to have come under the power of that peculiar mood,
to have felt the train of reflections which belong to it really
forcible and conclusive, to have been led by them to a conclusion,
to have apprehended the Great \ Ideal) so palpably that it defined
personal * gratitude and the sense of a friendly hand laid upon him
amid the shadows of the world, left this one particular hour a marked
point in life never to be forgotten. It gave him a definitely
ascertained measure of his moral or intellectual need, of the demand his
soul must make upon the powers, whatsoever they might be, which had
brought him, as he was, into the world at all. And again, would he be
faithful to himself, to his own habits of mind, his leading
suppositions, if he did but remain just there ? Must not all that
remained of life be but a search for the equivalent of that Ideal,
among so-called actual things a gathering together of every trace
or token of it, which his actual experience might present ? "
Your old men shall dream dreams." A nature like that of
Marius, composed, in about equal parts, of instincts almost
physical, and of slowly accumulated intellectual judg- ments, was
perhaps even less susceptible than other men's characters of essential
change. And yet the experience of that fortunate hour, seeming to
gather into one central act of vision ; all the deeper impressions his
mind had ever, received, did not leave him quite as he had been.
For his mental view, at least, it changed measurably the world about him,
of which he was still indeed a curious spectator, but which looked
further off, was weaker in its hold, and, in a sense, less real to him
than ever. It was as if he viewed it through a diminishing glass.
And the permanency of this change he could note, some years later, when
it happened that he was a guest at a feast, in which the various
exciting elements of Roman life, its physical and intellectual
accomplish- ments, its frivolity and far-fetched elegances, its
strange, mystic essays after the unseen, were elaborately combined. The
great Apuleius> the literary ideal of his boyhood, had arrived
in Rome, was now visiting Tusculum, at the house of their common friend,
a certain aristo- cratic poet who loved every sort of superiorities
; and Marius was favoured with an invitation to a supper given in
his honour. It was with a feeling of half-humorous concession
to his own early boyish hero-worship, yet with some sense of superiority
in himself, seeing his old curiosity grown now almost to
indifference when on the point of satisfaction at last, and upon a juster
estimate of its object, that he mounted to the little town on the
hillside, the foot -ways of which were so many flights of
easy-going steps gathered round a single great house under shadow of the "haunted"
ruins of Cicero's villa on the wooded heights. He found a touch of
weirdness in the cir- cumstance that in so romantic a place he had
been bidden to meet the writer who was come to seem almost like one of
the personages in his own fiction. As he turned now and then to
gaze at the evening scene through the tall narrow openings of the street,
up which the cattle were going home slowly from the pastures below,
the Alban mountains, stretched between the great walls of the ancient
houses, seemed close at hand a screen of vaporous dun purple against
the setting sun with those waves of surpassing softness in the boundary
lines which indicate volcanic formation. The cool- ness of the
little brown market-place, for profit of which even the working-people,
in long file through the olive- gardens, were leaving the plain for
the night, was grateful, after the heats of Rome. Those wild country
figures, clad in every kind of fantastic patchwork, stained by wind
and weather fortunately enough for the eye, under that significant light
inclined him to poetry. And it was a very delicate poetry of its
kind that seemed to enfold him, \ as passing into the poet's house he
paused for; a moment to glance back towards the heights above ;
whereupon, the numerous cascades of the precipitous garden of the villa,
framed in the doorway of the hall, fell into a harmless picture, in
its place among the pictures within, and scarcely more real than they a
landscape- piece, in which the power of water (plunging into what
unseen depths !) done to the life, was pleasant, and without its natural
terrors. At the further end of this bland apartment, fragrant
with the rare woods of the old inlaid panelling, the falling of aromatic
oil from the ready-lighted lamps, the iris-root clinging to the
dresses of the guests, as with odours from the altars of the gods, the
supper-table was spread, in all the daintiness characteristic of the
agree- able petit-maitrC) who entertained. He was already most
carefully dressed, but, like Martial's Stella, perhaps consciously, meant
to change his attire once and again during the banquet ; in the
last instance, for an ancient vesture (object of much rivalry among the
young men of fashion, at that great sale of the imperial wardrobes)
a toga, of altogether lost hue and texture. He wore it with a grace
which became the leader of a thrilling movement then on foot for the
restora- tion of that disused garment, in which, laying aside the
customary evening dress, all the visitors were requested to appear,
setting off the delicate sinuosities and well-disposed " golden
ways" of its folds, with harmoniously tinted flowers. The
opulent sunset, blending pleasan tly with artificial light, fell
across the quiet ancestral effigies of old consular dignitaries, along
the wide floor strewn with sawdust of sandal -wood, and lost itself
in the heap of cool coronals, lying ready for the foreheads of the guests
on a sideboard of old citron. The crystal vessels darkened with old
wine, the hues of the early autumn fruit mulberries, pomegranates, and
grapes that had long been hanging under careful protection upon the
vines, were almost as much a feast for the eye, as the dusky fires of the
rare twelve-petalled roses. A favourite animal, white as snow,
brought by one of the visitors, purred its way gracefully among the
wine-cups, coaxed onward from place to place by those at table, as
they reclined easily on their cushions of German eider-down, spread
over the long-legged, carved couches. A highly refined
modification of the acroama a musical performance during supper for
the diversion of the guests was presently heard hovering round the
place, soothingly, and so unobtrusively that the company could not
guess, and did not like to ask, whether or not it had been designed
by their entertainer. They inclined on the whole to think it some
wonderful peasant- music peculiar to that wild neighbourhood, turn-
ing, as it did now and then, to a solitary reed- note, like a bird's,
while it wandered into the distance. It wandered quite away at last,
as darkness with a bolder lamplight came on, and made way for
another sort of entertainment. An odd, rapid, phantasmal glitter,
advancing from the garden by torchlight, defined itself, as it came
nearer, into a dance of young men in armour. Arrived at length in a
portico, open to the supper-chamber, they contrived that their
mechanical march-movement should fall out into a kind of highly
expressive dramatic action ; and with the utmost possible emphasis of
dumb motion, their long swords weaving a silvery network in the
air, they danced the Death of Paris. The young Commodus, already an
adept in these matters, who had condescended to welcome the eminent
Apuleius at the banquet, had mysteriously dropped from his place to
take his share in the performance ; and at its con- clusion
reappeared, still wearing the dainty accoutrements of Paris, including a
breastplate, composed entirely of overlapping tigers' claws, skilfully
gilt. The youthful prince had lately assumed the dress of manhood, on the
return of the emperor for a brief visit from the North ; putting up
his hair, in imitation of Nero, in a golden box dedicated to Capitoline
Jupiter. His likeness to Aurelius, his father, was become, in
consequence, more striking than ever ; and he had one source of genuine
interest in the great literary guest of the occasion, in that the
latter was the fortunate possessor of a monopoly for the exhibition
of wild beasts and gladiatorial shows in the province of Carthage, where
he resided. Still, after all complaisance to the perhaps
somewhat crude tastes of the emperor's son, it was felt that with a guest
like Apuleius whom they had come prepared to entertain as veritable
connoisseurs, the conversation should be learned and superior, and the
host at last deftly led his company round to literature, by the way of
bind- ings. Elegant rolls of manuscript from his fine library of
ancient Greek books passed from hand to hand about the table. It was a
sign for the visitors themselves to draw their own choicest
literary curiosities from their bags, as their con- tribution to the
banquet ; and one of them, a famous reader, choosing his lucky
moment, delivered in tenor voice the piece which follows, with a
preliminary query as to whether it could indeed be the composition of
Lucian of Samosata, understood to be the great mocker of that day
: " What sound was that, Socrates ? " asked
Chaerephon. " It came from the beach under the cliff yonder, and
seemed a long way off. And how melodious it was ! Was it a bird, I
wonder. I thought all sea-birds were songless." "Aye! a
sea-bird," answered Socrates, "a bird called the Halcyon, and
has a note full of plaining and tears. There is an old story people
tell of it. It was a mortal woman once, daughter of ^Eolus, god of the
winds. Ceyx, the son of the morning-star, wedded her in her early
maidenhood. The son was not less fair than the father; and when it came
to pass that he died, the crying of the girl as she lamented his
sweet usage, was, Just that ! And some while after, as Heaven
willed, she was changed into a bird. Floating now on bird's wings over
the sea she seeks her lost Ceyx there ; since she was not able to
find him after long wandering over the land." "
That then is the Halcyon the kingfisher," said Chaerephon. " I
never heard a bird like it before. It has truly a plaintive note.
What kind of a bird is it, Socrates f " " Not a
large bird, though she has received large honour from the gods on account
of her singular conjugal affection. For whensoever she makes her
nest, a law of nature brings round what is called Halcyon's weather, days
distinguish- able among all others for their serenity, though they
come sometimes amid the storms of winter days like to-day ! See how
transparent is the sky above us, and how motionless the sea ! like
a smooth mirror." " True ! A Halcyon day, indeed ! and
yester- day was the same. But tell me, Socrates, what is one to
think of those stories which have been told from the beginning, of birds
changed into mortals and mortals into birds ? To me nothing seems
more incredible." "Dear Chaerephon," said Socrates,
"methinks we are but half-blind judges of the impossible and
the possible. We try the question by the standard of our human faculty,
which avails neither for true knowledge, nor for faith, nor vision.
Therefore many things seem to us impossible which are really easy, many
things unattainable which are within our reach ; partly through
inexperience, partly through the child- ishness of our minds. For in
truth, every man, even the oldest of us, is like a little child, so
brief and babyish are the years of our life in comparison of eternity.
Then, how can we, who comprehend not the faculties of gods and of
the heavenly host, tell whether aught of that kind be possible or no f
What a tempest you saw three days ago ! One trembles but to think of
the lightning, the thunderclaps, the violence of the wind ! You might
have thought the whole world was going to ruin. And then, after a
little, came this wonderful serenity of weather, which has continued till
to-day. Which do you think the greater and more difficult thing to do
: to exchange the disorder of that irresistible whirlwind to a
clarity like this, and becalm the whole world again, or to refashion the
form of a woman into that of a bird ? We can teach even little
children to do something of that sort, to take wax or clay, and mould out
of the same material many kinds of form, one after another, without
difficulty. And it may be that to the Deity, whose power is too vast for
comparison with ours, all processes of that kind are manage- able
and easy. How much wider is the whole circle of heaven than thyself?
Wider than thou canst express. "Among ourselves also,
how vast the differ- ence we may observe in men's degrees of power
! To you and me, and many another like us, many things are impossible
which are quite easy to others. For those who are un- musical, to play
on the flute ; to read or write, for those who have not yet learned ; is
no easier than to make birds of women, or women of birds. From the
dumb and lifeless egg Nature moulds her swarms of winged creatures,
aided, as some will have it, by a divine and secret art in the wide
air around us. She takes from the honeycomb a little memberless live
thing ; she brings it wings and feet, brightens and beautifies it
with quaint variety of colour : and Lo ! the bee in her wisdom, making
honey worthy of the gods. "It follows, that we mortals,
being alto- gether of little account, able wholly to discern no
great matter, sometimes not even a little one, for the most part at a
loss regarding what happens even with ourselves, may hardly speak
with security as to what may be the powers of the immortal gods
concerning Kingfisher, or Nightingale. Yet the glory of thy mythus,
as my fathers bequeathed it to me, O tearful songstress ! that will I too
hand on to my children, and tell it often to my wives, Xanthippe
and Myrto : the story of thy pious love to Ceyx, and of thy melodious
hymns ; and, above all, of the honour thou hast with the gods !
" The reader's well-turned periods seemed to stimulate,
almost uncontrollably, the eloquent stirrings of the eminent man of
letters then present. The impulse to speak masterfully was visible,
before the recital was well over, in the moving lines about his mouth, by
no means designed, as detractors were wont to say, simply to
display the beauty of his teeth. One of the company, expert in his
humours, made ready to transcribe what he would say, the sort
of things of which a collection was then forming, the " Florida
" or Flowers, so to call them, he was apt to let fall by the way no
impromptu ventures at random ; but rather elaborate, carved
ivories of speech, drawn, at length, out of the rich treasure-house of a
memory stored with such, and as with a fine savour of old musk about
them. Certainly in this case, as Marius thought, it was worth while to
hear a charming writer speak. Discussing, quite in our modern way,
the peculiarities of those sub- urban views, especially the sea-views, of
which he was a professed lover, he was also every inch a priest of
Aesculapius, patronal god of Carthage. There was a piquancy in his
rococo^ very African, and as it were perfumed person- ality, though
he was now well-nigh sixty years old, a mixture there of that sort of
Platonic spiritualism which can speak of the soul of man as but a
sojourner in the prison of the body a blending of that with such a
relish for merely bodily graces as availed to set the fashion in
matters of dress, deportment, accent, and the like, nay ! with something
also which reminded Marius of the vein of coarseness he had found
in the "Golden Book/' All this made the total impression he conveyed
a very uncommon one. Marius did not wonder, as he watched him
speaking, that people freely attributed to him many of the marvellous
adven- tures he had recounted in that famous romance, over and above
the wildest version of his own actual story his extraordinary marriage,
his religious initiations, his acts of mad generosity, his trial as
a sorcerer. But a sign came from the imperial prince that it
was time for the company to separate. He was entertaining his immediate
neighbours at the table with a trick from the streets ; tossing his
olives in rapid succession into the air, and catching them, as they fell,
between his lips. His dexterity in this performance made the mirth
around him noisy, disturbing the sleep of the furry visitor : the learned
party broke up ; and Marius withdrew, glad to escape into the open
air. The courtesans in their large wigs of false blond hair, were lurking
for the guests, with groups of curious idlers. A great con-
flagration was visible in the distance. Was it in Rome ; or in one of the
villages of the country ? Pausing for a few minutes on the terrace
to watch it, Marius was for the first time able to converse
intimately with Apuleius ; and in this moment of confidence the "
illuminist," himself with locks so carefully arranged, and
seemingly so full of affectations, almost like one of those light
women there, dropped a veil as it were, and appeared, though still
permitting the play of a certain element of theatrical interest in
hi s bizarre tenets, to be ready to explain and defend his
position reasonably. For a moment his fantastic foppishness and his
pretensions to ideal vision seemed to fall into some intelligible
con- gruity with each other. In truth, it was the Platonic
Idealism, as he conceived it, which for him literally animated, and gave
him so livelyan interest in, this world of the purely outward aspects of
men and things. Did material things, such things as they had had around
them all that evening, really need apology for being there, to
interest one, at all ? Were not all visible objects the whole material
world indeed, according to the consistent testimony of philosophy in
many forms "full of souls"? embarrassed perhaps, partly
imprisoned, but still eloquent souls ? Certainly, the contemplative
philosophy of Plato, with its figurative imagery and apologue, its
mani- fold aesthetic colouring, its measured eloquence, its music
for the outward ear, had been, like Plato's old master himself, a
two-sided or two- coloured thing. Apuleius was a Platonist : only,
for him, the Ideas of Plato were no creatures of logical abstraction, but
in very truth informing souls, in every type and variety of sensible
things. Those noises in the house all supper- time, sounding through the
tables and along the walls : were they only startings in the old
rafters, at the impact of the music and laughter ; or rather
importunities of the secondary selves, the true unseen selves, of the
persons, nay ! of the very things around, essaying to break through
their frivolous, merely transitory surfaces, to remind one of abiding
essentials beyond them, which might have their say, their judgment
to give, by and by, when the shifting of the meats and drinks at
life's table would be over ? And was not this the true significance of
the Platonic doctrine ? a hierarchy of divine beings, associ- ating
themselves with particular things and places, for the purpose of
mediating between God and man man, who does but need due attention
on his part to become aware of his celestial company, filling the air
about him, thick as motes in the sunbeam, for the glance of sympathetic
intelligence he casts through it. " Two kinds there are, of
animated beings," he exclaimed : " Gods, entirely differing
from men in the infinite distance of their abode, since one part of
them only is seen by our blunted vision those mysterious stars! in the
eternity of their existence, in the perfection of their nature,
infected by no contact with ourselves : and men, dwelling on the earth,
with frivolous and anxious minds, with infirm and mortal members,
with variable fortunes ; labouring in vain ; taken altogether and in
their whole species perhaps, eternal ; but, severally, quitting the
scene in irresistible succession. " What then ? Has nature
connected itself together by no bond, allowed itself to be thus
crippled, and split into the divine and human elements ? And you will say
to me : If so it be, that man is thus entirely exiled from the
immortal gods, that all communication is denied him, that not one of them
occasionally visits us, as a shepherd his sheep to whom shall I
address my prayers ? Whom, shall I invoke as the helper of the
unfortunate, the protector of the good ? " Well ! there
are certain divine powers of a middle nature, through whom our
aspirations are conveyed to the gods, and theirs to us. Passing
between the inhabitants of earth and heaven, they carry from one to the
other prayers and bounties, supplication and assistance, being a
kind of interpreters. This interval of the air is full of them ! Through
them, all revelations, miracles, magic processes, are effected.
For, specially appointed members of this order have their special
provinces, with a ministry according to the disposition of each. They go
to and fro without fixed habitation : or dwell in men's houses
" Just then a companion's hand laid in the dark- ness on
the shoulder of the speaker carried him away, and the discourse broke off
suddenly. Its singular intimations, however, were sufficient to
throw back on this strange evening, in all its detail the dance, the readings,
the distant fire a kind of allegoric expression : gave it the
character of one of those famous Platonic figures or apologues which had
then been in fact under discussion. When Marius recalled its
circum- stances he seemed to hear once more that voice of genuine
conviction, pleading, from amidst a scene at best of elegant frivolity,
for so boldly mystical a view of man and his position in the world.
For a moment, but only for a moment, as he listened, the trees had
seemed, as of old, to be growing " close against the sky." Yes
! the reception of theory, of hypothesis, of beliefs, did depend a
great deal on temperament. They were, so to speak, mere equivalents of
tempera- ment. A celestial ladder, a ladder from heaven to earth:
that was the assumption which the experience of Apuleius had suggested to
him : it was what, in different forms, certain persons in every age
had instinctively supposed : they would be glad to find their supposition
accredited by the authority of a grave philosophy. Marius, however,
yearning not less than they, in that hard world of Rome, and below its
unpeopled sky, for the trace of some celestial wing across it, must
still object that they assumed the thing with too much facility, too much
of self-com- placency. And his second thought was, that to indulge
but for an hour fantasies, fantastic visions of that sort, only left the
actual world more lonely than ever. For him certainly, and for his
solace, the little godship for whom the rude countryman, an unconscious Platonist,
trimmed his twinkling lamp, would never slip from the bark of these
immemorial olive-trees. No ! not even in the wildest moonlight. For
himself, it was clear, he must still hold by what his eyes really
saw. Only, he had to concede also, that the very boldness of such theory
bore witness, at least, to a variety of human disposition and a
consequent variety of mental view, which might who can tell ? be
correspondent to, be defined by and define, varieties of facts, of
truths, just " behind the veil," regarding the world all
alike had actually before them as their original premiss or
starting-point ; a world, wider, perhaps, in its possibilities than all
possible fancies concernng it. " Your old men shall dream dreams, and
your young men shall see visions." Cornelius had certain
friends in or near Rome, whose household, to Marius, as he pondered
now and again what might be the determining influ- ences of that
peculiar character, presented itself as possibly its main secret the
hidden source from which the beauty and strength of a nature, so
persistently fresh in the midst of a somewhat jaded world, might be
derived. But Marius had never yet seen these friends; and it was
almost by accident that the veil of reserve was at last lifted,
and, with strange contrast to his visit to the poet's villa at Tusculum,
he entered another curious house. "The house in which
she lives," says that mystical German writer quoted once before,
" is for the orderly soul, which does not live on blindly
before her, but is ever, out of her passing experiences, building and
adorning the parts of a many-roomed abode for herself, only an
expansion of the body ; as the body, according to the philosophy of
Swedenborg, is but a process, an expansion, of the soul. For such an
orderly soul, as life proceeds, all sorts of delicate affinities
establish themselves, between herself and the doors and passage-ways, the
lights and shadows, of her outward dwelling-place, until she may
seem incorporate with it until at last, in the entire expressiveness of
what is outward, there is for her, to speak properly, between
outward and inward, no longer any distinction at all ; and the
light which creeps at a particular hour on a particular picture or space
upon the wall, the scent of flowers in the air at a particular
window, become to her, not so much apprehended objects, as
themselves powers of apprehension and door- ways to things beyond the
germ or rudiment of certain new faculties, by which she, dimly yet
surely, apprehends a matter lying beyond her actually attained capacities
of spirit and sense." So it must needs be in a world which is
itself, we may think, together with that bodily " tent "
or " tabernacle," only one of many vestures for the clothing of
the pilgrim soul, to be left by her, surely, as if on the wayside,
worn-out one by one, as it was from her, indeed, they borrowed what
momentary value or significance they had. The two friends were returning
to Rome from a visit to a country-house, where again a mixed
company of guests had been assembled ; Marius, for his part, a little
weary of gossip, and those sparks of ill-tempered rivalry, which
would seem sometimes to be the only sort of fire the intercourse of
people in general society can strike out of them. A mere reaction upon
this, as they started in the clear morning, made their com-
panionship, at least for one of them, hardly less tranquillising than the
solitude he so much valued. Something in the south-west wind,
combining with their own intention, favoured increasingly, as the hours
wore on, a serenity like that Marius had felt once before in
journeying over the great plain towards Tibur a serenity that was
to-day brotherly amity also, and seemed to draw into its own charmed
circle whatever was then present to eye or ear, while they talked
or were silent together, and all petty irritations, and the like, shrank
out of existence, or kept certainly beyond its limits. The natural
fatigue of the long journey overcame them quite suddenly at last,
when they were still about two miles distant from Rome. The seemingly
end- less line of tombs and cypresses had been visible for hours
against the sky towards the west ; and it was just where a cross-road
from the Latin Way fell into the Appian, that Cornelius halted at a
doorway in a long, low wall the outer wall of some villa courtyard, it
might be supposed as if at liberty to enter, and rest there awhile.
He held the door open for his companion to enter also, if he would ; with
an expression, as he lifted the latch, which seemed to ask Marius,
apparently shrinking from a possible intrusion : " Would you like to
see it ? " Was he willing to look upon that, the seeing of which
might define yes ! define the critical turning-point in his days
? The little doorway in this long, low wall admitted them, in
fact, into the court or garden of a villa, disposed in one of those
abrupt natural hollows, which give its character to the country in
this place ; the house itself, with all its dependent buildings, the
spaciousness of which surprised Marius as he entered, being thus
wholly concealed from passengers along the road. All around, in those
well-ordered precincts, were the quiet signs of wealth, and of a noble
taste a taste, indeed, chiefly evidenced in the selection and
juxtaposition of the material it had to deal with, consisting almost
exclusively of the remains of older art, here arranged and harmonised,
with effects, both as regards colour and form, so delicate as to
seem really derivative from some finer intelligence in these matters than
lay within the resources of the ancient world. It was the \ old way
of true Renaissance being indeed the way of nature with her roses, the
divine way with the body of man, perhaps with his soul conceiving
the new organism by no sudden and abrupt creation, but rather by the
action of a new I principle upon elements, all of which had in
truth already lived and died many times. The fragments of older
architecture, the mosaics, the spiral columns, the precious corner-stones
of im- memorial building, had put on, by such juxta- position, a
new and singular expressiveness, an air of grave thought, of an
intellectual purpose, in itself, aesthetically, very seductive. Lastly,
herb and tree had taken possession, spreading their seed-bells and light
branches, just astir in the trembling air, above the ancient
garden-wall, against the wide realms of sunset. And from the first
they could hear singing, the singing of children mainly, it would seem,
and of a new kind ; so novel indeed in its effect, as to bring
suddenly to the recollection of Marius, Flavian's early essays towards a
new world of poetic sound. It was the expression not altogether of mirth,
yet of some wonderful sort of happiness the blithe self-expansion
of a joyful soul in people upon whom some all-subduing experience had
wrought heroically, and who still remembered, on this bland
afternoon, the hour of a great deliverance. His old native susceptibility
to the spirit, the special sympathies, of places, above all, to any
hieratic or religious significance they might have, was at its liveliest,
as Marius, still encompassed by that peculiar singing, and still amid
the evidences of a grave discretion all around him, passed into the
house. That intelligent seriousness about life, the absence of which had
ever seemed to remove those who lacked it into some strange species
wholly alien from himself, ac- cumulating all the lessons of his
experience since those first days at White-nights, was as it were
translated here, as if in designed congruity with his favourite precepts
of the power of physical vision, into an actual picture. If the true
value of souls is in proportion to what they can admire, Marius was
just then an acceptable soul. As he passed through the various chambers,
great and small, one dominant thought increased upon him, the
thought of chaste women and their children of all the various affections
of family life under its most natural conditions, yet developed, as
if in devout imitation of some sublime new type of it, into large
controlling passions. There reigned throughout, an order and purity, an
orderly dis- position, as if by way of making ready for some
gracious spousals. The place itself was like a bride adorned for her
husband ; and its singular cheerfulness, the abundant light everywhere,
the sense of peaceful industry, of which he received a deep
impression though without precisely reckoning wherein it resided, as he
moved on rapidly, were in forcible contrast just at first to the
place to which he was next conducted by Cornelius still with a sort of
eager, hurried, half- troubled reluctance, and as if he forbore the
explanation which might well be looked for by his companion. An old
flower-garden in the rear of the house, set here and there with a
venerable olive-tree a picture in pensive shade and fiery blossom,
as transparent, under that afternoon light, as the old miniature-painters'
work on the walls of the chambers within was bounded towards the
west by a low, grass-grown hill. A narrow opening cut in its steep side,
like a solid black- ness there, admitted Marius and his gleaming
leader into a hollow cavern or crypt, neither more nor less in fact than
the family burial- place of the Cecilii, to whom this residence
belonged, brought thus, after an arrangement then becoming not unusual,
into immediate connexion with the abode of the living, in bold
assertion of that instinct of family life, which the sanction of the Holy
Family was, hereafter, more and more to reinforce. Here, in truth,
was the centre of the peculiar religious expres- siveness, of the
sanctity, of the entire scene. That "any person may, at his own
election, constitute the place which belongs to him a religious
place, by the carrying of his dead into it": had been a maxim of old
Roman law, which it was reserved for the early Christian societies,
like that established here by the piety of a wealthy Roman matron, to
realise in all its consequences. Yet this was certainly unlike any
cemetery Marius had ever before seen ; most obviously in this, that these
people had returned to the older fashion of disposing of their dead
by burial instead of burning. Origin- ally a family sepulchre, it was
growing to a vast necropolis^ a whole township of the deceased, by
means of some free expansion of the family interest beyond its amplest
natural limits. That air of venerable beauty which characterised
the house and its precincts above, was maintained also here. It was
certainly with a great outlay of labour that these long, apparently
endless, yet elaborately designed galleries, were increasing so
rapidly, with their layers of beds or berths, one above another, cut, on
either side the path- way, in the porous tufa^ through which all
the moisture filters downwards, leaving the parts above dry and
wholesome. All alike were care- fully closed, and with all the delicate
costliness at command ; some with simple tiles of baked clay, many
with slabs of marble, enriched by fair inscriptions : marble taken, in
some cases, from older pagan tombs the inscription some- times a
palimpsest^ the new epitaph being woven into the faded letters of an
earlier one. As in an ordinary Roman cemetery, an abundance
of utensils for the worship or com memoration of the departed was disposed
around incense, lights, flowers, their flame or their freshness
being relieved to the utmost by contrast with the coal-like blackness of
the soil itself, a volcanic sandstone, cinder of burnt- out fires.
Would they ever kindle again ? possess, transform, the place ? Turning to
an ashen pallor where, at regular intervals, an air-hole or luminare
let in a hard beam of clear but sunless light, with the heavy sleepers,
row upon row within, leaving a passage so narrow that only one
visitor at a time could move along, cheek to cheek with them, the
high walls seemed to shut one in into the great company of the
dead. Only the long straight pathway lay before him ; opening,
however, here and there, into a small chamber, around a broad,
table-like coffin or " altar-tomb," adorned even more profusely
than the rest as if for some anniversary observance. Clearly, these
people, concurring in this with the special sympathies of Marius
himself, had adopted the practice of burial from some peculiar feeling of
hope they entertained concerning the body ; a feeling which, in no
irreverent curiosity, he would fain have penetrated. The complete and
irreparable disappearance of the dead in the funeral fire, so
crushing to the spirits, as he for one had found it, had long since
induced in him a preference for that other mode of settlement to the
last sleep, as having something about it more home- like and
hopeful, at least in outward seeming. But whence the strange confidence
that these "handfuls of white dust" would hereafter re-
compose themselves once more into exulting human creatures ? By what
heavenly alchemy, what reviving dew from above, such as was
certainly never again to reach the dead violets ? Januarius, Agapetus^
Felicitas ; Martyrs ! refresh, I pray you, the soul of Cecil, of
Cornelius ! said an inscription, one of many, scratched, like a
passing sigh, when it was still fresh in the mortar that had closed up
the prison-door. All critical estimate of this bold hope, as
sincere apparently as it was audacious in its claim, being set
aside, here at least, carried further than ever before, was that pious,
systematic commemoration of the dead, which, in its chivalrous
refusal to forget or finally desert the helpless, had ever counted with
Marius as the central exponent or symbol of all natural duty.
The stern soul of the excellent Jonathan Edwards, applying the faulty
theology of John Calvin, afforded him, we know, the vision of
infants not a span long, on the floor of hell. Every visitor to the
Catacombs must have observed, in a very different theological con-
nexion, the numerous children's graves there beds of infants, but a span
long indeed, lowly "prisoners of hope," on these sacred
floors. It was with great curiosity, certainly, that Marius
considered them, decked in some in- stances with the favourite toys of
their tiny occupants toy-soldiers, little chariot-wheels, the
entire paraphernalia of a baby-house ; and when he saw afterwards the
living children, who sang and were busy above sang their psalm
Laudate Pueri Dominumf their very faces caught for him a sort of quaint
unreality from the memory of those others, the children of the
Catacombs, but a little way below them. Here and there,
mingling with the record of merely natural decease, and sometimes
even at these children's graves, were the signs of violent death or
" martyrdom," proofs that some " had loved not their lives
unto the death " in the little red phial of blood, the
palm-branch, the red flowers for their heavenly " birthday."
About one sepulchre in particular, distinguished in this way, and
devoutly arrayed for what, by a bold paradox, was thus treated as,
natalitia a birthday, the peculiar arrangements of the whole place
visibly centered. And it was with a singular novelty of feeling, like the
dawn- ing of a fresh order of experiences upon him, that, standing
beside those mournful relics, snatched in haste from the common place
of execution not many years before, Marius be- came, as by some
gleam of foresight, aware of the whole force of evidence for a
certain strange, new hope, defining in its turn some new and
weighty motive of action, which lay in deaths so tragic for the "
Christian superstition." Something of them he had heard indeed
already. They had seemed to him but one savagery the more, savagery
self- provoked, in a cruel and stupid world. And yet these
poignant memorials seemed also to draw him onwards to-day, as if
towards an image of some still more pathetic suffering, in the
remote background. Yes ! the interest, the expression, of the entire neighbourhood
was instinct with it, as with the savour of some priceless incense.
Penetrating the whole atmosphere, touching everything around with
its peculiar sentiment, it seemed to make all this visible mortality,
death's very self Ah ! lovelier than any fable of old mythology had
ever thought to render it, in the utmost limits i of fantasy ; and this,
in simple candour of feeling about a supposed fact. Peace! Pax! Pax
tecuml the word, the thought was put forth everywhere, with images of
hope, snatched sometimes from that jaded pagan world which had
really afforded men so little of it from first to last ; the various
consoling images it had thrown off, of succour, of regeneration, of
escape from the grave Hercules wrestling with Death for possession
of Alcestis, Orpheus taming the wild beasts, the Shepherd with his sheep,
the Shepherd carrying the sick lamb upon his shoulders. Yet these
imageries after all, it must be confessed, formed but a slight
contribution to the dominant effect of tranquil hope there a kind
of heroic cheerfulness and grateful ex- i pansion of heart, as with the
sense, again, of some real deliverance, which seemed to deepen the
longer one lingered through these strange and awful passages. A figure,
partly pagan in character, yet most frequently repeated of all
these visible parables the figure of one just escaped from the sea, still
clinging as for life to the shore in surprised joy, together with
the inscription beneath it, seemed best to express the prevailing
sentiment of the place. And it was just as he had puzzled out this inscription
/ went down to the bottom of the mountains. The earth with her bars
was about me for ever : Yet hast Thou brought up my life from corruption
! that with no feeling of suddenness or change Marius found himself
emerging again, like a later mystic traveller through similar dark
places " quieted by hope," into the daylight. They were
still within the precincts of the house, still in possession of that
wonderful sing- ing, although almost in the open country, with a
great view of the Campagna before them, and the hills beyond. The orchard
or meadow, through which their path lay, was already gray with
twilight, though the western sky, where the greater stars were visible,
was still afloat in crimson splendour. The colour of all earthly
things seemed repressed by the contrast, yet with a sense of great
richness lingering in their shadows. At that moment the voice of
the singers, a " voice of joy and health," concen- trated
itself with solemn antistrophic movement, into an evening, or "
candle " hymn. " Hail ! Heavenly Light, from his pure
glory poured, Who is the Almighty Father, heavenly, blest :
Worthiest art Thou, at all times to be sung With undefiled
tongue." It was like the evening itself made audible, its hopes
and fears, with the stars shining in the midst of it. Half above, half
below the level white mist, dividing the light from the dark- ness,
came now the mistress of this place, the wealthy Roman matron, left early
a widow a,i few years before, by Cecilius " Confessor and [
Saint." With a certain antique severity in the I gathering of the
long mantle, and with coif or veil folded decorously below the chin,
" gray within gray," to the mind of Marius her temperate
beauty brought reminiscences of the serious and virile character of the
best female statuary of Greece. Quite foreign, however, to any
Greek statuary was the expression of pathetic care, with which she
carried a little child at rest in her arms. Another, a year or two
older, walked beside, the fingers of one hand within her girdle. She
paused for a moment with a greeting for Cornelius. That
visionary scene was the close, the fit- ting close, of the afternoon's
strange experiences. A few minutes later, passing forward on his
way along the public road, he could have fancied it a dream. The
house of Cecilia grouped itself beside that other curious house he had
lately visited at Tusculum. And what a contrast was presented by
the former, in its suggestions of hopeful industry, of immaculate
cleanness, of responsive affection ! all alike determined by that
transporting discovery of some fact, or series of facts, in which the old
puzzle of life had found its solution. In truth, one of his most
characteristic and constant traits had ever been a certain longing for
escape for some sudden, relieving interchange, across the very spaces
of life, it might be, along which he had lingered most pleasantly
for a lifting, from time to time, of the actual horizon. It was like
the necessity under which the painter finds himself, to set a
window or open doorway in the back- ground of his picture ; or like a
sick man's longing for northern coolness, and the whisper- ing
willow-trees, amid the breathless evergreen forests of the south. To some
such effect had this visit occurred to him, and through so slight
an accident. Rome and Roman life, just then, were come to seem like some
stifling forest of bronze -work, transformed, as if by malign en-
chantment, out of the generations of living trees, yet with roots in a
deep, down-trodden soil of poignant human susceptibilities. In the
midst of its suffocation, that old longing for escape had been
satisfied by this vision of the church in Cecilia's house, as never before.
It was still, indeed, according to the unchangeable law of his
temperament, to the eye, to the visual faculty of mind, that those
experiences appealed the peaceful light and shade, the boys whose
very faces seemed to sing, the virginal beauty of the mother and her
children. But, in his case, what was thus visible constituted a
moral or spiritual influence, of a somewhat exigent and controlling
character, added anew to life, a new element therein, with which,
consistently with his own chosen maxim, he must make terms.
The thirst for every kind of experience, encouraged by a philosophy
which taught that nothing was intrinsically great or small, good or
evil, had ever been at strife in him with a hieratic refinement, in which
the boy -priest survived, prompting always the selection of what
was perfect of its kind, with subsequent loyal adherence of his soul
thereto. This had carried him along in a continuous communion with
ideals, certainly realised in part, either in the conditions of his own
being, or in the actual company about him, above all, in Cornelius.
Surely, in this strange new society he had touched upon for the first
time to-day in this strange family, like "a garden enclosed "
was the fulfilment of all trie preferences, the judg- ments, of that
half-understood friend, which of late years had been his protection so
often amid the perplexities of life. Here, it might be, was, if not
the cure, yet the solace or anodyne of his great sorrows of that
constitutional sorrowfulness, not peculiar to himself perhaps, but
which had made his life certainly like one long " disease of the
spirit." Merciful intention made itself known remedially here, in
the mere contact of the air, like a soft touch upon aching flesh. On
the other hand, he was aware that new responsibilities also might be
awakened new and untried responsibilities a demand for something
from him in return. Might this new vision, like the malignant beauty of
pagan Medusa, be exclusive of any admiring gaze upon anything but
itself? At least he suspected that, after the beholding of it, he could
never again be altogether as he had been before. Faithful to the
spirit of his early Epicurean philosophy and the impulse to surrender
himself, in perfectly liberal inquiry about it, to anything that,
as a matter of fact, attracted or impressed him strongly, Marius informed
himself with much pains concerning the church in Cecilia's house ;
inclining at first to explain the peculi- arities of that place by the
establishment there of the schola or common hall of one of those
burial- guilds, which then covered so much of the unofficial, and,
as it might be called, subterranean enterprise of Roman society.
And what he found, thus looking, literally, for the dead among the
living, was the vision of a natural, a scrupulously natural, love,
transform- ing, by some new gift of insight into the truth of human
relationships, and under the urgency of some new motive by him so far
unfathomable, all the conditions of life. He saw, in all its primi-
tive freshness and amid the lively facts of its! actual coming into the
world, as a reality of experience, that regenerate type of humanity,
which, centuries later, Giotto and his successors, down to the best and
purest days of the young Raphael, working under conditions very
friendly to the imagination, were to conceive as an artistic ideal.
He felt there, felt amid the stirring of some wonderful new hope within
himself, the genius, the unique power of Christianity; in exercise
then, as it has been exercised ever since, in spite of many hindrances,
and under the most inopportune circumstances. Chastity, as he
seemed to understand the chastity of men and women, amid all the
conditions, and with the results, proper to such chastity, is the
most beautiful thing in the world and the truest con- servation of
that creative energy by which men and women were first brought into it.
The nature of the family, for which the better genius of old Rome
itself had sincerely cared, of the family and its appropriate affections
all that love of one's kindred by which obviously one does triumph
in some degree over death had never been so felt before. Here, surely! in
its genial warmth, its jealous exclusion of all that was opposed to
it, to its own immaculate naturalness, in the hedge set around the sacred
thing on every side, this development of the family did but carry
forward, and give effect to, the purposes, the kindness, of nature
itself, friendly to man. As if by way of a due recognition of some
im- measurable divine condescension manifest in a certain historic
fact, its influence was felt more especially at those points which
demanded some sacrifice of one's self, for the weak, for the aged,
for little children, and even for the dead. And % then, for its constant
outward token, its significant manner or index, it issued in a certain
debonair grace, and a certain mystic attractiveness, a courtesy,
which made Marius doubt whether that famed Greek " blitheness,"
or gaiety, or grace, in the handling of life, had been, after all,
an unrivalled success. Contrasting with the in- curable insipidity even
of what was most exquisite in the higher Roman life, of what was still
truest to the primitive soul of goodness amid its evil, the new
creation he now looked on as it were a picture beyond the craft of any
master of old pagan beauty had indeed all the appropriate freshness
of a " bride adorned for her husband." Things new and old
seemed to be coming as if out of some goodly treasure-house, the brain
full of science, the heart rich with various sentiment, possessing
withal this surprising healthfulness, this reality of heart.
" You would hardly believe," writes Pliny to his own wife
! "what a longing for you possesses me. Habit that we have not
been used to be apart adds herein to the primary force of
affection. It is this keeps me awake at night fancying I see you beside
me. That is why my feet take me unconsciously to your sitting-room
at those hours when I was wont to visit you there. That is why I turn from
the door of the empty chamber, sad and ill-at-ease, like an
excluded lover." There, is a real idyll from that family
life, the protection of which had been the motive of so large a
part of the religion of the Romans, still surviving among them ; as it
survived also in Aurelius, his disposition and aims, and, spite of
slanderous tongues, in the attained sweetness of his interior life. What
Marius had been per- mitted to see was a realisation of such life
higher still : and with Yes ! with a more effective sanction and
motive than it had ever possessed before, in that fact, or series of
facts, to be ascer- tained by those who would. The central
glory of the reign of the Anto- nines was that society had attained in
it, though very imperfectly, and for the most part by cumbrous
effort of law, many of those ends to which Christianity went straight,
with the sufficiency, the success, of a direct and appro- priate
instinct. Pagan Rome, too, had its touch- ing charity-sermons on
occasions of great public distress ; its charity-children in long file,
in memory of the elder empress Faustina ; its prototype, under
patronage of Aesculapius, of the modern hospital for the sick on the
island of Saint Bartholomew. But what pagan charity was doing
tardily, and as if with the painful cal- culation of old age, the church
was doing, almost without thinking about it, with all the
liberal enterprise of youth, because it was her very being thus to
do. " You fail to realise your own good intentions," she seems
to say, to pagan virtue, pagan kindness. She identified herself
with those intentions and advanced them with an un- paralleled
freedom and largeness. The gentle Seneca would have reverent burial
provided even for the dead body of a criminal. Yet when a certain
woman collected for interment the insulted remains of Nero, the pagan
world surmised that she must be a Christian: only a Christian would
have been likely to conceive so chivalrous a devotion towards mere
wretchedness. "We refuse to be witnesses even of a homicide
com- manded by the law," boasts the dainty consciena of a
Christian apologist, " we take no part ii your cruel sports nor in
the spectacles of the amphitheatre, and we hold that to witness a
murder is the same thing as to commit one." And there was another
duty almost forgotten, the sense of which Rousseau brought back to
the degenerate society of a later age. In an im- passioned discourse
the sophist Favorinus counsels mothers to suckle their own infants ; and
there are Roman epitaphs erected to mothers, which gratefully
record this proof of natural affection as a thing then unusual. In this
matter too, what a sanction, what a provocative to natural duty, lay
in that image discovered to Augustus by the Tiburtine Sibyl, amid the
aurora of a new age, the image of the Divine Mother and the Child,
just then rising upon the world like the dawn ! Christian
belief, again, had presented itself as a great inspirer of chastity.
Chastity, in turn, realised in the whole scope of its conditions,
fortified that rehabilitation of peaceful labour, after the mind, the
pattern, of the workman of Galilee, which was another of the natural
in- stincts of the catholic church, as being indeed the
long-desired initiator of a religion of cheerfulness, as a true lover of
the industry so to term it the labour, the creation, of God.
And this severe yet genial assertion of the ideal of woman, of the
family, of industry, of man's work in life, so close to the truth of
nature, was also, in that charmed hour of the minor " Peace of
the church," realised as an influence tending to beauty, to the
adornment of life and the world. The sword in the world, the right
eye plucked out, the right hand cut off*, the spirit of reproach which
those images express, and of which monasticism is the fulfilment, reflect
one side only of the nature of the divine missionary of the New
Testament. Opposed to, yet blent with, this ascetic or militant
character, is the function of the Good Shepherd, serene, blithe and
debonair, beyond the gentlest shepherd of Greek mythology; of a king
under whom the beatific vision is realised of a reign of peace--
peace of heart among men. Such aspect of the divine character of Christ,
rightly understood, is indeed the final consummation of that bold
and brilliant hopefulness in man's nature, which had sustained him
so far through his immense labours, his immense sorrows, and of which
pagan gaiety in the handling of life, is but a minor achieve- ment.
Sometimes one, sometimes the other, of those two contrasted aspects of
its Founder, have, in different ages and under the urgency of
different human needs, been at work also in the Christian Church.
Certainly, in that brief " Peace of the church " under the
Antonines, the spirit of a pastoral security and happiness seems to
have been largely expanded. There, in the early church of Rome, was
to be seen, and on sufficiently reasonable grounds, that
satisfaction and serenity on a dispassionate survey of the facts of
life, which all hearts had desired, though for the most part in vain,
contrasting itself for Marius, in particular, very forcibly, with
the imperial philosopher's so heavy burden of un- relieved
melancholy. It was Christianity in its humanity, or even its humanism, in
its generous hopes for man, its common sense and alacrity of
cheerful service, its sympathy with all creatures, its appreciation of beauty
and daylight. " The angel of righteousness," says the
Shep- herd of Hermas, the most characteristic religious book of
that age, its Pilgrim's Progress "the angel of righteousness is
modest and delicate and meek and quiet. Take from thyself grief,
for (as Hamlet will one day discover) 'tis the sister of doubt and
ill-temper. Grief is more evil than any other spirit of evil, and is most
dread- ful to the servants of God, and beyond all spirits
destroyeth man. For, as when good news is come to one in grief,
straightway he forgetteth his former grief, and no longer attendeth to
any- thing except the good news which he hath heard, so do ye, also
! having received a renewal of your soul through the beholding of these
good things. Put on therefore gladness that hath always favour
before God, and is acceptable unto Him, and delight thyself in it ; for
every man that is glad doeth the things that are good, and thinketh
good thoughts, despising grief." Such were the commonplaces of this
new people, among whom so much of what Marius had valued most in
the old world seemed to be under renewal and further promotion. Some
trans- forming spirit was at work to harmonise con- trasts, to
deepen expression a spirit which, in its dealing with the elements of
ancient life, was guided by a wonderful tact of selection, exclu-
sion, juxtaposition, begetting thereby a unique effect of freshness, a
grave yet wholesome beauty, because the world of sense, the whole
outward world was understood to set forth the veritable unction and
royalty of a certain priesthood and kingship of the soul within, among
the preroga- tives of which was a delightful sense of freedom. The
reader may think perhaps, that Marius, who, Epicurean as he was, had his
visionary aptitudes, by an inversion of one of Plato's peculiarities
with which he was of course familiar, must have descended, \>j
foresight, upon a later age than his own, and anticipated Chris-
tian poetry and art as they came to be under the influence of Saint
Francis of Assisi. But if he dreamed on one of those nights of the
beautiful house of Cecilia, its lights and flowers, of Cecilia
herself moving among the lilies, with an en- hanced grace as happens
sometimes in healthy dreams, it was indeed hardly an anticipation.
He had lighted, by one of the peculiar in- ) tellectual good-fortunes of
his life, upon a period when, even more than in the days of austere
ascesis which had preceded and were to follow it, the church was true for
a moment, truer perhaps than she would ever be again, to that
element of profound serenity in the soul of her Founder, which reflected
the eternal goodwill of God to man, " in whom," according to
the oldest version of the angelic message, " He is well-
pleased." For what Christianity did many centuries
afterwards in the way of informing an art, a poetry, of graver and higher
beauty, we may think, than that of Greek art and poetry at their
best, was in truth conformable to the original tendency of its genius. The
genuine capacity of the catholic church in this direction,
discover- able from the first in the New Testament, was also really
at work, in that earlier " Peace," under the Antonines the minor
"Peace of the church," as we might call it, in distinction
from the final " Peace of the church," commonly so
called, under Constantine. Saint Francis, with his following in the
sphere of poetry and of the arts the voice of Dante, the hand of
Giotto giving visible feature and colour, and a palpable place
among men, to the regenerate race, did but re-establish a continuity,
only suspended in part by those troublous intervening centuries the
"dark ages," properly thus named with the gracious spirit
of the primitive church, as manifested in that first early springtide of
her success. The greater " Peace " of Constantine, on the
other hand, in many ways, does but establish the ex- clusiveness,
the puritanism, the ascetic gloom which, in the period between Aurelius
and the first Christian emperor, characterised a church under
misunderstanding or oppression, driven back, in a world of tasteless
controversy, inwards upon herself. Already, in the reign of
Antoninus Pius, the time was gone by when men became Christians
under some sudden and overpowering impression, and with all the
disturbing results of such a crisis. At this period the larger number,
perhaps, had been born Christians, had been ever with peaceful
hearts in their " Father's house." That earlier belief in the
speedy coming of judgment and of the end of the world, with the
con- sequences it so naturally involved in the temper of men's
minds, was dying out. Every day the contrast between the church and the
world was becoming less pronounced. And now also, as the church
rested awhile from opposition, that rapid self-development outward from
within, proper to times of peace, was in progress. Antoninus Pius,
it might seem, more truly even than Marcus Aurelius himself, was of that
group of pagan saints for whom Dante, like Augustine, has provided
in his scheme of the house with many mansions. A sincere old Roman
piety had urged his fortunately constituted nature to no mistakes,
no offences against humanity. And of his entire freedom from guile one
reward had been this singular happiness, that under his rule there
was no shedding of Christian blood. To him belonged that half-humorous
placidity of soul, of a kind illustrated later very effectively by
Montaigne, which, starting with an instinct of mere fairness towards human
nature and the world, seems at last actually to qualify its
possessor to be almost the friend of the people of Christ. Amiable, in
its own nature, and full of a reasonable gaiety, Christianity has often
had its advantage of characters such as that. The geni- ality of
Antoninus Pius, like the geniality of the earth itself, had permitted the
church, as being in truth no alien from that old mother earth, to
expand and thrive for a season as by natural process. And that charmed
period under the Antonines, extending to the later years of
the reign of Aurelius (beautiful, brief, chapter of ecclesiastical
history !), contains, as one of its motives of interest, the earliest
development of Christian ritual under the presidence of the church
of Rome. Again as in one of those mystical, quaint visions of
the Shepherd of Hernias, "the aged woman was become by degrees more
and more youthful. And in the third vision she was quite young, and
radiant with beauty : only her hair was that of an aged woman. And at the
last she was joyous, and seated upon a throne seated upon a throne,
because her position is a strong one." The subterranean worship of
the church belonged properly to those years of her early history in
which it was illegal for her to worship at all. But, hiding herself for
awhile as con- flict grew violent, she resumed, when there was felt
to be no more than ordinary risk, her natural freedom. And the kind of
outward prosperity she was enjoying in those moments of her first
" Peace," her modes of worship now blossoming freely
above-ground, was re-inforced by the deci- sion at this point of a crisis
in her internal history. In the history of the church, as
throughout the moral history of mankind, there are two distinct
ideals, either of which it is possible to maintain two conceptions, under
one or the other of which we may represent to ourselves men's
efforts towards a better life corresponding to those two contrasted
aspects, noted above, as discernible in the picture afforded by the
New Testament itself of the character of Christ. The ideal of
asceticism represents moral effort as essentially a sacrifice, the
sacrifice of one part of human nature to another, that it may live
the more completely in what survives of it ; while the ideal of
culture represents it as a harmonious development of all the parts of
human nature, in just proportion to each other. It was to the
latter order of ideas that the church, and' especially the church of Rome
in the age of the Antonines, freely lent herself. In that earlier
" Peace " she had set up for herself the ideal of spiritual
development, under the guidance of an instinct by which, in those serene
moments, she was absolutely true to the peaceful soul of her
Founder. " Goodwill to men," she said, " in whom God
Himself is well -pleased ! " For a little while, at least, there was
no forced opposi- tion between the soul and the body, the world and
the spirit, and the grace of graciousness itself was pre-eminently with
the people of Christ. Tact, good sense, ever the note of a true
ortho- doxy, the merciful compromises of the church, indicative of
her imperial vocation in regard to all the varieties of human kind, with
a universal- ity of which the old Roman pastorship she was
superseding is but a prototype, was already become conspicuous, in spite
of a discredited, irritating, vindictive society, all around her.
Against that divine urbanity and moderation the old error of Montanus we
read of dimly, was a fanatical revolt sour, falsely anti-mun- dane,
ever with an air of ascetic affectation, and a bigoted distaste in
particular for all the peculiar graces of womanhood. By it the
desire to please was understood to come of the author of evil. In
this interval of quietness, it was perhaps inevitable, by the law of
reaction, that some such extravagances of the religious temper
should arise. But again the church of Rome, now becoming every day more
and more com- pletely the capital of the Christian world, checked
the nascent Montanism, or puritanism of the moment, vindicating for all
Christian people a cheerful liberty of heart, against many a narrow
group of sectaries, all alike, in their different ways, accusers of the
genial creation of God. With her full, fresh faith in the Evange/e
in a veritable regeneration of the earth and the body, in the dignity of
man's entire personal being for a season, at least, at that
critical period in the development of Christianity, she was for
reason, for common sense, for fairness to human nature, and generally for
what may be called the naturalness of Christianity. As also for its
comely order: she would be "brought to her king in raiment of
needlework." It was by the bishops of Rome, diligently
transforming themselves, in the true catholic sense, into universal
pastors, that the path of what we must call humanism was thus
defined. And then, in this hour of expansion, as if now at last the
catholic church might venture to show her outward lineaments as they
really were, worship "the beauty of holiness," nay! the
elegance of sanctity was developed, with a bold and confident gladness,
the like of which has hardly been the ideal of worship in any later
age. The tables in fact were turned : the prize of a cheerful temper on a
candid survey of life was no longer with the pagan world. The
aesthetic charm of the catholic church, her evoca- tive power over all
that is eloquent and expres- sive in the better mind of man, her
outward comeliness, her dignifying convictions about human nature :
all this, as abundantly realised centuries later by Dante and Giotto, by
the great medieval church-builders, by the great ritualists like
Saint Gregory, and the masters of sacred music in the middle age we may
see already, in dim anticipation, in those charmed moments towards
the end of the second century. Dissi- pated or turned aside, partly
through the fatal mistake of Marcus Aurelius himself, for a brief
space of time we may discern that influence clearly predominant there.
What might seem harsh as dogma was already justifying itself as
worship ; according to the sound rule : Lex orandi^ lex credendi Our
Creeds are but the brief abstract of our prayer and song. The
wonderful liturgical spirit of the church, her wholly unparalleled genius
for worship, being thus awake, she was rapidly re-organising both
pagan and Jewish elements of ritual, for the expanding therein of her own
new heart of devotion. Like the institutions of monasticism, like
the Gothic style of architecture, the ritual system of the church, as we
see it in historic retrospect, ranks as one of the great, conjoint,
and (so to term them) necessary, products of human mind. Destined for
ages to come, to direct with so deep a fascination men's religious
instincts, it was then already recognisable as a new and precious fact in
the sum of things. What has been on the whole the method of the
church, as " a power of sweetness and patience," in dealing
with matters like pagan art, pagan literature was even then manifest ;
and has the character of the moderation, the divine modera- tion of
Christ himself. It was only among the ignorant, indeed, only in the
" villages," that Christianity, even in conscious triumph
over paganism, was really betrayed into iconoclasm. In the final
" Peace " of the Church under Constantine, while there was
plenty of destruc- tive fanaticism in the country, the revolution
was accomplished in the larger towns, in a manner more orderly and discreet
in the Roman manner. The faithful were bent less on the destruction
of the old pagan temples than on their conversion to a new and higher use
; and, with much beautiful furniture ready to hand, they became
Christian sanctuaries. Already, in accordance with such maturer
wisdom, the church of the " Minor Peace " had adopted many of
the graces of pagan feeling and pagan custom ; as being indeed a living
creature, taking up, transforming, accommodating still more closely
to the human heart what of right belonged to it. In this way an obscure
syna- gogue was expanded into the catholic church. Gathering, from
a richer and more varied field of sound than had remained for him, those
old Roman harmonies, some notes of which Gregory the Great,
centuries later, and after generations of interrupted development, formed
into the Gregorian music, she was already, as we have heard, the
house of song of a wonderful new music and poesy. As if in anticipation
of the sixteenth century, the church was becoming! "humanistic,"
in an earlier, and unimpeachable/ Renaissance. Singing there had been in
abund-j ance from the first ; though often it dared only be "
of the heart." And it burst forth, when it might, into the beginnings
of a true ecclesiastical music; the Jewish psalter, inherited from
the synagogue, turning now, gradually, from Greek into Latin broken
Latin, into Italian, as the ritual use of the rich, fresh, expressive
vernacular superseded the earlier authorised language of the
Church. Through certain surviving remnants of Greek in the later Latin
liturgies, we may still discern a highly interesting intermediate
phase of ritual development, when the Greek and the Latin were in
combination; the poor, surely ! the poor and the children of that
liberal Roman church responding already in their own " vulgar
tongue," to an office said in the original, liturgical Greek. That
hymn sung in the early morning, of which Pliny had heard, was
kindling into the service of the Mass. The Mass, indeed, would
appear to have been said continuously from the Apostolic age. Its
details, as one by one they become visible in later history, have already
the character of what is ancient and venerable. "We are very old,
and ye are young ! " they seem to protest, to those who fail to understand
them. Ritual, in fact, like all other elements of religion, must
grow and cannot be made grow by the same law of development which
prevails everywhere else, in the moral as in the physical world. As
regards this special phase of the religious life, however, such
development seems to have been unusually rapid in the subterranean age
which preceded Constantine ; and in the very first days j of the
final triumph of the church the Mass emerges to general view already
substantially complete. " Wisdom " was dealing, as with
the dust of creeds and philosophies, so also with the dust of
outworn religious usage, like the very spirit of life itself, organising
soul and body out of the lime and clay of the earth. In a generous
eclecticism, within the bounds of her liberty, and as by some
providential power within her, she gathers and serviceably adopts, as in
other matters so in ritual, one thing here, another there, from
various sources Gnostic, Jewish, Pagan to adorn and beautify the greatest
act of worship the world has seen. It was thus the liturgy of the
church came to be full of con- solations for the human soul, and
destined, surely ! one day, under the sanction of so many ages of
human experience, to take exclusive possession of the religious
consciousness. TANTUM ERGO SACRAMENTUM VENEREMUR
CERNUI : ET ANTIQUUM DOCUMENTUM NOVO CEDAT RITUI.
" Wisdom hath builded herselt a house : she hath mingled hex
wine : she hath also prepared for herself a table." The more
highly favoured ages of imaginative art present instances of the summing
up of an entire world of complex associations under some single
form, like the Zeus of Olympia, or the series of frescoes which
commemorate The Acts of Saint Francis, at Assisi, or like the play
of Hamlet or Faust. It was not in an image, or series of images,
yet still in a sort of dramatic action, and with the unity of a single
appeal to eye and ear, that Marius about this time found all his
new impressions set forth, regarding what he had already recognised,
intellectually, as for him at least the most beautiful thing in the
world. To understand the influence upon him of what follows
the reader must remember that it was an experience which came amid a
deep sense of vacuity in life. The fairest products of the
earth seemed to be dropping to pieces, as if in men's very hands, around
him. How real was their sorrow, and his ! " His observation of
life " had come to be like the constant telling of a sorrowful
rosary, day after day ; till, as if taking infection from the cloudy
sorrow of the mind, the eye also, the very senses, were grown faint
and sick. And now it happened as with the actual morning on which he
found himself a spectator of this new thing. The long winter had
been a season of unvarying sullenness. At last, on this day he awoke with
a sharp flash of lightning in the earliest twilight : in a little
while the heavy rain had filtered the air: the clear light was abroad ;
and, as though the spring had set in with a sudden leap in the
heart of things, the whole scene around him lay like some untarnished
picture beneath a sky of delicate blue. Under the spell of his late
de- pression, Marius had suddenly determined to leave Rome for a
while. But desiring first to advertise Cornelius of his movements, and
failing to find him in his lodgings, he had ventured, still early
in the day, to seek him in the Cecilian villa. Passing through its silent
and empty court-yard he loitered for a moment, to admire. Under the
clear but immature light of winter morning after a storm, all the details
of form and colour in the old marbles were dis- tinctly visible,
and with a kind of severity or sadness so it struck him amid their beauty
: in them, and in all other details of the scene the cypresses, the
bunches of pale daffodils in the grass, the curves of the purple hills
of Tusculum, with the drifts of virgin snow still lying in their
hollows. The little open door, through which he passed from
the court-yard, admitted him into what was plainly the vast Lararium^ or
domestic sanctuary, of the Cecilian family, transformed in many
particulars, but still richly decorated, and retaining much of its
ancient furniture in metal- work and costly stone. The peculiar
half-light of dawn seemed to be lingering beyond its hour upon the
solemn marble walls ; and here, though at that moment in absolute
silence, a great company of people was assembled. In that brief
period of peace, during which the church emerged for awhile from her
jealously- guarded subterranean life, the rigour of an earlier rule
of exclusion had been relaxed. And so it came to pass that, on this
morning Marius saw for the first time the wonderful spectacle -
wonderful, especially, in its evidential power over himself, over his own
thoughts of those who believe. There were noticeable, among
those present, great varieties of rank, of age, of personal type.
The Roman ingenuus^ with the white toga and gold ring, stood side by side
with his slave ; and the air of the whole company was, above all, a
grave one, an air of recollection. Coming thus unexpectedly upon this
large assembly, so entirely united, in a silence so profound, for
purposes unknown to him, Marius felt for a moment as if he had stumbled
by chance upon some great conspiracy. Yet that could scarcely be,
for the peoplehere collected might have figured as the earliest handsel,
or pattern, of a new world, from the very face of which dis-
content had passed away. Corresponding to the variety of human type there
present, was the various expression of every form of human sorrow
assuaged. What desire, what fulfilment of desire, had wrought so
pathetically on the features of these ranks of aged men and women of
humble condition ? Those young men, bent down so j discreetly on
the details of their sacred service, had faced life and were glad, by
some science, or light of knowledge they had, to which there had
certainly been no parallel in the older world. Was some credible message
from beyond " the flaming rampart of the world " a message
of hope, regarding the place of men's souls and theirinterest in
the sum of things already moulding anew their very bodies, and
looks, and voices, now and here ? At least, there was a cleansing
and kindling flame at work in them, which seemed to make everything else
Marius had ever known look comparatively vulgar and mean. There
were the children, above all troops of children reminding him of
those pathetic children's graves, like cradles or garden-beds, he had
noticed in his first visit to these places; and they more than satisfied
the odd curiosity he had then conceived about them, wondering in
what quaintly expressive forms they might come forth into the daylight,
if awakened from sleep. Children of the Cata- combs, some but
"a span long," with features not so much beautiful as heroic
(that world of new, refining sentiment having set its seal even on
phildhood), they retained certainly no stain or trace of anything
subterranean this morning, in the alacrity of their worship as ready as
if they had been at play stretching forth their hands, crying,
chanting in a resonant voice, and with boldly upturned faces, Christe
Eleison ! For the silence silence, amid those lights of early
morning to which Marius had always been constitutionally impressible, as
having in them a certain reproachful austerity was broken suddenly
by resounding cries of Kyrie Eleison ! Christe Eleison! repeated
alternately, again and again, until the bishop, rising from his
chair, made sign that this prayer should cease. But the voices
burst out once more presently, in richer and more varied melody, though
still of an antiphonal character ; the men, the women and children,
the deacons, the people, answering one another, somewhat after the manner
of a Greek chorus. But again with what a novelty of poetic accent ;
what a genuine expansion of heart ; what profound intimations for the intellect,
as the meaning of the words grew upon him ! Cum grandi affectu et
compunctione dicatur says an ancient eucharistic order ; and
certainly, the mystic tone of this praying and singing was one with
the expression of deliverance, of grate- ful assurance and sincerity, upon
the faces of those assembled. As if some searching correc- tion, a
regeneration of the body by the spirit, \ had begun, and was already gone
a great way, the countenances of men, women, and children alike had
a brightness on them which he could fancy reflected upon himself an
amenity, a mystic amiability and unction, which found its way most
readily of all to the hearts of children themselves. The religious poetry
of those Hebrew psalms Benedixisti Domine terram tuam: Dixit
Dominus Domino meo^ sede a dextris meis was certainly in marvellous
accord with the lyrical instinct of his own character. Those august
hymns, he thought, must thereafter ever remain by him as among the
well-tested powers in things to soothe and fortify the soul. One
could never grow tired of them ! In the old pagan worship there had
been little to call the understanding into play. Here, on the other
hand, the utterance, the eloquence, the music of worship conveyed, as
Marius readily understood, a fact or series of facts, for
intellectual reception. That became evident, more especially, in those
lessons, or sacred readings, which, like the singing, in
broken vernacular Latin, occurred at certain intervals, amid the
silence of the assembly. There were readings, again with bursts of chanted
invocation between for fuller light on a difficult path, in which
many a vagrant voice of human philo- sophy, haunting men's minds from of
old, recurred with clearer accent than had ever belonged to it
before, as if lifted, above its first intention, into the harmonies of
some supreme system of knowledge or doctrine, at length complete.
And last of all came a narrative which, with a thousand tender memories,
every one appeared to know by heart, displaying, in all the
vividness of a picture for the eye, the mournful figure of him towards
whom this whole act of worship still consistently turned a figure
which seemed to have absorbed, like some rich tincture in his garment,
all that was deep-felt and impassioned in the experiences of the
past. It was the anniversary of his birth as a little child
they celebrated to-day. Astiterunt reges terra : so the Gradual, the
" Song of Degrees," proceeded, the young men on the steps of
the altar responding in deep, clear, antiphon or chorus
Astiterunt reges terrae Adversus sanctum puerum tuum, Jesum
: Nunc, Domine, da servis tuis loqui verbum tuum Et
signa fieri, per nomen sancti pueri Jesu. And the proper action of
the rite itself, like a half-opened book to be read by the duly
initi- ated mind took up those suggestions, and carried them
forward into the present, as having refer- ence to a power still
efficacious, still after some mystic sense even now in action among
the people there assembled. The entire office, in- deed, with its
interchange of lessons, hymns, prayer, silence, was itself like a single
piece j of highly composite, dramatic music ; a " song j of
degrees," rising steadily to a climax. Not- | withstanding the
absence of any central image visible to the eye, the entire ceremonial
process, / like the place in which it was enacted, was weighty with
symbolic significance, seemed to express a single leading motive. The
mystery, if such in fact it was, centered indeed in the actions of
one visible person, distinguished among the assistants, who stood ranged
in semicircle around him, by the extreme fineness of his white
vestments, and the pointed cap with the golden ornaments upon his
head. Nor had Marius ever seen the pontifical character, as
he conceived it sicut unguentum in capite^ descendens in oram vestimenti
so fully real- ised, as in the expression, the manner and voice, of
this novel pontiff, as he took his seat on the white chair placed for him
by the young men, and received his long staff into his hand, or
moved his hands hands which seemed endowed in very deed with some
mysterious power at the Lavabo, or at the various benedictions, or to
bless certain objects on the table before him, chanting in cadence of a
grave sweetness the leading parts of the rite. What profound
unction and mysticity ! The solemn character of the singing was at its
height when he opened his lips. Like some new sort of rhapsodos, it
was for the moment as if he alone possessed the words of the office, and
they flowed anew from some permanent source of inspiration within
him. The table or altar at which he presided, below a canopy on delicate
spiral columns, was in fact the tomb of a youthful " witness,"
of the family of the Cecilii, who had shed his blood not many years
before, and whose relics were still in this place. It was for his sake
the bishop put his lips so often to the surface before him ; the
regretful memory of that death entwining itself, though not without
certain notes of triumph, as a matter of special inward
significance, throughout a service, which was, before all else,
from first to last, a commemoration of the dead. A sacrifice
also, a sacrifice, it might seem, like the most primitive, the most natural
and enduringly significant of old pagan sacrifices, of the simplest
fruits of the earth. And in con- nexion with this circumstance again, as
in the actual stones of the building so in the rite itself, what
Marius observed was not so much new matter as a new spirit, moulding,
informing, with a new intention, many observances not witnessed for
the first time to-day. Men and women came to the altar successively, in
perfect order, and deposited below the lattice-work 01 pierced
white marble, their baskets of wheat and grapes, incense, oil for the
sanctuary lamps ; bread and wine especially pure wheaten bread, the
pure white wine of the Tusculan vineyards. There was here a veritable
consecration, hopeful and animating, of the earth's gifts, of old
dead and dark matter itself, now in some way re- deemed at last, of
all that we can touch or see, in the midst of a jaded world that had lost
the true sense of such things, and in strong contrast to the wise
emperor's renunciant and impassive attitude towards them. Certain
portions of that bread and wine were taken into the bishop's hands
; and thereafter, with an increasing mysti- city and effusion the rite
proceeded. Still in a strain of inspired supplication, the antiphonal
singing developed, from this point, into a kind of dialogue between the
chief minister and the whole assisting company SURSUM CORDA
! HABEMUS AD DOMINUM. GRATIAS AGAMUS DOMINO DEO NOSTRO
! It might have been thought the business, the duty or
service of young men more particularly, as they stood there in long
ranks, and in severe and simple vesture of the purest white a
service in which they would seem to be flying for refuge, as with their
precious, their treacher- ous and critical youth in their hands, to
one- Yes ! one like themselves, who yet claimed their worship, a
worship, above all, in the way of Aurelius, in the way of imitation.
Adoramus te Christe^ quia per crucem tuam redemisti mundum ! they
cry together. So deep is the emotion that at moments it seems to Marius
as if some there present apprehend that prayer prevails, that the
very object of this pathetic crying him- self draws near. From the first
there had been the sense, an increasing assurance, of one coming :
actually with them now, according to the oft- repeated affirmation or
petition, e Dominus vobis- cum ! Some at least were quite sure of it ;
and the confidence of this remnant fired the hearts, and gave
meaning to the bold, ecstatic worship, of all the rest about them. Prompted
especially by the suggestions of that mysterious old Jewish psalmody, so
new to him lesson and hymn and catching there- with a portion of
the enthusiasm of those beside him, Marius could discern dimly, behind
the solemn recitation which now followed, at once a narrative and a
prayer, the most touching image truly that had ever come within the
scope of his mental or physical gaze. It was the image of a young man
giving up voluntarily, one by one, for the greatest of ends, the
greatest gifts ; actually parting with himself, above all, with the
serenity, the divine serenity, of his own soul ; yet from the midst of his
desolation crying out upon the greatness of his success, as if
foreseeing this very worship. 1 As centre of the supposed facts which for
these people were become so constraining a motive of hopefulness,
of activity, that image seemed to display itself with an overwhelming
claim on human grati- tude. What Saint Lewis of France discerned,
and found so irresistibly touching, across the dimness of many centuries,
as a painful thing done for love of him by one he had never seen,
was to them almost as a thing of yesterday ; and their hearts were whole
with it. It had the force, among their interests, of an almost
recent event in the career of one whom their fathers' fathers might
have known. From memories so sublime, yet so close at hand, had the
narra- tive descended in which these acts of worship centered ;
though again the names of some more recently dead were mingled in it. And
it seemed as if the very dead were aware; to be stirring beneath
the slabs of the sepulchres which lay so near, that they might
associate themselves to this enthusiasm to this exalted worship of
Jesus. One by one, at last, the faithful approach to receive
from the chief minister morsels of the great, white, wheaten cake, he had
taken into his hands Perducat vos ad vitarn ceternam ! he prays,
half-silently, as they depart again, after 1 Psalm xxii.
22-31. discreet embraces. The Eucharist of those early days was,
even more entirely than at any later or happier time, an act of
thanksgiving ; and while the remnants of the feast are borne away for
the reception of the sick, the sustained gladness of the rite
reaches its highest point in the sing- ing of a hymn : a hymn like the
spontaneous product of two opposed militant companies, contending
accordantly together, heightening, accumulating, their witness, provoking
one an- other's worship, in a kind of sacred rivalry. Ite !
Missa esf ! cried the young deacons : and Marius departed from that
strange scene along with the rest. What was it ? Was it this made
the way of Cornelius so pleasant through the world ? As for Marius
himself, the natural soul of worship in him had at last been
satisfied as never before. He felt, as he left that place, that he must
hereafter experience often a longing memory, a kind of thirst, for
all this, over again. And it seemed moreover to define what he must
require of the powers, whatsoever they might be, that had brought
him into the world at all, to make him not unhappy in it. In cheerfulness
is the success of our studies, says Pliny studia hilaritate proveniunt.
It was still the habit of Marius, encouraged by his experi- ence
that sleep is not only a sedative but the best of stimulants, to seize
the morning hours for creation, making profit when he might of the
wholesome serenity which followed a dreamless night. " The morning
for creation," he would say; "the afternoon for the perfecting
labour of the file ; the evening for reception the reception of
matter from without one, of other men's words and thoughts matter for our
own dreams, or the merely mechanic exercise of the brain, brooding
thereon silently, in its dark chambers." To leave home early in the
day was therefore a rare thing for him. He was induced so to do on
the occasion of a visit to Rome of the famous writer Lucian, whom he had
been bidden to meet. The breakfast over, he walked away with the
learned guest, having offered to be his guide to the lecture-room of a
well-known Greek rhetorician and expositor of the Stoic philosophy,
a teacher then much in fashion among the studious youth of Rome. On
reaching the place, however, they found the doors closed, with a
slip of writing attached, which proclaimed " a holiday " ; and
the morning being a fine one, they walked further, along the Appian
Way. Mortality, with which the Queen of Ways in reality the
favourite cemetery of Rome was so closely crowded, in every imaginable
form of sepulchre, from the tiniest baby-house, to the massive
monument out of which the Middle Age would adapt a fortress-tower, might
seem, on a morning like this, to be " smiling through tears."
The flower-stalls just beyond the city gates pre- sented to view an array
of posies and garlands, fresh enough for a wedding. At one and
another of them groups of persons, gravely clad, were making their
bargains before starting for some perhaps distant spot on the highway, to
keep a dies rosationis, this being the time of roses, at the grave
of a deceased relation. Here and there, a funeral procession was slowly
on its way, in weird contrast to the gaiety of the hour. The
two companions, of course, read the epitaphs as they strolled along. In
one, remind- ing them of the poet's Si lacrima prosunt, visis te
ostende videri ! a woman prayed that her lost husband might visit her
dreams. Their charac- teristic note, indeed, was an imploring cry,
still to be sought after by the living. "While I live,"
such was the promise of a lover to his dead mistress, " you will
receive this homage : after my death, who can tell ? " post mortem
nescio. " If ghosts, my sons, do feel anything after death, my
sorrow will be lessened by your frequent coming to me here ! "
" This is a privileged tomb ; to my family and descendants has
been conceded the right of visiting this place as often as they
please." -"This is an eternal habita- tion ; here lie I ; here
I shall lie for ever." " Reader ! if you doubt that the soul
survives, make your oblation and a prayer for me; and you shall
understand ! " The elder of the two readers, certainly,
was little affected by those pathetic suggestions. It was long ago
that after visiting the banks of the Padus, where he had sought in vain
for the poplars (sisters of Phaethon erewhile) whose tears became
amber, he had once for all arranged for himself a view of the world
exclusive of all reference to what might lie beyond its "
flaming barriers." And at the age of sixty he had no
misgivings. His elegant and self-complacent but far fromunamiable
scepticism, long since brought to perfection, never failed him. It
sur- rounded him, as some are surrounded by a magic ring of fine
aristocratic manners, with " a ram- part," through which he
himself never broke, nor permitted any thing or person to break
upon him. Gay, animated, content with his old age as it was, the
aged student still took a lively interest in studious youth. Could Marius
inform him of any such, now known to him in Rome ? What did the
young men learn, just then? and how? In answer, Marius became
fluent concerning the promise of one young student, the son, as it
presently appeared, of parents of whom Lucian himself knew something: and
soon afterwards the lad was seen coming along briskly a lad with
gait and figure well enough expressive of the sane mind in the healthy
body, though a little slim and worn of feature, and with a pair of
eyes expressly designed, it might seem, for fine glancings at the stars.
At the sight of Marius he paused suddenly, and with a modest blush
on recognising his companion, who straightway took with the youth, so
prettily enthusiastic, the freedom of an old friend. In a few
moments the three were seated together, immediately above the fragrant
borders of a rose-farm, on the marble bench of one of the exhedra
for the use of foot-passengers at the roadside, from which they could
overlook the grand, earnest prospect of the Campagna^ and enjoy the
air. Fancying that the lad's plainly written enthusiasm had induced in
the elder speaker somewhat more fervour than was usual with him,
Marius listened to the conversation which follows. " Ah
! Hermotimus ! Hurrying to lecture ! if I may judge by your pace, and that
volume in your hand. You were thinking hard as you came along,
moving your lips and waving your arms. Some fine speech you were
pondering, some knotty question, some viewy doctrine not to be idle
for a moment, to be making progress in philosophy, even on your way to
the schools. To-day, however, you need go no further. We read a
notice at the schools that there would be no lecture. Stay therefore, and
talk awhile with us. -With pleasure, Lucian. Yes ! I was
rumin- ating yesterday's conference. One must not lose a moment.
Life is short and art is long ! And it was of the art of medicine, that
was first said a thing so much easier than divine philo- sophy, to
which one can hardly attain in a life- time, unless one be ever wakeful,
ever on the watch. And here the hazard is no little one : By the
attainment of a true philosophy to attain happiness ; or, having missed
both, to perish, as one of the vulgar herd. The prize is a
great one, Hermotimus ! and you must needs be near it, after these months
of toil, and with that scholarly pallor of yours. Unless, indeed,
you have already laid hold upon it, and kept us in the dark.
How could that be, Lucian? Happiness, as Hesiod says, abides very
far hence; and the way to it is long and steep and rough. I see
myself still at the beginning of my journey ; still but at the mountain's
foot. I am trying with all my might to get forward. What I need is
a hand, stretched out to help me. And is not the master
sufficient for that ? Could he not, like Zeus in Homer, let down to
you, from that high place, a golden cord, to draw you up thither, to
himself and to that Happiness, to which he ascended so long ago ?
The very point, Lucian ! Had it depended on him I should long ago
have been caught up. 'Tis I, am wanting. Well ! keep your eye
fixed on the journey's end, and that happiness there above, with
con- fidence in his goodwill. Ah ! there are many who start
cheerfully on the journey and proceed a certain distance, but lose
heart when they light on the obstacles of the way. Only, those who endure
to the end do come to the mountain's top, and thereafter live in
Happiness : live a wonderful manner of life, seeing all other people from
that great height no bigger than tiny ants. What little
fellows you make of us less than the pygmies down in the dust here.
Well ! we, * the vulgar herd,' as we creep along, will not forget you in
our prayers, when you are seated up there above the clouds, whither
you have been so long hastening. But tell me, Hermotimus ! when do
you expect to arrive there ? Ah ! that I know not. In twenty
years, perhaps, I shall be really on the summit. A great while ! you
think. But then, again, the prize I contend for is a great one.
Perhaps ! But as to those twenty years that you will live so long.
Has the master assured you of that ? Is he a prophet as well as a
philosopher? For I suppose you would not endure all this, upon a mere
chance toiling day and night, though it might happen that just ere
the last step, Destiny seized you by the foot and plucked you thence,
with your hope still unfulfilled. Hence, with these
ill-omened words, Lucian ! Were I to survive but for a day, I
should be happy, having once attained wisdom. Howf Satisfied with a
single day, after all those labours ? Yes ! one blessed
moment were enough ! But again, as you have never been, how
know you that happiness is to be had up there, at all the happiness that
is to make all this worth while ? I believe what the master
tells me. Of a certainty he knows, being now far above all
others. And what was it he told you about it ? Is it riches,
or glory, or some indescribable pleasure ? Hush ! my friend !
All those are nothing in comparison of the life there. What,
then, shall those who come to the end of this discipline what excellent
thing shall they receive, if not these ? Wisdom, the absolute
goodness and the absolute beauty, with the sure and certain
knowledge of all things how they are. Riches and glory and pleasure
whatsoever belongs to the body they have cast from them : stripped
bare of all that, they mount up, even as Hercules, consumed in the fire,
became a god. He too cast aside all that he had of his earthly mother,
and bearing with him the divine element, pure and undefiled, winged his
way to heaven from the discerning flame. Even so do they, detached
from all that others prize, by the burning fire of a true philosophy,
ascend to the highest degree of happiness. Strange ! And do they
never come down again from the heights to help those whom they left
below ? Must they, when they be once come thither, there remain for ever,
laughing, as you say, at what other men prize ? More than
that ! They whose initiation is entire are subject no longer to anger,
fear, desire, regret. Nay ! They scarcely feel at all. -Well
! as you have leisure to-day, why not tell an old friend in what way you
first started on your philosophic journey ? For, if I might, I
should like to join company with you from this very day. If
you be really willing, Lucian ! you will learn in no long time your
advantage over all other people. They will seem but as
children, so far above them will be your thoughts. Well ! Be
you my guide ! It is but fair. But tell me Do you allow learners to
contra- dict, if anything is said which they don't think right
? No, indeed ! Still, if you wish, oppose your questions. In
that way you will learn more easily. Let me know, then Is
there one only way which leads to a true philosophy your own way
the way of the Stoics : or is it true, as I have heard, that there are
many ways of approaching it ? -Yes ! Many ways ! There are
the Stoics, and the Peripatetics, and those who call them- selves
after Plato : there are the enthusiasts for Diogenes, and Antisthenes,
and the followers of Pythagoras, besides others. It was true,
then. But again, is what they say the same or different ? Very different.
-Yet the truth, I conceive, would be one and the same, from all of
them. Answer me then In what, or in whom, did you confide when you
first betook yourself to philosophy, and seeing so many doors open to
you, passed them all by and went in to the Stoics, as if there
alone lay the way of truth ? What token had you ? Forget, please, all you
are to-day- half-way, or more, on the philosophic journey : answer
me as you would have done then, a mere outsider as I am now.
Willingly ! It was there the great ma- jority went ! 'Twas by that
I judged it to be the better way. A majority how much greater
than the Epicureans, the Platonists, the Peripatetics f You,
doubtless, counted them respectively, as with the votes in a
scrutiny. No ! But this was not my only motive. I heard it
said by every one that the Epicureans were soft and voluptuous, the
Peripatetics ava- ricious and quarrelsome, and Plato's followers
puffed up with pride. But of the Stoics, not a few pronounced that they
were true men, that they knew everything, that theirs was the royal
road, the one road, to wealth, to wisdom, to all that can be
desired. Of course those who said this were not themselves
Stoics : you would not have believed them still less their opponents.
They were the vulgar, therefore. True ! But you must know
that I did not trust to others exclusively. I trusted also to
myself to what I saw. I saw the Stoics going through the world after a
seemly manner, neatly clad, never in excess, always collected, ever
faithful to the mean which all pronounce ' golden.' You are
trying an experiment on me. You would fain see how far you can
mislead me as to your real ground. The kind of pro- bation you
describe is applicable, indeed, to works of art, which are rightly judged
by their appearance to the eye. There is something in the comely
form, the graceful drapery, which tells surely of the hand of Pheidias or
Alcamenes. But if philosophy is to be judged by outward
appearances, what would become of the blind man, for instance, unable to
observe the attire and gait of your friends the Stoics ? It
was not of the blind I was thinking. -Yet there must needs be some
common criterion in a matter so important to all. Put the blind, if
you will, beyond the privileges of philosophy ; though they perhaps need
that inward vision more than all others. But can those who are not
blind, be they as keen-sighted as you will, collect a single fact of mind
from a man's attire, from anything outward ? Under- stand me ! You
attached yourself to these men did you not ? because of a certain love
you had for the mind in them, the thoughts they possessed desiring
the mind in you to be im- proved thereby ? Assuredly !
How, then, did you find it possible, by the sort of signs you just
now spoke of, to distinguish the true philosopher from the false ?
Matters of that kind are not wont so to reveal themselves. They are
but hidden mysteries, hardly to be guessed at through the words and acts
which may in some sort be conformable to them. You, however, it
would seem, can look straight into the heart in men's bosoms, and
acquaint yourself with what really passes there. You are
making sport of me, Lucian ! In truth, it was with God's help I made my
choice, and I don't repent it. And still you refuse to tell
me, to save me from perishing in that ' vulgar herd.' Because
nothing I can tell you would satisfy you. You are mistaken,
my friend ! But since you deliberately conceal the thing, grudging
me, as I suppose, that true philosophy which would make me equal to
you, I will try, if it may be, to find out for myself the exact criterion
in these matters how to make a perfectly safe choice. And, do you
listen. I will ; there may be something worth knowing in what
you will say. Well ! only don't laugh if I seem a little
fumbling in my efforts. The fault is yours, in refusing to share your
lights with me. Let Philosophy, then, be like a city --a city whose
citizens within it are a happy people, as your master would tell you,
having lately come thence, as we suppose. All the virtues are
theirs, and they are little less than gods. Those acts of violence
which happen among us are not to be seen in their streets. They live
together in one mind, very seemly ; the things which beyond everything
else cause men to contend against each other, having no place upon them.
Gold and silver, pleasure, vainglory, they have long since
banished, as being unprofitable to the commonwealth ; and their life is
an unbroken calm, in liberty, equality, an equal happiness.
And is it not reasonable that all men should desire to be of a city
such as that, and take no account of the length and difficulty of the
way thither, so only they may one day become its freemen ?
It might well be the business of life : leaving all else,
forgetting one's native country here, unmoved by the tears, the
restraining hands, of parents or children, if one had them only
bidding them follow the same road ; and if they would not or could not,
shaking them off, leaving one's very garment in their hands if they
took hold on us, to start off straightway for that happy place ! For
there is no fear, I suppose, of being shut out if one came thither
naked. I remember, indeed, long ago an aged man related to me how things
passed there, offering himself to be my leader, and enrol me on my
arrival in the number of the citizens. I was but fifteen certainly very
foolish: and it may be that I was then actually within the suburbs,
or at the very gates, of the city. Well, this aged man told me, among
other things, that all the citizens were wayfarers from afar. Among
them were barbarians and slaves, poor men aye ! and cripples all indeed
who truly desired that citizenship. For the only legal conditions
of enrolment were not wealth, nor bodily beauty, nor noble ancestry
things not named among them but intelligence, and the desire for
moral beauty, and earnest labour. The last comer, thus qualified, was
made equal to the rest : master and slave, patrician, plebe- ian,
were words they had not in that blissful place. And believe me, if that
blissful, that beautiful place, were set on a hill visible to all
the world, I should long ago have journeyed thither. But, as you say, it
is far off: and one must needs find out for oneself the road to it,
and the best possible guide. And I find a multi- tude of guides, who
press on me their services, and protest, all alike, that they have
themselves come thence. Only, the roads they propose are many, and
towards adverse quarters. And one of them is steep and stony, and through
the beating sun ; and the other is through green meadows, and under
grateful shade, and by many a fountain of water. But howsoever the
road may be, at each one of them stands a credible guide ; he puts out
his hand and would have you come his way. All other ways are wrong,
all other guides false. Hence my diffi- culty ! The number and variety of
the ways ! For you know, There is but one road that leads to
Corinth. Well ! If you go the whole round, you will find no
better guides than those. If you wish to get to Corinth, you will follow
the traces of Zeno and Chrysippus. It is impossible
otherwise. Yes ! The old, familiar language ! Were one of
Plato's fellow-pilgrims here, or a follower of Epicurus or fifty others
each would tell me that I should never get to Corinth except in his
company. One must therefore credit all alike, which would be absurd ; or,
what is far safer, distrust all alike, until one has discovered the
truth. Suppose now, that, being as I am, ignorant which of all
philosophers is really in possession of truth, I choose your sect,
relying on yourself my friend, indeed, yet still ac- quainted only
with the way of the Stoics ; and that then some divine power brought
Plato, and Aristotle, and Pythagoras, and the others, back to life
again. Well ! They would come round about me, and put me on my trial
for my presumption, and say : c In whom was it you confided when
you preferred Zeno and Chrysippus to me? and me? masters of far
more venerable age than those, who are but of yesterday ; and though you
have never held any discussion with us, nor made trial of our
doctrine ? It is not thus that the law would have judges do listen to one
party and refuse to let the other speak for himself. If judges act
thus, there may be an appeal to another tribunal.' What should I answer?
Would it be enough to say : ' I trusted my friend Her- motimus ? ' c
We know not Hermotimus, nor he us/ they would tell me ; adding, with
a smile, 'your friend thinks he may believe all our adversaries say
of us whether in ignorance or in malice. Yet if he were umpire in
the games, and if he happened to see one of our wrestlers, by way
of a preliminary exercise, knock to pieces an antagonist of mere empty
air, he would not thereupon pronounce him a victor. Well ! don't
let your friend Hermotimus sup- pose, in like manner, that his teachers
have really prevailed over us in those battles of theirs, fought
with our mere shadows. That, again, were to be like children, lightly
overthrowing their own card-castles ; or like boy-archers, who cry
out when they hit the target of straw. The Persian and Scythian bowmen,
as they speed along, can pierce a bird on the wing.' Let us
leave Plato and the others at rest. It is not for me to contend against
them. Let us rather search out together if the truth of Philosophy
be as I say. Why summon the athletes, and archers from Persia ? Yes
! let them go, if you think them in the way. And now do you speak ! You
really look as if you had something wonderful to deliver.
-Well then, Lucian ! to me it seems quite possible for one who has
learned the doctrines of the Stoics only, to attain from those a
knowledge of the truth, without proceeding to inquire into all the
various tenets of the others. Look at the question in this way. If one
told you that twice two make four, would it be necessary for you to
go the whole round of the arithme- ticians, to see whether any one of
them will say that twice two make five, or seven ? Would you not
see at once that the man tells the truth ? At once. Why
then do you find it impossible that one who has fallen in with the Stoics
only, in their enunciation of what is true, should adhere to them,
and seek after no others ; assured that four could never be five, even if
fifty Platos, fifty Aristotles said so ? f-You are beside the
point, Hermotimus ! You are likening open questions to principles
universally received. Have you ever met any one who said that twice two
make five, or seven ? No ! only a madman would say
that. And have you ever met, on the other hand, a Stoic and an
Epicurean who were agreed upon the beginning and the end, the
principle and the final cause, of things ? Never ! Then your
parallel is false. We are inquiring to which of the sects philosophic
truth belongs, and you seize on it by anticipation, and assign it
to the Stoics, alleging, what is by no means clear, that itis they for
whom twice two make four. But the Epicureans, or the
Platonists, might say that it is they, in truth, who make two and
two equal four, while you make them five or seven. Is it not so, when you
think virtue the only good, and the Epicureans plea- sure; when you
hold all things to be material^ while the Platonists admit something
immaterial? As I said, you resolve offhand, in favour of the
Stoics, the very point which needs a critical decision. If it is clear
beforehand that the Stoics alone make two and two equal four,
then the others must hold their peace. But so long as that is the
very point of debate, we must listen to all sects alike, or be well-
assured that we shall seem but partial in our judgment. I
think, Lucian ! that you do not alto- gether understand my meaning. To
make it clear, then, let us suppose that two men had entered a
temple, of Aesculapius, say ! or Bacchus : and that afterwards one of the
sacred vessels is found to be missing. And the two men must be
searched to see which of them has hidden it under his garment. For it is
certainly in the possession of one or the other of them. Well ! if
it be found on the first there will be no need to search the second ; if
it is not found on the first, then the other must have it ; and
again, there will be no need to search him. Yes ! So let it
be. And we too, Lucian ! if we have found the holy vessel in
possession of the Stoics, shall no longer have need to search other
philosophers, having attained that we were seeking. Why trouble
ourselves further ? No need, if something had indeed been
found, and you knew it to be that lost thing : if, at the least, you
could recognise the sacred object when you saw it. But truly, as
the matter now stands, not two persons only have entered the
temple, one or the other of whom must needs have taken the golden cup,
but a whole crowd of persons. And then, it is not clear what the
lost object really is cup, or flagon, or diadem ; for one of the priests
avers this, another that ; they are not even in agree- ment as to
its material : some will have it to be of brass, others of silver, or
gold. It thus becomes necessary to search the garments of all
persons who have entered the temple, if the lost vessel is to be
recovered. And if you find a golden cup on the first of them, it will
still be necessary to proceed in searching the garments of the
others ; for it is not certain that this cup really belonged to the
temple. Might there not be many such golden vessels ? No ! we must
go on to every one of them, placing all that we find in the midst
together, and then make our guess which of all those things may fairly
be supposed to be the property of the god. For, again, this
circumstance adds greatly to our difficulty, that without exception every
one searched is found to have something upon him cup, or flagon, or
diadem, of brass, of silver, of gold : and still, all the while, it is not
ascer- tained which of all these is the sacred thing. And you must
still hesitate to pronounce any one of them guilty of the sacrilege
those objects may be their own lawful property: one cause of all
this obscurity being, as I think, that there was no inscription on the
lost cup, if cup it was. Had the name of the god, or even that of
the donor, been upon it, at least we should have had less trouble, and
having detected the inscription, should have ceased to trouble any
one else by our search. I have nothing to reply to
that. Hardly anything plausible. So that if we wish to find
who it is has the sacred vessel, or who will be our best guide to
Corinth, we must needs proceed to every one and examinehim with the
utmost care, stripping off his garment and considering him closely.
Scarcely, even so, shall we come at the truth. And if we are to
have a credible adviser regarding this question of philosophy which of
all philosophies one ought to follow he alone who is acquainted with
the dicta of every one of them can be such a guide : all others
must be inadequate. I would give no credence to them if they lacked
information as to one only. If somebody introduced a fair person
and told us he was the fairest of all men, we should not believe that,
unless we knew that he had seen all the people in the world. Fair
he might be; but, fairest of all none could know, unless he had seen all.
And we too desire, not a fair one, but the fairest of all. Unless
we find him, we shall think we have failed. It is no casual beauty that
will content us; what we are seeking after is that supreme beauty
which must of necessity be unique. -What then is one to do, if the
matter be really thus ? Perhaps you know better than I. All I see
is that very few of us would have time to examine all the various sects
of philosophy in turn, even if we began in early life. I know not
how it is ; but though you seem to me to speak reasonably, yet (I must
confess it) you have distressed me not a little by this exact ex-
position of yours. I was unlucky in coming out to-day, and in my falling
in with you, who have thrown me into utter perplexity by your proof
that the discovery of truth is impossible, just as I seemed to be on the
point of attaining my hope. Blame your parents, my child, not
me ! Or rather, blame mother Nature herself, for giving us but
seventy or eighty years instead of making us as long-lived as Tithonus.
For my part, I have but led you from premise to conclusion.
Nay ! you are a mocker ! I know not wherefore, but you have a grudge
against philosophy ; and it is your entertainment to make a jest of
her lovers. Ah ! Hermotimus ! what the Truth may be, you
philosophers may be able to tell better than I. But so much at least I
know of her, that she is one by no means pleasant to those who hear
her speak : in the matter of pleasant- ness , she is far surpassed
by Falsehood : and Falsehood has the pleasanter countenance. She,
nevertheless, being conscious of no alloy within, discourses with
boldness to all men, who there- fore have little love for her. See how
angry you are now because I have stated the truth about certain
things of which we are both alike enamoured that they are hard to come
by. It is as if you had fallen in love with a statue and hoped to
win its favour, thinking it a human creature; and I, understanding it to
be but an image of brass or stone, had shown you, as a friend, that
your love was impossible, and there- upon you had conceived that I bore
you some ill-will. But still, does it not follow from what
you said, that we must renounce philosophy and pass our days in
idleness? When did you hear me say that? I did but assert
that if we are to seek after philo- sophy, whereas there are many ways
professing to lead thereto, we must with much exactness distinguish
them. Well, Lucian ! that we must go to all the schools in
turn, and test what they say, if we are to choose the right one, is
perhaps reasonable; but surely ridiculous, unless we are to live
as many years as the Phoenix, to be so lengthy in the trial of each
; as if it were not possible to learn the whole by the part! They say
that Pheidias, when he was shown one of the talons of a lion,
computed the stature and age of the animal it belonged to, modelling a
complete lion upon the standard of a single part of it. You too
would recognise a human hand were the rest of the body concealed. Even so
with the schools of philosophy : the leading doctrines of each
might be learned in an afternoon. That over-exactness of yours, which
required so long a time, is by no means necessary for making the
better choice. -You are forcible, Hermotimus ! with this
theory of The Whole by the Part. Yet, methinks, I heard you but now
propound the contrary. But tell me; would Pheidias when he saw the
lion's talon have known that it was a lion's, if he had never seen the
animal ? Surely, the cause of his recognising the part was his
knowledge of the whole. There is a way of choosing one's philosophy even
less troublesome than yours. Put the names of all the philo-
sophers into an urn. Then call a little child, and let him draw the name
of the philosopher you shall follow all the rest of your days.
Nay ! be serious with me. Tell me ; did you ever buy wine ?
Surely. And did you first go the whole round of the
wine-merchants, tasting and comparing their wines ? By no
means. No ! You were contented to order the first good wine
you found at your price. By tasting a little you were ascertained of the
quality of the whole cask. How if you had gone to each of the merchants
in turn, and said, ' I wish to buy a cotyle of wine. Let me drink
out the whole cask. Then I shall be able to tell which is best, and where
I ought to buy.' Yet this is what you would do with the philo-
sophies. Why drain the cask when you might taste, and see ?
How slippery you are; how you escape from one's fingers ! Still,
you have given me an advantage, and are in your own trap. How
so ? Thus ! You take a common object known to every one, and
make wine the figure of a thing which presents the greatest variety
in itself, and about which all men are at variance, because it is
an unseen and difficult thing. I hardly know wherein philosophy and wine
are alike unless it be in this, that the philosophers exchange
their ware for money, like the wine- merchants; some of them with a
mixture of water or worse, or giving short measure. How- ever, let
us consider your parallel. The wine in the cask, you say, is of one kind
through- out. But have the philosophers has your own master even but
one and the same thing only to tell you, every day and all days, on a
subject so manifold? Otherwise, how can you know the whole by the
tasting of one part? The whole is not the same Ah ! and it may be
that God has hidden the good wine of philosophy at the bottom of
the cask. You must drain it to the end if you are to find those drops
of divine sweetness you seem so much to thirst for ! Yourself,
after drinking so deeply, are still but at the beginning, as you said.
But is not philosophy rather like this? Keep the figure of the
merchant and the cask : but let it be filled, not with wine, but with
every sort of grain. You come to buy. The merchant hands you a
little of the wheat which lies at the top. Could you tell by looking at
that, whether the chick-peas were clean, the lentils tender, the
beans full ? And then, whereas in selecting our wine we risk only our
money ; in selecting our philosophy we risk ourselves, as you told
me might ourselves sink into the dregs of * the vulgar herd.'
Moreover, while you may not drain the whole cask of wine by way of
tasting, Wisdom grows no less by the depth of your drinking. Nay !
if you take of her, she is in- creased thereby. And then I
have another similitude to pro- pose, as regards this tasting of
philosophy. Don't think I blaspheme her if I say that it may be
with her as with some deadly poison, hemlock or aconite. These too, though
they cause death, yet kill not if one tastes but a minute portion.
You would suppose that the tiniest particle must be sufficient.
Be it as you will, Lucian! One must live a hundred years : one must
sustain all this labour ; otherwise philosophy is unattainable.
Not so ! Though there were nothing strange in that, if it be true,
as you said at first, that Life is short and art is long. But now
you take it hard that we are not to see you this very day, before
the sun goes down, a Chrysippus, a Pythagoras, a Plato. You
overtake me, Lucian ! and drive me into a corner; in jealousy of heart, I
believe, because I have made some progress in doctrine whereas you
have neglected yourself. Well ! Don't attend to me ! Treat me
as a Corybant, a fanatic : and do you go forward on this road of
yours. Finish the journey in accordance with the view you had of
these matters at the beginning of it. Only, be assured that my
judgment on it will remain unchanged. Reason still says, that without
criticism, with- out a clear, exact, unbiassed intelligence to try
them, all those theories all things will have been seen but in vain. c To
that end,' she tells us, 'much time is necessary, many delays of
judgment, a cautious gait; repeated inspection.' And we are not to regard
the outward appear- ance, or the reputation of wisdom, in any of
the speakers; but like the judges of Areopagus, who try their causes
in the darkness of the night, look only to what they say.
Philosophy, then, is impossible, or possible only in another life
! Hermotimus ! I grieve to tell you that all this even, may
be in truth insufficient. After all, we may deceive ourselves in the
belief that we have found something : like the fishermen ! Again
and again they let down the net. At last they feel something heavy, and
with vast labour draw up, not a load of fish, but only a pot full
of sand, or a great stone. I don't understand what you mean
by the net. It is plain that you have caught me in it. Try to
get out ! You can swim as well as another. We may go to all philosophers in
turn and make trial of them. Still, I, for my part, hold it by no
mean certain that any one of them really possesses what we seek. The
truth may be a thing that not one of them has yet found. You have
twenty beans in your hand, and you bid ten persons guess how many : one
says five, another fifteen ; it is possible that one of them may
tell the true number ; but it is not im- possible that all may be wrong.
So it is with the philosophers. All alike are in search of
Happiness what kind of thing it is. One says one thing, one another : it
is pleasure ; it is virtue ; what not ? And Happiness may indeed be
one of those things. But it is possible also that it may be still
something else, different and distinct from them all. What is
this? There is something, I know not how, very sad and disheartening
in what you say. We seem to have come round in a circle to the spot
whence we started, and to our first incertitude. Ah ! Lucian, what
have you done to me ? You have proved my priceless pearl to be but
ashes, and all my past labour to have been in vain. Reflect,
my friend, that you are not the first person who has thus failed of the
good thing he hoped for. All philosophers, so to speak, are but
fighting about the c ass's shadow.' To me you seem like one who should weep,
and reproach fortune because he is not able to climb up into
heaven, or go down into the sea by Sicily and come up at Cyprus, or sail
on wings in one day from Greece to India. And the true cause of his
trouble is that he has based his hope on what he has seen in a dream, or
his own fancy has put together ; without previous thought whether
what he desires is in itself attainable and within the compass of
human nature. Even so, methinks, has it happened with you. As you
dreamed, so largely, of those wonderful things, came Reason, and woke
you up from sleep, a little roughly : and then you are angry with
Reason, your eyes being still but half open, and find it hard to shake
off sleep for the pleasure of what you saw therein. Only, don't be
angry with me, because, as a friend, I would not suffer you to pass your
life in a dream, pleasant perhaps, but still only a dream because I
wake you up and demand that you should busy yourself with the proper
business of life, and send you to it possessed of common sense.
What your soul was full of just now is not very different from those
Gorgons and Chimaeras and the like, which the poets and the painters
con- struct for us, fancy-free: things which never were, and never will
be, though many believe in them, and all like to see and hear of them,
just because they are so strange and odd. And you too,
methinks, having heard from some such maker of marvels of a certain
woman of a fairness beyond nature beyond the Graces, beyond Venus
Urania herself asked not if he spoke truth, and whether this woman be
really alive in the world, but straightway fell in love with her ;
as they say that Medea was en- amoured of Jason in a dream. And what
more than anything else seduced you, and others like you, into that
passion, for a vain idol of the fancy, is, that he who told you about
that fair woman, from the very moment when you first believed that
what he said was true, brought for- ward all the rest in consequent
order. Upon her alone your eyes were fixed ; by her he led you
along, when once you had given him a hold upon you led you along the
straight road, as he said, to the beloved one. All was easy after
that. None of you asked again whether it was the true way ; following
one after another, like sheep led by the green bough in the hand of the
shepherd. He moved you hither and thither with his finger, as
easily as water spilt on a table ! My friend ! Be not so lengthy in
preparing the banquet, lest you die of hunger ! I saw one who
poured water into a mortar, and ground it with all his might with a
pestle of iron, fancy- ing he did a thing useful and necessary; but
it remained water only, none the less." Just there the
conversation broke off suddenly, and the disputants parted. The horses
were come for Lucian. The boy went on his way, and Marius onward,
to visit a friend whose abode lay further. As he returned to Rome
towards evening the melancholy aspect, natural to a city of the dead, had
triumphed over the superficial gaudiness of the early day. He could
almost have fancied Canidia there, picking her way among the rickety
lamps, to rifle some neglected or ruined tomb ; for these tombs
were not all equally well cared for (Post mortem nescio /) and it
had been one of the pieties of Aurelius to frame a severe law to prevent
the defacing of such monuments. To Marius there seemed to be some
new meaning in that terror of isolation, of being left alone in these
places, of which the sepulchral inscriptions were so full. A blood-
red sunset was dying angrily, and its wild glare upon the shadowy objects
around helped to combine the associations of this famous way, its deeply
graven marks of immemorial travel, together with the earnest questions of
the morning as to the true way of that other sort of travelling,
around an image, almost ghastly in the traces of its great sorrows
bearing along for ever, on bleeding feet, the instrument of its
punishment which was all Marius could recall distinctly of a
certain Christian legend he had heard. The legend told of an
encounter at this very spot, of two wayfarers on the Appian Way, as also
upon some very dimly discerned mental journey, altogether different
from himself and his late companions an encounter between Love,
liter- ally fainting by the road, and Love "travelling in the
greatness of his strength," Love itself, suddenly appearing to
sustain that other. A strange contrast to anything actually presented
in that morning's conversation, it seemed neverthe- less to echo
its very words " Do they never come down again," he heard once
more the well- modulated voice : " Do they never come down
again from the heights, to help those whom they left here below?" "And
we too desire, not a fair one, but the fairest of all. Unless we
find him, we shall think we have failed." It was become a habit with
Marius one of his modernisms developed by his assistance at the
Emperor's "conversations with himself," to keep a register of
the movements of his own private thoughts and humours ; not continuously
indeed, yet sometimes for lengthy intervals, dur- ing which it was no
idle self-indulgence, but a necessity of his intellectual life, to "
confess himself," with an intimacy, seemingly rare among the
ancients ; ancient writers, at all evtiits, having been jealous, for the
most part, of affording us so much as a glimpse of that interior
self, which in many cases would have actually doubled the interest of
their objective informations. " If a particular tutelary
or genius" writes Marius, " according to old belief, walks
through life beside each one of us, mine is very certainly a
capricious creature. He fills one with wayward, unaccountable, yet quite
irresistible humours, and seems always to be in collusion with some
outward circumstance, often trivial enough in itself the condition of the
weather, forsooth ! the people one meets by chance the things one
happens to overhear them say, veritable evofaoi, o-vfjL@o\oi 9 or omens
by the wayside, as the old Greeks fancied to push on the unreason-
able prepossessions of the moment into weighty motives. It was doubtless
a quite explicable, physical fatigue that presented me to myself,
on awaking this morning, so lack-lustre and trite. But I must needs
take my petulance, contrasting it with my accustomed morning hopefulness,
as a sign of the ageing of appetite, of a decay in the very
capacity of enjoyment. We need some imaginative stimulus, some not
impossible ideal such as may shape vague hope, and transform it
into effective desire, to carry us year after year, without disgust,
through the routine-work which is so large a part of life.
"Then, how if appetite, be it for real or ideal, should itself
fail one after awhile ? /^h, yes ! is it of cold always that men die ;
and on some of us it creeps very gradually. In truth, I can
remember just such a lack-lustre condition of feeling once or twice
before. But I note, that it was accompanied then by an odd indifference,
as the thought of them occurred to me, in regard to the sufferings
of others a kind of callousness, so unusual with me, as at once to mark
the humour it accompanied as a palpably morbid one that could not last.
Were those sufferings, great or little, I asked myself then, of more real
conse- quence to them than mine to me, as I remind myself that
'nothing that will end is really long '--long enough to be thought of
import- ance f But to-day, my own sense of fatigue, the pity I
conceive for myself, disposed me strongly to a tenderness for others. For
a moment the whole world seemed to present itself as a hospital of
sick persons ; many of them sick in mind; all of whom it would be a
brutality not to humour, not to indulge. "Why, when I went
out to walk off my wayward fancies, did I confront the very sort of
incident (my unfortunate genius had surely beckoned it from afar to vex
me) likely to irritate them further ? A party of men were coming
down the street. They were leading a fine race-horse; a handsome beast,
but badly hurt somewhere, in the circus, and useless. They were
taking him to slaughter ; and I think the animal knew it : he cast such
looks, as if of mad appeal, to those who passed him, as he went
among the strangers to whom his former owner had committed him, to die,
in his beauty and pride, for just that one mischance or fault ;
although the morning air was still so animating, and pleasant to snuff. I
could have fancied a human soul in the creature, swelling against
its luck. And I had come across the incident just when it would
figure to me as the very symbol of our poor humanity, in its capacities
for pain, its wretched accidents, and those imperfect sym- pathies,
which can never quite identify us with one another ; the very power of
utterance and appeal to others seeming to fail us, in propor- tion
as our sorrows come home to ourselves, are really our own. We are
constructed for suffer- ing ! What proofs of it does but one day
afford, if we care to note them, as we go a whole long chaplet of
sorrowful mysteries ! Sunt lacrimtf rerum et mentem mortalia
tangunt. " Men's fortunes touch us ! The little chil-
dren of one of those institutions for the support of orphans, now become
fashionable among us by way of memorial of eminent persons
deceased, are going, in long file, along the street, on their way
to a holiday in the country. They halt, and count themselves with an air
of triumph, to show that they are all there. Their gay chatter has
disturbed a little group of peasants ; a young woman and her husband, who
have brought the old mother, now past work and witless, to place
her in a house provided for such afflicted people. They are fairly
affectionate, but anxious how the thing they have to do may go hope
only she may permit them to leave her there behind quietly. And the
poor old soul is excited by the noise made by the children, and partly
aware of what is going to happen with her. She too begins to count
one, two, three, five on her trembling fingers, misshapen by a life of
toil. ' Yes ! yes ! and twice five make ten ' they say, to
pacify her. It is her last appeal to be taken home again ; her proof that
all is not yet up with her ; that she is, at all events, still as
capable as those joyous children. "At the baths, a party of
labourers are at work upon one of the great brick furnaces, in a
cloud of black dust. A frail young child has brought food for one of
them, and sits apart, waiting till his father comes watching the
labour, but with a sorrowful distaste for the din and dirt. He is
regarding wistfully his own place in the world, there before him. His
mind, as he watches, is grown up for a moment ; and he foresees, as
it were, in that moment, all the long tale of days, of early awakings, of
his own coming life of drudgery at work like this. " A
man comes along carrying a boy whose rough work has already begun the
only child whose presence beside him sweetened the father's toil a
little. The boy has been badly injured by a fall of brick-work, yet, with
an effort, he rides boldly on his father's shoulders. It will be
the way of natural affection to keep him alive as long as possible,
though with that miserably shattered body ' Ah ! with us still, and
feeling our care beside him ! ' and yet surely not without a heartbreaking
sigh of relief, alike from him and them, when the end comes.
" On the alert for incidents like these, yet of necessity
passing them by on the other side, I find it hard to get rid of a sense
that I, for one, have failed in love. I could yield to the humour
till I seemed to have had my share in those great public cruelties,
the shocking legal crimes which are on record, like that cold-blooded
slaughter, according to law, of the four hundred slaves in the
reign of Nero, because one of their number was thought to have murdered
his master. The reproach of that, together with the kind of facile
apologies those who had no share in the deed may have made for it, as
they went about quietly on their own affairs that day, seems to come
very close to me, as I think upon it. And to how many of those now
actually around me, whose life is a sore one, must I be indifferent, if I
ever become aware of their soreness at all ? To some, perhaps, the
necessary conditions of my own life may cause me to be opposed, in a kind
of natural conflict, regarding those interests which actually
determine the happiness of theirs. I \ would that a stronger love might
arise in my \ heart ! " Yet there is plenty of charity in
the world. My patron, the Stoic emperor, has made it even
fashionable. To celebrate one of his brief returns to Rome lately from
the war, over and above a largess of gold pieces to all who would,
the public debts were forgiven. He made a nice show of it : for once, the
Romans enter- tained themselves with a good-natured spectacle, and
the whole town came to see the great bonfire in the Forum, into which all bonds
and evidence of debt were thrown on delivery, by the emperor
himself; many private creditors following his example. That was done
well enough ! But still the feeling returns to me, that no charity
of ours can get at a certain natural unkindness which I find in things
them- selves. "When I first came to Rome, eager to
observe its religion, especially its antiquities of religious usage, I
assisted at the most curious, perhaps, of them all, the most distinctly
marked with that immobility which is a sort of ideal in the Roman
religion. The ceremony took place at a singular spot some miles distant
from the city, among the low hills on the bank of the Tiber, beyond
the Aurelian Gate. There, in a little wood of venerable trees, piously
allowed their own way, age after age ilex and cypress remaining
where they fell at last, one over the other, and all caught, in that
early May-time, under a riotous tangle of wild clematis was to be
found a magnificent sanctuary, in which the members of the Arval College
assembled them- selves on certain days. The axe never touched those
trees Nay ! it was forbidden to introduce any iron thing whatsoever
within the precincts ; not only because the deities of these quiet
places hate to be disturbed by the harsh noise of metal, but also
in memory of that better age the lost Golden Age the homely age of the
potters, of which the central act of the festival was a com-
memoration. " The preliminary ceremonies were long and
fe complicated, but of a character familiar enough. Peculiar to the
time and place was the solemn exposition, after lavation of hands,
processions backwards and forwards, and certain changes of
vestments, of the identical earthen vessels veritable relics of the old
religion of Numa ! the vessels from which the holy Numa himself had
eaten and drunk, set forth above a kind of altar, amid a cloud of flowers
and incense, and many lights, for the veneration of the credulous
or the faithful. " They were, in fact, cups or vases of
burnt clay, rude in form : and the religious veneration thus
offered to them expressed men's desire to give honour to a simpler age,
before iron had found place in human life : the persuasion that
that age was worth remembering : a hope that it might come again.
" That a Numa, and his age of gold, would return, has been the
hope or the dream of some, in every period. Yet if he did come back,
or any equivalent of his presence, he could but weaken, and by no
means smite through, that root of evil, certainly of sorrow, of
outraged human sense, in things, which one must care- fully
distinguish from all preventible accidents. Death, and the little
perpetual daily dyings, which have something of its sting, he
must necessarily leave untouched. And, methinks, that were all the
rest of man's life framed entirely to his liking, he would
straightway begin to sadden himself, over the fate say, of the
flowers ! For there is, there has come to be since Numa lived perhaps, a
capacity for sorrow in his heart, which grows with all the growth,
alike of the individual and of the race, in intel- lectual delicacy and
power, and which 'will find its aliment. " Of that sort
of golden age, indeed, one discerns even now a trace, here and
there. Often have I maintained that, in this generous southern
country at least, Epicureanism is the special philosophy of the poor. How
little I myself really need, when people leave me alone, with the
intellectual powers at work serenely. The drops of falling water, a few
wild flowers with their priceless fragrance, a few tufts even of
half-dead leaves, changing colour in the quiet of a room that has but
light and shadow in it; these, for a susceptible mind, might well do
duty for all the glory of Augustus. I notice some- times what I
conceive to be the precise character of the fondness of the roughest
working-people for their young children, a fine appreciation, not
only of their serviceable affection, but of their visible graces : and
indeed, in this country, the children are almost always worth looking at.
I see daily, in fine weather, a child like a delicate nosegay,
running to meet the rudest of brick-makers as he comes from work. She is not
at all afraid to hang upon his rough hand : and through her, he
reaches out to, he makes his own, something from that strange region, so
dis- tant from him yet so real, of the world's refine- ment. What
is of finer soul, or of finer stuff in things, and demands delicate
touching to him the delicacy of the little child represents that :
it initiates him into that. There, surely, is a touch of the secular
gold, of a perpetual age of gold. But then again, think for a
moment, with what a hard humour at the nature of things, his
struggle for bare life will go on, if the child should happen to die. I
observed to-day, under one of the archways of the baths, two
children at play, a little seriously a fair girl and her crippled younger
brother. Two toy chairs and a little table, and sprigs of fir set
upright in the sand for a garden ! They played at housekeeping. Well !
the girl thinks her life a perfectly good thing in the service of
this crippled brother. But she will have a jealous lover in time:
and the boy, though his face is not altogether unpleasant, is after all a
hopeless cripple. " For there is a certain grief in
things as they are, in man as he has come to be, as he certainly
is, over and above those griefs of circumstance which are in a measure
removable some inex- plicable shortcoming, or misadventure, on the
part of nature itself death, and old age as it must needs be, and that watching
for their ap- proach, which makes every stage of life like a dying
over and over again. Almost all death is painful, and in every thing that
comes to an end a touch of death, and therefore of wretched
coldness struck home to one, of remorse, of loss and parting, of outraged
attachments. Given faultless men and women, given a perfect state
of society which should have no need to practise on men's
susceptibilities for its own selfish ends, adding one turn more to the
wheel of the great rack for its own interest or amusement, there
would still be this evil in the world, of a certain necessary sorrow and
desolation, felt, just in pro- portion to the moral, or nervous
perfection men have attained to. And what we need in the world,
over against that, is a certain permanent and general power of compassion
humanity's standing force of self-pity as an elementary ingredient
of our social atmosphere, if we are to live in it at all. I wonder,
sometimes, in what way man has cajoled himself into the bearing of
his burden thus far, seeing how every step in the capacity of
apprehension his labour has won for him, from age to age, must needs
increase his dejection. It is as if the increase of know- ledge
were but an increasing revelation of the radical hopelessness of his
position : and I would that there were one even as I, behind this
vain show of things ! " At all events, the actual
conditions of our life being as they are, and the capacity for
suffering so large a principle in things since the only principle,
perhaps, to which we may always safely trust is a ready sympathy
with the pain one actually sees it follows that the ' practical and
effective difference between men will lie in their power of insight into
those con- ditions, their power of sympathy. The future 1 will be
with those who have most of it ; while for the present, as I persuade
myself, those who have much of it, have something to hold by, even
in the dissolution of a world, or in that dissolution of self, which is,
for every one, no less than the dissolution of the world it repre-
sents for him. Nearly all of us, I suppose, have had our moments, in
which any effective sym- pathy for us on the part of others has
seemed impossible ; in which our pain has seemed a stupid outrage
upon us, like some overwhelming physical violence, from which we could
take refuge, at best, only in some mere general sense of goodwill
somewhere in the world perhaps. And then, to one's surprise, the
discovery of that goodwill, if it were only in a not unfriendly
animal, may seem to have explained, to have actually justified to us, the
fact of our pain. There have been occasions, certainly, when I have
felt that if others cared for me as I cared for them, it would be, not so
much a consola- tion, as an equivalent, for what one has lost or
suffered : a realised profit on the summing up of one's accounts : a
touching of that absolute ground amid all the changes of phenomena,
such as our philosophers have of late confessed them- selves quite
unable to discover. In the mere clinging of human creatures to each
other, nay ! in one's own solitary self-pity, amid the effects even
of what might appear irredeemable loss, I seem to touch the eternal. Something
in that pitiful contact, something new and true, fact or
apprehension of fact, is educed, which, on a review of all the
perplexities of life, satisfies our moral sense, and removes that
appearance of unkindness in the soul of things themselves, and
assures us that not everything has been in vain. " And I
know not how, but in the thought thus suggested, I seem to take up, and
re-knit 'myself to, a well-remembered hour, when by some gracious
accident it was on a journey- all things about me fell into a more
perfect har- mony than is their wont. Everything seemed to be, for
a moment, after all, almost for the best. Through the train of my
thoughts, one against another, it was as if I became aware of the
dominant power of another person in contro- versy, wrestling with me. I
seem to be come round to the point at which I left off then. The
antagonist has closed with me again. A protest comes, out of the very
depths of man's radically hopeless condition in the world, with the
energy of one of those suffering yet prevailing deities, of which old poetry
tells. Dared one hope that there is a heart, even as ours, in that
divine e Assistant ' of one's thoughts a heart even as mine, behind this
vain show of things!" " Ah ! voila les ames qu'il falloit
a la miennc ! " Rousseau. The charm of its poetry,
a poetry of the affec- tions, wonderfully fresh in the midst of a
thread- bare world, would have led Marius, if nothing else had done
so, again and again, to Cecilia's house. He found a range of intellectual
plea- sures, altogether new to him, in the sympathy of that pure
and elevated soul. Elevation of soul, generosity, humanity little by
little it came to seem to him as if these existed nowhere else. The
sentiment of maternity, above all, as it might be understood there, its
claims, with the claims of all natural feeling everywhere, down to
the sheep bleating on the hills, nay ! even to the mother-wolf, in her
hungry cave seemed to have been vindicated, to have been enforced
anew, by the sanction of some divine pattern thereof. He saw its
legitimate place in the world given at last to the bare capacity
for suffering in any creature, however feeble or apparently useless.
In this chivalry, seeming to leave the world's heroism a mere property of
the stage, in this so scrupulous fidelity to what could not help itself,
could scarcely claim not to be forgotten, what a contrast to the
hard contempt of one's own or other's pain, of death, of glory even, in
those discourses of Aurelius ! But if Marius thought at times
that some long - cherished desires were now about to blossom for
him, in the sort of home he had sometimes pictured to himself, the very
charm of which would lie in its contrast to any random affections :
that in this woman, to whom children instinctively clung, he might find
such a sister, at least, as he had always longed for ; there were
also circumstances which reminded him that a certain rule forbidding
second marriages, was among these people still in force ; ominous
incidents, moreover, warning a suscep- tible conscience not to mix
together the spirit and the flesh, nor make the matter of a
heavenly banquet serve for earthly meat and drink. One day he
found Cecilia occupied with the burial of one of the children of her
household. It was from the tiny brow of such a child, as he now
heard, that the new light had first shone forth upon them through the
light of mere physical life, glowing there again, when the child
was dead, or supposed to be dead. The aged servant of Christ had arrived
in the midst of their noisy grief; and mounting to the little
chamber where it lay, had returned, not long afterwards, with the child
stirring in his arms as he descended the stair rapidly ; bursting
open the closely-wound folds of the shroud and scattering the
funeral flowers from them, as the soul kindled once more through its
limbs. Old Roman common-sense had taught people to occupy
their thoughts as little as might be with children who died young. Here,
to-day, however, in this curious house, all thoughts were tenderly
bent on the little waxen figure, yet with a kind of exultation and joy,
notwith- standing the loud weeping of the mother. The other
children, its late companions, broke with it, suddenly, into the place
where the deep black bed lay open to receive it. Pushing away the
grim fossores, the grave-diggers, they ranged themselves around it in
order, and chanted that old psalm of theirs Laudate pueri dominum !
Dead children, children's graves Marius had been always half aware of an
old superstitious fancy in his mind concerning them; as if in
coming near them he came near the failure of some lately-born hope or
purpose of his own. And now, perusing intently the expression with
which Cecilia assisted, directed, returned after- wards to her house, he
felt that he too had had to-day his funeral of a little child. But it
had always been his policy, through all his pursuit of "
experience/' to take flight in time from any too disturbing passion, from
any sort of affection likely to quicken his pulses beyond the point
at which the quiet work of life was practicable. Had he, after all,
been taken unawares, so that it was no longer possible for him to fly ?
At least, during the journey he took, by way of test- ing the
existence of any chain about him, he found a certain disappointment at
his heart, greater than he could have anticipated; and as he passed
over the crisp leaves, nipped off in multitudes by the first sudden cold
of winter, he felt that the mental atmosphere within himself was
perceptibly colder. Yet it was, finally, a quite successful
resigna- tion which he achieved, on a review, after his manner,
during that absence, of loss or gain. The image of Cecilia, it would
seem, was already become for him like some matter of poetry, or of
another man's story, or a picture on the wall. And on his return to Rome
there had been a rumour in that singular company, of things which
spoke certainly not of any merely tranquil loving : hinted rather that he
had come across a world, the lightest contact with which might make
appropriate to himself also the precept that " They which have wives
be as they that have none." This was brought home to
him, when, in early spring, he ventured once more to listen to the
sweet singing of the Eucharist. It breathed more than ever the spirit of a
wonderful hop* of hopes more daring than poor, labouring humanity
had ever seriously entertained before, though it was plain that a great
calamity was befallen. Amid stifled sobbing, even as the pathetic
words of the psalter relieved the tension of their hearts, the people
around him still wore upon their faces their habitual gleam of joy,
of placid satisfaction. They were still under the influence of an
immense gratitude in thinking. even amid their present distress, of the
hour or a great deliverance. As he followed again that mystical
dialogue, he felt also again, like a mighty spirit about him, the potency,
the half- realised presence, of a great multitude, as if thronging
along those awful passages, to hear the sentence of its release from
prison; a company which represented nothing less than orbis ter-
rarum the whole company of mankind. And the special note of the day expressed
that relief a sound new to him, drawn deep from some old Hebrew
source, as he conjectured, Alleluia! repeated over and over again,
Alleluia! Alleluia! at every pause and movement of the long Easter
ceremonies. And then, in its place, by way of sacred lection,
although in shocking contrast with the peaceful dignity of all around,
came the Epistle of the churches of Lyons and Vienne^ to "
their sister,'' the church of Rome. For the "Peace" of
the church had been broken broken, as Marius could not but acknowledge, on
the responsibility of the emperor Aurelius himself, following
tamely, and as a matter of course, the traces of his predecessors,
gratuitously enlisting, against the good as well as the evil of that
great pagan world, the strange new heroism of which this singular
message was full. The greatness of it certainly lifted away all merely
private regret, inclining one, at last, actually to draw sword for
the oppressed, as if in some new order of knighthood "
The pains which our brethren have endured we have no power fully to tell,
for the enemy came upon us with his whole strength. But the grace
of God fought for us, set free the weak, and made ready those who, like
pillars, were able to bear the weight. These, coming now into close
strife with the foe, bore every kind of pang and shame. At the time of
the fair which is held here with a great crowd, the governor led
forth the Martyrs as a show. Holding what was thought great but little,
and that the pains of to-day are not deserving to be measured
against the glory that shall be made known, these worthy wrestlers went
joyfully on their way; their delight and the sweet favour of God
mingling in their faces, so that their bonds seemed but a goodly array,
or like the golden bracelets of a bride. Filled with the fragrance
of Christ, to some they seemed to have been touched with earthly
perfumes. " Vettius Epagathus, though he was vei young,
because he would not endure to see unjust judgment given against us,
vented his anger, and sought to be heard for the brethren, for he
was a youth of high place. Whereupon the governor asked him whether he
also were a Christian. He confessed in a clear voice, and was added
to the number of the Martyrs. But he had the Paraclete within him ; as,
in truth, he showed by the fulness of his love; glorying in the
defence of his brethren, and to give his life for theirs.
" Then was fulfilled the saying of the Lord that the day
should come, When he that slayeth you 'will think that he doeth God
service. Most madly did the mob, the governor and the soldiers,
rage against the handmaiden Blandina, in whom Christ showed that what
seems mean among men is of price with Him. For whilst we all, and
her earthly mistress, who was herself one of the contending Martyrs, were
fearful lest through the weakness of the flesh she should be unable
to profess the faith, Blandina was filled with such power that her
tormentors, following upon each other from morning until night,
owned that they were overcome, and had no more that they could do to her
; admiring that she still breathed after her whole body was torn
asunder. " But this blessed one, in the very midst of
her c witness,' renewed her strength ; and to repeat, / am Christ's ! was
to her rest, refresh- ment, and relief from pain. As for Alexander,
he neither uttered a groan nor any sound at all, but in his heart talked
with God. Sanctus, the deacon, also, having borne beyond all
measure pains devised by them, hoping that they would get something
from him, did not so much as tell his name ; but to all questions
answered only, / am Chrises ! For this he confessed instead of his
name, his race, and everything beside. Whence also a strife in torturing
him arose between the governor and those tormentors, so that when
they had nothing else they could do they set red-hot plates of brass to
the most tender parts of his body. But he stood firm in his
profession, cooled and fortified by that stream of living water which
flows from Christ. His corpse, a single wound, having wholly lost
the form of man, was the measure of his pain. But Christ, paining in him,
set forth an en- sample to the rest that there is nothing fearful,
nothing painful, where the love of the Father overcomes. And as all those
cruelties were made null through the patience of the Martyrs, they
bethought them of other things ; among which was their imprisonment in a
dark and most sorrowful place, where many were privily strangled.
But destitute of man's aid, they were filled with power from the Lord,
both in body and mind, and strengthened their brethren. Also, much
joy was in our virgin mother, the Church ; for, by means of these, such as
were fallen away retraced their steps were again con- ceived, were
filled again with lively heat, and hastened to make the profession of
their faith. "The holy bishop Pothinus, who was now past
ninety years old and weak in body, yet in his heat of soul and longing
for martyrdom, roused what strength he had, and was also cruelly
dragged to judgment, and gave witness. Thereupon he suffered many
stripes, all thinking it would be a wickedness if they fell short
in cruelty towards him, for that thus their own gods would be
avenged. Hardly drawing breath, he was thrown into prison, and after two
days there died. "After these things their martyrdom
was parted into divers manners. Plaiting as it were one crown of
many colours and every sort of flowers, they offered it to God. Maturus,
there- fore, Sanctus and Blandina, were led to the wild beasts. And
Maturus and Sanctus passed through all the pains of the amphitheatre, as
if they had suffered nothing before : or rather, as having in many
trials overcome, and now contending for the prize itself, were at last
dismissed. " But Blandina was bound and hung upon a
stake, and set forth as food for the assault of the wild beasts. And as
she thus seemed to be hung upon the Cross, by her fiery prayers she
imparted much alacrity to those contending Witnesses. For as they
looked upon her with the eye of flesh, through her, they saw Him that was
cruci- fied. But as none of the beasts would then touch her, she
was taken down from the Cross, and sent back to prison for another day :
that, though weak and mean, yet clothed with the mighty wrestler,
Christ Jesus, she might by many con- quests give heart to her
brethren. " On the last day, therefore, of the shows,
she was brought forth again, together with Ponticus, a lad of about
fifteen years old. They were brought in day by day to behold the pains
of the rest. And when they wavered not, the mob was full of rage ;
pitying neither the youth of the lad, nor the sex of the maiden. Hence,
they drave them through the whole round of pain. And Ponticus,
taking heart from Blandina, hav- ing borne well the whole of those
torments, gave up his life. Last of all, the blessed Blandina
herself, as a mother that had given life to her children, and sent them
like conquerors to the great King, hastened to them, with joy at
the end, as to a marriage-feast; the enemy himself confessing that
no woman had ever borne pain so manifold and great as hers.
" Nor even so was their anger appeased ; some among them
seeking for us pains, if it might be, yet greater; that the saying might
be fulfilled, He that is unjust, let him be unjust still. And their
rage against the Martyrs took a new form, insomuch that we were in great
sorrow for lack of freedom to entrust their bodies to the
earth, Neither did the night-time, nor the offer of money, avail us
for this matter; but they set watch with much carefulness, as though it
were a great gain to hinder their burial. Therefore, after the
bodies had been displayed to view for many days, they were at last burned
to ashes, and cast into the river Rhone, which flows by this place,
that not a vestige of them might be left upon the earth. For they said,
Now shall we see whether they will rise again, and whether their
God can save them out of our hands" Not many months after the date of that
epistle, Marius, then expecting to leave Rome for a long time, and
in fact about to leave it for ever, stood to witness the triumphal entry
of Marcus Aurelius, almost at the exact spot from which he had
watched the emperor's solemn return to the capital on his own first
coming thither. His triumph was now a " full " one Justus
Triumphus justified, by far more than the due amount of bloodshed in
those Northern wars, at length, it might seem, happily at an end.
Among the captives, amid the laughter of the crowds at his blowsy upper
garment, his trousered legs and conical wolf-skin cap, walked our
own ancestor, representative of subject Germany, under a figure
very familiar in later Roman sculpture; and, though certainly with none
of the grace of the Dying Gau/, yet with plenty of uncouth pathos
in his misshapen features, and the pale, servile, yet angry eyes. His
children, white-skinned and golden-haired " as angels,"
trudged beside him. His brothers, of the animal world, the ibex, the
wild-cat, and the reindeer, stalking and trumpeting grandly, found
their due place in the procession; and among the spoil, set forth
on a portable frame that it might be distinctly seen (no mere model, but
the very house he had lived in), a wattled cottage, in all the
simplicity of its snug contrivances against the cold, and well-calculated
to give a moment's delight to his new, sophisticated masters.
Andrea Mantegna, working at the end of the fifteenth century, for a
society full of antiquarian fervour at the sight of the earthy relics of
the old Roman people, day by day returning to light out of the clay
childish still, moreover, and with no more suspicion of pasteboard than
the old Romans themselves, in its unabashed love of open-air pageantries,
has invested this, the great- est, and alas ! the most characteristic, of
the splendours of imperial Rome, with a reality livelier than any
description. The homely senti- ments for which he has found place in
his learned paintings are hardly more lifelike than the great
public incidents of the show, there depicted. And then, with all that
vivid realism, how refined, how dignified, how select in type, is
this reflection of the old Roman world ! now especially, in its
time-mellowed red and gold, for the modern visitor to the old
English palace. It was under no such selected types that the
great procession presented itself to Marius ; though, in effect, he found
something there pro- phetic, so to speak, and evocative of ghosts,
as susceptible minds will do, upon a repetition after long interval
of some notable incident, which may yet perhaps have no direct concern
for themselves. In truth, he had been so closely bent of late on
certain very personal interests that the broad current of the world's
doings seemed to have withdrawn into the distance, but now, as he
witnessed this procession, to return once more into evidence for him. The
world, certainly, had been holding on its old way, and was all its old
self, as it thus passed by dramatic- ally, accentuating, in this
favourite spectacle, its mode of viewing things. And even apart
from the contrast of a very different scene, he would have found
it, just now, a somewhat vulgar spectacle. The temples, wide open, with
their ropes of roses flapping in the wind against the rich,
reflecting marble, their startling draperies and heavy cloud of incense,
were but the centres of a great banquet spread through all the
gaudily coloured streets of Rome, for which the carnivo- rous
appetite of those who thronged them in the glare of the mid -day sun was
frankly enough asserted. At best, they were but calling their gods
to share with them the cooked, sacrificial, and other meats, reeking to
the sky. The child, who was concerned for the sorrows of one
of those Northern captives as he passed by, and explained to his
comrade "There's feeling in that hand, you know ! " benumbed
and lifeless as it looked in the chain, seemed, in a moment, to transform
the entire show into its own proper tinsel. Yes ! these Romans were a
coarse, a vulgar people; and their vulgarities of soul in full
evidence here. And Aurelius himself seemed to have undergone the world's
coinage, and fallen to the level of his reward, in a medi- ocrity
no longer golden. Yet if, as he passed by, almost filling the
quaint old circular chariot with his magnificent golden-flowered attire,
he presented himself to Marius, chiefly as one who had made the
great mistake ; to the multitude he came as a more than magnanimous
conqueror. That he had " forgiven " the innocent wife and
children of the dashing and almost successful rebel Avidius
Cassius, now no more, was a recent circumstance still in memory. As the
children went past not among those who, ere the emperor ascended
the steps of the Capitol, would be detached from the great progress for
execution, happy rather, and radiant, as adopted members of the
imperial family the crowd actually enjoyed an exhibi- tion of the
moral order, such as might become perhaps the fashion. And it was in
considera- tion of some possible touch of a heroism herein that
might really have cost him something, that Marius resolved to seek the
emperor once more, with an appeal for common-sense, for reason and
justice. He had set out at last to revisit his old home ; and
knowing that Aurelius was then in retreat at a favourite villa, which lay
almost on his way thither, determined there to present himself.
Although the great plain was dying steadily, a new race of wild birds
establishing itself there, as he knew enough of their habits to
understand, and the idle contadino^ with his never-ending ditty of
decay and death, replacing the lusty Roman labourer, never had that
poetic region between Rome and the sea more deeply im- pressed him
than on this sunless day of early autumn, under which all that fell
within the immense horizon was presented in one uniform tone of a
clear, penitential blue. Stimulating to the fancy as was that range of
low hills to the northwards, already troubled with the upbreak- ing
of the Apennines, yet a want of quiet in their outline, the record of
wild fracture there, of sudden upheaval and depression, marked them
as but the ruins of nature ; while at every little descent and ascent of
the road might be noted traces of the abandoned work of man. From
time to time, the way was still redolent of the floral relics of summer,
daphne and myrtle- blossom, sheltered in the little hollows and
ravines. At last, amid rocks here and there piercing the soil, as those
descents became steeper, and the main line of the Apennines, now
visible, gave a higher accent to the scene, he espied over the plateau^
almost like one of those broken hills, cutting the horizon towards
the sea, the old brown villa itself, rich in memories of one after
another of the family of the Antonines. As he approached it, such
remi- niscences crowded upon him, above all of the life there of
the aged Antoninus Pius, in its wonderful mansuetude and calm. Death
had overtaken him here at the precise moment when the tribune of
the watch had received from his lips the word Aequanimitas! as the
watchword of the night. To see their emperor living there like one
of his simplest subjects, his hands red at vintage-time with the juice of
the grapes, hunt- ing, teaching his children, starting betimes,
with all who cared to join him, for long days of anti- quarian
research in the country around : this, and the like of this, had seemed
to mean the peace of mankind. Upon that had come like a stain
! it seemed to Marius just then the more intimate life of Faustina,
the life of Faustina at home. Surely, that marvellous but malign beauty
must still haunt those rooms, like an unquiet, dead goddess, who
might have perhaps, after all, something reassuring to tell surviving
mortals about her ambiguous self. When, two years since, the news
had reached Rome that those eyes, always so persistently turned to
vanity, had suddenly closed for ever, a strong desire to pray had
come over Marius, as he followed in fancy on its wild way the soul
of one he had spoken with now and again, and whose presence in it for a
time the world of art could so ill have spared. Certainly, the
honours freely accorded to embalm her memory were poetic enough the rich
temple left among those wild villagers at the spot, now it was
hoped sacred for ever, where she had breathed her last ; the golden
image, in her old place at the amphitheatre ; the altar at which the
newly married might make their sacrifice ; above all, the great
foundation for orphan girls, to be called after her name. The
latter, precisely, was the cause why Marius failed in fact to see
Aurelius again, and make the chivalrous effort at enlightenment he
had proposed to himself. Entering the villa, he learned from an usher, at
the door of the long gallery, famous still for its grand prospect
in the memory of many a visitor, and then lead- ing to the imperial
apartments, that the emperor was already in audience : Marius must wait
his turn he knew not how long it might be. An odd audience it
seemed ; for at that moment, through the closed door, came shouts of
laughter, the laughter of a great crowd of children the "
Faustinian Children " themselves, as he after- wards learned happy
and at their ease, in the imperial presence. Uncertain, then, of the
time for which so pleasant a reception might last, so pleasant that
he would hardly have wished to shorten it, Marius finally determined to
proceed, as it was necessary that he should accomplish the first
stage of his journey on this day. The thing was not to be Vale ! anima
infelicissima ! He might at least carry away that sound of the
laughing orphan children, as a not unamiable last impression of kings and
their houses. The place he was now about to visit, especi-
ally as the resting-place of his dead, had never been forgotten. Only,
the first eager period of his life in Rome had slipped on rapidly ;
and, almost on a sudden, that old time had come to seem very long
ago. An almost burdensome solemnity had grown about his memory of
the place, so that to revisit it seemed a thing that needed
preparation : it was what he could not have done hastily. He half feared
to lessen, or disturb, its value for himself. And then, as he
travelled leisurely towards it, and so far with quite tranquil mind,
interested also in many another place by the way, he discovered a
shorter road to the end of his journey, and found himself indeed
approaching the spot that was to him like no other. Dreaming now only of
the dead before him, he journeyed on rapidly through the night ;
the thought of them increasing on him, in the darkness. It was as if they
had been waiting for him there through all those years, and felt
his footsteps approaching now, and understood his devotion, quite
gratefully, in that lowliness of theirs, in spite of its
tardy fulfilment. As morning came, his late tran- quillity of mind
had given way to a grief which surprised him by its freshness. He was
moved more than he could have thought possible by so distant a
sorrow. " To-day ! " they seemed to be saying as the hard dawn
broke, " To-day, he will come ! " At last, amid all his
distractions, they were become the main purpose of what he was then
doing. The world around it, when he actually reached the place later in
the day, was in a mood very different from his : so work- a-day, it
seemed, on that fine afternoon, and the villages he passed through so
silent ; the inhabitants being, for the most part, at their labour
in the country. Then, at length, above the tiled outbuildings, were the
walls of the old villa itself, with the tower for the pigeons ;
and, not among cypresses, but half-hidden by aged poplar-trees,
their leaves like golden fruit, the birds floating around it, the conical
roof of the tomb itself. In the presence of an old servant who
remembered him, the great seals were broken, the rusty key turned at last
in the lock, the door was forced out among the weeds grown thickly
about it, and Marius was actually in the place which had been so often in
his thoughts. He was struck, not however without a touch of
remorse thereupon, chiefly by an odd air of neglect, the neglect of a
place allowed to remain as when it was last used, and left in a hurry,
till long years had covered all alike with thick dust the faded
flowers, the burnt-out lamps, the tools and hardened mortar of the
workmen who had had something to do there. A heavy fragment of
woodwork had fallen and chipped open one of the oldest of the mortuary
urns, many hundreds in number ranged around the walls. It was not
properly an urn, but a minute coffin of stone, and the fracture had
revealed a piteous spectacle of the mouldering, unburned remains within
; the bones of a child, as he understood, which might have died, in ripe
age, three times over, since it slipped away from among his
great-grandfathers, so far up in the line. Yet the protruding baby hand
seemed to stir up in him feelings vivid enough, bringing him
intimately within the scope of dead people's grievances. He noticed, side
by side with the urn of his mother, that of a boy of about his own
age one of the serving-boys of the household who had descended hither,
from the lightsome world of childhood, almost at the same time with
her. It seemed as if this boy of his own age had taken filial place
beside her there, in his stead. That hard feeling, again, which had
always lingered in his mind with the thought of the father he had
scarcely known, melted wholly away, as he read the precise number
of his years, and reflected suddenly He was of my own present age ;
no hard old man, but with interests, as he looked round him on the
world for the last time, even as mine to-day! And with that came a
blinding rush of kindness, as if two alienated friends had come to
under- stand each other at last. There was weakness in all this ;
as there is in all care for dead persons, to which nevertheless people
will always yield in proportion as they really care for one
another. With a vain yearning, as he stood there, still to be able
to do something for them, he reflected that such doing must be, after
all, in the nature of things, mainly for himself. His own epitaph
might be that old one "Eo-^aTo? TOV ISlov yevov? He was the last of
his race ! Of those who might come hither after himself probably no
one would ever again come quite as he had done to-day ; and it was under
the influence of this thought that he determined to bury all that,
deep below the surface, to be remembered only by him, and in a way which
would claim no sentiment from the indifferent. That took many days
was like a renewal of lengthy old burial rites as he himself watched the
work, early and late ; coming on the last day very early, and
anticipating, by stealth, the last touches, while the workmen were absent
; one young lad only, finally smoothing down the earthy bed,
greatly surprised at the seriousness with which Marius flung in his
flowers, one by one, to mingle with the dark mould. Those eight days
at his old home, so mournfully occupied, had been for Marius in some sort
a forcible disruption from the world and the roots of his life in
it. He had been carried out of himself as never before ; and when the
time was over, it was as if the claim over him of the earth below
had been vindicated, over against the interests of that living world
around. Dead, yet sentient and caressing hands seemed to reach out
of the ground and to be clinging about him. Looking back sometimes now,
from about the midway of life the age, as he conceived, at which
one begins to re-descend one's life though antedating it a little, in his
sad humour, he would note, almost with surprise, the un- broken
placidity of the contemplation in which it had been passed. His own
temper, his early theoretic scheme of things, would have pushed him
on to movement and adventure. Actually, as circumstances had determined,
all its movement had been inward ; movement of observa- tion only, or
even of pure meditation ; in part, perhaps, because throughout it had
been some- thing of a meditatio mortis^ ever facing towards the act
of final detachment. Death, however, as he reflected, must be for every
one nothing ( less than the fifth or last act of a drama, and, as 1
such, was likely to have something of the stirring ! character of a
denouement. And, in fact, it was in form tragic enough that his end not
long after- ' wards came to him. In the midst of the extreme
weariness and depression which had followed those last days,
Cornelius, then, as it happened, on a journey and travelling near the
place, finding traces of him, had become his guest at Whitenights. It
was just then that Marius felt, as he had never done before, the
value to himself, the overpowering charm, of his friendship. " More
than brother ! " he felt " like a son also ! " contrasting
the fatigue of soul which made himself in effect an older man, with
the irrepressible youth of his companion. For it was still the
marvellous hopefulness of Cornelius, his seeming prerogative over
the future, that determined, and kept alive, all other sentiment
concerning him. A new hope had sprung up in the world of which he,
Cornelius, was a depositary, which he was to bear onward in it.
Identifying himself with Cornelius in so dear a friendship, through
him, Marius seemed to touch, to ally himself to, actually to become a
possessor of the coming world ; even as happy parents reach out,
and take possession of it, in and through the survival of their
children. For in these days their intimacy had grown very close, as they
moved hither and thither, leisurely, among the country-places thereabout,
Cornelius being on his way back to Rome, till they came one evening to
a little town (Marius remembered that he had been there on his
first journey to Rome) which had even then its church and legend the
legend and holy relics of the martyr Hyacinthus, a young Roman
soldier, whose blood had stained the soil of this place in the reign of
the emperor Trajan. The thought of that so recent death,
haunted Marius through the night, as if with audible crying and
sighs above the restless wind, which came and went around their lodging.
But towards dawn he slept heavily ; and awaking in broad daylight,
and finding Cornelius absent, set forth to seek him. The plague was still
in the place had indeed just broken out afresh ; with an outbreak
also of cruel superstition among its wild and miserable inhabitants.
Surely, the old gods were wroth at the presence of this new enemy
among them ! And it was no ordinary morning into which Marius stepped
forth. There was a menace in the dark masses of hill, and motionless
wood, against the gray, although apparently unclouded sky. Under this
sunless heaven the earth itself seemed to fret and fume with a heat
of its own, in spite of the strong night-wind. And now the wind had
fallen. Marius felt that he breathed some strange heavy fluid, denser
than any common air. He could have fancied that the world had sunken in
the night, far below its proper level, into some close, thick abysm
of its own atmosphere. The Christian people of the town, hardly
less terrified and overwrought by the haunting sick- ness about them
than their pagan neighbours, were at prayer before the tomb of the martyr
; and even as Marius pressed among them to a place beside
Cornelius, on a sudden the hills seemed to roll like a sea in motion,
around the whole compass of the horizon. For a moment Marius
supposed himself attacked with some sudden sickness of brain, till the
fall of a great mass of building convinced him that not himself but
the earth under his feet was giddy. A few moments later the little
market- place was alive with the rush of the distracted inhabitants
from their tottering houses ; and as they waited anxiously for the second
shock of earthquake, a long -smouldering suspicion leapt
precipitately into well-defined purpose, and the whole body of people was
carried forward towards the band of worshippers below. An hour
later, in the wild tumult which followed, the earth had been stained
afresh with the blood of the martyrs Felix and Faustinus F
lores apparuerunt in terra nostra ! and their brethren, together with
Cornelius and Marius, thus, as it had happened, taken among them, were
prisoners, reserved for the action of the law. Marius and his
friend, with certain others, exercising the privilege of their rank, made
claim to be tried in Rome, or at least in the chief town of the
district; where, indeed, in the troublous days that had now begun, a
legal process had been already instituted. Under the care of a
military guard the captives were removed on the same day, one stage
of their journey ; sleeping, for security, during the night, side by side
with their keepers, in the rooms of a shepherd's deserted house by
the wayside. It was surmised that one of the prisoners was
not a Christian : the guards were forward to make the utmost pecuniary
profit of this circum- stance, and in the night, Marius, taking
advan- tage of the loose charge kept over them, and by means partly
of a large bribe, had contrived that Cornelius, as the really innocent
person, should be dismissed in safety on his way, to procure, as
Marius explained, the proper means of defence for himself, when the time
of trial came. And in the morning Cornelius in fact set forth
alone, from their miserable place of deten- tion. Marius believed that Cornelius
was to be the husband of Cecilia; and that, perhaps strangely, had
but added to the desire to get him away safely. We wait for the great
crisis which is to try what is in us : we can hardly bear the
pressure of our hearts, as we think of it : the lonely wrestler, or
victim, which imagination foreshadows to us, can hardly be one's self;
it seems an outrage of our destiny that we should be led along so
gently and imperceptibly, to so terrible a leaping-place in the dark, for
more perhaps than life or death. At last, the great act, the
critical moment itself comes, easily, almost unconsciously. Another
motion of the clock, and our fatal line the " great
climacteric point " has been passed, which changes our- selves
or our lives. In one quarter of an hour, under a sudden, uncontrollable
impulse, hardly weighing what he did, almost as a matter of course
and as lightly as one hires a bed for one's ; night's rest on a journey,
Marius had taken upon himself all the heavy risk of the position in
which Cornelius had then been the long and wearisome delays of judgment,
which were possible ; the danger and wretchedness of a long journey
in this manner ; possibly the danger of death. He had delivered his
brother, after the \ manner he had sometimes vaguely anticipated as
a kind of distinction in his destiny; though indeed always with wistful
calculation as to what it might cost him : and in the first moment
after the thing was actually done, he felt only satisfac- tion at
his courage, at the discovery of his possession of "
nerve." Yet he was, as we know, no hero, no heroic martyr
had indeed no right to be ; and when he had seen Cornelius depart, on his
blithe and hopeful way, as he believed, to become the husband of
Cecilia ; actually, as it had hap- pened, without a word of farewell,
supposing Marius was almost immediately afterwards to follow
(Marius indeed having avoided the moment of leave-taking with its
possible call for an explanation of the circumstances), the re-
action came. He could only guess, of course, at what might really happen.
So far, he had but taken upon himself, in the stead of Cornelius, a
certain amount of personal risk ; though he hardly supposed himself to be
facing the danger of death. Still, especially for one such as he, with
all the sensibilities of which his whole manner of life had been but a
promotion, the situation of a person under trial on a criminal
charge was actually full of distress. To him, in truth, a death such as
the recent death of those saintly brothers, seemed no glorious end. In
his case, at least, the Martyrdom, as it was called the
overpowering act of testimony that Heaven had come down among men would
be but a common execution : from the drops of his blood there would
spring no miraculous, poetic flowers ; no eternal aroma would indicate
the place of his burial ; no plenary grace, overflowing for ever
upon those who might stand around it. Had there been one to listen just
then, there would have come, from the very depth of his
desolation, an eloquent utterance at last, on the irony of men's
fates, on the singular accidents of life and death. The guards, now
safely in possession of what- ever money and other valuables the
prisoners had had on them, pressed them forward, over the rough mountain
paths, altogether careless of their sufferings. The great autumn rains
were falling. At night the soldiers lighted a fire ; but it was
impossible to keep warm. From time to time they stopped to roast portions
of the meat they carried with them, making their captives sit round
the fire, and pressing it upon them. But weariness and depression of
spirits had deprived Marius of appetite, even if the food had been
more attractive, and for some days he partook of nothing but bad bread
and water. All through the dark mornings they dragged over boggy
plains, up and down hills, wet through some- times with the heavy rain.
Even in those de- plorable circumstances, he could but notice the
wild, dark beauty of those regions the stormy sunrise, and placid spaces
of evening. One of the keepers, a very young soldier, won him at
times, by his simple kindness, to talk a little, with wonder at the lad's
half-conscious, poetic delight in the adventures of the journey. At
times, the whole company would lie down for rest at the roadside, hardly
sheltered from the storm ; and in the deep fatigue of his spirit,
his old longing for inopportune sleep overpowered him. Sleep
anywhere, and under any conditions, seemed just then a thing one might
well ex- change the remnants of one's life for. It must have
been about the fifth night, as he afterwards conjectured, that the
soldiers, believing him likely to die, had finally left him unable
to proceed further, under the care of some country people, who to
the extent of their power certainly treated him kindly in his sickness.
He awoke to consciousness after a severe attack of fever, lying
alone on a rough bed, in a kind of hut. It seemed a remote, mysterious
place, as he looked around in the silence ; but so fresh lying, in
fact, in a high pasture-land among the mountains that he felt he should
recover, if he might but just lie there in quiet long enough. Even
during those nights of delirium he had felt the scent of the
new-mown hay pleasantly, with a dim sense for a moment that he was lying
safe in his old home. The sunlight lay clear beyond the open door ;
and the sounds of the cattle reached him softly from the green places
around. Recalling confusedly the torturing hurry of his late
journeys, he dreaded, as his consciousness of the whole situation
returned, the coming of the guards. But the place remained in
absolute stillness. He was, in fact, at liberty, but for his own
disabled condition. And it was certainly a genuine clinging to life that
he felt just then, at the very bottom of his mind. So it had been,
obscurely, even through all the wild fancies of his delirium, from the
moment which followed his decision against himself, in favour of
Cornelius. The occupants of the place were to be heard
presently, coming and going about him on their business : and it was as
if the approach of death brought out in all their force the merely
human sentiments. There is that in death which certainly makes
indifferent persons anxious to forget the dead : to put them those
aliens away out of their thoughts altogether, as soon as may be.
Conversely, in the deep isolation of spirit which was now creeping upon
Marius, the faces of these people, casually visible, took a strange
hold on his affections ; the link of general brotherhood, the feeling of
human kin- ship, asserting itself most strongly when it was about
to be severed for ever. At nights he would find this face or that impressed
deeply on his fancy ; and, in a troubled sort of manner, his mind
would follow them onwards, on the ways of their simple, humdrum, everyday
life, with a peculiar yearning to share it with them, envying the
calm, earthy cheerfulness of all their days to be, still under the sun,
though so indifferent, of course, to him ! as if these rude people
had been suddenly lifted into some height of earthly good-fortune,
which must needs isolate them from himself. Tristem neminem
fecit he repeated to himself; his old prayer shaping itself now almost as
his epitaph. Yes ! so much the very hardest judge must concede to
him. And the sense of satis- faction which that thought left with him
dis- posed him to a conscious effort of recollection, while he lay
there, unable now even to raise his head, as he discovered on attempting
to reach a .pitcher of water which stood near. Revelation, vision,
the discovery of a vision, the seeing of a perfect humanity, in a perfect
world through all his alternations of mind, by some dominant
instinct, determined by the original necessities of his own nature and
character, he had always set that above the having, or even the doing, of
any- thing. For, such vision, if received with due attitude on his
part, was, in reality, the being something, and as such was surely a
pleasant offering or sacrifice to whatever gods there might be,
observant of him. And how goodly had the vision been ! one long unfolding
of beauty and energy in things, upon the closing of which he might
gratefully utter his " Vixi ! ' Even then, just ere his eyes were to
be shut for ever, the things they had seen seemed a veritable
possession in hand ; the persons, the places, above all, the touching
image of Jesus, apprehended dimly through the expressive faces, the
crying of the children, in that mysterious drama, with a sudden
sense of peace and satisfaction now, which he could not explain to
himself. Surely, he had prospered in life ! And again, as of old,
the sense of gratitude seemed to bring with it the sense also of a living
person at his side. For still, in a shadowy world, his deeper wisdom
had ever been, with a sense of economy, with a jealous estimate of gain
and loss, to use life, not as the means to some problematic end,
but, as far as might be, from dying hour to dying hour, an end in itself
a kind of music, all- sufficing to the duly trained ear, even as it
died out on the air. Yet now, aware still in that suffering body of
such vivid powers of mind and sense, as he anticipated from time to time
how his sickness, practically without aid as he must be in this
rude place, was likely to end, and that the moment of taking final
account was drawing very near, a consciousness of waste would come,
with half-angry tears of self-pity, in his great weakness a blind,
outraged, angry feeling of wasted power, such as he might have
experienced himself standing by the deathbed of another, in
condition like his own. And yet it was the fact, again, that the
vision of men and things, actually revealed to him on his way
through the world, had developed, with a wonderful largeness, the
faculties to which it addressed itself, his general capacity of vision
; and in that too was a success, in the view of certain, very
definite, well-considered, undeni- able possibilities. Throughout that
elaborate and lifelong education of his receptive powers, he had
ever kept in view the purpose of pre- paring himself towards possible
further revelation some day towards some ampler vision, which should
take up into itself and explain this world's delightful shows, as the
scattered frag- / ments of a poetry, till then but half-understood,
might be taken up into the text of a lost epic, recovered at last. At
this moment, his un- clouded receptivity of soul, grown so steadily
through all those years, from experience to ex- perience, was at its
height ; the house ready for the possible guest ; the tablet of the mind
white and smooth, for whatsoever divine fingers might choose to
write there. And was not this pre- cisely the condition, the attitude of
mind, to which something higher than he, yet akin to him, would be
likely to reveal itself ; to which that influence he had felt now and
again like a friendly hand upon his shoulder, amid the actual
obscurities of the world, would be likely to make a further explanation ?
Surely, the aim of a true philosophy must lie, not in futile
efforts towards the complete accommodation of man to the
circumstances in which he chances to find himself, but in the maintenance
of a kind of candid discontent, in the face of the very highest
achievement; the unclouded and receptive soul quitting the world finally,
with the same fresh wonder with which it had entered the world
still unimpaired, and going on its blind way at last with the
consciousness of some profound enigma in things, as but a pledge of
something further to come. Marius seemed to understand how one
might look back upon life here, and its excellent visions, as but the
portion of a race- course left behind him by a runner still swift
of foot : for a moment he experienced a singular curiosity, almost
an ardent desire to enter upon a future, the possibilities of which
seemed so large. And just then, again amid the memory
of certain touching actual words and images, came the thought of
the great hope, that hope against hope, which, as he conceived, had
arisen Lux sedentibus in tenebris upon the aged world ; the hope
Cornelius had seemed to bear away upon him in his strength, with a
buoyancy which had caused Marius to feel, not so much that by a
caprice of destiny, he had been left to die in his place, as that
Cornelius was gone on a mission to deliver him also from death. There had
been a permanent protest established in the world, a plea, a
perpetual after-thought, which humanity henceforth would ever possess in
reserve, against any wholly mechanical and disheartening theory of
itself and its conditions. That was a thought which relieved for him the
iron outline of the horizon about him, touching it as if with soft
light from beyond ; filling the shadowy, hollow places to which he was on
his way with the warmth of definite affections ; confirming also
certain considerations by which he seemed to link himself to the generations
to come in the world he was leaving. Yes ! through the sur- vival
of their children, happy parents are able to think calmly, and with a very
practical affection, of a world in which they are to have no direct
share; planting with a cheerful good-humour, the acorns they carry about
with them, that their grand-children may be shaded from the sun by
the broad oak-trees of the future. That is nature's way of easing death
to us. It was thus too, surprised, delighted, that Marius, under
the power of that new hope among men, could think of the
generations to come after him. Without it, dim in truth as it was, he
could hardly have dared to ponder the world which limited all he
really knew, as it would be when he should have departed from it. A
strange lonesomeness, like physical darkness, seemed to settle upon
the thought of it ; as if its business hereafter must be, as far as
he was concerned, carried on in some inhabited, but distant and alien,
star. Contrari- wise, with the sense of that hope warm about him,
he seemed to anticipate some kindly care for himself, never to fail even
on earth, a care for his very body that dear sister and companion
of his soul, outworn, suffering, and in the very article of death,
as it was now. For the weariness came back tenfold ; and he
had finally to abstain from thoughts like these, as from what caused
physical pain. And then, as before in the wretched, sleepless nights of
those forced marches, he would try to fix his mind, as it were
impassively, and like a child thinking over the toys it loves, one after
another, that it may fall asleep thus, and forget all about them
the sooner, on all the persons he had loved in life on his love for them,
dead or living, grate- ful for his love or not, rather than on theirs for
him letting their images pass away again, or rest with him, as they
would. In the bare sense of having loved he seemed to find, even
amid this foundering of the ship, that on which his soul might
"assuredly rest and depend." One after another, he suffered
those faces and voices to come and go, as in some mechanical
exercise, as he might have repeated all the verses he knew by heart, or
like the telling of beads one by one, with many a sleepy nod
between- whiles. For there remained also, for the old
earthy creature still within him, that great blessedness of
physical slumber. To sleep, to lose one's self in sleep that, as he had
always recognised, was a good thing. And it was after a space of
deep sleep that he awoke amid the murmuring voices of the people
who had kept and tended him so carefully through his sickness, now
kneeling around his bed : and what he heard confirmed, in the then
perfect clearness of his soul, the in- evitable suggestion of his own
bodily feelings. He had often dreamt he was condemned to die, that
the hour, with wild thoughts of escape, was arrived; and waking, with the
sun all around him, in complete liberty of life, had been full of
gratitude for his place there, alive still, in the land of the living. He
read surely, now, in the manner, the doings, of these people, some
of whom were passing out through the doorway, where the heavy
sunlight in very deed lay, that his last morning was come, and turned to
think once more of the beloved. Often had he fancied of old that
not to die on a dark or rainy day might itself have a little alleviating
grace or favour about it. The people around his bed were praying
fervently Abi! Abi! Anima Christiana! In the moments of his extreme
helplessness their mystic bread had been placed, had descended like a
snow-flake from the sky, between his lips. Gentle fingers had applied
to hands and feet, to all those old passage-ways of the senses,
through which the world had come and gone for him, now so dim and obstructed,
a medicinable oil. It was the same people who, in the gray, austere
evening of that day, took up his remains, and buried them secretly, with
their accustomed prayers ; but with joy also, holding his death,
according to their generous view in this matter, to have been of the
nature of a martyrdom ; and martyrdom, as the church had always
said, a kind of sacrament with plenary grace.P Corrado Curcio. Curcio. Keywords: esistenti -- Lucrezio,
Foscolo, Leopardi, Alighieri, Gentile, Diano, Sicilian philosophy. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Curcio” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Curi: la ragione
conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei figli di Marte -- passione e compassione, senso e consenso –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Verona). Filosofo italiano. Grice: “I like Curi; unlike me, we would call him a
prolific philosopher; my favourite are his reflections on ‘eros’, ‘amore’ and
bello, but he has also written on various topics related to maleness -- Si laurea a Padova. Insegna a Padova. Membro
dell’Istituto Gramsci Veneto. Formatosi alla scuola di Diano, Gentile e Bozzi, incontra
Cacciari. A partire da quel topos, si avvia un sodalizio estremamente solido e
fecondo, all'insegna di una comune ricerca del nuovo, e di un impegno
teoretico rigoroso, che va oltre il piano strettamente della speculazione, in direzione
di una pratica civile. Filosofa sul nesso politica-civilita e guerra e sul
concetto di ‘polemos’ – cf. Grice epagoge/diagoge “”War is war” – Eirene --,
lungo la linea che congiunge Eraclito a Heidegger. Valorizza la narrazione, sia
intesa come mythos, sia concepita come opera cinematografica. Medita su alcuni
temi fondamentali dell'interrogazione filosofica, quali l'amore e la morte, il
dolore e il destino. Altre opere: “Endiadi: figure della dualità”
(Feltrinelli, Milano); “La filosofia come ‘bellum’” (Bollati Boringhieri,
Torino); “La forza dello sguardo” – Lat. vereor – warten: to see --; “Meglio
non essere nati: la condizione umana” – cf. la condition humaine”, Malraux);
“Lo schermo” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Un filosofo al cinema,
Bompiani, Milano).Quello che non e filosofo, ma ha soltanto una verniciatura di
casi umani, come il maschio abbronzato dal sole, vedendo quante cose si devono
imparare, quante fatiche bisogna sopportare, come si convenga, a seguire tale
studio, la vita regolata di ogni giorno, giudica che sia una cosa difficile e impossibile
per lui. A questo maschio bisogna mostrare che cos'è davvero la filosofia, e
quante difficoltà presenta, e quanta fatica comporta.” (Platone, Lettera
settima). La libertà non è soltanto l'essere-liberati DA lle catene né soltanto
l'esser-divenuti-liberi PER la luce, ma l'autentico essere-liberi è
essere-liberatori DA il buio. La ridiscesa nella caverna non è un divertimento
aggiuntivo che il presunto "libero" possa concedersi così per svago,
magari per curiosita. E esser-ci dentro tutto, essa soltanto, il compimento autentico
del divenire liberi. Heidegger, L'essenza della verità, Franco Volpi, Milano).Ne
“La brama dell'avere” si ha un attento e puntuale riesame sia
storico-filosofico che critico-filologico della fondamentale categoria
esistenziale dell'”avere” – “the have and have-nots” -- alla luce dell'odierno assetto
socio-comunitario. Cf. Grice on “H” for “Hazzes” “x H y” Curi focuses on ‘ekhein’ which would then
correspond to Grice’s “H” --. Altre opere: “Il coraggio di pensare,
manualistica di filosofia, Loescher editore, Torino); “Il problema dell'unità
del sapere nel comportamentismo” (MILANI, Padova); “Analisi operazionale e operazionismo”
(MILANI, Padova); “L'analisi operazionale della psicologia” (Franco Angeli,
Milano); “Dagli Jonici alla crisi della fisica” (MILANI, Padova); “Anti-conformismo
e libertà intellettuale: per una dialettica tra pensiero e politica” (Padova) –
cfr. Grice on non-conformismo – “Psicologia e critica dell'ideologia” (Bertani,
Roma); “La ricerca” (Marsilio, Venezia); “Katastrophé. Sulle forme del
mutamento scientifico” (Arsenale Cooperativa, Venezia); “La linea divisa.
Modelli di razionalita' e pratiche scientifiche nel pensiero occidentale” (De
Donato, Bari); “Pensare la guerra. Per una cultura della pace” (Dedalo, Bari) –
cf. Grice on ‘eirenic effect’ – pax et bellum – si vis pacem para bellum. ex
bello pace. “Dimensioni del tempo” (Franco Angeli, Milano); “Einstein”
(Gabriele Corbo, Ferrara); “La cosmologia filosofica” (Gabriele Corbo,
Ferrara); “La politica sommersa. Per un'analisi del sistema politico italiano,
Franco Angeli, Milan); “Lo scudo di Achille. Il PCI nella grande crisi” (Franco
Angeli, Milano); “L'albero e la foresta. Il Partito Democratico della Sinistra
nel sistema politico italiano, con Paolo Flores d'Arcais, Franco Angeli,
Milano); “Metamorfosi del tragico tra classico e moderno, Bari); “La repubblica
che non c'è” (Milano); “Poròs. Dialogo in una società che rifiuta la bellezza,
Milano); L'orto di Zenone. Coltivare per osmosi” (Milano); “Amore duale”
(Feltrinelli, Milano); “Platone: Il mantello e la scarpa” (Il Poligrafo,
Padova); “Pensare la guerra. L'Europa e il destino della politica, Dedalo,
Bari); “Pólemos. Filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino); Ombra
della’ idea. Filosofia del cinema fra «American beauty» e «Parla con lei»,
Pendragon, Bologna); “Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito
moderno, Bruno Mondadori, Milano); “Il farmaco della democrazia. Alle radici
della politica, Marinotti, Milano); “La forza dello sguardo, Bollati
Boringhieri, Torino); “Skenos. Il Don Giovanni nella società dello spettacolo”
(Milano); “Libidine” (Milano). Un filosofo al cinema, Bompiani, Milano); Meglio
non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati
Boringhieri, Torino); Miti d'amore. Filosofia dell'eros, Bompiani, Milano); Pensare
con la propria testa” (Mimesis, Milano); “Straniero, Raffaello Cortina Editore,
Milano); “Passione” (Raffaello Cortina Editore, Milano. La porta stretta. Come
diventare maggiorenni” (Bollati Boringhieri, Torino); “I figli di Ares. Guerra
infinita e terrorismo, Castelvecchi, Roma. La brama dell'avere; Il Margine,
Trento); “Il mito di Narciso sul Wikipedia
Ricerca Marte (divinità) dio romano della guerra e dei duelli Lingua Segui
Modifica Marte (in latino: Mars[1]) è, nella religione romana e italica[2], il
dio della guerra e dei duelli e, secondo la mitologia più arcaica, anche del
tuono, della pioggia e della fertilità[3]. Simile alla divinità greca Ares, col
tempo ne ha assorbito tutti gli attributi, fino a venire completamente
identificato con esso. Statua colossale di Marte: "Pirro"
nei Musei capitolini a Roma. Fine del I secolo d.C. Culto. Venere e Marte,
affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. È una divinità sia etrusca[4] che
italica (Mamers nei dialetti sabellici[5]); nella religione romana (dove era
considerato padre del primo re Romolo) era il dio guerriero per eccellenza, in
parte associato a fenomeni atmosferici come la tempesta e il fulmine. Assieme a
Quirino e Giove, faceva parte della cosiddetta "Triade arcaica", che
in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece costituita da Giove,
Giunone e Minerva. Più tardi, identificandolo con il greco Ares, venne detto
figlio di Giunone e Giove e inserito in un contesto mitologico ellenizzato.
Alcuni studiosi del passato (Wilhelm Roscher, Hermann Usner, e soprattutto
Alfred von Domaszewski) hanno parlato di Marte anche nei termini di divinità
"agraria", legata all'agricoltura, soprattutto sulla scorta del testo
di una preghiera rimastaci nel De agri cultura di Catone, che lo invoca per
proteggere i campi da ogni tipo di sciagura e malattia. Secondo Georges Dumézil
tuttavia il collegamento fra Marte e l'ambito campestre non farebbe di lui una
divinità legata alla terra, in quanto il suo ruolo sarebbe esclusivamente di
difensore armato dei campi da mali umani e soprannaturali, senza
diversificazione dalla sua natura intrinsecamente guerresca. Il dio,
inoltre, rappresentava la virtù e la forza della natura e della gioventù, che nei
tempi antichi era dedita alla pratica militare. In questo senso era posto in
relazione con l'antica pratica italica del uer sacrum, la Primavera Sacra: in
una situazione difficile, i cittadini prendevano la decisione sacra di
allontanare dal territorio la nuova generazione, non appena fosse divenuta
adulta. Giunto il momento, Marte prendeva sotto la sua tutela i giovani
espulsi, che formavano solo una banda, e li proteggeva finché non avessero
fondato una nuova comunità sedentaria espellendo o sottomettendo altri
occupanti; accadeva talvolta che gli animali consacrati a Marte guidassero i
sacrani e divenissero loro eponimi: un lupo (hirpus) aveva guidato gli Irpini,
un picchio (picus) i Piceni, mentre i Mamertini derivavano il loro nome
direttamente da quello del dio. Sempre a Marte era dedicata la legio sacrata,
cioè la legione Sannita, detta anche linteata, poiché era bianca.[senza
fonte] Marte, nella società romana, assunse un ruolo molto più importante
della sua controparte greca (Ares), probabilmente perché considerato il padre
del popolo romano e di tutti gli Italici in generale: Marte, accoppiatosi con
la vestale Rea Silvia generò Romolo e Remo, che fondarono Roma.[6] Di
conseguenza Marte era considerato il padre del popolo romano e i romani si chiamavano
tra loro Figli di Marte. I suoi più importanti discendenti, oltre a Romolo e
Remo, furono Pico e Fauno. Marte comparve spesso sulla monetazione
romana, sia repubblicana che imperiale, con vari titoli: Marti conservatori
(protettore), Marti patri (padre), Mars ultor (vendicatore), Marti pacifero
(portatore di pace), Marti propugnatori (difensore), Mars victor
(vincitore). Il mese di marzo, il giorno di martedì, i nomi Marco,
Marcello, Martino, il pianeta Marte, il popolo dei Marsie il loro territorio
Martia Antica (la contemporanea Marsica) devono a lui il loro nome.
Leggenda sulla nascita di MarteModifica Secondo il mito, Giunone era invidiosa
del fatto che Giove avesse concepito da solo Minerva senza la sua
partecipazione. Chiese quindi aiuto a Flora che le indicò un fiore che cresceva
nelle campagne in Etoliache permetteva di concepire al solo contatto. Così
diventò madre di Marte, che fece allevare da Priapo, il quale gli insegnò
l'arte della guerra. La leggenda è di tradizione tarda come dimostra la discendenza
di Minerva da Giove, che ricalca il mito greco. Flora, al contrario, testimonia
una tradizione più antica: l'equivalente norreno Thor nasce dalla terra, Jǫrð e
così le molte divinità elleniche. NomiModifica Statua di Marte nudo
in un affrescodi Pompei. Marte era venerato con numerosi nomi dagli stessi
latini, dagli Etruschi e da altri popoli italici: Maris, nome Etrusco da
cui deriva il nome del Dio Romano;[4] Mars, nome Romano; Marmar; Marmor;
Mamers, nome con cui era venerato dai popoli italicidi stirpe osca[7];
Marpiter; Marspiter; Mavors. EpitetiModifica Diuum deus: 'dio degli dei', nome
con cui viene designato nel Carmen Saliare. Gradivus: 'colui che va', con
valore spesso di 'colui che va in battaglia', ma può essere collegato anche al
ver sacrum, quindi 'colui che guida, che va'. Leucesios: epiteto del Carmen
Saliare che significa 'lucente', 'dio della luce', questo epiteto può essere
anche legato alla sua caratteristica di dio del tuono e del lampo. Silvanus: in
Catone, nel libro De agri cultura, 83 Marte viene soprannominato Silvanus in
riferimento ai suoi aspetti legati alla natura e collegandolo con Fauno. Ultor:
epiteto tardo, dato da Augusto in onore della vendetta per i cesaricidi (da
ultor, -oris: vendicatore). RappresentazioniModifica Gli antichi monumenti
rappresentano il dio Marte in maniera piuttosto uniforme; quasi sempre Marte è
raffigurato con indosso l'elmo, la lancia o la spada e lo scudo, raramente con
uno scettro talvolta è ritratto nudo, altre volte con l'armatura e spesso ha un
mantello sulle spalle. A volte è rappresentato con la barba ma, nella maggior
parte dei casi, è sbarbato. È raffigurato a piedi o su un carro trainato da due
cavalli imbizzarriti, ma ha sempre un aspetto combattivo. Gli antichi
Sabini lo adoravano sotto l'effigie di una lancia chiamata "Quiris"
da cui si racconta derivi il nome del dio Quirino, spesso identificato con
Romolo. Bisogna dire che il nome Quirinus, come il nome Quirites, deriva da
*co-uiria, cioè assemblea del popolo e indicava il popolo in quanto corpus di
cittadini, da distinguere con Populus (dal verbo populari = devastare), che
indica il popolo in armi. Il ruolo di Marte a RomaModifica Venere e
Marte, affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. A Roma Marte era onorato in
modo particolare. A partire dal regno di Numa Pompilio, venne istituito un
consiglio di sacerdoti, scelti tra i patrizi, chiamati Salii, chiamati a
vigilare su dodici scudi sacri, gli Ancilia, di cui si dice che uno sia caduto
dal cielo. Questi sacerdoti erano riconoscibili dal resto del popolo per la
loro tunica purpurea. I sacerdoti Salii, in realtà erano un'istituzione ben più
antica di Numa Pompilio, risalivano addirittura al re-dio Fauno, che li creò in
onore di Marte, costituendo così i primi culti iniziatici latini. Nella
capitale dell'impero, vi era anche una fontana consacrata al dio Marte e
venerata dai cittadini. L'imperatore Nerone, una volta, si bagnò in quella
fontana, gesto che fu interpretato dal popolo come un sacrilegio e che gli
alienò la simpatia popolare. A partire da quel giorno, l'imperatore iniziò ad
avere problemi di salute, secondo la gente dovuta alla vendetta del dio.
FestivitàModifica Era venerato fastosamente in marzo, il primo mese dell'anno
nel calendario romano, che segnava la ripresa delle attività militari dopo
l'inverno e che portava il suo nome, con le feriae Martis, Equirria, agonium
martiale, Quinquatrus e tubilustrum. Altre cerimonie importanti avvenivano in
febbraio e in ottobre. Gli Equirria si tenevano il 27 febbraio e il 14 marzo.
Erano giorni sacri con significato religioso e militare; i romani vi mettevano
molta enfasi per sostenere l'esercito e rafforzare la morale pubblica. I
sacerdoti tenevano riti di purificazione dell'esercito. Si tenevano corse di
cavalli nel Campo Marzio. Le feriae Martis si tenevano dal 1º marzo al 24
marzo. Durante le feriae Martis i dodici Salii Palatinipercorrevano la città in
processione, portando ciascuno un Ancile, uno dei dodici scudi sacri, e
fermandosi ogni notte ad una stazione diversa (mansio). Nel percorso i Salii
eseguivano una danza con un ritmo di tre tempi (tripudium) e cantavano l'antico
e misterioso Carmen Saliare. Il 19 marzo si teneva il Quinquatrus, durante il
quale gli scudi venivano ripuliti. Il 23 marzo si teneva il Tubilustrium,
dedicato alla purificazione delle trombe usate dai Saliie alla preparazione
delle armi dopo la pausa invernale. Il 24 marzo gli ancilia venivano riposti
nel sacrario della Regia. L'October Equus si teneva alle idi di ottobre
(15 ottobre). Si svolgeva una corsa di bighe e veniva sacrificato a Marte il
cavallo di destra del trio vincente tramite un colpo di lancia del Flamine
marziale. La coda veniva tagliata e il suo sangue sparso nel cortile della
Regia. C'era una battaglia tradizionale tra gli abitanti della Suburra che
volevano la coda per portarla alla Turris Mamilia e quelli della Via Sacra che
la volevano per la Regia. Il 19 ottobre si teneva l'Armilustrium,
dedicato alla purificazione delle armi e alla loro conservazione per l'inverno.
Ogni cinque anni si tenevano in Campo Marzio le Suovetaurilia, dove davanti
all'altare di Marte (Ara Martis) il censo veniva accompagnato da un rito di
purificazione tramite il sacrificio di un bue, un maiale e una pecora.
Luoghi di cultoModifica Marte e Venere, copia settecentesca da I Modi di
Marcantonio Raimondi Tra le popolazioni italiche, si sa di un antico tempio
dedicato al dio Marte a Suna,[8] antica città degli Aborigeni, e di un oracolo
del dio, nella città aborigena di Tiora.[9] Animali e oggetti sacriModifica
Lupo: si ricorda il nipote Fauno, il lupo per eccellenza è la lupa che ha
allattato Romolo e Remo[6] Picchio: il picchio è l'uccello del tuono e della
pioggia oracolare, ha nutrito Romolo e Remo insieme alla lupa Cavallo: simbolo
della guerra (si ricorda Nettuno e gli Equirria) Toro: altro animale molto
importante per il ver sacrum e per tutti i popoli italici Hastae Martiae: sono
le lance di Marte che si scuotevano in caso di gravi pericoli, tenute nel
sacrario della Regia Lapis manalis: la pietra della pioggia, in quanto dio
della pioggia OfferteModifica A Marte si offrivano come vittime sacrificali
vari tipi di animali: dei tori, dei maiali, delle pecore e, più raramente,
cavalli, galli, lupi e picchi verdi, molti dei quali gli erano consacrati. Le
matrone romane gli sacrificavano un gallo il primo giorno del mese a lui
dedicato che, fino al tempo di Gaio Giulio Cesare, era anche il primo
dell'anno. Identificazioni con dei celticiModifica Mars Alator: Fusione
con il dio celtico Alator Mars Albiorix, Mars Caturix o Mars Teutates: Fusione
con il dio celtico Toutatis Mars Barrex: Fusione con il dio celtico Barrex, di
cui si ha notizia solo da un'iscrizione a Carlisle Mars Belatucadrus: Fusione
con il dio celtico Belatu-Cadros. Questo epiteto è stato trovato in cinque
iscrizioni nell'area del Vallo di Adriano Mars Braciaca: Fusione con il dio
celtico Braciaca, trovato in un'iscrizione a Bakewell Mars Camulos: Fusione con
il dio della guerra celtico Camulo Mars Capriociegus: Fusione con il dio celtico
gallaico Capriociegus, trovato in due iscrizioni a Pontevedra Mars Cocidius:
Fusione con il dio celtico Cocidio Mars Condatis: Fusione con il dio celtico
Condatis Mars Lenus: Fusione con il dio celtico Leno Mars Loucetius: Fusione
con il dio celtico Leucezio Mars Mullo: Fusione con il dio celtico Mullo Mars
Nodens: Fusione con il dio celtico Nodens Mars Ocelus: Fusione con il dio
celtico Ocelus Mars Olloudius: Fusione con il dio celtico Olloudio Mars Segomo:
Fusione con il dio celtico Segomo Mars Visucius: Fusione con il dio celtico
Visucio Marte nell'arteModifica PitturaModifica Marte, di Diego Velázquez
(1640) Marte che spoglia Venere con amorino e cane, di Paolo Veronese Marte e
Venere sorpresi da Vulcano, di François Boucher (1754) Minerva protegge la Pace
da Marte, di Pieter Paul Rubens (1629-1630) Venere e Marte, di Sandro
Botticelli NoteModifica ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su Treccani,
enciclopedia ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Pallotino, pp. 29, 30;
Hendrik Wagenvoort, "The Origin of the Ludi Saeculares," in Studies
in Roman Literature, Culture and Religion (Brill, 1956), p. 219 et passim; John
F. Hall III, "The Saeculum Novum of Augustus and its Etruscan
Antecedents," Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.3 (1986),
p. 2574. ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Strabone, Geografia, V 3.2. ^
Nota sul dio Mamerte (o Mamers), in Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, I 14.3. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I 14.5.
BibliografiaModifica Andrea Carandini, La nascita di Roma, Torino, Einaudi. (L'archeologo
Andrea Carandini dà la definitiva rivalutazione del dio Marte). Renato Del
Ponte, Dei e miti italici, Genova, ECIG, Dumézil, La religione romana arcaica,
Milano, Rizzoli, Libro del grande storico delle religioni, che per primo
rivalutò Marte da feroce dio emulo di Ares a divinità più originale e
importante). James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Milano, Adelphi,
Un libro che dimostra come questo dio sia presente nelle guerre contemporanee).
Jacqueline Champeux, La religione dei romani, Bologna, Il Mulino, Ares Divinità
della guerra Flamine marziale Fauno Marte (astronomia) Mamerte Pico (mitologia)
Hachiman Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons
contiene immagini o altri file su Marte Collegamenti esterniModifica Fano di
Marmar [collegamento interrotto], su latinae.altervista.org. Portale Antica
Roma Portale Mitologia Salii collegio sacerdotale romano per il
culto di Marte Mamuralia festività Triade arcaica Wikipedia Il
contenuto Umberto Curi. Keywords: passione, have, habere, habitus,
comportamentismo, behaviourism. La brama dell’avere, anticonformismo, guerra e
pace – Eirene – cosmologia anthropologia – l’orto di Zenone – lo scudo
d’Achille – I figli di Marte -- il
mantello e la scarpa libido -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Curi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Cusani: la ragione
conversazionale e l’implicatura
conversazionale del primo hegelista – lo stato italiano -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Solopaca). Filosofo italiano.
Grice: “I love Cusani; for one, I was born at Harborne, but nobody cares;
Cuasani was born in Solopaca, and there’s a ‘corso Cusani’, and a ‘Biblioteca
Cusani’.” Grice: “Cusani would have been friend with Bosanquet; both are
Hegelians – Italians, after SOME Germans, were the first to endorse the philosophy
of the absolute spirit inmanent to dialectic – Cusani does attempt to respond
to a criticism on the ‘assoluto’ brought up by Hamilton (of all people), and
consdtantly refers to the ‘metafisica dell’assoluto’ – a ‘progetto,’ he humply
titles it!” Figlio
di Filippo e Caterina Cardillo, nacque al capoluogo distrettuale e di
comprensorio del Regno delle Due Sicilie. Membro dei Pontaniani. Frequenta il
circolo del marchese Basilio Puoti, insieme a Sanctis e Gatti. Punto di partenza della sua filosofia, comune
a buona parte del circolo del’hegelismo di stanza a Napoli, dei quali e un
esponente, fu Cousin, il fondatore della “storiografia filosofica”. Insegna a
Montecassino, e al collegio Tulliano di Arpino, dove fu affiancato da Spaventa,
chiamato poi a sostituirlo. Si stabilisce a Napoli nel proprio studio privato.
I saggi di Cusani furono pubblicati su “Il progresso delle scienze, delle lettere
e delle arti” e “Museo di filosofia”. La seconda fu da lui stesso fondata. Molti
dei saggi di filosofia più impegnati furono pubblicati in L’Antologia, di
Firenze. Scrisse inoltre note e recensioni nel periodico l'Omnibus e nella
Rivista napolitana. Molte delle sue
opere sono archiviate presso la Biblioteca "Stefano Cusani" di
Solopaca. Idealista hegeliano ed
esponente dell’ecletticismo filosofico di Cousin. Opere: “Della fenomenologia,
il fatto di coscienza intersoggetiva”; “Del metodo filosofico”; “Storia dei
sistemi filosofici”; “Della materia della filosofia e del solo procedimento a
poterlo raggiungere”; “Il romanzo filosofico”; “La poesia drammatica”; “L’assoluto
– l’obbjezione d’Hamilton”; “Logica immanente e logica trascendentale”;
“Compendio di storia di filosofia”; “Della lirica considerata nel suo
svolgimento storico e del suo predominio sugli' altri generi di poesia”; “Economia
politica e sua relazione colla morale”; “L’essere e gli esseri: disegno di una
metafisica”; “Percezione dell’esistenza”. Nel comune di Solapaca è stato
indetto nel un anno di celebrazione in
occasione del centenario della nascita nel comune di Solopaca. Il corso Stefano
Cusani gli è stato intitolato a Solopaca. Sanctis lo cita nella autobiografia.
Cusani dato alla stessa filosofia, ha maggiore ingegno del superbissimo Gatti,
ed e mitissima natura d'uomo. Sale al tavolo degli oratori con tale fervore
dialettico che a tutta la persona grondava onorato sudore» (G. Giucci, Degli
scienziati italiani formanti parte del VII congresso in Napoli nell'autunno del
1845: notizie biografiche, Napoli. L'amico coetaneo Cesare Correnti, patriota
milanese legato ai circoli Napoli, insegnante nella Scuola di lingua italiana
da lui fondata, gli dedicò un necrologio. Ecco un altro amico, un'altra fiorita
speranza di questa nostra Napoli sparire a un tratto a noi d'intorno. Ben dissi
a un tratto, poiché la sua non lunga malattia parve un momento agli amici. La
filosofia specialmente nol sedussero, in modo che a più severi studi non
volgesse l'acuto e fervidissimo spirito, e a bella armonìa si composero
nell'anima sua. Rivista europea», ripr. in Scritti scelti, T. Massarani, Forzani,
Roma). «Rivista europea», ripubblicato in Scritti scelti, T. Massarani,
Forzani, Roma, Dizionario biobibliografico del Sannio, Napoli, "Il Progresso",
"Il Lucifero","Omnibus"; "Rivista napolitana", Sanctis,
La letteratura ital. nel sec. XIX, II, La scuola liberale e la scuola
democratica N. Cortese, Napoli; G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli. A. Vera e
la corrente "ortodossa" (Milano); F. Zerella, Filosofia italiana meridionale”;
“Dall'eclettismo all'hegelismo in Italia”. Cusani e la filosofia italiana:
Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Nasceva in Solopaca, una volta
Distretto di Caserta, oggi Circondario di Cerreto Sannite (Benevento) il 23
dicembre 1816, Stefano Cusani da Filippo e Caterina Cardillo. Suo padre,
insigne avvocato, fu sollecito della educazione di questo come di altri quattro
suoi figliuoli, che, affidati alle cure di un suo fratello germano a nome
Matteo, sacerdote, mandolli in tenera età a imcominciare e compiere i loro
studî in Napoli. Ivi Stefano, ch'era il secondogenito di cinque fratelli,
frequentava i più rinomati Istituti privati di quel tempo (che allora
l'insegnamento pubblico esisteva sol di nome), si distingueva fra gli
altri condiscepoli in ognuno di questi, così che in breve, compiuti gli studi
letterarî fu giocoforza mettersi a studiare le scienze della facoltà che doveva
seguire. Fu questo il solo brutto periodo di sua vita. Suo padre voleva fare di
lui un Avvocato civile, come suol dirsi, e quindi fu obbligato a studiare leggi
e pandette, per le quali discipline non si sentiva la benchè minima
inclinazione, anzi, a dir vero, sentiva per esse la più marcata avversiono; ma
buon figlio e docile essendo, per non dispiacere al padre, che tanti sacrifizî
avea fatti e faceva per lui, come per gli altri fratelli, a malincuore sempre,
ma sempre tacendo, giunse fino ad esser Avvocato, ed a fare la pratica presso
uno de'luminari del Foro Napoletano. Da questo momento incomincia il suo grande
sviluppo intellettuale. Non potendone più, la rompe col padre, dicendosi
avverso ai processi, ed allo studio di essi, e ad ogni altro artifizio da
causidico. La rompe con quella pratica noiosa, che tralascia ed abbandona; ed
ottiene dal padre stesso, che ragionevole e savio uomo era, di poter attendere
a quegli studi che più alla sua indole si affacevano. Fioriva in quel tempo, a
Napoli, la scuola del Marchese Basilio Puoti, ed egli, incontratosi con
Stanislao Gatti che fu poi indivisibile amico e compagno, vi si getto a
capofitto, e fu in poco tempo il più caro e pregiato discepolo del Marchese,
come l'amico e compagno del De Sanctis, del Mirabelli, e di tutta quella
pleiade che in quel tempo arricchirono Napoli di filosofi insigni. Ma a
quell'ingegno che s'andava ogni giorno più sviluppando e fortificando di sani e
severi studî, parve angusto oramai quest'orizzonte, o volse l'ala, e la di
instese con intensità ed ardore allo studio della filosofia. Ben cinque
anni decorsero di volontaria prigionia nel suo studiolo, ovo ridottosi, o giorno
e notte indefessa mente attendeva a' prediletti studî, e si beava di leggere
Platone nel testo, chè familiare la lingua gli era; come pure si fece a
studiare la lingua alemanna per mettersi al corrente dei progressi della
filosofia, e per meditare e studiare le dottrine e teorie dell'Hegel, ultimo
filosofo tedesco di quella epoca. Uscito dopo questa epoca a nuova vita
incominciò a scrivere sul Progresso, una Rivista di scienze e letteratura,
diretta dal Baldacchini, articoli su questioni filosofiche; e, dopo un anno,
era già conosciuto in tutta la Napoli pensante. In questo torno di tempo si
apri un concorso per la Cattedra di filosofia e matematica, nel Collegio
Tulliano di Arpino, e lui fu prescelto per titoli ad occuparla. Vi andò e vi
trovò il suo amico Emmanuele Rocco, che v'insegnava letteratura. Vi stette un
anno e vedendosi in una cerchia troppo angusta alla sua attività, si dimise, e
fece ritorno in Napoli, conducendo con sè anche l'amico Rocco. Quivi apri
studio privato unitamente al Gatti di filosofia, e dal bel principio quello
studio fioriva per numerosa gioventù, che accorreva a udire le sue lezioni. In
breve fu lo studio più affollato di Napoli. Le ore che aveva libere dallo
insegnamento le occupava a scrivere articoli di filosofia che si pubblicavano
sulle Riviste Napoletane di quel tempo, il Progresso che usciva in fascicoli
voluminosi, la Rivista Napoletana di Scienze, Lettere ed Arti, il Museo di
Scienza e Letteratura, ove collaboravano per la lor parte Antonio Tari,
Francesco Trinchera, ed altri; e sul Progresso il Colecchi ed
altri. Non andò guari e s'incontrò col Mamiani in quistioni di alta
Metafisica, o ne usci onorato dell'amicizia e della riverenza dell'insigno
filosofo. Il suo intelletto altamente speculativo destava ammirazione perchè si
elevava ad altezze tali filosofiche che non gli si potevano
contrastare. In quel tempo si agitò una polemica tra V. Cousin, filosofo
francese, ed un insigne filosofo inglese, il cui nome ora non mi sovviene; dopo
varî articoli scambiatisi parea che l'inglese avesse preso il di sopra, ed il
Cousin, che lui credeva più dell'altro stare nel vero, avesse dovuto
soccomberé. Allora senza frapporre tempo in mezzo egli entrò terzo nella
quistione e scrisse epubblico una serie di articoli che costrinse l'inglese a
desistere dalla polemica, ed il Cousin a scrivergli una lettera di
ringraziamenti e di felicitazioni, e con la quale lo chiamava, e si firmava suo
cugino. Si radunava il Congresso dei Filosofi in Napoli nell'ottobre del
1845, o lui ne dovea far parte; ma non sapendosi se il Borbone lo avesse
permesso, o meno, erasi ridotto in patria a villeggiare con la moglie e due
piccini, l'uno lattante e l'altro di due anni. Il Congresso fu permesso, i
filosofi si riunirono in Napoli, e lui fu invitato espressamente a farvi
ritorno; che anzi il Presidente della Sezione “Filosofia speculativa” a cui
egli apparteneva, non volle aprire la sessione s'egli non fosse arrivato. Cosi
corse in Napoli solo, lasciando in patria la famiglia, che poi sarebbe andato a
rilevare, dopo finito e sciolto il Congresso. Fu questa la causa della sua
morte! Arrivato in Napoli vede gli amici - con essi si intrattiene passeggiando
-- suda; è l'ora già che s'apre la Sessione -- essi ve lo accompagnano a piedi
per goderselo di più -- vi si arriva. Egli era sudatissimo -- entra e n'esce
dopo quattro lunghe ore di discussione; quel sudore lo avea già colpito a
morte. Si riduce a casa, si ricambia le mutande - la camicia era troppo
tardi! Incomincia dopo poco tempo una tosse secca, stizzosa, ch'egli non cura,
perchè forte e robusto era; e questo fu il peggiore dei divisamenti. Ritorna in
patria per ripigliare la famiglia e ridursi in Napoli, poiché si era alla
vigilia del novembre. Si riapre lo studio, si riprendono le lezioni; il maggior
numero degli alunni affluito gli rinfocola l'ardore, ch'ei metteva in esse, e
parla dalla cattedra per lunghe ore, e poi agli alunni più provetti che gli
propongono dubbi o problemi a risolvere, parla pure ad alta voce, e quella
tosse insidiosa non lo lascia, anzi invida della sua noncuranza lo avverte
spesso del suo malefico potere, interrompendogli il discorso, e forzandolo per
poco a tacere. Le cose durarono ancora così per altri 10, o 12 giorni, e
finalmente la emottisi tenne dietro a quella tosse funesta, e fu giuocoforza
sottomettersi a quanto l'arte salutare poteva e sapeva consigliare, ma invano
tutto! Chè una tisi florida si svolse, ed in meno di due mesi si spense la
robusta complessione di S. Cusani! Tale fu quest'uomo, che a 30 anni la morte
rapiva a'suoi, alla scienza, alla patria. Nato a 23 dicembre 1816, moriva a 2
gennaio 1816. Dissi rapito alla patria, e giustamente, poichè egli da
giovanissimo appartenne alla Giovine Italia, e in Napoli fu sempre il più
ardente fra i patrioti. Egli con altri preparò e cooperò con ardore al
movimento del '18 che poi non potė vedere! La sua casa era il convegno di Carlo
Poerio, L. Settembrini, S. Spaventa, P. Mancini, e di tutti gli altri illustri
compromessi politici di quel tempo, con i quali si congiurava, si
faceva propaganda, e si organizzava la rivoluzione. Fu cosi caro a questi tutti
che se un giorno solo nol vedeano, si tenea por certo la visita loro in sua
casa; ed il Poerio, addoloratissimo della sua malattia, volle ed ottenne che
fosse stato medicato, curato ed assistito infino all'ultimo istante di sua vita
dal fido o dotto medico Alessandro Lo Piccolo. L'esequie furono imponenti pel
concorso di amici, che formavano tutte le notabilità scientifiche,
patriottiche e letterarie. Il lutto per la sua perdita fu sentito generalmente
per Napoli, che in lui salutava la giovine scienza, e che per lui si metteva a
paro di altre città d'Italia, che fiorivano per altissimi ingegni ed insigni
filosofi, come il Mamiani, il Rosmini, il Gioberti, ed altri, se quella vita non
si fosse spenta nel mezzo del cammino! La cura della filosofia di Cusani
d’Ottonello ha il merito di riproporre all’attenzione una figura di rilievo
della cultura filosofica napoletana dell'Ottocento. Benché scomparso in
giovanissima età, nel gennaio 1846 (eranato nel dicembre del 1815, o forse del
1816, come i piú sostengono), Cusani lascia di sé traccia profonda,
testimoniata dalla considerazione in cui e tenuto, per tacer d’altri, da
Sanctis, o dalla valutazione che di lui dette Gentile. Con Gatti ed altri può
essere inserito - come nota il curatore nella nitida e puntuale introduzione
nell'ambito dell'hegelismo napoletano, oltrecché in quello piú generale
dell'eclettismo alla Cicerone. Opportunamente si avverte però che Hegel
costituisce per Cusani un potente polo d'attrazione, ma non il filosofo
fondamentale. In realtà si può forse con fondamento aggiungere, pur senza
ricorrere ad una indagine falsamente sottile, che resta in ombra, nellepur
autorevoli e acute analisi dedicate alle ascendenze cousiniane ed hegeliane di
Cusani, un filosofo fondamentale che sicuramente ispira la filosofia piú
significativa di Cusani: Vico. La costruzione del sistema eclettico cui Cusani
dichiara di dedicarsi segna una fase già tarda dell'eclettismo napoletano e
giungeva al termine di un decennio assai ricco di suggestioni in questa
direzione negli ambienti culturali napoletani. È sicuramente da condividere
l'affermazione del curatore secondo il quale il sincretismo avvertibile in
Cusani non impedisce però l'emergere di un nucleo speculativo che deborda dalla
semplice trama delle affermazioni altrui. In questo senso il problema del
metodo filosofico e il connesso problema della storia italiana segnano sin
dall’inizio lo sforzo speculativo di Cusani, la cui originalità trova subito
sulla sua strada Vico. Collaboratore della Temi napoletana, dell'Omnibus
letterario, scrive prevalentemente sul “Progresso.” Sin dalprimo scritto,
Filosofia in Italia, il tema della storia italiana appare questione teorica
centrale. Non a caso una ricerca storica da l'occasione a Cusani di porre il
problema che gli sta acuore, sin dalla citazione tratta da Guizot che apre la
nota. I fatti sonomeme affermazioni al problema della storia trova subito
sumanibus letterario ma are i grandiuti al fatto che risguardato, en per il
pensiero, ciò che le regole della morale sono per la volontà. Egli è tenuto di
conoscerli, e di portarne il peso, ed è solo allorché ha sodisfatto a questo
dovere, e ne ha misurato e percorso tutta l’estensione, che gliè permesso di
montare verso i risultamenti razional. Il rinnovato interesseper la storia
italiana che si registra-- che né l'Antichità, né i tempi di poco anteriori a
questi che viviamo avevano mai risguardato -- non sembrano a Cusani casuali, ma
dovuti al fatto che l'intendimento si rivolge a indagare i grandi ordini di
fenomeni per scoprire e prendere inconsiderazione i fatti e le ragioni, una
storia ed una filosofia. Il bisogno di comprendere e giudicare il fatto,
piuttosto che esserne solo spettatore (e dunque di verificare una diversa
attitudine della storia italiana), esalta questa parte immortale della Storia,
cioè il conoscere il legamento fatalista della causa e dell’effetto, le
ragioni, i fatti generali, le idee da ultimo ch'essi celano sotto il manto
della loro esteriorità. Onde ch’egli è d'uopo sceverar con chiarezza e con
precisione la differenza di queste due parti della storia italiana che sono per
cosí dire il corpo e l'anima, la parte materiale, e la parte spirituale di
tutti gli avvenimenti esterni e visibili, che compongono la nazione italiana,
secondo che dice Vico. Il rifiuto, che Cusani trae dalla lezione vichiana, di
affidarsi a pre-mature generalità, e con formole metafisiche per soddisfare il
mero bisogno intellettivo, è una traccia decisiva per comprendere il suo
pensiero. L'annotazione di Gentile, secondo il quale l'osservazione storica non
è piú l'integrazione della psicologia, bensí la costruzione stessa della
filosofia, può commentare l'intero itinerario filosofico di Cusani, che si
consuma nell'arco di pochissimi anni. Il discorso sul metodo che Cusani compie
si basas in dall'inizio su una acquisizione precisa: un sistema o una filosofia
consistono nel loro stesso metodo. Nel primo saggio veramente organico (Del
metodo filosofico e d'una sua storia infino agli ultimi sistemi di filosofia
che sono si veduri uscir fuori in Germania – Hegel -- e in Francia -- Cousin)
Cusani parla addirittura di un metodo generale, il quale presiede
all'investigazione dell'unica e universal verità. La filosofia è dunque la
regina scientiarum che consente di ricondurre ad “unità” il sapere, e a tal
pro-posito l'assimilazione dei termini è dichiarata apertamente, a proposito
dell’analisi psicologica, la quale segna il punto di partenza della
riflessione, ed è la base unica dell'immenso edificio filosofico, il solo
solido fondamento, il suo atrio e il suo vestibolo. E nel saggio, “Del reale
obbietto di ogni filosofia” (Il Progresso) ribadisce e chiarisce che lo studio
de’ fatti della natura umana, o de’ fenomeni psicologici, vuoto del tutto
riuscirebbe, se invece di tenerlo come base d'ogni ulteriore investigazione, si
volesse considerare come il termine stesso della filosofia. Il secolo
decimottavo si è trovato dunque di fronte al centrale problema del metodo
filosofico. Se è vero che nella storia italiana è tutta quanta la filosofia
italiana, occorre riconoscere il merito insuperabile di quella mente
divinatrice e profonda che avea posta nel mondo la nazione italiana. Vico,
definito – nella nota sul Nuovo Dizionario de sinonimi della lingua italiana di
Niccolò Tommaseo, quell'altissimo lume d'Italia, con una locuzione che
introduce un discorso, ingiustamente trascurato, sulla tradizione filosofica
meridionale, piú volte ripreso dal Cusani. Lo studio di Vico qui esaminato è
appunto il “De antiquissima Italorum sapientia”; nel quale potentemente
convinto della relazione che stà tra il pensiero (l’animus, il segnato) e la
parola (il segno), fecesi ad investigar quello degli antichi romani e italici
nostri maggiori, cavandolo per avventura da quella lingua italiana ch'era nelle
bocche volgari degli uomini. Il rapporto tra spontaneità e riflessione, che
tanta parte ha in Cusani, è dunque introdotto sotto il segno di Vico. Si ponga
mente alle affermazioni che seguono il passo già citato, allorché Cusani
insiste sul fattoche veramente il Vico porta opinione che tutto l'antico
(antichissimo) pensiero o sapienza italiana era in quella lingua italiana
ch'egli disamina, e dalla quale intende rimetterlo in luce, e che se la lingua
italiana non e opera di un filosofo, ma sibbene il prodotto spontaneo delle
facoltà nell'uomo italiano, se innanzi che venissero adoperate nella
costruzione e nel concepimento del sistema di un filosofo, di cui pur e il
necessario strumento espressivo e communicativo, esisteva nella massa de’
popolo italiano. Insomma, quella che è stata chiamata la svolta hegeliana del
Cusani, va valutata alla luce di una ispirazione legittimamente riferibile a
Vico. Si veda il Saggio su la realtà della humanitas di Vincenzo De Grazia (Il
Progresso), già sul crinale della svolta hegeliana. L'epigrafe di Cousin posta
all'inizio ritorna sul problema che sta a cuore a Cusani, e che ne determina
l'originale ricerca. Ci ha due spezie di filosofie. La prima spezie di
filosofia studia il fatto, lo disamina, e lo descrive, riordinandoli secondo le
loro differenze o somiglianze, e potrebbesi però denominare filosofia
“elementare” o immanente. L’altra spezie di filosofia comincia ove si ferma la
prima, investigando la *natura* de’ fatti, e intendendo di penetrare la loro
ragione, la loro origine, il lor fine, e potrebbesi denominare filosofia
trascendente, o filosofia prima. La citazione dai Frammenti filosofici serve in
realtà a Cusani pergiungere alla fondamentale affermazione secondo cui,
esaurita nel secolo precedente la filosofia elementare, e necessario che si
cominciasse asentire il bisogno di nuovi problemi, e che l'ontologia
ricomparisse nel dominio della speculazione filosofica. Insomma la disamina del
fatto immanente elementare (il segno) deve servire a rintracciarne la natura,
le origini, le relazioni, che è il vero fine supremo della filosofia prima. Ma
questo è possibile (e l'eclettismo di Cusani si dimostra non mero sincretismo,
ma sapiente innesto di elementi concorrenti a rafforzare le personali ipotesi
speculative) soprattutto all’italiano, chi può vantare una tradizione
filosofica ininterrotta che ha in Vico il suo vate supremo. Il bisogno
dell’ontologia ha ulteriori ragioni in Italia, dove la filosofia trova terreno
fecondo emotivo di continuità. Ed è la tradizione ontologica de’ filosofi
italiani, e il predominio costante della filosofia prima o trascendente in
Italia sulla elementare o immanente, non solo in tempi che era cagione
universale nel mondo della scienza, ma eziandio allorché fortemente altrove
ponevasi la base d'ogni filosofia ed all'apo genere a nostri e quell'indole
elementare, e molto studiavasi in essa. Di qui nacque quell'indole speculativa
che si è sempre accordata in genere al filosofo italiano, anche quando
discendevano alla pratica ed all'applicazione de’ principi. É di vero se si pon
mente alla Storia, e si consideri che dalla scuola italica di Crotone o da
Pittagora suo fondatore, passando per i filosofi di Velia (Senone), arrivando
fino all’apparizione di quella meraviglia del Vico, si troverà che la verità da
noi accennata apparisce luminosa e in tutta la sua pienezza. Dunque continuità
della tradizione, rivendicazione della propria originalità speculativa, e
soprattutto applicazione esemplare del metodo storico come proprio della storia
della filosofia. Già affrontando il problema della fenomenologia semiotica,
Cusani non manca di annotare, con una affermazione che resta sostanzialmente
immutata nella sua produzione, a riprova del vichismo naturale della sua
ispirazione, che l’italiano è cosí fortemente incluso intutta la morale che ne
forma il subbietto perenne, e non si può farne astrazione senza far crollare
tutto l'edificato da quelle. Del resto nel saggio Del reale obbietto d'ogni
filosofia, posto sotto il segno di Vico – la cui “De constantia Philosophiae”
fornisce l’epigrafe, Cusani ha chiarito che la umana intelligenza, di cui si
ricerca e scopre una storia naturale, una volta esaurita l’investigazione della
natura, ripiega progressivamente verso il subbietto stesso di quelle
investigazioni, e rientrando dall'esterno nell'interno, fa se stessa obbietto
della sua conoscenza. La morale nasconode questo percorso, allorché il filosofo
ritorna sopra se stesso dopo indagare il mondo esterno. La svolta hegeliana può
a questo punto arrivare, ma a sua volta innestandosi su questa ricerca di una
legge onde si regge il mondo. Il dilemma su un oggetto immutabile della
conoscenza, e della mutabilità al tempo stesso del fatto che il pensiero
trascendente va indagando, diventatra la questione centrale. Spesso Cusani
torna nella sua opera, che riesce difficile in questa sede indagare in
dettaglio, sulle permanenze della storia italiana e sulle variazioni. Nel
Saggio analitico sul diritto e sulla scienza ed istruzione politico-legale
d’Albini, significativamente impostato il tema, e sempre ricorrendo a Vico. In
Italia fu primo tra tutti Vico che intende ala ricerca d'un principio
universale ed immutabile del diritto e che questo ponesse nella ragione, unica
fonte dell'assoluta giustizia, distinguendo esattamente il diritto universale,
o filosofico, dal diritto storico. Anzi, la debolezza della cultura filosofica
italiana può essere addebitata al mancato studio di Vico il cui esempio non
frutto gran bene, ch'io mi sappia all'Italia,non essendo le sue teorie
accettate da'suoi contemporanei, perché forse troppo superiori all'intelligenza
comune, fino al punto che l’italiano perde, com'a dire, la sua particolare
fisionomia, rivestendo un'indole forestiera – come i fanatici di Hegel con la
sua lingua foresteriera! -- Se non che questo che al presente diciamo fu molto
piú pronunciato in Beccaria e Verri non furono che perfettissimi seguitatori
dell'Helvelvinitius e del Rousseau, quanto all'ipotesi del Contratto sociale,
che in il vichismo dunque, se accolto, avrebbe garantito la continuità e
originalità della filosofia italiana. Infatti la cultura napoletana da in
questo senso testimonianza della continuità speculativa della filosofia proprio
attraverso la tradizione vichiana. Filangieri, ma soprattutto Pagano, ritennero
l'elemento tradizionale italiano, che li riannodava a tutta l'erudizione. Anche
quando nel Museo di letteratura e filosofia soprattutto, e la Rivista
napoletana, piú evidente si coglie la lettura di Hegel, Cusani testimonia la
persistenza sicura della lezione vichiana. Senza rotture, ma sviluppando le
tematiche e gli interessi, nel saggio Della lirica considerata nel suo
svolgimento storico, ove – come ha notato Oldrinisi incontra un esplicito
richiamo alle lezioni hegeliane di filosofia della storia, Cusani riprende con
vigore la questione fondamentale. Ora poiché l'uomo è il subbietto storico per
eccellenza a volere istabilire lal egge che governa tutte le accidentalità
variabili delle vicende umane, la filosofia non puo che cercarla nelle
modificazioni della stessa umanita. Questo punto di partenza, che il Vico, per
il primo, prescrisse alla filosofia della storia, facendo che le sue ricerche
rientrassero nella coscienza psicologica dell’italiano, e si cercasse di
spiegar questo per mezzo della sua propria natura, ma eziandio tutti i fatti di
cui egli è causa, ingenera tanto vantaggio, che da un lato tolse la specie
umana dall'esser considerata come mezzo da servire ad altri fini, e dall'altro
la rialza sopra la natura, di cui vuole sene fare prodotto o artificio. In che
misura l'hegelismo, rintracciabile nella preoccupazione di garantire l'unità
del sistema attraverso l'unità della filosofia, deve tener con toda un lato
della matrice vichiana del pensiero di Cusani e dall'altro dello sforzo di
costruire l'edificio eclettico della filosofia in modo originale? Andrebbe qui
indagato, con cura e minuziosità che questa sede non consente, il tema del
senso comune in piú luoghi richiamato da Cusani. Sipensi al saggio apparso sul
« Museo », Idea d'una storia compendiata della filosofia, proprio dove il tema
della filosofia assume intonazioni sicuramente hegeliane. Purtuttavia, sebbene
l'uomo sia conscio nell'intimo della sua coscienza della sua libertà, e
riconosca in sé stesso il potere di cominciare una serie di atti, di cui egli è
causa; ciò nondimeno non può non iscorgere eziandio, che la sua volontà è posta
sotto il dominio e la soggezione d'una legge, che diversamente vien denominata
secondo che diverse sono le occasioni, alle quali essa si applica,
contrassegnandosi ora come legge morale, ora come ragione, ed ora comesenso
comune. L'indipendenza speculativa che Cusani manifesta nel rimeditare tutti i
contributi all'interno della sua riflessione è evidente, e su questo tema
operante nei confronti dello stesso Vico. Esaminando la questione del fatalism
e della libertà (giustamente si ricorda come sia questa la questione piú
importante che si possa scontrare nella filosofia della storia, dai primi agli
ultimi scritti presente inche di sua volone causar in Cusani), nell'Idea d'una
storia compendiata della filosofia, Cusani ha qualcosa da rimproverare a Vico
stesso, da altri peraltro erroneamente collocate tra gli storici fatalisti --
cosí Livio si distingue da Machiavello e da Vico; e sebbene Livio da maggiore
influenza alla parte passiva e fatale dell’italiano nella storia; ciò nondimeno
non si è data che ai secondi, a cominciar da Machiavello, la nota del storico
fatalista. Se è vero infatti che Vico cerca nell'italiano il principio e la
legge dello svolgimento dell'umanità, egli ebbe però il torto di essere
esclusivo, in quanto non ha riconosciuto l'influenza della natura italiana
sull'italiano. Si annota come a Cusani fin dai primi studi si affacci il
dilemma tra pensiero come condizione e pensiero come condizionato: se una legge
governa lo svolgimento dell'intelligenza, la storia è da intendersi
fatalisticamente costretta entro i termini di una legge fissa del pensiero? Del
resto in un saggio nel Progresso (e non compresa nei due volumi degli Scritti,
forse perché firmata — come del resto altre note raccolte da Ottonello — con la
sola sigla S. C.), Elementi di Fisica sperimentale e di meteorologia di M.
Pouillet, Cusani ritorna sul metodo delle scienze e sulla accostabilità tra
scienze morali e scienze fisiche. Dappoiché la scienza della natura e
sottoposta nella sua ricerca a metodi certi e sicuri, e l'umana intelligenza
punto da quelli non dipartendosi, seguitò attesamente le sue investigazioni, i
progressi rapidi e continuati succedettero ai lenti e quasi invisibili
dell'antichità. Il successo di queste scienze — come di ogni scienza — è nel
metodo, cosi che da meglio che tre secoli lo spirito umano procede, in questa
special branca delle sue conoscenze con tanta fidanza, e direi quasi, contanta
certezza de' suoi risultamenti, che nissun'altra scienza per avventurapuò con
questa venire al paragone. Si badi, le scienze fisiche non costituiscono altro
che una special branca delle conoscenze dello spirito umano. Dunque occorre
applicare anche alle altre branche metodi certie sicuri, come è possibile dal
momento che la storia universale dell'Umanità, che pone la Storia al centro
dell'investigazione, racchiude,com'a dire, in un corpo tutto lo svolgimento
intellettivo della spezie. Ecco perché nel saggio Della lirica, a proposito
della legge della evoluzione ideale dell'umanità nel progresso storico, Cusani
nota che questo è di proprio particolar dominio di quella scienza, che sorta
gigante in Italia per opera di quella maraviglia del Vico, costituisce ora il
centro intorno a cui si svolgono tutti gli sforzi del secolo. Simili le
espressioni usate nella recensione agli Elementi di Fisica sperimentale,
allorché della storia universale dell'Umanità nota che forma a questi nostri tempi
il punto di mezzo, intorno di cui si volge e gravita tutto il processo del
lavori del secolo. Il ricco saggio “Idea d'una storia compendiata della
filosofia” è a questo punto da considerare fondamentale. La connessione che la
storia ci rivelatra libertà e necessità, ci consente di rintracciare la legge
necessaria del progresso storico. Noi sappiamo che la filosofia del popolo
italiano non è altra cosa se non lo spirito del popolo italianom non già
come si manifesta nella sua religione
spontanea, nelle sue arti, nella sua costi-in se stesso aveva, artea, un
concertelli avvenimee metafisica. cipale delle sourcetuzione politica, nelle
sue leggi e costumi, ma come si rivela nell'esilio inviolabile del pensiero
puro, che riferma il piú alto grado al quale possada sé stesso elevarsi. Cusani
ha, a tal proposito, filosofato nel saggio “Della poesia drammatica” un
concetto che poi si ritrova in seguito. Egliè il vero che sotto la varietà
degli avvenimenti del fatto e della vita stessa della società italiana è nascosa
la legge suprema e metafisica che li governa,e che il filosofo tenta di
scoprire, e ne fa l'obbietto principale delle sue ricerche, ma all’italiano,
ch'é, come dice quell'altissimo ingegno di Vico, il senso della nazione
italiana e dato tutto al piú di sentirla, ma non deve essere suo scopo di
manifestarla, dove all'ispirazione vichiana pare già si aggiunga, insinuandosi,
una suggestione hegeliana. Nello saggio Della lirica, Cusani ribadisce
l'argomento. Se la filosofia non deve fat suo scopo, come altrove dicemmo,
parlando della poesia drammatica, la rivelazione di essa legge secondo la quale
l'umanità si svolge nello spazio e nel tempo, puf tuttavia non potrà certo
cansarla nella sua manifestazione storica, cioè nel suo progresso attraverso
delle nazio ultima recension Felice Roman son sottoposti alla legge storica in
generale, la quale le impronta quasi una seconda indole, ed è questa poi, che
fa che i filosofi sieno, come diceVico, il senso della nazione italiana.
Sorprendentemente, nell'ultima recensione pubblicata sulla « Rivista napolitana
», Liriche del Cav. Felice Romani, quasi ad emblematica chiusura, Cusani
ripete. Vico innanzi tuttia veva formolata questa solenne verità, proclamando
che il filosofo e ilblematica sblata
questa sojeni filosofi ne sinnestare Hegedea d'uneinnanzi Qui l'eclettismo
cusaniano ha voluto innestare Hegel sulla tradizione italiana custodita e
proclamata, specie allorché, nella idea d'una storia, riprende il tema di una
ragione fondamentale, di una idea filosofica fondante le manifestazioni della
vita umana, per cui la religione e soprattutto la filosofia già ricordata sono
riconducibili ad una legge razionale. Un'altra citazione, non giustificata in
questa sede, si rende necessaria per la sintesi che riesce a conseguire, in
specie sul tema del senso comune. Allorché il movimento filosofico o riflessivo
passa dalla fede alla scienza,e dalle credenze popolari alle idee della
ragione, e si trova d'essere giunto a scoprire il pensiero celato dapprima
sotto FORMA SIMBOLICA, e che si traduce nell’istituzione, nella costume, nella
filosofia e e nelle industria, egli fatto quasi banditore della verità
scoperta, l'annunzia per farla conoscere alle masse, le quali non avrebbero
potuto pervenire sino a quel segno che tardi e lentamente. È in questo senso
che il filosofo accelera il movimento delle masse, e da qui nasce ancora che
egli stesso e indugiato nel movimento che è loro proprio. Dappoiché se le masse
accettano la nuova luce che loro arreca il filosofo, sono d'altra parte lente e
ritenute nell'abbandonare le vecchie opinioni, che il tempo ha rese abituali, e
bisogna innanzitutto che esse comprendano ciò che loro viene rivelato, e lo
comprendanoa loro modo, cioè facendo che discenda in certa guisa dalle forme
astratte della scienza alle forme pratiche del senso comune. Dunque il filosofo
comprende e spiega nient'altro che ciò che l’intelligenza spontanea dei popoli
crede istintivamente, e pertanto, lafilosofia non è che la spiegazione del
senso comune. Possiamo a questo punto scoprire l'errore di chi ha collocato
Vico e Machiavelli tra un storico fatalista como Livio, dappoiché, se a
tuttaprima poteva parere, che l’italiano appo costoro fosse schiavo
dell’istituzione, in quanto che queste venivano considerate come cose non
procedenti dall’italiano stesso, pure, allorché si vide che l’istituzione none
che la manifestazione esterna, il segno, e la realizzazione delle idee del
popolo italiano, libertà umana nella creazione degli avvenimenti del mondo.
Come si risolve pertanto il problema della libertà? Si pone inquesti termini
l'interrogativo. La ragione è dunque il fondamento della libertà; ma ragione e
libertà sono da intendersi esclusivamente riferitisare appunto che il problema
della libertà investa soltanto l'azione soggettiva (non intersoggetiva o
collettiva) che ha per teatro la storia. In realtà però, proprio per l'ampia
visuale che egli propone della storia globalmente intesa, la libertà non è solo
quella dell'individuo o soggetto italiano che si affranca dai condizionamenti
dell'istinti -- vità, ma anche quella che costituisce la linea intelligibile di
tutto lohere nelle pella sciente quella con il. La soluzione che si può
intravedere in Cusani, concorde ed omogenea allo sviluppo della questione della
scienza e del metodo nell'intera,
intensa elaborazione culturale di Cusani è forse quella contenuta nella Idea
d'una storia. Resta certo il rammarico del mancato approfondimento delle tante
tematiche che a questa risposta devono riferirsi, in particolare sulla politica
e sulla estetica. Ma la sintesi che Cusani propone rimane oltremodo
significativa. L'ordine adunque degli avvenimenti, la provvidenza, o legge
dell'intelligenza umana, è quella legge che Iddio stesso ha imposta al mondo morale, e che non
differisce dalle leggi della natura, se non per questo, cioè che la legge
imposta al mondo morale non distrugge punto la libertà individuale, essendo ché
è permezzo della libertà che si compiono i destini della intelligenza,
laddovele legge della natura e compita senza il concorso della libera volontà.
SCIENZA MORALE E FILOSOFIA CIVILE. “Quando gia la stagione eclettica
andava verso il tramonto”. 1. Cusani si volgeva al metodo storico per tracciare
la via sicura che consentisse, come scrisse nel 1842, all’idea filosofica di
“elevarsi al grado di scienza che si dimostri per se stessa” 2. Giacche se
evero che “la decomposizione (...), o l’analisi psicologica del fatto primitivo
della coscienza e la condizione necessaria d’ogni riflessione, che ritorna sul
proprio pensiero; il che e dire ch’e la condizione necessaria d’ogni
filosofia”, ancor piu essenziale e comprendere che “se l’osservazione minuta, e
l’analisi profonda di tutte le singole parti di quella sintesi primitiva della
coscienza e il punto donde bisogna muovere, perche si possa riuscire a bene
nelle speculazioni filosofiche, essa non e certo al termine; perocche dopo aver
esattamente analizzato tutte quelle parti, ed osservatele da tutti i lati, egli
e mestiere procedere alla cognizione de’ riferimenti che l’une hanno colle
altre, perche si possa risalire a quella ricomposizione del tutto primitivo,
che e lo scopo ultimo della filosofia” 3. E questo il contributo essenziale che
la storia fornisce e senza il quale ogni itinerario verso la conoscenza e
condannato a restare monco, e la scienza filosofica e destinata ar estare
preclusa. Infatti 1. F. Tessitore, Da Cuoco a De Sanctis. Studi sulla filosofia
napoletana nel primo Ottocento, Napoli, 1988, p. 58. 2 Della scienza
assoluta (Discorso I), in “Museo di letteratura e filosofia”, a. II, n. 8, vol.
IV, 1842, p. 116. Al Discorso I non seguirono altre parti. 3. Del metodo
filosofico ed'una sua storia infino agli ultimi sistemi di filosofia che sonosi
veduti uscir fuori in Germania ed in Francia, in “Progresso”,
XXII, 1839, p. 178. Sul pensiero filosofico del
Cusani cfr. G. G, Storia della
filosofia italiana , Firenze, 1969, vol. II, pp.
557-563; S. Mastellone, Victor Cousin e il Risorgimento italiano,
Firenze, 1955, pp. 194-210; S. Landucci, Cultura e ideologia
in Francesco De Sanctis , Milano, Oldrini,
Gli hegeliani di Napoli, Milano, 1964, pp.32ss; ID., Il primo hegelismo
italiano, Firenze, (della Introduzione) e pp.125-127; F. Ottonello,
Introduzione a S. Cusani, Scritti, Genova; F. Tessitore, Op. cit., pp. 64-65.2
“ne e a dire che la psicologia potrebbe far da se, e proseguire il suo lavoro
senza punto brigarsi della storia; perciocche oltre i danni che potrebbero
scaturirne eche noi piu sopra dicemmo, si eviterebbero i vantaggi che a lei
verrebbero dalla storia, sarebbero infiniti” Proprio in relazione a questa fase
del pensiero del giovane napoletano, Giovanni Gentile annota che “pel C.,l’osservazione
psicologica diventa la riflessione che rifa la storia dello spirito, una
fenomenologia; el’osservazione storica non e piu l’integrazione della
psicologia, bensi la costruzione stessa della
filosofia”L’eclettismo non poteva piu, a questo punto,
rispondere all’orizzonte intravisto, cosicche “il C., staccatosi
dall’eclettismo si diede allo studio della filosofia hegeiiana”. Del metodo
filosofico e d'una sua storia, cit., p.183. Poche righe piu sopra Cusani
aveva annotato che “dare una ripruova e un confronto all’osservazione
psicologica, che sia capace di ritrarla dall’errore, allorche per manco
d’esperimento essa cada nell’incompleto, sarebbe per avventura il regalo piu
sicuro, e una norma certissima del metodo per ben filosofare. E questa ripruova
adunque che ci viene insegnata dal metodo storico, la cui importanza non e
certo minore dell’altro, e l’esito altrettanto giusto e sicuro. Certo che
dall’aver dimenticala Storia ne son proceduti
due ordini di mali: il primo, perche si e rotta
quella legge di continuita nel progresso de’ lavori dell’intelligenza, e si e
terminato donde si sarebbe dovuto cominciare; l’altro perche lo Spirito Umano
non si e potuto correggere delle sue deviazioni nello svolgimento intellettivo,
mancandogli la cognizione de’ suoi passati travisamenti. Nella storia adunque e
tutta quanta la filosofia, e riconoscerla nella storia econdizione non
evitabile d’ogni filosofia” (pp. 182-183). 5 G. Gentile, Op. cit., vol.I,
p.639. Lo sforzo di costruire “l’edificio eclettico della scienza” e condotto
da Cusani negli scritti pubblicati tra il 1839 ed il 1840. In particolare,
oltre che nel citato Del metodo filosofico (pp. 176-215), nei saggi Del reale
obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere, in
“Progresso”, XXIII, 1839, pp.27-60; Della scienza fenomenologica e
dello studio dei fatti di coscienza, in
“Progresso”, XXIV, 1839, pp. 28-83 (I), e XXV, 1840, pp.16-37(II) e
187-247 (III); D'un'obbiezione dell'Hamilton intorno alla filosofia
dell’Assoluto, in “Progresso”, XXVI, 1840, pp. 5-31; Della logica
trascendentale, in “Progresso”, XXVI, 1840, pp. 161-187. 6 S. Mastellone, Op.
cit., p. 210. Sulla cosiddetta “svolta hegeiiana”, oltre alle valutazioni degli
autori le cui opere sono state in precedenza indicate (nella nota 2), cfr.
ancora S. Mastellone, Op. cit., p. 202: “Cusani, che pure era stato un
divulgatore di Cousin, in un articolo apparso nella Rivista napolitana (1841)
dal titolo Del modo da trattare la scienza degli esseri (ontologia), disegno di
una metafisica, alludendo ai rapporti tra l’eclettismo francese e l’ontologismo
tedesco, ossia allapolemica tra Cousin e Schelling, poneva alcune limitazioni
al suo eclettismo (...) Si prepara quel fermento spirituale che prendera forma
coll’hegelismo, il quale, se trasse la prima radice dal pensieroco usiniano, si
rivolgera poi contro di questo”. Infine mi permetto di rinviare a G. Acocella,
Vico e la storia in Cusani, in “Bollettino del Centro di studi
vichiani”, XI, 1981, pp. 214-221, in specie pp. 217-218. Gia
nel 1839, in pieno periodo “eclettico”, Cusani aveva sottolineato il
ruoio unificante della filosofia, e aveva concluso che “la storia della
filosofia, la quale disegna come in una tela tutto lo svolgimento progressivo
dello Spirito Umano, non e che la manifestazione di quel potentissimo bisogno
che ha Cuomo di conoscere e di sapere” 7. In questa direzione, dopo che lo
Spirito Umano ha rivolto il primo scopo della sua investigazione nel “mondo
degli obbietti”, ed una volta esaurita la “investigazione della natura lo
Spirito “si viene gradatamente ripiegando inverso il subbietto stesso di quelle
investigazioni, erientrando dall’esterno nell’interno, fa se stesso obbietto
della sua conoscenza”. E cost “di qui nascono, come da una comune radice, tutte
le scienze morali” 8. La conclusione “eclettica” di Cusani si arricchisce di motivi
che preparano l’accoglimento della lezione hegeliana, la quale di sicuro
influenzera gli scritti successivi al 1840, senza liquidare gli altri elementi
che costituiscono l’originalita del filosofo. L’immenso bisogno di conoscere
che tormenta e percorre la “storia naturale dell’intelligenza” anela alla
ricomposizione unitaria che costituisce la scienza: “Questi tre grandi obbietti
adunque, Dio, l’Universo e l’Umanita; l’assoluto, il non me, e il me, che
racchiudono tutto il campo delle speculazioni, costituiscono l’obietto di tutta
la scienza umana. (...) E si potrebbe da’ tentativi diversi, e da’ diversi
risultamenti ottenuti intorno a questo problema, cercar di fare un ordinamento
compiuto di tutte le scuole filosofiche che dall’antichita insino a’ giorni
nostri sonosi succedute nella Storia dello svolgimento naturale
dell’intelligenza” 9. Rispetto a questo proponimento la lettura di Hegel - del
quale pur si doveva denunciare che fosse partito “da cid che ci ha di piu
astratto nella ragione, e di piu indeterminato, cioe dal
pensiero dispogliato di tutte le cose, e ridotto a pensiero puro, a idea” -
offriva contributi rispetto ai quali Cusani gia dichiarava il suo esplicito
interesse: “Ponendo come base del suo edificio filosofico l’identita
dell’idea e dell’essere, del pensiero e della realta, del subbiettivo e
dell’obbiettivo (...) ne procede che cid che evero del pensiero, evero
eziandio della realta, e che le leggi della logica sono le leggi
ontologiche, ed essa stessa si converte in una vera ontologia” 10. 7. Del
reale obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere,
cit., p. 27. 8. Ibidem, pp. 28-29. “Giunto a quest’altezza, lo Spirito Umano
tenta d’impadronirsi quasi dell’infinito, cacciarsi nel seno stesso di
Dio, e discoprire nella loro sorgente le leggi onde si regge il mondo”
(p. 29). 9. Ibidem, p. 30. 10. Del metodo filosofico, cit., pp. 210-211. In
queste pagine Cusani fornisce una 4 II principio di una idea filosofica capace
di fondare le manifestazioni della vita umana, dunque una ragione “non
dispogliata delle cose”, diviene per Cusani l’efficace punto di equilibrio del
suo itinerario tra eclettismo ed hegelismo, in grado di assicurare gli
orientamenti etici di ciascuna eta della storia. Nel 1841 Cusani, nel saggio
sulle relazioni tra economia e morale, scrive significativamente che “Ora non
ci ha e non puo esserci scienza morale senza un principio assoluto e
necessario, perche l’assoluto e il necessario e lo scopo ultimo e il termine
degli sforzi del pensiero, e1’ideale della scienza” 51. Nella stessa
prospettiva spiegava, in un corposo saggio pubblicato l’anno successive 12, il
valore filosofico che assumeva la ricerca dei fondamenti etici della societa,
asserendo che “di fatto non si puo concepire una societa che non abbia un
pensro generale, cioe a dire un insieme d’idee acquistate senza ricercare senza
scopo, e che informino tutta la sua vita; perciocche bisognerebbe allora
supporre che possa esserci una societa senza religione, senza istituzioni
politiche, senza costumi e senza industria, non essendo altra cosa le
istituzioni, la religione naturale, l’industria e i costumi, che effetti
naturali delle idee e delle credenze comuni” 53. La filosofia di un popolo,
pertanto, e il pensiero di quello stesso popolo, non nelle semplici forme nelle
quali si manifesta nella religione o nelle istituzioni o nelle stesse arti, o
nel diritto e nei costumi, ma con quei caratteri interpretazione della
filosofia tedesca, in sintonia con il tentativo di rintracciare l’unita del
pensiero perseguita dall’eclettismo. E un’ interpretazione che,
nata in terra di Francia, trovo piu generosa fortuna nell’hegelismo napoletano
da B. Spaventa in avanti. Ecco la pagina del Cusani: “Dappoicche la filosofia
del Fichte, che non era che la filosofia stessa del Kant, risguardata dal punto
di vista subbiettivo, e quella dello Schelling, che nelle sue conseguenze non
fu che il criticismo risguardato dal punto di vista obbiettivo, doveano essere
entrambe porzioni di quel medesimo tutto, che Hegel abbraccio nella sua
filosofia dell’idealismo assoluto. Egli parti dalla ragione, e dal pensiero, ma
da cio che ci ha di piu astratto nella ragione, e di piu
indeterminato, cioe dal pensiero dispogliato di tutte le cose, e ridotto a
pensiero puro, a idea” (p. 210). 11. Dell'economia politica considerata
nel suo principio, e nelle sue relazioni colle scienze morale in “Museo di
letteratura e filosofia”, a.I, n.1, vol. I, settembre
1841, p. 54. Cfr. G. Oldrini, ll primo
hegelismo italiano, cit., pp. 48-49. In nota scrive l’Oldrini che
“il saggio parafrasa e riadatta, per molta parte, concetti delle lezioni
sull’economia smithiana di Victor Cousin” (p.48n.). 12. Idea d’una storia
compendiata della filosofia, in “Museo di letteratura e filosofia”, a, I, n. 2,
vol.I, novembre 1841, pp.113-135 (parti I-II); a I, n. 3, vol. II, gennaio-
febbraio 1842, pp.3-8 (III); a. I. n. 4, vol. II, marzo-aprile 1842, pp. 97-120
(IV, V.VI). 13 Ibidem, p. 119. “lo svolgimento adunque spontaneo e istintivo; e
l’altro filosofico riflesso, che entrambi non si effettuano che sotto le leggi
del pensiero umano, costituiscono il meccanismo, se possiamo cost dire, della
vita sociale dei popoli” (p.121). general del pensiero che di quelle forme
costituiscono la fonte; eppure il “progresso” e reso possibile solo
dall’incontro tra due diverse componenti “Allorche il movimento filosofico o
riflessivo passa dalla fede alla scienza, ed alle credenze popolari alle idee
della ragione, e si trova d’essere giunto a scoprire il pensiero celato
dapprima sotto FORMA SIMBOLICA, e che si traduceva nelle Istituzioni, nei
costumi, nelle Arti e nelle Industrie, egli fatto quasi banditore della verita
scoperta, l’annunzia per farla conoscere alle masse, le quali non avrebbero
potuto pervenire a quel segno che tardi e lentamente” 14. Il debito nei
confronti di Vico appare evidente, tanto piu che - indirizzandosi l’interesse
di Cusani verso le esperienze umane del diritto e dell’economia - le influenze
hegeliane si rivelano in realta filtrate dalla tradizione della filosofia
meridionale, da Vico a Filangieri a Pagano 15. La filosofia e la scienza
compongono insieme la trama che segna l'itinerario travagliato e non lineare
della storia verso il “vero”: “i filosofi accelerano il movimento delle masse,
ed a qui nasce ancora che essi stessi sono indugiati nel movimento che e loro
proprio. Dappoicche se le masse accettano la nuova luce che loro arrecano i
filosofi, sono d’altra parte lente e ritenute nell’abbandonare le vecchie
opinioni, che il tempo ha reso abituali, e bisogna innanzi tutto che esse
comprendano cio che loro vien rivelato, e lo comprendano a loro modo, cioe
facendo che discenda in certa guisa dalle forme astratte della scienza, alle
forme pratiche del senso comune” 16. Il tema del senso comune - cosi
tipicamente vichiano e tanto frequentemente richiamato in piu punti dell’opera
cusaniana - costituisce un elemento fondamentale dell’itinerario che il
filosofo napoletano svolge, rivelandosi capace di svelare la trama della
ragione nella storia. Cosi come nella vita sociale le “branche dell’attivita
umana” precedono la filosofia e la storia [14 Ibidem, p. 121. 15 Cfr. G.
Acocella, Op. cit., pp.216 e 217-218. 16 Idea d’una storia compendiata, cit.,
pp. 121-122. “Insomma non eche dalla combinazione di questi due movimenti che
progrediscono le idee umane, edal progresso delle idee umane nasce la
trasformazione e il miglioramento successivo delle leggi, dei
costumi e delle istituzioni, che sono altrettanti elementi costitutivi
della condizione umana”. Sul senso comune cfr. p. 128: “Purtuttavia, sebbene
1’uomo sia conscio nell’intimo della sua coscienza della sua liberta, e
riconosca in se stesso il potere di cominciare una serie di atti, di cui egli e
causa; cio nondimeno non puo non iscorgere eziandio, che la sua volonta e posta
sotto il dominio ela soggezione d’una legge, che diversamente vien denominata
secondo che diverse sono le occasioni, alle quali essa si applica,
contrasse-gnandosi ora come legge morale, ora come ragione, ed ora come senso
comune”] ria di quelle precede la storia di questa 17, cosi “l’istoria non si
realizza che dopo un lungo proceder della scienza; perocche se prima non si
sono osser-vate molte variabilita successive, non si sente il bisogno di una
storia qualunque; ma quando non si vuol considerar altro che l’essenza stessa,
ola materia di che componesi la storia della filosofia, si puo dire che essa
comincia colla scienza” 18. Cosl per esempio, rivolgendosi l’attenzione alle
esperienze umane piu rilevanti, per quel che riguarda l’economia politica
occorre indagare le leggi oggettive dell’agire economico, giacche le azioni
umane - pur tenendo conto della liberta che le generavanno ricondotte
sempre alia ragione (o si voglia dire legge morale o senso comune). Massimamente
con l’economiala questione centrale di come si compongano liberta dell’agire
individuate e conseguimento di leggi oggettive dell’economia si pone come un
nodo centrale della scienza morale, nel quale e coinvolto lo stesso tema della
relazione tra natura e ragione. Infatti, “primieramente, e noto che il
combattimento, che l’uomo, forza libera e intelligente, sostiene contro la
natura per dominarla e trasformarla ai suoi bisogni, costituisce un ordine
distinto di fenomeni e d’idee, che rientrano nel dominio dell’Economia
politica”, la quale deve pur pervenire a individuare “leggi necessarie, che
stanno a capo della produzione, consumazione e distribuzione
delle ricchezze” 19. L’interesse mostrato da Cusani verso Adamo
Smith e motivate proprio dal legame tra la liberta umana -che si esplica
nel lavoro -e le leggi necessarie dell’economia, giacche il fondamento del
valore Smith ha posto nel lavoro 20. Ma sbaglierebbe chi si fermasse al lavoro,
perche “quantunque il 17 Cfr. Ibidem, pp. 124-125: “Perciocche aquella stessa
guisa che nella vita sociale dei popoli lo stato, le industrie, le arti e la
religione precedono la filosofia, eziandio la storia di tutte queste branche
dell’attivita umana precede quella della filosofia, ultima per avventura a
prender corpo nello svolgimento intellettuale dell’uomo”. 18 Ibidem,p.
124. 19 Dell’economia politica,cit., p. 41. 20. Mentre Quesnay, con la
sua scuola, “tenne che i prodotti del suolo fossero la sola fonte, e il vero
principio del valore”, invece “Adamo Smith elevo il principio del valore,
partendo da questo, che cio& il lavoro d’una nazione costituisce la
sorgente di tutte lc sue ricchezze”, e quindi che “i bisogni dell’uomo non sono
considerati dallo Smith che subordinatamente al lavoro; il che e molto piu
ragionevole che subordinare il lavoro ai bisogni, come eintervenuto al Say e al
Tracy, i quali cio non di meno hanno comune con esso lo stesso principio del
lavoro” (Ibidem, pp. 42 e 43). Nell’esaminare la formazione dela scienza
economica Cusani riafferma il principio della tradizione italiana (come per la
scienza della legislazione ricorda in particolare Filangieri, Pagano e
Romagnosi) asserendo: “L’Economia politica nata adunque in Italia, lavoro
nel suo lento o accelerato esercizio sia quello che ingeneri la ricchezza delle
nazioni, e misuri in un certo modo, esi no a un certo segno, il valore delle
cose in ragione delle difficolta e degli ostacoli che incontra nella sua
effettuazione; purtuttavia esso non deve essere considerato, che come l’effetto
della liberta umana, ultimo principio a cui devesi ricondurre la scienza” 21.
Attraverso questo principio Cusani ricostruisce il percorso che dalla liberta,
attraverso la proprieta, giunge alla formulazione di una scienza morale la
quale, proprio perche scienza, e la “cognizione dell’assoluto invariabile,
ultima ragione delle cose” 22. Se infatti l’osservazione si conferma
indispensabile alla “investigazione scientifica, pure resta essenziale ribadire
la ricerca di un principio morale assoluto perche si possa dare scienza in
questo ambito. Le considerazioni che Cusani - partendo dall’apprezzamento del
principio secondo il quale “senza un’obbligazione assoluta non era ammessa la
possibilita d’una scienza morale” e quindi dell’imperativo categorico 23 -
riferisce all’opera di Kant, mettono a fuoco appunto il significato della
liberta per la ragione, ed i criteri per la individuazione del
principio morale assoluto: “Egli e percio, che rifermossi che il fatto della
liberta, che 1’osservazione ci rivela nel fondo della coscienza come distinto
dalla fatalita delle nostre passioni e delle nostre SENSAZION, e che eguaglia
in certez- massime per opera del Serra, non si svolse dappoi che in Francia
nella celebrata setta degli Economisti, dai quali attinse gran parte delle sue
idee lo Smith”(ivi, p. 41). Sull’interesse della cultura napoletana
per il ruolo svolto da Serra, considerato precursor dello Smith, mi permetto di
rinviare a G. Acocella, La storia degli scrittori politici italiani dopo la
“svolta” del 1830 a Napoli, in “Archivio di storia della cultura”, a. VIII,
1990, pp. 69ss. 21 Ibidem, p.45. “Togliete la liberta nell’uomo, e voi
avrete esaurito nella sua sorgente ogni lavoro possibile, essendone
essa sola la causa, e la causa vera, reale, e non immaginaria. Fare adunque
l’analisi della liberta, come produttiva del valore delle cose, sarebbe
veramente farla psicologia dell’Economia politica”(ivi, pp.
45-46). 22 Ibidem, p.54: Questa verita conosciuta dagli antichi, i quali
tenevano non potersi dare scienza del fenomenico variabile, perciocche il fatto
non e il principio ela ragione di se stesso, estata chiaramente riprodotta dai
moderni, quando hanno sostenuto che la scienza non eche la cognizione
dell’assoluto invariabile, ultima ragione delle cose. Pure, se il fatto non e
la scienza, ecertamente prima condizione e quasi materia della scienza, potendo
solo cadere sotto l’occhio dell’osservazione, e l’osservazione ela vita d’ogni
investigazione scientifica. Tutto cio essendo or amai stato messo fuor di
dubbio nel campo dell’intelligenza, ha fatto, si che nella scienza morale si e
cercato il principio morale assoluto, ed il fatto proprio che n’e la
condizione”. 23 Ibidem: “Primamente non potevasi non vedere che senza
un’obbligazione assoluta non era ammessa la possibilitad’una scienza morale, e
che senza la ragione, che sola puo comandare con un imperativo catagorico, non
poteva darsi obbligazione di sorta”. za tutti gli altri fatti, non
rimanendo punto una semplice credenza, come volevail Kant, dovesse esser solo
la condizione del principio morale, trasformato in legge dalla ragione” 24.
Poteva Cusani, in virtu di questa acquisizione, rintracciare finalmente nella
liberta gli orientamenti dell’agire morale e scoprire il principio morale della
stessa economia: “Di qui il principio: essere libero, conservati libero, cioe
resta fedele alla natura, ch’e la liberta; fu la sorgente d’ogni obbligazione e
d’ogni moralita; identificandosi colla massima degli stoici: sequere naturam.
Questo principio della morale generale stabilito, si vede apertamente che una
delle prime relazioni dell’economia colla morale, sta nell’identita del
principio stesso, o meglio, nel fatto della liberta; solo diversificando,
perche l’una lo stabilisce come trasformato dalla ragione in legge, e 1’altra
lo accetta come dato nelle applicazioni della vita”25. L’unita della
scienza, che il “fatto” della liberta - svelatosi principio unificante
dell’azione umana - realizza, e stata resa possibile dal superamento della
“direzione scettica” nella quale Cartesio getto la filosofia moderna,
rendendola incapace di fondare l’oggettivita, partendo dal soggetto 26, e
dunque la comprensione del mondo esterno. Ora, finalmente, la filosofia,
rivelatasi scienza, verifica che “lo Spirito umano e uno, identico a se stesso
in tutti i tempi, in tutti I luoghi, appo tutti gli uomini; puo
esservi varieta nelle sue determinazioni, ma l’essenza resta immutabile
attraverso di tutte queste apparenti mutazioni. La scienza non rappresenta che
l’essenza, ed e percio che l’idea filosofica, o lo spirito filosofico non e che
uno e sempre identico a se stesso” 27. Come per l’economia anche per il diritto
la liberta dell’individuo si afferma per Cusani quale principiocapace di
fondarel’agire morale, confermando l’unitarieta della scienza. Dedicando nel
1842 una lunga nota in tre parti, benche
incompiuta, all’opera di Manna, e dopo aver 24 Ibidem,
“Dappoiche non potendosi dalla sensazione trar niente che avesse forza
d’obbligazione, e vice versa la ragione scorgendo nel fatto della liberta una
superiorita di principio che procedeva dalla stessa
personality umana, potette scorgervi il
dovere asso-luto di mantenere la dignita
della persona sulla materia, e della liberta
sulla fatalita” (ivi). 25 Ibidem, p. 55. “Sicche, da questo
lato risguardata, l’Economia potrebbe esser considerata come una
derivazione della morale nelle sue piu minute conseguenze” (ivi).
26 Cfr. Della scienza assoluta (Discorso
I), cit., p. 112. 27 Ibidem , p. 116.
Sul punto cfr. G. Oldrini, Gli hegeliani di
Napoli, cit., pp.58-59. 28 Del diritto amministrativo del Regno
delle Due Sicilie. Saggio teoretico storico e positivo, in “Museo di
letteratura e filosofia”, a.I, n. 3, vol.II, gennaio-febbraio
1842, pp.38-45; a.I, n.4, vol.II, marzo-aprile 1842,
pp. 167-172; a. I, n. 5, vol. Ill, maggio- Scienzci 9 affrontato la
questione della individualita nella prima parte, dichiarando il proprio
interesse per le “partizioni teoriche del diritto amministrativo”, Cusani decisamente
ritorna sul problema della scienza avvertendo pero che “nissun problema che
tocchi la scienza sociale pud risolversi, senza aver prima risoluto l’altro
della destinazione dell’individuo, che li contiene e gl’implica, abbracciandoli
tutti nel suo seno” 29. Cosicche si puo considerare che “se la scienza divide
eperche questa e la sua condizione di esistenza, e perche l’umano intelletto ha
bisogno di successiva osservazione, e di notomia, direi quasi, della cosa che
vuol conoscere e sapere. Ma in sostanza ci ha unita fondamentale qui, come in
tutto, e la scienza umana non tende che continuamente verso questa unita, che
la sola ontologia pud promettersi” 30. II richiamo, costante in tutta la sua
opera, all’ontologia consente a Cusani di riaffermare il principio assoluto e
generale da cui discende coerentemente l’ordine morale che la scienza pud
infine conoscere. La visione unitaria perseguita - che, tanto nella fase
eclettica quanto in quella segnata dalla lettura di Hegel, pone in primo piano
la questione dei fini razionali della storia e dell’azione umana - rivela pero
con evidenza il debito comunque contratto nei confronti, oltre che di Herder,
soprattutto di Vico, rimeditato autonomamente ea contatto con le suggestioni
presenti nell’eclettismo napoletano 31. Recensendo nel 1843 la Storia della
filosofia di Pasquale Galluppi, Cusani chiarisce in apertura che “s’egli e vero
che la storia della filosofia, come noi abbiamo affermato in uno de’ fascicoli
precedenti non ese non l’idea stessa, e lo spirito dell’umanita, non quale si
rivela nelle sue isti- giugno 1842, pp. 33-37. L’ultima parte pubblicata
concludevac on le parole “sara continuato” (n.5, p.37). Non vi fu alcun
seguito. Gia concludendo la prima parte, pero, Cusani, avvertiva che “per fame
un’analisi compiuta” si era ripromesso “di venir discorrendo di ciascuna parte
in particolare, ma si perche l’opera non evenuta fuori ancor tutta per le
stampe, e si perche la parte positiva del diritto amministrativo non e in
relazione coi nostri studi, cosi ci terremo contend solo ad esaminar per ora la
sola quistione che risguarda la scienza della pubblica amministrazione,
riserbandoci di parlare della parte storica quando l’autore ne avra fatto dono
al pubblico” (n. 3, p. 45). Sul Manna e sulla sua opera cfr. F. Tessitore,
Della tradizione vichiana edello storicismo giuridico nell’Ottocento
napoletano,in Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il Sessanta,
Napoli, s. a. (1962), pp. 118 ss.; G. Rebuffa, L'opera di Giovanni Manna nella
formazione del diritto amministrativo italiano, in La formazione del
dirittoamministrativo in Italia, Bologna, 1981, pp. 33-71. 29 Del diritto
amministrativo, cit., n. 4, p. 168. 30 Ibidem, p. 169. 31 Cfr. F. Tessitore,
Momenti del vichismo giuridico-politico nella cultura meridionale, in
“Bollettino del Centro di studi vichiani”, a. VI, 1976, pp.101ss. Sul vichismo
del Manna cfr. pp. 99-100. tuzioni, nelle arti, nelle legislazioni, ma sibbene
nell’asiio inviolabile del pensiero puro, del pensiero in se; deve esser vero
eziandio che essa non e una raccolta vana di opinioni, nata per soddisfare la
curiosita di alcuni uomini, ma viceversa, secondo che diceva l'Herder, la
catena sacra della tradizione, che opera in massa, con leggi necessarie, e non
a caso ne isolatamente” 32. Si pud pertanto comprendere anche la radicale
nettezza con la quale nella nota sul Manna Cusani afferma che ‘l’ontologia
adunque e la scienza prima, che facendoci conoscere la determinata essenza
degli esseri, ci conduce a discernere il fine a cui essi sono destinati (che e
pure un problema ontologico) e che diventa problema morale se trattasi della
destinazione dell’uomo sopra la terra, problema religioso se trattasi di questa
stessa destinazione innanzi e dopo la vita terrena; problema di filosofia di
diritto, che abbraccia il diritto individual, il diritto pubblico, e il diritto
internazionale, se trattasi della giustizia reciproca che gl’individui, lo
Stato e le nazioni, debbono somministrarsi per raggiungere la loro
destinazione. Questa e l’unita della scienza, la quale non e che un pallido
riflesso dell’unita stessa della causa prima”33. Dove Vico e Herder servono al
disegno hegelia- [32. Recensione a P. Galluppi, Storia della filosofia,
Prefazione, in “Museo di letteratura e filosofia”, a. II. n. 9, vol.
IV, gennaio 1843, p.222. Su Herder e Vico cfr. Idea
d’una storia compendiata della filosofia, cit., pp. 134-135: “Ora questa legge
che governa lo svolgimento dell’umanita, e che costituisce la filosofia della
storia, non poteva che cercarsi successivamente in Dio, nell’uomo, enel
mondo, essendo questi i tre obbietti che si appalesano all’ntelligenza
(...) Di qui nasce che il Bossuet sia stato il primo filosofo della storia,
trovando nella Bibbia la soluzione del problema. A questi successe il Vico, che
cerco nell’uomo il principio e la legge dello svolgimento dell’umanita. E da
ultimo l’Herder che voile trovarlo nel mondo fisico, e nella combinazione
speciale d’influenze esterne. (...) Noi diciamo, che ognuno di essi e stato
esclusivo, in quanto che l’Herder non ha riconosciuta la parte che rappresenta
l’uomo nella evoluzione storica dell’umanita, ed il Vico, in quanto che non ha
riconosciuto l’nfluenza della natura esteriore; ed entrambi poi non
disconoscendo la parte che rappresentala Provvidenza, l’hanno subordinata
all’uomo e alla natura, mentre il Bossuet impadronendosi di questa, ha tutto
subordinate ad essa”. 33 Del dritto amministrativo, cit., p. 169. Sul
problema dello Stato cfr. p.170: “io non so concepire, come l’arte, la scienza,
la morale, e la religione debbano esser fine a loro stesse, e lo Stato debba
esser considerate come mezzo per la societa umana, quando il suo scopo non e
che uno scopo razionale, come quello che tocca in dominio alle altre sfere
dell’attivita sociale. Ne solo io dico che lo scopo e razionale ed ha gli
stessi caratteri di quelli che spettano alle altre sfere dell’attivita sociale,
ma che e identico con tutti nel fondo, e che se uno e il bene assoluto, o
l’ordine assoluto, che riferma lo scopo e la destinazione dell’uomo, non si pud
far dello stato un semplice mezzo ed una via per la conservazione dell’umanita
perfettibile”. no della scienza del’essere. Vale, pero, sottolineare
come, nel confronto con Galluppi, istituito nella nota sopra ricordata, il tema
del “vero” costituisca un interessante nodo che chiarisce il modo con il quale
Cusani interpreta Vico ed il problema della storicita dell’esperienza. Al
Galluppi che affermava che “la storia della filosofia non puo trattarsi
apriori, ma deve dedursi dall’osservazione dei fatti, perche altrimenti avremmo
dovuto trovar prima i problemi relativi alla scienza del pensiero, e poi quelii
relativi all’universo”, Cusani obietta “che la storia della filosofia e
identica colla scienza”, e pertanto “troveremo che il primo mezzo di
trattar la storia della filosofia e il metodo a priori, il quale non deve
ch’esser verificato dall’esperienza” 34. A Cusani, naturalmente, sono chiare le
novita apportate dalla modernita e le conseguenze che ne sono scaturite,
dal momento che la filosofia aveva nell’antichita la definizione di scienza
dell’universale, contrapposta a quella “ricevuta presso i moderni” della
filosofia come scienza del pensiero - per cui la “definizione degli antichi si
faceva per mezzo dell’ontologia, quella de’ moderni viceversa si fa per
mezzo della Psicologia” - ma resta pur sempre certo che in realta “l’ontologia
e la Psicologia non sonoche due determinazioni, o aspetti diversi dell’idea
filosofica, in quanto che l’una considera l’obbietto in se, e per se, l’altra
questo obbietto che divien subbietto” 35. La scienza morale che Cusani intende
definire, dunque, verifica nell’esperienza - nelle diverse “branche di
attivita” nelle quali si manifesta l’azione umana - il principio assoluto e
invariabile che da unita e senso alla scienza moderna. Cosi “l’Economia
politica non dovrebbe rappresentare che quella stessa parte, che rappresenta la
Politica, quanto alla filosofia del diritto. Perciocche laddove questa ci
rivela l’ideale a cui possono pervenire le societa umane, e la politica
determina le relazioni che passano tra l’attuale esistenza di esse, e l’ideale,
poggiando sopra queste relazioni i cangiamenti che possono patire le
istituzioni sociali; l’Economia, rispetto ai monopoli ed agli ostacoli che si
frappongono al libero esercizio del commercio, deve far ragione, prima di
effettuare il suo principio, di tutti gl’interessi attuali della societa dove
questi sistemi proibitivi sono introdotti” 36. D’altro canto la natura di
scienza morale dell’economia (come del diritto o della politica) risulta
evidente nella concezione cusaniana di una filosofia civile moderna:
“come il principio morale riferma la destinazione dell’uomo che precede sempre
dalla sua natura, e questa natura non essendo che [34. Recensione a R Galluppi,
cit., p. 230. 35. Ibidem, p.227. 36. Dell’economia politica, cit., p. 53.
doppia, coesistendo in lui lo spirito e la materia, l’anima e il corpo, la
liberta e la fatalita (sebbene la materia e il corpo non siano che l’inviluppo
esterno della natura umana, stando la sua essenza tutta nella personalita nella
liberta e nell’anima); ne seguita che l’Economia, anche ristretta nel senso di
coloro che non vogliono fame che una scienza del benessere corporate e
dell’agiatezza sociale, dovrebbe serbare alcuna relazione verso la morale” 37.
La difficile relazione tra il “fatto” ed il principio, cioe tra l’obiettivo
immediato dell’azione e lo scopo razionale che ne costituisce il fondamento, e
verificata da Cusani nello sviluppo del pensiero moderno. L’itinerario che
dalla fase delle “utilita” deve condurre a quella dei “fini” viene percorso
analizzando il contratto sociale in Kant e Rousseau 38, in riferimento al quale
Cusani puo criticamente concludere: “Ma l’obbligazione morale e giuridica non
puo mai procedere da un atto volontario, quale e quello che riferma il
contratto e il CONSENSO (con-senso) universale, perche nessuna cosa arbitraria
e volontaria puo costituire un diritto, ed una convenzione non e che la
semplice manifestazione della volonta mutabile degli uomini” 39. Colui che ha
colto piu precisamente - ad avviso di Cusani - il significato profondo del
rapporto tra il fatto ed il fondamento razionale dell’ordinamento estato, a
proposito della questione della proprietya fondamentale per l’ordine sociale,
Fichte: “Piu ragionevolmente adunque il Fichte, che fu il.
37. Ibidem,p. 55. “Ma e perche essa abbraccia tutto il problema della
destinazione dell’uomo nelle conseguenze, che serba per avventura assai piu
intime relazioni colla morale generale” (ivi). Scrive anzi Cusani (p. 56): “La
sola relazione che passa tra il lavoro destinato per il mantenimento della vita
fisica, e il riposo destinato per il compimento della vita morale, puo esser la
misura de’ differenti gradi della ricchezza nazionale, la quale aumenta in
proporzione che cresce il riposo per le occupazioni intellettuali. Insomma,
produrre nel minor tempo possibile cio ch’e necessario per la satisfazione de’
bisogni materiali della vita, e crescere in ricchezza e moralita” .38 Questo
fatto, che l’obbligazione sia inclusa nella proprieta fu ben vista da
Kant, il quale stabili, che sebbene la specificazione e il lavoro fossero gli
atti preparativi della proprieta cio non di meno perche questa fosse
riconosciuta e rispettata da tutti, bisognava una spezie di contratto
sociale, con che si desse la proprieta definitiva. Vero e che questa idea del
contratto sociale, considerato come base giuridica necessaria del diritto di
proprieta, non fu da lui risguardata quale base della societa stessa, come era
addivenuto appo parecchi pubblicisti, e specialmente appo il Rousseau, che
l’ebbero come un precedente storico; solo voile dire ch’era necessario,
accennando ad un fine razionale avvenire, per cio che egli significava col
titolo di proprieta o possesso intellettuale”. 39 Ibidem, p.50. seguitore del
Kant e il suo discepolo filosofico, voile rifermare, nel suo Manuale e nelle
sue Lezioni di Diritto naturale, la proprieta esser costituita sulla nozione
stessa di diritto. Conciossiache la sua teorica del diritto, procedente dal suo
sistema filosofico, nel quale stabilisce che l’attivita infinita dell’Io che si
svolge come per una retta, pone, nell’urto che incontra, il mondo degli oggetti
esterni, doveva contenere tutta la ragione filosofica della proprieta” 40. Nel
1839, in un’opera segnatamente influenzata dall’eclettismo del Cousin 41, aveva
gia sottolineato la rilevanza dell’osservazione del mondo storico per la
definizione del principio morale. Rispetto al sistema di Locke 42, infine, la
scuola scozzese del Reid aveva fatto compiere un decisivo passo avanti al
“metodo della psicologica osservazione”, consentendo infine di “osservar le
Societa” e di “distinguerne e sceverare la parte sostanziale dall’accidentale,
cio che ne costituisce l’esistenza, la vita, il principio, da cio che non e che
una semplice forma contingente e variabile, secondo la diversita de’ tempi e
de’ luoghi” 43. Ma la questione della legittimita, “trascurata Di fatto,
siccome la personalita umana e dotata, secondo lui, d’una liberta infinita,
cosi e che il diritto non ista che nella limitazione della liberta di ciascuno,
perche possa coesistere la liberta di tutti. Posto cio il diritto deve
garantire a ciascuno il dominio particolare nelquale deve svolgere la sua
liberta”. Nello stesso scritto Cusani torna sul Fichte riguardo alla
relazione tra lavoro e riposo e sul tema della moralita resa possibile dal
produrre nel minor tempo possibile cio che e necessario alla soddisfazione dei
bisogni umani: “Primo tra gli scrittori moderni che rifermasse questa verita semplice
per se stessa, ma troppo spesso disconosciuta, fu il Fichte, uno de’ piu nobili
ingegni di Germania: e cio perche vide che la destinazione dell'uomo non edi
essere assorbito dal lavoro destinato alia vita fisica, ma sibbene di avere a
restargli assai tempo per lo svolgimento della sua moralita” (Ibidem,
p.56). 41. Del reale obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a
poterlo raggiungere, in “Progresso”, XXIII, 1839, pp. 27-60. Ha scritto S.
Mastellone, “dichiarazione di fede eclettica puo considerarsi l’articolo di
Cusani: Del reale obbietto d'ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo
raggiungere (Progresso, 1839). La lunga dissertazione sulla necessita di porre
a fondamento della filosofia la psicologia per poi passare all’ontologia,
e la definizione dei tre obbietti della filosofia (il mondo, l’anima e Dio) e
dei tre ordini di fenomeni nell’interiore della coscienza (i sensitivi i
volontari e gli intellettivi) sono tratte dall’opera di Cousin”. 42 Cfr.
Del reale obbietto , cit., p. 57: “seguitando lo stesso principio in morale, i
suoi seguitatori non fannosi punto a ricercar quale e la moralita nello
stato attuale dell’uomo, ma invece quali sono state le prime idee di bene e di
male nell’uomo ridotto allo stato selvaggio innanzi ogni civil comunanza”. 43.
Ibidem, p.59. “Cosi questa scuola modesta e timida poneva la quistione
fondamentale di tutta la scienza psicologica; e quantunque non facesse che
circoscrivere l’osservazione, e fermarsi laddove essa cessava, purtuttavia frutto
gran bene alle scienze politiche, e morali, sollevando, per cosi dire, l’umana
natura in una piu pura ragione dalle scuole menzionate”, “richiedeva una terza
scuola, che se ne fosse occupata specialmente, e questa venne su a Konigsberg
promossa da un ingegno meraviglioso” 44. Se certamente il formalismo kantiano
presentava nella interpretazione cusaniana aspetti che attiravano le riserve
del lettore di Cousin e di Hegel, pure esso rappresentava un termine di
confronto essenziale alla definizione dell’obbligazione morale, e di
conseguenza della scienza morale e delle parti in cui questa si articola.
Piuttosto il limite di Kant, come si e poco prima ricordato, consisteva
nell’aver posto il contratto a base dell’obbligazione sociale: “se si fosse
cercata nella ragione, che ci comanda con un imperativo categorico, si avrebbe
per necessita dovuto ammettere una societa a priori del genere umano, e
si sarebbe conchiuso che ci ha un
diritto, che a noi vien da natura, indipendententemente da ogni contratto
e da ogni diritto positivo” 45. La relazione che si istituisce tra l’ideale ed
il reale, tra principio ed esperienza (ed anche tra l’apriori e l’aposteriori)
comporta finalmente la possibilita di definire una scienza sociale coerente con
i principi della scienza morale, giacche nell’unita della Filosofia tutte le
parti vengono ricomposte: “Se lasciamo la morale generale, e ci facciamo a
risguardare l’Economia nelle sue relazioni colla Filosofia del diritto, colla
Legislazione, e colla Politica, siccome queste non sono che parti della
Filosofia morale in generale, cosi non potremo che scorgervi le stesse
relazioni” 46. somigliantemente in Politica, le indagini intorno allo stato
primitivo delle Societa, de’ governi, delle leggi, e la varieta de’ sistemi che
se ne ingeneravano (perocche dove ha luogo la congettura nissuno ha il potere
di limitarla) cessarono del tutto, e cominciossi a osservar le Societa, cosi
com’esse ci si presentano dinanzi”. Dell’economia politica, cit., p. 51: “Ne
sappiamo vedere come il Kant, che aveva cosi bene stabilito l’obbligazione
morale, avesse poi dovuto ripeterla, quanto alla proprieta, da un contratto e
da una convenzione. Certo e vero, che il non aver esaminato punto donde veniva
l’obbligazione attaccata aquest’ atto, ha fatto si che siasi incorso in due
errori, il primo di negare che la proprieta sia di diritto di natura, el’altro
di ammettereuno stato primitivo e selvaggio dell’uomo innanzi della societa;
perciocche se si fosse cercata nella ragione, che ci comanda con un imperativo
categorico, si avrebbe per necessita dovuto ammettere una societa a
priori nel genere umano, esi sarebbe conchiusoche ci ha un diritto, che a noi
vien da natura, indipendentemente da ogni contratto e da ogni diritto positivo.
Ne vale ammetter questo contratto come fatto nel passato, o come da farsi
nell’avvenire, non procedendo da cio nessun’illazione, quando si tiene esser
esso la base e il fondamento della proprieta”. 46. Sull’hegelismo italiano (ed
i specie napoletano) cfr. P. Piovani, Il pensiero idealistico, in Storia
d’ltalia, Torino, I documenti. Cusani puo cosi concludere il suo tentativo -non
dimentico di Fichte, ma sicuramente sensibile alla filosofia vichiana - di
delineare una scienza morale rivelatrice della missione civile della filosofia:
“Ma la scienza sociale non e costituita che dalla filosofia del diritto, la
quale accenna all’ideale che devesi raggiungere nelle societa umane, e dalla
politica che appoggiandosi sui precedenti storici delle societa medesime, ne
osserva lo stato attuale e giudica di quale avanzamento progressivo possono
esser capaci”. Ne sono lontani gli anni nei quali, su altri testi d’una diversa
tradizione, e in cospetto d’una diversa realta socio-economica d’una diversa
regione d’ltalia, Marco Minghetti proporra la sua Economia pubblica. coloritura
hegeliana o hegelianeggiante, l’ammirazione professata verso lo studiato (piu o
meno studiato) filosofo tedesco individua come connotato essenziale questo
idealismo, pur se, in senso tecnico, iconfini effettivi delle conoscenze
hegelistiche dei nostril hegeliani risultano imprecisi, elastici, quasi sempre
vicini a uno Hegel letto prevalentemente in chiave fichtiana o kant-fichtiana”.
47. Ibidem, pp. 56 e 57. “E di vero, nella filosofia del diritto non si puo far
astrazione dallo scopo che ha l’uomo a raggiungere, se si deve poter
determinare le condizioni esterne di cui abbisogna, procedenti dalla volonta
de’ suoi simili, nel cui insieme sta la scienza del diritto. Ma lo scopo o la
destinazione dell’uomo ingenera delle relazioni tra la morale e l’economia;
deve quindi di necessita ingenerarne eziandio tra il Diritto e l’economia”. Stefano
Cusani. Cusani. Keywords: l’assoluto, il relativo, spirito soggetivo, spiriti
soggetivi, spirito oggetivo, storiografia filosofica di Cousin, unita
latitudinale della filosofia, l’assoluto di Bradley, Hamilton, l’obbjezione
all’assoluto, l’essere e la metafisica, gl’esseri e la metafisica, economia e
morale, la fenomenologia, il fatto di coscienza intersoggetiva, hegelismo,
Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cusani” – The Swimming-Pool Library.
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