Cantoni: l’implicatura
conversazionale delle literae humaniores -- Romolo e Remo; ovvero, il mito e la
storia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Cantoni; I call him the
Italian Hampshire! Cantoni philosophises on ‘anthropology’ and he has not the
least interest in past philosophies, -- only contemporary! – Oddly, he
reclaimed the good use of ‘primitive,’ meaning ‘originary,’ and he has
philosophised on pleasure and com-placent – also on ‘seduction,’ and eros. It is most
interesting that he reclaimed the concept of ‘umano,’ when dealing with
anthropology, as he considers the ‘disumano’, and the ‘crisi dell’uomo,’ and
also the ‘desagio dell’uomo’ – He has philosophised on the complex concept of
the ‘tragic’ alla Nietzsche – and he dared translate my métier and Fichte’s
bestimmung as ‘la missione dell’uomo’! – Like other Italian philosophers they
joke at trouser words and he has philosophised on ‘what Socrates actually
said’! My favourite is his treatise on Remo and Romolo in ‘mito e storia’. In
opposizione alla tradizione storicista, idealistica crociana si occupa di
cultura e storia usando contaminazioni sociologiche e antropologiche. Per
queste aperture venne considerato uno dei maggiori promotori dell'antropologia
culturale in Italia. Nel solco del maestro Banfi e uno dei maggiori esponenti
della scuola di Milano. Oltre ai numerosi volumi pubblicati fonda le
riviste Studi filosofici e Il pensiero critico. Fu allievo di Banfi,
amico di Sereni e Formaggio. Nella cerchia di amicizie di Banfi conobbe Antonia
Pozzi che di lui si innamorò di amore non corrisposto. In una lettera a Sereni
ella scrisse. Non riesco nemmeno a trarre un senso da tutti questi giorni che
abbiamo vissuto insieme: sono qui, in questa pausa di solitudine, come un po'
d'acqua ferma per un attimo sopra un masso sporgente in mezzo alla cascata, che
aspetta di precipitare ancora. Vivo come se un torrente mi attraversasse; tutto
ha un senso di così immediata fine, e è sogno che sa d'esser sogno, eppure mi
strappa con così violente braccia via dalla realtà. Sempre così
smisuratamente perduta ai margini della vita reale: difficilmente la vita
reale mi avrà e se mi avrà sarà la fine di tutto quello che c'è di meno banale
in me. Forse davvero il mio destino sarà di scrivere dei bei libri per i
bambini che non avrò avuti. Povero Manzi: senza saper niente, mi chiamava Tonia
Kröger. E questi tuoi occhi che sono tutto un mondo, con già scritta la tua
data di morte. Un'ora sola in cui si guardi in silenzio è tanto più vasta di
tutte le possibili vite. C. define come primitivo quel pensiero sincretico che
non distingueva nettamente tra mito e realtà tra affezione e razionalità. In
questo senso "primitivo" assume una valenza psicologica più che
antropologica. Il pensiero mitico, scrive in "Pensiero dei primitivi,
preludio ad un'antropologia", non è "arbitrario e caotico", ma pervaso
di una razionalità, una razionalità fusa in un crogiuolo affettivo. Yna delle
differenze fondamentali tra il pensiero moderno e quello primitivo consiste nel
fatto che il pensiero moderno ha una chiara coscienza della relazione e
dell'intreccio delle varie forme culturali tra loro e può sempre transitare da
una all'altra quando lo voglia; mentre noi sappiamo, ad esempio, che v'è un
conflitto tra la scienza e la religione, l'arte e la morale, il sogno e la
realtà, il pensiero logico e la creazione mitica, i primitivi mantengono tutte
queste forme su di un piano indistinto per cui fondono e confondono ciò che noi
non sempre distinguiamo, ma possiamo pur sempre distinguere. Questa mancanza di
distinzioni nette è uno dei caratteri più salienti della mentalità primitive.
Quindi sogno e realtà trapassano uno nell'altro e costituiscono nella loro
saldatura un continuum omogeneo. Si ocupa occupò con prefazioni, traduzioni, curatele e
altro di Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche, Kafka, Spinoza, Fichte, Renan,
Hartmann, Huxley, Balzac, Jaspers, Banfi, Durkheim, Sofocle e Musil.
Altre saggi: “Il pensiero dei primitivi, Milano: Garzanti); Estetica ed etica
nel pensiero di Kierkegaard, Milano: Denti); Crisi dell'uomo: il pensiero di
Dostoevskij, Milano: Mondadori, Milano: Il Saggiatore); La coscienza inquieta:
Soren Kierkegaard, Milano: Mondadori, Milano: Il Saggiatore; Mito e storia,
Milano: Mondadori); La vita quotidiana: ragguagli dell'epoca, Milano:
Mondadori, (articoli apparsi su
"Epoca"); n. ed. Milano: Il Saggiatore); La coscienza mitica, Milano:
Universitarie, (lezioni dell'anno
accademico) Umano e disumano, Milano: IEI); Il pensiero dei primitivi, Milano:
La goliardica, Il tragico come problema filosofico, Milano: La goliardica); La
crisi dei valori e la filosofia contemporanea: con appendice sullo storicismo,
Milano, Goliardica; Filosofia del mito, Milano: La goliardica); Il problema
antropologico nella filosofia contemporanea, Milano: La goliardica, Tragico e senso comune, Cremona: Mangiarotti;
Società e cultura, Milano: Goliardica, Filosofie della storia e senso della
vita, Milano: La goliardica, Scienze umane e antropologia filosofica, Milano:
La goliardica, Illusione e pregiudizio:
l'uomo etnocentrico, Milano: Saggiatore, Storicismo e scienze dell'uomo,
Milano: La goliardica, Personalità, anomia e sistema sociale, Milano: Goliardica);
Che cosa ha veramente detto Kafka, Roma: Ubaldini); Il significato del tragico,
Milano: La goliardica, Introduzione alle scienze umane, Milano: La goliardica);
Che cosa ha detto veramente Hartmann, Roma: Ubaldini, Robert Musil e la crisi dell'uomo europeo,
Milano: La goliardica, Milano: Cuem); Persona, cultura e società nelle scienze
umane, Milano: Cisalpino-Goliardica); Antropologia quotidiana, Milano:
Rizzoli); Il senso del tragico e il piacere, prefazione di Abbagnano, Milano: Nuova,
Kafka e il disagio dell'uomo contemporaneo, con una nota di Montaleone, Milano:
Unicopli). Attiva tra 1950 ed il 1962 e
edita dall'Istituto Editoriale Italiano
Lettere d'amore di Antonia Pozzi Carlo Montaleone, Cultura a Milano nel
dopoguerra. Filosofia e engagement in Remo Cantoni, Torino: Bollati
Boringhieri, Genna, «Il pensiero critico» di C., Firenze: Le Lettere,
Massimiliano Cappuccio e Alessandro Sardi, Remo Cantoni, Milano: Cuem, Reda,
L'antropologia filosofica di Remo Cantoni. Miti come arabeschi, Fondazione Ugo
Spirito, Antonia Pozzi Antonio Banfi Scuola di Milano Altri progetti Collabora
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Commons contiene immagini o altri file su Remo Cantoni sito di Antonia Pozzi, su antoniapozzi. Filosofia
Letteratura Letteratura Università Università Filosofo Accademici italiani Professore
Milano MilanoStudenti dell'Università degli Studi di MilanoProfessori
dell'Università degli Studi di Cagliari Professori della SapienzaRomaProfessori
dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università degli Studi di
Milano Fondatori di riviste italiane Direttori di periodici italiani. Haverfield. The Study of Philosophy at Oxford A LECTURE
DELIVERED TO UNDERGRADUATES READING FOR THE LITERAE
HUMANIORES SCHOOL. Lectures are seldom published singly unless they have
been read on ceremonial occasions to a general audience and to which their
style and subject are suitable. My present lecture is not of that kind, since
it is addressed to mere pupils, or ‘under-graduates’ – those below the minimum
qualification here at Oxford, the B. A. But I am delivering it to
undergraduates beginning the study of philosophy at Oxford, since H. P.
Grice thought it would be a good idea, especially for those pupils coming from,
of all places, Italy. The purpose of my lecture, then, is to set out in the
plainest words the main features of that study. It aims at emphasising
three points. First, the need well known to all, but realised by few, of the
chronology of philosophy (e. g. Locke – Hume – Berkeley) -- and still more of geography (Cambridge
to the south-west of Oxford), as geography is now understood, in any study
of philosophy (where is Koenigsberg?). Second, the character of the
Oxford philosophy course as a study of rather short periods – say,
philosophical analysis between the two world wars, to echo the title of J. O.
Urmson’s essay -- based on a close reading of the authorities: H. P.
Grice, and his followers. Third, the relation between Italian and Oxonian
philosophy – none -- which by their very
differences supplement each other to an extent which learners and even
teachers do not always see what is not there to be seen. At the end I will
say a word or two – but not in Italian! -- about the connection between
this course and the training of future researchers. Some of my
colleagues, who kindly read the lecture in typescript, told me that, if
published, it would help “those Italian pupils” and interest others
elsewhere who have to do with the study of philosophy. I once had a
pupil who began his Oxford course by reading for Classical Honour
Moderations. Reasons which I have forgotten made him change his plans
after a term or so. He took up Pass Moderations instead and I had
to teach him for that examination! He was very confident that he could
surmount the Pass hedges with complete ease, but I had soon to tell him
that the work he had done for Honours would lead him straight to a
heavy fall. He could translate Berkeley alright, or most parts of them. But
he had just no idea whatever of getting up its content – what Berkeley
meant --, and when one asked him the usual question, 'He meant what? ',
he was beaten. The difference which my pupil found to exist between
Pass and Honour Moderations is almost exactly the difference which, even
after recent changes, still divides Honour Moderations from “Literae
Humaniores”. This difference is not so much, as the language of our
Oxford statutes might suggest, a contrast between the classics on the one
hand and Ordinary-Language Philosophy on the other. It is, rather, a
variety of the old difference between Aoyoy and e'pyoz/, between
the language which is the form, and the fact, which is the content. I am
told that, in reading for Honour Moderations, a man learns how to
translate Cicero – or “Cicerone,” as the Italians miscall him -- and to
imitate his style. I know, by my own experience, that he hardly ever
learns what Cicero MEANT. A pupil may scramble through any page of the ACCADEMICA
with whih he shall be confronted, and you’ll soon find out that he is utterly
unable reproduce the matter of what CICERONE meant for any purpose whatever,
and if you ask him in detail why Cicerone called the thing “Accademica”, the
chances are that he does not know – or worse, care. In reading for
Greats, a man goes almost to the *other* extreme. Whether he can
translate CICERONE into reasonable Oxonian becomes a trite point. What he
has to know and what, I think, in general he does know, is what
Cicero MEANS – not just in ACCADEMICA, but in the concept of the ‘probabile’.
He may not know it with all the refinements and shades of meaning that an
accurate scholar such as Grice shall detect, but he does get a sound
general idea of Cicero's meaning – if not his ‘implicature,’ as I say. His danger now is that he neglects the
form. He is bidden to compose ‘the essay’ on a philosophical topic every week
for FIVE years! These essays are only too often ayamV/zara e? rb
irapaxpfjpa, agonised efforts at the eleventh hour, and, even if they rise
superior to such human frailty and are result of exhaustive and deliberate
reading in the dark chambers of the Sheldonian, both teacher and taught tend
to set more value on the essay’s *content* than on its *form* -- or
deliverance: lots of ‘ums’ to be expected. Sixty or eighty years ago the “Literae
Humaniores” School was considered to give a special training in lucidity
of language and in logical arrangement of matter. That has gone into the
background. Of the three great intellectual excellences which this School
might develop, powerful thought and profound knowledge and clear style,
the third now counts as least, if you can believe me. It is not a good resul, but
it is a natural one in a course which is so closely connected with concepts
and facts. Facts are the first need of the student of philosophy: who
wrote the Critique of Pure Reason, and why? Why did he choose such an obscure Teutonic
idiom to express his vague idea? He must know 'who did what when,’ and
hopefully, ‘where.’ Indeed, if he knows the facts of philosophy in the
order which they occurred (Anassagora after Anassimandro), he can often
reconstruct and interpret the long history of philosophy for himself.
There is a vast deal more value in dates than the most early Victorian
schoolmistress ever suggested to her classes. Half the mistakes and
misunderstandings in our current notions of modern Oxonian philosophy arise from
some belief that events – i. e. the publication of books, etc. -- happened
at OTHER than their actual dates. Much, for example, has been written
about the causes of the decline and fall of the Roman Empire, but why did
Marcus Aurelius addressed his memories to HIS SELF? Among these causes the
depopulation of Italy and of the Roman Provinces has been quoted as one
of the most important reasons for the creation of Oxford. But, when one
comes to examine the facts, it appears that a great deal that is urged
under this head is a transference to the Empire of an agrarian evil
which belonged to the Republican period and which probably lasted
only for three or four generations. Those who hold this evil wholly responsible
for the fall of the Empire, start with a chronological blunder, and
naturally do not reach even a plausible solution of their problem, as
Nerone would! So again in smaller problems. The critics of the Roman
Emperor CLAUDIO, the ancient parallel (as is generally said) to James I
(who reined over Oxford) usually omit to notice what sorts of events
occurred in what parts of his reign. As it happens, dates show that he,
or maybe his ministers, began with an active and excellent
policy. They boldly faced foreign frontier questions which had been
neglected or mismanaged by their immediate predecessors. They took steps
to amalgamate the Empire by romanizing the provincials. They
carried out numerous and useful public works. Dates also show that,
after some six or seven years of good administration, they fell
intelligibly enough into evil ways. We might indeed apply to Claudius the
idea of a quinquennium of five years' wise rule which is usually
ascribed to Nero. And curiously enough, if we go to the bottom of the
facts about Nero, we find that the outset of his rule was marked by no
want of unwisdom and crime and that the notion of a happy first five
years is a modern misinterpretation of an ancient writer who meant
something quite different. Begin history therefore with the plain task of
knowing dates and facts. Write them out large if you will, and stick them
up over your bed and your bath. There is another simple-seeming
subject which students of history, and above all of ancient
history, must not neglect. I have mentioned the old question, ' who
did what when ? ' There is an equally important question, 'who did what
where?' It is no good studying history, and above all ancient history,
without studying geography, and geography of the right sort. The
subject is, of course, held in little honour even at some Universities.
Cambridge lately issued a small series of maps to illustrate an
elaborate work on mediaeval history. On the first, or it may be the
second, of these maps, London is shown to be 33 miles from York and 43 miles
from Paris, while the sea passage from Dover to Calais is about 4 miles
long. This is, no doubt, an exceptional view of the world. But our
ordinary attitude to geography is little more satisfactory. Very often, when we
admit the subject at all, we confine it to lists of place-names and of
political boundaries, which are mere abstractions and convey
nothing definite to the average student. Or else, under the title of
geography, we bring in the important, but quite distinct study, of the
topography of battle-fields, a study which is not really geographical,
which is specialist in character, and which is suited properly to
those who are particularly interested in the details of ancient tactics
and strategy. If we are to make any- thing of geography, we must get
beyond this. We must treat it as the science which tells us about
the influence (in the widest sense) of the surface of the earth on
the men who dwelt upon it. In the earlier ages of mankind this
influence was enormous. It was far greater than it is in the
present day : it was greater even than in the Middle Ages. In the
youth of the world, in the days which we are still apt to picture to
ourselves as the ages of innocence and unconstrained simplicity and
pastoral happiness, man- kind lived in fear. He knew he was weak, weak
alike in his conflict with nature and his conflict with the
violence of other men. Whenever he advanced a little in civilization, in
wealth, in comfort, he was beset by terror lest hostile outside forces
should break in and destroy him and his civilization together. If he
looked back over preceding ages, he found one long tale of
wreckage, of nations that went down whole to a disas- trous death, of towns
stormed at midnight and destroyed utterly before dawn, of unquenchable
plagues, of con- suming famines. These evils came from many causes.
But among the causes the character of the earth's sur- face is by no
means the least potent, though it may not seem the most obvious. Man had
not then learnt to tunnel through mountains and traverse the worst
and widest seas, and thus ride superior to the great barriers which
nature has set between human intercourse. Nor had he acquired that
coherence of political government and social system which can sometimes
defy moun- tains or seas and successfully battle with pestilence
and hunger. He was ruled by his geographical environment. The
form in which this environment affected him was very definite. It was the
broad features of the earth's surface which then especially influenced
mankind that is, the general distribution of hills and of plains, of
moun- tain heights and mountain passes, of river valleys and of
gorges breaking these valleys up, of harbours and rocky coasts, of trade
winds which brought or failed to bring rain. All the simple and general
physical conditions which affect comparatively large areas in a more or
less uniform way, were felt to the full by the Greek and Roman
world. Illustrations of their influence are strewn broadcast over the
shores of the Mediterranean. That sea itself provides perhaps as
good an example as any. To-day it is a sea that belongs to many nations
; one dominant power in it is not even a Mediterranean state. Under
the Roman Empire, it was the basis of one state whose capital lay in its
centre and whose provinces lay all around it like a ring-fence. The
cause is to be found in geography. The Mediterranean is not merely,
as its name implies, a sea in the middle of the land : it has more
notable features. Though it is the largest of all inland seas, it is also
the most uniform. Its climate is the same throughout its length and
breadth ; its coasts are equally habitable in almost every quarter ; therefore,
it easily attracts round it a more or less uniform population and men
move freely to and fro upon it. It is no mere epigram that Algeria is the
south coast of Europe. Moreover, as modern strategists have noted,
it is dominated, as no other sea is, by the lands which surround it and by
the peninsulas and islands which mark it. Therefore, it was singularly
fitted to form the basis of any Empire strong enough to control so
large an area. It aided the formation of the Roman Empire. It determined
parts of its constitution, notably its semi-federal provincial system. It
provided the unity needful for its trade and language and intercourse.
We can mark the influence of this sea even in pre-Roman politics.
Though it was then divided up between Greeks, Persians, Carthaginians,
none of them were able to hold a part of it without at least aspiring to
extend their sway over the whole. Only in the present day, when
political unions have become stronger and more coherent, is it possible
for geography to be put in the background. Let me give two
more illustrations. To-day Italy is a south-eastern power: she looks to
Tripoli and the Levant, she finds her outlets and she passes on her
traffic from Brindisi eastwards, and her sons are scattered over the
eastern Mediterranean. But geo- graphically if I may repeat a saying
which is trite but nevertheless valuable ' Italy looks west and
Greece looks east', and in the Graeco-Roman world this fact
counted. Thanks to it, the earlier Roman Empire, the Empire of Augustus
and Claudius and Trajan, was a west- European realm, and its greatest
achievements of conquest and of civilization lay in the western
lands which we still call Latin or Romance. That French is spoken
in France to-day is (if indirectly) a result of geography. Once more,
under the normal conditions of to-day food is brought to our great towns
from considerable distances along railways or good roads. We are
not much troubled by geographical obstacles; we find human nature a much
worse impediment, and a strike hinders far more than any mountain or
river. In the ancient world as indeed in parts of the mediaeval
world when food was carried along ill-made roads in / ill-made carts,
towns were impossible unless food-stuffs could be grown close by, and
landed estates could not be worked at a profit unless markets lay within
easy reach. Throughout, we see the Greeks and the Romans face to
face with an external nature which dominated them as it does not dominate
us. If they were not, like the prehistoric races, living in ceaseless
dread, they were slaves to rudimentary difficulties. It is these
natural circumstances of geography that we cannot omit from our study of
ancient history. Hang up your maps beside your tables of dates ; draw
maps of your own, and if you would remember them properly, measure
the distances upon them. I venture to recommend this method of
studying geography along with history for a further reason. It is
the best way of studying geography itself which ordinary students can
use. The pure geographer too often wishes to teach the facts of the
earth's surface as facts by themselves. He wishes, for instance,
that the student should know the whole configuration of France, its
mountains, rivers, geology, minerals, before he proceeds to realize the
effects of these various features on the history of the world. That is
all very well for the specialist. But, as one who has taught
geography in Oxford for a good many years, I am convinced that applied geography
is far more easily learnt by the ordinary man than this more
theoretical and abstract science. By applied geography I mean the
geography of a district studied in definite relation to its history, with
definite recognition of which geo- graphical features mattered in one
age, and which in another, and which in none at all. This method
involves that association of ideas, that learning of things in con-
nexion with other things, which is in truth the most stimulating and
helpful of all aids to knowledge. Here, as elsewhere, the motto of the
teacher should be o-vv re 8v epxo/jLvc, not in the sense of the teacher
marching along with the taught, but of two kinds of knowledge
helping one another. 4. From these preliminaries of time and space
I pass to the actual study of ancient history in Oxford. The chief
characteristic of that study is its limitation to short and strictly
defined periods. Among these periods several alternative choices are
intentionally left open to the student. In Greek history he may read, as
most men do, the Making of Greece and the Great Age of the fifth
century. Or he may combine the fifth century with the story of
Epaminondas and Demosthenes and that curiously modern figure, Phocion,
though, for some reason, he will here find few companions in his
studies. In Roman history he may study the death-agony of the
Republic and the beginnings of the Empire under the strange
Julio-Claudian dynasty. Or he may confine himself to the Empire and
follow its fortunes till the end of Trajan's wars. Or thirdly he may read
though few care to do so the tale of the conquest of Italy and of
Carthage, the days which formed the great age of the Republic and the
glory of the Senate. In any case he is confined to one definite epoch of
no excessive length. Secondly, he will read this epoch
carefully with many and certainly all the most important of
the original literary authorities, and these he will read in the
original tongues. The study of a period of history through the medium of
translations is one which finds no place, at least in theory, in our
Oxford ancient history. This is a point, perhaps, which deserves
some notice in passing. In the present condition of classical
studies there is a strong tendency for men not merely to study ancient
history but even to research, with a very slight knowledge of the
classical languages. In the local archaeology of our own country this
tendency has existed for centuries, and' it has been usual to work
at Roman Britain without any knowledge at all of Latin. Abroad, the
tendency has been growing of late years. I have had lately to write for a
foreign publi- cation a paper in Latin on some Roman inscriptions
and I have been a little surprised at the Ciceronian words which the
editor of the publication has pointed out to me as too likely to puzzle
present-day students of Latin epigraphy. Now, it is probable that an
educa- tional course which studied Greek and Roman history through
translations might have a distinct, though obviously a limited,
educational value. But it is idle to pretend to go beyond a somewhat
elementary course without knowing the ancient languages. This
Oxford course has been made the subject of many criticisms. We are told
that history is one and indivisible, and that fragments cut out of their
context not only lose their educational value but become
meaningless. We are told secondly that it is absurd to omit all the
momentous occurrences which lie outside our limited areas. We are told
also that by confining students to one or even two periods we prevent
them from acquiring a variety of distinct interests and discussing their
various periods together and widening their respective outlooks. Of the
first of these I shall say some- thing in a moment. The other two in my
judgement amount to very little. It is quite true that our system
omits a great deal. But there are after all only two ways of learning.
You can learn a little of many things or you can learn much of one thing.
Unless you are a genius or a reformer you cannot learn a great deal
about many things. All education is in a sense selective. Here, as
so often, much good may be done by the free lance. He prevents our
selections from being clogged by pedantry. In the end, however, there
must be selection. Lastly, the third criticism, that the use of
limited periods limits the total width of interest and discussion among
the body of students, does not I believe apply in the very least to our
own system with its alternative periods and its extraordinary range
of general knowledge. Moreover, I am clear that, if a
limitation of periods has its evils, it has also solid merits. It has
been generally the English tradition to prefer the plan of learning
much about one subject to that of learning a little about many, and the
warning Cave hominem unius libri used often to be quoted by Oxford
scholars of forty or fifty years ago. It is a good maxim. For it
does not simply warn us against the tortoise who hides in his shell ; it
points out that the dangerous enemy is he who knows one subject with
exceeding thoroughness, who controls one weapon with absolute mastery
and precision. The student who really works out one short period of
history, knows one part at least of the ways of human nature. It is
impossible to over-rate the practical value of such a bit of accurate
knowledge of how men move and think and act. Moreover, as
educationalists are constantly and rightly observing, the power of
thoroughly getting up a limited subject, the complete mastery of all the
relevant details, is a very valuable power in actual life. It may be
obtained in other ways than through a brief period of ancient
history; it could not be gained by a study of ancient history at
large. 5. Ancient History is singularly suited to this method
of the intensive culture of a small plot. If the period chosen be not
very long or very ill-chosen, it is here possible to combine the
following advantages. First, we can bring the student into touch with
periods of the highest importance, periods which are full of the
most diverse interests and which allow the most different minds to
expand on political or constitutional or economic or geographical or
military problems. Secondly, we let him come to close quarters with the
great mass of the original authorities, whether written or unwritten,
so that he can compare the account of any event or problem which is
given him by Grote, or Bury, or his own tutor, with the actual evidence
on which it ought to be based. Thirdly, he can work at historical
writings written in the great style and really worth reading as
literature. There is no part of mediaeval or modern history of which all
this can be said with complete truth. There we have to face multitudes of
charters, family papers, legal documents, broadsides, which are far
too vast a chaos for a student to overhaul in the course of his
University career, and to compare with the conclusions based on them.
There, too, our authori- ties are for the most part not even literature
by courtesy. When we ask for original authorities, we are given
not a Gibbon but a mass of matter which has no value save as the
husk, too often the tasteless husk, outside a grain of fact. In ancient
history, when all is said and done, when the longest list of ' books to
read ' has been made out that the most conscientious tutor can devise,
the total will not exceed the powers of a reasonable student. You
will find, indeed, when it comes to lists of ' books to read', that the
philosophical teachers, not the historical teachers, will go to the
greatest length. 6. I have only one criticism of my own to make :
our limited period does ignore the unity of history. We ought to do
something for a view of history as a whole. Let me quote a historian who
is not, I fear, as much admired in Oxford as he used to be, the late Mr.
E. A. Freeman. He was a writer of the old school, on the one hand
much too fond of battles, sensations, emotions, and even rhetoric, and on
the other hand much too dependent on written sources and too cold to the
charms of archaeology. Perhaps his true greatness lay in the
realism with which he taught some of the greater general historical ideas
even though he hammered them home with a wearying emphasis. One such idea
of his was the unity of history, on which I will quote one of his
utterances : We are learning that European history, from its
first glimmerings to our own day, is one unbroken drama, no part of
which can be rightly understood without reference to the other parts which
come before it and after it. We are learning that of this great
drama Rome is the centre, the point to which all roads lead and
from which all roads lead no less. The world of independent Greece stands
on one side of it ; the world of modern Europe stands on another. But the
history alike of the great centre itself and of its satellites on
either side, can never be fully grasped except from a point of view wide
enough to take in the whole group and to mark the relations of each of
its members to the centre and to one another. These are true
words ; how can they be reconciled with our limited periods ? It may
occur to some that we lecturers should prefix or add to our ordinary
courses some special hours on universal history. Time, however,
would hardly allow for more than eight or ten such lectures ; the
lectures themselves could hardly be other than in some sense popular, and
it is possible that they would be better read in a book than delivered as
a dictation lesson. There is another remedy in each man's hand who
cares at all for the historical side of his Schools' work. He can read
what he likes of other and later periods of history in such books as may
suit his own taste. Even on the lowest plane of motives such
reading would not be wasted. It may be less true than it was, that Greats
is concerned de rebus omnibus et quibusdam aliis. But it is still true
that there is very little knowledge which does not at some point or
other help in the understanding of Greats' work. It is a School in
which a man can ' improve his class ' by not reading directly for
it. Let me now pass to the two individual topics of Greek and Roman
History with which Oxford students are concerned. People are apt to think
that they are just the same. The educational system which has
dominated Western Europe for the last three centuries sets the Greek and
Latin, language, literature, and history, side by side, as subjects which
may be studied and taught by the same men and the same methods.
Even now it is supposed in some places of instruction, that a man
who is competent, perhaps extremely competent, to teach Greek History,
will be equally competent to teach any part of Roman History. But we are
begin- ning to learn that Greece and Italy are not the twins which
they seemed to our forefathers. We know that the Greek and Latin
languages stood in their origins far apart ; that Latin, for example,
comes nearer to Celtic than to Greek ; and we shall have to recognize
something of the sort in reference to Greek and Roman History. But here
fortune favours us in a remarkable and indeed quite undeserved fashion.
For these two subjects are in reality so dissimilar that their very
differences form a rare and splendid combination. Each supplies what the
other lacks. Together, they remedy many of the evils which arise from the
limitation of the periods studied. They differ, firstly, in the
character of the original authorities for the two subjects and in
the different historical methods which the student is constantly required
to use. They differ, secondly, in the actual events which they record and
in the kinds of lessons which they teach. The one shows us
character and the other genius. The one confronts us with the city state,
the other with the full range of problems of a world empire. The one
exhibits the different forms of political development proper to the
brief life of Greece, the other the principles of constitu- tional growth
which was gradually unrolled in the long history of Rome. 8.
First, as to the authorities. Alike in his Greek and in his Roman
history, the Oxford learner has to deal with a large part of the original
authorities for the periods which he is studying; he has to study
those periods with definite reference to the evidence of the authorities,
to appraise their general value and to criticize in detail the meaning of
their various assertions. But these authorities are by no means
uniform. On the contrary, those which he meets in Greek History and those
which he meets in Roman History are startlingly unlike. The history of
Greece, at least during the great age of the fifth century, depends
on two first-rate historians, whose works have reached us intact, and who
form the predominant and often the only authorities for the series of
events which they describe, Herodotus and Thucydides. Everything
else that we know of this age can be hung by way of comment or criticism,
foot-note or appendix, on their narratives. The evidence of lesser
writers, of geo- graphical facts, of inscriptions or sculptures or
pottery, may be and often is very valuable, but it is always
subsidiary. This is especially true of Greek inscrip- tions, which I
mention here partly because I shall have presently to say something of
the very different character of Roman inscriptions. By far the largest
and the most important sections of Greek inscriptions are lengthy
legal or financial or administrative documents, such as in modern times
would be engrossed on parchment or printed on paper. They are, indeed,
just like those documents which the student of early English
History finds selected and edited for him by Bishop Stubbs. There
are, no doubt, other Greek inscriptions, such as tombstones. But the
epitaphs of Hellas can rarely be dated ; they rarely belong to the
historical periods studied in Oxford, and they rarely say enough
about the careers or official positions of the dead, or of their
heirs and kinsfolk, to be used for historical inductions. Like Stubbs*
charters, therefore, Greek inscriptions are best suited to provide the
foot-notes and technical appendices to connected literary narratives. It is a
curious and a pleasant chance which has given us for a unique
period of history both admirable narratives and a copious supply of
supplementary inscriptions. Turn now to Roman History. The Roman
historian has a different and more difficult task than his Greek
colleague. In the long roll of centuries which form his subject, the
literary narrative and the subsidiary evidence are often defective and
seldom united. Not one single writer is at the same time a great writer
and contemporary and continuous. The Republic has been described
for us by authors who either, like Livy, wrote long after most of the
events which they describe, or who lived at the time, like Cicero, but
wrote no con- tinuous history, while it is painfully true that most
of the ancient writers on the Republic have little claim to be
called good historians. Nor is this all. These writers, good or bad,
Polybius or Livy or Appian, are very imperfectly preserved ; our stuff is
fragmentary. We have to deal with a mosaic that has been shaken in
pieces : we have to form our picture out of patchwork. Nor, lastly, is
there supplementary evidence to aid us. Archaeology throws singularly
little light upon the history of the Republic. Excavations, like those
of Adolf Schulten at Numantia, have shed some light, and there is
no doubt more to come when Spain has been better opened up : more also
may perhaps be gleaned some day from southern Gaul. But the Republic
was one of those states which mark the world, but not indi- vidual
sites, by their achievements. Such in Greece was Sparta : and, as
Thucydides saw long ago, the history of such States must always lack
archaeological evidence. The Roman Empire was in many ways a new
epoch. It is natural that the authorities on which our knowledge
rests should be in some respects unlike those of the Republic. Continuous
literary narratives are still few, and their value is not very great.
Like many important political organizations, the Roman Empire was only
half understood by the men who lived in and under it or perhaps, as
Kipling says of the English, those who understood did not care to speak.
Not even the greatest of the Imperial historians, Tacitus, appreciated
the state which he served and described. He gives his readers, for
home politics, a backstairs view of court intrigues, and, for foreign
affairs, a row of picturesque or emotional pictures of distant and
difficult campaigns described with a total absence of technical detail
and a surfeit of ethical or rhetorical colouring. All the real
history of the centuries of the Empire was ignored by almost every
one of those Romans or Romanized Greeks who essayed to describe it.
Moreover, this literary material, like that of the Republic, is broken by
all manner of gaps. We have painfully to reconstruct our narrative
out of detached sentences and chance frag- ments and waifs and strays from
works which have perished. On the other hand and here the
difference between Republic and Empire comes out clearest the
archaeo- logical evidence for the Empire is extensive and extra-
ordinary. No state has left behind it such abundant and instructive
remains as the Roman Empire. Inscriptions by hundreds of thousands, coins
of all dates and mints, ruins of fortresses, towns, country-houses,
farms, roads, supply the great gaps in the written record and
correct the great misunderstandings of those who wrote it. Most of
this evidence has been uncovered in the last two generations : the
Empire, misdescribed by its own Romans, has risen from the earth to
vindicate itself before us. The largest part of this new material is
supplied by the inscriptions. A few of these are documents, such as
form the bulk of the Greek inscriptions which I have mentioned already,
and of those few some five or six at least are perhaps of greater
importance than any other in- scription, Greek or Roman, that has yet
been found. But the great mass are not in themselves individually
striking. Their value depends not on any special merits of their
own, but on the extent to which they can be combined with some hundreds
of other similar inscriptions. If Roman History is the record of
extraordinary deeds done by ordinary men, it is also a record of
extraordinary facts proved by the most ordinary and commonplace
evidence. The details directly commemorated in the tombstones or the
dedications or similar inscriptions which come before us seldom matter
much. It is no great gain to learn that water was laid on to one
fort in one year and a granary rebuilt in another fort a dozen
years later. But if you tabulate some hundreds or thousands of these
inscriptions, they reveal secrets. Take, for instance, the birth-places of
the soldiers, which are generally mentioned on their tombstones. Each
by itself is a trifle. It is quite unimportant that a man came from
Provence to die in Chester or from Asia Minor to serve at York. But,
taken together, these birth-places tell us the whole relation of the
imperial army to the Roman Empire. We can see the state gradually
drawing its recruits from outer and yet outer rings of population.
We can see the provincials beginning to garrison their own provinces. We
can see the growth of that barbariza- tion which befell the Empire when
it was compelled, in its long struggle against its invaders, to enlist
barbarians against themselves. From similar evidence we can deduce
the size of each provincial army ; we can even catalogue the regiments
which composed it at various dates and the fortresses which it occupied,
and can trace the strengthening or the decay of the system of
frontier defence. It is true, indeed, that inscriptions of this
character are not very easy for students to deal with. For they have to
be taken in unmanageable masses, and they often involve remote problems
of dating and interpretation. But selections, such as those of Wil-
manns or Dessau, will help the learner through, and the short courses on
Roman Epigraphy which are now given in Oxford will start him on his
road. I do not know whether I shall seem an unbending conservative
or a hopeless optimist or a liberal who is trying to make the best of a
bad business. But the facts which I have just stated suggest to me that,
in respect of the training which they give x in historical method,
Greek and Roman History, as studied in Oxford, fit into each other and
supplement each other in a most happy manner. . Almost every form of
authority, the first-rate narrative, the second-rate abridgement,
the stray fragment, the long legal document, the brief in-
scription of whatever kind, all the varieties of uninscribed evidence, come
before him in turn. He has to consider and weigh these, and, whether he
proposes in after life to research in history or prefers the active
business of trade or politics, he will gain much by the criticism
which this task imposes on him. To survey many state- ments made by
fairly intelligent men, many accounts of complicated and obscure
incidents, is to train the judgement for practical life quite as much as
for a learned career. We talk somewhat professionally of
archaeological evidence. It is well to remember that, if that evidence
had happened to refer to the present, instead of the past, we should call
it economic and not archaeological : so much of it refers to just the
things which engage the reader of an ordinary social pamphlet. If
Greek and Roman History thus supplement each other in respect of
historical methods, they do so still more in respect of the historical
problems of political life and of human nature which they bring
before us. In one or the other of them we find most of our modern
difficulties somehow raised, and in many cases one aspect is raised in
Greek History, another in Roman. In the first place, there is the
contrast of character and genius, which is really the twofold con-
trast of individualism as opposed to common action and of intellect as
opposed to practical common sense. Greek History is a record of men who
were extra- ordinarily individual, extraordinarily clever,
extraordi- narily disunited. Our Oxford study of Greek History,
divorced as it is by chance or necessity from the study of Greek poetical
literature and of Greek art, lets us forget how amazingly clever the
Greeks were and the place which intellect and language and writing
played in their world. Roman History, on the other hand, is
the record of men who possessed little ability and little intellect,
but great force of character and great willingness to com- bine for
the good of their country to produce a result which was not the work of
any one of them. The history of the Roman Republic in its best period,
in the great age of the Punic wars, is in very truth ' a long roll
of extraordinary deeds done by ordinary men '. This aspect of it is, of
course, less prominent in the later Republic, the period of revolution,
than in the greater epoch which we here so seldom study. But it
reappears with the Empire. Though the historians of the Principate
generally talk of nothing but the Princeps, we can detect throughout a
background of hard-working, capable, probably rather stupid governors
and generals in the provinces. If any one wishes to study the conflict of
genius and character, that conflict which a hundred years ago the English
waged with Napoleon, and to realize the defects of being clever and
the advantages of being stupid defects and advantages which (I am bound
to say) are overrated by the average Englishman he will find this in his
Greek and Roman History. There are few lessons for guidance in
practical life and politics which are so valuable as an under- standing
of this simple-seeming subject. Again, in respect of constitutional
history, Greece and Rome supplement one another in a useful way.
The history of Greece, and especially of Athens, is too short to include
a long and orderly constitutional development. But it does teach a good
deal about the nature and value of those paper constitutions which
are in reality political rather than constitutional, but which play
their part more particularly in the acuter crises of almost all ages.
Rome, too, in the earlier part of the death-agony of the Republic, in the
generation which began with the Gracchi and ended with -Sulla, saw
several of these pseudo-constitutions. But the Athenian examples teach us
most, if only because they are the work of an intellectual race, which
believed firmly in the value of things which could be written down
on paper. Rome, on the other hand, shows that slow growth,
here a little and there a little, of constitutional life on which true
constitutional philosophy is based. Nowhere can we find so near a
parallel to our English constitu- tion as meets us in the flexible order
of the Roman Republic and Empire. Nor is this all. Of most con-
stitutions, as of our own, we know the maturer years, but not the details
of the birth and infancy. But the Roman Empire is, as it were, born
before our eyes. The cold unostentatious caution of Augustus may,
no doubt, have left his contemporaries a little doubtful whether
the old had really died and the new been born, and the scanty records
which have survived shed an uncertain light. Yet the fact is plain, and
the manner in which it happened. ii. And thirdly, Greek
history sets forth the successes and failures of small states and of '
municipal republics ', while Rome exhibits the complex government of
an extensive Empire. For the present day the second matters most.
Perhaps the world will never see again a dominion of city-states. The
fate of the Polis was sealed when Plato wrote his Politeia and called
for philosopher-kings. It was more decisively settled when the
Romans discovered that men could be at once citizens of a nation and
citizens of a town. The failures of the mediaeval Republics of Italy and
Germany to maintain themselves against the stronger powers of
Emperors and Tyrants simply emphasized the result. The world will have to
supply otherwise that intellectual and artistic splendour which has been
the finest fruit of the city-states. But the administration of a
great Empire concerns many men to-day and in a very vital manner.
Our age has not altogether solved the pro- blems which Empires seem to
raise by their very size the gigantic assaults of plague and famine, the
stubborn resistance of ancient civilizations and nationalities to
new and foreign ideals, the weakness of far-flung frontiers ; it
can hardly find men enough who are fit to carry on the routine of
government in distant lands. The old world was no better off. Too often,
its Empires quickly perished ; too often, they survived only through
cruelty and massacre and outrage. Rome alone did not wholly fail.
It kept its frontiers unbroken for centuries. It spread its civilization
harmoniously over western and central Europe and northern Africa. It
passed on the classical culture to new races and to the modern
world. It embraced in its orderly rule the largest extent of land
which has ever enjoyed one peaceable and civilized and lasting
government. It was the greatest experiment in Free Trade and Home Rule
that the world has yet beheld. I have limited myself in the
preceding remarks to ordinary matters which come in the way of
ordinary students. I am well aware that we can add to the Oxford
ancient history course other and more delightful vistas down the by-ways
of folk-lore and religion, of anthropology and geology. We can trace in
Herodotus, quite as plainly as in the Oedipus Tyrannus, that sub-
stratum of savagery which underlies all ancient and most modern life, and
which lay closer to the Greek, despite his intellectual refinement, than
to the less humane but more disciplined Roman. We can plunge into
the labyrinths of 'Middle Minoan' and classify 'protos' from all the
coasts of the Aegean and the Levant. We can trace from geological ages the
growth of the continents and seas and climates which made up the
background of the older Europe. These things are full of interest, and
for some minds they are both a relaxa- tion and a stimulus. They are not,
I fear, so well suited to all of us. There is, indeed, enough in the nearer
fields of ancient history for any student to fill his time with the
more obvious subjects of politics and geography and economics and
archaeology. He may even, if he wishes, find in his prescribed books an
opportunity of beginning to prepare himself for research. He cannot,
indeed, as in the Modern History School, offer as part of his
degree examination a dissertation on a subject chosen by him- self,
and I am not quite clear that, if he did, his thesis would be worth very
much. But his study of original authorities may teach him not only how to
weigh the statements of men for practical purposes, but also to
note how history is built up out of such statements. He can even carry
his examination of original authorities far enough to approach the region
of independent work, and to go through some of the processes which
are connected with the august name of the Seminar. But, let
me add, this historical course which gives the man who wishes it a
glimpse of what research work means, is not, and cannot be, a full
preparation for it. For that a further training is indispensable,
whether it be in archaeology or in any other subject, and that
training cannot be included in the ordinary curriculum, since it is only
a tiny fraction of the whole body of students which intends to, and is
fit to, pass on to research. The ordinary course lays the foundation
of general knowledge, without which it is useless to attempt any
advanced study. The advanced work prepares a few competent men for original
and inde- pendent research, and the function of the Seminar in
Oxford would seem to be to train such men, if they will stay here, after
they have finished the ordinary course. I had once a pupil, an American,
who wished to work for a ' research degree ' by offering a disserta-
tion on a subject in Roman History. He asked to be allowed to attend two
courses of my lectures, one a general sketch of the early Empire, the
other a some- what more advanced treatment of Roman inscriptions.
After a while, he asked if- he might drop the latter course ; he had, he
said, already heard a good deal of it in his own American University.
When I replied that in that case he had better drop the elementary
course also, he told me that this was mostly new to him. It appeared, on
inquiry, that his teachers had given him no training in general Roman
History ; they had taken him through a series of important
inscriptions, had explained to him the persons and things which
happened to be mentioned therein, and had said nothing of other persons
and things which chanced not to be mentioned. This is, of course, not a
fair specimen of University education in America. It is,
unfortunately, a rather good example of the mistakes often made by
those who are too eager to encourage advanced study. I am told that
I ought to conclude such a lecture as this by practical hints on the way
in which men should 1 read their books '. The one hint I care to give is
to attend to the matter and not only to the manner. There are many
devices which will help in this. It is, for instance, an aid to some
students to read their ancient texts twice, in two different languages,
first in the originals and then in some translation, in English
or French or German, using these translations not as ' cribs ' but
as continuous and (in a sense) independent narratives. But different men
work by different methods, and it is not always easy to give sound
general advice. An individual teacher may aid indi- vidual men by advice
suited to them personally, and his personality may inspire whole classes.
But general advice, a panacea for every learner, is a rather dan-
gerous thing. It is not, indeed, always much use to give it. I remember a
friend of mine who once attended such a lecture as this. When I asked him
what prac- tical good he had got out of it, he told me that the
lecturer advised his hearers to buy pencils with blue chalk at one end
and red chalk at the other and to mark their Herodotus in polychrome. He
bought the pencil : the day after his examinations were over, he found
the pencil still uncut. Remo Cantoni. Keywords: Romolo e Remo;
ovvero, il mito e la storia, Carlo Cantoni, filosofo, Remo Cantoni filosofo,
mito e storia, implicatura mitica, la morte di Remo, prejudices and
predilections, umano, preludio a un’antropologia, umano, umanismo, literae Humaniores – literæ Humaniores – Lit.
Hum. il primitivo. Il mito di Remo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cantoni” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Capella: l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Capella
Marziano Minneo Felice Capella, africano di Carta- gine, di religione
pagana, scrive il "De nuptiis Philologiae et Mercurii" in nove
libri. Il titolo dell’opera (che è una mescolanza di prosa e di versi e
perciò è simile a una satira menippea), si applica propriamente ai due primi
libri introduttivi, in cui si parla delle nozze del Dio dell'attività
intellettuale (Mercurio = Hermes) con la personificazione della erudizione
enciclopedica. Principale fonte di questi libri si ritengono gli scritti
teologici di Varrone, mediati probabilmente da | Cornelio Labeone. Il contenuto
vero dell’opera, che è un'enciclopedia, è costituito dai libri III-IX, in cui,
sono trattate le sette arti liberali considerate dall'autore (grammatica,
dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia e musica), presentate
come donne che accompagnano la Filologia. Marziano ricorda altre due
discipline incluse da Varrone nella sua enciclopedia (medicina è architettura),
ma non vuole considerarle.Può darsi non sia stato il primo a procedere così, ma
è probabile che da lui il Medio Evo abbia preso la distinzione delle arti del
trivium e del quadrivium. Marziano deve avere preso a modello
l'enciclopedia varroniana, che gli è anche servita sino a un certo punto come
fonte; ma è probabile che abbia attinto principalmente a lavori spe- ciali più
tardi. Sebbene sia una compilazione priva di valore intrinseco e piena di cose
male intese e anche di contraddizioni, l’opera di Marziano fu studiata appas-
sionatamente nel Medio Evo che l’usò anche come testo scolastico, la commentò e
la tradusse. Per la storia della filosofia hanno importanza, più della
trattazione della dialettica (1. IV), ciò che dice il libro VII (De
arithmetica) sulla sacra monade, identificata a Giove e quali- ficata altrove
pater ultra mundaniis. Essa è il padre di ogni essere, è il seme degli
altri numeri e da essa sono.procreate tutte le altre cose. La monade è prima
che siano le cose esistenti e permane quando esse si distruggono, perciò
deve essere eterna. È così presentato un monismo che dalla forza
causatrice di quella realtà ideale e in- telligibile, fa provenire sia i puri
numeri che gli esseri numerabili che si collegano a quelli. In tal modo dal-
l’unità prima sono generate la diade, che è riferita alla materia procreante, e
la triade che conviene alle forme ideali e all'anima (in quanto, secondo
Platone, include tre parti); e dalla diade provengono gli elementi che in-
sieme costituiscono il mondo, che come tale ha per nu- mero il cinque. Questa
derivazione dall'unità è molto confusa, ma si collega evidentemente alle teorie
del- Neo-Pitagorismo. Secondo Macrobio univa in sè il sapere di Carneade
(neo-accademico), di Diogene (stoico) e di Critolao (peripatetico) ; aveva
conosciuto tutte le scuole, ma seguiva la più credibile : ciò fa pensare che
aderisse al probabilismo di Carneade. Marziano Capella Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Retorica, illustrazione del De Nuptiis Philologiae
et Mercurii, Biblioteca Apostolica Vaticana ms. Urb. lat. 329 f 64v (seconda
metà del XV secolo) Marziano Minneio Felice Capella (in latino: Martianus
Mineus Felix Capella; Madaura, IV secolo – V secolo) è stato un grammatico
romano, noto per il suo trattato didattico De nuptiis Philologiae et Mercurii
che ebbe grande fortuna nel Medioevo. Indice 1Biografia 2De nuptiis
Philologiae et Mercurii 3Riconoscimenti 4Edizioni e traduzioni 5Note
6Bibliografia 7Voci correlate 8Altri progetti 9Collegamenti esterni Biografia
Le informazioni disponibili sulla vita di Marziano, che si faceva chiamare
Felice o Felice Capella, sono molto scarse e in parte dubbie, ricavate da
allusioni autobiografiche presenti nelle sue opere. Mancano informazioni
cronologiche e nella ricerca sono state espresse opinioni molto diverse sulle
date della sua vita; le congetture hanno oscillato tra la fine del III e
l'inizio del VI secolo, e oggi si ipotizza di solito il V o l'inizio del VI
secolo. Marziano nacque probabilmente a Madaura (secondo quanto riferisce
Cassiodoro). In ogni caso, sembra che abbia trascorso la maggior parte della
sua vita a Cartagine. Anche le ipotesi sulla sua professione e sulle sue
origini sociali sono speculative. Si è ipotizzato che provenisse da un ambiente
contadino e fosse autodidatta. Secondo un'altra opinione, più diffusa nella
ricerca, egli apparteneva alla classe superiore. Da una formulazione poco
chiara, si è dedotto che fosse un proconsole in Africa. Non è inoltre
chiaro se Marziano fosse cristiano. È da notare che la sua opera non contiene
alcuna allusione al cristianesimo. Questo silenzio e alcuni altri indizi, tra
cui la descrizione dei luoghi abbandonati degli oracoli del dio Apollo,
suggeriscono che egli fosse un seguace dell'antica religione, i cui contenuti
principali volle riassumere nella sua opera. I ricercatori hanno persino
sospettato una velata spinta anticristiana.[1]. De nuptiis Philologiae et
Mercurii Ci è noto per il trattato didattico indirizzato a suo figlio, Le nozze
di Filologia con Mercurio, noto anche come "De septem disciplinis" o
"Satyricon", scritto in forma di prosimetro, ossia un misto di prosa
e versi di vari metri. L'opera è peculiare per il suo impianto allegorico, con
l'ascesa al cielo di Filologia accompagnata dalle arti liberali per sposare
Mercurio, ovvero l'Eloquenza. I nove libri dell'opera sono così
intitolati: Liber I: De nuptiis Philologiae et Mercurii Liber II: De nuptiis
Philologiae et Mercurii Liber III: De arte grammatica Liber IV: De arte
dialectica Liber V: De rhetorica Liber VI: De geometria Liber VII: De
arithmetica Liber VIII: De astronomia Liber IX: De harmonia Le arti liberali
sono ridotte dall'Autore da nove a sette, poiché, dopo le dotte esposizioni
delle arti del Trivio - Grammatica, Dialettica, Retorica - e del Quadrivio -
Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica - alle ultime due, Medicina e
Architettura, non viene permesso di parlare alla festa nuziale, che si è
prolungata troppo. L'autore utilizza varie fonti nella compilazione della
sua opera, fra cui Varrone Reatino e Apuleio. Il suo non è certo un latino
molto raffinato: la prosodia talvolta lascia a desiderare e molte metafore
appesantiscono la narrazione. In età medievale e rinascimentale vennero
effettuate aggiunte e rettifiche di ogni tipo al testo originario. Essa
risulta, in effetti, una specie di enciclopedia dell'erudizione classica
diffusissima nel Medioevo cristiano. Un noto commento fu pubblicato dal
grammatico neoplatonico Remigio d'Auxerre che lesse Boezio alla luce del
consimile filosofo Scoto Eriugena. Riconoscimenti Il cratere Capella,
sulla Luna, è stato battezzato in suo onore. Edizioni e traduzioni
Martiani Minei Felicis Capellae Afri Carthaginiensis, De Nuptiis Philologiae et
Mercurii et de septem artibus liberalibus Libri novem, edidit Ulricus
Fridericus Kopp. Francofurti ad Moeunum: apud F. Varrentrapp, Martianus
Capella, accedunt scholia in Caesaris Germanici Aratea, Franciscus Eyssehardt
(a cura di), Lipsiae in aedibus B. G. Teubneri, 1866. (LA) De Nuptiis
Philologiae et Mercurii, ed. Adolfus Dick, 2. ed. 1925, 3. ed. Stuttgart Martianus
Capella, ed. J. Willis, Leipzig 1983. Le nozze di Filologia e Mercurio. Introd.,
trad., comment. e appendici di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani 2001. (EN)
Martianus Capella and the Seven Liberal Arts, edd. W.H. Stahl, R. Johnson, E.L.
Burge, vol. 2: The Marriage of Philology and Mercury, New York-London, Columbia,
Martianus Capella. Die Hochzeit der Philologia mit Merkur, ed. Hans Günter
Zekl, Würzburg Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure. Livre
I, ed. critica e traduzione di Jean-Frédéric Chevalier, Parigi, Les Belles
Lettres, 2014. (FR) Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure.
Livre IV : la dialectique, ed. critica e traduzione di M. Ferré, Parigi, Les
Belles Lettres, 2007. (FR) Martianus Capella. Les noces de Philologie et de
Mercure. Livre VI : la géométrie, ed. critica e traduzione di M. Ferré, Parigi,
Les Belles Lettres, Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure.
Livre VII : l'arithmétique, ed. critica e traduzione di J.-Y. Guillaumin,
Parigi, Les Belles Lettres, 2003. (FR) Martianus Capella. Les Noces de
Philologie et de Mercure. Livre IX : L'harmonie, ed. critica e traduzione di
Jean-Baptiste Guillaumin, Parigi, Les Belles Lettres, 2011. (IT) Martiani
Capellae De nuptiis Philologiae et Mercurii liber IX, introd. trad. e comm. di
L. Cristante, Padova, Antenore Le nozze di Filologia e Mercurio, a cura di
Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani, Scoto Eriugena, Remigio di Auxerre, Bernardo
Silvestre e Anonimi, Tutti i commenti a Marziano Capella. Testo latino a
fronte, a cura di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani, 2006. Note ^ William H. Stahl,
To a Better Understanding of Martianus Capella, in "Speculum", Bovey,
Disciplinae cyclicae: L'organisation du savoir dans l'œuvre de Martianus
Capella, Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2003. Brigitte Englisch, Die
Artes liberales im frühen Mittelalter (5.-9. Jahrhundert). Das Quadrivium und
der Komputus als Indikatoren für Kontinuität und Erneuerung der exakten
Wissenschaften zwischen Antike und Mittelalter, Stuttgart Glauch, Die
Martianus-Capella-Bearbeitung Notkers des Deutschen, Tübingen 2000 (Münchener
Texte und Untersuchungen 116/117) (Max-Weber-Preis der BADW 1Sabine Grebe,
Martianus Capella, De Nuptiis Philologiae et Mercurii. Darstellung der Sieben
Freien Künste und ihrer Beziehungen zueinander, Stuttgart-Leipzig Fanny
Lemoine, Martianus Capella: a literary re-evaluation, München 1972. Claudio
Leonardi, I Codici di Marziano Capella, Milano 1960. R. Schievenin, Nugis
ignosce lectitans. Studi su Marziano Capella, Trieste 2009. D. Shanzer, A
Philological and Philosophical Commentary on Martianus Capella's De Nuptiis
Philologiae et Mercurii Book I, Berkeley-Los Angeles, University of California
Publications, 1986. William Harris Stahl, Richard Johnson and E. L. Burge,
Martianus Capella and the Seven Liberal Arts, Vol. 1: The Quadrivium of Martianus
Capella: Latin Traditions in the Mathematical Sciences (Columbia University
Press: Records of Civilization: Sources and Studies, 84), New York 1971.
Mariken Teeuwen, Harmony and the Music of the Spheres. The Ars Musica in
Ninth-Century Commentaries on Martianus Capella, Leiden Voci correlate Agogica
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di lingua latina[altre]
Grice e Capitini: l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia).
Filosofo italiano. Grice: “I love Capitini: his idea (or ‘paradigma,’ as he
prefers, echoing Plato and Kuhn) of ‘compresenza conversazionale’ is genial and
Griceian! Capitini abbreviates all my pragmatics in the ‘tu’ – or ‘noi,’ – “I
am born when I say ‘thou’’ – translated alla Buber – what more conversationally
implicaturish can THEE be? (I’m using West-Country puritan patois!”). Fu uno
tra i primi in Italia a cogliere e a teorizzare il pensiero nonviolento
gandhiano, al punto da essere chiamato il Gandhi italiano. Nato in una
famiglia modesta, Capitini si dedica dapprima agli studi tecnici, per necessità
economiche e, in seguito, a quelli letterari, come autodidatta. La madre lavora
come sarta e il padre era impiegato comunale, custode del campanile municipale
di Perugia. Ritenuto inabile al servizio militare per ragioni di salute, non
partecipa alla Prima guerra mondiale. Dopo gli studi della scuola tecnica e
dell'istituto per ragionieri, dai diciannove ai ventuno anni si dedica alla
lettura dei classici latini e greci, studiando da autodidatta anche dodici ore
al giorno, dando così inizio al suo ininterrotto lavoro di approfondimento
interiore e filosofico. In questi anni legge autori e libri molto diversi
tra loro, su cui forma la propria cultura letteraria e filosofica: Annunzio,
Marinetti, Boine, Slataper, Jahier, Ibsen, Leopardi, Manzoni, la Bibbia,
Gobetti, Michelstaedter, Kant, Kierkegaard (profondamente influenzato dal
Vangelo), Assisi, Mazzini, Tolstoj e Gandhi. In questo periodo aderisce quindi
al pensiero nonviolento del politico indiano. Vince una borsa di studio
presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nel curriculum universitario di
Lettere e Filosofia. Capitini critica aspramente il Concordato con la
Chiesa cattolica, da lui giudicato una "merce di scambio" per
ottenere da Pio XI e dalle gerarchie ecclesiali un atteggiamento
"morbido" nei confronti del fascismo. In uno dei suoi libri arriva ad
affermare che «...se c'è una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista è di
aver chiarito per sempre che la religione è una cosa diversa dall'istituzione.
Nominato segretario della Normale di Pisa. Durante il periodo trascorso a Pisa,
C. matura la scelta del vegetarianismo come conseguenza della scelta di non
uccidere, e ogni suo pasto alla mensa della Normale diventa un comizio efficace
e silenzioso, un'affermazione della nonviolenza in opposizione alla violenza
del regime fascista. Insieme a Baglietto, suo compagno di studi, promuove
tra gli studenti della Scuola Normale riunioni serali dove diffonde e discute
scritti sulla nonviolenza e la nonmenzogna. Allorché Baglietto, recatosi
all'estero con una borsa di studio, rifiuta di tornare in Italia in quanto
obiettore di coscienza al servizio militare, scoppia lo scandalo e il direttore
della Scuola Normale Giovanni Gentile, per reazione, chiede a C. l'iscrizione
al partito fascista. C. rifiuta e Gentile ne decide il licenziamento. Sergio
Romano scriverà: «Gentile e C. si separarono poco tempo dopo nella sala
delle adunanze del palazzo dei Cavalieri. Il filosofo disse di sperare che
"le future esperienze gli facessero vedere la vita e la realtà delle cose
sotto un aspetto diverso"; e C. rispose che non poteva fare altro che
contraccambiare l'augurio. Fu certamente una rottura. Ma non appena il giovane
pacifista uscì dalla sala, il filosofo si voltò verso Arnaldi, che aveva
assistito a questo scambio di battute, e disse "Abbiamo fatto bene a
mandarlo via perché, oltre tutto, è un galantuomo. Croce; in riferimento a lui
C. scriverà: «dal Croce può venire il servizio ai valori. Croce è greco-europeo, perché la civiltà
europea porta al suo sommo l'affermazione dei valori». A questo punto C. torna
a Perugia nella casa paterna, vivendo di lezioni private. Compie frequenti
viaggi a Roma, Firenze, Bologna, Torino e Milano per incontrare numerosi amici
antifascisti e intessere in questo modo una fitta rete di contatti. A Firenze,
a casa di Russo, ha modo di conoscere Croce, a cui consegna un pacco di
dattiloscritti che Croce apprezza e fa pubblicare nel gennaio dell'anno
seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo Elementi di
un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventano uno tra i
principali riferimenti letterari della gioventù antifascista. In seguito
alla larga diffusione del suo libro, C. promuove assieme a Calogero un
movimento culturale che negli anni successivi cercherà di trasformare in un
progetto politico atto a realizzare le idee di libertà individuale e di
uguaglianza sociale contenute negli "Elementi". Nasce così il
Movimento Liberalsocialista, in un anno segnato dall'assassinio dei Fratelli
Rosselli, dalla morte di Gramsci e da
una forte ondata di violenza repressiva contro l'opposizione antifascista. Alle
attività del movimento collaborano, tra gli altri, Ugo La Malfa, Amendola, Bobbio e Ingrao. La polizia
fascista effettua una retata nel corso di una riunione del gruppo dirigente
liberalsocialista, in seguito alla quale Capitini e gli altri partecipanti alla
riunione vengono rinchiusi nel carcere fiorentino delle Murate. Dopo quattro
mesi C. viene rilasciato, grazie alla sua fama di religioso. Quale tremenda
accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei
religiosi», commenterà più tardi. Nasce il Partito d'Azione, la cui
dirigenza proviene direttamente dalle file del liberalsocialismo. C. rifiuta di
aderire a qualsiasi partito, poiché a suo giudizio il rinnovamento è più che
politico, e la crisi odierna è anche crisi dell'assolutizzazione della politica
e dell'economia. Per il suo rifiuto di collocarsi all'interno delle logiche dei
partiti, C. rimane escluso sia dal Comitato di Liberazione Nazionale, sia dalla
Costituente, pur avendo lui dato un'impronta indelebile alla nascita della
Repubblica con il suo lavoro culturale, politico, filosofico e religioso di
opposizione morale al fascismo. C.viene nuovamente arrestato e rinchiuso,
questa volta, nel carcere di Perugia; viene definitivamente liberato. C.
cerca di realizzare un primo esperimento di democrazia diretta e di
decentralizzazione del potere, fondando a Perugia il primo Centro di
Orientamento Sociale, un ambiente progettuale e uno spazio politico aperto alla
libera partecipazione dei cittadini, uno spazio nonviolento, ragionante, non
menzognero, secondo la definizione data dallo stesso C.. Durante le riunioni
del COS i problemi di gestione delle risorse pubbliche vengono discussi
liberamente assieme agli amministratori locali, invitati a partecipare al
dibattito per rendere conto del loro operato e per recepire le proposte
dell'assemblea, con l'obiettivo di far diventare "tutti amministratori e
tutti controllati". A Partire da Perugia, i COS si moltiplicano in diverse
città d'Italia: Ferrara, Firenze, Bologna, Lucca, Arezzo, Ancona, Assisi,
Gubbio, Foligno, Teramo, Napoli e in moltissimi altri luoghi. Aldo
Capitini nel 1929 I Centri di Orientamento Sociale si sono diffusi sul
territorio nazionale, scontrandosi tuttavia con l'indifferenza della Sinistra e
con l'aperta ostilità della Democrazia Cristiana, che impediscono
l'affermazione su scala nazionale dell'autogoverno e della decentralizzazione
del potere sperimentati con successo nelle riunioni dei COS. Nel secondo
dopoguerra Capitini diventa rettore dell'Università per stranieri di Perugia
(come Commissario), un incarico che sarà costretto ad abbandonare a causa delle
fortissime pressioni della locale Chiesa cattolica. Si trasferisce a Pisa, dove
ricopre il ruolo di docente incaricato di Filosofia morale presso l'università
degli Studi. Parallelamente all'attività didattica, politica e
pedagogica, C. prosegue la sua attività di ricerca spirituale e religiosa,
promuovendo il Movimento di religione insieme a Tartaglia, singolare figura di
sacerdote scomunicato ed audace teologo, che però se ne allontanerà. Il
Movimento di religione organizza una serie di convegni con cadenza trimestrale,
che culminano con il "Primo congresso per la riforma religiosa"
(Roma). Pinna, dopo aver ascoltato C. in un convegno promosso a Ferrara
dal Movimento di religione, matura la sua scelta di obiezione di coscienza: è
il primo obiettore del dopoguerra. Pinna è processato dal tribunale militare di
Torino e a nulla serve la testimonianza a suo favore di Aldo Capitini. Pinna
subisce una serie di processi, condanne e carcerazioni, fino al definitivo
congedo per una presunta "nevrosi cardiaca". Si dimetterà dal suo
impiego in banca per raggiungere Danilo Dolci in Sicilia e dopo un anno si
trasferirà a Perugia per diventare il più stretto collaboratore di C..
Dopo l'arresto di Pinna, C. promuove una serie di attività per il
riconoscimento dell'obiezione di coscienza, convocando a Roma il primo convegno italiano sul tema. Il
Centro di Orientamento Religioso (COR) In occasione del quarto
anniversario dell'uccisione di Gandhi, C. promuove un convegno internazionale e fonda il
primo Centro per la nonviolenza. C. affianca ai Centri di Orientamento Sociale
il Centro di Orientamento Religioso (COR), fondato a Perugia con Emma Thomas
(una quacchera inglese di ottant'anni). Il COR è uno spazio aperto, in cui
trova espressione la religiosità e la fede di tutte le persone, i movimenti e i
gruppi che non trovavano posto nel Cattolicesimo preconciliare. Lo scopo dei
COR era quello di favorire la conoscenza delle religioni diverse dalla
cattolica, e di stimolare i cattolici stessi ad un approccio più critico e
impegnato alle questioni religiose. La Chiesa locale vieta la
frequentazione del Centro di Orientamento Religioso, e quando C. pubblica
Religione Aperta il libro viene immediatamente inserito nell'Indice dei libri
proibiti. Nonostante l'ostracismo delle alte gerarchie ecclesiali, C.
stabilisce ugualmente degli efficaci rapporti di collaborazione con alcuni
cattolici come Milani e Mazzolari. C. organizza a Perugia un convegno su
La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale e, insieme a Edmondo
Marcucciautore di Che cos'è il vegetarismo e, al pari di Capitini, mai iscritto
al partito fascistafonda la prima organizzazione nazionale di coordinamento
delle tematiche del vegetarianismo, la "Società vegetariana
italiana". La polemica tra C. e la Chiesa Cattolica continua anche
dopo il Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del libro Severità religiosa
per il Concilio. C. insegna all'Cagliari come docente ordinario di Pedagogia e
ottiene un definitivo trasferimento a Perugia. Tra i fondatori dell'ADESSPI,
l'Associazione di Difesa e Sviluppo della Scuola Pubblica in Italia. C. arriva
a chiedere al proprio vescovo di non essere più annoverato nella Chiesa, lui
profondamente religioso, della quale non condivideva più i metodi e le
idee. La prima Bandiera della pace Bandiera della pace
portata da C. nella prima marcia Perugia-Assisi, attualmente custodita presso
la Biblioteca San Matteo degli Armeni del comune di Perugia. C. organizza la
Marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli, un corteo nonviolento che si
snoda per le strade che da Perugia portano verso Assisi, una marcia tuttora
proposta in media ogni due/tre anni dalle associazioni e dai movimenti per la
pace. In questa occasione viene per la prima volta utilizzata la Bandiera della
pace, simbolo dell'opposizione nonviolenta a tutte le guerre. C. descrive
l'esperienza della marcia nel libro Opposizione e liberazione: «Aver mostrato
che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione
dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non
lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle
noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato
della Marcia». Aderiscono molte personalità, tra cui lo scrittore Calvino.
L'impegno di C. per la pace infranazionale e internazionale (con particolare
attenzione al pericolo atomico) lo coinvolse sempre più in una collaborazione
con Bobbio, il quale raccoglierà tali riflessioni nell'opera Il problema della
guerra e le vie della pace. Negli ultimi anni della sua vita Capitini
fonda e dirige un periodico intitolato Il potere di tutti, sviluppando i
principi di quella che lui definì "omnicrazia", la gestione diffusa e
delocalizzata del potere da lui contrapposta al centralismo dei partiti. In
questi anni C. promuove anche il
Movimento nonviolento per la Pace e il mensile "Azione nonviolenta",
l'organo di stampa del movimento, che attualmente viene pubblicato a
Verona. Dedito completamente al suo lavoro di divulgatore della
nonviolenza, C. non si sposò mai, per scelta, in modo da poter dedicare tutte
le proprie energie alla sua attività. C. muore circondato da amici e
allievi, dopo aver subìto un intervento chirurgico che consuma le sue ultime
energie. Il leader socialista Nenni scrive una nota sul suo diario: «È morto Capitini.”
Una eccezionale figura di studioso. Fautore della nonviolenza, disponibile per
ogni causa di libertà e di giustizia. Mi dice Longo che a Perugia e isolato e considerato
stravagante. C'è sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e C.
e andato contro corrente all'epoca del
fascismo e nuovamente nell'epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita
umana, ma bello». È sepolto a Perugia nella tomba di amici del C.O.R., insieme
a Thomas. Il pensiero Religione e laicità Il Mahatma Gandhi C. aveva
l'abitudine di definirsi un religioso laico. Egli accomunava la religione alla
morale in quanto essa critica la realtà e la spinge al cambiamentoin positivo.
Quella di Capitini era un'opposizione religiosa al fascismo. Il sentimento
religioso, inoltre, nasce nei momenti di difficoltà e sofferenza, in
particolare nel rapporto individuale con la morte. L'idea di laicità nasceva
dal distacco di C. dalla Chiesa cattolica, complice del regime: egli sosteneva
che col Concordato la Chiesa avesse legittimato il potere di Mussolini,
dimenticando le violenze squadriste e, in tal modo, lo sostenesse garantendo la
sua moralità di fronte alla maggior parte della popolazione che riponeva
fiducia nell'istituzione religiosa. C. è molto distante dalla religione
istituzionalizzata. Dio, come Ente, non esiste per C.: per evitare ogni
equivoco e marcare la distanza della sua concezione religiosa da quella
corrente, C. preferirà parlare di compresenza piuttosto che di Dio; per la
stessa ragione, per indicare la vita religiosa così intesa non parla di fede,
ma riprende da Michelstaedter il termine persuasione. C. si dichiara
post-cristianoevidente anche dal suo "sbattezzo"e non cattolico, ma
ama e si ispira alle figure religiose. Ogni figura con una profonda credenza,
anche laica, è per lui un "religioso". Egli nega con decisione la
divinità di Gesù Cristo: convinzione senza la quale non si può essere
cristiani. Contesta, come Tolstoj, tutti gli aspetti leggendari e non
dimostrabili dei Vangeli, compresa la Risurrezione. Ciò che apprezza sono le
Beatitudini, il modello spirituale di un agire verso gli ultimi. Gesù ha
insegnato dove può giungere una coscienza religiosa, è stato più di un uomo:
"fu anche lui, come tutti, un essere con certi limiti; ma d'altra parte fu
in lui, come in ogni altro essere, la qualità della coscienza che va oltre i
limiti, che è in lui come in un mendicante" scrive negli Elementi.
L'imitazione di Cristo secondo C. non è altro che realizzazione della propria
realtà umana. Si potrebbe ugualmente parlare di una imitazione del Buddha, d’Assisi,
di Gandhi, di Tolstoj e molti altri. Persuasione, apertura, compresenza,
omnicrazia Col termine "persuasione", ripreso da Michelstaedter e da
Gandhi, C. indica la fede, sia in senso laico sia religioso, la profonda
credenza in determinati valori ed assunti, e tramite essa, la capacità di
persuadere gli altri della bontà del proprio ideale. L'apertura è
l'opposto della chiusura conservatrice ed autoritaria del fascismo, e
l'elevazione dell'anima verso l'alto e verso Dio. Un concetto chiave
nella filosofia capitiniana era la compresenza di tutti gli esseri, dei morti e
dei viventi, legati tra loro ad un livello trascendente, uniti e compartecipi
nella creazione di valori. Nella vita sociale e politica la compresenza
si traduce in omnicrazia, o governo di tutti, un processo in cui la popolazione
tutta prende parte attiva alle decisioni e alla gestione della cosa pubblica.
La nonviolenza e il liberalsocialismo Non può mancare il concetto di
nonviolenza, un ideale nobile, sinonimo di amore, coerenza di mezzi e fini, la
forza in grado di sconfiggere il fascismo, che non è solo un regime, ma anche
un modo di essere violento e autoritario. Il liberalsocialismo di C. e di
Calogero si sviluppa in modo autonomo dal socialismo liberale di Carlo
Rosselli. Si forma infatti in un periodo posteriore, quando il regime fascista
è vicino al collasso, nell'ambiente dei giovani crociani che hanno studiato ed
insegnato alla Normale di Pisa, mentre il pensiero di Rosselli, che lo precede
temporalmente, essendosi forgiato nel fuoco della lotta antifascista, in Italia
e in Europa, già a partire dagli anni Venti, si iscrive in modo diretto nella
tradizione socialista. C. per liberalismo intende il libero sviluppo personale,
la libera ricerca spirituale e la produzione di valori. Il socialismo è invece
nei suoi intendimenti la realizzazione nel lavoro, l'assistenza fraterna
dell'umanità lavoratrice soggetto corale della storia. Anche se «...il
socialismo liberale di Rosselli è una delle eresie del socialismo, mentre il
liberalsocialismo è un'eresia del liberalismo» (Piane), si può affermare
tuttavia che entrambi condividessero la critica ai totalitarismi,sia di destra
che di sinistra, una visione laica della politica e l'obiettivo di una profonda
riforma morale e sociale dell'Italia distrutta dalla guerra. L'educazione
e la civiltà L'educazione "profetica" è quella di colui che, con uno
sguardo al futuro, è capace di criticare la realtà sulla base di valori morali,
anche a costo di sembrare fuori dal suo tempo. Con l'espressione "civiltà
pompeiana-americana" intende biasimare la mentalità materialista che vede
nel lusso e nel possesso la realizzazione delle persone. Il "tempo
aperto" è il tempo libero che ognuno potrebbe destinare alla discussione,
alla socializzazione, al raccoglimento, all'elevazione spirituale. A C. sono
intitolate strade in molte città di Italia: Perugia, Firenze, Roma, Pisa,
Milano, ecc Riconoscimenti A C. sono oggi intitolati un Istituto di
istruzione tecnica economica e tecnologica, un centro congressi a Perugia,
un'Aula magna all'interno dell'Cagliari, presso la Facoltà di Studi umanistici. Altre
opere: “Esperienza religiosa” Laterza, Bari); “Vita religiosa, Cappelli,
Bologna); “Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze); “Saggio sul soggetto
della storia, La Nuova Italia, Firenze); “Esistenza e presenza del soggetto in
Atti del Congresso internazionale di Filosofia (II ), Castellani, Milano); “La
realtà di tutti, Arti Grafiche Tornar, Pisa); “Italia nonviolenta, Libreria
Internazionale di Avanguardia, Bologna); “Nuova socialità e riforma religiosa,
Einaudi, Torino); “L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze); “Religione aperta,
Guanda, Modena); “Colloquio corale, Pacini Mariotti, Pisa); “Discuto la
religione di Pio XII, Parenti, Firenze); “Aggiunta religiosa all'opposizione,
Parenti, Firenze); "Danilo Dolci", Piero Lacaita Editore, Manduria);
“Battezzati non credenti, Parenti, Firenze); “Antifascismo tra i giovani,
Celebes editore, Trapani); “La compresenza dei morti e dei viventi, Saggiatore,
Premio Viareggio Speciale); “Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano
(rist. Linea D'Ombra, Milano 1989; rist. Edizioni dell'asino, Roma);
“Educazione aperta” La Nuova Italia, Firenze); “Il potere di tutti,
introduzione di N. Bobbio, prefazione diPinna, La Nuova Italia, Firenze); “Scritti
sulla nonviolenza, L. Schippa, Protagon, Perugia); “Scritti filosofici e religiosi,
M. Martini, Protagon, Perugia); “Il potere di tutti, Guerra Edizioni, Perugia);
“Opposizione e liberazione: una vita nella nonviolenza, Piergiorgio Giacché,
Napoli, L'ancora del Mediterraneo. Le ragioni della nonviolenza. Antologia
degli scritti, Martini, ETS, Pisa scheda; Lettere; "Epistolario di Aldo Capitini, 1"con
Walter Binni, L. Binni e L. Giuliani, Carocci, Roma (intr.di Martini). Lettere,
"Epistolario di C., 2"con Dolci, Barone e Mazzi, Carocci, Roma); La
religione dell'educazione: scritti pedagogici, Piergiorgio Giacché, La
meridiana, Molfetta); Lettere; "Epistolario di C., 3"con Calogero,
Casadei e Moscati, Carocci, Roma. L'atto
di educare, M. Pomi, Armando editore, Roma.
Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 4"con Edmondo
Marcucci, A. Martellini, Carocci, Roma.
Religione Aperta, M.Martini, Laterza, Roma-Bari. Lettere; "Epistolario di C., 5"con
Bobbio Polito, Carocci, Roma. Lettere
familiari, "Epistolario di C., 6"M. Soccio, Carocci, Roma. Un'alta passione, un'alta visione. Scritti
politici; L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia:
il potere di tuttiL. Binni e Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. La mia nascita è quando dico un tu, quaderno
per la ricercaLanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. Antifascismo tra i giovani, collana «Opere di
Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e
Fondazione Centro studi C., Firenze.
Nuova socialità e riforma religiosa, collana «Opere di C.», Il Ponte
Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi C.,
Firenze. La compresenza dei morti e dei
viventi, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con
Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze. Educazione aperta collana «Opere di C.», Il
Ponte ditore, Voll. 1-2, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro
studi C., Firenze. Note Incontro con il
"Gandhi" italiano, La Stampa; Il Gandhi Italiano, Panorama, Tale
soprannome è condiviso con altri, come Dolci e Corbelli C. ricorderà: «Gentile era impaziente che io
sistemassi le cose e me ne andassi, perché ero divenuto di colpo vegetariano
(per la convinzione che esitando davanti all'uccisione degli animali, gli
italianiche Mussolini stava portando alla guerraesitassero ancor di più davanti
all'uccisione di esseri umani): e a Gentile infastidiva che io, mangiando a
tavola con gli studenti, come continuavo a fare, fossi di scandalo con la mia
novità». (citato in Guadagnucci, Restiamo animali, Milano, Terre di mezzo);
Romano, C. e il pacifismo alla Scuola Normale, Corriere della Sera; C., La
compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano; Da Le lettere di religione in. C. Marcucci,
Che cos'è il vegetarismo?, Società vegetariana italiana; Angioni, Tutti dicono
Sardegna, Cagliari, Edes. Dal sito del COS fondato da C. Testimonianza di
Luciano Capitini, figlio del cugino di primo grado Piero, il parente più
stretto di C.; Vigilante, Religione e nonviolenza in C.; Martini, C. e le
possibilità religiose della laicità, Nuova antologia, Firenze (FI): Le Monnier,.
Aveva reso visita a Martinetti, ritiratosi nella sua villa di Spineto a
Castellamonte, con le cui concezioni religiose aveva una grande sintonia. Per un approfondimento, vedi i seguenti
testi: G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, Marzorati, Milano; Bovero,
Mura, Sbarberi, I dilemmi del liberalsocialismo, La Nuova Italia Scientifica,
Roma; C., Liberalsocialismo, e/o, Roma, che raccoglie una serie di scritti; Premio
letterario Viareggio-Rèpaci, su premio letterario viareggiore paci; Craveri, C.
Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Bobbio, La filosofia di C., Religione e politica in C., in Id.,
Maestri e compagni, Firenze, Passigli Editori, Areddu, La via italiana al
gandhismo in “Il Manifesto”, Antonio Areddu, Non violenza e utopia. C. ed
Bloch, in “Behemoth”, trimestrale di cultura politica; Zanga, C.. La sua vita, il suo pensiero,
Torino, Bresci; Capanna, Speranze, Rizzoli, Mario Martini, L'etica della nonviolenza e
l'aggiunta religiosa, in "Il Ponte", Martini, C. ispiratore di
Bucchi. La sintesi di pensiero del Colloquio corale, in "Esercizi Musica e
spettacolo", Antonio Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e
nonviolenza in Capitini, Foggia, Edizioni del Rosone; Martini, I limiti della
democrazia e l'aggiunta religiosa all'opposizione, in G. B. Furiozzi, Aldo
Capitini tra socialismo e liberalismo, Milano, Franco Angeli, 2001. Pietro
Polito, L'eresia di Aldo Capitini, prefazione di N. Bobbio, Aosta, Stylos,
2001. Giuseppe Moscati, La presenza alla persona nell'etica di Aldo Capitini:
considerazioni in alcuni scritti minori, in "Kykeion", n. 7, Firenze;
Tuscano, Pasquale, Poetica e poesia di C., Critica letteraria. Napoli: Loffredo;
Martini, Mazzini, C., Gandhi: una religione umanitaria per la democrazia, in
"Il Pensiero Mazziniano", Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta.
Biografia intellettuale di C., 1ª ed. BFS; Pisa, BFS; Martini, Laicità religione
nonviolenza, in M. Soccio, Convertirsi alla nonviolenza?, Verona, Il Segno dei
Gabrielli; Martini, Religiosità, ateismo
e laicità: la religione aperta, in D. Tessore, L'evoluzione della religiosità
nell'Italia multiculturale, Roma, Settimo Sigillo, 2003. Federica Curzi, Vivere
la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Assisi, Cittadella; Sanctis, Il
socialismo morale di C. Firenze, CET; Pedretti, Spirito profetico ed educazione
in C.. Prospettive filosofiche, religiose e pedagogiche del post-umanesimo e
della compresenza, Milano, Vita e Pensiero; Pomi, Al servizio dell'impossibile.
Un profilo pedagogico di Aldo Capitini, Firenze, La Nuova Italia, Tortoreto, La
filosofia di Aldo Capitini. Dalla compresenza alla società aperta, Firenze,
Clinamen; Cavicchi, C.. Un itinerario di vita e di pensiero, Bari, Piero
Lacaita; Martini, La nonviolenza e il
pensiero di C., in, La filosofia della nonviolenza, Assisi, Cittadella; Zazzerini, di Scritti su C., Perugia, Volumnia. Caterina
Foppa Pedretti, primaria e secondaria di
C., Milano, Vita e Pensiero, Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della
nonviolenza di Aldo Capitini, Torino, EGA, Vigorelli, La nostra inquietudine.
Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni, Paci, De Martino, Rensi, Untersteiner, Dal
Pra, Segre, C., Milano, Bruno Mondadori; Martini, Lo stato attuale degli studi
capitiniani, in "Rivista di storia della filosofia", Paolini Merlo,
La teoria della compresenza di Aldo Capitini. Fisionomia logica di una categoria
religiosa, in "Itinerari"; 'Erba, C., in Id., in "Intellettuali
laici", Padova, Martini, C. oltre il quarantennio della sua scomparsa. Una
rassegna, in "Quaderni dell'Associazione Diomede", n. 2,. Mario
Martini, Capitini, maestro di rigore intellettuale e politico, in "Il
Ponte"; Martini, C. e le possibilità religiose della laicità, in
"Nuova Antologia", Furiozzi, C. e Matteotti, Nuova antologia. APR.
GIU; Rigano, Religione aperta e pensiero nonviolento: C. tra d'Assisi e Gandhi, Mondo contemporaneo: rivista
di storia: 2, (Milano: Franco Angeli).
Polito, Pietro, editor; Impagliazzo, Pina, editor, Bobbio: testimonianze e
ricordi su Aldo Capitini, Nuova antologia: (Firenze (FI): Le Monnier). Martini,
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Binni e Marcelo Rossi), Numero speciale di “Il Ponte” n.4, luglio-agosto. Danilo Dolci Pietro Pinna Calogero Mahatma
Gandhi Nonviolenza; Abate; C. Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana; C. in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Aldo
Capitini, su sapere, De Agostini. Opere di C.,.
Associazione "Amici di C.", su citinv. Puntata de "La
grande storia", su rai; Tesi di laurea: Calogero, C., BobbioTre idee di democrazia per tre proposte
di pace, su peacelink. Predecessore Rettore dell'Università per Stranieri di
Perugia Successore Lupattelli commissario Sforza Filosofia Politica Politica Filosofo Politici italiani
Antifascisti italiani Perugia PerugiaAccademici italiani del XX secolo Attivisti
italiani Educatori italiani Nonviolenza Pacifisti Persone legate alla
Resistenza italiana Poeti italiani Politici del Partito d'AzioneSostenitori del
vegetarianismoTeorici dei diritti animali. con C. Questo
disegno di mani intrecciate in una stretta che cancella ogni differenza di
razza. Guttuso l'ha inviato a Capitini con l'augurio che la marcia della pace
sia un gesto che faccia profondamente riflettere gli uomini e dia
loro quel senso di responsabilità che non hanno. :he la "Normale" a
Pisa. Dopo la laurea e assistente ri... di. Momigliano, quin- co-
di segretario del collegio te, universitario. Ma Giovan- al- ni
Gentile mi ordina di pa- iscrivermi al partito fascista:cia e io rifiutai.
Venne cacciarle to. Torna a Perugia e visse on dando lezioni private. Il
suo ìon studio e uno sgabuzzino me della torre: i fascisti
(co¬ in- me poi faranno anche i ele¬ vo- ricali ) cominciarono a
chiamarlo il gufo. Ma era un gufo che da fastidio, che tene
contatti con antifascisti come Pintor, Banfi, Flora, Alicata, Ingrao,
Corona, Bufalini,. Ragghianti, Dessi, Natta, Spinella,
Casagrande, Agnoletti, Ramat, Calogero. Allora eravamo entrambi
radicai-socialisti — dice Calogero —: ma lui in senso laburista, io
rivoluzionario. Venne arrestato e portato a Firenze. C’era una
trama in tutta Italia, ricorda, ma non riuscirono a scoprirla. Dopo tre
mesi di carcere, e rimesso in libertà. Con l’aiuto di Croce pubblica “Elementi
di un'esperienza religiosa,” che, come scrìve un giornale e allora letto
e meditato da non pochi giovani che poi si ritrovano nella guerra
partigiana contro la repubblica di Salò e i tedeschi. E di nuovo
arrestato. Dopo la liberazione, pensa di iscriversi ai Partito
d'azione. poi non ne fece nulla . Ha un programma troppo limitato, di
tipo radical-repubblicano, che non della non-violenza. In Inghilterra ne
fanno una ogni anno, a Pasqua, ricorda, da Aldermaston a Londra. Il
corteo e lungo 5 chilometri: camminano in silenzio assoluto, soltanto un
tamburo batte le lettere “d” e “ n,” disarmo nucleare, in alfabeto morse.
Addirittura, le marce sono state due. Una è partita da Aldermaston, Tal
tra da Wetherfields, dove si trova una base della Nato. I due cortei
si sono fusi a Londra: c'è stata un'imponente manifestazione davanti al
ministero della Difesa. I dimostranti erano migliaia,
rappresentavano europei tutti uniti contro la guerra del nostro
inviato MAGAGNINI rale alTuniversità di Cagliari. Parlate il meno
possibile di me — dice —. Non è che io sia modesto, ma ho paura
delle contraddizioni. Sono su con gli anni, non posso camminare per
tanti chilometri. E’ seccante, ma è così. Organizzo la marcia è non vi partecipo.
Quand’ero giovane, invece. Cera un pretore ad Assisi, un amico mio,
un anti-fascista. Ogni giorno, si può dire, lo andavo a trovare a
piedi. Parla svelto: a prendere appunti, quasi si fatica a stargli
dietro. Piccolo, grassoccio, nasconde gl’occhi vivi sotto uno
spesso paio di lenti: tutto in lui è passione, energia, vitalità. A
Perugia abita in un attico, con un grande terrazzo, che superando
la parte nuova della città guarda verso Perugia, settembre PARTIRÀ’ da
Perugia, il 24 settembre, la prima « marcia della pace italiana. È una
marcia breve, 23 chilometri in tutto, fino ad Assisi. Ma non per
questo avrà minor significato, un minor valore. Vi parteciperanno
migliaia di persone: verranno da tutta l’Umbria, dal Lazio, dalla Toscana,
dalla Liguria, dall’altre regioni d'Italia. Cammineranno quasi in fila indiana,
sul lato sinistro della strada, per non turbare il traffico, perché da
noi solo per le processioni la polizia si mostra larga di
maniche e di vedute. Cammineranno in silenzio. Per loro, parleranno i
cartelli. Tutto per la pace, niente per la guerra. Più scuole niente bombe.
Viva la coesistenza pacifica. Libertà per i popoli coloniali. No all’imperialismo.
Liquidiamo il razzismo. Per la pace e la sicurezza disarmare la Germania.
Scuòle, case, ospedali : non armamenti. Fianco a fianco,
inarceranno comunisti, democristiani, socialisti, repubblicani, socia 1
democratici, radicali, uomini di ogni partito e di ogni condizione. Da
Genova, persino Un terziarie francescano ha inviato la sua commossa
adesione : verrò anch'io, non si può soltanto pregare..Padre
delTiniziativa è Capitini, filosofo. ALTRI nomi? Rossi, Donini, Ragghianti,
Peretti Griva, Gavazzani, Spini, Jemolo, Segre, Lombarde Radice, Borghi,
Bucchi, Carocci, Benedetti, Arpino, Guaita, Butitta, Zavattini. Sono
uomini politici, giornalisti, musicisti. scrittori, pittori, giuristi, docenti
universitari : sano tanti, non posso ricordarli tutti... Non
credevo che la iniziativa venisse subito cosi compresa : persino
dalla India mi hanno scritto, persino protestanti, quacqueri,
obiettori di coscienza. Capitini non ha avuto una vita facile. Perugino della
generazione di Gobetti », come ama definirsi, nacque da una povera
famiglia. Suo padre era il custode delia torre del campanile. Ero tanto
povero dice -rry che studiai in ritardo il latino. Frequenta
Anche in Olanda, nella Germania occidentale, negli Stati Uniti, nel
Canada, nella Nuova Zelanda fanno marce della pace. Da noi, in
Italia, niente. Così alcuni mesi or sono, durante un incontro fra amici, l'idea
divenne decisione. Ora, per raggravata situazione internazionale, essa
sta per essere finalmente realizzata. Quando parla delle adesioni, C.
si commuove. Sono tante, tante: ho ricevuto centinaia di lettere.
Un ragazzo mi ha chiesto se può portare un cartello con una frase di
Anna Frank. Benissimo, benissimo, gli ho risposto. E' lo spirito giusto.
Mi scrive gente del popolo operai contadini. Questa invece è di Guttuso (e
mostra una lette- campagna incredibilmente verde. Vive con la
vedova del fratello. Il suo studio è una stanza nuda, quasi un solaio,
con una stufa a legna e enormi finestre: alle pareti, grezzi scaffali carichi
di libri. Si dice socialista, ma non è iscritto ad alcun partito. E' uno
studioso di questioni religiose, ha pubblicato numerose opere, una delle
quali (Religióne aperta) è stata messa all'indice. Anti-cattolico, ha
fatto di Gandhi e San Francesco i suoi maestri. L'idea della marcia
gli venne molti anni fa, quando fondcPil Centro italiano. C., docente di
filosofìa morale a Cagliari, è l’organiziatore della marcia della pace, che
parte da Perugia, 11 24, alla volta di Assisi. à 15. Aldo Capitini.
Keywords: il noi, l’io, il tu, un tu, la compresenza conversazionale – il noi
conversazionale – il noi duale – la diada conversazionale – praesentis –
praesentia – presenza -- diada e compresenza – “io” e “non-io” – io e tu –
Hegel. Du, Thou, I and Thou, Buber, The ‘we’, -- the dual ‘us’ – both, entrambi
noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capitini” – The Swimming-Pool Library. Capitini.
Grice
e Carbonara – l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi
Speranza.
Carbonara Avant, do lutter pour la libertà de penser et pour
l'indépendance de sa patrie, il avaiti pour s'assurer le pain du jour,
endnré toutes les rigueurs matórielles et sociales; et de tant d’èpreuves
diverses, il était sorti plus vigoureux, plus courageux, plus convaiucu de ce
que peut et vaut la noblesse d’àme. Ausai ne saurait-ou contempler, sans
ètre à la foia touchó et fortifié, le tableau de ses souffrauces et de ses
victoires, na'ivemeut et inodesteraeut trace dans cette Vie et correspondance, qu’a
publiée lo lils qui porte si eonvenablemeut son illustre nom. con tutti i suoi
difetti, i suoi errori e, diciamolo pure, la sua oscurità — un vero
sistema. In esso trovi subito un’idea che l’ha generato tutto
quanto, che ne è il centro, l’anima e ne fa l’unità: idea ovunque
presente e ovunque feconda, da cui nascono il metodo, le divisioni, gli
svolgimenti, le applicazioni, e da cui germogliano in ogni direzione soluzioni,
buone o cattive, a tutti i problemi teoretici e pratici. Carbonara.
Grice e Capizzi: l’implicatura
conversazionale della topografia di Velia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Genova). Filosofo
italiano. Grice: “You gotta love Capizzi; he is the type of philosophical
intellectual we do not have at Oxford, where it is clever to be dumb! Capizzi
knows almost everything! His ‘Parmenids’s door’ is genial – and so is his
philosophy on Roman philosophy (‘il colosso romano,’ ‘Catone,’ ‘Roma madre,’
‘Roma e Sparta,’) – but my favourite is his tract on conversational implicature
which he entitles, in a most Italianate manner, ‘Per l’attualismo del dialogo’.”
Insegna a Villa Mirafiore, Roma. Si contraddistinse per l'accurato studio
storico e filologico dei filosofi italici (Velia, Crotone, Girgentu, Roma).
Contesta radicalmente le ricostruzioni ottocentesche del pensiero occidentale
del VI e V secolo a.C., che attribuiscono validità storica alle interpretazioni
di Aristotele e alla dossografia dipendente da Teofrasto. A questo scopo
collabora con il circolo urbinate di Gentili nello sforzo di inserire i
sapienti italici nelle tematiche concernenti le città, il pubblico, il
committente, l'evoluzione delle strutture sociali, il trapasso dalla tradizione
orale alla società della scrittura. Si forma alla scuola di Carabellese.
Ben presto entra nei circoli degli studiosi che gravitavano intorno ai filosofi
Spirito e Calogero. Insegna a Frosinone e Roma. Si evidenziandosi per
l'originalità delle vedute e la radicalità del temperamento. Coltiva due
interessi paralleli. Uno, da storico, per la sapienza italica arcaica,
che lo portò a contestare la narrazione dei italici fatta da Aristotele.
Questi, secondo lui, scrisse per esigenze di insegnamento del proprio pensiero
nell'ambito del Liceo, e non con lo scopo di ricostruire quanto realmente
accaduto. Dopo di lui, per un colossale equivoco, Teofrasto, i grammatici
alessandrini, Hegel, Zeller, Gomperz e Burnet protrassero una sistematica
falsificazione. Riprese, per contro, la lezione di Diels, Reinhardt, Cherniss,
McDiarmid e Kirk, i quali dimostrarono che Aristotele ha avuto solo interessi
speculativi. Aristotele, come tutti i filosofi, parla sempre e soltanto del suo
tempo, della cultura del suo tempo, dei problemi del suo tempo. Approfondendo
gli studi di Calogero sul “pre-logismo” italico, di Detienne sul mito
antropomorfico, di Havelock sulla diffusione della filosofia e di Colli sulla
sapienza pre-filosofica, fu il primo storico di formazione filosofica a
scoprire l'importanza della dimensione politica negli enigmatici frammenti dei
sapienti italici. Ritenne che, ogni volta che si studiano filosofi italici,
occorra privilegiare il rapporto tra ogni singolo autore e la sua singola
città: Velia, Crotone, Roma, Girgentu. L'altro interesse, preminentemente
teoretico, si svolse sui temi dell'attualismo, che tenta di superare
liberandolo dal presupposto interioristico e cogitativistico e proponendo di
passare alla interosggetivita della comunicazione, in particolare a quella
comunicazione protesa verso una risposta futura che è il dialogo o la conversazione.
Intransigente oppositore dell’assoluto hegeliano, nei sui saggi di maggior
rilievo filosofico, distinse la filosofia in "comica" e
"tragica". Per filosofia comica intende quella che presuppone una
struttura unitaria a priori della realtà, che pertanto analizza cose come
l'essere, l'uomo, la conoscenza, la ragione, che ignora i modi di essere delle
singole diada conversazionale, i tipi di uomo, i modi di conoscere legati ai
modi di vivere, le ragioni dei singoli gruppi esistenti in vari luoghi e in
vari momenti. L'altra filosofia, ampiamente minoritaria e controcorrente, è
quella che presuppone la pluralità delle culture, dei costumi, dei pensieri, e
che, avendo a che fare, nei vari momenti storici, con incontri e scontri di
alcune culture, alcuni costumi e alcuni pensieri, entra nell'età adulta del
dilemma tragico, della scelta tra due opzioni contrarie le quali, in assoluto,
non rappresentano il bene o il male, ma ciascuna il bene in un determinato
sentire che spesso coincide con il male di un sentire opposto. Altre saggi:
“Protagora. Le testimonianze e i frammenti); “Il libero arbitrio”; “Per un
attualismo del dialogo”; “Dall'ateismo all'umanismo: correnti incredule del
dopoguerra e loro prospettive dialogiche”); “Socrate e i personaggi filosofi di
Platone: uno studio sulle strutture della testimonianza platonica e un'edizione
delle testimonianze contenute nei dialoghi, Roma); “Impegno e disponibilità: la
doppia morale degli intellettuali di oggi); “I Presocratici. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Introduzione a Velia”, Roma-Bari, Laterza); “La
porta a Velia: per una lettura del poema”; “I Sofisti. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Sinfonia patriarcale. Storia antologica dela
filosofia maschile” Roma, Savelli editore); “La radice ideologica del fascismo:
il mito della libertà” (Roma, Savelli); “Socrate. Antologia di testi, Firenze,
La Nuova Italia); “Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura
dei frammenti); “La repubblica cosmica. Appunti per una storia non-peripatetica
della nascita della filosofia” (Roma, Edizioni dell'Ateneo); Platone e il suo
tempo, Roma, Edizioni dell'Ateneo); Forme del sapere nei presocratici, Roma,
Edizioni dell'Ateneo); L'uomo a due anime. Il comico-tragico adolescenziale”
)Firenze, La Nuova Italia); Il tragico in filosofia, Roma, Edizioni
dell'Ateneo); I sofisti ad Atene. L'uscita retorica dal dilemma tragico” (Bari,
Levante Editori); “Paradigma, mito, scienza” (Gruppo editoriale
internazionale); “Platone nel suo tempo. L'infanzia della filosofia e i suoi
pedagoghi”; “Corpo ed anima”, “Veleatismo”; Il 'mito di Protagora' e la
polemica sulla democrazia”; "A proposito di Parmenide e di Socrate
demistificati", in Il demistificatore"; "I italici furono ‘filosofi’?
L’origine dello specifico filosofico"; "Tracce di una polemica sulla
scrittura in Eraclito e Parmenide", "Cerchie e polemiche filosofiche
del V secolo", in Storia e civiltà dei Greci, III, Milano) "Veliadi Eliadi Meleagridi
Pandionidi: la metafora mitica in Parmenide" "Eraclito e Parmenide,
un tipico luogo comune"; "Parmenide", "Eschilo e
Parmenide", "Sono/fui;
sum-fui: oysia/physis; eimi/phyo: due concetti”; "Mente elevata e mente
profonda" in Il Sublime: contributi
per la storia di un'idea (Napoli); "Trasposizione del lessico omerico in
Parmenide ed Empedocle", in "Quattro ipotesi veleatiche/eleatiche",
"Di Pitodoro, di Omar, di Don Ferrante e anche degli aristotelici
attuali", Platone, Protagora, Firenze, La Nuova Italia.Partecipa con una
delegazione di professori ad un'assemblea a Roma. La discussione si fa animata
soprattutto con Rosario Romeo, professore di Storia Moderna, che prima lo
accusa di fiancheggiare gli "squadristi rossi" e poi lo schiaffeggia.
Gli Indiani metropolitani rincorrono Romeo al grido di "Compagno Capizzi,
te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo" In actual fact,
Odysseus and the charioteer are complete opposites.4 Antonio Capizzi thinks
that the journey is through the streets of Velia, out of the northern gates of
the city and down to the inlet where the Velians moored their ships.5 This...
I Romani, nel cui alfabeto figurava la V, non ebbero problemi di
trascrizione: influenzati probabilmente dalla Velia o Veliae del Palatino24,
modificarono in tal senso il Vele... Dichtersprache und geistige Tradition des studi sul pensiero italico, IPOTESI ELEATICHE.
Elea: nascita di un nome In epoca romana la città di Parmenide e di Zenone era
detta Velia o Veliae dagli scrittori latini (a partire da Cicerone ), Eléa da
quelli.. La porta di Parmenide. Due saggi per una nuova lettura del poema (=
Filologia e Critica). Edizioni dell ' Ateneo, Roma Diese Arbeit hat zwei
Kapitel, die mit „ Il proemio di P. e gli scavi di Velia “ bzw Giovanni
Casertano Antonio Capizzi. Tuttavia, Alcmeone fu... 132; Catalano, '
L'Asklepeion di Velia ', estratto dagli Annali del Pontificio Istituto
Superiore di Scienze e Lettere « Santa Chiara », Napoli, a pag la homoiòtes e
l'atrékeia, proponendosi di trasformare Velia (prima aggregato di corn, di
villaggi autonomi ) in una polis compatta e stabile. L'uomo. IL CARTESIO DI
GIANNONE. Un grande storico della filosofia C., La porta di Parmenide. Une
interprétation nouvelle de certains passages du poème de Parménid à la lumière
des fouilles de Velia. Eléa commencées par Napolil'uscita retorica dal dilemma
tragico C.. feste quinquennali Zenone ricomparve in città, e il...Pozzi PAOLINI,
Problemi della monetazione di Velia nel V secolo a. C., La parola del passato” e
ritiene l'argomento c irrilevante in quanto Parmenide poteva essersi ispirato
alla Velia reale anche in una metafora (p.... che si preoccupa di riu- -- nire
una città sotto una costituzione aristocratica, omogenea e proposta di una
diversa lettura dei frammenti Antonio Capizzi... del corpo sociale, doveva
conoscere bene anche quei gruppi di cittadini che usavano la scrittura nelle
loro ricerche scientifiche, come la scuola medico - astronomica di Velia. 1 tra
le vie e le porte di Velia, recentemente dissepolte; e i " mortali
ignoranti ” del fr. 6 tra i nemici non metafisici, ma politici, che insidiavano
la libertà della polis velina. Antonio Capizzi, incaricato di filosofia
teoretica presso l'Università di... un superdio – chi siede di fronte a te e
ogni moeclittico è già il proemio: di recente C. (La porta di...MACCHIONI Velia,
e Renzo Vitali (Una ricostruzione del Jodi ). poema, Faenza ) una allegorica e... da
dove nasce l’idea di un ciclo di convegni sulla figura di Parmenide proprio qui
dove Parmenide è vissuto? Mi pare di non potermela cavare con due parole
appena. Consideri solo questo, che i riflettori su Velia si accesero quando
Napoli pervenne a identificare la strada e la porta di Parmenide e,
contemporaneamente, Gigante pubblica sulla rivista “La Parola de Passato” una
nota, «Parmenidee», che attira l’attenzione su due iscrizioni anch’esse emerse
grazie agli scavi condotti da Napoli. Si gettarono allora le premesse per una
progressiva riscoperta della patria di Parmenide e Zenone. L’emozione dei
visitatori colti venne alimentata dalla memorabile foga con cui C. si dedica a
proclamare che non può capire Parmenide chi non ha visto gli scavi. La scoperta
del sistema viario che collega il quartiere meridionale con quello
settentrionale, di cui fanno parte la porta rosa e la porta arcaica, con il
conseguente disvelamento della topografia del sito, stimolano C., a una
rilettura affascinante del “Sulla Natura” parmideo. C., La porta di Parmenide,
Roma, e, dello stesso autore,
Introduzione a Parmenide, Bari. Il lavoro qui proposto è il risultato di anni
di confronto con il testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla
discussione con Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed esempio, e
alla cui vivacità e intelligenza d’approccio alla filosofia italica sono debitore
di non pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le origini di
questo specifico interesse su Velia, devo invece risalire agli anni
universitari pisani, alle lezioni di COLLI (si veda), nel periodo in cui i
volumi della “Sapienza italica” stano vedendo la luce presso l’editore Adelphi.
Il primo impatto con il filosofo velino avvenne infatti nei riferimenti alla
discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e all’origine della
filosofia, nonché attraverso la lettura del “Parmenide” platonico, proprio in
occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e
recenti editori dell’opera del sapiente di Velia: Tonelli e Giuseppe. Prima
dell’impegnativo lavoro di esegesi che ha richiesto una paziente frequentazione
delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia fatica si è concentrata
sulla restituzione di un testo che tenesse conto dei contributi originali degli
editori più recenti, conservando tuttavia, a dispetto delle molte suggestioni,
una coerenza complessiva. La traduzione non ha alcuna pretesa di conservare le
qualità letterarie del verso epico, puntando piuttosto alla massima prossimità
possibile ai termini e alla costruzione dei versi stessi. Il mio sforzo non
attende quindi riconoscimenti per originalità ed efficacia nella resa del testo
parmenideo: esso ha puntato piuttosto, sin dall’inizio, a ricostruire la fi-
sionomia di un’opera complessa, cercando di strapparla alle ipoteche
metafisiche da cui è stata spesso condizionata la lettura. Ho già avuto modo di
proporre le mie idee sulla posizione del “Sulla nautra” nel quadro della storia
della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo alla composizione della
presente edizione: Parmenide e la tradizione del pensiero arcaico (ovvero,
della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore
di Rossetti, a cura di Giombini e Marcacci (Aguaplano, Perugia). Parmenide e la
περὶ φύσεως ἱστορία, in Elementi eleatici, a cura di Pozzoni, Limina Mentis,
Villasanta (MB). Il lettore trova nel commento ai frammenti e nella
introduzione generale un’ampia difesa della lettura cosmologica del “Sulla
natura,” ma, allo stesso tempo, attenzione per le tracce delle interazioni di
Parmenide con la cultura del suo tempo: un campo d’indagine che ritengo ancora
del tutto aperto a nuove suggestioni. Nel presentare il risultato del mio
lavoro mi sia concesso ringraziare i miei genitori per il sostegno che non mi
hanno fatto mai mancare e che ha reso possibile le mie ricerche e i mei studi,
e Umbi e Gigì per la loro pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è
dedicata. Secondo quanto ci attesta Diogene Laerzio, Parmenide e autore di
un'unica opera, “οἱ δὲ κατέλιπον ἀνὰ ἓν σύγγραμμα· Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας. Parmenide lascia un unico scritto (DK). “Sulla
natura” e un poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la
titolazione di “Περὶ φύσεως”: ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ
Μέλισσος καὶ Π.... καὶ μέντοι οὐ περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν
φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς συγγράμμασι διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο
Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν. Parmenide intitola il suo poema “Sulla natura”. E certo
in questo poema tratta non solo di ciò che è oltre la natura. Tratt anche delle
cose naturali. Per questo non disdegna di intitolarli “Sulla natura”
(Simplicio; DK). Che in effetti tale intestazione puo risalire a Parmenide è
sostenuto da Guthrie, sulla scorta della parodia che ne fa Gorgia con il suo “Περὶ
τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως”. E comune la convinzione che, prima dei sofisti, la
designazione di un testo avvenne attraverso la citazione dell’incipit, che dove
risultare particolarmente incisivo, con l'indicazione del contenuto, preceduta
dal nome dell'autore sulla prima riga del testo. Analogamente a quanto
registriamo nel caso di Erodoto. Il trattato ippocratico Sull'antica medicina
riferisce la formula indentificativa -- “περὶ φύσεως” – sulla natura -- almeno
ai testi -- Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν. Empedocle di
Girgenti, e gli altri che scriveno sulla natura (De prisca medicina). È
opinione ampiamente condivisa che essa funziona, a posteriori, da etichetta per
classificare una certa tipologia di scritti, manifestandone il tema. In questa
direzione è possibile che, in particolare, la “Συναγωγή” di Ippia contribusce a
fissare un certo numero di categorie storiografiche tradizionali, tra cui
appunto la nozione unificante di “φύσις”. La denominazione “Περὶ φύσεως”, il
termine generico “φυσιόλογος”. Si tratta, infatti, di uno dei primi sforzi
dossografici, un'opera molto utilizzata da Platone e Aristotele intesa a
selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gl’enunciati
trovati in ogni genere testuale (poetico e [Guthrie, The Sophists, Cambridge, Naddaf,
The Greek Concept of Nature, SUNY, Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per
il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa. Balaudé,
Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei
Presocratici, a cura di Sassi, La Normale, Pisa. Gorgia ne avrebbe portato
avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli
insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia influenza direttamente Isocrate,
Platone e lo stesso Aristotele..]6 in prosa), di ogni epoca, per coglierne
convergenze e stabilire linee di continuità. In ogni caso, al di là della
discussione sull'attendibilità storica di quel *titolo*, non è contestato il
fatto che fosse individuabile un gruppo di autori περὶ φύσεως, impegnato, in
altre parole, in ricerche sulla natura delle cose. Sebbene risulti problematico
accertare se coloro che chiamiamo «filosofi» fossero consapevoli di contribuire
a una specifica impresa culturale, sottolineandola nell'intestazione o incipit
dei propri contributi, è tuttavia difficile negare che si fosse diffusa la
convinzione dell'esistenza di una tradizione di ricerca sulla natura – la “φυσιολογία”
-- iniziata con Talete. A quali contenuti ci si intendeva riferire con
l'etichetta “περὶ φύσεως”? Quale significato è da attribuire a tale
espressione? Secondo Naddaf, che al problema ha dedicato un'ampia indagine, con
ἱστορία περὶ φύσεως si dove intendere una storia dell'universo, dalle origini
alla presente condizione: una storia che abbraccia nel suo insieme lo sviluppo
del mondo, naturale e umano, dall'inizio alla fine. In effetti, origini e
sviluppo sono etimologicamente implicati in “φύσις” o “natura” di “natio”. Nella
forma attiva-transitiva, “φύω”, o “natio” – “nazione” --, il radicale del
sostantivo significa «crescere, produrre, generare». In quella medio-passiva-intransitiva,
“φύομαι,” (nascior), invece, «crescere, originare, nascere». La prima
occorrenza del termine sostantivo astratto femmile “φύσις” – cf. “natura” --,
nell’Odissea, si registra nell'ambito delle istruzioni, da parte da Mercurio a
Ulisse, per la preparazione di una «pozione efficace» (φάρμακον 5 Balaudé,
Leszl, Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to
the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy,
in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici.] ἐσθλόν)
contro gli effetti delle «pozioni velenose» (φάρμακα λύγρα) di Circe. Ulisse
racconta come Mercurio, estratta dalla terra (ἐκ γαίης ἐρύσας) una pianta
medicamentosa, “μῶλυ,” ne illustrasse la
natura – “καί μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε.” Per un verso, in quel contesto, il
sostantivo astratto “natura” o “φύσις” può apparire immediatamente sinonimo di
εἶδος, μορφή, φύη, termini ricorrenti in Omero indicanti la «forma»: è per
altro evidente, tuttavia, che quanto Mercurio rivela non riguarda semplicemente
l'aspetto esteriore, identificativo della pianta, piuttosto le sue effettive
qualità e la costituzione interna da cui esse discendono. In particolare Mercurio
si riferisce alla radice, nera, da cui cresce il fiore dal colore opposto,
bianco. Omero o Ulisse utilizzano il termine astratto “natura,” quindi, per
denotare non tanto la forma fenomenica, né propriamente quella che potremmo
anacronisticamente definire l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la
radice), differente da quel che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo).
In questo senso il termine astratto “natura” – that Austin hated (“The De
deorum natura, -- what else can Cicero speak, and in what way is this different
from De dei?) “natura”, o φύσις occorre nelle più antiche citazioni della
sapienza: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ
ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν
ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ
φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα
ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται. Di questo logos che
è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia
subito dopo averlo udito. Sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si
mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali
quelle che io presento, analizzando ogni cosa SECONDO NATURA [KATA PHYSIN] e
mostrando come è. Ma agli altr’uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno
da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno
dormendo (Sesto Empirico; DK) φύσις δὲ καθ’ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ [la
natura, secondo Eraclito, ama è solita nascondersi (Temistio; DK). Sebbene
nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione “κατὰ φύσιν” sia per lo
più resa dagli interpreti moderni intendendo φύσις come «natura, essenza»,
incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico
sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il fenomeno. In questa accezione
la natura o φύσις – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn ha marcato,
invece, come la formula del frammento di Eraclito attesti già un uso tecnico a
ozioso del termine “natura” nel linguaggio contemporaneo, per designare il
«carattere essenziale» di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe.
La comprensione della «natura» di una cosa – e non la comprensione della cose
-- passerebbe attraverso la ricostruzione del suo processo di sviluppo.
Analogamente Naddaf valorizza la dimensione dinamica implicita nella “natura” o
φύσις: «la costituzione reale di una cosa così come si realizza – dall'inizio
alla fine – con tutte le sue proprietà» Se ora torniamo al trattato ippocratico
sull'Antica medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza di una
produzione a posteriori classificata come περὶ φύσιος, possiamo evincere dal
contesto alcuni elementi del modello: Λέγουσι δέ τινες καὶ ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς
οὐκ ἔνι δυνατὸν ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις μὴ οἶδεν ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος·ἀλλὰ τοῦτο
δεῖ καταμαθεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς θεραπεύσειν τοὺς ἀνθρώπους. Τείνει δὲ αὐτέοισιν
ὁ λόγος ἐς φιλοσοφίην, καθάπερ Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ 8 M.L. Gemelli Marciano,
Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques,
«Philosophie Antique» (Présocratiques), Kahn,
Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett, Naddaf] περὶ φύσιος
γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος, καὶ ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως
ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων μὲν ὅσα τινὶ εἴρηται σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ
φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ προσήκειν ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ
φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς. Alcuni medici e
sapienti [sofisti] sostengono che nessuno possa conoscere la medica a meno di
non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò debba conoscere colui che intenda
curare correttamente gl’uomini. Il loro discorso verte dunque sulla filosofia,
proprio come NEL CASO DI EMPEDOCLE DI EMPEDOCLE DI GIRGENTI E DEGL’ALTRI
FILOSOFI COME PARMENIDE CHE SCRIVENO SULLA NATURA: che cosa sia dal principio
l'uomo, come sia stato dapprima generato e come costituito. Io ritengo che
quanto è stato scritto da medici [FISICI] e filosofi sulla natura abbia più a
che fare con il disegno che con la medicina [L’ARTE DEI FISICI]. Ritengo che in
nessun altro modo si possa conoscere qualcosa di chiaro sulla natura se non
attraverso la medicina (De prisca medicina). L'autore, evidentemente polemico,
marca in effetti lo scarto tra indagine medica – da parted ai fisici -- e
indagine περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera contrappone all'approccio di
coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι) – cioè
speculazioni - per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν
μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ καὶ ὁδὸς) della
medicina (ARTE FISICA), in altre parole le «scoperte» (τὰ εὑρημένα) avvenute
nel corso del tempo e l'osservazione. Per avere un'idea più precisa
dell'impostazione alternativa che egli anda criticando, possiamo leggere un
altro trattato ippocratico – il De carnibus – il cui estensore sottolinea di
prendere le mosse da convinzioni condivise (κοινῇσι γνώμῃσι): Περὶ δὲ τῶν
μετεώρων οὐδὲ δέομαι λέγειν, ἢν μὴ τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω καὶ τὰ ἄλλα ζῶα,
ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο, καὶ ὅ τι ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, 11 Naddaf,
op. cit., pp. 24-25. 10 καὶ ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν,
καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει. Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto
necessario a mostrare, rispetto all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si
sono generati e sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e la
malattia, che cosa sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus
1). Il passo rivela quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις
contro cui polemizza l'Antica medicina – ARS FISICA) nella tradizione della ἱστορία
περὶ φύσεως: lo schema adottato è infatti il seguente: Originaria caoticità e
indistinzione di tutte le cose; Processo di discriminazione degli elementi
(etere, aria, terra); Formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra
formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente
costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione
teogonica. Ciò risulta confermato dall'autore anonimo del “Della dieta”, De diaeta: Φημὶ δὲ δεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς
ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον μὲν γνῶναι καὶ διαγνῶναι· γνῶναι μὲν ἀπὸ
τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται· εἴ τε γὰρ τὴν
ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται, ἀδύνατος ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα γνῶναι·
εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον ἐν τῷ σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται τὰ ξυμφέροντα τῷ
ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν Affermo che colui che intenda scrivere correttamente sul
regime di vita dell'uomo deve prima conoscere e riconoscere LA NATURA a di
tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal principio,
riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti quella
composizione originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa generato; se
poi non conosce quel che prevale nel corpo, non sarà in grado di prescrivere
all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta I, 2) Conoscere «la natura di tutto
l'uomo» (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del corretto intervento medico. Ciò
implica evidenemente conoscere (i) quanto costituisce originariamente l'uomo (ἀπὸ
τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per rintracciarne e riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’
ἐκείνων γιγνόμενα), e (ii) le componenti che lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν
κεκράτηται). Conoscere LA NATURA comporta, insomma, risalire alla composizione
originaria e al successivo processo. Significativamente questa riduzione al
principio riconduce «tutte le cose» a due elementi originari, fuoco e acqua:
Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα πάντα καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν
μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν, πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος I viventi e
tutte le altre cose e anche l'uomo sono composti da due elementi, l'uno ha il potere
di differenziare, l'altro il temperamento che combina: intendo il fuoco e
l'acqua (De diaeta I, 3) L'analogia tra formazione biologica dell'individuo
umano (nel senso dell'odierna embriologia) e processi di strutturazione
dell'universo (cosmogonia), è un dato riscontrato anche nelle testimonianze
relative ad Anassimandro e autori pitagorici, oltre che nei precedenti mitici
12: l'antropologia non poteva prescindere dalla antropogonia, come la
cosmologia dalla cosmogonia. Altre tracce antiche del modello Se queste
indicazioni - ricavate dalla letteratura scientifica risalente plausibilmente
al V-IV secolo a.C. – consentono di farsi un'idea circa la ricezione antica
della περὶ φύσεως ἱστορία e dunque dell'argomento cui i pensatori arcaici
avevano dedicato le loro opere, alle origini della letteratura filosofica,
prima che il modello si affermasse e consolidasse definitivamente nella
narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne era stato tracciato in un celebre
passo del Fedone platonico: Naddaf, ἐγὼ γάρ, ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς
ἐπεθύμησα ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι περὶ φύσεως ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ
μοι ἐδόκει εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου, διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ
τί ἀπόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente
affascinato da quella sapienza che chiamano indagine sulla natura. Mi sembrava
fosse magnifico conoscere le cause di ogni cosa, perché ogni cosa si generi,
perché si corrompa e perché esista (96a). Il filosofo racconta la storia della
fascinazione esercitata (non è chiaro se effettivamente sul protagonista
Socrate o sullo stesso autore) da una forma di sapere – evidentemente già
riconoscibile e dunque assestato, come rivela la formula impiegata («che
chiamano», ἣν δὴ καλοῦσι) - in grado di rispondere agli interrogativi sulla
generazione e corruzione, e così di dar ragione dell'esistenza di ciascuna
cosa. Anticipando lo schema del primo libro della Metafisica aristotelica,
Platone disegna una storia della sapienza incentrata sull'efficacia della esplicazione
causale, nella quale intende marcare la svolta radicale rappresentata dalla
propria «seconda navigazione» (δεύτερος πλοῦς): il filosofo non discute la
necessità di ricondurre le cose alla loro ragion d’essere; contesta invece la
riduzione limitata all’orizzonte delle cause fisiche, per Platone insufficienti
a dar adeguatamente conto del perché della disposizione del tutto. È probabile
che, pur attingendo a raccolte dossografiche organizzate in ambito sofistico,
egli ne adottasse il materiale in modo creativo, allo scopo di giustificare e
valorizzare una prospettiva filosofica peculiare13. Un'ulteriore attestazione
dell'originaria accezione dell'espressione περὶ φύσεως ἱστορία ritroviamo, tra
i contemporanei di Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista
come Senofonte: Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of Intellectual
Genre, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, οὐδεὶς
δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ ἀνόσιον οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε λέγοντος
ἤκουσεν. οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ πλεῖστοι,
διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ τῶν σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις
ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων Ma nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire
alcunché di irreligioso o empio. Egli infatti non si interessava della natura
di tutte le cose, alla maniera della maggior parte degli altri, indagando come
è fatto ciò che i sapienti chiamano "cosmo" e per quali necessità si
produca ciascuno dei fenomeni celesti (Senofonte, Memorabili). Non solo appare
assodata - a livello di opinione diffusa - (i) la sostanziale equivalenza tra
sapienza e ricerca «sulla natura di tutte le cose» (περὶ τῆς τῶν πάντων
φύσεως), ma anche (ii) la funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως [...]
κόσμος ἔχει), e ulteriormente (iii) l'attenzione per la spiegazione di fenomeni
specifici (ὅπως [...] τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων). Una
"istantanea" che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del
naturalismo presocratico è infine costituita dal frammento dell’Antiope di
Euripide (fr. 910 Nauck)14: ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν
ἐπὶ πημοσύνην μήτ’ εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως
κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν
ἔργων μελέδημα προσίζει 14 A. Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur
la construction d’une catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks
et C. Louguet, Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic
Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord)
Beato è colui che alla ricerca ha dedicato la sua vita; egli né i suoi
concittadini danneggerà né contro di loro compirà atti malvagi, ma, osservando
della immortale natura l'ordine che non invecchia, ricercherà da quale origine
fu composto e in che modo. Tali individui non saranno mai coinvolti in atti
turpi. In questo caso, addirittura, abbiamo il privilegio di veder sottolineato
dal poeta il nesso tra contemplazione (καθορᾶν) dell'«ordine che non invecchia»
(κόσμον ἀγήρων) della «natura immortale» (ἀθανάτου φύσεως) e ricostruzione
delle sue modalità di formazione. A dispetto degli aggettivi coinvolti - ἀθάνατος
e ἀγήρως (di uso omerico ed esiodeo) – evidentemente il κόσμος oggetto
d'attenzione – l'ordinamento attuale dei fenomeni – è percepito come il
risultato di un processo di composizione (πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e il
suo studio non può prescindere dall'indagine (speculativa) sulle sue tappe. Il
modello peripatetico Della περὶ φύσεως ἱστορία la storiografia peripatetica ha
certamente fissato il canone interpretativo che ha pesato su tutta la
tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia,
infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro che per primi filosofarono»
(τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la convinzione che «principi di
tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων) fossero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς
ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così argomentando: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ
οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης
τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων,
καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης
φύσεως ἀεὶ σωζομένης 15 ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro
essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono,
permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni,
questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo
credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale
natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3 983 b8-13) Nella lettura di
Aristotele, la specificità del contributo dei «primi filosofi» risiederebbe
nella riduzione degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα) soggetti a divenire alla stabilità
della φύσις soggiacente, ovvero, come lo stesso Aristotele precisa: ὥσπερ φασὶν
οἱ μίαν τινὰ φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν, οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ τούτων
come affermano coloro che sostengono che il tutto [l'universo] è una certa,
unica natura, quale l'acqua o il fuoco o qualcosa di intermedio (Fisica),
all'unità di una sostanza materiale originaria, «elemento» (στοιχεῖον) e
«principio» (ἀρχή) delle cose (τῶν ὄντων). Il quadro si definisce ulteriormente
nella ricostruzione che Teofrasto propone delle origini in Anassimandro: [A.]
[...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα
κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι
στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς
καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς
ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας
κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον
δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν
ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου
τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ 16 ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου
κινήσεως. Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e elemento delle cose
che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene,
infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti
elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i
cieli e i mondi in essi: «è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui
le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione; esse,
infatti, pagano la pena e reciprocamente il riscatto della colpa, secondo
l’ordine del tempo. Così si esprime in termini molto poetici. È evidente allora
che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non
ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto
qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla
alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del
movimento eterno (Simplicio; DK). Senza
scendere nel dettaglio dell'analisi, la testimonianza e la citazione lasciano
intravedere chiaramente alcuni punti su cui si sarebbe concentrata l'indagine
del Milesio: l'individuazione di un principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων)
sottoposte a generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (ii) la formazione –
nel linguaggio peripatetico della testimonianza - degli «elementi» (στοιχεία),
costitutivi materiali da cui (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le cose hanno la loro
generazione, e verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι)
la loro corruzione; (iii) le modalità del processo dalla natura originaria,
attraverso gli elementi, agli enti: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών),
secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν); (iv) il perché, la
causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i
contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Le
osservazioni di Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine περὶ
φύσεως, un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia
originaria (secondo l'interpretazione 17 di Burnet15), ma si rivolge almeno
anche ai processi di formazione delle «cose che sono» (come pensava Jaeger,
accostando φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente ciò doveva conferire alla
ricerca quella caratteristica impronta speculativa da cui l'autore dell'Antica
medicina prendeva le distanze. Che l'interesse non dovesse comunque risolversi
in una mera dimensione archeologica e abbracciare invece anche i risultati dei
processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è suggerito da varie fonti.
Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente netto il focus
cosmologico: οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς
ἀρχῆς καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης
γίνεται τὸ ὅλον, καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου,
τῆς δ’ ὑποκειμένης ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς
θερμήν, τῆς δὲ γῆς ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν
κόσμον γεννῶσιν. Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla natura,
indagarono, circa il principio materiale e la causa siffatta, che cosa e quale
fosse, e in che modo da questa si generasse l'intero, e da che cosa il
movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso,
poiché la materia sostrato ha una certa siffatta natura per necessità, ad
esempio calda quella del fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra
pesante; in questo modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti
degli animali, Trad. Carbone, BUR Rizzoli, Milano). La ricerca περὶ φύσεως
degli «antichi primi filosofi» (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες) sarebbe
stata variamente modulata intorno a: 15 J. Burnet, Early Greek Philosophy,
Black, London, Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia,
Firenze (i) natura e proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς);
individuazione della causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος); modalità di
generazione dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo» (τὸν
κόσμον γεννῶσιν). Parmenide e la φύσις Tornando ora alla titolazione del Poema
parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno contribuito a trasmetterne
citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo molto
probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) – sono
univoche nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto le
affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ
Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle di Sesto: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης ἐναρχόμενος
γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον «Il discepolo di lui (=
Senofane), Parmenide iniziando appunto
il Peri physeōs scrive in questo modo» (Adv. Math.). Si tratta ora di capire
entro quali schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di
Parmenide nella tradizione περὶ φύσεως. Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία
Prescindendo dagli inquadramenti della produzione per noi frammentaria di
Gorgia e Ippia, alla collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della
sapienza antica pensò per primo Platone. Delineando in un lungo passo del
Sofista, che costituisce indubbiamente l'antecedente diretto della disamina 19
dossografica aristotelica, il panorama delle teorie dell’essere, egli introduce
di fatto alcune categorie destinate a grande fortuna storiografica: l'occasione
è fornita proprio da un rilievo su Parmenide: Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν
διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ κρίσιν ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα
τε καὶ ποῖά ἐστιν Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide
e tutti coloro che a un certo punto si sono impegnati a determinare gli enti:
quanti e quali enti esistano. L’opposizione tra pensatori pluralisti e unitari,
e la «battaglia di giganti» (γιγαντομαχία) tra coloro che riducono «tutto a
corpo» (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al contrario, pongono l'essere (οὐσία)
«nelle idee» (ἐν εἴδεσιν), sono fatte scaturire proprio dai problemi (πόσα τε
καὶ ποῖά ἐστιν, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal Poema.
L'ottica "ontologica" adottata non può nascondere, nel contesto, il
riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e, in particolare, l'equivalenza tra ὄντα
e ἄρχαί17: Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί μοι διηγεῖσθαι παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν
ὡς τρία τὰ ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα
γιγνόμενα γάμους τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς τῶν ἐκγόνων παρέχεται· δύο δὲ ἕτερος
εἰπών, ὑγρὸν καὶ ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ ψυχρόν, συνοικίζει τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι Mi
sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo bambini: l'uno [racconta]
che gli esseri sono tre, alcuni di essi talvolta sono in qualche modo in lotta
reciproca, talvolta al contrario, diventano amici, si sposano, fanno figli e
procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece, sostiene che [gli esseri]
sono due - umido 17 Su questo punto Cordero nel suo commento a Platon, Le
Sophiste, traduction et presentation par Cordero, Flammarion, Paris; Palmer,
Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford. e secco ovvero caldo
e freddo -, li fa convivere e li unisce in matrimonio. È appunto all'interno di
questo ampio disegno di ricostruzione della tradizione di pensiero precedente
che Platone fa della «stirpe eleatica» (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18 il prototipo del
“monismo”. È chiaro nel contesto come esso sia, tuttavia, da intendere non
ingenuamente - non come se esistesse una sola cosa -, ma in riferimento alla
discussione sulla realtà fondamentale: alcuni pongono tre principi, altri due,
gli Eleati uno solo: τὸ δὲ παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι
πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς ἑνὸς ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω διεξέρχεται τοῖς
μύθοις da noi la stirpe eleatica - che ha avuto inizio da Senofane e anche
prima – riferisce le proprie storie secondo cui ciò che è chiamato
"tutto" [tutte le cose] non è che un solo essere (Sofista).
Nell'intenzione di Platone, ricondurre l'eleatismo a Senofane era probabilmente
funzionale alla sua collocazione entro un dibattito culturalmente definito19:
nella prospettiva di questa ricerca, in particolare, risulta significativa la
scelta di non isolare il contributo di Parmenide dallo sfondo d'indagine sui
principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι). In termini analoghi il Parmenide (180a) delinea
le posizioni di Parmenide e Zenone: σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν ἓν φῂς εἶναι τὸ
πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια παρέχῃ καλῶς τε καὶ εὖ· ὅδε δὲ αὖ οὐ πολλά φησιν εἶναι,
τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς πάμπολλα καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν τὸν μὲν ἓν
φάναι, τὸν δὲ μὴ 18 È probabile che la genealogia sfumata del gruppo eleatico (ἀπὸ
Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον) fosse motivata dall'intenzione di
accentuare la "profondità" (l'antichità) della dottrina di Parmenide
in direzione delle origini. Su questo il commento di Fronterotta in Platone,
Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano; Palmer, πολλά, καὶ οὕτως
ἑκάτερον λέγειν ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά
Tu [Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno,
e porti prove di ciò in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece,
sostiene che i molti non esistono, e anche lui porta prove molto numerose e
consistenti. Il primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i molti non
esistono: così ciascuno parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di
simile, mentre in realtà affermate le stesse cose, mentre il Teeteto sottolinea
la continuità tra Parmenide e Melisso: καὶ ἄλλα ὅσα Μέλισσοί τε καὶ Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι
πᾶσι τούτοις διισχυρίζονται, ὡς ἕν τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον
χώραν ἐν ᾗ κινεῖται e le altre [dottrine] che i vari Melissi e Parmenidi
propongono con convinzione, opponendosi a tutti costoro [i sostenitori della
dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose sono uno e questo
rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui muoversi. Ciò che questi
passi confermano è – almeno nell’elaborazione della maturità di Platone - la
riduzione della dottrina di Velia alla formula ἓν τὸ πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con
un’implicita valenza cosmologica che si affaccia, oltre che in Parmenide, nel
Sofista: Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ καὶ Παρμενίδης λέγει, πάντοθεν εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι
βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ, [Sulle fasi della ricezione platonica di
Parmenide è oggi fondamentale J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, cit..
22 τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε καὶ ἔσχατα ἔχει, ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη
μέρη ἔχειν Se allora è un intero, come sostiene anche Parmenide: «da tutte le
parti simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di
ugual consistenza: è necessario infatti che esso non sia in qualche misura di
più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra», essendo tale ciò
che è avrà un centro e dei limiti estremi, e, avendoli, necessariamente avrà
parti, e che il Timeo sembra esplicitare21, riferendo l'opera di produzione del
cosmo da parte del demiurgo: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ
δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς
ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς
τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν
τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ
πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν
γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν
περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς
ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ
οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν - οὐδὲ γὰρ ἦν - αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ
φθίσιν παρέχον καὶ πάντα ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης
γέγονεν E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura
congeniale al vivente che doveva contenere in sé 21 Secondo le indicazioni di
Palmer sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo. 23 tutti i
viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure
possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni
parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di
tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più
bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno
per molte ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era
rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da
sentire; né vi era intorno aria, che dovesse essere respirata, né aveva bisogno
di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo
averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato
prodotto in modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione
e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni passione. Indizi lessicali che
invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide una sorta di
entità cosmica23, nell'interpretazione platonica modellata secondo il
precedente della divinità cosmica di Senofane24. Come ha prospettato Brisson25,
la stessa discussione del Parmenide potrebbe essere imperniata
sull'alternativa: (a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica
(ἓν εἶναι τὸ πᾶν) – come sarebbe stato affermato da Parmenide; la molteplicità
degli enti è solo apparente, dal momento che la loro pluralità reale
condurrebbe a paradossi: in questo senso «i molti non esistono» (οὐ πολλά εἶναι)
- secondo quanto argomentato da Zenone; 22 Platone, Timeo, introduzione,
traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano. Passa, Parmenide.
Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 24.
24 Su questo punto Palmer, Brisson, Introduction a Platon, Parménide,
présentation et traduction par L. Brisson, Flammarion, Paris. esistono
realmente molteplici realtà sensibili, esse sono componenti dell'universo a
loro volta costituite da componenti elementari26. Eccentricità di Parmenide
nella περὶ φύσεως ἱστορία Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica,
Aristotele, riprende uno schema platonico, contrapponendo «coloro che
sostennero che uno solo è il sostrato» (οἱ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον) a
«coloro che ammettono più principi» (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι), ribadendone poi
(nel quinto capitolo) le implicazioni cosmologiche, in conclusione della
discussione sui Pitagorici: τῶν μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα
τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν ἐστι θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν· εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ
τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως ἀπεφήναντο, τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε
τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν φύσιν. Da queste cose è possibile intendere a
sufficienza il pensiero degli antichi che sostenevano la pluralità di elementi
della natura. Ci sono poi coloro che parlarono del tutto [dell'universo] come
di un'unica natura, ma non tutti allo stesso modo, né per convenienza né per
conformità alla natura, Evidentemente in relazione a Parmenide e ai suoi
seguaci, Aristotele osserva: εἰς μὲν οὖν τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς
συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ γὰρ ὥσπερ ἔνιοι τῶν φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι
τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ ἑνός, ἀλλ’ ἕτερον τρόπον οὗτοι λέγουσιν· ἐκεῖνοι
μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν, γεννῶντές γε τὸ 26 Ivi, p. 21. 25 πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον
εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν γε οἰκεῖόν ἐστι τῇ νῦν σκέψει. Una discussione
intorno a costoro esula dall’esame attuale delle cause: essi, infatti, non
parlano come alcuni dei naturalisti, i quali, posto l’essere come uno, fanno
comunque nascere [le cose] dall’uno come da materia; essi parlano, invece, in
altro modo. Mentre quelli, in effetti, aggiungono il movimento, facendo nascere
il tutto [l’universo], questi, al contrario, sostengono che [il tutto] sia
immobile. Almeno quanto [segue], tuttavia, è appropriato alla presente ricerca
(986 b12-18). Nell'ambito di una indagine sulle cause e sui principi primi, il
confronto con le dottrine eleatiche non avrebbe dovuto trovare spazio: in
questo senso è marcata una radicale differenza rispetto alla ricerca dei
«naturalisti» (ἔνιοι τῶν φυσιολόγων). Essendosi espressi «sull'universo [sul
tutto] come fosse un'unica natura [realtà]» (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης
φύσεως), «immobile» (ἀκίνητον) e immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano
pensato incausato27. In De Caelo si sottolinea ulteriormente la peculiare
posizione di Parmenide e Melisso: Οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας
καὶ πρὸς οὓς νῦν λέγομεν ἡμεῖς λόγους καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν. Οἱ μὲν γὰρ
αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον γένεσιν καὶ φθοράν· οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί φασιν οὔτε
φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ μόνον δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε καὶ
Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα λέγουσι καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι
λέγειν· τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας
καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως. Ἐκεῖνοι δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν τῶν
αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν εἶναι, τοιαύτας δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις, εἴπερ
ἔσται τις γνῶσις ἢ φρόνησις, οὕτω μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους 27
Perplessità analoghe sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli
della Fisica (I, 2 e 3). 26 Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno
alla verità sono stati in disaccordo sia rispetto ai discorsi che noi
proponiamo, sia reciprocamente. Gli uni, infatti, eliminarono completamente
generazione e corruzione: sostengono in vero che nessuna delle cose che sono si
generi o si corrompa, ma semplicemente che ciò sembra a noi. Così i seguaci di
Melisso e Parmenide, i quali, anche se si esprimono adeguatamente sulle altre
cose, tuttavia non si deve credere che parlino da un punto di vista fisico, dal
momento che l'essere alcuni degli enti ingenerati e completamente immobili è
proprio piuttosto di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica.
Costoro, invece, da un lato non ritenevano esistesse altro oltre la sostanza
dei sensibili, dall'altro per primi pensarono delle nature di tale specie, se
doveva esserci una qualche forma di conoscenza o intelligenza: così
trasferirono su questi enti [sensibili] i ragionamenti riferiti a
quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1 298 b12-24). Alludendo esplicitamente
a Melisso e Parmenide, Aristotele ne disloca il contributo rispetto a una
ricerca incardinata sulla ricostruzione dei processi di «generazione e
corruzione» (γένεσις καὶ φθορά): considerare gli enti «ingenerati» (ἀγένητα) e
«completamente immobili» (ὅλως ἀκίνητα) è proprio «di un'indagine diversa e
prima rispetto a quella fisica» (μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς
σκέψεως). Eppure l'analisi della Metafisica rivela come, secondo Aristotele,
l’eleatismo presentasse al proprio interno incrinature e fratture che
l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica doveva aver coperto o
trascurato28. Nel primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) – dopo aver discusso
«l'opinione circa la natura» (περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα) dei pensatori orientati a
ricercare la causa prima (περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in ambito materiale (di cui
Talete sarebbe stato «i- 28 J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy,
OUP, Oxford 2009, p. 35 giustamente sottolinea come i raggruppamenti operati da
Gorgia nel suo Sulla natura o sul non essere avessero incoraggiato
l'assimilazione "riduttiva" di Parmenide e Melisso. Aristotele
avrebbe avuto il merito di recuperare le differenze tra le relative posizioni.
27 niziatore», ἀρχηγὸς) – lo Stagirita marca una discontinuità nel contributo
di Parmenide, capace di individuare la causa specifica del mutamento (τῆς
μεταβολῆς αἴτιον): οἱ μὲν οὖν πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι τῆς μεθόδου τῆς τοιαύτης
καὶ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον οὐθὲν ἐδυσχέραναν ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί γε
τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν
εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν
τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μετα βολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν
ἴδιόν ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν φασκόντων εἶναι τὸ πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην
συνιδεῖν αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν
ἀλλὰ καὶ δύο πως τίθησιν αἰτίας εἶναι· Coloro, dunque, che fin dall’inizio
aderirono completamente a tale tipologia di ricerca e sostennero che uno solo è
il sostrato, non si resero conto di questa difficoltà, ma alcuni di coloro che
affermano tale unicità, quasi sopraffatti da questa ricerca, sostengono che
l’uno è immobile e che lo è anche la natura nel suo complesso, non solo
rispetto a generazione e corruzione - questa è, infatti, [convinzione] antica,
su cui tutti concordavano -, ma anche rispetto a ogni altro genere di
mutamento. Questa è loro peculiarità. A nessuno, pertanto, di coloro che
affermarono che il tutto [l’universo] è uno è capitato di scoprire tale
tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a costui nella misura in cui
pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in un certo modo due. È
significativo che, illustrando queste affermazioni di Aristotele nel proprio
commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di Afrodisia citi Teofrasto:
τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης (λέγει δὲ [καὶ] Ξενοφάνην) ἐπ’ ἀμφοτέρας
ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι
πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ 28 ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν
ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς
τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς
ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Venuto dopo costui (si riferisce a Senofane),
Parmenide - figlio di Pyres, velino da Velia - percorse entrambe le strade.
Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la
generazione degli enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo:
piuttosto sostenendo, secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e di
aspetto sferico; ponendo invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo di
spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi
siano due, fuoco e terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK
28 A7). Condizionata dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la
valutazione del contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla prospettiva
della περὶ φύσεως ἱστορία: non solo per l'attenzione alla «natura nel suo
complesso» (τὴν φύσιν ὅλην), al «tutto uno» (ἓν τὸ πᾶν), ma soprattutto per
l'evidenza della «ricerca dell'altro principio» (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν),
cioè del «principio del movimento» (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per «spiegare la
produzione dei fenomeni» (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo
senso Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di
pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a «rivelare
ai Greci l’indagine intorno alla natura» (τὴν περὶ φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν
ἐκφῆναι) 29 agli atomisti30. 29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano
1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di
Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i
commentatori aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro
(secondo quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle -
«ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e
Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς
φιλοσοφίας, DK 28 A8). 29 Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di
vista cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31
e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue
le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo
successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le
principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie
aristoteliche)32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra
registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si
sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del
sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi
diversi33. Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è da
Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ παντὸς
ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le ricadute interessanti anche
«sull'indagine in corso intorno alle cause» (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων).
Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (κατὰ τὸν
λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di
determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν ὕλην),
come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a
essere partigiano dell'Uno» (πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta
riconosciuto maestro di Parmenide – si sarebbe invece limitato, volgendosi
«all'universo nel suo 30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene,
Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo
riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è
stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla
cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf,
op. cit., p. 138. D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza,
David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal
universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The
Greek Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its
earliest critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.). 32 Un’ampia discussione
della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura
ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano
1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol.
II, cit., p. 327. 30 insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità
(τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν). Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel
Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di
Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus
"aitiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo
grossolani» (μικρὸν ἀγροικότεροι), egli infatti sottolinea: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον
βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν
οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν),
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione,
pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia
fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere (986 b27-987 a1). Nella ricostruzione aristotelica due sarebbero i
cardini della dottrina parmenidea: (i) la convinzione circa l'unità dell'essere
(ἓν οἴεται εἶναι) - da un punto di vista razionale (κατὰ τὸν λόγον) necessaria
(ἐξ ἀνάγκης), imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra essere e
non-essere: «non esiste ciò che non è al di là di ciò che è» (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ
μὴ ὂν οὐθὲν εἶναι); (ii) la presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così,
secondo noi, è da intendere l'espressione greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν τοῖς
31 φαινομένοις (letteralmente «costretto a essere guidato dai fenomeni [cose
che appaiono]»). Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità
(πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo
Parmenide a introdurre «due cause e due principi» (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς),
ciò legittimando la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di
una lettura che trova conferma nella dossografia successiva, anche in un
autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione accademica,
relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν
φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν
τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ
τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν.
ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ < ὲς ἦτορ
>’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ
πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν
καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide]
non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è
proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo
"essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per
uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in
quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile
vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge
l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei
mortali in cui non è vera certezza» [B1.29-30], perché esse sono congiunte con
cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come
avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e 32 l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus
Colotem 1114 d-e). Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente
significative perché intervengono a correggere l'interpretazione
"melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui
«Parmenide cancella ogni cosa postulando l'essere uno» (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν
ὑποτίθεσθαι τὸν Παρμενίδην): è appunto contro questo fraintendimento che il
platonico attribuisce anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della
realtà in «intelligibile» (τὸ νοητόν) e «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), avendo in
precedenza ricordato lo sforzo del Poema di produrre un «sistema del mondo»
(διάκοσμον), in conformità con quanto ci si poteva attendere da un «naturalista
arcaico» (ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ
στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ
τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ
σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν
φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν
Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la
tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in
effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta
anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti,
come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno
scritto proprio – non distruzione di un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28
B10). Questa testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione
dossografica antica, sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da
quella) - il tema del Poema parmenideo fosse anche la φύσις (nel senso sopra
sommariamente ricostruito), seb- 33 bene se ne registrasse la
"eccentricità" 34 e quindi la problematica riducibilità al paradigma
della περὶ φύσεως ἱστορία. Tra ricerca περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας
Aristotele, introducendo l’indagine «sull’essere in quanto essere» (περὶ τὸ ὂν ᾗ
ὂν), su ciò che appartiene «a tutte le cose in quanto enti» (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι),
la differenzia rispetto a ricerche più specifiche: ciò che la connota è,
infatti, accanto alla eziologia propria di ogni sapere, l'apertura alla
totalità della realtà. Riguardo alla περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua
posizione è più sfumata: l'originale speculazione sull’«essere in quanto
essere» è proposta, infatti, in continuità con la precedente tradizione: ἐπεὶ δὲ
τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν, δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον
εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς
ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς ἀλλ’ ᾗ ὄν·
διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς πρώτας αἰτίας ληπτέον Dal momento che
ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente come esse riguardino
necessariamente una certa natura [realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che
ricercano gli elementi delle cose ricercavano questi principi, è necessario che
fossero anche gli elementi dell'essere non per accidente ma in quanto essere.
Per questo motivo dobbiamo comprendere le cause prime dell'essere in quanto
essere» (Metafisica IV, 1 1003 a26-32). «Gli elementi costitutivi delle cose
che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) – nella misura in cui sono intesi come
principi di tutte – 34 Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la
tradizione del pensiero arcaico (ovvero della sua eccentricità), in Il quinto
secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S.
Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia] risultano in effetti «elementi
dell'essere in quanto tale» (τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν), costitutivi di tutto
ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale comune alla «scienza
dell'essere in quanto essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e all'indagine dei
φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di realizzazione:
«ricercare i principi e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας
ζητεῖν) della realtà. Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele rileva
come «alcuni dei fisici» (τῶν φυσικῶν ἔνιοι) si fossero mostrati evidentemente
consapevoli di «ricercare sulla natura [realtà] nella sua interezza e
sull’essere» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος, Metafisica
IV, 3 1005 a32- 33), intendendo quindi la «natura» come una totalità omogenea
(dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà
riconducibili a principi universali. Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν
coincidessero, che la φύσις cioè costituisse «tutta la realtà», quei «fisici»
avrebbero manifestato interesse per gli «assiomi» (ἀξιώματα), i principi più
generali di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς
οὖσιν), la cui discussione non è di competenza dello specialista (che si limita
ad applicarli) ma appunto della «ricerca del filosofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου
[σκέψεως]). Il riferimento è indeterminato ed è stato precisato in modo diverso
dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per
la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in
considerazione del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente
sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi dei «segni»
(σήματα), delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia con l'insistenza sulla
reciproca implicazione di verità ed essere. Natura, essere, verità Lo
Stagirita, in effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione
veritativa di fondo: 35 ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν
τῶν ὄντων ἐλθόντας καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας consideriamo comunque
anche coloro che prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e
hanno filosofato intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1), Espressioni come
«coloro che dapprima filosofarono intorno alla verità» (οἱ μὲν οὖν πρότερον
φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che
«indagarono la verità intorno agli enti» (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν,
Metafisica IV, 5 1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla
natura come indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione
circa ciò che è Realtà 35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito
«all’indagine sugli enti» (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto convinti che la
natura fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla natura [realtà] nella
sua interezza» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni
«sull’essere» (περὶ τοῦ ὄντος): ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν
καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας,
καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι
γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον
εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Coloro che per primi hanno ricercato
secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati
come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che
delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera
origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35 W. Leszl, Parmenide e
l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università
degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 16. 36 impossibile da entrambi i punti di
vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che
non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga
da sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono
che non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191
a25 ss.). Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui
principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν),
Aristotele (i) intende la riflessione dei primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι)
come indagine a un tempo sulla natura e sulla verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ
τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e (ii) attribuisce il loro "sviamento", la loro
erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας).
Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la
difficoltà segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato
la riduzione a elementi base (questo appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα)
36. In tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei «fisici» un filo
conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È
significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin
dall'antichità 37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione
posteriore a quella di Parmenide) emergesse già la consapevolezza
dell'inadeguatezza del tradizionale repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di
Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος, nel primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως
nel secondo; e che in ambi- 36 Su questo in particolare Palmer, Parmenides
& Presocratic Philosophy, cit., pp. 130 ss.. 37 È tradizionalmente riconosciuto
che l'intenzione dello scritto gorgiano era di ribaltare le tesi eleatiche (per
esempio, W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, pp. 270-271). I
due resoconti dell'opera – quello di Sesto Empirico (che ci fornisce anche la
titolazione completa) e quello dell'Anonimo del De Melisso, Xenophane et Gorgia
(forse I secolo d.C.) – potrebbero dipendere da Teofrasto ed essere stati
semplicemente elaborati in modo diverso. In alternativa, per la seconda
redazione, si è supposta la mano di un peripatetico antico (si veda la nota di
M. Untersteiner in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M.
Untersteiner, con la collaborazione di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009,
p. 234). 37 to sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας
e Ἀλήθεια sono le titolazioni attribuite alle opere principali rispettivamente
di Antifonte e di Protagora). Aristotele, in ogni caso, con la formula
«indagine sulla verità» intende un’indagine sulla realtà genuina, tesa ad
accertare quale essa sia, spingendosi oltre le apparenze che la occultano38.
Illuminante un passo di De generatione et corruptione: Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν
λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν καὶ παριδόντες αὐτὴν ὡς τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν,
ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί φασι καὶ ἄπειρον ἔνιοι· τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν
πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως καὶ διὰ ταύτας τὰς αἰτίας ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας·
ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν λόγων δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν, ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ
παραπλήσιον εἶναι τὸ δοξάζειν οὕτως A partire dunque da questi ragionamenti, e
spingendosi oltre la sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe
seguire il ragionamento, alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno,
immobile e infinito: il limite, infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro,
dunque, in questo modo e per queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora,
alla luce dei ragionamenti sembra che queste cose accadano così; alla luce dei
fatti, invece, il pensare così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione
et corruptione I, 8 325 a13ss.). Qui Aristotele stigmatizza, per la sua
paradossalità (sintomatico il riferimento alla «follia»), una forma di
«razionalismo eleatico» 39 che, nel riferimento all'infinito, appare
sostanzialmente melissiano40: il contributo all'indagine sulla verità
scaturisce da una 38 Leszl, op. cit., p. 17. 39 Così Migliori, Aristotele, La
generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento di M.
Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p. 200. 40 Non è un caso che Reale
abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero e proprio
frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione,
introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia, pp. 98-104.
38 ricerca volta alla comprensione della realtà naturale nel suo insieme (τὸ πᾶν).
Una ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed
"epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la
determinazione della realtà genuina dipende da considerazioni di ordine
gnoseologico (delineate nella contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν
πραγμάτων). Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come rivelano le
letture antiche) della possibilità che l'espressione τὸ ἐόν («ciò che è» ovvero
«l'essere»), di cui si definiscono proprietà strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον)
«senza morte» (ἀνώλεθρον), «tutto intero» (οὖλον), «uniforme» (μουνογενές),
«saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) – si riferisca a quel che Aristotele indica come τὸ
πᾶν, il Tutto dell’universo41: Parmenide, nel suo sforzo di evitare le
incongruenze colte nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del
mondo naturale42, avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto,
omogeneo, immutabile campo dell’«essere», così spingendo la filosofia naturale
ai limiti di logica e metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una
trattazione περὶ τῆς ἀληθείας44: la prima sezione del Poema si apre e si chiude
con chiare menzioni della Verità – intesa come la Realtà oggetto
dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico dell'opera tràdita
riflette la tensione tra il resoconto genuino di quella realtà e una sua
accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che gli uomini ne hanno. 41
Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit., p. 54.
Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction,
présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996, p. 182 – osserva
come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia
dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è
espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des
Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Vandenhoeck
& Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare rilievo le pagine
260-1. 42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare
comunque in ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles and
Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175. 44 Leszl, op.
cit., p. 19. 39 Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso del poema di
Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo registrare: (i) lo
squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'esposizione
dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato» (διάκοσμον ἐοικότα πάντα,
B8.60) doveva essere assai più consistente di quella (la prima) relativa al
«percorso di Persuasione, che si accompagna a Verità» (Πειθοῦς κέλευθος - Ἀληθείῃ
γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4); (ii) il costante richiamo, nell'introduzione del διάκοσμος,
a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e proprio
programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra l'altro in sintonia con
il modello poetico esiodeo della Teogonia45: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν
αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν
ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ
καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄
ἔχειν ἄστρων. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della
pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e
le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua]
natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e
come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. 45
L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I,
4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai
precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore. 40 Che
l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως ἱστορία
sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come
appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è
allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda
sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'obiettivo
dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente
conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza
cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα: χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità
ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti
(B1.28b-32). La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà
genuina (Ἀληθείη), tradizionale appannaggio divino, e (ii) denunciare le
infondate (senza «reale credibilità», πίστις ἀληθής) «opinioni dei mortali»
(βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla condizione e
comprensione umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza
antica: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον· οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα
τρέφει ἀνθρώποιο [πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει.] οὐ μὲν γάρ
ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ· ἀλλ’
ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι, 41 καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ.
τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε
θεῶν τε. Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla è più
inconsistente dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla terra
camminano e si muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà, fin
quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece gli
dei beati infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con
animo paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra,
quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII,
129-137) θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν il mortale deve
pensare cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) ἄρα θεὸς μὲν οἷδε
τὴν ἀλήθειαν δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται soltanto dio conosce la verità, a tutti
è dato solo opinare (Senofane, DK 21 A24). Ma il programma non si esaurisce
nella contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur
limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica -
per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini:
letteralmente «cuore che non trema» (ἀτρεμὲς ἦτορ) di «Verità ben rotonda» (Ἀληθείης
εὐκυκλέος ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», εὐπειθέος) - è
certamente occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος)
l’inattendibilità delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema,
appare tuttavia funzionale anche alla presentazione di un resoconto
alternativo, plausibile (δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα): a
dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile
delinearne una sintesi compatibile con la lezione di verità della prima
istruzione. Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura
convinto della bontà del punto di vista espresso negli attuali frammenti,
ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως tracciatavi, anche perché i rilievi del testo
richiamano puntualmente i divieti di B2-B8: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος
καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le
cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive
proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno
ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla (B9). Discorso affidabile e ordinamento
verosimile Eppure il passaggio tra le due sezioni è marcato in modo
inequivocabile: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ
τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo
termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando
che può ingannare (B8.50-2). 46 Lesher, op. cit., p. 240. 43 In questi versi si
incrociano le due prospettive che Parmenide tenta di salvaguardare all'interno
della tradizionale opposizione tra umano e divino: (i) da un lato la
"superiore" ottica della divinità, che si esprime in un logos degno
di fiducia: svolgendo rigorosamente la propria disamina dall'alternativa «è e
non è possibile non essere»-«non è ed è necessario non essere», esso riconosce
che: ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον·
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές senza nascita è
ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un
tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo
(B8.3b-6a), (ii) dall'altro i punti di vista umani, molteplici e concorrenti,
insidiosi e potenzialmente dispersivi: è esplicitamente all'interno di questo
orizzonte che la Dea introduce la seconda sezione: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento,
del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei
mortali possa superarti. Nessun resoconto cosmologico, nella misura in cui si
riferisca alle vicende di una molteplicità di enti in divenire (instabili e
mutevoli), può essere considerato completamente affidabile, come, invece, il
discorso su «ciò che è» (τὸ ἐόν), sulla realtà colta come totalità (unitaria,
immutevole, essendo nel suo complesso tutto ciò che è). Per valutare
correttamente l'impresa parmenidea dobbiamo tenere conto di due elementi: 44
(a) del contributo scientifico47 (prevalentemente in campo cosmologico48)
riconosciuto a Parmenide nell’antichità: ancora una volta è interessante
soprattutto il fatto che Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta
della sfericità della Terra: ἀλλὰ μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ
τὴν γῆν στρογγύλην, ὡς δὲ Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον
[in riferimento a Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la
terra sferica; per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo, e che
altre fonti risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e
Lucifero (DK 28 A40a): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον
ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι
πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos,
lo stesso da lui chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto
questo, nella parte ignea che chiama cielo, gli astri, e sulla natura solare
della luce della Luna: Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ
φωτίζεται 47 Per una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La
riscoperta del vero Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla
natura, introduzione, testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999,
BUR Rizzoli (in particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The
Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press,
Princeton and Oxford 2006, pp. 179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato
come il modello cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse essere
influenzato da una prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce
di una «antropogonia», attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G.
Naddaf, The Greek Concept of Nature, cit., pp. 137-138. 45 Parmenide [dice che]
la luna è uguale al sole: da esso è infatti illuminata (DK 28 A42); (b)
dell'evidente contrasto tra la condanna della confusione "mortale"
tra le due vie: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν,
πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non
essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso
torna all'indietro (B6.8-9) οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα Mai questo
sarà forzato: che siano cose che non sono (B7.1), ovvero dell’irrisolta
opposizione nelle cosmogonie correnti (ioniche? pitagoriche?): μορφὰς γὰρ
κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν
Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non
è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4),
e la sottolineatura (nel già citato B9) della riduzione omogenea all'essere
delle forme introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ
ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ
φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché
tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le
rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è
pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché
insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). 46 La distinzione tra i due
momenti dell'istruzione divina sembra quindi consapevolmente delineare due
distinte forme di conoscenza: (a) la certezza della comprensione razionale –
evocata dalla reiterazione di νοεῖν (comprendere, concepire, pensare) e νόος
(intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come κρῖναι δὲ λόγῳ («giudica
con il ragionamento») - degli attributi universali di «ciò che è» (τὸ ἐόν, il
complesso della realtà colto come tutto-intero); (b) la plausibilità di una
conoscenza – l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei frammenti
attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire "empirica",
dal momento che si concentra sulla natura delle cose che incontriamo nella
nostra esperienza49. In realtà il quadro è più complesso, perché fortemente
condizionato da una cornice religiosa che deve indurre cautela. Intanto, quella
che abbiamo indicato come «conoscenza razionale» (via d'accesso privilegiata
alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una rivelazione (B1) che
costituisce il contesto dell'intera esposizione del Poema, e che pone immediatamente
(B2) le premesse da cui dipendono i ragionamenti successivi. Come avremo modo
di sottolineare nel commento, tale rivelazione non appare un semplice
escamotage poetico, estrinseco rispetto alla comunicazione di verità, ma, al
contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la condizione di continuità
entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il loro statuto50. Un
elemento andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C. (che,
infatti, non ci ha conservato citazioni dal proemio), ma in sé di grande
interesse per la collocazione culturale dell'Eleate e per la valutazione del
suo contributo. L'oggetto di tale conoscenza - τὸ ἐόν – appare, a sua volta,
nei frammenti sia come risultato di una costruzione logica: 49 Lesher, op.
cit., p. 241. 50 Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova
edizione (La pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe
et Philosophie chez Parménide. 47 ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ
ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito
dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare
l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che
l’altra invece esista e sia reale (B8.15b-18), sia come concrezione di una
sintesi intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità degli
enti: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον Considera
come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi
completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4). In questo
secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla
presenza-assenza degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile
presente dell'uno: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,
συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno,
continuo (B8.5-6a) e il divenire - scandito da passato, presente e futuro –
degli altri: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι 48 καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
τελευτήσουσι τραφέντα Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose
ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine
(B19.1-2). Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino riflettano
l'originale rielaborazione parmenidea della tensione, implicita nella cultura
delle origini, tra la dimensione temporale delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα
τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le cose che sono, le cose che sono state e le
cose che saranno», Iliade I, 70) e quella peculiare alla concezione arcaica del
divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, «dei che sono sempre», Iliade I, 290)51. La
distinzione ben delineata nei frammenti tràditi, come abbiamo visto, è quella
tra: (i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che scaturisce dal giudizio razionale su τὸ
ἐὸν: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario: essere è infatti possibile, il
nulla, invece, non è (B6.1-2a); (ii) la verosimiglianza del resoconto
cosmologico, che pur legittimato dalla parola divina: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento,
del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei
mortali possa superarti (B8.60-1) si rivolge all'origine e sviluppo di fenomeni
prodotti dall'azione celeste: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα
51 Ivi, p. 102. 49 σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν
ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν Conoscerai la
natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente
Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai
periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura (B10.1-5a), e,
ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici (in questo senso alle
condizioni generali del mondo naturale): εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν
ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων conoscerai anche
il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidando
lo vincolò a tenere i confini degli astri (B10.5b-7). La certezza è prodotto
del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος) associato a Verità (Ἀληθείη)
ed essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste sulla necessità di tale sapere,
chiaramente correlata a immutabilità, identità e stabilità del suo oggetto. La
ricostruzione del διάκοσμος ἐοικώς riflette, d'altra parte, la mutevolezza dei
fenomeni fissati dall'arbitrio delle denominazioni umane: in questo senso,
rispetto all'affidabilità del «percorso di Persuasione» che manifesta la
genuina realtà (la Verità), essa è proposta dalla Dea come κατὰ δόξαν, «secondo
opinione». Essere e natura in Parmenide Nel proprio schema (Metafisica I, 5 986
b27-987 a1) - che già abbiamo commentato - Aristotele aveva dunque colto
sostanzialmente nel segno: 50 Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ
γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο
οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν
τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων
εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ
καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto,
egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto
tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i
molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo
sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere. La lettura aristotelica
suggerisce, infatti, che l'oggetto – apparentemente diverso - delle due sezioni
del Poema sia in verità identico, sebbene prospettato secondo differenti
modalità gnoseologiche: «secondo ragione» (κατὰ τὸν λόγον) e «secondo
sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Una considerazione puramente razionale fa
emergere la realtà (naturale) come uno-tutto; il riferimento all'esperienza
manifesta la pluralità dei fenomeni: nel primo caso il livello di astrazione fa
perdere di vista i connotati fenomenici e risaltare i tratti di fondo della
realtà; nel secondo l'urgenza di dar conto dei fenomeni spinge
all'individuazione di efficaci principi esplicativi. Come non è possibile
parlare di due oggetti diversi, così non può sfuggire nei frammenti il
tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei principi in termini
ontologici, attribuendo cioè ai principi alcune caratteristiche dei «segni» di
τὸ ἐὸν: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν
φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, 51 τῷ δ΄ ἑτέρῳ
μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo
e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma
etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione
identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche
quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e
pesante (B8.55-9) τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε αὐτὰρ ἐπειδὴ
πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ
μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e
queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose
e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe
alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Questo
autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta, autosufficiente e
autonoma – fosse effettivamente intesa come preparatoria alla seconda, con la
quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche dalle parole
della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello esplicativo
del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente influenzato quello,
fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle e Anassagora52,
sensibili, tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di 52 In modo diverso giungono
a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism
and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998; P.
Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, cit.;
D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 52 Parmenide53 – come risulterebbe da
una serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11, B12; DK 59 B17). 53 D.W. Graham,
“Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge
Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più meditata e
articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W. Graham,
Explaining the Cosmos, cit.. Si ipotizza che la consistenza dell'unica opera di
cui la tradizione sostiene Parmenide sia stato autore, fosse approssimativamente
di un migliaio di versi, 160 (circa) dei quali abbiamo ricevuto attraverso
posteriori citazioni da parte di altri autori. Essi riferivano in qualche caso
direttamente da una copia del poema, in altri indirettamente da selezioni
antologiche ovvero da citazioni altrui. Riflettendo sulla storia di queste
citazioni testuali, possiamo concludere che il poema di Parmenide sia stato
oggetto di due distinti momenti di attenzione, a distanza di 4 secoli l’uno
dall’altro, prima di scomparire definitivamente54. Il materiale del Poema
Possiamo supporre che una prima diffusione di copie del Poema avvenisse sotto
il controllo dell'autore e che forme di controllo sul testo e sulla sua
circolazione fossero esercitate dagli allievi nel periodo immediatamente
successivo alla sua morte. È plausibile che nel mondo greco occidentale si
conservasse una memoria testuale autonoma, da collegare forse ad ambienti
pitagorici 55, e che, analogamente, tradizioni del testo si affermassero anche
in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia Minore, dove il poema sembra
essere stato conosciuto abbastanza presto. Si tratta solo di congetture, dal
momento che non disponiamo di evidenze di questa fase pre-platonica, ma,
secondo Passa56, non è da escludere che a una di queste tradizioni abbia
attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale a Platone, che
cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito della tesi
dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54 N.-L-
Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous la
direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris 1987,
p. 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua,
Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143. 56 Ibidem. 54 a proposito del primato di
Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del «parricidio»; 244e a
proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta,
replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita
il verso su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16
(Metafisica IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza
postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in
una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del
frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo
derivino da Platone 57. Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58,
non propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «mancato
utilizzo» - il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante
dei frammenti del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per
l'opera - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI secolo.
Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare la
posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di analisi
da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di prima
mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A
Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto
dell’intera opera di Parmenide 59, dobbiamo la citazione (in gran parte come
unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita
estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua
epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che
direttamente o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio,
Boezio, Olimpiodoro60): καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος
ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε 57 Cordero, op. cit., pp. 4-5. 58
Ivi, p. 5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum,
Assen/Maastricht 1986, p. 1. 60 Cordero, op. cit., p. 6. 55 τοῖς ὑπομνήμασι
παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ
Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei
aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere
uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto
parmenideo (DK 28 A21). Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del
lavoro filologico di Diels – l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e
Simplicio (VI secolo) di due differenti versioni del poema di Parmenide61.
Damascio (V-VI secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di Giamblico
(III-IV secolo d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI
secolo d.C.) come Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver
avuto la possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema62. Le
fonti e i loro problemi Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere
questa storia disponendo le fonti in tre raggruppamenti63: (i) Platone,
Aristotele, Teofrasto e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno
alle due principali istituzioni filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo; (ii)
figure eterogenee appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco
(I sec.), Galeno (II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III
sec.), Diogene Laerzio (III sec.); (iii) figure cronologicamente e
geograficamente distanti, ma unite culturalmente dal fondamentale
neoplatonismo: Plotino (III sec.), Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.),
Damascio e Ammonio (V-VI sec.): Simplicio è loro discepolo. 61 Cordero, op.
cit., p. 5. 62 Coxon, op. cit., p. 2. 63 Seguiamo Passa, op. cit., p. 21. 56
Fonti attiche Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avuto
accesso a copie del poema: secondo Passa64, si può facilmente dimostrare,
tuttavia, che in molti casi esse citano a memoria, ma è probabile che
sfruttassero anche la prima sistemazione del materiale presocratico a opera dei
sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e Aristotele ricorressero alle
selezioni approntate nella seconda metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella
sua Συναγωγή aveva estratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in
opere poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato
dalla prima produzione filosofica enunciati teorici che potevano essere
organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli insolubili contrasti
tra filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato tracce ancora nelle
opere ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e Aristotele, che
rivelano nelle loro opere di combinare i due approcci, pur avendo modo di
consultare direttamente almeno una parte delle opere attribuite ai primi
filosofi, sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici nella
loro lettura66. Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche -
Platone, Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso a
copie dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non
siano fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3
volte su 4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco
accurati nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di
differenti versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può
essere indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte
tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi
risalire oltre la redazione attica del poema pos- 64 Ivi, p. 25. 65 J.-F.
Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età
dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp.
288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, cit., pp. 26-27. 67 Ivi, pp. 2-3. 57 seduta dall'Accademia e dal
Peripato, è dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo
usato (o citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto.
Né, come abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni
alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68. La
recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già
in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato
interventi simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico:
modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo
doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso
accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la
spiccata propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i
neoplatonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da
Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizione "accademica"
da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema disponibili. In
considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che Aristotele, a sua
volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver attinto da fonte
alternativa: è dalla ricerca dell'allievo di Aristotele che si sarebbe formata,
in ambiente peripatetico, la tradizione "dossografica", quella delle
fonti che derivano le proprie citazioni da compilazioni70. 68 Passa, op. cit.,
p. 26. 69 Ibidem. 70 La tradizione dossografica si apre in effetti con le
Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo più indicato come Physicorum Opiniones)
di Teofrasto (in 16 libri): integrata in periodo ellenistico, l’opera sarebbe
stata poi utilizzata dagli Epicurei, Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di
Sesto Empirico, seconda metà II secolo), dal fisico Sorano (I-II secolo),
Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò questa revisione Vetusta Placita.
Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata, abbreviata e integrata – nel I
secolo – da un autore indicato come Aëtius, la cui raccolta, per noi perduta, è
stato ricostruita da Diels. Il filologo tedesco ha mostrato come i Placita
attribuiti a Plutarco (in realtà pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una
sintesi dell’opera di Aëtius (e il De historia philosophica di Galeno
un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e soprattutto come da Aëtius (anche
attraverso il materiale riassunto da pseudo-Plutarco) dipendessero la
monumentale antologia (solo 58 Fonti ellenistico-romane Plutarco (esponente di
punta della Media Accademia) è il primo autore, dopo il lungo silenzio dell'età
ellenistica, a citare passi del Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4,
B13, B14, B15 hanno Plutarco come fonte; degli ultimi due egli è la nostra
unica fonte. Sebbene dichiari di ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα), alcune
varianti di testo fanno supporre che egli citi da fonti attendibili71. È
probabile attingesse a una tradizione vicina o identica a quella
"accademica" (le sue citazioni presentano coincidenze con varianti
trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle alterazioni intervenute nella
successiva tradizione neoplatonica. La redazione plutarchea di B1.29, infatti,
coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene Laerzio, ed è alternativa a
quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della validità della fonte
plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche da Platone,
Aristotele, Sesto Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico testimone in
grado di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento, con l'indicazione
della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle fonti)73.
Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon74, mostrerebbe nel complesso Clemente
Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò che cita75: B1.29 s.,
B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia l'unico a riportare la
variante ἀγένητον (nella dossografia impiegata per sottolineare l'accordo di
Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον - fa suppore, nella
ricezione del testo, un condizionamento da parte di in parte conservata) di
Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun affectionum curatio di
Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da ricondurre anche la
Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli Stromateis di altro
pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli dedicati ai primi filosofi
greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio (III secolo). Su questo
Mansfeld, op. cit., pp. 23-24. 71 Passa, op. cit., p. 27. 72 Ivi, pp. 27-28. 73
Ivi, p. 28. 74 Coxon, op. cit., p. 5. 75 Ivi, p. 3. 59 versioni dossografiche.
Più recisa la valutazione di Passa76, secondo cui gli atticismi delle citazioni
rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo fortemenete modificato, di
fonti atticizzate. Il livello di corruttela farebbe escludere (contro l'ipotesi
di Coxon) la disponibilità di copia integrale del Poema. La ricerca di Passa ha
evidenziato la peculiarità del contributo di Sesto Empirico nella storia del
testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il solo a conservare nelle proprie
citazioni tracce di una tradizione testuale alternativa a quella attica77. In
particolare è Sesto - cui dobbiamo anche la citazione di B7.2-7 e B8.1-2) –
l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua interpretazione allegorica: in
genere si afferma che esse dipendano da fonte intermedia, probabilmente di
ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso italiano ha avanzato l'ipotesi che
Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua
parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente da commento stoico; nel caso
del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a conservare traccia
dell'antica redazione psilotica del poema: probabile, dunque, che egli
disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da esemplare di tutto
il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver attinto a una terza
tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza, sebbene la citazione
di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa costituire prova conclusiva.
A tradizione testuale molto vicina a quella sestana (quindi non attica),
potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che fornisce identica redazione di
B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7 (vv. 3-5)81. Fonti neoplatoniche
La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo lo stesso Plotino (III secolo
d.C.), che cita solo di passaggio frammenti isolati: 76 Passa, op. cit., p. 32.
77 Passa, op. cit., p. 29. 78 Ivi, p. 31. 79 Ibidem. 80 Cordero, op. cit., p.
5. 81 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume invece, nel caso di Sesto e di Diogene,
fonti peripatetiche e stoiche. 60 B3, B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da
Proclo, che fu scolarca dell'Accademia fino alla morte (fine V secolo). A lui
dobbiamo un consistente numero di citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3,
B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26, B8.29-32, B8.35-36, B8.43- 45, che rivelano
la sua familiarità con l’opera parmenidea82, ciò suggerendo la possibilità che
avesse accesso a testo completo. Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla
notevole approssimazione dei suoi riferimenti, probabilmente risultato di
citazioni a memoria, eppure si conviene che, in considerazione delle
coincidenze non casuali con la versione di Plutarco, il testo di Proclo dovesse
essere antico almeno quanto quello di Plutarco, e derivare dalla medesima
tradizione testuale accademica84, sebbene ormai modificata dall'interpretazione
neoplatonica di Parmenide. Nella propria edizione del Poema (1897)85 Hermann
Diels attribuì a Simplicio - come fonte per la ricostruzione dell'opera di Parmenide
- enorme valore. A conclusione della propria introduzione, il filologo tedesco
da un lato assumeva che l'esemplare di Simplicio dovesse essere di qualità
eccellente (im Ganzen vortrefflich), forse (vermutlich) risalente alla stessa
biblioteca della scuola di Platone86, di cui egli fu uno degli ultimi esponenti
prima della chiusura a opera di Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però,
riconosceva anche come Simplicio e Proclo non potessero aver ricavato dalla
stessa copia le rispettive citazioni. Così, nonostante risultassero legati alla
stessa istituzione, secondo Diels i due commentatori neoplatonici avrebbero
utilizzato codici diversi87, esemplari di versioni testuali alternative
all'interno della stessa tradizione accademica. L'impostazione dielsiana nello
specifico è stata di recente discussa con acribia da Passa88, secondo il quale
è difficile credere 82 Coxon, op. cit., pp. 2-3. 83 Coxon, op. cit., pp. 5-6;
Passa, op. cit., pp. 38-39. 84 Passa, op. cit., p. 39. 85 H. Diels, Parmenides
Lehrgedicht, Academia Verlag, Sankt Augustin 20012, pp. 25-26. 86 Ivi, p. 26.
87 Ibidem. 88 Op. cit., pp. 35 ss. 61 che Simplicio potesse derivare la propria
copia dalla biblioteca dell'Accademia, dal momento che: (i) dopo la chiusura
decretata nel 529 dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il
diadoco Damascio e l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il
re persiano Cosroe (531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero
bizantino, a Harran (Mesopotamia) o in Siria; (ii) tutti i trattati simpliciani
furono stesi dopo il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo,
(ii) in physicam, (iii) in categorias, (iv) de anima89. Simplicio – cui
dobbiamo citazioni degli attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11,
B12, B13, B20 - è stato, in effetti, generalmente considerato fonte attendibile
anche dagli editori successivi: ancora Coxon90 giudicava l'esemplare a
disposizione di Simplicio «a rare and excellent copy». Nonostante si possa
registrare come un certo numero di sue citazioni sia ricavato da testi
platonici, e plausibilmente sospettare che sia ricorso a ὑπομνήματα e/o
compilazioni antologiche (conosce infatti due redazioni di B8.4, di cui una
molto vicina all'esemplare di Plutarco e Proclo)91, a favore dell'affidabilità
dell'attestazione di Simplicio depongono l'esplicito impegno a trasmettere
documenti del pensiero antico ritenuti fondamentali e il fatto che egli mostri
di padroneggiare la struttura del Poema sin dal primo commento aristotelico (de
caelo) 92. Soprattutto hanno pesato, nella valutazione del suo contributo, i
suoi espliciti rilievi, in precedenza citati: «vorrei aggiungere a questi miei
appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito
delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo» (DK 28
A21). Passa93 ha tuttavia messo in dubbio l'attendibilità della redazione
simpliciana, facendo leva in particolare su un indizio: citando i vv. B8.53-59,
Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89 Ivi, p. 36. 90 Coxon, op. cit., p. 6.
91 Passa, op. cit. p. 40. 92 Ibidem. 93 Ivi, pp. 41-43. 62 καὶ δὴ καὶ
καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως·
ἐπὶτῶι δέ ἐστι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τὸ φάος καὶ τὸ μαλθακὸν καὶ τὸ κοῦφον,
ἐπὶ δὲ τῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν όμασται τὸ ψυχρὸν καὶ τὸ ζόφος καὶ σκληρὸν καὶ
βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη ἑκατέρως ἑκάτερα tra i versi si riferisce un passo in
prosa come dello stesso Parmenide, che dice così: per questo ciò che è raro è
anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo
è indicato come oscurità, durezza e pesantezza. Dopo B8.57, evidentemente,
nella copia utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato incorporato (da un
copista che non si era reso conto trattarsi di καταλογάδην τι ῥησείδιον, di «un
passo in prosa») all'interno del testo del Poema. Il commentatore, tuttavia,
nel citare il passaggio, non sembra preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente
allo stesso Parmenide (ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου)! Whittaker94 ne ha inferito che:
(i) l'esemplare simpliciano del Poema doveva presentarsi come «the product of
unintelligent transcription from an annotated source»; (ii) la competenza del
commentatore (che non si avvede dell'inquinamento del testo) in relazione al
testo parmenideo doveva essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far
riflettere sulla problematica situazione testuale del Poema, soprattutto
accreditando l'ipotesi di Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse
corredata di scolii. Passa ha proposto un'interessante spiegazione
dell'atteggiamento del commentatore neoplatonico: il mancato allarme di fronte
all'inserto in prosa nel corpo esametrico del Poema deriverebbe dalla piena
assimilazione del quadro proposto nel Sofista platonico (237a): 94 J.
Whittaker, God, Time, Being. Two Studies in the Transcendental Tradition in
Greek Philosophy, Osloae Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2. 95 K.
Deichgräber, "Xenophanes' περὶ φύσεως", «Rheinisches Museum»
Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο
ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους
τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων - Οὐ γὰρ μή ποτε
τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα
[B7.1-2] Questo discorso ha osato ammettere che il non essere sia: il falso, in
effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il grande Parmenide, invece, caro
figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava contro ciò dall'inizio alla
fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi versi, che: «Mai,
infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via
di ricerca allontana il pensiero». Platone documentava una pratica di
insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti
fondamentali del Poema, l'esposizione dettagliata del maestro,
l'approfondimento e il chiarimento di temi attraverso la comunicazione di
informazioni supplementari96: è possibile che in tal modo egli recuperasse un
modello effettivamente operante in ambito eleatico97. Non va inoltre
dimenticato che, proprio a partire da questa "testimonianza"
platonica, nella tradizione tarda (come attesta Suda, X secolo) si diffuse la
convinzione che Parmenide avesse composto, oltre al Poema, anche opere in
prosa: Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ
Κολοφωνίου, ὡς δὲ Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου. [...] ἔγραψε δὲ
φυσιολογίαν δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται Πλάτων 96 Passa,
op. cit., p. 25. 97 Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che
richiamano questo punto. 64 Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu
discepolo di Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al contrario, di Anassimandro
di Mileto. Scrisse di scienza della natura in versi e di altri argomenti in
prosa, come ricorda Platone (DK 28 A2). Non sorprenderà, quindi, che Simplicio,
poco avveduto sul piano filologico, potesse frettolosamente ricondurre
l'inserto in prosa a commento dello stesso autore. Queste considerazioni contribuiscono
a ridimensionare la fiducia nell'attendibilità dell'attestazione simpliciana,
che Passa98 giudica fondamentale ma sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti
sia della capacità di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto
storico-culturale, sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi
dell'esemplare in suo possesso. Quel che però risulta più preoccupante per
l'editore del Poema parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane
si riflettano interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola
platonica, perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di
Simplicio potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99.
Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di
commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da
Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia
della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione
del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino)
imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti
interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una
verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra,
Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, 98 Passa, op. cit., p.
145. 99 Ivi, pp. 35 ss.. 65 e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più
lucidi testimoni100. Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico
(cui si deve un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica
dell'opera platonica101) rispetto all'interpretazione porfiriana102 era la
valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e
Aristotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori
presocratici: così, per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei
pitagorici103. È in tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere
gli strumenti necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come
anello di congiunzione104) e il materiale per le proprie citazioni. Le
citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la
possibilità del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema,
che consente di conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri
settori della tradizione105), ma non senza riconoscimento e consapevolezza
della presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente
processo di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico;
(ii) un possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo106; (iii)
una probabile "normalizzazione"107 del testo sul piano dei contenuti,
alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante. 100 Molto
utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G.
Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita
di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e
l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della
filosofia, Rusconi, Milano 1997. 101 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia
e Fedone; (ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista
e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene).
Il tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo e Parmenide, che
riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la teologia. 102
Girgenti, op. cit., p. 11. 103 Passa, op. cit., p. 37. 104 Ivi, p. 145. 105
Ivi, p. 42. 106 Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa,
ibidem. 107 Ibidem. Edizioni del testo consultate Per il testo e la traduzione
ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee: H. Diels – W. Kranz, Die
Fragmente der Vorsokratiker, Weidmannsche Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526
[indicheremo l'edizione come Diels-Kranz ovvero DK. Per la traduzione italiana,
quando non abbiamo personalmente tradotto, abbiamo utilizzato quella, a cura di
Reale, “I presocratici” (Bompiani, Milano). P. Albertelli, Gli Eleati.
Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari
[indicheremo l'edizione come Albertelli] I presocratici. Frammenti e
testimonianze. I. La filosofia ionica. Pitagora e l’antico pitagorismo. Senofane.
Eraclito. La filosofia elatica, introduzione, traduzione e note a cura di A.
Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958 [indicheremo l'edizione come Pasquinelli]
Parmenide, Testimonianze e frammenti, Introduzione, traduzione e commento a
cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958 [indicheremo l'edizione
come Untersteiner] G.S. Kirk, J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A
Critical History with a Selection of Texts, C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo
l'edizione come Kirk-Raven] Parmenides. A Text with Translation, Commentary and
Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965
[rimane, per i problemi testuali e la loro discussione, una edizione di
riferimento. La indicheremo com Tarán] Parmenides, Über das Sein, übersetzt von
J. Mansfeld, herausgegeben von H. von Steuben, Reclam, Stuttgart 1981 Les deux
chemins de Parménide, édition critique, traduction, études et bibliographie par
N.-L. Cordero, Vrin, Paris 1984 [da 67 integrare con l’opera interpretativa
aggiornata - dello stesso autore – By Being, It Is, Parmenides Publisher, Las
Vegas 2004: complessivamente offrono un grande contributo testuale, grazie alla
discussione delle difficoltà e al confronto costante con la tradizione dei
manoscritti. Indicheremo lo studio del 2004 come Cordero] Parménide, Le poème,
présenté par J. Beaufret, PUF, Paris 19863 (edizione originale 1955) A.H.
Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986
[fondamentale, anche per i riferimenti alla tradizione testuale e ai
manoscritti, nonostante le riserve di O’Brien. La indicheremo come Coxon]
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. I, Le Poème de
Parménide, texte, traduction, essai critique par D. O’Brien, Vrin, Paris 1987
[strumento molto utile per la discussione delle difficoltà testuali, ma anche
per la doppia traduzione, francese e inglese, con le scelte conseguenti. Lo
indicheremo come O'Brien] Parmenides of Elea, Fragments. A Text and Translation
with an Introduction by D. Gallop, University of Toronto Press, Toronto 1987
[indicheremo l'edizione come Gallop] Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti
e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G.
Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu,
Rusconi, Milano 1991 [non si distingue tanto come strumento filologico, quanto
per l’ampio commentario filosofico di corredo. Indicheremo la traduzione come
Reale e il commento come Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente, herausgegeben von
E. Heitsch, Artemis & Winkler, Zürich 1995 [indicheremo l'edizione come
Heitsch] Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de l’être?,
présenté, traduit et commenté par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris 1998
[indicheremo l'edizione come Cassin] Parménide, Le Poéme: Fragments, texte
grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999
(edizione originale 1996) [indicheremo l'edizione come Conche] 68 Parmenide di
Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di
G. Cerri, BUR, Milano 1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione
tascabile - per la discussione dei principali problemi testuali, e la
chiarificazione dei nessi con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come
Cerri] H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen
und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten
Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione
originale 1897) [rimane opera fondamentale, soprattutto per la comprensione
dell’ambiente culturale e i motivi del poema. La indicheremo come Diels]
Parmenide, Poema sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano
2006 Parmenide, Sull’Ordinamento della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura
di Raphael, Edizioni Asram Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II
(Parmenide, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse,
Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis &
Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo l'edizione come Gemelli Marciano]
Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, traduzione e cura
di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010 [indicheremo l'edizione come Tonelli]
The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected
Testimonies of the Major Presocratics, translated and edited by D.W. Graham,
Part I, C.U.P., Cambridge 2010 [indicheremo l'edizione come Graham] Per
specifici problemi testuali risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The
Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale
University Press, New Haven – London 1970 (ora in edizione aggiornata presso
Parmenides Publisher, Las Vegas 2008) [indicheremo l'opera genericamente come
Mourelatos]. 69 Molto utili per la discussione di singoli problemi
interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche
Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo l'opera genericamente come Mansfeld]
e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della
filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo
l'opera genericamente come Leszl]. In generale, per lo status interpretativo
fino alla seconda metà degli anni Sessanta, è strumento di inquadramento
l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia
dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova
Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E. Zeller, R. Mondolfo, G. Reale, Gli
Eleati, Bompiani, Milano 2011, con aggiornamento bibliografico a cura di G.
Girgenti). Per una dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue premesse è
davvero illuminante la lettura di R. McKirahan, “Signs and Arguments in
Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P.
Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-229. Per la storia e lo stato
del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux chemins de Parménide
cit., il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e
questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo come Passa].
Letteratura critica consultata J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An
account of the interaction between the two schools during the fifth and early
fourth centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948 J.
Zafiropulo, L’Ecole Eléate, Les Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M. Loenen,
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2008 The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W.
Graham, O.U.P., Oxford 2008 Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009 Die
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und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano,
Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 G. Wöhrle (Hrsg.), Die Milesier:
Thales, De Gruyter, Berlin 2009 [Traditio Praesocratica] Die Vorsokratiker,
Band III (Anaxagoras, Melissos, Diogenes von Apollonia, die antiken Atomisten),
Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura
Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2010 Il quinto
secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S.
Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011 La Sagesse Présocratique. Communications
des Savoirs en Grèce Archaïque: des Lieux et des Hommes, sous la direction de
M.-L. Desclos et F. Fronterotta, Armand Colin, Paris 2013 Con la sigla LSJ
indichiamo H.G. Liddell, R. Scott, GreekEnglish Lexicon, revised and augmented
throghout by H.S. Jones, Clarendon Press, Oxford. Frammenti testo greco e
traduzione italiana. Le note al testo si riferiscono a problemi di
determinazione del testo originale; quelle alla traduzione, invece, a problemi
di resa del testo greco e di interpretazione. 76 DK B1 ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον
τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι, πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος1,
ἣ κατὰ †... †2 φέρει εἰδότα φῶτα· τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι
[5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον. ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει
>3 σύριγγος ἀυτήν αἰθόμενος - δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν κύκλοις ἀμφοτέρωθεν
-, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4 [10] εἰς
φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας. ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι
κελεύθων, καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται
μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Δίκη7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. [15] τὴν δὴ
παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν 1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua
originaria edizione del poema parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein,
1867) del genitivo δαίμονος nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce
l'arbitrarietà. Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente
corrotto: KATAPANTATH, trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη
(L), κατὰ πάντα τη (E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ
πάντ’ ἄ < σ > τη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da
parte di Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture
plausibili nel contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ;
Coxon suggerisce κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la traduzione si
veda nota relativa. 3 χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a
χνοῖησινι del codice N, χνοιῆσιν (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di
considerare Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ.
5 Il genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il
κράτων da Diels. 6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo
plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della
aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da
Passa (pp. 99-100). La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην. πεῖσαν
ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων
χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν εἰλίξασαι
[20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10 ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ΄ ἀμαξιτὸν
11 ἅρμα καὶ ἵππους. καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί δεξιτερὴν ἕλεν,
ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν, [25]
ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ, 8 La forma del genitivo πυλέων
trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di
Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a
Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels,
nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull'opportunità di
conservare πυλέων in vece di πυλῶν. 9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata
da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che
conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores. 10
Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo
codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello
stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in
verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero.
Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e
esiodei (Scutum 237) nella formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto
(Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di
uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del
poema. 11 Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20. 12 I codici di Sesto
Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo - ᾱορος appare fuori
posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è
attestato συνήορος, preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon
(ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi
totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa,
su diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo
- ᾱορος il segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica
e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici attici del poema (che
dovevano riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso
Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella
poesia contemporanea. 78 χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι
τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε.
χρεὼ 17 δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ 13 I
codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come osserva
J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2009, p.
378): «the postpositive connective is required here». La presenza di ταί nei
codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1, che può
aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la stessa
lezione data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come il
passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί della
copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare che,
meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di N
abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte
(ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi
difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato
appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di
Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ
sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome
relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la
mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu
originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel
proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di
Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da
attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende
la tradizione sestana fosse psilotica. 14 Scegliamo, a differenza degli altri
editori, di considerare Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto
divino. La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori. Secondo M.E.
Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on
Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in
questo caso sarebbe legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla
«nozione concreta» di Δίκη incontrata al v. 14. 17 Un caso di metatesi: χρεώ
forma epica da χρήω. L'epica conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa, p.
77-9). 18 È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni
(Diels 1897; Diels-Kranz), il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη,
evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine. In
considerazione della posizione - che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe
definire di «ipostasi divina» - riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la
maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da Marciano] ἠδὲ βροτῶν
δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21
χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23. 19 Degli ultimi versi del
proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto Empirico, diverse
citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Caelo aristotelico;
Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e
ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di Simplicio riporta εὐκυκλέος
(«ben rotonda»), accolto da Diels in forza della qualità e interezza (presunte)
del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito
(tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero,
Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di
Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano εὐπειθέος
(che viene tradotto come «ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld,
Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa)
preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος («risplendente»), poco attendibile.
Come in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità
della redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore
acribia, ha argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra
l'altro all'interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema
che mette in discussione proprio l'affidabilità della versione di Simplicio,
che risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di
Proclo). Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe
invece molto attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei.
Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in Palmer
(op. cit. pp. 378-80). 20 Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math.
7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). Sulla lezione ἀτρεκές ha pesato la
liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione,
riconoscendo, invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς un «predicato caratteristico
dell'Ἐόν parmenideo». A contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la
lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato
come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti
illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato
vittima di un rimaneggiamento secondario. 21 Passa (p. 121) segnala come la
forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un atticismo nella tradizione
del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione
autentica. La lezione δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα.
22 Nella sua edizione del poema Diels propose di leggere δοκίμως εἶναι come
δοκιμῶσ(αι) εἶναι. Tra gli editori novecenteschi Untersteiner è tra i pochi ad
aver rilanciato tale lezione, seguito di recente da R. Di Giuseppe, 80 [vv.
1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio, In
Aristotelis De Caelo 557-558; vv. 28b30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30
Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II,
366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos
VII, 114] Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011, che documenta
ampiamente, anche nella tradizione latina, le ragioni della propria scelta. 23
La lezione dei codici DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre
il solo codice A riporta πάντα περῶντα («tutte le cose pervadendo»), per lo più
preferito dagli editori, sulla scorta del precedente omerico (Iliade XXI.281
ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei
presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43) osserva che la forma περῶντα (da περάω)
non ha riscontri nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8),
incerto sulla lezione, ritiene che, accettando l'opzione περ ὄντα, si debba
comunque correggere la forma attica del participio di εἰμί in quella ionica ἐόντα:
in rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza, all'interno
del poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa
forma, quella propria del suo dialetto». 81 Le cavalle1 che mi portano2 fin
dove il [mio] desiderio3 potrebbe giungere4, 1 Il testo greco riporta ἵπποι
ταί, con il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e
Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe di origine omerica: secondo
Tarán (p. 9) sarebbe forzato cogliervi prova di una influenza orfica. 2 Il
verbo φέρουσιν è al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel proemio
all’imperfetto (che indica abitualmente azioni continuate) e all’aoristo
(impiegato normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p. 14) l’uso del
presente sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con un viaggio
ancora davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse
effettivamente marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui
nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione
(passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria
attività, la scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»).
G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di
Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di
scienza morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447- 464)
osserva come il Proemio sia «fondato sulla memoria» e «autobiografico»:
Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza».
A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe
in particolare che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad
averlo indirizzato nel viaggio»; il successivo imperfetto πέμπον che l'azione è
avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il
viaggio fu intrapreso. (p. 449). 3 Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo
che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore
di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È
plausibile che θυμός si riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che
parla: il termine, tuttavia, può essere simbolicamente collegato anche allo
sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano
(Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag,
Sankt Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero
all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura
del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere all’obiettivo solo se si è
già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo. 4
L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè
un’indefinita frequenza (dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è attestato
un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν: Robbiano, op. cit., pp.
65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos
(The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments,
Yale University Press, New Haven – London 82 mi guidavano5, dopo che,
conducendomi, mi ebbero avviato6 sulla via7 ricca di canti8 1970, p. 17, n. 21)
sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità rilevante è
quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del
pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia molto radicata nell’immaginario
greco arcaico. 5 Il verbo greco è all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto
durativo e participio presente (φερόμην v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5)
denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro dell'azione in corso;
le forme dell'aoristo (βῆσαν v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema
ricorrente in Omero (O’Brien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto
precede. Conche interpreta πέμπον come “imperfetto storico”, optando dunque per
una traduzione con il presente indicativo. Ferrari, nella sua analisi del
proemio (F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza
dall’Odissea alle lamine misteriche, Pomba, Torino 2007, p. 104; ora anche Il
migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne,
Roma 2010, p. 162), ha sottolineato come l’intreccio dei verbi al presente e
all’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il presente e il ritorno
dall’oltretomba. 6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie
in questo passaggio un’eco dell'iniziazione poetica di Esiodo: ciò che
Parmenide intenderebbe suggerire è che le cavalle (figure dello slancio
interiore del poeta) del suo θυμός lo hanno avviato sulla via poetica
(connotata come ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di
comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade. Parmenide porrebbe in primo piano
il risultato dell’incontro con la divinità iniziatrice. 7 La ὁδὸς πολύφημος
δαίμονος, ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα è contrapposta – secondo Cerri (p.
170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico).
Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico
riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade
popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola
del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383- 396) – accostando sistematicamente il
Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette e ai miti
escatologici platonici – interpreta l'espressione come indicante la via che
precede la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p.
387): simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di
iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come εἰδώς
φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come
rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo
cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è
richiedo l'intervento di δαίμονες come ἡγεμόνες. 83 della divinità9 che10 porta
†... †11 l’uomo sapiente12. Ma l'espressione potrebbe più semplicemente
riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un
contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora,
come sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides &
Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2010, p. 56) in relazione al contesto,
essa potrebbe designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni
giorno. 8 Il termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare
l’abbondanza di canti, leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta
del valore più antico, omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona
di voci e rumori), come di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso
bianco, cit., p. 102). Diels e altri decidono invece di tradurre,
sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata». 9 Il termine δαίμων
(maschile o femminile, secondo i contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v.
22) θεά: alla Dea interlocutrice del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte
del cipresso bianco, cit., pp. 106-7): riferendo il successivo pronome ἣ alla
divinità (e non alla via), egli osserva che «il ritmo stesso del verso»
suggerisce di considerare la relativa come «una perifasi che sollecita
l’identificazione della daimôn». In tal senso, essa non coinciderebbe né con la
divinità in genere (come crede invece Cerri, il quale traduce ὁδὸν δαίμονος
come «strada divina»), né con Dike, né con la θεά del v. 22: i paralleli
omerici ed esiodei inducono a credere che questa divinità femminile, che guida
su un carro condotto dalle figlie del Sole «l’uomo sapiente», sia da
identificare con Ἡμέρη, la figlia di Notte, ovvero Ἠώς, Aurora. In Odissea
XXIII.241-246 troviamo Aurora condotta attraverso l’Etere dai cavalli «che
portano luce ai mortali», un possibile modello per Parmenide. Il genitivo è da
considerare possessivo. Un’alternativa suggestiva – richiamata dal successivo
coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è quella secondo
cui l’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe viaggiando
(Leszl, p. 147). 10 Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo ἣ: alla
Dea o alla via (ὁδός): l’analisi convincente di Ferrari spinge nella prima
direzione, ma la nostra soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo
possa riferirsi a un tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al tracciato
celeste che essa percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato in nota al
testo greco il problema della corruzione del passo. Le principali proposte
degli editori: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (Diels, seguito da molti), «per
tutti i luoghi» ovvero, letteralmente, «per tutte le città»; κατὰ πάν ταύτῃ
(Cordero), «là riguardo a tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero,
interpreta tuttavia ταύτῃ non come forma avverbiale, bensì come dativo del
dimostrativo femminile, riferito a ὁδός; κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν
> (Coxon), «through every stage straight onwards»; 84 Su questa via13 ero
portato14, su questa via mi portavano15 molto avvedute16 cavalle, κατὰ πάντ’ ἃ
τ’ ἔῃ (Cerri), «per tutte le cose che siano». Ferrari (op. cit., nota p. 114)
ha sostenuto a più riprese l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’ ἄ
< σ > τη, «come emendamento anche se non più come lezione tramandata». In
questo caso sarebbe tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος
δαίμονος dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea
il fatto che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου («lontana dalla pista degli uomini»).
12 L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner,
Burkert), alla figura dell’«iniziato», secondo la terminologia propria della
tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in tal senso», come nota la
Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per
altri (Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla
percorsa; Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze
preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso
avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche
Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da Senofane B34,
sottolinea come εἰδώς abbia un valore legato all’esperienza visiva, che si
conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica è dunque
legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe rendersi
allora come «[l’uomo] che ha visto» ovvero «che ha conoscenza». Nella stessa
direzione si è mosso Ferrari (op. cit., pp. 102 ss.), il quale sottolinea come
la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita al poeta
narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano già
avvenuti. La qualifica di εἰδώς indica, infatti, ancora in Aristofane e
Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai superato la prova
dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la
paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la
situazione (e la condizione del poeta) a un tempo successivo all’incontro con
la θεά. 13 Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso,
come se si riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il
poeta è condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui». Scegliendo di
tradurre in questo modo e non come per lo più si fa («là»), intendo marcare
questa sequenza – concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla
successiva, che si apre (v. 11) con un altro locativo (ἔνθα) e che propriamente
introduce alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal
momento che τῇ può rendersi tanto con «qui» che con «là», le indicazioni di
luogo, analogamente ai tempi verbali, possono avere un'incidenza
nell’interpretazione complessiva. Abbiamo scelto una perifrasi, cercando di
conservare, anche in questa occasione, l'ambiguità: «questa via» 85 [5]
trainando il carro17: fanciulle18 mostravano la via. Nei mozzi emetteva un
sibilo acuto19 l’asse, può riferirsi alla via su cui al momento si muove il
poeta nella sua missione pubblica, ovvero la via al centro del successivo
racconto. 14 Le due forme verbali del verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti
in diatesi passiva e attiva: sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle)
e il privilegio di essere trasportato (del poeta). 15 Si tratta dell’ennesima
ripetizione di una forma del verbo φέρω nei versi iniziali. Tale ripetizione,
sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos, p. 35) come un
difetto, un limite della poesia di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the
Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999, p. 135), invece, come mezzo per
incidere sull’audience: la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un
effetto incantatorio». Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe
essenzialmente una funzione retorica: preparerebbe l’audience al concetto di
guida, centrale nel «second journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto
sotto la direzione della Dea, verso la verità. 16 L’aggettivo πολύφραστοι,
riferito alle cavalle, significa letteralmente «che hanno molto da dire»:
supponendo che πολύ comporti intensità, si può rendere con «molto avvedute»,
«molto sagge». Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le cavalle e
le guide cui si allude ai vv. 5 e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro
trainato da cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia, impiegata
spesso nella lirica corale: il poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato
all’itinerario espressivo più adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo
sciamano mediatore tra uomini e dei, come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la
capacità di lasciare in trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o
nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o
cultuali da una divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un
carro volante: frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la
figura dello sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue
esperienze celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti
(v. 9) alla «dimora della Notte» (δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei
sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono
un nesso tra il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile
contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al
carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così
traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [organetto a
canne]». Ferrari rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto
dall’asse nella sua rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al
carro. Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche
(Ippolito, Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a
86 incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati),
mentre si affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23, avendo
abbandonato24 la dimora25 della Notte resoconti di incubation, cioè a
esperienze di trance: uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso
stadio di consapevolezza (tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della
σῦριγξ. 20 L’aggettivo αἰθόμενος letteralmente «infiammato», ma anche
«surriscaldato». 21 L’ottativo σπερχοίατο avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e
altri, valore iterativo (come ἱκάνοι, v. 1). O’Brien (p. 10), invece, ne rileva
– sulla scorta di analoghe espressioni omeriche – l’uso per designare semplice
concomitanza di azioni. 22 Il testo greco non riporta alcun complemento
pronominale, ma è ovviamente da sottintendere, come nel precedente v. 4, che
πέμπειν si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa osservare come il soggetto di
πέμπειν - e quindi anche della conduzione del carro del poeta - a questo punto
non siano più le cavalle ma le Eliadi. 23 L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι
determina il precedente (v. 5) uso indefinito di κοῦραι: si tratta delle
Eliadi, le figlie del Sole. In Omero (Odissea XII.127-36) esse attendono
all'immortale bestiame del genitore, ma nel mito, cantato in un frammento
esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in un'opera perduta (Ἡλιάδες,
appunto) di Eschilo (alla cui rappresentazione in Siracusa Parmenide potrebbe
aver presenziato, secondo quanto ipotizza A. Capizzi, "Quattro ipotesi
eleatiche", «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; il
riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella drammatica vicenda del
fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole, all'insaputa del
padre. In questo modo esse sono corresponsabili della sua impresa punita
dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione Zeus le mutò in
pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto è significativo
ricordare che la prole del Sole è connotata nell’universo mitico in termini
sapienziali (Cerri, p. 173), e, d'altra parte, appariva funzionale all'economia
del racconto, del viaggio e della rivelazione. 24 Il participio aoristo προλιποῦσαι
– secondo il precedente omerico - indica il punto di partenza dell'azione
corrente (la conduzione del poeta da parte delle Eliadi). La «dimora della
Notte» - luogo di soggiorno alternato di Notte e Giorno – è, dunque, naturale
luogo di destinazione delle Eliadi che accompagnano il poeta. 25 Il termine
δώματα è al plurale («case»), probabilmente per accentuare le dimensioni della
casa della Notte. L’espressione δώματα Nυκτός richiama l’analoga Nυκτός οἰκία
esiodea (Teogonia, 744) e fa pensare, dunque, a una collocazione nell’abisso
del mondo infero (che in Esiodo domina sulla 87 [10] verso la luce26, rimossi
con le mani i veli dal capo27. prigione dei Titani): la casa della Notte - in
cui alternativamente soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente situata,
oltre la porta presso cui essi si danno il cambio, nel χάσμα sottostante. In
questo senso potrebbe leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei
sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων). Mantenendo
il riferimento esiodeo, sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in questi
passaggi non a una locazione genericamente ai limiti occidentali della Terra,
ma a una direzione sotterranea, verso le regioni del Tartaro e dell’Ade (Cerri,
p. 173). Nella letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo attestata
l'espressione ἐν τοῖς προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς («sulla porta dell'antro
della Notte»). Da notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike,
Adrasteia e Nomos. D’altra parte, le porte di Notte e Giorno potrebbero
intendersi come le omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.), sorvegliate dalle
Ore: Dike - in Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È possibile,
tuttavia, che sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una tradizione
mesopotamica: W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors of Heaven in
Babylonian Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51) ha mostrato
come i testi sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso
immaginario celeste e infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto
al passaggio del Sole, analoga descrizione dei loro meccanismi di apertura,
analogo soggiorno notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo
infero (il Sole in effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice
oltremondano). Su questo Palmer, op. cit., pp. 55-6. 26 L’espressione εἰς φάος
può essere riferita a πέμπειν (v. 8), nel senso di «scortare verso la luce»,
ovvero, come è più naturale, a προλιποῦσαι (v. 9), scelta preferibile, anche
per la prossimità del collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata
la dimora della notte [muovendo] verso la luce». In ogni caso la costruzione
appare intenzionalmente ambigua e l'interpretazione è stata spesso condizionata
dalla punteggiatura: DielsKranz, per esempio, inserivano la virgola prima di εἰς
φάος, forzando il suo riferimento a πέμπειν. L’espressione è ricca di implicite
possibilità simboliche: un viaggio verso il regno della luce è metafora
appropriata per una esperienza di illuminazione (Mourelatos, p. 15) ovvero di
rivelazione; ma potrebbe richiamare il fatto che il poeta accede all’αἰθήρ,
alla estrema regione di fuoco dell’universo fisico, di cui la dea innominata
successivamente (v. 22) citata sarebbe personificazione (Coxon). Ma la luce
potrebbe anche rappresentare il nostro mondo, se interpretiamo il racconto come
resoconto di un νόστος, di un periglioso viaggio di ritorno dal mondo dell’Ade,
dove il poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-3). Cerri (p.
173) segnala come l’espressione ricorra in altri testi arcaici, per indicare
l’«azione portentosa del riemergere dall’Ade». Ferrari (op. cit., pp. 101-2)
con buoni argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel 88 Là28 sono i
battenti29 dei sentieri30 di Notte e Giorno: proemio il tempo del racconto
scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto
della catabasi nel regno della Notte. Secondo Privitera (op. cit., p. 460),
invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι δώματα Nυκτός εἰς φάος
rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è
destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica del viaggio di
Parmenide». 27 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre: καὶ
Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι E di Notte
oscura la casa terribile s’innalza di nuvole livide avvolta (Teogonia 744-745).
Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure notturne: ἔνθεν ἀπορνύμεναι
κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ ἐννύχιαι στεῖχον Di là levatesi, nascoste da molta
nebbia, notturne andavano (Teogonia 9-10). I due passi, che non sono sfuggiti a
Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a illustrare il moto e i gesti delle
Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide. Anche Palmer (op. cit., p. 57)
suggerisce l'accostamento. 28 Cerri (p. 174) segnala come l’avverbio locativo ἔνθα
ricorra nella tradizione epico-teogonica in relazione all’Ade come connotazione
aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il resoconto
dell’esperienza oltremondana» (p. 103). 29 Il testo greco presenta il plurale
πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i pilastri che sorreggono un grande
portale a due battenti (su questo punto si leggano le osservazioni di O’Brien,
p. 11, e Conche, p. 49). Altri (Cordero 1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2)
riferiscono il plurale a due porte distinte, una in faccia all’altra: Coxon,
per esempio, seguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede
che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono
condotte, rispettivamente, a discendere εἰς γένεσιν («alla generazione,
incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le divinità), in altre parole a
viaggi di genere opposto. Il verso successivo sembra tuttavia smentire tale
lettura. In Omero è attestata l'espressione πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX,
312; Odissea XIV, 156) per indicare i cancelli che immettono al mondo infero;
uso analogo (Ἄιδου πύλαι) nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit.,
p. 453), che ricostruisce l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i
versi di Omero, Esiodo, Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il
quadro che 89 architrave e soglia31 di pietra li incornicia32; emergeva dalla
tradizione unificando quelle che erano in precedenza due porte distinte: la
Porta dell'Ade (attraverso cui si davano il cambio Notte e Giorno) e la Porta
del Sole (attraversando la quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo
dell'Oceano, verso una porta orientale, per tornare a risplendere all'alba).
Secondo lo studioso italiano, Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte
e del Giorno sulla Terra e l'avrebbe unificata con la Porta del Sole
(sdoppiandola dunque in una porta occidentale e in una orientale): la Porta varcata
dalle Eliadi riassumerebbe allora la doppia funzione nella tradizione
distribuita tra Porta del Giorno e della Notte e Porta del Sole. 30 Già negli
usi omerici e nella tragedia eschilea, il termine κέλευθος può indicare,
secondo il contesto, «via», «sentiero», «strada», ma anche ciò che viene
effettuato lungo quella via, cioè «viaggio» ovvero «spedizione». Il plurale
κέλευθα potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i due significati
segnalati, come «percorsi», come suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109):
si tratta in effetti degli itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e Notte (Νύξ).
La Sassi (op. cit., p. 388) fa notare come la porta, presso cui si incontrano e
attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso a
un «luogo mitico, analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.)
è situata la «dimora della Notte». 31 L’Olimpica VI di Pindaro si apre con un
analogo riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio del canto. In
relazione alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è probabile che
οὐδός sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando il
suggerimento di Cerri (p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi
esiodei di Teogonia 748-751: […] ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι ἀλλήλας
προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται,
οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα
γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν
ἵκηται […] là dove Notte e Giorno incontrandosi si salutano, al momento di
varcare la grande soglia di bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la
porta se ne va, né mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, ma
sempre l’uno, fuori della casa, la terra percorre, l’altra, dentro casa,
attende la propria ora di viaggio, finché non giunga. 90 essi, alti
nell’aria33, sono agganciati34 a grande telaio35. Nel poema di Parmenide
troviamo λάινος οὐδός invece di χάλχεος οὐδός, come appunto in Esiodo e Omero
(Iliade VIII, 15). Secondo Cerri (p. 176) la correzione nell’uso dell’aggettivo
potrebbe essere dettata dalla finalità del poema fisico dell’Eleate: la
collocazione nelle viscere della terra avrebbe consigliato «pietrigna»
piuttosto che «bronzea». 32 Rendiamo ἀμφὶς ἔχειν come «incorniciare»: il poeta
intende segnalare i limiti verticali (la soglia e l'architrave appunto) della
struttura, che, così descritta non può essere propriamente un cancello ma un
vero e proprio portale. Sembra da escludere anche la possibilità delle due
porte. 33 L’aggettivo αἰθέριαι si riferirebbe, secondo una certa tradizione
interpretativa (Deichgräber, Coxon), alla collocazione della porta nella
regione estrema del cielo; per altri, più semplicemente, il poeta
sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale (Cerri: «battenti che
toccano il cielo»; Ferrari: «alta fino al cielo»). Alcune traduzioni (Tarán,
O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo, dunque la natura
eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è di pietra.
Proprio con l’incrocio lessicale di pietra ed etere egli potrebbe allora
suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p. 151). La
scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit., p.
453), perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è
quella dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come sottostante il
soffitto del Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit., p. 57) ritiene
che l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa sintetica del verso
esiodeo: τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν Di fronte a essa il figlio
di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il riferimento ad Atlante, che
con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe
(come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di λάινος οὐδός
(«soglia di pietra») in relazione a αἰθέριαι πύλαι, quasi a indicare gli
estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe dunque aver
avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri di Notte e Giorno»,
replicando l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8).
34 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται ha ingannato gli
editori: normalmente la si riferisce a πίμπλημι («riempire»), ma, come ha con
acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a πίλναμαι («avvicinarsi»),
di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio (πέπλημαι).
Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro contesto. 91 Dike36,
che molto castiga37, ne38 detiene le chiavi dall’uso alterno39. [15]
Placandola40, le fanciulle, con parole compiacenti, 35 Anche in questo caso
molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il significato tecnico
del termine θύρετρα, che è plurale tantum usato anche come variante di θύρα
(«porta»), ma il cui valore primario è «telaio [della porta]», come
correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da Passa. 36 Nella
tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore,
sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V, 749;
VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte del Cielo. È significativo che
anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti
del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è
tradizionalmente introdotta in relazione al rispetto dei confini: non a caso la
ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i percorsi di Giorno e
Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni all’interno di
natura e società (dei confini tra parti e gruppi): in questo senso sarebbe
garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia, come la studiosa correttamente
segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la Dike parmenidea, rivelato nei
versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso. 37 L’espressione Díkh
πολύποινος è attestata nella letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione
è incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di
segnalare, Dike compare nella stessa tradizione (fr. 105 Kern) come
sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della Notte». Molto critico su
questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva Mourelatos
(p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che tiene le chiavi (delle
retribuzioni?), ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari nella stessa
direzione traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del racconto
proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe
quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà oltremondana
(Sassi, op. cit., p. 389). 38 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz
autorizza a intendere il genitivo pronominale iniziale τῶν riferito (come il
pronome αὐταί, nella stessa posizione del verso precedente) a πύλαι. 39
L’aggettivo ἀμοιϐός – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe
riferirsi al fatto che le chiavi consentono l’apertura alternata della porta
(Coxon, p. 164) ovvero al loro uso complementare (O’Brien, p. 11). Nel contesto
è probabile che il riferimento sia all’alternanza di Notte e Giorno: Dike
regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe
spiegare la situazione drammatica di seguito descritta: non era in effetti
plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore. 40 Il verbo
πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo πείθω, ed è spesso
associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse 92 [la]
persuasero41 sapientemente affinché per loro la barra del chiavistello
togliesse rapidamente dai battenti42. E questi43 nel telaio vuoto enorme44
produssero aprendosi, i bronzei cardini nelle cavità in senso inverso facendo
ruotare, [20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46, anche la
scelta del complemento μαλακοῖσι λόγοισιν, per sottolineare la gentilezza
dell'espressione. 41 Il racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la
descrizione del portale al v. 11, ha qui il suo effettivo inizio, segnalato
dall’uso del primo aoristo (βῆσαν al v. 2 era stato utilizzato all’interno di
una subordinata), cui seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo
Ferrari cui si devono queste osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato
come premessa e ragione del “ritorno”, cui sono stati dedicati i versi iniziali
del proemio. 42 Un analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di
chiusura e apertura di portali, così come analogo superamento divino dello
stesso portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del Sole è
documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a
Heimpel e Palmer, op. cit., pp. 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei
precedenti ai vv. 13-14, il pronome ταί si riferisce a πύλαι. 44 L’espressione
χάσμ΄ ἀχανὲς sembra evocare il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è
in relazione con il genitivo πυλέων), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia
(740) pone al di là della soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della
voragine al fondo della quale è collocata la prigione in cui, al termine della
titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151),
comunque, come non si abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide
sia la porta di accesso alla casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece,
rileva la funzione drammatica dell’immagine, che si frappone, con la soglia
petrigna, tra la quotidiana esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con
la divinità. A rendere estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo
da parte di Parmenide contribuisce un dato significativo: il termine χάσμα non
ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E.
Pellikaan-Engel, op. cit., p. 53). 45 A struttura e dinamica della “porta”
dedicano spazio i commenti di Diels e Conche, che si servono anche di opportune
illustrazioni a sostegno della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in
italiano la formula greca τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella
avverbiale locativa e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente
si dovrebbe tradurre: «Là, attraverso quella [porta]». 93 dritto condussero le
fanciulle lungo la via maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi
accolse: con la mano [destra] la [mia] mano 47 L'aggettivo (qui in forma
sostantivata) ἀμαξιτός, comunemente associato a ὁδός, indica la strada
attrezzata per il passaggio dei carri, quindi, derivatamente, una strada
principale. Secondo la Pellikaan-Engel (op. cit., p. 54), la scelta del termine
segnalerebbe che dalla porta al luogo dell'incontro con la Dea il percorso non
è breve. In questo senso potrebbe dunque approfondirsi la dimensione
sotterranea del viaggio. 48 Traduco θεά con «la Dea» per accentuarne il valore
religioso: mi pare plausibile alla luce del suo ruolo personale di
interlocutrice privilegiata, che guida, sollecita, espone, proibisce ecc.. Per
l'identificazione dell’anonima divinità, tra le proposte degli ultimi decenni è
interessante l’indicazione di Cerri (pp. 180-1): nelle città della Magna Grecia
(Locri, Posidonia e varie altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea infera»,
«ninfa infera» o semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era
chiaramente a Persefone. A conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente,
Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.). Anche Passa (p. 53) ha di recente riconosciuto
in Persefone la dea rivelatrice del poema. Secondo West (M.L. West, La
filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289 n. 57), la
θεά alluderebbe a Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle Titanidi (come
Temi), figlie di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora (371-4). Anche in
Pindaro (Istmiche V.1) Θεία è invocata come «Madre del Sole». Pugliese
Carratelli (“La Θεά di Parmenide”, «La Parola del Passato» XLIII, 1988, pp.
337-346) ha proposto – sulla scorta di una laminetta orfica dedicata a
Μνημοσύνη, ritrovata nel 1974 a Ipponio – l'identificazione della dea appunto
con Mnemosyne (a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi
analoghe da Sassi (op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia
di J.S. Morrison ("Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies»,
75, 1955, pp. 59-68) e W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die
Katabasis des Pythagoras", «Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente
concluso che la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che
Νύξ (Notte), variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In
particolare egli ha osservato come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza
ulteriori determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana
del portale, l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit.,
pp. 58-61), seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su
Νύξ, giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio, ma
rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema oggetto
di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla
figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan- 94 destra prese49, e
così parlava e si rivolgeva50 a me: O giovane51, che, compagno52 a immortali
guide53 Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di
identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era
quanto mai improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In
alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il Giorno), da Parmenide
evocata come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161).
Di recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op.
cit., pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti:
(i) la ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di un poema epico;
(ii) l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come
θεά; (iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema
"epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che
questa δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario
viaggio oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove
l'iniziato è interrogato da «custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine
(Sassi, op. cit, p. 390). 49 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a
testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di accogliere
nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra. 50 Il verbo
greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v. 26:
«spingeva»): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione sono
impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano il punto di
partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire» (O’Brien, p.
8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto. 51 Il termine
vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta,
potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana degli
interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος), relativamente
raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto all’anziano, sia il
figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può implicare anche un
legame particolare con la divinità, dal momento che κοῦρoι erano chiamati i
giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei (negli inni omerici a
Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe
titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare come l’appellativo
sia coerente con il contesto educativo, giustificando la disponibile e benevola
accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa l'appellativo κοῦρε
a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva iniziatica. 52 Il
termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato
a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da
accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a συναείρω («aggiogare»),
con il significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in questo caso,
dunque, è evidente il debito del proemio 95 [25] e cavalle che ti conducono,
giungi alla nostra casa54, rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva
a percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli
uomini57), ma Temi58 e Dike 59. Ora60 è necessario61 che tutto62 tu63
apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, p. 137). Da
sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in
questo modo un «compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι.
Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles
1986, p. 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle
Eliadi – κοῦραι - e del poeta - κοῦρος. 53 Il sostantivo maschile ἡνίοχος
designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche per
indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e
governa. Nel contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari
(op. cit., p. 107), l'espressione ἡμέτερον δῶ («la nostra casa») richiamerebbe
δώματα Nυκτός («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione
che la Dea sia da identificare appunto con Νύξ. 55 In Esiodo abbiamo tre Moire,
figlie di Zeus e Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade XIII, 602 per
indicare la morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo
preciso dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e
Ferrari traducono come «sorte maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più
preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore di «fato» o
«destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389). 56 L'espressione
τήνδ΄ ὁδόν sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire
dalla prima evocazione (vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della
strada/via è rimasto dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato
lungo l'itinerario del poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento
coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È
probabile ritrovare in questo passaggio un’eco del precetto pitagorico
conservato da Porfirio (e sopra citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος
δαίμονος dei vv. 2-3): τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade
popolari»). 58 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» (θέμις). Temi era
una delle Titanidi, figlie di Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore,
nonché una delle spose di Zeus. 59 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e
Dike sembrerebbe essere proposto a garanzia della eccezionalità dell’evento
rivelativo. Il riferimento a Temi potrebbe giustificare l’intervento delle
Eliadi presso Dike per persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti
dovuto rimanere 96 sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68, serrata
per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle
parole della divinità innominata. Tenendo conto della associazione delle due
dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento proietta e
impone sulla successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine e di
necessità (cosmici). In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti
(p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke (Necessità),
rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione di norma
cosmica». 60 Pochi traduttori traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce
valore avversativo («Ma»), altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano
(«also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è legata forse
solo a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione
iniziale della Dea: ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino,
quindi sottolinea il compito che lo aspetta. 61 Il termine χρεώ è associato
nell'epica a χρειώ, che nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero
e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro.
Analogamente χρεώ, che, preso il posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo
di χρή (Passa, p. 77-8). La formula (con copula sottintesa) χρεώ rende una
necessità soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto che una
costrizione oggettiva: si potrebbe rendere anche con «è giusto», «è opportuno».
In ogni modo, l’uso di tale formula implica che quanto la Dea sta per esprimere
è parte del compito, del dovere che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op.
cit., p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros per
la dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε). 62
La scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è
significativa perché garantisce al programma della comunicazione (rivelazione)
della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le
articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza sui pronomi
personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità
«tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»). 64 Il verbo πυνθάνομαι ha il
valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero
«imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva
ricezione, sia di attiva ricerca («di tutto fare esperienza»). 65 Secondo Coxon
(p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel
contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer
(op. cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce
con «Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik
(Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della
preistoria del termine, come 97 ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e
non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e
soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare
«riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In
effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi:
Gloria Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato»,
vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità
sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che connette
soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a
chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale
manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui «conoscere
e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In effetti, già
Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3),
poteva sottolineare: αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν
ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον la causa di questa
opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno
agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili.
L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori
presocratici è ribadito in Aristotele, per esempio: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ
φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων Coloro che per primi
hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti
(Fisica I, 8 191 a25). Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha
fatto notare Leszl (p. 16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle
opere di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate,
accanto alla corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί
τοῦ ὄντος e περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della
inadeguatezza della tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il
proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso
contiene «la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da
Parmenide»: Ἀληθείη, in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale
rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina». Come segnala
l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei
reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica. 98 È allora
da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina
appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea
del problema della verità, dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico,
soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe
fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso
proemio). Su questo punto ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7. 66
Accogliendo la lezione εὐκυκλέος rendiamo letteralmente con «[Verità] ben
rotonda». Effettivamente ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος,
se si potesse senza problemi tradurre come «persuasiva» (o «ben persuasiva»).
Nel verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν
δόξας) non vi sia «vera credibilità» (πίστις ἀληθής): con una inversione,
Parmenide passerebbe da una «verità» (ἀληθείη) «persuasiva [credibile]» (εὐπειθής)
a una «vera» (ἀληθής) «credibilità» (πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come
la via «che è» (ὅπως ἔστιν) sia «sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος),
in quanto «a Verità si accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In conclusione della sua
esposizione della verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1): ἐν τῷ σοι παύω
πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης A questo punto pongo termine per te al
discorso affidabile e al pensiero intorno alla verità. È indiscutibile
l'insistenza parmenidea sul nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in B2 sono proposte
sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione εὐπειθέος è
che il significato antico dell'aggettivo εὐπειθής – attestato ancora in Platone
e Aristotele - è quello di «obbediente» «disponibile/pronto all'obbedienza»: il
significato di «persuasivo» è posteriore. Nell'economia del poema, anche
l'aggettivo εὔκυκλος – attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è comunque
denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più citati
in assoluto nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a
un'immagine: εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ («simile a massa di ben rotonda
palla»). 67 Il sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali,
uomini, dei, quindi in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a
quello di θυμός, per veicolare l’idea di un’attività intellettuale emotivamente
tonalizzata. In Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός,
sembrerebbe coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È
significativo che Parmenide opti di correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità
all’uomo che la deve conoscere (Stemich, op. cit., pp. 78-80): nella
letteratura arcaica ἦτορ è piuttosto 99 [30] sia dei mortali le opinioni69, in
cui non è reale credibilità70. connesso al corpo (Passa, p. 52). Il termine ἦτορ
può indicare la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la
fermezza rilevata da Parmenide, ma anche la parte essenziale dell’uomo: in
riferimento al Tutto, la «verità ben rotonda», compiuta, perfetta (Ruggiu, p.
199). R.B. Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951,
p. 106) vi vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la
sede del linguaggio. Questo può significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ
Parmenide intendesse far corrispondere la «sostanza conoscitiva e insieme
linguistica del messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53). 68
L'aggettivo ἀτρεμές (letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per
adeguarlo al contesto) come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale),
«incrollabile» (Cerri, che rende però la formula ἀτρεμὲς ἦτορ come «il sapere
incrollabile»), suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo
ritroveremo annoverato tra i σήματα in B8.4). 69 Contrapposte alla Verità, la
Dea propone βροτῶν δόξας («opinioni dei mortali»), insistendo sia sul
tradizionale discrimine tra sapere divino e ignoranza umana, sia sulla
opposizione tra «l’uomo che sa» (εἰδώς φώς, v. 3) e «i mortali che nulla sanno»
(βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei mortali che non hanno conoscenza,
il kouros deve conoscere tutto. Per connotare il punto di vista dei mortali, la
dea (Parmenide) ricorre a un termine – δόξαι – che, a differenza del mero
manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una passiva registrazione empirica, implica
giudizio e accettazione (ancorché affrettati e scorretti), opinione assunta
attraverso una decisione, di cui, dunque, i «mortali» non sono vittime ma
responsabili. In questo senso Couloubaritsis, per esempio, traduce con
«considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche (p. 66): Parmenide
evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un punto di vista ad
altri alternativi. Il poeta, invece, è presentato come portavoce di una
divinità anonima, scevra della soggettività dei mortali, impersonale: ella non
è altro che la Verità stessa. Significativo l’accostamento a Eraclito: οὐκ ἐμοῦ,
ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il
logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50). Interessante
il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un lungo esame della nozione di ἀληθεια:
δόξα indicherebbe a un tempo l’opinione che abbiamo circa le cose e il modo in
cui le cose si presentano a noi. 70 Il termine greco πίστις conserverebbe –
secondo Heitsch (Parmenides, Die Fragmente, p. 95) – il valore di «prova,
dimostrazione per credibilità o 100 Nondimeno71 anche questo72 imparerai73:
come le cose accolte nelle opinioni74 fiducia» o semplicemente di «prova,
dimostrazione» (Beweis) sia negli oratori attici, sia in Platone e Aristotele.
Egli propone di utilizzare questo valore anche nel contesto di B1. Palmer (op.
cit., p. 92) osserva, invece, come πίστις sia in questo passaggio impiegato con
valore soggettivo, dunque nel senso di «trustworthiness»: tale (non genuina)
«credibilità» si riferirebbe, tuttavia, non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma
alla loro esposizione nel resoconto della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄
ἔμπης - composta da congiunzione avversativa (ἀλλά) e avverbio (ἔμπης) – è
impiegata nel greco omerico come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless,
«nondimeno»), più tardi con valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia,
comunque»). Cordero (p. 32) osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata
in Omero per introdurre una restrizione di senso rispetto a quanto appena
enunciato: nel nostro contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea
intenderebbe sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il
kouros dovrà essere informato sulle opinioni. La stessa convinzione era stata
espressa da un altro grande interprete di Parmenide, Tarán: i vv. 31-32 del
frammento «show the purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides
to learn the opinions of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they
are false» (p. 211). 72 Il pronome ταῦτα (letteralmente «queste cose») può
indicare quanto precede immediatamente, quindi riferirsi alle «opinioni dei
mortali», ovvero specificare ulteriormente πάντα («tutto», v. 28), riferendosi
a quanto segue (in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). La
prima soluzione appare più naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è
possibile la lettura dei due versi finali con un futuro programmatico
(μαθήσεαι) e una proposizione dipendente introdotta per definirne gli
obiettivi. In effetti, come nota Cerri, nell’uso corretto greco, per anticipare
quanto segue sarebbe stato più naturale τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes
(One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies,
Washington 1971, p. 302 nota 27) con paralleli in Erodoto, l'uso contemporaneo
non escludeva un valore prolettico del pronome. Nella nostra lettura, la Dea,
effettivamente, si riferisce ancora alle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι),
i cui contenuti («le cose accolte nelle opinioni», τὰ δοκοῦντα) intende
riscattare: ταῦτα, quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca quel che precede,
precisandone il senso, e introduce l’ultimo punto del programma della
rivelazione (corrispondente alla seconda grande sezione del poema). 73 Il verbo
μανθάνομαι ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a
πυνθάνομαι), ma anche di «comprendere, discernere». 101 Patricia Curd (The
Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton
University Press, Princeton 1998, pp. 113-4) ha marcato le differenti
implicazioni semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι
suggerisce che si raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre
μανθάνω suggerisce piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto
di giudizio. 74 Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα,
cercando di salvarne le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ
δοκοῦντα indica le cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono
accolte nel giudizio di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi,
quanto del loro contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano)
in quei punti di vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ
ἐόντα (Ruggiu, p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle
opinioni», le cose che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come
è visto dai mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di
«correlati intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai».
Mourelatos (p. 204), che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei
termini greci in radice dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: «le
cose che i mortali ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali
[le] ritengono accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i
termini con cui i mortali accettano o riconoscono le cose costituiscono l'identità
propria dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études sur
Parménide, t. II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in
Simplicio ricorra la formula τὸ δοκοῦν ὄν, «l’essere apparente», «ciò che
sembra [essere] ente» in contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, «l’essere in senso
pieno, assoluto». Una formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere
eco di una espressione autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp.
267 ss.), ribadendo il doppio registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) -
in una direzione rivolto al discorso, in altra alla cosa - segnala il
posteriore accostamento aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di
τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα e in genere la convergenza insistita in ambito
peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ e τὸ φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ
δοκοῦν rispetto all'altro termine sarebbe tuttavia da rintracciare proprio
nell'aspetto opinativo, nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν
(«considerare») si preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto
legata alla parola e all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene
sviluppata nel poema. In questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270)
crede che l'espressione τὰ δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai
mortali piuttosto che da loro percepite. Più puntualmente: le cose che i
mortali hanno designato per spiegare il mondo in divenire. 102 era necessario75
fossero effettivamente76, tutte insieme77 davvero esistenti78. 75 L’imperfetto
χρῆν seguito dall’infinito può indicare un tempo reale del passato (pensando
soprattutto all’origine delle erronee opinioni mortali e all'alternativa
proposta esplicativa di Parmenide), ovvero un tempo irreale, del passato o del
presente. Nel contesto, come segnala Robbiano (p. 180), la forma verbale può
riferirsi a un requisito nel passato che o è stato o non è stato ottemperato.
Ricordiamo che nel greco arcaico il verbo esprime piuttosto convenienza che
necessità logica (quindi «è giusto, opportuno»). La concomitante presenza di
δοκίμως rende, secondo noi, più logico pensare che Parmenide intendesse
contrapporre alle «opinioni dei mortali» una prospettiva esplicativa
alternativa e plausibile rivolta agli stessi oggetti di quell'opinare: questo
passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di Palmer (op. cit., p.
363): «Nonetheless these things too will you learn, how what they resolved had
actually to be [...]». 76 L’avverbio δοκίμως è qui usato come complemento
dell’infinito εἶναι: il predicato in effetti può essere espresso da un
avverbio, facendo così assumere al verbo «essere» il suo valore pieno di
esistenza. L’avverbio può tradursi sia con «plausibilmente», «accettabilmente»
(Mourelatos, p. 204), sia con «realmente, genuinamente» (secondo l’uso eschileo).
Rendendo l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà, si determina una
costruzione ambigua, che afferma e nega a un tempo (come irreale) un’esistenza
qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una sorta di gioco
espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito (O’Brien, pp. 13-
4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43) cita in proposito
DK 22 B28: δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει... (anche) l'uomo più
considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero opinioni]. Secondo lo
studioso italiano, proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e δοκίμως comporterebbe
un «cortocircuito etimologico»: il participio sostantivato, con le sue
potenzialità semantiche negative (parvenze), è coniugato con un avverbio dal
significato positivo di accettabilità, plausibilità. δοκίμως deriva da δόκιμος
(«accettabile», «approvato», «stimato»); il verbo δοκιμάζω conferma il senso di
«mettere alla prova» e «approvare»: l'avverbio ha dunque in sé implicite le
sfumature di «come conviene» e di «realmente», «veramente». La sua radice
indoeuropea *dek- evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità
(Couloubaritsis, op. cit., p. 271). Accettando, invece, la vecchia lezione di
Diels (δοκιμῶσ(αι) εἶναι), ripresa, tra gli altri, da Untersteiner e
recentemente da Di Giuseppe, il senso di ὡς τὰ 103 δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι
sarebbe: «come era necessario acconsentire (riconoscere) che le cose che
appaiono ai mortali sono». 77 Traduco in questo modo il testo greco, intendendo
διὰ παντὸς πάντα come una formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p.
204), il quale fa leva su paralleli testuali che vanno dalla letteratura
ippocratica a quella platonica. Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le
cose] insieme» (all of them together), ovvero «tutte [le cose] continuamente».
Sulla scorta dell’uso platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205)
propone di leggere in διὰ παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel corso
di una competizione. In alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso»
(Tonelli), «in un tutto» (Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo
il significato e la funzione di πάντα («tutte le cose»). 78 Si è dato notizia,
in nota al testo greco, delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα) dei codici di
Simplicio. Come ha giustamente fatto notare la Curd (op. cit., p. 114, nota
52), entrambe le letture rendono complessivamente lo stesso significato.
Traduciamo ὄντα come participio e non come sostantivo (manca, in effetti,
l’articolo τὰ), ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo,
designasse le realtà che esistono davvero e nei filosofi ionici l’oggetto della
ricerca, la realtà permanente del mondo (Brague, pp. 61-2). 104 DK B2 εἰ δ΄ ἄγ΄
ἐγὼν 1 ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας, αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι·
ἡ μὲν ὅπως ἔστιν2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ
4 γὰρ ὀπηδεῖ -, [5] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών5 ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή
τοι φράζω παναπευθέα6 ἔμμεν ἀταρπόν7 · οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ
ἀνυστόν8 - 1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν (proposto come emendazione dei codici di
Proclo da Karsten e accolto da Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge
con i codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò di queste cose»), difendendo la
propria scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in
dipendenza da verba dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più
naturale dal punto di vista paleografico, ma valorizza anche l’opposizione ἐγώ
- σύ, che nel testo pare significativa. La forma ἐγών riflette l'uso omerico,
che dissimulava l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per
eliminare gli iati creatisi nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico
(Passa, p. 74 nota). Qui il –ν di ἐγὼν supplisce il digamma iniziale di ἐρέω. 2
Come segnala Cordero (N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide",
in Études sur Parménide, cit., t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν
è correzione di Mullach: la tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice
moscovita W di Simplicio è l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa
(p. 97) osserva come i sei casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico
davanti a consonante rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla
dizione omerica». 3 Come in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale.
4 Seguiamo Gemelli Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco
maiuscolo. I codici di Proclo e Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta
degli editori. 5 La formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e
in Pindaro si trova solo l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή
(Passa, p. 79). 6 I codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli
di Simplicio παναπευθέα, forma corretta, come rivela il confronto con Odissea III,
88. Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a memoria.
7 Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da τρέπω). 8 I
codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da ἐφικνέομαι),
quelli di Simplicio ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta paralleli in
Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua 105 οὔτε φράσαις· [vv. 1-8
Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam
116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5] plausibilità, ma la
forma ἀνυστόν («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in
Melisso (B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione
Proclo potrebbe nuovamente aver fatto ricorso alla citazione a memoria: il
significato di οὐ ἐφικτόν è prossimo a quello di οὐ ἀνυστόν: «risultato che non
si può raggiungere». 106 Orsù1, io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una
volta ascoltata5 - 1 La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata
nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ (Cerri – p. 187 - cita a esempio
un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea). 2
Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si
rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX)
ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune espressioni che
ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura
tradizionale. 3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione
e cura (come di cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole
Mansfeld, pp. 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con
«accompagna la mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit.,
p. 135) recupera, invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come
«riporta con te». 4 Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda
significa (come il latino fabula) una narrazione meravigliosa, in origine
indicava qualcosa di completamente diverso: la «parola», la parola che esprime
ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione
della oggettività: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa,
e, in questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in
W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp.
30-32). Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso,
comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la traduzione di Tarán
(«word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account», quanto la Dea ha da
dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero, in cui il
valore del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo
progressivamente, nell’uso post-omerico, il significato di «discorso» sarebbe
sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare «mito». Anche alla
luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito
tradurre con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the
Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000, pp. 17-18) distingue tra l’uso
di ἔπος per «parola» o genericamente «affermazione» e quello di μῦθος, che,
come rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un
«authoritative speech act». In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella
nuova edizione del suo volume su Parmenide, ha insistito su una resa poco
familiare ma attenta a conservare un aspetto essenziale del valore originario
del termine greco: egli traduce (La pensée de Parménide,, Ousia, Bruxelles,
2008, p. 541) come «ma façon de parler autorisée». Una traduzione di
compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura delle mie parole dopo averle
ascoltate». 5 Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII, 129: 107
quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8 per pensare9: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ
σύνθεο καί μευ ἄκουσον Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi. 6 Il
valore di μοῦναι è stato da alcuni interpreti relativizzato, intendendolo nel
senso debole di «le sole legittime» (Conche, p. 76), da altri reso in senso
forte, come se le «vie di ricerca» indicate costituissero le due sole
possibilità per pensare (Cordero, p. 39). In effetti è difficile scindere il
valore di μοῦναι dal successivo infinito e dal relativo significato. 7 È
interessante segnalare come il termine ὁδός – che, nota Cerri (p. 60),
ossessivamente ritorna nel versi parmenidei – non abbia solo il valore
metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si sviluppa un’indagine
per giungere alla verità: esso può suggerire anche l’idea di «direzione di
vita», linea di condotta (Stemich, op. cit., p. 199), come è possibile
riscontrare in Eraclito, letteralmente e metaforicamente (in riferimento al
comportamento da assumere nella ricerca della verità). In Parmenide, tuttavia,
nel ricorso a ὁδός prevarrebbe la suggestione di un peculiare metodo di
pensiero e ricerca. La Stemich in questo senso indica (op. cit., pp. 200-1) una
convergenza tra l’illustrazione parmenidea del metodo per giungere alla conoscenza
dell’essere – inteso come via che conduce oltre l’ambito sensibile in un ambito
metafisico - e il percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello nel Simposio
di Platone. 8 Coxon (p. 173) osserva come l’espressione ὁδοὶ διζήσιος occorra
solo in Parmenide (e in un frammento orfico di dubbia congettura), forse per
sottolineare la peculiarità della propria ricerca rispetto a quella ionica.
Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, p. 147) δίζησις
costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη («ricerca
scientifica»). Oggetto di investigazione è (B6-B8) l’essere (τὸ ἐόν), ovvero
(B1.29 e B8.51) la realtà (ἀληθείη): «vie di ricerca», dunque, perché hanno
come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5) rileva come il verbo δίζημαι,
corrente in Omero nel significato di ricercare una persona o cosa scomparsa,
ovvero ricercare per identificare qualcuno, assuma il senso definito di
indagare (e anche interrogare) in Eraclito e Erodoto. L’espressione δίζησις
sottolineerebbe così che la ricerca riguarda qualcosa che non è manifesto o
accessibile fin dall’inizio. Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 125) il
termine suggerisce anche l’attiva partecipazione richiesta per l’indagine
stessa. 9 Come puntualmente rileva Cordero (p. 40), l’infinito aoristo νοῆσαι
ha valore di infinito finale o consecutivo, ma è spesso stato letto con valore
passivo, come se εἰσι («sono») avesse a sua volta valore di possibilità («siano
[possibili] da pensare», «logicamente pensabili»). La scelta del valore attivo
108 l’una10: [che11] è12 e [che] non è possibile13 non essere14 – comporta che
sia più facile spiegare la presenza delle successive congiunzioni dichiarative
(ὅπως, ὡς), che possono corrispondere alla attività di pensare («l’una per
pensare che …», «l’altra per pensare che …»). È possibile inoltre trovare un
riscontro nel poema Sulla natura di Empedocle, dove il frammento DK 31 B3.12
presenta costruzione analoga: ὁπόσηι πόρος ἐστὶ νοῆσαι («dove ci sia passaggio
per conoscere»). O’Brien (pp. 153-4) fa dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι
ovvero dall’unità sintattica μοῦναι + εἰσι: «Je dirai quelles sont les voies de
recerche, les seuls à concevoir». La Robbiano (op. cit., p. 82) valorizza
l’ambiguità nell’espressione di Parmenide, e propone, di conseguenza, di
accettare contestualmente entrambe le interpretazioni: quella che fa delle vie
l’oggetto del νοεῖν (da pensare) e quella che fa del νοεῖν la meta delle vie
(per pensare). Contro la resa attiva e finale dell’infinito le osservazioni di
Sellmer (S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des
Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-12),
in particolare il problema dell’impraticabilità della seconda via per il
pensiero. Contro la lettura potenziale di εἰσι νοῆσαι Kahn, Essays on Being,
cit., p. 146, nota 4. Abbiamo reso νοεῖν genericamente con «pensare», ma – come
suggerito da vari interpreti - si potrebbe scegliere una espressione più
specifica, come «comprendere», o anche «afferrare», che ancora conservano
traccia dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in
profondità e più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos,
pp. 68 ss.). Vero è che nei frammenti ci si riferisce a νόος (πλακτὸν νόον,
B6.6) anche per designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò potrebbe
indicare che Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e derivati nel
loro significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia,
l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone. Recentemente
Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e
una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding.
Tonelli, invece, rende direttamente come «intuire», per la continuità tra il
verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che «attraversa e penetra
l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 10
L’indicazione delle «uniche vie» è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν
- ἡ δέ: si tratta di una alternativa ulteriormente delineata con coerente
corrispondenza anche nella costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo
contesto ὅπως e il successivo ὡς congiunzioni che introducono una dichiarativa
(retta da un sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). In
questo senso, suggeriamo la possibilità di 109 di Persuasione15 è il percorso16
(a Verità17 infatti si accompagna) – leggere il verso come: «l’una: è e non è
possibile non essere» (analogamente il v. 5: «l’altra: non è ed è necessario
non essere»). L’uso di ὅπως e ὡς per introdurre le due vie sarebbe – secondo
Chiara Robbiano (op. cit., p. 82) - illuminante: esso suggerisce che esse sono
due modi di guardare alle cose, due prospettive: ὡς sarebbe, infatti, preferito
a ὅτι quando si voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero
introdurre qualcosa intorno a cui esistano opinioni differenti. Per la studiosa
italiana (p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro implicazioni avverbiali,
servirebbero a esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva,
manifestando dunque il proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il
migliore dei mondi impossibili, cit., p. 40), il quale rende in entrambi i casi
con «secondo cui». 12 La terza persona singolare – ἔστιν - del presente di εἶναι,
«essere», è qui resa letteralmente, senza decidere del suo valore
(esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra
i traduttori moderni, Tarán sceglie di renderla con «exists», Conche con «il y
a», per sottolineare l’idea di presenza. In coerenza con il testo greco, non
attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo sottinteso: si rinvia al commento
per un chiarimento. Coxon ricorda che l’omissione del pronome indefinito come
soggetto sia ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore (p. 175). 13
Letteralmente ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere come «che non
[c’]è/esiste non essere», ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale, «che il
non-essere non è», cui corrisponderebbe, simmetricamente ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι:
«che, come necessario, il non essere è». Ma, proprio considerando l’emistichio
5b (dove la traduzione «è necessario che… appare più naturale), optiamo per
attribuire a ἔστι valore potenziale e considerare μὴ εἶναι come infinitiva:
«che non è possibile non essere» (più ambigua), ovvero «che non è possibile che
non sia». Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le
sue implicazioni logiche, per le quali è molto lucida l’analisi di Leszl (pp.
131 ss.). 14 La nostra traduzione è vicina a quella di Heitsch: «Der eine, (der
da laPomba) “es ist, und Sein ist notwendig”». Frère (J. Frère, Parménide ou le
Souci du Vrai. Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: «Le
premier chemin énonçant: est, et aussi: il n’est pas possible de ne pas être».
15 Come divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad
Afrodite, alla dea dell'Amore, in quanto esercita fascinazione e seduzione. È
dunque originale e significativa la connessione stabilita da Parmenide, in apertura
della comunicazione divina, tra Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami
persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica 110 [5]
l’altra: [che] non è e [che] è necessario18 non essere19. Proprio20 questa ti
dichiaro21 essere sentiero22 del tutto privo di informazioni23: impliciti nella
affermazione appena introdotta:«è e non è possibile non essere». 16 Il termine
κέλευθος viene da Coxon distinto da ὁδός come il «viaggio» lungo la «via»,
contribuendo in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione
di μέθοδος, e di filosofia appunto come viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già
segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής (e ἐτήτυμος) significhino «reale»
e ἀληθείη «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più
esplicita, che ricava dai contraddittori caratteri negativi di μὴ ἐὸν (verso
7): egli traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz). Palmer ricorre a una
formula inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce
alla realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola,
intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel linguaggio
omerico, anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà il falso, indicato
da ψεῦδος o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata manifestazione della
realtà (su questo Germani, op. cit., pp. 183-4). 18 Colleghiamo, come appare
naturale, l’espressione greca χρεών al verbo ἔστι, traducendo con «è
necessario», conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών può
stare da solo, inteso come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς,
assume valore avverbiale: ὡς χρεών potrebbe essere dunque inciso avverbiale in
una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale («come
conveniente»). Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in
espressioni come κατὰ τὸ χρεών (Anassimandro DK 12B1: «that which must be»
secondo LSJ), ma per lo più nell'espressione χρεών [ἐστι] con il significato di
χρή («è necessario»). 19 Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e
interpretato ὡς χρεών avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio
potrebbe essere: «e, come conveniente, il non-essere è». Si tratta di una
possibilità, che suona tuttavia piuttosto improbabile. Così come la traduzione
proposta da Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8):
«l'una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non sia lecito...
l'altra secondo cui non è lecito ed è necessario che non sia lecito».
Coerentemente con la scelta del v. 3, Heitsch traduce: «Der andere, (der da laPomba)
“es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig”»; Frère (J. Frère, Parménide ou le
Souci du Vrai…, cit.) rende: «L’autre chemin énonçant: n’est pas, et aussi: il
est nécessaire de ne pas être». 20 Traduciamo avverbialmente la particella δή,
che molti decidono di non rendere ovvero di rendere come congiunzione («e») per
marcare una 111 poiché non potresti conoscere ciò che non è24 (non è infatti
cosa fattibile25), né potresti indicarlo26. transizione nel discorso della Dea.
In effetti, δή è frequentemente posposto a un pronome (nel nostro contesto τὴν
con funzione pronominale), con il risultato di accentuare il rilievo nella
frase. 21 Coxon osserva che il verbo φράζω, che in epica significa «indicare,
evidenziare», è usato da Parmenide con oggetto diretto o accusativo e infinito
nel senso (poi regolare) di «spiegare» (p. 177). 22 Il termine ἀταρπός è
contrapposto a ὁδός e κέλευθος, impiegati in B1 (vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e
4: mentre in B1.21 eravamo informati del fatto che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν
«lungo la via maestra», in questo passaggio, accennando alla seconda via,
Parmenide ricorre a un’espressione che veicola l'idea di sentiero, tracciato
secondario, scorciatoia. 23 L’aggettivo παναπευθής può indicare –
attribuendogli senso passivo - ciò che è del tutto ignoto, ovvero, in senso
attivo, appunto «ciò che è del tutto privo di informazioni», ovvero
«imperscrutabile» (Tonelli p. 119), come la via che pensa che «non è». Si
tratta, nell'economia del discorso divino (e del poema), di un punto
essenziale: la seconda via delineata non è proposta come «falsa», non è
scartata come follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος, come si sottolinea in
B6.6 a proposito della presunta ὁδος διζήσιός «inventata» da coloro che sono
apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma che è sentiero lungo
il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può manifestare la
realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo. 24 L’espressione τό
μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come «il non essere». Secondo Coxon (p. 177)
essa si riferisce al soggetto della seconda via, di «non è», come manifestato
in B6.2 dall’uso del pronome indefinito μηδέν (nulla). In effetti l'espressione
τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della dichiarazione del verso
precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda via,
necessariamente priva di informazioni. 25 L’aggettivo verbale ἀνυστόν è
attestato in Simplicio: con la precedente negazione (οὐ), il valore – da ἀνύω
(«fare, compiere») - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo
commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo
a quello del termine ἀμηχανίη: esprime una impossibilità che scaturisce da
ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di impraticabilità
che οὐ ἀνυστόν porta con sé: «that which cannot be consummated». 26 La
traduzione di φράζω con «indicare» vuol rendere il senso di «manifestare in
segni» (anche a parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso)
manifesto attraverso tracce, come saranno i σήματα dell’ἐόν in B8. 112
Mourelatos (p. 76) segnala che φράζω è impiegato nell’Odissea all’interno del
motivo del viaggio, in riferimento al gesto di una guida che mostri a un
viaggiatore il luogo o il percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere
οὔτε φράσαις, restringendo il campo semantico del verbo, con «né potresti
parlarne». 113 DK B3... τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν1 τε καὶ εἶναι. [Clemente
Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440); Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5;
Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia platonica I, 66 (ed. Saffrey,
Westerink)] 1 Il codice di Clemente riporta ἐστί; il testo di Plotino, in due
luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è correzione degli editori. 114 La stessa
cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3. 1 Zeller, seguito da Burnet, Cornford,
Raven e altri, rende i due infiniti come dipendenti da ἔστιν (non ἐστίν) con
valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι νοῆσαι), quindi con «denn dasselbe
kann gedacht werden und sein». Tarán, che accetta il suggerimento di Zeller,
rende con «for the same thing can be thought and can exist». Anche per O’Brien
(pp. 19-20) i due infiniti sono complementi del pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità
sintattica pronomeverbo. Quest’uso completivo dell’infinito (νοεῖν)
ammetterebbe che lo si traduca come un passivo o equivalente: «C'est en effet
une seule et même chose que l'on pense et qui est» («For there is the same
thing for being thought and for being»). Il fatto che, optando per questa
soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due infiniti (εἶναι) diventi
oggetto dell’altro (νοεῖν), non rappresenterebbe un problema, essendo già
attestato nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come osserva Conche (op.
cit., p. 89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι. D’altra parte,
seguendo Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il senso «ovvio» del
greco (Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la stessa cosa», con τὸ αὐτὸ
predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase. Un’alternativa sensata, che
tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti sopravvissuti e soprattutto
del senso dei vv. 34-36a di B8: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα.
[35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν è
quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as is for being»),
variata nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for the same thing is
(there) for understanding and for being». 2 Secondo Cerri (p. 194), qui per la
prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di «capire
razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente attribuire a
νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica ricerca filologica, von Fritz
(K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in Presocratic Philosophy
(Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to Parmenides”, «Classical
Philology» 40, 1945, pp. 223-242) osserva come νοεῖν in Omero significhi
«comprendere una situazione» e come questo valore sia ancora presente nel poema
di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo di deduzione logica:
sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto con la realtà ultima
(p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν come «intuire»,
cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, nella percezione
che 115 «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno
con esso» (p. 118). 3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144) osservano che, sebbene
la continuità di B3 con B2 sia incerta, metricamente B3 costituirebbe con B2.8
una perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp. 22-23) aveva in effetti
già proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2, integrando il testo tràdito
in questo modo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε
φράσαις· [B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι < ὅσσα νοεῖς φάσθαι
>, Ché quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare infatti è lo
stesso che dire che è quel che pensi!. 116 DK B4 λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα νόῳ
παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον
πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. [vv. 1-4 Clemente Alessandrino,
Stromata V, 2 (II, 335); v. 1 Proclo, In Platonis Parmenidem 1152; Teodoreto,
Graecarum Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2 Damascio, Dubitationes et
Solutiones de Primis Principiis in Platonis Parmenidem I, 67] La proposta e
l'integrazione sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni. 1 Due codici di
Teodoreto con la citazione di Clemente riportano ὁμῶς («ugualmente») in vece di
ὅμως. Tra gli editori moderni solo Hölscher e Untersteiner preferiscono quella
lezione. 2 I manoscritti di Clemente riportano ἀποτμήξει, quelli di Damascio ἀποτμήσει:
ἀποτμήξει sarebbe effetto di una atticizzazione del testo parmenideo,
probabilmente antica (come evidenziato dall'unanimità dei manoscritti). Secondo
Passa (pp. 34-5), come avevano colto gli editori ottocenteschi che correggevano
ἀποτμήξει in ἀποτμήξεις, la forma verbale corretta sarebbe quella della seconda
persona singolare del futuro medio (ἀποτμήξῃ) nella probabile trascrizione di
un esemplare attico. 117 Considera1 come cose assenti 2 siano comunque3 al
pensiero4 saldamente5 presenti6; 1 Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero
(Couloubaritsis, pp. 336-7) per indicare la capacità di considerare
simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente: capacità
associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento, contrapposto alla
precipitazione dei giovani. Molti traduttori optano per una resa che ne
accentui il valore percettivo: «osserva», «guarda». Etimologicamente, d’altra
parte, il verbo deriva dall’aggettivo λευκός, che nel linguaggio omerico
significa «chiaro», «limpido»: porta con sé, dunque, l’idea di chiarezza,
luminosità, trasparenza, come nell’italiano «chiarire», «rischiarare». 2 Ovvero
«cose lontane». Il verbo ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un valore a un
tempo materiale e mentale, indicando la distanza (πάρειμι la vicinanza) nel
tempo e nello spazio. Manteniamo in traduzione un senso indefinito. 3
Traduciamo così la congiunzione ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore
oscilla tra l’avversativo e il concessivo, secondo i contesti. Dal momento che
è possibile legare il termine sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα, Ruggiu (p.
238) suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente polisignificante,
secondo lo stile attestato anche in Eraclito. 4 A chi debba essere
immediatamente riferito il dativo νόῳ è oggetto di discussione: è possibile
infatti accostarlo direttamente a lεῦσσε, nel senso di «chiarisci con
intelligenza\intendimento», ovvero lasciarlo legato a παρεόντα, sottolineando
come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα dipenda dalla visione dell’intelligenza: l’espressione
νόῳ παρεῖναι avrebbe appunto il valore di «essere presente alla mente, allo
spirito». 5 L’avverbio βεϐαίως (saldamente) può essere collegato direttamente
al verbo, come suggerisce Coxon (p. 188): «gaze steadily with your mind…». Lo
studioso giustifica la proposta per il parallelo con il verso di Empedocle DK
31 B17.30: τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Guardala con
intelligenza, non restare con sguardo esterefatto. La collocazione
dell’avverbio fa pensare tuttavia a un rapporto stretto con παρεόντα, di cui
esprimerebbe il modo d’essere, la solidità, la permanenza. L’avverbio veicola
infatti l’idea di stabilità, ma anche quella di costanza e lealtà. Robbiano
(op. cit., p. 130) rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ 118 non impedirai7,
infatti, che l’essere8 sia connesso all’essere, (B1.29): βεϐαίως esprimerebbe
l’attitudine dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo di guardare,
ma anche un modo d’essere. 6 Ovvero «prossime». Sulla struttura del verso (lεῦσσε
δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως) ha richiamato di recente l’attenzione
Graham (Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy,
Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, p. 151), il quale ne ha
rilevato la struttura a chiasmo, che ricorderebbe quella di alcuni frammenti
eraclitei, per esempio DK 22 B25: μόροι γὰρ μέζονες μέζονας μοίρας λαγχάνουσι
destini di morte più grandi ottengono sorti più grandi. 7 La forma verbale ἀποτμήξει
può essere terza persona singolare del futuro indicativo attivo (così intendono
per lo più gli editori moderni, sottintendendo νόος come soggetto), ovvero,
considerando la probabile atticizzazione del testo parmenideo, come forma
(attica appunto) della seconda persona singolare dell’indicativo futuro medio: «tu
non impedirai…». Secondo Passa (pp. 34-5) sarebbe questa, in coerenza con
analoghe espressioni del poema (εἶργε, «allontana» B7.2b; μάνθανε, «impara»
B8.52; εὑρήσεις, «troverai» B8.36), l'interpretazione corretta del passo. 8
Traduciamo il participio ἐόν preceduto dall’articolo (τὸ ἐόν) come «l’essere»,
senza articolo come «ciò che è»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma
la formula con articolo è più astratta. Come nota Cordero (By Being, It is,
cit., p. 169), Parmenide molto raramente usa l’articolo τò davanti al participio
ἐόν; in effetti participio senza articolo cattura più precisamente il carattere
dinamico della presenza denotata da ἐστί: «essendo, è». Il problema della
traduzione del termine è comunque complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was
heisst Denken, Niemeyer, Tübingen 1954, p. 133) richiamò l’attenzione sul
duplice valore di questo participio: nominale (ciò che è) e verbale (l’Essere
di ciò che è), per sostenere la tesi che già con Parmenide la filosofia sarebbe
scivolata nell’oblio dell’Essere, non riuscendo a mantenere distinti i due
valori, confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha
insistito sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato ἐόν esclusivamente in senso
verbale, come equivalente semantico di ἐστί. Il rischio di intendere il
participio nel valore nominale sarebbe quello di riconoscerne implicitamente
l’esistenza come unico ente, negando dunque la pluralità del mondo. Il che
sarebbe contraddetto dall’uso frequente di plurali (ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη
(B4.1-2, B8.25, B8.47-8). L’identità semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί
sarebbe inoltre 119 né disperdendosi9 completamente10 in ogni direzione per il
cosmo11, né concentrandosi. confermata da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2).
Thanassas sostiene che ἐόν possa identificarsi estensionalmente con la totalità
degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto
concettuale), invece, ἐόν sembrerebbe distinto da essa: il suo significato
verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma
farebbe del loro Essere il proprio obiettivo. 9 Il participio σκιδνάμενον, come
il successivo συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν. 10 La funzione dell’avverbio
πάντως (interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro
avverbio πάντῃ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore
spaziale. 11 L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi
presocratici in cui il termine κόσμος assume il valore di «ordinamento del
mondo», «cosmo» (Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra
espressione possa tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto
«nel mondo» (o «per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in
order», con il significato, dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la
Stemich (p. 190) sottolinea come dalla Dea il kouros sia chiamato a non
alterare l’essere «secondo l’ordine delle cose», attribuendo quindi alla
formula valore normativo. Coxon sottolinea il precedente omerico, traducendo
«in regular order». Noi preferiamo attribuirgli il valore cosmico, considerando
κατὰ κόσμον insieme alla forma avverbiale precedente (πάντῃ πάντως). 120 DK B5
ξυνὸν δέ μοί ἐστιν, ὁππόθεν1 ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις. [Proclo, In
Platonis Parmenidem 708] 1 La forma ὁππόθεν è correzione degli editori: i
codici di Proclo riportano ὅπποθεν. 121 Indifferente1 è per me da dove cominci,
dal momento che là, ancora una volta, farò ritorno. 1 Bicknell (“Parmenides, DK
28 B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11) ha proposto di tradurre ξυνὸν come «a
basic point»: «It is a basic point from which I shall begin: I shall come back
to it repeatedly». Collocando il frammento subito prima di B2, il senso
complessivo effettivamente è assicurato e, come è stato notato (Gallop, p. 37),
suggestivo. Difficile però avere un riscontro della traduzione proposta per ξυνὸν.
122 DK B6 χρὴ τὸ λέγειν τò1 νοεῖν τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ
ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ 3 φράζεσθαι ἄνωγα. πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος †...
† 5, 1 I codici di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten
congetturò invece τε νοεῖν, ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la
riscoperta a opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia
accolto solo da una minoranza di editori contemporanei. 2 I codici D e E di
Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori.
3 Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ, secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp.
101-2) preferisce la versione del codice D di Simplicio (considerato il più
affidabile dallo stesso Diels 1897): τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ;
il codice F: τά γε. 4 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B
e C, invece, τ΄. 5 La tradizione manoscritta presenta a questo punto una
lacuna: la proposizione manca del verbo. Congettura Diels, tradizionalmente
accettata: εἴργω («tengo lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄
ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα - «ma tu da questa via di ricerca allontana il
pensiero»). Congettura Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in riferimento al
rifiuto della seconda via di B2. Congettura Cordero: ἂρξει («comincerai»).
Congettura Nehamas: ἂρξω («comincerò»), ripresa di recente anche da Patricia
Curd, che la preferisce alla precedente in quanto mantiene il baricentro del
discorso sulla divinità, coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd
insiste in particolare sul parallelismo con i versi B8.50-52: ἐν τῷ σοι παύω
πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε
κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine al discorso
affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni
mortali impara, ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare.
L’espressione «pongo termine» corrisponderebbe a «comincerò per te» appunto di
B6.3, così come «da questo momento in poi» a «da questa via di ricerca». A più
riprese (cominciando da B1.28-30) la dea sarebbe ritornata sulla 123 αὐτὰρ ἔπειτ΄
ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν [5] < πλάσσονται > 6, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7 νόον· οἱ δὲ φοροῦνται κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος. [vv. 1-2a Simplicio, In
Aristotelis Physicam 86; vv. 1b-9 Simplicio, In Aristotelis Physicam 117; vv.
8-9a Simplicio, In Aristotelis Physicam 78] propria strategia, enunciando i
suoi principi fondamentali (B2), ribadendoli (B6.3-4) e ricontestualizzando la
propria esposizione in B8.50-52 (Curd, The Legacy of Parmenides, cit., p. 58).
Tarán, che pur accetta la congettura Diels, suppone una lacuna successiva, tra
i versi 3 e 4. 6 La tradizione manoscritta di Simplicio riporta πλάττονται,
dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In effetti πλάττονται sarebbe,
secondo Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione (intervenuta nella tradizione
manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι («mi invento»). Dello stesso
avviso O'Brien e Gemelli Marciano (II, p. 82). Coxon (p. 183) sostiene la
derivazione (per corruzione) da πλάζονται («vagano»). Diels fa della
espressione una corrutela medievale di πλάσσονται, variante dialettale di
πλάζονται, utilizzato nel poema (e in altri autori) per indicare sbandamento
intellettuale, errore. Una recente messa a punto della questione testuale si
trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con acribia sostenuto, su basi
parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce corruzione di
πλάσσονται in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p.
47 nota) ha contestato tale ricostruzione, preferendo tornare alla vecchia
correzione πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον e φοροῦνται (v. 6). Accogliamo
la correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione πλάζονται, come sinteticamente
insegna Ferrari, una valida alternativa. 7 I codici DE di Simplicio riproducono
πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma preferita da diversi editori (Coxon,
O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano, Palmer). 124 Dire e pensare1: «ciò
che è è2 », è necessario3; essere4 è infatti possibile, 1 Accogliendo la
restituzione del testo originale di Simplicio proposta da Cordero (su
indicazione di Tarán), abbiamo qui due infiniti (λέγειν, νοεῖν) introdotti da
τό, da intendere: (i) come articolo determinativo (sarebbe allora più corretto
rendere con «il [fatto di] dire e il [fatto di] pensare»), ovvero (ii) come
pronome dimostrativo («dire questo e pensare questo»). Nella nostra traduzione
abbiamo seguito la prima soluzione: i due infiniti articolari costituiscono
soggetto congiunto del quasi impersonale χρή, come suggerisce Palmer
(Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 111; ma si devono registrare
le riserve di Cassin, p. 146). Costruzioni alternative: (a) χρή regge
direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il loro
articolo e ἐόν il loro complemento oggetto («è necessario che dire e pensare
ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e Untersteiner. Una variante
interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins de
Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ εἶναι
(ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν («è necessario dire e pensare ciò che è».
Cordero, tuttavia, nella revisione (2004) della sua opera, traduce
diversamente: «It is necessary to say and to think that by being, it is». (b)
χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è
articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che
siano un essere»): così, per esempio, Diels (1897), Heidel, Verdenius. Coxon
(pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con paralleli (ἐὸν
εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone,
Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è,
di conseguenza: «it is necessary to assert and conceive that this is Being».
Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ αὐτὸ
di B3). (c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui
dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò che è da dire e pensare è necessario che sia»):
così, tra gli altri, Burnet e Raven. 2 Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per
mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo, attribuendogli
tuttavia valore decisamente esistenziale. 3 L’impersonale χρή è formula di
necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può variare
in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su
questo punto Patricia Curd (1998, p. 53), 125 il nulla5, invece, non è6. Queste
cose7 io ti esorto a considerare8. riducendo così l’impianto modale dei primi
due versi del frammento. Ma il nesso con B2 suggerisce la forma di necessità. 4
Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si ripresenta infatti
il problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della traduzione
dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi correlati.
Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come infinito
sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste» (Cerri);
«infatti l'essere è» (Reale), «denn Sein ist» (Kranz), «for there is Being»
(Tarán). Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa lettura
potrebbe essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano
τò εἶναι (Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel caso si
accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione dei
soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi
versi questa traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto
perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo valore esplicativo per
riconoscergli una funzione confermativa. Se, invece, si intende εἶναι come
infinito retto da ἔστι, allora è naturale attribuire a questo valore di
possibilità (che sembrerebbe dare un senso alla particella γάρ). Alcuni
sottintendono ἐὸν come soggetto, traducendo: «solo esso infatti è possibile che
sia» (Pasquinelli); «For it is for being» (Coxon); «è possibile, infatti, che
sia» (Giannantoni); «perché può essere» (Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien
e Cordero, optano per una formula impersonale: «car il est possible d'être»;
«for it is possibile to be». 5 Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in
questo caso il suo significato più stretto, quello di «non una cosa». L’intera
frase, dunque, asserirebbe che ciò che non ha essere, non è per niente una
cosa. Kranz (in apparato) riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in
questo senso B8.10: τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 46 nota) considera possibile un rimando al non-essere,
intendendo la lezione (corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come
μὴ δ’ ἐόν. 6 Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere»,
intendendolo comunque in senso esistenziale: la necessità di affermare
l’esistenza dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità
dell’essere e l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo
essere nell’intera formula valore di possibilità: «for it is possible for it to
be, but impossible for nothing to be». Analogamente Mansfeld: «denn dieses (sc.
Das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è
convinto che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con
l’infinito in funzione completiva, e suppone un secondo infinito per completare
l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «il n’est pas possible 126 Per
prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti 10, e poi da quella11 che
appunto12 mortali che nulla sanno13 (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι) ce qui n’est rien
(μηδὲν)». L’alternativa, seguita da alcuni, è quella di rimanere fermi, in
entrambi i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán): «for there is
Being, but nothing is not». È possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale
a ἔστι e senso esistenziale alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004)
e, seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle obiezioni di O’Brien, che ritiene
improbabile la soluzione. Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p.
113) propone di considerare ἐόν unico soggetto sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ
εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo: «(What is)
is to be, but nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la
traduzione senza articolo: «nulla [ovvero niente] non è». 7 Il pronome τά
(accusativo neutro plurale) difficilmente può essere riferito esclusivamente al
contenuto dei vv. 1-2a: è invece probabile che esso alluda a quanto seguiva B2
precedendo immediatamente B6, cioè la esclusione della via «che non è e che è
necessario non essere» come effettivo percorso di indagine. 8 La formula τά σ΄ ἐγὼ
φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama l’attenzione
sull’esclusione della via «che non è e che è necessario non essere». 9
Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel
considerare questo riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός
διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a costituisce la conclusione,
e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude
Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52: ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν
τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del
non essere. Per evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a
costruzioni meno ambigue: «this is the first way of inquiry from which I hold
you back» (Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti
distolgo per prima» (Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo
lontano» (Tonelli). Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni
interpretative, che indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso,
per rimanere più aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in
funzione predicativa. 10 Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels. 127
[5], uomini a due teste14: impotenza15 davvero nei loro petti16 guida la mente
errante17. Essi sono trascinati18, 11 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il
pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che nel contesto
Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori. 12 Normalmente si lascia cadere
in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la
posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione
che precede B6. 13 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il
tradizionale contrasto tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in
particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della
κρίσις di B2. La ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la
loro «impotenza» (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες
οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali non
conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti
alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico,
l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che
Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα). 14 Il greco δίκρανοι si
riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e
in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo
essere e non-essere, fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità)
incompatibili. Robbiano (op. cit., pp. 104-5) segnala come nella lirica arcaica
il tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse
espresso nel riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia
mente (Saffo). 15 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di
aiuti per risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di
impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella
costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini,
ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli
uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte
alla propria impotenza. 16 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove
è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon
(p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός
distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale
del carro (e poi reso celebre nel mito del Fedro platonico). 17 L’espressione
πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della
«mente» (così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del «pensiero»: la
mente, invece di essere guida sicura, conduce fuori strada. 128 a un tempo
sordi e ciechi19, sgomenti, schiere scriteriate20, per i quali esso21 è
considerato22 essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti23 il percorso torna all'indietro24. 18 La forma verbale φοροῦνται
rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui conduce la mente dissennata dei
«mortali che nulla sanno». 19 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol
marcare una condizione di disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento
uditivo e visivo. Anche Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la
stoltezza manifestata dalle opinioni correnti. 20 Il greco ἄκριτα φῦλα
sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza,
tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere. Evidentemente la Dea intende
marcare, per contrasto, la prospettiva di ricerca aperta in B2 con
l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in questo caso, la «mente»
erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni ritengono (tra gli altri
anche Cerri, p. 212), che Parmenide si riferisca qui ai seguaci di Eraclito. 21
Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo rilevato
Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da articolo per
sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel contesto del frammento τό è da
riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, pp.
115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di Parmenide
dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una
costruzione analoga in B8.44b-45: τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον
πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ è necessario, infatti, che esso non sia in qualche
misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, in cui
τό rinvia a τὸ ἐόν del v. 37. 22 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha
attirato l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori greci, cit.,
p. 170, n. 36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche
individuo, ma alla malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla
opinio communis degli uomini. Leszl in questo senso osserva (p. 230) come il
passivo di νομίζω abbia il significato di «è pratica corrente». Il ricorso a
νομίζω, con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da
contrasto ai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. 129 23 Il genitivo plurale
πάντων può essere qui inteso come neutro, riferito dunque a «tutte le cose»,
ovvero come maschile, riferito quindi ai «mortali», come il precedente relativo
οἷς, «per i quali». Coxon traduce: «and for all of whom»; analogamente O'Brien,
Palmer, Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La Gemelli Marciano (II, p. 83)
segnala la composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide
riprenderebbe il v. 4. 24 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo
παλίντροπός sarebbe da vedere in connessione con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7),
indicando l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali.
Potremmo dire che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della
presunta via di ricerca inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza
che colpisce chi pretenda di seguirla. Secondo coloro che propendono per una
interpretazione del frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di
DK 22 B51: Οὐ ξυνίασι ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ
τόξου καὶ λύρης non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso,
armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira. Contro questa
interpretazione, tra gli altri, di recente A. Nehamas (“Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston &
D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 55-6), il quale sottolinea come il
termine παλίντροπός si riferisca qui in realtà ai mutamenti sequenziali delle
cose reali l'una nell'altra (come nella cosmologia milesia); in Eraclito,
invece, esso sarebbe impiegato in riferimento a un equilibrio statico. 130 DK
B7 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2
εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα
καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ 3 πολύδηριν4 ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα.
[vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258 d 2-3; Simplicio, In Aristotelis
Physicam 135, 143-144; v. 1 Aristotele, Metafisica 1089 a; vv. 2-6 Sesto
Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; v. 2 Simplicio, In Aristotelis
Physicam 78, 650; vv. 3-5 Diogene Laerzio IX, 22] 1 Alcuni codici di Aristotele
(EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli di Platone τοῦτ’ οὐδαμῇ.
Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio F), τοῦτο μηδαμῇ
(Simplicio D), τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.). 2 I codici di Sesto e Simplicio
riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος, διζήσεως), quelli di
Platone il participio διζήμενος. 3 Nonostante i codici di Sesto e Diogene
Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P. Kingsley, Reality, The
Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003, pp. 139-140), all'interno di una lunga
discussione sul valore da attribuire al termine (prima di Platone), propone
(seguito da Gemelli Marciano) di leggere, in alternativa, il genitivo λόγου. 4
Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di Sesto πολύπειρον. 131
Mai, infatti1, questo2 sarà forzato3: che siano cose che non sono4. Ma tu da
questa via di ricerca5 allontana il pensiero6; 1 Coxon (p. 190) osserva
giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da giustificare,
per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento del
successivo τοῦτο. 2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di
τοῦτο in funzione prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto
τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto
precede (per noi perduto). 3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa
a quelle suggerite da O’ Brien e Conche: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera
dompté» («Mai, infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci
ne sera mis sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»).
Secondo l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso
dell’aoristo congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle
citazioni platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista
(241 d5- 7): Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται
βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς οὐκ
ἔστι πῃ. Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla
prova il pensiero del padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che
il non-essere «è», sotto un certo aspetto; e che, per converso, l’essere, in un
certo senso, «non è» (traduzione M. Vitali, Bompiani, Milano 1992). A
rafforzare questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3. Interessante anche il
suggerimento specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso
lato come «sarà provato», che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando
l’interpretazione del passo offerta da O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ
argomenta tuttavia in modo convincente Coxon (p. 190). A suo tempo Calogero
(Studi sull’eleatismo, cit., pp. 24-5, nota) aveva puntualmente contestato
l'ipotesi τοῦτο δαμῇ, preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così:
«Non ti lasciar mai insegnare questo»). Alle osservazioni di Calogero si
richiama oggi la Gemelli Marciano (II, p. 84). 4 Il non-essere è in questo caso
espresso con il participio plurale μὴ ἐόντα, «cose che non sono». Secondo Tarán
(p. 75), ciò si collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei
sensi. 132 né abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia
violenza9, 5 Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ
διζήσιος - «questa via di ricerca» - alla seconda via: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ
συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9]
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] sostiene che la
contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano
vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli
opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In
Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono
l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver
allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge
[citazione B8.1 ss.]. Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via
che conduce al nonessere»; inoltre B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1.
Come fa osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere anche tra
l’obiettivo polemico di B6 e quello di B7. 6 Il sostantivo νόημα è qui impiegato
probabilmente nel significato – già omerico - di mente, intelligenza, organo
del pensiero e della comprensione. I primi due versi del frammento sono citati
da Platone e Simplicio: essi costituiscono un primo blocco testuale. Diogene
cita isolatamente i vv. 3-5, secondo blocco. Sesto consente di cucire i due
blocchi, citando i vv. 3-6 dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia, non
c’è posto per il verso 1. Non sorprenderà, dunque, che nella storia delle
interpretazioni il frammento abbia subito vari smembramenti e montaggi. Noi
scegliamo di conservare l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio,
l’ultimo autore che si ha fondato motivo di ritenere disponesse di una copia
del poema (ancorché non esente da rielaborazioni linguistiche e contenutistiche).
7 Coxon (p. 191) legge ἔθος in contrapposizione a νόημα (abitudine versus
analisi intellettuale): la prima forzerebbe, la seconda condurrebbe in modo
persuasivo. 8 Dal momento che ἔθος si connoterebbe autonomamente in contrasto a
νόημα, secondo Coxon (p. 191) πολύπειρον sarebbe da riferire a ὁδὸν:
contribuirebbe a determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ del verso 133
a dirigere10 l’occhio che non vede, l’orecchio risonante11 [5] e la lingua12.
Giudica13 invece con il ragionamento14 la prova15 polemica16 precedente. Cerri
(p. 216) giudica tuttavia inaccettabile la proposta (anche) per ragioni
metriche. Robbiano (p. 97) segue Coxon, insistendo sull’abitudine generata
lungo la via di cui i mortali hanno molta esperienza. Anche Nehamas (op. cit.,
p. 59 nota 50) preferisce riferire πολύπειρον a ὁδὸν, ma suggerisce la
possibilità che Parmenide intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto
riguarda la traduzione, abbiamo optato per una resa che sottolinei
nell’aggettivo il riferimento all’origine dalle molte esperienze; altri
scelgono, invece, di marcare l’effetto implicito in esse, rendendo quindi con
«molto esperta», «molto abile». 9 Il verbo βιάσθω si potrebbe rendere anche con
«induca»: come informa Cerri (p. 217), esso ricorre frequentemente nella poesia
tra fine VI secolo e inizi del V (Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel
senso di violenza esercitata dalla menzogna sulla verità. 10 Cerri (p. 217)
osserva che νωμᾶν nel linguaggio epico significa «muovere, dirigere con abilità
e destrezza». 11 Cerri (p. 217) rileva la natura ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα
e ἠχήεσσαν ἀκουήν evocano le metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le
collega a B6.7, trovandosi però in difficoltà nell’interpretazione. In B6,
infatti, esse sarebbero riferite agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella
stessa prospettiva eraclitea) contro il sapere tradizionale. 12 Coxon (p. 192)
sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la
lingua replicherebbe la confusione degli occhi e delle orecchie. La sua
proposta è contestata, per ragioni semantiche (il significato dell’aggettivo -
«risuonante» - mal si accorderebbe nel contesto con γλῶσσα), da Tarán (p. 77),
il quale suggerisce invece di considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto a
ἀκουήν e γλῶσσαν, con il valore avverbiale di «senza scopo», «a caso». Come
riconosce lo stesso Tarán, tuttavia, la lettera del verso 4, con i due
aggettivi immediatamente riferiti ai due sostantivi, rende più plausibile la
solitudine di γλῶσσαν: il termine, in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il
linguaggio ordinario. Heitsch (p. 161) suggerisce che, nel contesto, senza
ulteriori predicazioni, γλῶσσα non sia da porre sullo stesso piano degli altri
organi di senso: qui, dunque, il termine indicherebbe non l’organo del gusto ma
l’organo del linguaggio, come riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo
sull’«organo che produce nomi che non sono in grado di riflettere la verità».
13 Kingsley (Reality, cit., p. 140) rende κρῖναι come «judge in favor of», nel
senso di «scegli» (opzione adottata anche da Ferrari, Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 50); la Gemelli Marciano (II, p. 19) preferisce
«entscheide dich für» («deciditi per»). 134 14 Secondo Cerri (p. 218), del
termine λόγος – corradicale di λέγω (dire) e dunque originariamente sinonimo di
μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico del ragionamento mentale
(emergente anche in Eraclito), mentre nella seconda occorrenza nel poema
(B8.50) l’aspetto semantico del discorso che verbalizza il ragionamento (λόγος
è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126), insistendo sul
parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta connessione tra
λόγος e νόος: λόγος non indicherebbe qui «il raziocinio ma la facoltà umana di
cogliere il senso». A suo tempo Conche (p. 122) aveva sottolineato come, a
differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si allontani dalla
verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà razionale. Ma di
recente Kingsley (Reality, cit., pp. 129-50) ha lungamente argomentato che tale
significazione è solo platonica e post-platonica, mentre in Parmenide λόγος
avrebbe ancora il valore di «discorso» o «discussione»: in questo senso, egli
preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare il dativo in
genitivo, facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro la tendenza a
contrapporre, in Parmenide, il λόγος all'esperienza, si esprime anche Cordero
(By Being, It Is, cit., pp. 136-137), convinto che il significato base sia
ancora quello di «discorso». A noi pare che la resa con «ragione» sia forzata,
e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente,
argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando
l'identificazione di una facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare
un esercizio di controllo della discussione (λόγος, ἔλεγχος), pare prudente e
funzionale. 15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος.
Liddell-ScottJones, con esplicito riferimento al nostro testo, indica come
significato «argument of disproof, refutation». Di recente, Chiara Robbiano
(pp. 106- 107) – che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha
ricordato come ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già
implicita nei versi precedenti, ma anche agli argomenti di B8, che hanno «la
forma di un elenchos». In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova varie strategie
tradizionalmente ritenute in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando
correttamente il suo (della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata
completamente persuasa dal non seguire la seconda via, ma avrebbe anche
riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo
della prima via: la comprensione (insight) dell’Essere. 16 L’aggettivo πολύδηρις
sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si riferirebbe alla
polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da Zenone. In
πολύδηρις – come osserva Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di
combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza
dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones – con esplicito riferimento al nostro testo
- rende con una espressione di senso passivo: «molto contestata». 135 da me
enunciata17. Interessante l'analisi di Patricia Curd (The Legacy of Parmenides,
cit., p. 104): «The elenchos (testing) is poludēris (rich in strife) because it
must repeatedly fight against habit and experience; it is a battle to be won
over and over». Efficace la resa di A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean
Fire”, cit., p. 59), il quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον come
«giudica con la ragione l'argomento che molto contesta». 17 Mentre Diels e
Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente «annunciata»)
alla sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la intendono riferita ai
passaggi precedenti (il participio va allora tradotto più opportunamente con
«enunciata»), in cui la Dea ha introdotto le due vie e argomentato contro la
presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente tra gli interpreti,
tenuto conto dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che proietta il termine
cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un passato appena compiuto. Preferiamo
lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del suggerimento di R.J.
Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in
Presocratic Philosophy, cit., p. 76) di tradurre in questo caso il participio
aoristo come «when it has been spoken by me». 136 DK B8 vv. 1-49 μόνος1 δ΄ ἔτι2
μῦθος3 ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον
ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον5 · 1 È
possibile, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus Mathematicos VII,
111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo emistichio (b) di
B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
- è tuttavia improbabile in epica, dove si attenderebbe μοῦνος, forma (presente
nei codici DE di Simplicio) che, in effetti, alcuni editori preferiscono;
d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. Di
recente Passa (p. 87) si è espresso per la continuità tra B7 e B8, ritenendo di
dover accettare μόνος come forma autenticamente parmenidea. 2 In vece di δ΄ ἔτι,
i codici DEF di Simplicio e LEV di Sesto riportano δέ τι; il codice C di Sesto
δέ τοι. Il contesto, tuttavia, suggerisce l’adozione – largamente prevalente
tra gli editori – dell'attuale versione. 3 Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς.
4 L'emistichio οὖλον μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento
alla Fisica 120.23, 145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18), Clemente e
Teodoreto (che tuttavia non è considerato fonte indipendente), originariamente
accolta anche da Diels e per lo più ripresa dagli editori contemporanei. Nella
V edizione dei Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita
dalla trascrizione dei codici di Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές
(«è infatti intero [nelle sue membra]»), accolta tra gli altri anche da O’Brien
e Reale. Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ potrebbe essere formula
introduttiva di Plutarco: Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia
ripetuta in B8.33. Proclo cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30)
in un caso solo οὐλομελές, ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso
commentario, 6.1152.25), il testo del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε.
Si ha quindi l'impressione di una citazione a memoria (in effetti il testo è
per il resto identico a quello citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come
suggerisce Passa (p. 63), potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale
parmenidea a partire dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec.
a. C. e I sec. d. C.. Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai
codici simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in
PseudoPlutarco, Teodoreto ed Eusebio. 5 La ricostruzione del testo di questo
secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata nelle fonti
antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. 137 [5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν 6, ἕν, συνεχές7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄
ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8 φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ
ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν [10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον,
φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί. Tuttavia Simplicio presenta
anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον.
La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον
del verso precedente. Sulla variante esistono comunque dubbi e non mancano le
trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον,
ἢ δι’ ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il
suo senso appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον...
πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le
implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ
τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri
(Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno
proposto ἠδὲ τέλειον («e completo»). Una minoranza (ma significativa: Hölscher,
Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον.
6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio,
Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον.
A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: «poiché non era, non
sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero: «poiché non era, non sarà,
ma è solamente, tutto intero insieme». 7 I codici di Simplicio riportano ἕν,
συνεχές; in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές («di natura intera»), lezione
difesa e preferita da Untersteiner. 8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni
codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici omerici e per lo
più anche in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω). 9
Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel
significato originario di «debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha
riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa (pp. 82-3). 10 I codici
attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula
analoga, le lezioni si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp.
80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto tra le forme χρεών e χρεόν,
sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a quanto
riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν, 138 οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, [15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ
κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ
ἐτήτυμον εἶναι. πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; [20] εἰ
γὰρ ἔγεντ΄13, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος. οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ
μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
[25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. mentre χρεών sarebbe
atticismo: a confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello
operante sul testo omerico. 11 Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος («da
ciò che non è»): l’emendazione proposta da Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος consente di
concludere la dimostrazione come si trattasse di dilemma: l’essere non può
avere origine dal non-essere (v. 7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον).
La necessità dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102),
ma combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con
qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata – i codici di Simplicio
rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle
implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso
della successiva proposizione γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό. 12 I codici DE di
Simplicio riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende
πέλοιτο ἐόν («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una
minoranza di editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten
propose di emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò
che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi
abbandonata. 13 La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è correzione (Preller) non attestata
nei manoscritti simpliciani della edizione di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄
(EF) e ἔγετ΄ (D). 14 Qui, in vece di ἄπυστος (De Caelo A e Fisica F), nei
codici DE del commento al De Caelo abbiamo ἄπαυστος («incessante»), nel
commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος («incredibile»), in Fisica DE il
testo corrotto ἄπτυστος. 139 αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον
ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής.
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται [30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, οὕνεκεν
οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς
ἐδεῖτο. ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον19 ἐστίν, 15 Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei
codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ E a ). 16
Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio
(Phys.) riproducono (con varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di
Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει («identico,
resta in un identico [luogo]»). 17 La prima parte del verso è trasmessa con
varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές· μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6
Ea F) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30, 10. 40, 6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές·
μὴ ὂν (146, 6 D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge;
d'altra parte ἐπιδεές non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute
ampiamente i problemi connessi con la scelta del testo greco più plausibile,
propende – con riserve – per l’adozione della soluzione ἐπιδεές, accettabile
appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori
(Tarán, O'Brien, Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk,
espungono μὴ, conservando la forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con
buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές
riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione
da parte di Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in
cui già era caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito
all'ἐπιδεῖς parlato la sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo
scritto». Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta
da Bergk, conservando ἐπιδεές· μὴ ὂν. 18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν
ᾧ, quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien
(p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per
precisare il senso di ἐν ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito
da Couloubaritsis. 19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F;
143, 23-24 EF) riportano πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri
manoscritti di 140 εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ
πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, [40]
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143,
23-4 D) presentano invece πεφωτισμένον («è illuminato»). 20 Il testo del codice
di Simplicio (Phys. 146, 9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν («nemmeno se il tempo
esiste»), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto.
Coxon (seguito da Conche) ha accolto la variante οὐδὲ χρόνος («And time is
not»), che, a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per
aggiustare il senso del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ («né
esisteva infatti») – e soprattutto quella di Preller (la più adottata), che
(con qualche perplessità) seguiamo: οὐδὲν γὰρ ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende
(integrandola con la congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31)
– οὐδὲν γὰρ ἔστιν –. Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a
favore della lezione χρόνος di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si
trova, in effetti, nel contesto della citazione continua dei primi 52 versi del
frammento (B8), quasi a garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione
dell’originale, mentre l’altra lezione (Phys. 86, 31) ha più l’aria di una
libera parafrasi. Le difficoltà di questo passaggio potrebbero dunque
suffragare l'ipotesi di interventi di montaggio sulla copia del poema
disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di Simplicio (Phys. 146, 11; 87,
1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In Theaet.) οἶον («solo»); Platone
(Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον («come»). 22 I manoscritti di
Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146, 11) ovvero τ΄ ἔμμεναι (Phys. 87, 1
EF; D τ΄ ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e Simplicio Phys. 29,
18; 143, 10) τελέθει; l'Anonimo τε θέλει. 23 Il secondo emistichio è di
difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio prevalgono
tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: (i) πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται
(Diels-Kranz, Tarán, Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri);
(ii) πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano, Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli
accertamenti più recenti sui manoscritti sembrerebbero suffragare questa
seconda lettura, che ha un riscontro anche in B9.1. Accanto a varianti
secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo di Platone (Teeteto 180
e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto, Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ
(α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione Diels-Kranz perché, nel contesto, ci
sembra più naturale il senso che se ne può ricavare, anche in traduzione. 141
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν. αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον,
τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον [45] οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ.
οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26 εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν
ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ 29 γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30. [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio,
In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id. 78] 24 Si veda l'annotazione a
χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia la forma χρεών, sia la
forma χρεόν (sul piano filologico lectio difficilior), che, come sottolinea
Passa (p. 81) difficilmente può intendersi come corruzione di χρεών. Manteniamo
dunque la forma χρεόν, consapevoli dell'improbabilità del fatto che Parmenide
impiegasse la stessa formula πελέναι... ἐστιν, ricorrendo ora a χρεών ora a
χρεόν. 25 La lezione dei codici di Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν (ovvero ὄν):
l’edizione aldina emendò οὔτε ἐόν in οὐκ ἐὸν, per lo più accettato. Diels
(1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ τι), forma rara dell’indefinito. 26
La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio (Phys. DE), accolta dagli editori.
Simplicio F riporta invece κινεῖσθαι. 27 Il testo dei codici di Simplicio è οὔτε
ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν. 28 La forma κεν è emendazione di Karsten:
i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν; l'edizione aldina κενὸν. 29 La
lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è affermata nel corso dell’ultimo
secolo, a partire dalla proposta di Diels, il quale però intendeva οἷ come un
relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di Simplicio riportano οἱ (articolo
determinativo ovvero dimostrativo), emendato nell’edizione aldina come ἦ
(espressione omerica per «in effetti», «certo»). 30 Così già leggeva Diels; i
manoscritti di Simplicio riportano in effetti κυρεῖ (EF), ovvero κυροῖ (D):
κύρει è emendazione degli editori. 142 Unica1 parola2 ancora, della via3 che4
«è», rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1 Il complesso della costruzione
greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo) μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
accentua la connessione logica del frammento con quanto precede: prospettate le
due vie, esclusa una delle due come impercorribile, discusse le contaminazioni
dei mortali, «rimane una sola via» da esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν.
Sebbene chiaramente l’aggettivo mónoj si riferisca a μῦθος, molti traduttori di
fatto lo applicano a ὁδοῖο: «One path only is left for us to speak of»
(Burnet), ovvero «So bleibt nur noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way
only is left to be spoken of» (Raven). 2 Ricordiamo che il termine μῦθος
ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte divina: la «parola» (ovvero il
«discorso») proferita dalla Dea doveva essere accolta, meditata e custodita dal
kouros. Il valore del termine sembrerebbe dunque nel contesto quello di parola,
discorso di Verità. Nella relativa nota di B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti
posizioni interpretative: Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the
Presocratics to Plato, cit., pp. 17-18) sottolinea nell’uso di mythos il valore
di «authoritative speech act»; Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit., p.
541) insiste sullo stesso valore con una traduzione poco familiare: «ma façon
de parler autorisée». 3 Il genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come genitivo
oggettivo, di argomento, in relazione a μῦθος, di cui specificherebbe il
contenuto. Cerri (p. 219) difende una sua interpretazione “partitiva” («di via,
resta soltanto una parola»), riferendolo alle vie prese in esame. 4 Il valore
della congiunzione ὡς sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) – complesso: non
significherebbe semplicemente «che», ma anche «come». Per tale valore si veda
il parallelo di B1.31. 5 Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra
σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55) σήματ΄ ἔθεντο («posero segni»): alla
convenzionalità dell’imposizione umana è opposta l'oggettività delle evidenze
dell’Essere. 6 Il greco σήματα può rendersi nel contesto come «indizi»,
«segnali», anche «evidenze» (monuments, Coxon p.194). Essi possono essere intesi
anche come i «riferimenti» che consentono di mantenere la propria direzione
lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di non
perdersi. Così, secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i σήματα
sarebbero indicazioni, «prove» del carattere necessario e unico del fatto di
essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la
via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα –
rigorosamente parlando – non siano da intendere come segni dell’Essere, ma
della sua via, con la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di
conoscenza dell’Essere: il concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la
determinazione 143 specifica. A Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un
rilievo: i «segni» fungerebbero essenzialmente da monito contro possibili
deviazioni dalla via dell’Essere, quindi non tanto da attributi positivi,
piuttosto da segnali negativi, che escludono ogni sovrapposizione con il
Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg.
Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur Beziehung des
parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p.
142): tutti i segni ricavati da Parmenide sarebbero conseguenze necessarie e
inconfutabili della applicazione del principio di fondo secondo cui l’essere
non può sorgere dal non-essere. La Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i
segni in quanto indicatori e a un tempo strumenti di orientamento per il
kouros, segnavia ma anche descrittori della sua condizione spirituale nel
momento in cui attinga la conoscenza. Da ricordare, in ogni caso, che il
termine designa anche i «segni augurali» interpretati dagli indovini (Cerri p.
219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il mezzo di rivelazione di una potenza
superiore. L’eco religiosa potrebbe essere deliberatamente evocata dall’autore
anche per predisporre la propria audience (interna ed esterna) alla disamina
successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104) come σῆμα sia sinonimo poetico di
σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso (B8) e negli usi giuridici.
Mourelatos (p. 94) inserisce l’interpretazione dei σήματα all’interno del
motivo della quest: per raggiungere il fine della quest è necessario percorrere
la strada «è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i «segnavia».
Rimanendo fedele all’immaginario epico, Mourelatos propone di leggere i
segnavia come imperativi del tipo: «cerca sempre ciò che è ….». Di recente
Chiara Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e σήματα: essi,
in effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere usati per
provare, mettere alla prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona.
Robbiano si riferisce all’episodio del riconoscimento di Odisseo da parte di
Penelope, dove il termine σήματα è messo in relazione alla verifica
dell’identità del mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della
propria identità. Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il
nesso tra σήματα e loro interpretazione. La dea guida attraverso σήματα, che
l’audience deve interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare
segni per giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ
μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore
che ha il suo oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello
che la dea in questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che
invia segnali ai mortali, per far loro conoscere cose normalmente 144 molto numerosi:
che7 senza nascita8 è ciò che è9 e senza morte10, fuori della loro portata. La
Robbiano, per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che σήματα non si
riferirebbe ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi argomenti. A una
funzione essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato invece Colli
(Gorgia e Parmenide, cit., p. 146): i «segni» costituirebbero gli argomenti
della dimostrazione, coincidendo di fatto con gli attributi fondamentali
dell’essere. Essi sarebbero in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti
senza dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere
razionale della dimostrazione. 7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν
καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς
come congiunzione dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán
p. 85); «whatis is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b)
intendendo ὡς come congiunzione causale: «since it exists it is unborn and
imperishable» (Guthrie p. 26); «étant inengendré, est aussi impérissable»
(O’Brien, p. 171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La
costruzione σήματa … ὡς può (e probabilmente intende nel nostro contesto)
indicare sia la significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia
il che (dell’Essere) in senso dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e
dunque la loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo,
manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura (per cui
il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos, p.
95), infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo punto:
Parmenide annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una
loro giustificazione. 8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o
di poco posteriori a Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): Ἡ.
μὲν οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον,
λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν
σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι. Eraclito sostiene che il tutto è diviso
indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio,
dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che
tutto è uno», ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): ἀ γ έ ν η τ α: στοιχεῖα.
παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ «Ingenerati»: gli elementi secondo Empedocle. 145 L'aggettivo
indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita
(Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma
che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe
stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile» (πρῶτός
τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il
termine potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p.
97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura
greca, assumendo un significato più forte del semplice «ingenerato»: ἀγένητον
in Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga
all’essere. Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale
dei segni parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo +
aggettivo) di qualcosa di significante all’interno del linguaggio e della
esperienza dei mortali (Ruggiu p. 277). 9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν
come «ciò che è», segnalando invece τὸ ἐόν come «l’essere»: per noi si tratta
di espressioni sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più
astratta. Nel contesto ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con
valore verbale (come fa, per esempio Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è
anche imperituro». In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di
essere subordinate alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto
sottolineato da Scuto (op. cit., p. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo
al passaggio da un valore ancora temporale del participio a un significato
atemporale: si tratterebbe di una netta correzione nella direzione
dell'astrazione, con cui dall’esperienza della costante mutevolezza degli enti
si concluderebbe nella certezza di un essere sottratto al tempo. 10
L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον - formata con l’alfa
privativo, indica letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte] (ὄλεθρος)».
Si tratta di termine veramente raro nella letteratura arcaica: prima di
Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo Parmenide
ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri, p. 220). Nella
testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in
riferimento ad Anassimandro, abbiamo: καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ
ἀνώλεθρον [B 3], ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων E tale
sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono
Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura. Ciò potrebbe
significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai pensatori
arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni
caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro – corrispondono alle
tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali. 146 tutto
intero11, uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11 Il termine οὖλον (che rendiamo
come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità
implicite) è di diretta eco senofanea: οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει
Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24). 12
Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di
μουνογενές dopo ἀγένητον (v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il
valore derivato dell’aggettivo, che anche in Eschilo (Agamennone 808) non ha
significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221),
collegando μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia
426, 488), valorizza la «metafora arditissima» proprio nella «contraddizione
sarcastica» ad ἀγένητον. In realtà la radice *γεν esprime sia la nozione di
“nascere”, “divenire”, sia quella di “essere”, “esistere”. Il termine
μουνογενές potrebbe alludere a γένος piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque
veicolare l’idea di unicità. Mourelatos (pp. 113-4) suppone che Parmenide usi
μουνογενές in diretta opposizione alla formula tradizionale per esprimere
distinzioni, familiare da Esiodo: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν
εἰσὶ δύω Non c’era dunque un solo genere di Eris; sulla τerra ce ne sono due
(Opere e giorni 11-12). L’aggettivo μουνογενές si contrapporrebbe a μορφὰς δύο
(B8.53): dietro οὖλον μουνογενές ci sarebbe dunque il rifiuto della
contrarietà. Alcuni interpreti (Barnes, per esempio) associano μουνογενές a ἀτρεμὲς:
"monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai
vv. 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit., p. 73) questa soluzione
è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a οὖλον,
sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel
significato di «uniforme». 13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime stabilità, solidità,
immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la «calma» dell’Essere, in contrasto
con l’«inquietudine» degli enti. Coxon (p. 195) associa l’aggettivo alle
successive espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: «immobile»), ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ
τε μένον (v. 29: «identico e nell’identica condizione perdurando») e ἔμπεδον αὖθι
μένει (v. 30: «stabilmente dove è rimane»): esse denoterebbero identità esente
da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan (R.
McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford 147 [5] né un
tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19, Handbook of
Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008,
p. 210), il quale però insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a
esprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere
pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe,
quindi, impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza
di cambiamento e movimento fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147),
tra gli altri, leggendo il verso come ἔστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς, lo
avvicina a Platone, Fedro 250 c3: ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα
φάσματα μυούμενοί integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici
erano le visioni cui eravamo iniziati. Si tratterebbe di un riferimento ai
misteri eleusini, dove ὁλόκληρα («integralmente perfette») corrisponderebbe a οὐλομελές,
indicando la completezza di struttura fisica, mentre ἀτρεμές ritorna identico,
evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ
B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa
alternativa: uno sguardo sul mondo della alētheia indimostrato, il cui
apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla conoscenza
misterica. 14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον – con DK, Coxon, O’Brien, Conche, Reale,
Heitsch e altri – attestato da Simplicio. Il valore da attribuire a ἀτέλεστον
dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine», «senza termine». Cerri
(pp. 222- 3) interpreta l’aggettivo letteralmente come «incompiuto»,
riferendolo, senza interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un
tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys.
30, 4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che l’essere di
Parmenide è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον (Tarán, p. 93).
15 Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo «non mai, giammai».
Abbiamo preferito conservare πότe come avverbio separato dalla negazione,
riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p. 283) interpreta πότε come
indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide contrapporrebbe
l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale. 16 In questo
verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes
d’interprétation, p. 149), gli avverbi (πότε, νῦν) sono fondamentali come le
tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν). 148 17 Non è chiaro se ἐπεί si
riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές, cioè
se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni
iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti, più semplice
escludere la possibilità che «ciò che è» (ἐόν) sia stato (e in qualche modo non
sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia ancora) per il
fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente,
senza mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan, p.
207). 18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota
un istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136),
«l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante senza durata, o a una durata
temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora» indicherebbe una
«durata senza successione» (come il «durare di Dio» secondo Tommaso). O’Brien
(Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν: la Dea
intenderebbe escludere generazione e corruzione e dunque, in quanto
ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero (By
Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare
la presenza propria dell’«ora» (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere:
l’essere non avrebbe nulla a che fare con il tempo strutturato in momenti
temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che, nel
rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e
futuro, colgono la presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere sarebbe
presente eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della
“atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo,
Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103
ss.) ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica
consolidata in ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali
(tenseless) sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e
implicazioni logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si
sarebbe ispirata. In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un
condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo
Mourelatos: «né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è».
In direzione analoga si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di
Parmenide in B8.5 sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del
tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’Essere
non è nel tempo, non ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento.
Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una
continua durata temporale. È significativo, comunque, che sia assente una
esplicita argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206) sarebbe
conseguenza di «ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale
pienezza dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the
Metaphysics of Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura 149
uno20, continuo21. Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso? originale: in
forza degli attributi che τὸ ἐόν possiede «ora» (completezza, autosufficienza
ecc.), non ha senso supporre che possa non esistere in qualche momento del
passato o del futuro. 19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con
l’avverbio precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come «tout entier à la fois»,
accostandolo al tota simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava
l’eternità. 20 Tra i «segni» destinati a gravare sul destino del pensiero
parmenideo, questo è senz’altro il più importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è
solo uno dei segni, inserito in una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές – in cui
l’autore sembra insistere sulla compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere
piuttosto che sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p.
215), infatti, è probabile che μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi
come sinonimi, in relazione al gruppo di attributi οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la
cui giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come giustamente
rileva Conche (p. 138), l’essere è «uno», non l’Uno della posteriore tradizione
platonica-neoplatonica. Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner
preferisce quella alternativa di Asclepio: οὐλοφυές, «un tutto naturale». Coxon
osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia usato da Parmenide il
termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui –
qui e in v. 25 – συνεχές è virtualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota)
legge come un unico blocco ὁμοῦ πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato
modificato dall’avverbio ὁμοῦ e dal pronome πᾶν: il senso complessivo sarebbe
«all of it together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177),
Parmenide intenderebbe marcare come il «fatto d’essere» sia denominatore comune
a tutte le cose, affermando che esso è unico, non che tutte le cose sono uno
ovvero che l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non accettando la variante οὐλοφυές,
ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il molteplice, ricomprendendolo
piuttosto in sé. 21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il precedente ἕν,
sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con se stesso» (Conche p. 139). Non
è del tutto perspicua la connessione di questa ultima serie di attributi con
quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni dei precedenti ovvero
di nuovi attributi? In ogni caso, qui termina l’elenco dei segni. Da questo
momento in avanti si apre la loro discussione argomentativa, che altri (per
esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare dal v. 5. 22 Il termine γέννα
potrebbe tradursi più semplicemente con «origine», ma, seguendo il suggerimento
di Coxon (p. 197), insistiamo sul valore biologico della espressione. È
possibile che – come nota la Stemich (Parmenides’ Einübung in die
Seinserkenntnis, cit., p. 214) – in questo passaggio il filosofo contrapponga
alla comune accezione religiosa (per cui le divinità sono sì 150 Come23 e donde
cresciuto24? Da ciò che non è non permetterò25 che tu dica e pensi; non è
infatti possibile dire e pensare26 che «non è»27. Quale bisogno28, inoltre29,
lo avrebbe spinto30, [10] originando31 dal nulla, a nascere32 più tardi o33
prima34? immortali, ma non senza nascita) la sua concezione dell’essere,
appunto «senza nascita e senza morte». 23 La formula interrogativa πῇ πόθεν
potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): «verso dove e da dove?»,
accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su direzione e verso
della crescita. Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce senso locale a πῇ.
24 Il passaggio dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo (αὐξηθέν), con
relativo cambio di sintassi, e il successivo (v. 8) implicito riferimento
all’infinito aoristo αὐξηθῆναι (essere cresciuto) in relazione agli infiniti
φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica situazione di
dibattito (quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato le
implicazioni tra le tre domande: assumendo che generazione e crescita siano
equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la
seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle
sue condizioni necessarie: la generazione è un processo («come») che richiede
un’origine («donde»). 25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω (futuro preceduto dalla
negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e fatta rispettare dalla
razionalità della Dea. 26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν dovrebbe
rendersi come «non è infatti dicibile e pensabile», con la proposizione
introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e νοητόν – hanno
dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare». 27
Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit.,
p. 77) suggerisce come soggetto implicito di οὐκ ἔστι «the potential
generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28 La formula τί
χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί χρήμα; «quale
circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e Eschilo
per la sua traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio). 29 Come segnalato da
O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in questo caso non è solo
avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 Rendiamo in questo modo la forma
«irreale» dell’interrogativo (che suggerisce una risposta negativa) veicolata
da ἄν + l’aoristo. 31 Rendiamo in questo modo il participio aoristo ἀρξάμενον,
che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto all'azione espressa
dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a perifrasi: «se comincia dal
nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla» (Cerri), «se trae inizio dal
nulla» (Tonelli). 151 Così35 è necessario36 sia per intero o non sia per
nulla37. 32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso come «nascere\sorgere» o
«crescere»: i traduttori si dividono. 33 La particella ἢ può avere funzione
disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (= quam). 34 Traduco
letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse sono: «früher oder
später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner» (Tarán), «dopo o
prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later or before» (Coxon),
«plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In effetti ὕστερον è
comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente «più tardi che
[\o] prima», sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi 9-10
avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion
sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché
si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe
della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la
centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il
«pensiero dell’essere» di Parmenide. Una opinione diversa in proposito è
espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse
marcare l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi in un
qualsiasi momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe
offrirne alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan (p.
194), delle due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, «più tardi o più
presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come
manchi una ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in
alcun momento; la seconda, invece, in modo più sofisticato e coinvolgendo il
“principio di indifferenza”, sottolineerebbe come non ci sia ragione perché
esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in un altro». Sempre
McKirahan osserva come l’argomento sia formulato in termini di domanda
retorica, che presuppone una risposta del tipo: in nessuna circostanza, da ciò
che non è potrebbe generarsi qualcosa. 35 McKirahan (p. 194) ha contestato la
tradizionale traduzione di οὕτως come «così, perciò», che introdurrebbe la
conclusione di un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il
senso del v. 11 appare – nel contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più
naturalmente collegato all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a
quel che immediatamente precede. La sua proposta è dunque quella di tradurre
l’avverbio οὕτως collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo
valore sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua
funzione sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la
discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un passaggio
(esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In
questo senso confermiamo la traduzione più comune. 152 Né mai 38 concederà
forza di convinzione39 36 McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è
giusto»: il suo significato - nel contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ
οὐχί - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da
considerare relativamente a ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la
formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι πάμπαν πελέναι «o non deve essere per
niente». Parmenide sottolinea la contraddizione e l’esclusione di una terza via
(adottando di fatto il principio del terzo escluso): la via dell’essere esclude
non solo la via del non-essere, ma anche un'impossibile combinazione tra essere
e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non
costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la
krisis radicale, la «decisione», operata in connessione con le due vie. 38
Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo
comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro
passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione: καὶ γὰρ καὶ
Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι
(οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti
sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si
genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non
essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata
anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica (I, 8 191 a28-33), con
chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., pp. 129- 133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il
testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ
τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι
τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες
ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον
μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων
ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 153 che nasca qualcosa40 accanto41 a
esso42. Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le
catene45, Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori
antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno
indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come
spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in
effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si
genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è
impossibile che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera
(perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa
deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze,
affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. 39
L’espressione πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: «la forza di una certezza»
(Reale), «forza di prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni
caso, come osserva Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che πίστις è termine
da Parmenide impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p. 199)
rileva come l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto)
avesse un potere attivo e non solo critico. 40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un
riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né un
ente qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente). 41
Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono
«oltre a», ovvero «in addizione a». 42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος.
Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei
codici - ἐκ μὴ ἐόντος – è più naturale cogliere in αὐτό un riferimento al
non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea
introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i
precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare
ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che
segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è:
nella sua lettura l’espressione «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere
accanto a esso» - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual,
accretion) - suggerisce l’idea di crescita come addizione (accretion) a
qualcosa già esistente. 43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo,
introduce quel che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146).
44 Intendo Δίκη come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza
mitica al riferimento, riconoscendolo come «metafora» della «legge
dell’essere». Dike svolge in questo contesto quel tradizionale ruolo 154 [15]
ma [lo] tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è
dunque deciso, secondo necessità49, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile50 (poiché non è una via genuina51), e che l’altra invece esista e
sia reale52. equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti,
che abbiamo notato nel proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163)
– il limite che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è
definito πεῖρας πύματον, «limite estremo», all’interno del quale riposa sicura
l’intera realtà. L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa
garante della separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante
dell’interezza e integrità dell’essere. 45 I termini impiegati da Parmenide
(Δίκη, πέδῃσιν, nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico
giudiziario, probabilmente per rendere con efficacia la forza della necessità
logica. In effetti, come sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171),
Dike, con Ananke e Moira, assicura a un tempo l'immutabile identità di ciò che
è e l’inesorabilità della via. 46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει,
per analogia a quanto sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di ἐόν.
47 Il termine greco κρίσις – così come il successivo verbo κέκριται – veicola
ancora, insieme alla formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a
marcare la forza razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È
esplicito nel contesto il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν.
In questo senso, Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di
richiamare (come il v. 11) la «decisione» tra le due vie. 48 Letteralmente: «a
proposito di queste cose», ovvero sulla questione della generazione e della
corruzione o della nascita e della morte. 49 Letteralmente «come necessità»:
rendiamo ἀνάγκη (preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico, non personale.
50 La coppia di aggettivi ἀνόητον ἀνώνυμον (proposti senza congiunzione) sono,
a nostro avviso, da intendersi congiuntamente come connotazione
dell’impalpabilità della seconda via (ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι).
51 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via «che
non è (ὡς οὐκ ἔστιν)» non conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso,
non è una «via genuina (vera)». Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che
non si tratti della «vera via»: in altre parole, di una via che conduca alla
Verità. A conclusione del verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι, che sottolinea come «l’altra [via] invece esista e
sia reale», cioè una via che conduce effettivamente a una destinazione. Coxon
(p. 168) ricorda come nelle occorrenze del poema, ἀληθείη (B1.29) e ἀληθής
(B8.17, 39) si riferiscano non al pensiero o al 155 E come potrebbe esistere53
in futuro l’essere54? E come potrebbe essere nato55? [20] Se nacque, infatti,
non è56, e neppure [è] se57 dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà
oggettiva. Cordero (By Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide
la verità è prerogativa di un logos presentato da una via: solo per illegittima
generalizzazione, la via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede
in un logos che, se valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla
verità: così B2.4 recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di
Persuasione è percorso – a Verità, infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51)
Parmenide, introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la
formula [νόημα] ἀμφὶς Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la
Wilkinson (Parmenides and To Eon…, cit., pp. 87 ss.) impropriamente una “via”
può definirsi «vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel
poema si riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a
Persuasione, Πειθώ, che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci
sarebbe il riferimento al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi
come «il mio discorso è». 52 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è
sostanzialmente coincidente con quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati
sostanzialmente come sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5.
53 Coxon (pp. 202-3) difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν,
e, rilevando in πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in Omero, in
cui l’avverbio ἔπειτα si riferisce alle asserzioni che seguono, rende
diversamente l’intero verso: «And how could what becomes have being, how come
into being?». Il senso sarebbe quello di contestare che ciò che diviene (what
becomes) possa essere Essere o diventare Essere. La variante (oggi trascurata)
di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è») -
invece, introdurrebbe un argomento contro la corruzione. 54 Qui Parmenide usa
eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν. 55 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto»,
«essere stato». 56 Tarán (p. 105) ritiene che il senso dell’affermazione si
colga nella contrapposizione tra il passato ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο –
aoristo che può riferirsi sia al processo compiuto di venire ad essere, sia a
una condizione remota («fu») - e il presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a
essere, è ora diverso da come fu (Tarán p. 105). Analogamente per il secondo
emistichio: se sarà, se avrà da essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche
Mourelatos (pp. 102-3) richiama l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi
verbali di questo passaggio: γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo;
ἔγεντo, 156 Così è estinta59 nascita e morte oscura60. aoristo, si riferisce a
una azione puntuale nel passato; ἔστι, presente, veicola durata e continuità:
se x è in un certo momento, allora non è in senso continuo e assoluto. O’Brien
(“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., Tome II, p. 153)
osserva come il presente οὐκ ἔστι non si riferisca al momento fuggevole
intercalato tra passato e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla»
anteriore a ogni possibilità di nascita («più tardi o prima»). Analogamente
Cerri, che parafrasa: «se è nato (rinato), non esiste (nel momento in cui non è
ancora nato\rinato) [...]» (p. 227). 57 Qui dovremmo intendere «se [è vero
che]». 58 Il verbo μέλλω seguito da infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come
«essere sul punto di, avere l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la
condizione indicata dall’infinito debba ancora avvenire. La presenza
dell’avverbio (ποτε) rafforza questo aspetto temporale dell’espressione
(O’Brien, “L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., t. II, p.
139). McKirahan (p. 196) interpreta i vv. 19-20 come rivolti contro la
generazione nel futuro, a completamento dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò
che è non può essere in futuro. Era rimasta aperta la possibilità che qualcosa
che non è ora possa venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa
possibilità. Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: «ciò che
una cosa arriva a essere non è ciò che la cosa realmente è, nella sua essenza o
natura». Egli vi coglie un contrasto non tra «arrivare a essere» e «essere
durevolmente», piuttosto tra tempo e atemporalità. 59 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται
(«è estinta\spenta») come complemento verbale sia di γένεσις (genesi, nascita)
sia di ὄλεθρος (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella,
adottata da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo
emistichio e fa di una due proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta
e distruzione ignorata». Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno
intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione
aristotelica di tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono
sottomessi al divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al
problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non
si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo
Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60
Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche –
l’espressione ἄπυστος ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma anche
ignorata, oggetto di oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan: «Thus
generation has been extinguished and perishing cannot be investigated» (p.
196). Egli insiste (p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι
(«imparare, investigare, cercare»), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la
via di ricerca scartata perché impossibile da investigare, da cui era
impossibile, dunque, ricavare informazioni. In B8.21 ἄπυστος 157 Né è
divisibile61, poiché62 è tutto omogeneo63; né c’è qui qualcosa di più64 che
possa impedirgli di essere continuo65, conserverebbe lo stesso valore: la
corruzione, la morte non possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la
generazione, impongono di seguire una via che non può assolutamente essere
investigata. Si tratta di una osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97),
secondo il quale Parmenide non avrebbe ritenuto necessario argomentare contro
la corruzione, rubricandola all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe
appunto l’uso di aggettivi come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via
negativa e a ὄλεθρος. 61 L'espressione διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è
effettivamente tradotta) sia come «è divisibile», sia come «è diviso»: come
osserva Leszl (p. 202), concettualmente la prima possibilità dipende dalla
seconda, dal momento che l’operazione intellettuale della divisione non fa che rivelare
divisioni già oggettivamente presenti (come attestato anche dagli argomenti di
Zenone). Anche Thanassas (p. 50) rileva come, nella discussione del secondo
segno, Parmenide punti a escludere la precondizione per ogni discriminazione
interna dell’eon: esso non ha parti in cui possa essere articolato. Ne
seguirebbe che, considerando ogni ente non come questa o quella cosa ma come
Essere, non sarebbe possibile riconoscere differenze: ogni determinatezza
svanirebbe all’interno della uniforme prospettiva dell’Essere. 62 Coxon (p.
203) sottolinea come da ἐπεί dipendano tutte le asserzioni successive (vv.
22-25). 63 Traduciamo così l’aggettivo ὁμοῖον, che altri rendono come «uguale»:
ci sembra logicamente più efficace rispetto alla indivisibilità (οὐδὲ
διαιρετόν). È possibile anche una lettura avverbiale e non predicativa di ὁμοῖον,
da rendere (come fanno Owen, Guthrie, Stokes e Gallop): «esiste tutto allo
stesso modo». Tarán e Mourelatos hanno tuttavia, con buoni argomenti,
contestato tale lettura. McKirahan intende sia πᾶν sia ὁμοῖον con valore
avverbiale: ciò-che-è non avrebbe dunque l’attributo di essere tutto uguale (o
omogeneo), piuttosto ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale,
«interamente e uniformemente» (v. 11: πάμπαν πελέναι). È l’omogeneità che rende
impossibile ogni discriminazione e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114)
ritiene che Parmenide sostenga logicamente πᾶν ἐστιν ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι.
In ogni caso la fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto discussa:
mancherebbe un argomento a sostegno nei versi precedenti. 64 Traduciamo
l’espressione τι μᾶλλον genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il
valore intensivo del comparativo («any more in degree»). 65 McKirahan (p. 197)
sottolinea come συνέχεσθαι suggerisca non tanto continuità quanto «holding
together», tenersi insieme, e accosta il significato 158 né [lì] qualcosa di
meno66, ma è 67 tutto pieno68 di ciò che è69. [25] È perciò tutto continuo70:
ciò che è si stringe71 infatti a ciò che è72. del verbo a quello dell’attributo
ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che egli traduce come «all together». Robbiano (p. 130)
segnala come συνέχεσθαι possa riferirsi a unioni strette: l’unione sessuale di
individui o le estremità annodate di una cintura. Il senso è comunque quello di
estrema coesione. 66 Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa di meno», per
rimanere coerenti con la scelta effettuata traducendo τι μᾶλλον. Coxon (p. 204)
sottolinea ancora il valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide in questo senso
avrebbe usato χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno). 67 Intendiamo ἐόν
come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto («but all is full
of Being», Tarán). 68 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol marcare come ciò
che esiste è solo l’essere, quindi esso è continuo, omogeneo, “denso” d’essere
(uguale in tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva come la
continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is
adjacent to Being», che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso
dall’Essere. McKirahan (p. 197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò
che è, che consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura
complessiva di B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν
πελέναι del v. 11, cui essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi.
Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 50), sottolineando come il
contesto non sia quello di un’analisi fisica, ma di una considerazione
ontologica (condotta alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e Non-Essere),
insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος come rilievo
della «pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha nulla da
condividere con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p. 197)
sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v. 22):
egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel
successivo v. 25 ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe
equivalente a ὁμοῖον. 70 Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale
indivisibilità: Coxon (p. 204) osserva giustamente che, a parte la solitaria
occorrenza di ἕν nel v. 6, ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per «uno».
McKirahan traduce diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la
relazione con συνέχεσθαι suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si
tiene insieme» (holds together); così in vece di «continuo», con la sua
ambiguità spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di
difficile resa italiana, «holding together». 71 Il verbo πελάζω suggerisce
l’idea di avvicinamento. In questo senso potrebbe essere tematicamente
collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre 159 Inoltre73,
immobile74 nei vincoli75 di grandi catene76, lungo la via, seguendo i suoi
segni. Robbiano (p. 133) insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει
la suggestione dell’ultimo passo di un viaggio che si avvicina alla sua meta:
l’Essere. 72 Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo
leva sui due "assiomi" di B2 - «è e non è possibile non-essere», «non
è ed è necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso
al non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la
molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti
Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come questi versi documentino
il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò che è» con «ciò
che è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una sorta di
molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con B4. McKirahan
(p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione: una
interpretazione letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel
contesto αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore
progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit., pp. 83-4). 74
L’aggettivo verbale ἀκίνητον può discendere dalla voce attivo-passiva o da
quella media di κινέω: nel primo caso il suo significato sarebbe «non
suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel secondo «non capace di
muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op. cit., pp. 117-120). Tarán
giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4). L’aggettivo ἀκίνητον
si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale, alla immutabilità. Su
questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce sulla questione è stata
– a nostro avviso – proiettata dalla lettura di McKirahan (p. 200), il quale
insiste sul contesto immediato: «immobile» ha a che fare con i limiti dei
grandi legami piuttosto che con assenza di generazione e corruzione. I vv.
27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due ulteriori conseguenze dell’essere
ingenerato e incorruttibile, cioè senza inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν).
Attributi che non hanno in alcun modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel
contesto l’espressione «immobile» coinvolgerebbe l’idea della natura fissa,
limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva rimane aperta la
questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di
ciò-che-è. Thanassas (p. 51) privilegia nella propria lettura un’immobilità
fondata nell’assenza di relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il
«movimento ontologico» che avvicina Essere e Nulla. 75 Ovvero «nei limiti»
(πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione
omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a
un punto di riferimento stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una
posizione originaria e dai suoi limiti: il caso paradigmatico sarebbe, insomma,
quello di "e-gresso", concettualmente 160 è senza inizio e senza
fine77, poiché nascita e morte sono state respinte78 ben lontano79: convinzione
genuina80 [le] fece arretrare. contrastante con la nozione di ὁδός («via»).
Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui
che si muove, invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti.
Il concetto di «via» è centripeto, quello di κινεῖν è centrifugo. La locomozione,
in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un autoestraniamento: muoversi è
essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è questa nozione di locomozione
a essere oggetto di attacco nel paradosso della freccia di Zenone. Si esprime
l’idea – arcaica, ma ancora operante in Aristotele (la teoria dei luoghi
naturali) che il luogo di una cosa, con i suoi limiti-confini, sia parte della
sua identità. La relazione tra ἀκίνητον e πείρατα escluderebbe dunque la
locomozione intesa come moto assoluto, "e-gresso" dal proprio luogo
specifico. 76 Giustamente Cerri (p. 229) segnala il cambiamento nel registro
espressivo dell’autore, il cui linguaggio «torna alle movenze epiche del
proemio». Questo passaggio, in particolare, è evocativo del mito prometeico,
così come giuntoci nel dramma eschileo. Della relativa, breve discussione di
Cerri, sembra opportuno valorizzare la possibilità che Parmenide e Eschilo
(evitando improbabili contatti diretti) si ispirassero, per il tema
dell’incatenamento e della conseguente immobilità, a un modello «già presente
nella cultura mitico-filosofica della tarda arcaicità». Non è chiaro, tuttavia,
il senso preciso dell’aggettivo «mitico-filosofica». Mourelatos (p. 115, nota),
a sua volta, evoca un passo omerico (Odissea VIII, 296-98), che costituirebbe
buon parallelo per l’immaginario parmenideo: ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ τεχνήεντες ἔχυντο
πολύφρονος Ἡφαίστοιο, οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι e tutto intorno
le catene ingegnose chiuse, dell’astuto Efesto, ed essi non potevano più
muoversi né sollevarsi. 77 Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano la peculiare
immutabilità dell’Essere, diversa dalla immobilità di ciò che si genera e
corrompe. Per questo potrebbero implicare – se si accetta la lezione adottata –
la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v. 4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco delle
affermazioni di Anassimandro (DK 12 A15): οὐ ταύτης ἀρχή, [...] ἀθάνατον γὰρ καὶ
ἀνώλεθρον di esso non c'è principio [...] immortale e indistruttibile. 161
Identico e nell’identica condizione81 perdurando82, in se stesso83 riposa84, 78
All’aoristo ἐπλάχθησαν è possibile associare sia un significato attivo (Coxon:
«becoming and perishing have strayed very far away»), sia un significato
passivo (indicato in questo caso da Liddel-Scott): come suggerisce O’Brien (p.
53), il secondo emistichio del verso giustifica la resa passiva. 79 Coxon
ricorda (p. 207) come l’espressione τῆλε μάλa occorra una sola volta in Omero
ed Esiodo, dove si allude alla distanza del Tartaro: Parmenide potrebbe usarla
per marcare analoga distanza dall’Essere di generazione e corruzione. 80
Traduco πίστις ἀληθής non con «reale credibilità» - come in B1.30: il diverso
contesto – in particolare la sua impronta argomentativa, autorizza una
differente accentuazione del valore di πίστις, intesa come convinzione,
convincimento che scaturisce dall’esame condotto correttamente. In effetti il
termine ha un suo specifico uso giudiziario (Heidel citato da Tarán p. 113), in
cui designa l’evidenza o la prova addotta in tribunale. Il legame con la
Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo ἀληθής (reale, vera, veritiera,
genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il significato di convinzione.
81 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è idiomatica, con valore variabile tra
«restare nello stesso luogo» e «restare nello stesso stato» (Cerri p. 231).
Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto sulla condizione, Coxon
escludendo il significato locale (come confermerebbe l’uso analogo
dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane). Abbiamo
privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale rispetto ai
fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere. McKirahan
(p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del
fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel linguaggio
del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso «identico e
nell’identico» sarebbero implicazioni di «è pienamente». Anche le scelte
verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» - supporterebbero questa lettura:
ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 82 L'intero
verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane: αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι Sempre
nello stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi
ora in un posto ora in un altro. 83 McKirahan (p. 201) rileva come καθ΄ ἑαυτό
possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma anche «indipendente»
(prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua
prospettiva si tratta di una 162 [30] e, così, stabilmente85 dove è86
persiste87: dal momento che Necessità88 potente89 espressione plausibile per
descrivere qualcosa che è pienamente e non può cessare di essere in quel modo.
84 Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le posizioni di
Eraclito e, soprattutto, nell’accentuazione dello spirito eracliteo, di
Epicarmo DK 23 B2.9: ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει ora
ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto. I versi 29-30 sembrano
riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119) osserva come
la formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti noninterazione: il v. 29, dunque,
esprimerebbe a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e
autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, risultando complementare
all’attributo ἀδιαίρετον. Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e
identità: la saldezza dell’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al
rifiuto di ogni relazione con il Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo
della identità (sameness) dell’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον,
che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200),
il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al
v. 29. 86 Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare «qui», «là», che appaiono
limitativi e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che proprio
tale immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche (p. 156), invece,
preferisce «qui», che indicherebbe – in parallelo con νῦν che è un «ora» non
temporale – un «qui» non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι
μένει è formula epica, che richiama il celebre episodio in cui Odisseo si fa
legare all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene
(Odissea XII, 160-2): ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι
μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω ma con funi saldissime
dovete legarmi, perché io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso
siano fissate le corde. Nel nostro contesto il valore della espressione non è
tanto locale quanto temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi
variazione temporale (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere
militare di ἔμπεδον μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la
stabilità spaziale o 163 nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto
intorno lo rinserra91. temporale, ma l’esclusione di ogni alterità e il
radicamento dell’identità. Come già segnalato in relazione a ἀτρεμὲς, McKirahan
(p. 210) suggerisce una sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi
esprimerebbero il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di
essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la natura di ciò-che-è.
88 Intendiamo Ἀνάγκη come nome proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è
figura tradizionale e incarnazione della ineluttabile legge del destino (Tarán
p. 117). Mourelatos, che identifica Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione,
traduce come «Constraint»: l’immagine della Costrizione che tiene ciò-che-è nel
suo luogo rafforza la sua tesi secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione
intesa come moto assoluto, egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9).
Dalla triangolazione Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in
Parmenide il concetto di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di
necessità (Mourelatos p. 120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W.
Gundel, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene,
Giessen 1914), Gundel individuò il significato di Ἀνάγκη nel passo in questione
come Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. Schreckenberg “Ananke.
Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs“, «Zetemata» 36, München 1964,
pp. 1-188, cap. I) ne ha invece marcato la connessione tematica con altri
termini, come giogo, catene, corde, con l’idea di legame, imprigionamento,
schiavitù, rilevando così come sotto ananke non si sia in grado di scegliere
che cosa fare. L’immagine platonica di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe origine
proprio in ambiente pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare
appoggiandosi alla testimonianza di Aëtius – Πυθαγόρας ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι
τῷ κόσμῳ - e collegandola alla nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del
cosmo») e all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo senso essa avrebbe la
funzione di “destino” o “legge di natura”: qualcosa che si può esprimere in
termini di legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6). 89 L’espressione
κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.) κρατερῆς ὑπ’ ἀνάγχης,
nella descrizione di Atlante che «sostiene l’ampio cielo per una potente
necessità ai confini della terra», come segnalano vari commentatori. 90 Ovvero
«nelle catene del limite» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza sui
vincoli, ancora da intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la
tendenza da parte di alcuni interpreti a insistere sui limiti spaziali.
L’associazione di Giustizia (v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a
McKirahan (p. 200) che in gioco siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel
riferimento ai vincoli e alle catene Barbara Cassin (“Le chant des Sirènes dans
le Poème de Parménide. Quelques remarques sur le fr. 8.34", in 164 Per
questo92 non incompiuto93 l’essere [è] lecito che sia94: Études sur Parménide,
cit., t. II, pp. 163-169) ha colto un’eco di Odissea XII, 158-162: Σειρήνων μὲν
πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει
ὄπ’ ἀκουέμεν· ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν
ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω Per prima cosa ci impone delle Sirene
di evitare il canto e il loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con
fune saldissima dovete legarmi, così che io resti immobile, ritto alla base
dell’albero – ad esso siano fissate le funi. 91 Il confinamento da parte di
Necessità-Costrizione è paradigmatico della concezione tradizionale greca per
cui giustizia è mantenere il proprio luogo specifico, rispettare il proprio
ruolo (Mourelatos, p. 119). 92 La congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν)
il significato di «ragion per cui», «cosa a causa della quale»; ha anche il
significato di «poiché», «a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e
può essere usata come ὅτι con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto
preferiamo la resa etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la
perfezione dell’essere sia giustificata in quel che precede, ancorché con il
ricorso a un’immagine (la costrizione delle catene di Necessità) di probabile
matrice letteraria. 93 Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον
nella sua valenza omerica di «unfinished». Rendiamo con «incompiuto»,
«imperfetto». Mansfeld (p. 100) sottolinea il nesso tra l’essere vincolato e
l’essere compiuto e perfetto, recuperando come implicito nel greco anche il
valore di «realizzazione» e, di conseguenza, l’idea di un vincolo che
legherebbe la cosa alla propria realizzazione. Si veda per questo R.B. Onians,
The Origins of European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World,
Time and Fate, C.U.P., Cambridge19882, pp. 426-66. Mourelatos (p. 121)
sottolinea come il verbo τελέω sia collegato al motivo del viaggio e abbia
un'importante relazione con il verbo ἀνύω (consumare) e forse con l’idea di πεῖρας,
come legame circolare. Nell’epica in generale il verbo esprime compimento,
realizzazione di promesse, desideri, predizioni e compiti (comprensivi di
viaggi). È in relazione a questa idea di compimento che il termine ammetterebbe
il valore - più debole - di «fine», nel senso di «estremità» o «termine». 94
Abbiamo cercato di conservare la costruzione del verso greco, forzando la
costruzione italiana. 165 non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non
essere95, invece, mancherebbe di tutto. La stessa cosa96 invero è pensare97 e
il pensiero98 che99 «è»: 95 Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio
sostantivo, in contrapposizione al precedente τὸ ἐὸν: quindi «il non essere»
ovvero «ciò che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci
troveremmo in presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere
(τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ ἐὸν): non è lecito che l’essere sia incompiuto: in
effetti non manca di niente; il non-essere, invece, mancherebbe di tutto».
D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea
ipotizzerebbe: «se [l’essere] non fosse [non-manchevole], mancherebbe di
tutto». 96 A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus
che impegnerebbe Parmenide fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche
Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio, Mourelatos (p. 165). Molto
convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41 esplorerebbero le
implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti conoscere ciò che non è […]
né indicarlo». Se qualcosa è possibile conoscere o affermare, deve trattarsi
non di «ciò-che-non-è», ma (come conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è.
Esiste una proposta (originariamente suggerita da Calogero) di restauro del
testo greco da parte di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine
Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp.
121-138), secondo il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il
verso 52. Come ha di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides &
Presocratic Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza
sia nel blocco centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso
avviso Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò
significherebbe, tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della
redazione del poema utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen
vortrefflich»): come ha sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il testo
simpliciano ha alle spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre fonti,
un'interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e
pitagorizzante, che può averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia
a indicare scelte espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari)
implica un vero e proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili
altri problemi testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A
Ebert va dato atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio:
nessun'altra fonte antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41.
97 Rendiamo ἐστὶ νοεῖν letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande
discordanza. Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i)
«thinking is» (Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is there
to be thought» (Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). McKirahan (p.
203) traduce «is to be thought of» intendendo l’espressione 166 [35] giacché
non senza l’essere, in cui100 [il pensiero] è espresso101, come un richiamo di
B2.2: ciò che è disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”). 98
Intendiamo il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta
conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò
che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che
è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). Sulla
scorta di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche
l’affermazione di B5: «indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti,
ancora una volta farò ritorno». 99 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come
congiunzione equivalente a ὅτι («che»), come, tra gli altri, Calogero («La
stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought
[apprehended] and the thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the
same to think and the thought that [the object of thought] exists»), O’Brien
(«C’est une même chose que penser, et la pensee: “est”»), Conche («C’est le
même penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la
pensée que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula
pronominale, composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa
lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il
pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for
conceiving as is cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist
Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa cosa è capire
e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which there
is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das,
was den Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore
finale (ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und des Gedankens Ziel ist
eins». Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à dessein de
quoi il y a pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente
McKirahan (p. 203) ha difeso la lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato
l’ipotesi suggestiva che l’espressione abbia contemporaneamente anche una
sfumatura finale. 100 Per evitare la difficoltà di una traduzione che
sottolinea come il pensiero sia espresso «nell’essere», sono state proposte
varie alternative. Zeller, Burnet, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono
rendere ἐν ᾧ con una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al
quale», «rispetto al quale». A conclusione di una lunga discussione (pp.
123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo) propone «in what has been
expressed». A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia
opposte obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La
Robbiano (pp. 169-170) intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ,
proponendo τὸ νοεῖν come soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione
risulta quindi: «for without Being you will not find understanding in that
where understanding 167 troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né
esisterà altro oltre103 all’essere104, poiché105 Moira lo ha costretto106 a essere
intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno nome109, has been given
expression». In questo caso ἐν ᾧ non si riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a una formula
implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea spiegherebbe,
insomma, che non si può trovare νοεῖν in ciò che esprime νοεῖν, se non si trova
l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la comprensione non è sufficiente ascoltare
le parole della dea, ma si deve trovare l’Essere. Preferiamo, come versione più
naturale, la traduzione (per lo più adottata dagli interpreti recenti) che
risale a Diels («denn nicht ohne das Seiende, in dem sich jenes ausgesprochen
findet, kannst Du das Denken antreffen»). 101 Secondo Ruggiu (p. 303, nota),
πεφατισμένον indicherebbe non solo che il pensiero è manifestativo dell’Essere,
ma che l’Essere è tale in quanto fondamento di ogni manifestabilità. In questo
senso, πεφατισμένον sarebbe equivalente a φατὸν e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις (B2.7-8). 102 Rendiamo le
due congiunzioni < ἢ >... ἢ precedute da οὐδὲν come «né…né». 103 La
formula ἄλλο πάρεξ è adattamento di analoga formula epica (ἄλλα παρὲξ). 104
Secondo Mansfeld (p. 101) Parmenide affermerebbe in questo passaggio l’identità
di pensiero e essere, implicando che il pensiero non possa essere qualcosa di
altro, indipendente, contrapposto all’essere o comunque estraneo a esso. 105
Anche in questo caso è la costrizione della divinità di turno (Moira) a
giustificare compiutezza e unicità dell’essere parmenideo. 106 Si ripete, con ἐπέδησεν,
la suggestione dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di
metafora, in senso logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica. 107 Le due
connotazioni - οὖλον ἀκίνητον – marcano l’integrità e immutabilità,
reiteratamente richiamate nel frammento. Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto
segnalato sopra: la sua comprensione, come suggerisce McKirahan, è
probabilmente da collegare alla metafora dei legami e della costrizione. Così,
l’integrità di ciò che è (espressa da οὖλον) è sostenuta dall’immagine della
costrizione a essere pienamente ciò che è. 108 Seguiamo Palmer (op. cit., pp.
171-2) nell'intendere τῷ come pronome relativo (riferito a τὸ ἐόν): dal momento
che egli accoglie la lettura πάντ΄ ὀνόμασται del secondo emistichio, la sua
traduzione risulta: «to it all things have been given as names». Lo studioso si
appoggia a una costruzione analoga presente in Empedocle B8.4: φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς
ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν 168 quante i mortali stabilirono110, persuasi che
fossero reali111: [40] nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo112
e mutare luminoso colore113. natura è data come nome a questi [processi di
mescolanza e separazione] dagli uomini. La resa pronominale di τῷ è comunque
assolutamente compatibile anche con la lezione Diels-Kranz da noi adottata: τῷ
πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται Per esso [τὸ ἐόν] tutte le cose saranno nome. Per lo più gli
editori hanno reso τῷ con valore assoluto come «perciò». 109 Il greco ὄνομα è
singolare, per marcare l’identità nominale dei neutri plurali πάντα e ὅσσα:
genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui natura mutevole si rivela solo
nome. La lezione alternativa dei codici di Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è
variamente tradotta: «wherefore it has been named all things» (Gallop),
attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With reference to it [the real
world], are all names given» (Woodbury), intendendo τῷ come un dimostrativo
riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p. 231) «in relazione a questo è assegnato,
come nome». Da osservare che una lunga tradizione risalente a Diels, ha
tradotto l’emistichio introducendo un implicito aggettivo peggiorativo
(blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome», assolutamente assente nel testo
greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle versioni degli ultimi
decenni. 110 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti del poema (qui,
in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice linguistica della ordinaria
comprensione del mondo. 111 Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha, secondo
noi, correttamente colto il senso complessivo del passo: i vv. 34-38
argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è;
i vv. 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali
pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente
(veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è l’oggetto dei
loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule proibite come
generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide
sarebbe che i «mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le
designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere
stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella
espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto probabilmente significa
«spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica
nei confronti dei 169 Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115
estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti118, simile119 a
massa120 di ben rotonda121 palla122, sostenitori della esistenza del vuoto, ma
solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il
secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν – è variamente tradotto. Coxon
(pp. 211-2) rende con «change their bright complexion to dark and from dark to
bright». Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla successiva teoria (DKB9)
della composizione degli enti. Le differenze nelle traduzioni dipendono
soprattutto dall’intendere χρόα – accusativo di χρώς, «colore» - come χροιά
ovvero χρόα, «superficie». O’Brien (p. 56) sottolinea come al significato di
«complessione» (cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da preferire
quello più generico di «colore». 114 La proposizione introdotta da ἐπεί può
omettere ἐστι: la traduzione può renderlo in questo caso come predicato verbale
(come abbiamo fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo». 115 Mourelatos
(pp. 128-9) nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia
progressivamente «più plastica e concreta» man mano che B8 procede, per
raggiungere il proprio culmine appunto in questo passaggio. 116 L’aggettivo
πύματος significa «estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo
estremo di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo
(Conche p. 176). 117 L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza
di ciò che è, risultando equivalente di πάμπαν πελέναι. Come ha
convincentemente marcato McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali,
letteralmente disseminate nei vv. 42-49, possono essere intese anche in senso
metaforico. Si tratta di naturali sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime
occorrenze, anche in ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali,
ma che presto è usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il
contemporaneo di Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo, valorizza
una interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva l’interezza
del reale (preservandola dal Non-Essere), consente da un lato di riconoscere
l’eon «completo da ogni lato», dall’altro di intendere tutte le apparenze
(appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe l’affermazione
conclusiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da Thanassas e da
noi condivisa suona: διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, «tutte insieme davvero
esistenti». 118 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a
τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un punto di vista, una
prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più 170
suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che
rinserrano tutto intorno). 119 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente
una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a
σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione). 120 Il termine ὄγκος può
tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da
intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente
all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta.
Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di recente McKirahan (pp.
213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non
dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di
una sfera», una espressione giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si
tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua
misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma
della sfera, di forma o superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente
tradursi come «estensione fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di
astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la
tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva
a suo tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per
estensione tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla
sfera è la forma. 121 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν
riferito a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe
un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio
perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha
sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ ἐὸν
– e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è forma
archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211) nel
tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν (giocare
a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere
fosse detto «simile a una sfera», l’implicazione potrebbe essere che esso non è
veramente una sfera, mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione
per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera». L’espressione
εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide
qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera (σφαῖρη),
la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου. In ogni caso è
ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la comparazione proposta
non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di
ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla perfetta, ben-rotonda. L’analogia
si riferirebbe alla curvatura esterna della sfera. 171 a partire dal centro123
ovunque di ugual consistenza124: giacché è necessario che esso non sia in
qualche misura di più, Diels e Brehier hanno voluto cogliere dietro
l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe, quindi, a una immagine
geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe
senso precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece «fisica». Il sostenitore
più coerente della natura geometrico-spaziale dell’Essere parmenideo è De
Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Sansoni, Firenze 1966):
l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in cui Parmenide
avrebbe tenuto presenti spazio del matematico e spazio del fisico. L’Essere
sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea densa, cristallina: la realtà
fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico,
occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici
della consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich (op. cit., p. 212)
ritiene che l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di tutte le forme,
attesti che la conoscenza dell’essere è la forma più pura del pensiero: la somma
facoltà di pensiero del kouros, nel momento della conoscenza dell’essere, è
completamente conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo con la verità
della Dea. 123 Dal momento che è difficile attribuire parti all’essere, il
termine μεσσόθεν è stato spesso volto in senso metaforico. Concordiamo con
Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia quello del mondo e
che ella sottolinei come in ogni parte dell’universo l’essere sia lo stesso.
Coxon (p. 217), invece, sottolinea come l’equilibrio cui Parmenide allude con
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ sia di carattere «non-fisico», e funga da complemento
alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il volume della sfera),
marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed
eguale dipendenza dal suo proprio centro. 124 Intendiamo l’espressione μεσσόθεν
ἰσοπαλὲς πάντῃ come un rilievo della compattezza dell’Essere: ἰσοπαλές concorda
con il neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος (o il femminile σφαῖρη),
dunque con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda
palla». Dal centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza
(Diels, Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo stesso «equilibrio», la stessa
«spinta». Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e
Guthrie) l’idea che l’immagine della sfera esprima una «uguaglianza dinamica»:
forza e potenza dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla
periferia e dalla periferia al centro, senza possibilità di differenza alcuna
in intensità o potenza d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere come
«uguale a se stesso», privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello
dinamico dell’aggettivo: è in particolare rilevante la sottolineatura, da parte
di Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può sfuggire: ἰσοπαλές si
riferisce all’Essere e non alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui,
invece, la definizione 172 [45] o in qualche misura di meno 125, da una parte o
dall’altra126. Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di
giungere a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è
129 - qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132. di equidistanza: ἰσοπαλές
esprimerebbe l’idea di espansione uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in
questo modo οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità
dell’Essere in senso intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano
anche i successivi τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10)
osserva come perfezione e stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli
esterni, ma dalla simmetrica distribuzione delle forze interne e dall’assoluta
uguaglianza che sussiste tra le parti. 127 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ
ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, οὐκ ἐὸν «significa né più
né meno che “vuoto”, “spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”». 128
Traduciamo così l’espressione εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente
interrompere e discriminare l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che
è. In questa direzione anche le traduzioni di O’Brien («à la similitude ») e
Conche («à l’egalité à soi-même»). 129 Utilizziamo la forma dell’inciso
(traducendo ἐόντος come «di ciò che è»), per facilitare la lettura in italiano.
Avremmo potuto impiegare il pronome «di esso», ma abbiamo scelto di rimanere
aderenti alla ripetizione greca. 130 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον
ribadisce sostanzialmente omogeneità e uniformità già argomentate, e dunque la
pienezza d’essere di ciò che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213), Parmenide
ha ogni motivo per concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando
l’importanza della tesi che «ciò-che-è» è pienamente, esprimendola in modi
differenti per catturare l’attenzione del suo pubblico e condurlo a comprendere
il suo punto più chiaramente. 131 Recentemente Palmer (op. cit., pp. 157-8) –
per evitare di fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la
ragione (γὰρ) dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta
proposta a giustificazione (ἐπεὶ) dei vv. 47-48a, che contengono una delle
ragioni a sostegno di quanto affermato ai vv. 44b-45, rischiando così la
circolarità – ha proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ, legando quindi il
v. 48b al v. 49b: «Poiché è tutto inviolabile – dal momento che è a se stesso
da ogni parte uguale – uniformemente entro i suoi limiti rimane». In questo
modo 173 A se stesso, infatti, da ogni parte uguale133, uniformemente134 entro
i [suoi] limiti rimane135. ἐπεὶ introdurrebbe la ragione per l'affermazione
(riassuntiva) finale: «uniformemente entro i [suoi] limiti rimane». 132 Il
termine ἄσυλον evoca uno sfondo religioso: ἀσυλία era concetto del linguaggio
giuridico religioso e indicava la condizione di inviolabilità di persone o
luoghi sacri, associati al culto, la violenza nei confronti dei quali era
perseguita, come sacrilegio, con la condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e
Parmenide, cit., p. 150) l’allusione religiosa andrebbe posta in relazione con
la rivelazione del proemio. Nel contesto l’inviolabilità può intendersi come
altra faccia della costrizione che tiene insieme ciò che è, che gli impedisce
di essere diversamente da come è: impossibilità che gli siano sottratti i suoi
attributi o gliene siano imposti altri che non ha (McKirahan p. 213). 133
Parmenide afferma l’eguaglianza dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) -
che esclude non-essere e possibili gradi d’essere – in relazione ai suoi
limiti. Come osserva Coxon (p. 216), l’Essere è universalmente uguale a se
stesso nel senso che è uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν πείρασι
κύρει), il quale, essendo estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo
determina a essere quello che è e identifica la sua perfezione. Mourelatos (p.
127) suggerisce una lettura diversa: in riferimento alla sfera, si
valorizzerebbe il fatto che è un oggetto sempre uguale a se stesso, da
qualsiasi prospettiva lo si guardi. 134 Così rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più
letteralmente tradurre come «ugualmente», «allo stesso modo». Mourelatos (p.
127) sottolinea come dire di qualcosa che «è presente» ugualmente entro i suoi
limiti sia un modo di affermare che è simmetrico. 135 Colli (Gorgia e
Parmenide, cit., p. 150) traduce κύρει come «tende»: il verbo introdurrebbe un
elemento dinamico, in tensione con la precedente connotazione statica
dell’essere, presentando l’essere quasi fosse un organismo vivente, che tende a
espandersi come un respiro verso i suoi limiti. In questo modo l’essere sarebbe
presentato dall’interno: dall’esterno ne sarebbe dunque accentuata l’immobilità,
dall’interno il dinamismo. 174 DK B8 vv. 50-61 [50] ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον
ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης1 · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων
ἀπατηλὸν ἀκούων. μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν
- ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν -· [55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν 4, μέγ΄ ἐλαφρόν5, ἑωυτῷ
πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ,
πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε. [60] τόν6 σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς
οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη 7 παρελάσσῃ 8. 1 Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη
come nome divino. 2 I codici DEEa F di Simplicio Phys. 39, 1 riportano γνώμας,
forma per lo più accolta dagli editori; i codici DEF di Phys. 30, 23 e DEF2 di
Phys. 180, 1 riportano invece γνώμαις. 3 Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία;
alcuni editori leggono τἀντία. 4 Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ
in vece di ἤπιον ὄν. 5 I codici delle tre citazioni di Simplicio riproducono il
verso 57 con evidenti irregolarità metriche, per la presenza di ἀραιόν
(rarefatto) prima di ἐλαφρόν. Il testo risulterebbe dunque: «che è mite, molto
rarefatto e leggero....». Si è per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi
fosse glossa dell'altro, con conseguente espunzione. La versione del testo che
suggeriamo è quella per lo più adottata. Cerri, che sceglie di conservare il
testo dei codici, senza espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande
acribia ricostruisce la probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa
forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il termine ἀραιόν
(«raro», «rarefatto») è probabilmente da considerare un termine tecnico della
cosmogonia milesia (Anassimandro DK 12 A22, Anassimene DK 13 B1). Al contrario,
il termine ἐλαφρόν non è attestato nel linguaggio fisico presocratico. Coxon
(p. 223) considera ἀραιόν certamente parmenideo, in quanto utilizzato come
opposto di πυκνόν da Melisso e Anassagora e nella tradizione dossografica sulla
fisica di Parmenide. 6 L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον.
Karsten propose di correggere il testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe
allora: «relativamente a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto
verosimile». 175 [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam
145-146; vv. 50-61 Simplicio, In Aristotelis Physicam 38-39] 7 Nella
trascrizione dei codici, alcuni editori (Stein, tra i contemporanei seguito tra
gli altri da Coxon, O'Brien) intendono γνώμῃ. Il significato complessivo del
verso cambia di poco: «così che nessuno dei mortali possa esserti superiore
nell'opinione» ovvero «nel giudizio» (o «practical judgement» Coxon). 8 I
codici Ea F di Simplicio riportano παρελάσση, i codici DE παρελάση: gli editori
hanno corretto in παρελάσσῃ. 176 [50] A questo punto pongo termine per te al
discorso affidabile1 e al pensiero intorno a Verità2; da questo momento3 in poi
opinioni4 mortali5 impara6, l’ordine7 delle mie8 parole9 ascoltando10, che può
ingannare11. 1 L'aggettivo πιστὸν è immediatamente riferito a λόγον, ma può
riferirsi anche a νόημα: in qualche caso le traduzioni scelgono questa strada.
Qui abbiamo preferito mantenere distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης – che ci sembrano reiterare e rafforzare lo stesso concetto. 2 Si
potrebbe rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – e si deve comunque intendere - anche
come «pensiero intorno alla realtà». 3 I due versi 50-51 segnano il passaggio
tra una sezione l'altra: la conclusione della Verità è segnalata da ἐν τῷ σοι
παύω, l'attacco della Doxa da ἀπὸ τοῦδε [...] μάνθανε. 4 Ovvero «convinzioni» o
«considerazioni». 5 L'espressione δόξας βροτείας – in considerazione del
soggetto divino della comunicazione - potrebbe forse rendersi semplicemente con
«opinioni umane». 6 L'imperativo μάνθανε riprende, nell'introdurre la sezione
sulla Doxa, il programmatico futuro μαθήσεαι di B1.31. Cerri (p. 242)
sottolinea il valore "scientifico" che il verbo venne ad assumere
all'epoca, non indicando il mero ascoltare e memorizzare, ma «l'essere fatto
partecipe di una elaborazione scientifica, di una dimostrazione rigorosa ed
esaustiva». Interessante soprattutto ritrovare un verbo come μανθάνω, senza
dubbio positivamente connotato in termini gnoseologici, nell'imminenza
dell’esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ
(«apprenderai»), εἰδήσεις («conoscerai»). Lo stesso B11 doveva esordire con
un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza, evidentemente riconosciuta
dalla divinità al sapere che andava a esporre. 7 Si potrebbe forse rendere
κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi verbale». In ogni modo è da
preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος (come suggerisce O' Brien,
p. 57: «arrangement») nel senso di τάξις (Anassimandro). Mourelatos (p. 226)
indica come possibilità anche «forma». Nella cultura arcaica l'espressione
ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV
secolo in Democrito (DK 68 B21): in entrambi i casi si sottolinea la
composizione, l'artificio poetico. Coxon (p. 218), che rende il greco come
«composition», sostiene che il termine sarebbe stato scelto per la sua
congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che la «composizione» deve
esporre. Una interpretazione radicalmente diversa è quella di J. Frère
("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in Études 177 sur
Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων come
complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον come «ordine del
mondo». Robbiano (op. cit., p. 182) avanza l'ipotesi che κόσμος mantenesse in
Parmenide il suo valore omerico (disposizione ordinata che è conveniente, che
funziona e che è anche bella da vedere: il prodotto di un essere intelligente),
precedente al riferimento (che per altro conservava aspetti della accezione
originaria) all'universo (per la prima volta forse in Eraclito B30). Nello
specifico, secondo la studiosa, kosmos si riferirebbe a prodotto della mente e
della parola umana: a ciò che vediamo da una certa prospettiva (umana) e non a
ciò che (e come) le cose sono nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean
Being/Heraclitean Fire", cit., p. 60) ha invece ipotizzato che κόσμος
significhi nel contesto il mondo di cui la dea parla: «da questo punto in
avanti, impara le opinioni mortali, venendo a conoscere (attraverso l'ascolto)
il mondo ingannevole cui le mie parole si riferiscono». È possibile che le
affermazioni di cui consta la Doxa, la teoria che essa contiene, non siano di per
sé erronee, che descrivano correttamente un mondo di per sé ingannevole, in
quanto mascherato da realtà quando è solo apparenza. 8 L'uso dell'aggettivo
possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e l'assunzione di
responsabilità nell'introduzione della sezione sulla Doxa: analogamente ai
pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v. 60). 9 Coxon (p.
218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso poetico» sarebbe
contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura del V secolo
riconosceva un nesso tra ἔπη e δόξα (come risulta da Euripide, Eracle 111).
Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel contesto, le
implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza delle parole
che seguono sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea come la Dea, pur
impiegando parole secondo le regole della grammatica e della poesia, non potrà
evitare che il suo discorso risulti decettivo. 10 Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος
viene invitato ad ascoltare, a manifestare con la disponibilità all'ascolto la
propria aspirazione alla conoscenza. 11 Dobbiamo a J. Frère (op. cit., p. 201)
il rilievo circa il significato antico di ἀπατηλός: che non sarebbe, come per
il corrispettivo moderno, «ingannevole», piuttosto «suscettibile di ingannare».
La sua resa francese è la seguente: «[un ordre du monde], où l'on peut se
trompeur». Lo studioso propone in effetti di collegare κόσμον e ἀπατηλὸν, senza
fare di ἐμῶν ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un complemento
di ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con «seducente»:
Ruggiu nel suo commento (pp. 313) sottolinea come il senso dell'aggettivo vada
colto nella relazione di apertura alla verità e all'errore (come sarebbe
proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto, l'apparire. Mourelatos
(p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della formula κόσμον ἐπέων 178
Presero12 la decisione13, infatti14, di dar nome15 a due16 forme17, ἀπατηλὸν: è
la stessa combinazione di parole a celare la tensione di idee contrarie.
L'espressione κατὰ κόσμον indica, in effetti, parlare veritativamente,
appropriatamente: la polarità κόσμος-ἀπάτη segnalerebbe sia che le δόξαι sono
decettive, sia che l'ordinamento delle parole della dea o il loro contesto può
suggerire molteplici e\o confliggenti significati. In questo senso Mourelatos
invita a tenere a mente la formula esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα («simili a cose
vere», Teogonia 27) e l'espressione ἀμφιλλογία (da tradursi come come «double
talk», Teogonia 229), che Esiodo intenderebbe deliberata e maliziosa.
Affascinante l'accostamento omerico all'episodio di Odisseo e Polifemo. Lo
studioso ne ricava (p. 228) nel contesto una lezione di ironia da parte di
Parmenide: i mortali praticano "anfilogia" innocentemente (senza
saperlo), cadendo quindi in errore; la dea usa l'anfilogia in modo pienamente
consapevole, svelando quindi la verità sulle opinioni umane! 12 Anche chi, come
Coxon (p. 219), ritiene che il modello dualistico proposto nella Doxa possa risalire
al pitagorismo antico, è convinto che κατέθεντο abbia comunque come soggetto
genericamente «gli esseri umani», cogliendo una connessione tra lo stabilire
nomi di questo verso e quanto sostenuto nei vv. 34-41. Tuttavia il problema del
soggetto del verbo si pone: Frére (p. 203), per esempio, osserva come sia
difficile pensare che tutti i «mortali» possano essere assunti come «dualisti»,
e decide di indicare come soggetto «alcuni» (certains). Seguendo la proposta di
Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des
Parmenides", cit.) di leggere la sequenza dei vv. 34-41 dopo il v. 52, il
soggetto di κατέθεντο (e dei successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe
βροτοί. Ma quali? Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., p. 261) ritiene,
per esempio, che, diversamente dai mortali (senza discernimento, che nulla
sanno) di B6, i βροτοί di cui la Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano
smarriti solo su un punto preciso (B8.54). 13 Secondo Cerri (p. 245), la
sequenza di aoristi (κατέθεντο, ἐκρίναντο, ἔθεντο) rivelerebbe un riferimento
del discorso della Dea a un lontano passato. Secondo Diels (Parmenides
Lehrgedicht, cit., p. 92) γνώμη κατατίσθεσθαι sarebbe da considerare formula
abituale: Liddell-Scott traducono nel nostro caso κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν
come «recorded their decision, decided to name». Si potrebbe rendere come «si
decisero a nominare». In alternativa si potrebbe costruire il verso facendo
dipendere da κατέθεντο («stabilirono») μορφὰς δύο («due forme») e attribuendo
all'infinito ὀνομάζειν valore finale (per dar nome), con γνώμας come oggetto
diretto: «stabilirono due forme per dar nome ai loro punti di vista» (soluzione
vicina a quella adottata da Cerri). O ancora, considerare (come Deichgräber)
sia γνώμας sia μορφὰς come oggetti retti da κατέθεντο («posero due forme 179
[come] principi per nominare»). Cordero fa, invece, di δύο γνώμας l'oggetto
diretto di κατέθεντο e traduce quindi: «They estabilished two viewpoints to
name external forms». Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 278-9)
propone una soluzione analoga, intendendo γνώμας come «marque signifiante»; ne
risulta: «En effect, ils proposèrent deux formes pour nommer les marques
signifiantes». Pur essendo la struttura della frase molto diversa, nella
sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea anche Conche (p. 190).
Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non possa in questo caso
essere costruito con il complemento diretto. Tenendo conto del fatto che· (i) i
vari significati del termine γνώμη sono riconducibili essenzialmente a
giudicare, pensare e (conseguentemente) decidere; (ii) nel contesto γνώμας si
dovrebbe rendere con «opinioni», «giudizi», «punti di vista»; (iii) esiste nei
codici DEF la variante γνώμαις: se accolta, la traduzione dovrebbe risultare:
«[Uomini] stabilirono, infatti, due forme per nominare sulla base delle [loro]
opinioni»; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe essere inteso come accusativo di
relazione (Frére: «en leurs jugements») – tutto ciò considerato, optiamo per la
soluzione più lineare: quella di intendere κατέθεντο γνώμας come «risolvettero
i [loro] punti di vista» e dunque tradurre «presero la decisione», «si decisero
a». Va menzionata l'analisi di Mourelatos (pp. 228-9), che riscontra nel verso
una costruzione a conferma della sua lettura "anfilogica" della
sezione: l'effetto sarebbe quello di far avvertire all'uditore/lettore la
tensione tra γνώμην κατέθεντο («essi decisero») e κατέθεντο δύο γνώμας
(l'opposto: «essi erano di due opinioni, vacillavano»; situazione che può richiamare
quanto espresso da δίκρανοι, B6.5). 14 Palmer (Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., p. 354) ha di recente sottolineato come γὰρ qui abbia poco
senso nel contesto, in quanto quel che segue non sembra giustificare le
affermazioni della dea nei vv. 51-2: assumerebbe altro valore accettando la
proposta di Ebert di "restaurare" i vv. 34-41 dopo il v. 52. In
realtà la Dea, in quel che segue, illustra proprio come e dove possa annidarsi
la distorsione nel punto di vista umano che va a presentare. 15 La decisione di
nominare implica un’arbitrarietà che Parmenide ha già stigmatizzato in
B8.38b-39: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ
Perciò tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che
fossero reali. Sullo stesso motivo ancora in B19: 180 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ
τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι
κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero
origine e ora sono, e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno. A queste
cose un nome gli uomini imposero, particolare per ciascuna. Se teniamo conto
della proposta di restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert,
potremmo effettivamente concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica
è indissociabile dalla concezione parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha
colto in questo un’anticipazione della distinzioneopposizione tra nomos e
physis. 16 Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che
δύο abbia una doppia associazione, traducendo: «i mortali con doppia mente
hanno dato nome a due forme». La descrizione dei mortali corrisponderebbe così
a quella di B6.4-5. 17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri
(p. 246) quello di strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle
sue (due) sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe
successivamente la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che
sembra evocare direttamente il verso parmenideo: θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη
τῶν ὄντων, τὸ μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές vuoi che stabiliamo, disse, due categorie
di tutto ciò che è, l'una del visibile, l'altra dell'invisibile? (Fedone 79 a
6-7). Nella stessa direzione Robbiano (op. cit., p. 181), che vede nelle due
forme opposte la possibilità di ridurre il molteplice dell'esperienza «to a
minimal number of categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del termine,
Cordero (By Being, It Is, cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come
«external forms». Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures», anche
alla luce del successivo riferimento a δέμας, che designa corpo e aspetto
fisico - e Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger (“The
Cosmology of Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 112) osserva come la
scelta di μορφαί (che significa appunto anche «forme esteriori», «apparenze per
un osservatore») potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà
alle apparenze. 181 delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario
[nominare]20: in ciò sono andati fuori strada21. 18 L'interpretazione del
valore di τῶν μίαν è stata oggetto di interminabile dibattito (che origina
nell'antichità!). La traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri
da Zeller e alla fine accolta anche da Diels, inizialmente critico) che intende
rilevare come, delle due forme imposte dai mortali, una non avrebbe dovuto
essere introdotta, una è «di troppo» (ci si riferisce spesso alle due forme
come repliche di Essere e Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere
nominata); ciò costituirebbe l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di
fatto dell’interpretazione di Aristotele; essa è stata oggetto di critica, in
quanto: (i) da un punto di vista linguistico intende μίαν come se fosse ἑτέρην
(non si potrebbe leggere in μίαν il significato di «una delle due»); (ii) da un
punto di vista interpretativo accosta arbitrariamente essere e luce e
non-essere e tenebra. Una seconda linea di lettura (proposta tra i
contemporanei in particolare da Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano
stabilito di nominare due forme, di cui non si deve nominare una sola (cioè una
senza l'altra), come specificato da Raven: «two forms, of which it is not right
to name one only (i.e. without the other)». Coxon segue la stessa linea. Una
terza esegesi (anticipata da Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius,
Deichgräber, Untersteiner, Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford,
intendendo τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν: i mortali hanno errato nell'introdurre
(oltre all'essere) due forme: nessuna delle due avrebbe dovuto essere nominata:
«mortals have decided to name two Forms, of which it is not right to name (so
much as) one». La Curd l'ha riproposta all'interno della sua analisi delle due
forme come «enantiomorfe». Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa
sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν) che il testo greco non propone. Una quarta
possibile interpretazione è quella che abbiamo seguito: si può ritrovare già
nell'edizione del poema di Diels (1897), ma è stata soprattutto ripresa e
approfondita da H. Schwabl ("Sein und Doxa bei Parmenides", «Wiener
Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi adottata da Tarán («for they decided to name
two forms, a unity of which is not necessary»), Couloubaritsis e da Reale. Gli
uomini pongono due principi che non si possono ridurre a unità, in ciò cadendo
in errore. Il genitivo del pronome (τῶν) non può essere partitivo (in tal caso
avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e riferirsi a entrambe le μορφαί. Conclusione:
μία (da intendere in senso numerico) deve essere «una unità» delle δύο μορφαί.
Insomma l'errore consisterebbe nel porre due forme e nel non cogliere che sono
riconducibili a un'unica realtà (l'essere). Fondamentale dunque l'accurata
traduzione di Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono l'unica
grammaticalmente accettabile (Mansfeld, p. 126): denn sie legten ihre Meinung
dahin fest, zwei Formen zu benennen, 182 von denen die Eine (d.h. eine
einheitliche, die beiden zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in
diesem Punkte sind sie in die Irre gegangen. Si tratta di una lettura
sollecitata dallo stesso commento di Simplicio (Fisica 31, 8-9): τοὺς τὴν ἀντίθεσιν
τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας [si sono ingannati] coloro
che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la
generazione. Su queste esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a
Zeller-Mondolfo, Eleati, cit., pp. 244 ss.. Di recente Palmer (op. cit., pp.
169-170) ha contestato la soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato di
τῶν μίαν è «one of these», portando a esempio un testo di Erodoto (IX, 122),
dove, però τῶν μίαν è riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες)
e non all'alternativa tra due elementi (che richiederebbe appunto ἑτέρην). 19
Importante per il senso complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi
della Dea ovvero parte della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo
scelto di seguire questa seconda opzione, che ci sembra suggerita anche dalla
relativa seguente. Dello stesso avviso J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus,
Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959, pp.
117-120. 20 L'espressione con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito:
sottintendiamo ὀνομάζειν. Nei precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide
utilizza εἶναι o πέλεναι, ma l'accusativo μίαν suggerisce nel contesto ὀνομάζειν.
21 Il perfetto medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a «si sono sbagliati»:
conserviamo il valore implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso
del perfetto distingua l'allusione storica ai pensatori ionici dall'analisi
dello status delle due forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare,
πεπλανημένοι εἰσίν richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante
che Coxon accoglie in vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In
questo modo si chiarisce anche che le allusioni di quel frammento erano ai
pensatori ionici. La natura dell'errore cui si allude dipende dalla lettura
dell'emistichio precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo
ontologico, ovvero aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto
un solo principio. Secondo Patricia Curd (The Legacy of Parmenides…, cit., pp.
104 ss.) l'errore dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno
fondato la Doxa su due opposti di genere speciale: enantiomorphs, «oggetti che
sono immagini speculari l'uno 183 [55] Scelsero22 invece23 [elementi]24
opposti25 nel corpo26 e segni27 imposero dell'altro [...] definiti in termini
di ciò che l'altro non è» (p. 107), dunque in una sorta di intreccio di essere
e non-essere. Thanassas rimarca la connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e
ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: la formula «in questo essi si sono ingannati»
concorrerebbe a restringere la validità del termine «ingannevole» alle
«opinioni mortali» criticate in 8.54- 9, così da aprire la possibilità di una
nuova comprensione della relativa incidentale (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa
esprimerebbe esattamente l’errore denunciato in quel che segue, poi corretto
dalla «appropriata» Doxa divina (p. 65). 22 Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere
– secondo il consueto uso epico di κρίνεσθαι - ἐκρίναντο come «scelsero». Anche
in questo caso si pone il problema del soggetto: si tratta dello stesso
soggetto di κατέθεντο? Ovvero, come crede Frére (p. 204), di altro soggetto,
per cui «alcuni presero la decisione di dar nome a due forme» e «alcuni invece
scelsero... e segni imposero»? Optiamo per la continuità di un soggetto
indefinito. 23 Traduciamo δέ attribuendogli valore avversativo (per lo più non
è tradotto o gli viene aatribuito valore copulativo), nella convinzione che la
Dea, faccia seguito al proprio rilievo critico del verso precedente. 24
Forzando l'interpretazione, sottintendiamo «elementi» (e non genericamente «cose»)
nel neutro plurale ἀντία. Simplicio in effetti parla di ἀρχαί e στοιχεία.
Mansfeld (p. 140), sulla scorta di Deichgräber, sostiene che i «segni» con cui
sono connotate le due forme concorrano a definire la nozione di «elemento», con
cui, nella sua trattazione, sostituisce il termine «forma». 25 Alcuni
interpreti (per esempio O' Brien e Frère) intendono ἀντία come avverbio («in
modo contrario», «oppositivamente») riferendolo alle due forme nominate,
«relativamente al corpo» (δέμας, accusativo di relazione). Altri, invece,
pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο e pongono l'avverbio in
relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e νύκτα gli oggetti diretti e
di ἀντία un predicativo. Intendiamo ἀντία come neutro plurale. 26 Il termine
δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe
che Parmenide considera le due forme come divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene
che il significato omerico di forma corporea non possa funzionare nel contesto:
risalendo al valore di δέμω (che indicherebbe un certo modo di costruire, per
sovrapposizione di linee uguali), egli individua «struttura» come resa più
sensata. 27 Il termine σήματα avrebbe, secondo Cerri (p. 248), qui il valore di
«segni di lingua», «parole». Nella scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld
(p. 131) 184 separatamente28 gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma
etereo fuoco29, che è mite30, molto leggero, a se stesso in ogni direzione
identico31, coglie una ripresa della «disgiunzione» (κρίσις) di B2 e delle
proprietà dell’essere (B8). 28 Rendiamo χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione
avverbiale, per ribadire l'opposizione (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο). 29 Coxon (p. 221)
ritiene che Parmenide, pur concordando nella sostanza con Eraclito sul fatto
che il fuoco è costituente ultimo del mondo fisico, nella scelta della coppia
luce-notte rivelerebbe come sua fonte immediata la tavola degli opposti
pitagorica. Charles Kahn, invece - nel suo fondamentale Anaximander and the
Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994 (originariamente
Columbia U.P., New York 1960), p. 148 -, ha mostrato come l'espressione φλογὸς
αἰθέριον πῦρ risenta della omerica connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, «accendere,
infiammare») come «celestial light», originariamente indicante una condizione
del cielo e solo derivatamente l'elemento luminoso e raggiante connesso alla
regione superiore dell'atmosfera, a contatto con la copertura celeste (οὐρανός):
nel tempo, insieme al correlato ἀήρ, avrebbe modificato il proprio significato,
finendo nel V secolo a.C. per indicare una regione di puro fuoco (come ancora
attesta Anassagora in DK 59 B1, B2, B15). I sostantivi πῦρ e νύκτα (accusativi)
sottintendono un verbo reggente: nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο.
30 L'aggettivo ἤπιος è per lo più tradotto con «mite», che nel contesto, dopo
il richiamo a φλογὸς αἰθέριον πῦρ, potrebbe apparire insensato: in alternativa
Cerri (p. 249) propone «utile» o «propizio». Ma anche questa soluzione, soprattutto
nel confronto oppositivo con i «segni» di «notte oscura», appare poco
convincente. Manteniamo «mite», nel senso fisico, suggerito da Frére (pp.
207-8), di «non intenso». 31 La due forme - «fuoco etereo» e «notte oscura» -
sono poste a un tempo con la caratteristica identità uniforme dell'essere e con
la non-identità rispetto alla forma opposta. Si tratta di caratteri
fondamentali per l'interpretazione della cosmologia parmenidea: il sistema di
spiegazione adottato riflette proprietà emerse dall'analisi della Verità. Su
questo punto in particolare Graham (pp. 170-1). Couloubaritsis (Mythe et
philosophie cit., pp. 281 ss.) vede in questo rilievo una sorta di indulgenza
della Dea nei confronti dei «mortali» in questione, i quali si attengono parzialmente
alla legge dell'essere: ciò consentirebbe di riconoscere i Pitagorici dietro
alle espressioni parmenidee. Come abbiamo sopra ricordato, Mansfeld (p. 140)
individua nei «segni» con cui Parmenide connota le due forme la nascita della
nozione di «elemento»: 185 rispetto all’altro, invece, non identico32;
dall’altra parte, anche quello in se stesso33, le caratteristiche opposte34:
notte oscura35, corpo denso e pesante36. proprio «auto-identità» e
«non-identità» rispetto alla forma contraria ne sarebbero i costitutivi
concettuali decisivi. 32 Forse è proprio questo rilievo a segnalare il limite
della posizione criticata: come suggerisce Couloubaritsis (Mythe et philosophie
cit., p. 288) non aver saputo cogliere fino in fondo la legge della identità e
non aver posto, per la conoscenza, l'orizzonte dell'unità. È possibile che il
gioco di τωὐτόν - μὴ τωὐτόν richiami le «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) di
cui in B6.8-9a si dice: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν
[...] per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non
la stessa cosa. A questo ha di recente prestato attenzione Granger ("The
Cosmology of Mortals", in Presocratic Philosophy, cit., p. 111). Mansfeld
(pp. 133-4) ha osservato come l’identità dell’essere sia differente da quella
delle due forme: l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete.
L’auto-identità delle forme, inoltre, è auto-identità di aspetto che non
esclude ma anzi concede allo stesso tempo una contraria auto-identità di
aspetto. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic
Philosophy, cit., p. 55) ha invece sottolineato come i due principi della Doxa
- separati l'uno dall'altro, ognuno completamente identico a sé e differente
dall'opposto - non si mescolino in alcun modo l'uno con l'altro: la loro
«separazione radicale» sarebbe dunque, «linguisticamente e filosoficamente»,
contraria alla «pervasiva confusione di essere e non-essere» denunciata in B6.
33 Diels (DK vol. I, p. 240) legge κατ΄ αὐτό τἀντία come se αὐτό avesse valore
avverbiale («gerade») e κατὰ reggesse τἀντία («all'opposto»). 34 L'espressione
τἀντία è qui intesa come τά + ἀντία («gli opposti», «le cose opposte»), come
oggetto indeterminato del verbo reggente (ἐκρίναντο), utilizzato per introdurre
il vero oggetto (νύκτα) e le sue connotazioni. 35 L'aggettivo ἀδαής indica
l'impossibilità di discernere, percepire, conoscere (costruzione con alfa
privativo del verbo δάω, «imparare», «conoscere», «percepire»): «absence de
sens», secondo O'Brien (p. 60), ma anche «absence de lumière» (δαίω).
Liddell-Scott indica come secondo valore «oscuro», proprio in questa occorrenza
nel poema di Parmenide. Coxon (p. 186 [60] Questo ordinamento37, del tutto38
appropriato 39, per te40 io41 espongo42, 223) preferisce rendere l'aggettivo in
senso attivo come «unintelligent». O'Brien in francese rende con «l'obscure
nuit», in inglese offre una versione più sfumata: «dull mindless night». È da
notare come questa connotazione di Notte possa essere intesa in senso
epistemico negativo (impenetrabilità conoscitiva): ciò potrebbe aver spinto
all'accostamento aristotelico tra Notte e non-essere. Su questo si veda Granger
(op. cit. p. 113). Da osservare inoltre che alcune delle caratteristiche qui
associate a νύξ (in particolare oscurità e densità) richiamano quelle arcaiche
di ἀήρ, connotata come nebbia densa, oscura, fredda (per esempio Esiodo, Opere
e giorni 547-556). Sulla origine e sui caratteri degli elementi nella cultura
greca arcaica è ancora essenziale il contributo di Kahn, op. cit., pp. 119-165.
A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano come in origine il termine non
designasse una regione o un elemento specifico, ma una condizione: la
condizione che rende invisibili le cose, assimilabile dunque sia a νέφος
(nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva realtà (p. 143). 36 Mansfeld
(pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle due forme tre
distinti aspetti: (i) denominativo (αἰθέριον πῦρ/νύξ), (ii)
teoreticoconoscitivo (ἤπιον/ἀδαῆ), (iii) fisico (μεγ’ ἀραιὸν/πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della comune
autoidentità e etero-differenza delle due forme. 37 Mourelatos (p. 230) coglie
nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare «ordine del
mondo», ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una
cosmogonia. Inoltre, in relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B12.5),
l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe rovesciata nel senso di
«segregazione, divisione»: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un
campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per indicare
l'ordinamento cosmico pitagorico e in genere anche nella forma verbale διακοσμεῖν
conserva una valore positivo. Robbiano (op. cit., p. 183), riprendendo la
propria interpretazione del termine κόσμος, osserva come διάκοσμος sia qui
utilizzato per ribadire all'audience che il kosmos non è un aspetto della
realtà, non esiste oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere ed esprimere
la realtà usando parole. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., pp.
64-5) osserva, invece, come il termine diakosmos implichi un intreccio delle
due forme, che prelude alla introduzione della nozione di mescolanza, impiegata
per la Doxa “appropriata”. In questo senso, le espressioni «ordine ingannevole
delle mie parole» e «ordinamento del mondo del tutto appropriato» denoterebbero
due diversi livelli e obiettivi della Doxa: è importante che essi non siano
confusi (pp. 67-8). 187 38 Mourelatos e Couloubaritsis intendono πάντα come
aggettivo, concordato con τόν διάκοσμον: «this whole ordering [system,
framework]»; «l'ordonnance totale». 39 Il significato del participio ἐοικώς
usato con valore assoluto è secondo Liddell-Scott «seeming like, like» ovvero
«fitting, seemly». La verosimiglianza è qui da intendere in relazione ai
caratteri attribuiti alle due forme, in analogia con quelli dell'essere. Ruggiu
osserva come, per connotare la doxa, Parmenide ricorra ad aggettivi, con
caratterizzazione positiva, che hanno radice nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως
(B1.32). RealeRuggiu scelgono comunque di rendere ἐοικώς come «veritiero»,
seguendo Schwabl e il suo suggerimento di leggere l'aggettivo «sulla base del
linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323), piuttosto che con quello della
(posteriore) sofistica. In Omero effettivamente il significato prevalente di εἰκώς
è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp. CLXXVII ss.), in questo senso,
insiste sul nesso con Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισιν), marcando l'accordo
e la coerenza con i fatti. Anche Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez
Parménide, cit., pp. 264-5) sottolinea la positività del termine, optando per
il valore di «conveniente», adeguato, analogo a quello (appunto) dell'avverbio
δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria intenzione di esporre
l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo conto della critica
rivolta ai mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos (p. 231), per il quale
anche ἐοικότα manifesterebbe lo stesso gioco di positività e negatività che in
genere impronta la Doxa parmenidea: per i mortali non iniziati ἐοικότα
significherebbe «adeguato, appropriato, probabile», per la dea e il kouros
«apparente». Per Robbiano (op. cit., p. 183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα
per correggere l'impressione negativa che l'audience poteva associare al
precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl osserva (p. 223) come in questo verso di
solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come «ordine (disposizione di cose)
conveniente», ritenendo che ἐοικώς non possa qui valere come «simile (a
qualcosa)», in quanto sarebbe assente il termine di paragone. Ammettendo
tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52 (κόσμος-διάκοσμος) e
che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della falsità sia quella di
dire cose simili a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in effetti il termine di
paragone risulterebbe introdotto indirettamente: l'essere, concepito come la
realtà genuina. 40 Si susseguono i due pronomi personali σοι ἐγὼ: abbiamo di
nuovo ben marcato nell'interlocutore diretto il destinatario dell'esposizione
ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di interesse (Coxon p. 223). 41
Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea attribuisca la «decisione di
nominare due forme» e la scelta di luce e notte agli esseri umani,
considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana, ella invece
sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς) è 188
così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti44. suo. Un aspetto
rilevato anche da Thanassas (op. cit., p. 71): il pronome personale ἐγώ, in
greco non necessario, sarebbe impiegato per enfatizzare il carattere rivelativo
di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa ingannevole a quella
appropriata. 42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come «io dichiaro», modificando
la struttura della frase: «This order of things I declare to you to be likely
in its entirety». Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., pp. 262-3)
sottolinea come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per indicare
una promessa, un impegno. Come se la scelta verbale di Parmenide impegnasse la
Dea nella esposizione che segue. Interessanti le implicazioni lessicali: il
sostantivo φάτις in effetti significa «parola», in particolare la parola di un
dio o di un oracolo; ma anche «ciò che si dice di qualcuno», una «voce» e, di
conseguenza, «la rinomanza». Si tratta, dunque, di espressione ambigua, il cui
valore oscilla tra «verità» e discorso inverificabile. Utilizzato dalla Dea,
φατίζω viene da un lato a significare parola vera (B8.35), che dovrà permettere
al giovane di acquisire rinomanza, così da risultare credibile come «uomo
divino» (θεῖος ἀνήρ). Questo spiegherebbe, secondo Couloubaritsis, il passaggio
alla proposizione conclusiva: nessun sapere umano potrà superare quello così
acquisito dal giovane. In ogni caso, anche per una valutazione complessiva
della sezione sulla Doxa, è opportuno marcare (seguendo Frère, op. cit., p.
209) come φατίζω rinvii, all'interno di questo frammento, alla parola che
manifesta l'Essere (vv. 35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,
εὑρήσεις τὸ νοεῖν). 43 Il termine γνώμη ha uno spettro semantico piuttosto
ampio, che spazia da «pensiero», «giudizio», «opinione», a «decisione»,
«massima pratica», «proposito». Reale-Ruggiu (pp. 316-7) interpretano
l'espressione βροτῶν γνώμη come se non indicasse semplicemente altre opinioni,
altri giudizi «dei mortali», ma una forma di "saggezza" (come quella
veicolata attraverso gli enunciati "gnomici" appunto, massime di
saggezza pratica) tutta umana, che si riduce a mere parole. Tarán traduce in
effetti come «wisdom» e Couloubaritsis come «savoir». 44 Il verbo παρελαύνω ha
il significato di «passare», «superare». Mourelatos (p. 226 nota) osserva che
il verbo appartiene al vocabolario delle corse di carri. Il senso sarebbe
dunque da rintracciare nel superamento/sorpasso («outstrip»), ma anche nel
rivelarsi superiore in ingegno («outwit»). Untersteiner ha sottolineato anche
il valore di «portare fuori strada», «sviare», seguito da Reale-Ruggiu e anche
da Cerri. Manteniamo la traduzione più comune. Su questa conclusione ha fatto
per molto tempo leva l'interpretazione "dialettica" della Doxa
parmenidea: uno strumento, il migliore possibile, per concorrere con successo
con cosmologie rivali. Ma pur sempre "ingannevole"! Una recente
ripresa, ben argomentata, è quella di 189 Granger (op. cit., pp. 102-3):
l'impegno della Dea sarebbe stato quello di fornire il miglior strumento per
individuare l'inganno che si annida nelle cosmologie. Nella misura in cui il
giovane allievo fosse stato in grado di riconoscere i difetti del pensiero dei
mortali nella cosmologia che la Dea aveva approntato, nessuna opinione mortale
avrebbe più potuto sorprenderlo: la cosmologia più ingannevole, in effetti, è
quella più vicina alla realtà. Tarán (p. 207) aveva marcato come i due versi
finali del frammento non affermino che la ragione per esporre il διάκοσμος sia
che esso è il migliore, ma solo che l’intero ordinamento è offerto perché
nessuna sapienza umana possa superare Parmenide. 190 DK B9 αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα
φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1 καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν
πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα
μηδέν. [Simplicio, In Aristotelis Physicam 180] 1 La forma verbale ὀνόμασται è
in realtà nei codici DEF2 ὠνόμασται, corretta dagli editori per ragioni
metriche. 191 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate1, e
queste2, secondo le rispettive3 proprietà4, [sono state attribuite] a queste
cose e a quelle5, tutto6 è pieno ugualmente7 di luce e notte invisibile8, 1
Coxon (p. 232) difende l'inversione tra soggetto e predicato: dal momento che
in B8.53-59 si parla di nominare due forme, «luce e notte» dovrebbero essere
soggetto della proposizione, mentre «tutte le cose» diventerebbe predicativo. I
due nomi sarebbero, insomma, la sostanza della molteplicità di enti fisici. 2
Il pronome dimostrativo neutro plurale τά secondo Tarán (p. 161), seguito da
Conche (p. 198), si riferisce a φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da altri
(per esempio Pasquinelli, Coxon), lo intende riferito a ὀνόματα. Gigon,
Fränkel, Raven rendono il verso come espressione semplice: le cose in accordo
con le qualità di luce e notte sono state attribuite a queste cose e a quelle.
3 L’aggettivo possessivo σφετέρας può essere tradotto con valore riflessivo
(«proprie») o meno: il valore dipende dalla decisione circa il significato da
attribuire a τά. 4 Il termine δυνάμεις avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e
Coxon (p. 233) un valore analogo a quello di σήματα. Conche (p. 199), a nostro
avviso giustamente, interpreta come le «qualità opposte» associate a luce e
notte. Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66) vi coglie invece sinonimia con φύσις.
In effetti il termine dovrebbe nel contesto significare proprietà, qualità
essenziale. È vero però che la dimensione entro cui Parmenide inserisce la Doxa
è certamente anche linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre con
«meanings». Coxon sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un
carattere della posteriore associazione tra δύναμις e ἰδέα o εἶδος. 5
L'espressione ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς si riferisce agli enti fisici, con i loro
opposti caratteri. 6 Il pronome πᾶν può essere riferito al Tutto ovvero a
«tutte le cose», alla totalità delle cose: nel secondo caso, è l'insieme delle
cose a essere pieno di luce e tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra
avvalorare la seconda lettura, così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli altri,
Tarán (p. 162), Coxon (p. 233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200)
esplicitamente contesta questa lettura: come è possibile che la totalità delle
cose sia ripiena a un tempo di luce e notte se non non lo sono anche le singole
cose? Guthrie (vol. II, p. 57) e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza
quantitativa. Ruggiu (p. 328) esplicitamente sottolinea come «ogni cosa sia
costituita insieme e ugualmente di Luce e Notte». 192 di entrambe alla pari9,
perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla 10. 7 L'avverbio ὁμοῦ può
rendersi come «insieme», «allo stesso tempo», «egualmente». Se il valore sia da
intendere nel senso di una rigorosa misura quantitativa, dipende da come si
interpreta πᾶν. 8 L'aggettivo ἀφάντου è usato per marcare come, benché
invisibile, la notte, opposta alla luce, è pur qualcosa (Coxon p. 233). 9
All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere valore quantitativo - come
fanno Diels e Reinhardt e di recente, per esempio, Cerri (p. 255), per il quale
Parmenide preciserebbe come i due principi debbano essere quantitativamente
equipollenti – ovvero, come preferisce Tarán (p. 163), interpretare nel senso
di una equivalenza funzionale, ovvero di status o potere, come vuole Coxon (p.
233). Empedocle (DK 31, B17.27): ταῦτα γὰρ ἶσά τε πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι
questi sono infatti tutti uguali e coevi, sembra alludere a una equivalenza
(non quantitativa) di funzioni delle quattro radici. Le due «forme» concorrono
alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la
stabilità del mondo (Conche, p. 201). L'idea di un equilibrio di forze,
tuttavia, sembra comportare una interpretazione quantitativa. 10 L'espressione ἐπεὶ
οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è stata variamente tradotta, ciò comportando una diversa
accentuazione del suo senso complessivo: (i) Diels, Burnet, Reinhardt,
Cornford, Riezler, Untersteiner: «poichè nessuna delle due ha potere
sull'altra»; (ii) H. Gomperz, Coxon: «con nessuna delle due c'è il vuoto»;
(iii) Schwabl, Kirk-Raven, Beaufret, Hölscher, Mourelatos,
Kirk-Raven-Schofield, Austin, Reale, Palmer: «poiché insieme a nessuna delle
due è il nulla» (ovvero, Mourelatos: «since nothingness partakes in neither»);
(iv) Zafiropulo, Casertano: «perché non esiste alcunché che non dipenda
dall'una e dall'altra»; (v) Fränkel, Calogero, Verdenius, Tarán, O' Brien:·«perché
non c'è nulla che non appartenga all'uno o all'altro dei principi»; (vi)
Guthrie, Conche, Pasquinelli, O'Brien, Tonelli: «poiché niente partecipa di
nessuna delle due». Abbiamo preferito la terza soluzione, in quanto sembra
marcare con decisione la svolta rispetto all'errore imputato alle «opinioni
mortali» criticate in B8.53- 59: come sottolinea Ruggiu (p. 329), il rilievo
della Dea ribadisce come tutte le cose siano, come in esse si manifesti
l'Essere. La lettura di Simplicio sembra corroborante: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν
[...] εἰ δὲ μηδετέρωι μέταμη δέ ν καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται
193 e poco dopo ancora [citazione B9]; e se «insieme a nessuna delle due è il
nulla», egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Da
segnalare come Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino sulla questione
dell'equazione nulla-vuoto: in un contesto fisico – secondo lo studioso
anglosassone (p. 234) – μηδέν significherebbe spazio vuoto, la cui esistenza
Parmenide avrebbe rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul pieno),
Melisso esplicitamente. 194 DK B10 εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι
πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα2 σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν3 ἔφυ τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων.
[Clemente Alessandrino, Stromata V, 14 (419)] 1 Si tratta di correzione degli
editori; il codice di Clemente riporta ὁπόθεν. 2 Gli editori moderni hanno
corretto la forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα. 3 Il codice
di Clemente riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori. 4 La forma
ἔφυ τε è correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε. 195
Conoscerai1 la natura2 eterea3 e nell’etere tutti i segni4 e della pura5 fiamma
dello splendente6 Sole le opere invisibili7 e donde ebbero origine8, 1 La forma
del futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il
valore positivo del verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura
programmatica del frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera. 2 Il
termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come
«nascita»: Parmenide non si proporrebbe di esporre la «costituzione» o
l'«essenza» (Diels traduceva con «Wesen») dell'etere o della luna, analizzarne
la composizione, ma di spiegare il loro venire a essere, la generazione dei
costituenti del mondo e la genesi dei fenomeni (Conche, pp. 204-5). Non pare
tuttavia naturale rendere l'espressione αἰθερίαν φύσιν come «la nascita
dell'etere», né necessario intendere «natura» come «essenza»: il riferimento
alla costituzione dei fenomeni implica, nel caso della cosmogonia della Doxa,
illustrarne l'origine. 3 Dalla testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo
intravedere come Parmenide intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura,
rarefatta, nella quale si muovono gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse
all'atmosfera sublunare, dislocata a ridosso della superficie terrestre, più
densa, meno pura. 4 In questo caso σήματα assume il suo valore comune nella
lingua greca arcaica (Omero): gli astri intesi in generale come «segni» per
l'orientamento. 5 Il termine καθαρή, «pura», ha un valore prossimo a una delle
accezioni di εὐᾰγής (con alfa breve), utilizzato in questo verso nel senso di
«splendente» (εὐᾱγής con alfa lunga): si tratta di purezza anche in senso
religioso. 6 Abbiamo già detto di εὐᾱγής (con alfa lunga) con valore di
«splendente», da preferire all'altra forma, εὐᾰγής (con alfa breve), per ragioni
metriche (Cerri, p. 260). 7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è attestata in Omero,
dove significa «azioni odiose» (Iliade V, 897): in questo contesto si potrebbe
rendere – come fanno molti traduttori - come «operazioni distruttive». Ma
l'aggettivo ἀΐδηλος – costruito con alfa privativo e la radice ἰδ- di «vedere»
- può indicare tanto la capacità di far sparire, rendere invisibile (dunque
«distruttivo»), quanto la indisponibilità alla vista (quindi «oscuro»,
«ignoto»). Nell'insieme il significato di «invisibile» appare più convincente.
Ricordiamo, inoltre, come fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva
connotato il fuoco come ἤπιον (mite, utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua
traduzione «les oeuvres destructrices du pur flambeau du brillant soleil»
rinviando alle funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica
generazione del mondo, la loro dissociazione distruzione del mondo. Nella
misura in cui il fuoco solare si purifica al punto di liberarsi dalla
componente notturna, 196 e le opere apprenderai periodiche9 della Luna
dall’occhio rotondo10, [5] e la [sua] natura11; conoscerai anche il cielo che
tutto intorno cinge12, donde ebbe origine13 e come Necessità14 guidando lo
vincolò15 a tenere16 i confini degli astri. esso diviene funesto e dunque
dissociatore della mescolanza e distruttore della realtà. 8 Il verbo (aoristo
medio) ἐξεγένοντο, alla terza persona, è riferito a tutti i termini elencati in
precedenza, e non semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe
altrimenti alla terza persona singolare. 9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel
tradurre ἔργα περίφοιτα come «opere periodiche», evitando «vaganti», troppo
generico e fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ
traducono nel contesto come «revolving»): quello di una ripetizione costante:
già nell'ambito del pitagorismo, infatti, la lunazione sarebbe stata fissata in
4 periodi di 7 giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora quello di
sottolineare la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce
riferire a senso περίφοιτα a σελήνης («della luna errante»). 10 Qui κύκλωψ ha
il valore di «occhio rotondo» (LSJ «round-eyed») e non si riferisce ovviamente
al gigante dall'occhio solo, il Polifemo omerico. 11 In questo caso, come
scelgono di fare alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe
rendersi con il suo valore etimologico di «origine», «nascimento». 12
L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (letteralmente «cielo che tiene intorno») si
riferisce alla funzione del cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella
di racchiudere in sé l'universo, l'insieme di etere (contenente gli astri) e di
aria (che fascia la Terra). 13 L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ
rivelerebbe l'insistenza sulla spiegazione a partire dall'origine (Conche, p.
209). 14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a
costringere entro i limiti (ἐπέδησεν πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva
l'Essere alla identità e immutabilità; qui garantisce l'ordine dell'universo e
la sua costanza. Coxon (pp. 229-230) sottolinea la relazione di somiglianza,
analoga a quella che intercorre (in conclusione di B8) tra le due forme e
l'Essere. 15 Letteralmente «legò» (ἐπέδησεν): torna anche in questo luogo l'eco
prometeica che il verbo porta con sé (Cerri, p. 262). 16 Significativo il fatto
che il Cielo abbia una doppia funzione: avvolgente (ἀμφὶς ἔχοντα) e limitante
rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). 197 DK B11 πῶς γαῖα καὶ ἥλιος
ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν
1 μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι2. [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 559] 1 I
codici DE di Simplicio riportano θερμῶν. 2 I codici AF riportano γίνεσθαι. 198
[...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo
estremo3 e degli astri l'ardente forza4 ebbero impulso5 a generarsi6. 1
L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce probabilmente al fatto che tutti gli
astri sono immersi nello spazio etereo. 2 La formula greca - γάλα οὐράνιον –
significa letteralmente «latte celeste». L'uso dell'aggettivo potrebbe
autorizzare a pensare (Conche, p. 211) che per Parmenide la Via Lattea fosse
composta di stelle. 3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος ἔσχατος - «Olimpo
ultimo» o «Olimpo estremo» - si riferisce chiaramente a quanto sopra abbiamo
trovato indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che tutto attorno cinge».
Esso costituisce l'estremo limite dell'universo, così forzando in circolo il
corso degli astri. 4 In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo un'espressione
analoga: αἰθέριον μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di forza vitale.
L'impiego dell'aggettivo θερμός si spiega con la natura ignea degli astri. 5
Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che sottolinea la spinta,
l'impulso interiore: è tale impulso a guidare il processo di costituzione delle
cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza immanente di una δαίμων. 6
Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), il contenuto del
frammento è comunque in continuità con il tema cosmogonico-cosmologico del
precedente. 199 DK B12 αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1 πυρὸς ἀκρήτοιο2, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς
νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· 3
γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει [5] πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον
αὖτις5 ἄρσεν θηλυτέρῳ. [vv. 1-3 Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; vv. 2-6
Simplicio, In Aristotelis Physicam 31] 1 I codici di Simplicio riportano παηντο
(Ea ), πάηντο (D1 ), πύηντο (D2E), ποίηντο (edizione aldina). Bergk ipotizzò
prima (1842) πλῆντο (adottato da Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni
metriche. Gli editori contemporanei sono divisi: alcuni (Tarán,
Kirk-Rave-Schofield, O'Brien) preferiscono πλῆνται, che risulta tuttavia più
improbabile dal punto di vista paleografico; altri la forma da noi adottata, πλῆντο,
che presenta difficoltà metriche. 2 La forma ἀκρήτοιο è correzione di Bergk: i
codici riportano ἀκρήτοις (DEa ), ἀκρίτοις (EF), ἀκρίτοιο (edizione aldina). 3
Il testo greco dei manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο, problematico a
livello metrico. Karsten e Diels propongono l'introduzione del pronome ἣ dopo γὰρ.
Così ancora Cordero e Reale. Mullach preferì correggere πάντα in πάντηι,
seguito da alcuni editori (Tarán, Coxon, O' Brien). Altri, appoggiandosi al
manoscritto W, ignoto a Diels, leggono πάντων: così molti editori
contemporanei: Mansfeld, Kirk-Raven-Schofield, Conche, Gallop. Si tratterebbe
comunque, secondo Franco Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili), di
congettura bizantina. 4 La forma μιγῆν τό τ΄ è correzione di Bergk: i codici
riportano μιγέν τότε (DE), μιγέν τότ΄ (F). 5 La forma αὖτις si trova nel codice
F: DE riportano αὖθις. 200 Quelle1 più strette2, infatti, si riempirono3 di
fuoco non mescolato; le successive4 [si riempirono] di notte, ma insieme si
immette5 una porzione6 di fuoco; 1 L'articolo αἱ, qui usato con valore
pronominale, e l'aggettivo στεινότεραι si riferiscono probabilmente a στεφάναι,
come insegna Cicerone (DK 28 A37), il quale traduce il termine come corona e
orbis. Coxon (p. 235) osserva giustamente come i versi che precedevano le
citazioni di Simplicio dovessero vertere sugli elementi e sulla struttura delle
sfere, evocate senza dettagli o nomi qualificanti in apertura. 2 Simplicio, nel
contesto della citazione, si limita a dire che i versi seguivano un passo sui
due elementi, e non chiarisce quindi a quale sostantivo l'aggettivo si
riferisse: si intende comunemente στεφάναι. In questo senso στεινότεραι
qualificherebbe quelle «più strette», ovvero quelle «interne», dunque le corone
più vicine al centro del sistema. Nell'interpretazione complessiva che Diels
proponeva già nell'edizione del poema (1897), il riferimento sarebbe alle
corone interne di una doppia coppia, che costituirebbe centro e periferia del
sistema cosmico: (i) la coppia di corone non mescolate (quindi una esterna di
pura Notte, una interna di puro Fuoco) posta al centro costituirebbe la
struttura terrestre con la sua crosta solida e il suo interno infuocato (fuoco
vulcanico); (ii) quella alla periferia corrisponderebbe alla solida (di pura
Notte) parete esterna contenente (indicata anche come ὄλυμπος ἔσχατος in B11,
ovvero come «cielo che tiene tutto intorno», οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e
alla corona di puro Fuoco, evocata in B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς. 3 L'aoristo (πλῆντο)
di πίμπλημι significa decisamente «divennero\furono riempite»: Parmenide sta
dunque alludendo alla formazione delle corone (Coxon, p. 237). 4 L'espressione
αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς significa letteralmente «quelle sopra [ovvero dopo] queste»: per
mantenere l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso di rendere con «le
successive» (così Tonelli). I due pronomi dimostrativi (αἱ e ταῖς) si intendono
riferiti sempre a στεφάναι: il problema è capire esattamente a quali «corone»
si alluda. Nell'ipotesi di Diels, di recente rilanciata da Ferrari, si
tratterebbe delle corone comprese tra la coppia centrale e quella periferica
(composte di "elemento puro", di Fuoco all'interno, di Notte
all'esterno); corone "miste" di Notte e Fuoco. 5 Si passa dal passato
(πλῆντο) al presente (ἵεται), forse per marcare la perduranza degli effetti
cosmogonici: il valore dei versi è dunque sia cosmogonico sia cosmologico. 201
in mezzo a queste7 la Dea8 che tutte le cose governa9. 6 Letteralmente αἶσα –
termine omerico - si dovrebbe tradurre con «parte». Parmenide preferisce
l'espressione poetica, rara negli autori presocratici, a μέρος. 7 L'espressione
ἐν δὲ μέσῳ τούτων è ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán (p. 248): essa
può riferirsi al centro dell'universo o al centro delle «corone miste». Nel
contesto la seconda sembrerebbe la soluzione più naturale. 8 Aëtius
esplicitamente identifica la δαίμων con una delle «corone miste»: τῶν δὲ συμμιγῶν
τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ
γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει
Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone frammiste [di fuoco e oscurità], quella
centrale è principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica
anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (DK
28A37), facendola coincidere con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella
teogonia e cosmogonia della Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e Ἀνάγκη.
Ma Simplicio, evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento
di ἐν δὲ μέσῳ τούτων, intende la dea come collocata al centro dell'universo: καὶ
ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης
γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e
comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione
(contesto di B12). Qualcuno ha suggerito che ciò avvenisse in quanto il
commentatore accostava la δαίμων parmenidea alla Hestia pitagorica: si veda,
per esempio Filolao B7: τὸ πρᾶτον ἁρμοσθέν, τὸ ἕν, ἐν τῶι μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία
καλεῖται la prima cosa ben composta, l'uno, nel mezzo della sfera si chiama
Hestia (DK 44 B7). 9 L'espressione δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ sarebbe, secondo
Tarán (pp. 248-9), probabilmente connessa con l'idea, più o meno corrente
all'epoca di Parmenide, di una divinità suprema che governa l'universo. Coxon
(p. 242) 202 Di tutte le cose ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e
all’unione12, [5] spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile13, e, al
contrario, il maschile al femminile. vi ha voluto cogliere un'analogia con
Eraclito, per cui il potere razionale del fuoco governa ogni cosa (DK 22B41).
10 Il senso più appropriato di ἄρχει, in un contesto in cui si parla
dell'azione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra
essere quello di «presiede», «sovrintende». Si potrebbe rendere anche come «è
principio di» ovvero «è all'origine di». 11 L'uso di στυγερός (da στυγέω,
«avere in orrore») rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, eco della
Stimmung della sua epoca, come riscontrato soprattutto nella poesia, epica e
lirica. Da notare (Conche, pp. 225 ss.) che in questo caso il riferimento non è
esclusivamente alla nascita umana, ma alla genesi di tutte le cose: la condanna
del filosofo sarebbe rivolta al divenire come tale (p. 227). Altri, tuttavia,
attenuano il senso negativo dell'aggettivo proprio in relazione al sostantivo
τόκος, traducendo «doloroso [ovvero duro] parto» (Reale), riferendolo quindi
esclusivamente alla pena del travaglio, non ai suoi effetti. 12 Il greco μῖξις
è reso, alla luce del verso successivo, come unione «sessuale», «coito»
(Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve dimenticare che qui il
poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di maschio e femmina, ma in
genere all'unione dei due principi. 13 Le forme aggettivali sostantivate τό ἄρσεν
(il maschile) e τό θῆλυ (il femminile) alludono forse - come nella tradizione
pitagorica (secondo quanto attesta Aristotele) - alla riduzione del primo
elemento alla luce e del secondo alla notte. 203 DK B13 πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν
μητίσατο πάντων… [v. 1 Platone, Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto
Empirico, Adversus Mathematicos IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio,
In Aristotelis Physicam 39; v. 1b Aristotele, Metafisica, 1, 4 984 b 23] 204
Primo tra gli dei tutti ella1 concepì2 Amore. 1 La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di
B12. 2 Traduciamo in questo modo (ambiguamente) μητίσατο: il senso – nel
contesto garantito dalle testimonianze di Platone e Aristotele (che pur
lasciano incerto il riferimento al soggetto), Plutarco (che riferisce il verbo
a Afrodite) e Simplicio (che invece esplicitamente identifica il soggetto nella
δαίμων di B12) - dovrebbe essere quello di generare, ma il significato del
verbo μητιάω è «meditare, deliberare, pianificare». Il verbo qualifica dunque
la dea come una potenza razionale (Coxon, p. 243). 205 DK B14 νυκτιφαὲς 1 περὶ
γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς… [Plutarco, Adversus Colotem 1116 A] 1 La forma
νυκτιφαὲς è correzione dello Scaligero: il codice di Plutarco riporta νυκτὶ
φάος. 206 di notte splendente1, vagando intorno alla Terra2, luce d'altri3 1 Il
composto greco νυκτιφαὲς significa letteralmente «di notte
visibile\splendente». Come fa notare Cerri (p. 274), in tutti i composti del
tipo νυκτι- il primo elemento ha valore di determinazione temporale («di
notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp. 234-5) attribuisce al composto
νυκτιφαὲς: «brillant la nuit», contestando la poco convincente resa di Coxon
(«shining like night»?!). L'aggettivo ricorre solo un'altra volta in Orphica,
Hymnii 54, 10: ὄργια νυκτιφαῆ, in relazione ai riti dionisiaci, che si tenevano
(evidentemente) alla luce delle torce. Aristotele documenta analoga
interessante costruzione in riferimento al Sole: νυκτικρυφές, «di notte
nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione parmenidea, l'aggettivo è stato
accolto come frammento nella edizione Untersteiner. Lo facciamo seguire come
B14a. 2 L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον riferisce alla Luna il moto di
rivoluzione intorno alla Terra: in B10.4 Parmenide aveva usato la formula ἔργα
τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le opere periodiche della luna dall'occhio
rotondo»), alludendo già con περίφοιτα al regolare movimento (e quindi
all'azione periodica) dell'astro. L'espressione sembrerebbe poi implicare la
sfericità della Terra, come attestato anche da Teofrasto (Diogene Laerzio): πρῶτος
δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu
il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro
[dell'universo] (DK 28 A44). 3 L'espressione ἀλλότριον φῶς, da intendere
letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce riflessa della luna
(luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide consapevolmente
gioca sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς («straniero»). Come osserva
Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς, «luce
propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): κυκλοτερὲς περὶ γαῖαν ἑλίσσεται
ἀλλότριον φῶς in forma di cerchio introno alla Terra si aggira luce non propria
(ovvero straniera). 207 B14a [...ἥλιος,... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ] νυκτικρυφές
[Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31] 208 [... il Sole,... colui che va
intorno alla Terra o] il di notte nascosto1 1 Secondo l'editore della Metafisica
- W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato Parmenide, ma
forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide (νυκτιφαὲς). 209 DK
B15 αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. [Plutarco, Quaestiones Romanae 282 B;
Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B] 210 sempre volta e attenta1 ai raggi2
del sole. 1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe letteralmente tradursi come
«guardando attentamente». Come segnala Cerri (p. 276), è qui molto probabile
che Parmenide giochi sulle implicazioni della relazione tra i due termini,
maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna innamorata volge il suo sguardo
intenso verso il Sole. Immagine analoga in Empedocle (DK 31 B47): ἀθρεῖ μὲν γὰρ
ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον contempla di fronte a sé il fulgido disco del suo
signore. 2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς vale non solo «raggi» ma anche
«sguardi». 211 DK B15a [Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον [εἶπειν τὴν γῆν]
[Scolio a Basilio di Cesarea] 212 [Parmenide nei suoi versi dice che la Terra]
ha radici nell'acqua1 1 Secondo Conche (p. 242), che si sofferma a lungo a
chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è quella ricoperta
di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è effettivamente fonte di
nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione genetica: alla luce delle
testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra, semmai il contrario.
Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia alla massa di terre
emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di diverso avviso, in
passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco, Torino 1949, pp. 269
ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una allusione al mito di
Okeanos, che avrebbe circondato la Terra. 213 DK B16 ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν3
μελέων πολυπλάγκτων4, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5 · τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ
φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6
νόημα. [vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21; Teofrasto, De sensu, 3;
vv. 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del
testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi) 277; vv. 3-4
Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV,
5] 1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος («ciascuno»), preferito da
DielsKranz; altri ἕκαστοι o ἑκάστῳ. Il codice di Asclepio ἕκαστον. Gli editori
contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien, Cerri) hanno optato per la
versione di Teofrasto e di autorevoli codici aristotelici (i più antichi) della
Metafisica: ἑκάστοτε (lectio difficilior). 2 Seguiamo Coxon e Cerri nel
preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E) aristotelico – a ἔχει (per lo
più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ
è non solo lectio difficilior, ma anche scelta più sensata nel contesto. Passa
(p. 48) sottolinea l'opportunità della scelta di Cerri e Coxon, trovando
riscontri nell'uso omerico delle comparative. 3 La forma κρᾶσιν è attestata in
Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν). Estienne modificò in κρᾶσις,
ancora accolto da alcuni editori (Tarán, KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche).
A κρᾶσιν alcuni (Coxon, Palmer) preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p.
120) avanza perplessità in proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e
Asclepio riportano πολυκάμπτων («dai molteplici movimenti»). Il testo di
Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito dagli editori. 5 I codici aristotelici
(insieme a quelli di Alessandro e Asclepio) riportano il presente παρίσταται,
accolto da Diels-Kranz (e di recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui
tuttavia è stata segnalata l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea
propone invece il perfetto παρέστηκε (che ha esattamente lo stesso valore),
metricamente accettabile. La forma παρέστηκεν è degli editori. 6 I codici di
Aristotele e Teofrasto riportano ἐστὶ; quello di Alessandro λέγεται. 214 Come,
infatti, di volta in volta si ha1 temperamento2 di membra3 molto vaganti4, così
il pensiero5 si presenta agli uomini6: poiché è precisamente la stessa cosa 1
Attribuiamo al verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione
personale sono state proposte diverse possibili candidature al ruolo di
soggetto del verbo: νόος del v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto rafforzerebbe
la correlazione ὡς... τὼς), ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, ἕκαστος,
o ancora un soggetto implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o
sottinteso (Ferrari: τις βροτῶν Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν in κρᾶσις,
hanno fatto della «mescolanza» il soggetto. 2 Il termine κρᾶσις ha un valore
più forte di μῖξις: quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia più
possibile discernere le componenti (come invece accade in una μῖξις, semplice
mescolanza). La κρᾶσις trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e
armonica: per questo il termine viene reso con «fusione» (Ferrari) ovvero
«impasto» (Cerri), «unione» (Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla scorta
della testimonianza di Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama presuppone
una composizione variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come
«temperamento», anche in considerazione della lezione che giunge dalla
tradizione della medicina ippocratica, dove l'idea di κρᾶσις era associata a
quella di riconduzione del molteplice a unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.).
3 Ricordiamo che nei poemi omerici il termine σῶμα non indica mai ciò che noi
comunemente intendiamo con «corpo», bensì il suo contrario, il «cadavere».
Omero non rappresenta il corpo dell’uomo come unità di una molteplicità:
impiega infatti termini per lo più al plurale, come μέλεα (o γῦια) appunto, che
noi traduciamo con «membra». Ciò cui qui Parmenide intenderebbe riferirsi con
il termine μέλεα non sono dunque gli «organi di senso» (Diels) o gli «elementi»
(Schwabl), ma il corpo, come ha ben rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante
la proposta di Cassin-Narcy (B. Cassin – M. Narcy, “Parménide Sophiste”, in
Études sur Parménide, cit., II, p. 289) di mantenere al termine la doppia
significazione, riferendolo sia immediatamente al corpo, sia mediatamente alle
componenti universali. 4 Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων
come «temperamento di membra molto vaganti [erranti]», intendendola riferita
all'unità del corpo umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si
agitano in molte direzioni. 5 Rendiamo il termine νόος con «pensiero» ritenendo
che in questo caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà
(mente), ma alla sua 215 ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del
[loro] corpo9, condizione in relazione alla situazione del corpo. La
costruzione dei primi due versi e il loro contenuto propongono un'eco omerica:
τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε
θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno
che manda il padre degli uomini e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). 6 È
significativo che in questo contesto la Dea non ricorra a un'espressione come
βροτοί ma a ἄνθρωποι: il termine assume un valore descrittivo, marcando
l'identica natura degli esseri umani «tutti» (καὶ πᾶσιν καὶ παντί). 7
Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la stessa cosa ciò che pensa
(τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει) la natura del corpo (μελέων φύσις) negli
uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί)». Nella
letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer e ora anche
Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco, supponendo νόος
come soggetto (sottinteso) di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento oggetto e φύσις
soggetto del verbo (φρονέει): perché [esso (il pensiero)] è precisamente la
stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini, in tutti e in
ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos e, tra gli
altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di φύσις a un
tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: «la natura delle membra è negli uomini la
stessa cosa che [essa] pensa». Tarán, Heitsch, Mourelatos, Gallop, O'Brien,
Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una traduzione letterale,
che fa di φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un accusativo, e di τὸ αὐτό
il soggetto di ἔστιν: «la stessa cosa, infatti, è ciò che la natura delle
membra pensa negli uomini». In questo modo si lega τὸ αὐτό a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν
καὶ παντί, marcando quindi l'identità dell'oggetto del pensiero. 8 Intendiamo
in questo contesto φύσις come «natura, costituzione» (μελέων φύσις:
«costituzione del corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 189)
intende φύσις come «essenza»: il νόος, come elemento della struttura dell'uomo,
operebbe una fusione nella molteplicità delle «membra». Tonelli riprende nella
sua traduzione queste indicazioni. 9 Rendiamo il plurale μέλεα come «corpo»,
secondo l'uso omerico segnalato sopra. 216 in tutti e in ciascuno: ciò che
prevale10, infatti, è il pensiero11. 10 In questo caso intendiamo πλέον come
comparativo di πολύ («molto»): τὸ πλέον non vale dunque «il pieno» (πλέος
aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito, a quanto si
ricava dal contesto della citazione teofrastea, agli elementi (Fuoco-Notte,
ovvero caldo e freddo). Teofrasto interpreta infatti: «la conoscenza si produce
secondo l'elemento che prevale» (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις). Tra coloro
che interpretano τὸ πλέον come «il pieno», interessante la posizione di Tarán
(pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo stesso contesto teofrasteo.
Teofrasto, infatti, citerebbe il frammento per marcare come determinante per il
pensiero non tanto l'elemento che prevale, ma una certa proporzione tra i
componenti (συμμετρία). Così, quando una certa proporzione delle componenti di
Luce e Notte è presente nel corpo, ne risulterebbe lo stesso pensiero, dal
momento che il pensiero è il risultato dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87)
interpreta «the plenum» come «the subject whose nature has been expounded in
the Way of Truth»: esso sarebbe il solo contenuto del pensiero. Recentemente M.
Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von
Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 187, ha proposto di leggere τὸ come
pronome dimostrativo (= τοῦτο) in funzione prolettica, πλέον come avverbio, e
ipotizzando una relativa in funzione di completamento: «[denn dies ist mehr das
Denken], was in der Mischung jeweils überwiegt». 11 Qui νόημα è decisamente il
risultato dell'atto di pensare. 217 DK B17 δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ
2 κούρας… [Galeno, In Hippocr. Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] 1 La forma δεξιτεροῖσιν
è intervento degli editori: il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι. 2 Il testo
di Galeno riporta δ’ αὖ: per ragioni metriche è stato emendato in δὲ
(Scaligero, poi Karsten). Cerri (pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come
inutile banalizzazione. 218 a destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1 Le due
forme dative δεξιτεροῖσιν e λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di
Galeno (che cita) alle parti dell'utero: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς
μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως
ἔφη Molti altri tra gli antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito
nella parte destra dell'utero. Parmenide infatti afferma.... Gli aggettivi
andrebbero dunque riferiti alle parti dell'utero. 219 DK B18 Femina virque
simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus
Temperiem servans bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine
pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt
semine sexum. [Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV,
9] 1 Nella tradizione si trova At come alternativa a Nam. 220 Quando femmina e
maschio mescolano insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3,
che [deriva] da sangue4 opposto5, conservando la giusta misura plasma corpi ben
fatti. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e non
diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche
affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme6. 1 Dalla parafrasi
di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui
Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero
entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad
Alcmeone di Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di
Apollonia. 2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza,
qualità, proprietà»). 3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei
genitori o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso di «diverso ex
sanguine» suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p.
254). 4 Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue,
rispettivamente maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò differenzi
la posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare il seme
dal cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come suggerito da
Conche (p. 262), «diversus» non ha qui valore generico, ma, in relazione al
sangue maschile e femminile, il significato di «opposto, contrario». 6 Si
allude alla situazione in cui l'individuo generato risulti possessore sia del
seme maschile sia di quello femminile, caratteristici normalmente di uomini e
donne separatemente (Coxon, p. 255). 221 DK B19 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1
καί νυν2 ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι
κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 558] 1 I codici
DE di Simplicio, in vece di ἔφυ τάδε, riportano ἐφύτα δὲ. 2 I codici di
Simplicio riportano καὶ νῦν· καί νυν è correzione degli editori. 222 Ecco, in
questo modo1, secondo opinione2, queste cose3 ebbero origine4 e ora5 sono6, 1
La formula οὕτω τοι è impiegata per riassumere quanto detto: introduce quindi
una ricapitolazione ovvero la "lezione" che si ricava dal discorso
precedente (Conche, p. 265). 2 In conclusione della seconda sezione del poema,
nella quale la Dea affrontava – come recita B8.51 - δόξας βροτείας, appare
legittimo tradurre κατὰ δόξαν come «secondo opinione». In realtà, molti
scelgono di insistere sulla radice in δοκέω, traducendo l'espressione come
«secondo parvenza», «secondo apparenza» (Tonelli), «selon ce qui semble»
(Conche), «according to belief» (Coxon). Il senso della formula a noi pare comunque
salvaguardato: la Dea conclude la propria trattazione della realtà dal punto di
vista dell'esperienza umana, cioè di quel punto di vista che matura a partire
da τὰ δοκοῦντα («le cose che appaiono e sono assunte sulla base della
esperienza»: Simplicio, a proposito di tale punto di vista parla di διακόσμησις
τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere che contraddistingue i fenomeni che
registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo (τραφέντα), morte (tελευτήσουσι).
Nella sua interpretazione introduttiva, Simplicio impiega una formulazione
platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma
anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon (p. 256), i due versi B19.1-2
mettono in contrasto la natura delle cose che appaiono nell'esperienza umana
con la natura attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν. 3 Il pronome dimostrativo τάδε è qui impiegato per designare
l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν
nel linguaggio di Simplicio) precedente. Secondo Conche (p. 265) si riferisce
alle cose che i mortali hanno sotto gli occhi: «queste cose qui», di cui il
discorso cosmogonico ha spiegato l'origine, la natura e il destino. 4 Il testo
greco riporta una irregolarità nell'uso del verbo: il plurale neutro τάδε regge
sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι:
il passaggio da singolare a plurale nell'ambito di una stessa frase esistono
comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21 B29). 5 La formula καί νυν, come
segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro (e Omero). 6 Come abbiamo già segnalato,
è chiaro come in questo passo «queste cose» siano connotate da un punto di
vista temporale in senso opposto rispetto a τὸ ἐόν: i tempi verbali (passato,
presente futuro), gli avverbi (νυν, μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω,
τελευτάω) contrastano la determinazione dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται,
ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν di B8.5. 223 e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno
fine8. A queste cose, invece9, un nome gli uomini10 imposero11, distintivo12
per ciascuna. 7 La formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente «dopo,
a partire da ora») contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε
collegato al participio τραφέντα. 8 La costruzione greca - τελευτήσουσι
τραφέντα – consente diverse soluzioni nella traduzione (Cerri, p. 289): (i) la
combinazione di futuro medio e participio aoristo può intendersi nel senso del
compimento dell'azione indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine
la propria crescita»; ovvero (ii) nel senso di una cessazione di quell'azione,
quindi: «cesseranno di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o ancora
(iii) subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal
participio: «una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine». 9 Sottolineiamo il
valore avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a
conferire senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo caso, come in
B16, il poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una designazione
diversa rispetto alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto che in
questo contesto la polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una
ricostruzione oggettiva. 11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama
puntualmente B8.38b-39a: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο e B8.53: μορφὰς
γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν secondo quella che Cerri (p. 289) definisce
«la più tipica movenza della "composizione ad anello"». 12
L'aggettivo ἐπίσημος si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα)
di distinguere, contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del nascere,
crescere, morire è sovrapposta la relativa stabilità del nome. Sesto Empirico,
unica nostra fonte per i primi trenta versi del poema Περὶ φύσεως (Sulla
natura), ne contestualizza il proemio in questi termini: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ
Παρμενίδης τοῦ μὲν δοξαστοῦ λόγου κατέγνω, φημὶ δὲ τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις,
τὸν δ’ ἐπιστημονικόν, τουτέστι τὸν ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο κριτήριον, ἀποστὰς καὶ
< αὐτὸς > τῆς τῶν αἰσθήσεων πίστεως. ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως
γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò
il discorso opinativo – intendo quello che ha concezioni deboli -, e assunse
come criterio quello scientifico, cioè quello infallibile, avendo preso le
distanze anche lui dalla fiducia nelle sensazioni. Iniziando appunto il Peri
physeōs scrive in questo modo … (Adv. Math. VII, 111). Il successivo commento
(§§112-114), nel quale Sesto identifica il viaggio del poeta con lo studio
filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν), ha nei secoli condizionato
la ricezione del proemio, sia nel senso di proporlo come mera approssimazione
metaforica all’istruzione filosofica del poema, sia, conseguentemente, nel
senso di misconoscerne il rilievo teoretico, riducendolo a orpello poetico (in
fondo trascurabile): ἐν τούτοις γὰρ ὁ Παρμενίδης ἵππους μέν φησιν αὐτὸν φέρειν
τὰς ἀλόγους τῆς ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις [1], κατὰ δὲ τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ
δαίμονος πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ
δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν [2. 3], κούρας δ’ αὐτοῦ προάγειν
τὰς αἰσθήσεις [5], ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται ἐν τῶι 226 λέγειν ‘δοιοῖς...
κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις
Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ
> ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν
‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’ [14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς
ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη [22] ἐπαγγέλλεται
δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’ [29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς
ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν δόξας... ἀληθής’ [30], τουτέστι
τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον. In questi versi Parmenide dice che
le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i desideri irrazionali
dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di canti della divinità,
[intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica; la quale ragione
guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose (2, 3); le
fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna all'udito
laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8), cioè i cerchi delle orecchie,
attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle Eliadi (9),
che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la luce> (10),
poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che procedono verso la
Giustizia «che molto punisce» e che tiene «le chiavi dall'uso alterno» (14),
[intendendo] la ragione che possiede una conoscenza certa delle cose. Essa lo
accoglie (22) e promette di insegnare queste due cose: «il cuore saldo di
verità ben persuasiva» (29), che è il fondamento immutabile della scienza, e
l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale credibilità» (30), cioè
tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo. In realtà, sin dalla fine
del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera di Hermann Diels - si è
reagito al rischio di una banale allegoresi della poesia parmenidea,
recuperando, proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di prospettive e
possibili suggestioni culturali, che hanno in comune l’effetto di renderne la
relazione con i successivi frammenti molto più complessa. Dobbiamo alla
competenza del filologo tedesco l’inquadramento dell’opera di Parmenide
all’interno di un’articolata cornice di plausibili precedenti (e motivi)
poetici, che appaiono rilevanti per apprezzarne l’originalità. Nella
consapevolezza che la conoscenza della tradizione poetica intermedia (secoli
VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche ed esiodee e il poema parmenideo è, per noi,
in gran parte compromessa, Diels valorizzava in particolare1: (i) il modello
della speculazione cosmogonica e cosmologica di Esiodo, che avrebbe improntato
soprattutto la seconda sezione del Περὶ φύσεως, ma da cui dipenderebbe la sua
stessa struttura bipartita - corrispondente all'iniziale sottolineatura delle
Muse in Teogonia, vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν
δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero,
ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, insieme al motivo della
“doppia via” (verità ed errore), che evocherebbe l’analoga alternativa tra
miseria morale (κακότης) e valore morale (ἀρετή) in Opere e giorni (vv. 287
ss.); (ii) il modello della poesia orfica, di cui nel poema riecheggerebbero
termini e immagini: nel riconoscerne l’importanza, le connessioni con altre
correnti religiose contemporanee (misteri) e il radicamento nella tradizione
più antica, lo studioso ne marcava l’ampia incidenza nella cultura greca in
genere, rilevando tracce del «pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di «riforma»
(Reformation) anche nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia ionica. 1
H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und
Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten
Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione
originale 1897), pp. 12 ss. 228 In tale prospettiva, Diels richiamava
l’attenzione sulla tradizione dei leggendari «profeti» del misticismo greco
arcaico (Epimenide, Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora trovato espressione
nei Καθαρμοί di Empedocle: nel caso della forma poetica («rivestimento
poetico», poetische Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la propria
«rivelazione» (Offenbarung), ritroveremmo, per esempio, il prototipo della «narrazione
in prima persona» (Icherzählung) di un’esperienza di Incubation, quale riferita
da Alessandro di Tiro: ἦλθεν Ἀθήναζε καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ ὄνομα Ἐ.· οὐδὲ οὗτος ἔσχεν
εἰπεῖν αὑτῶι διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε τὴν Ἀθηναίων πόλιν
κακουμένην λοιμῶι καὶ στάσει διεσώσατο ἐκθυσάμενος· δεινὸς δὲ ἦν ταῦτα οὐ
μαθών, ἀλλ’ ὕπνον αὑτῶι διηγεῖτο μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον. ἀφίκετό ποτε Ἀθήναζε
ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ. κομίζων λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα πιστεύεσθαι χαλεπόν· < μέσης
γὰρ > ἡμέρας ἐν Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι κείμενος ὕπνωι βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ
ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς θεοῖς καὶ θεῶν λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ Δίκηι. Venne ad Atene
anche un altro Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire chi gli
sia stato maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine,
tanto che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi,
afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa
materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che suo maestro fosse stato
un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo ad Atene un Cretese, di nome
Epimenide, portando un racconto difficile da credere, formulato nei seguenti
termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus Ditteo,
rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno
con dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia (contesto DK 3 B1.
Traduzione di I. Ramelli e G. Reale). 229 Proprio Epimenide (nei suoi Καθαρμοί,
in particolare) sarebbe figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle
credenze religiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a
livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, rispetto
al più generale tema della purificazione e della relativa iniziazione, decisivo
diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del contatto con una realtà
trascendente: in questa direzione la poesia genericamente orfica avrebbe
incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto il «viaggio celeste»
(Himmelreise) costituirebbe frammento. All’interno di tale orizzonte culturale,
il Περὶ φύσεως si propone in una luce diversa, tale da suggerire maggiore
cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito
contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammenti). Nel caso del
suo proemio, in particolare, si rischia il fraintendimento proponendolo come
mera introduzione d’occasione o tributo formale, in cui il sapiente (un
filosofo!), per opportunità letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico,
avrebbe optato per un mascheramento allegorico della propria concettualità
(assumendo l’implausibile veste del poeta!): è necessario invece conservare al
testo la sua polisemia e al complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno
spessore originale2. 2 Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si
intrattengono su questo nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo
dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si
tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia,
Bruxelles 2008, cap. II "Le «Proème» comme producteur de chemins".
Molto utile anche l’introduzione (“Parmenides and His Predecessors”) di M.J.
Henn al suo Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays
and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la
propria introduzione sul tema “The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in
the Homeric Style”, dedicando molto spazio all’analisi della struttura
dell’esametro parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ
φύσεως è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering
Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New York 2009:
le pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio. Un’ampia e sostenuta
lettura del proemio come chiave per l’interpretazione del poema è oggi proposta
in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011. 230 Come di
recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano3, il proemio parmenideo non è
inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per
comprendere carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto
storico-geografico, sociale e religioso in cui si muoveva Parmenide, cantare
un’esperienza eccezionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie
delle forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio
iniziatico e performativo, era cosa ben diversa dall’erudita esercitazione che
l’allegoresi di Sesto presuppone: il poeta Parmenide si rivolgeva a un’audience,
un pubblico convenuto per ascoltare le parole di una dea e partecipare
all’esperienza evocata in versi. È significativo, per la comprensione storica
del poema, che del proemio non resti traccia nelle citazioni antiche, che esso
sia stato ignorato da coloro (Platone e Aristotele) che hanno contribuito a
fissare i contorni della figura di Parmenide per la tradizione successiva.
Perché la poesia? Il problema della natura e portata del proemio è strettamente
connesso a quello, più generale, della scelta di fondo – da parte di Parmenide
- del medium poetico, di cui la narrazione riflette alcuni motivi tradizionali,
culturalmente di grande significato teoretico anche nella prospettiva specifica
del poema. Ci si riferisce in particolare all’intimo nesso tra poesia,
rivelazione e mito, certamente una chiave per decifrare l’impianto creativo del
Περὶ φύσεως, in cui si intrecciano racconto, comunicazione divina della
«parola» (μῦθος) e «verità» (Ἀληθείη). Rimane ancora molto utile il vecchio
aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei
Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia,
Firenze 1967. 3 "Lire du début. Quelques observations sur les incipit des
présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp.
7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12. 231 Poesia, mito, verità In un frammento
(fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di Pindaro, contemporaneo di Parmenide,
noi troviamo una sorta di autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e
della poesia nella società greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come,
dopo aver ordinato il mondo e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato
se, per caso, mancasse ancora qualcosa alla sua fatica: essi, allora, lo
avevano pregato di creare alcune divinità per «celebrare con parole e musica
quelle grandi opere e l’intero suo ordinamento»4. A tale scopo, per onorare la
bellezza dell’edificio cosmico, e manifestarlo nella sua totalità, Zeus
introduce nuove divinità, le Muse: così la sua opera si compie con la nascita
della parola, del canto (originariamente identici), espressioni divine che ne
rivelano l’essere. Per il grande filologo tedesco Walter Friedrich Otto, il
supremo evento del mito è che l’essere delle cose si riveli nella parola con la
sua divinità5: ogni mito genuino si rivolge alla totalità del reale, come uno
sguardo complessivo sulla sua manifestazione originaria. In questa prospettiva,
l’esperienza del mito è intesa come esperienza, a un tempo, della bellezza e
della verità: da cui l’impressione arcaica che il poeta possa avvicinare, più
degli altri uomini, l’essere delle cose; che la sua parola possa afferrare la
realtà in profondità in forza della sua “ispirazione”. L’invocazione alle Muse
dell’antica poesia greca palesa la recettività del poeta: l’ – osserva Otto -
non si apre con la superbia (tipicamente moderna) di una coscienza creatrice,
ma con la modestia di chi ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo
mediatore: in questo senso la poesia è un’ombra dell’essenza del mito. Eppure
il poeta (tipicamente per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto
autore di ciò che canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle
Muse: egli si distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi
in quanto sua è la voce 4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in
Id., Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44. 5
W.F. Otto, Il mito (1955), ivi, p. 60. 232 attraverso cui le Muse si esprimono.
Egli è un «maestro di verità» (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto
che suggerire: per questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro
la tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata rispetto a
quella dei “mortali”. Donde il carattere spesso esoterico della filosofia
antica 6. Parmenide e la poesia Nella scelta poetica di Parmenide questi
elementi, come si avrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo
originale, soprattutto nel plasmare l’atteggiamento del destinatario della comunicazione
divina: è un fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel Περὶ φύσεως, che il
mito assuma la forma del manifestarsi di ciò che è originario, di quanto viene
altrimenti designato come il divino (τό θεῖον). Significativamente, la θεά
introdurrà (B2) l’assiomatica della sua istruzione intorno alla Verità
ricorrendo proprio alla formula «e tu abbi cura della parola, una volta
ascoltata» (κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας): il «giovane» (κοῦρος) è
esplicitamente sollecitato a «prendersi cura» (κόμισαι) del μῦθος divino, che
dischiude la comprensione della realtà. Dei termini greci arcaici per «parola»
ritroviamo dunque nel poema: (i) μῦθος (B2.1; B8.1), la forma primitiva per
esprimere ciò che è realmente, effettivamente accaduto: la parola che dà
notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole;
(ii) λόγος (B7.5), che ha il valore di di ciò che è stato ponderato, che serve
a convincere (donde il valore di «ragione») 7, della parola ragionevole. In
questo senso, in B7.5, la Dea innominata inviterà il κοῦρος a valutare
razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica con il ragionamento») l’argomento
proposto. 6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 29. 7 W.F.
Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito, cit., pp. 30-32. 233 Già nel
registro verbale è possibile intravedere l’intervento creativo di Parmenide
sulla tradizione. Nel rilevare la contrapposizione apparente del poema di
Parmenide con la razionalità ionica sul terreno dei contenuti e dello stile,
Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma e del metro epico una modalità
espressiva appropriata alla parola come μῦθος: il contenuto dell’epica è
costituito, insieme, da «le cose che sono, quelle che sono state e quelle che
saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, Calcante in Iliade I, 70) e
τά ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28), da intendere come sinonimi. Dal momento
che, anche per Parmenide, valore primario è la Verità (Realtà), attribuire a
una divinità la rivelazione del contenuto dell’opera sarebbe dunque escamotage espressivo
coerente con la tradizione sapienziale arcaica: il disvelarsi del reale si
palesa come manifestazione del divino stesso9. È questo, allora, il motivo che
induce all'adozione della forma e del metro epico? Parmenide è ancora persuaso
che il discorso cantato come pratica comunicativa garantisca la possibilità di
una “comunicazione vera”, di un «autentico contatto» (Vernant) con il divino10?
Proprio il proemio, in effetti, sembra giustificare le scelte di Parmenide alla
luce dei suoi possibili modelli di riferimento: (i) l’inno alla divinità in
funzione di proemio rapsodico (nel campo della poesia epica), ovvero
l’invocazione alle Muse in funzione di protasi; (ii) i proemi delle opere di
Esiodo, Epimenide e Aristea (nel campo della poesia cosmogonica), che celebrano
l’investitura poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non vi è
dubbio che, optato per il medium della rivelazione, l’adozione della forma
poetica fosse scontata e il metro dell’epica tradizionalmente 8 Parmenide,
Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione,
traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario
filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991, pp. 155- 156. 9 Ivi, p.
160. 10 Wilkinson, op. cit., p. 67. 11 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura,
introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano
1999, pp. 109-110. 234 funzionale all’istruzione 12; ma è anche vero che la
scelta dell’epica avrebbe a suo modo naturalmente comportato quel medium
(almeno nella forma dell'ispirazione) tradizionale. Si tratta di due
prospettive distinte e complementari, che potremmo così schematicamente
caratterizzare: la prima opzione sottolinea l’orizzonte della verità in cui si
iscrivono i contenuti del poema, che la divinità garantisce con la propria
autorità e autorevolezza; la seconda richiama soprattutto la sua efficacia
comunicativa, un aspetto spesso trascurato, ma che di recente ha assunto grande
rilievo nella letteratura critica13. Poesia, educazione e vita Proprio
considerando i plausibili modelli che si celano dietro le scelte e i moduli
espressivi di Parmenide, non pare azzardato sostenere che il proemio annunci un
processo di trasformazione della persona (il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui
il momento cognitivo tradizionalmente privilegiato dagli interpreti è in realtà
funzionale a una modificazione radicale dell’esistenza di colui che è destinato
a ricevere la comunicazione divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in
passato ai miti escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo
della Repubblica (mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga).
Almeno alcuni elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: (i)
la ripresa di un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella
letteratura omerica ma anche in quella religiosa; (ii) la meta del viaggio:
l’incontro con la divinità; (iii) la scenografia cosmica dell’incontro; (iv) le
modalità della rivelazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano nel
riconoscere nella scelta parmenidea del metro (esametro) dell’epica 12
Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L.
Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965, p. 31. 13 Mi riferisco, in
particolare, ai contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008).
235 un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumento
culturale ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare
tale opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i
poemi epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e
offre educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in
versi fosse la soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare
una materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al
pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14.
Nel caso di Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se -
ammettendo la circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e
occidentale - interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in
prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva
aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di un modello di
comportamento15. A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI
e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato
Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica
arcaica su mentalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide
abbia valutato l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza
comunicativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto
culturale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo
senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo
alla sapienza del canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e
memorizzazione della propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e
analogie di sicuro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena
autonomia – a nuovi concetti e formule astratte16. 14 C. Robbiano, Becoming
Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, International Pre-Platonic
Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 42. 15 Ibidem. 16 M. Stemich,
Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, pp.
30-31. 236 Della poesia greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio,
conserva senz’altro il riferimento paradigmatico al mito come memoria per
recuperare creativamente temi e motivi della tradizione in funzione
didascalica, insieme al rilievo dell’ispirazione divina (donde l’istituto
stesso del proemio, cioè l’abitudine di far cominciare il canto - epico o
lirico - con l’invocazione alle Muse o ad altre divinità) e alla (probabile)
destinazione performativa pubblica, collegata alla scelta della forma metrica
(esametro), secondo le indicazioni interne alla stessa tradizione omerica
(l’aedo Demodoco nell’ottavo libro dell’Odissea). Gentili segnala18 come alla
fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Cineto di Chio fosse il primo a
«recitare» Omero a Siracusa (in un’area geografica non remota dalla Magna
Grecia di Elea: pare che Parmenide soggiornasse presso la corte di Ierone, che
aveva richiamato artisti e intellettuali da tutta la Grecia19), inserendo
nell’ordito dei poemi omerici originali versi epici. Non va dimenticato come,
in un sistema culturale – quale quello greco arcaico - fondato quasi esclusivamente
sull’oralità della comunicazione del messaggio poetico, il cantore epico fosse
destinato a trasmettere, attraverso la narrazione, l’enciclopedia del sapere
(tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli (nel caso dell’epos
omerico), si era riconosciuta (e intorno a cui si era venuta organizzando) la
società ellenica20. Per la comprensione del testo di Parmenide, che noi oggi
leggiamo, è quindi essenziale la contestualizzazione, non solo per le trame
teoriche, ma anche per quelle formali: ciò consente - rispetto a quelle
arcaiche forme enciclopediche, in cui tutta la saggezza era incorporata nella
concretezza della narrazione - di apprezzarne la specifica natura,
l'originalità dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e sistematici).
17 Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura arcaica) di B.
Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo,
Feltrinelli, Milano 2006. 18 Ivi, p. 22. 19 Su questo A. Capizzi, "Quattro
ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60;
riferimento alle pp. 52-53. 20 Gentili, op. cit., p. 69. 237 Non va comunque
trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente condizionata da
esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa memorizzazione) –
implicava, in quello sfondo culturale, la dimensione “spettacolare”
(recitazione e canto) della sua ricezione21, che Parmenide non poteva ignorare.
Questa considerazione, da un mero punto di vista formale, aiuta a comprendere
la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e l’insieme drammatico del
proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la divinità), così come la sua
intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario, non solo a livello
intellettuale, ma anche emozionale, incoraggiandolo a seguire l’esperienza
«trasformativa» del poeta, convertito dal contatto con la verità22. In questo
senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare come il poema
suggerisca: (i) una diversa modalità di approccio alla Verità: nella poesia
omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso la Musa e i
versi originavano dalla «memoria divina» 23; nel poema in generale, e nel
proemio soprattutto, l'invocazione è sostituita da un incontro divinamente
garantito e da una diretta comunicazione divina, che fanno del poeta qualcosa
di più di un semplice tramite ispirato; (ii) una probabile integrazione della
dimensione performativa: l'invito alla valutazione razionale (κρῖναι δὲ λόγῳ)
fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista platonico
(237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione, per bocca
dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli
potrebbe essere indicativa – oltre che dello stesso modello pedagogico
dell'Accademia – di un'originale impronta dell'Eleate: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος
ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ
21 Ivi, p. 49. 22 Robbiano, op. cit., p. 49. 23 Wilkinson, op. cit., p. 32. 24
E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni
Quasar, Roma 2009, p. 25. 238 μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ
διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων Οὐ γὰρ
μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε
νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è sia; il
falso, infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il grande Parmenide,
tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini, cominciando e fino alla
fine testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni volta con le sue
parole e i suoi versi che: «Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che
non sono; Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Si tratta di
un «fotogramma di interno scolastico»25: la memorizzazione dei contenuti
fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era affiancata
dal commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che approfondiva e
chiariva i temi (comunicando probabilmente informazioni supplementari, non
divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno in parte, un reperto
di tale situazione didattica: donde le sue asperità e l'impressione che fosse
probabilmente rivolto a una cerchia ristretta26. Parmenide poeta È
significativo che, in quella che potrebbe essere la più antica allusione a
Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»: 25 Cerri, op. cit., p. 94. 26
Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des
Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet
(éds), Qu’estce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic
Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord)
2002, pp. 89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito. 239 ἆρα ἔχει
ἀλήθειάν τινα ὄψις τε καὶ ἀκοὴ τοῖς ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν
ἀεὶ θρυλοῦσιν, ὅτι οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε ὁρῶμεν; Mi chiedo se vista
e udito abbiano una qualche verità per gli uomini, oppure se queste cose stiano
proprio come sempre ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo alcunché di
preciso. (Fedone 65b), a dispetto di una tradizione che avrebbe poi, a più
riprese, manifestato un certo disappunto di fronte ai versi dell’Eleate: τὰ δ’ Ἐμπεδοκλέους
ἔπη καὶ Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ
κιχράμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν
διαφύγωσιν. I poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le
Sentenze di Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un
veicolo, ne prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico].
(Plutarco; DK 28 A15) μέμψαιτο δ’ ἄν τις Ἀρχιλόχου μὲν τὴν ὑπόθεσιν, Παρμενίδου
δὲ τὴν στιχοποιίαν [...] Ad Archiloco si potrebbe rimproverare il soggetto, a
Parmenide il modo di fare versi […] (Plutarco; DK 28 A16) ὁ δέ γε Π. καίτοι διὰ
ποίησιν ἀσαφὴς ὢν ὅμως καὶ αὐτὸς ταῦτα ἐνδεικνύμενός φησιν Parmenide, pur
risultando oscuro a causa della poesia, espone e afferma a sua volta le stesse
cose. (Proclo; DK 28 A17). La forza del pensiero sarebbe stata, insomma,
artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata, producendo un
duplice effetto negativo: l’oscurità dell’espressione e la scadente qualità dei
versi. Scontato, per la tradizione platonica, che Parmenide avesse elaborato il
proprio contributo indipendentemente dal 240 medium espressivo, cui si sarebbe
applicato in un secondo momento, valutandone l’impatto comunicativo: donde i
compromessi e le incongruenze cui accenna Proclo: αὐτὸς ὁ Π. ἐν τῆι ποιήσει·
καίτοι δι’ αὐτὸ δήπου τὸ ποιητικὸν εἶδος χρῆσθαι μεταφοραῖς ὀνομάτων καὶ
σχήμασι καὶ τροπαῖς ὀφείλων ὅμως τὸ ἀκαλλώπιστον καὶ ἰσχνὸν καὶ καθαρὸν εἶδος τῆς
ἀπαγγελίας ἠσπάσατο. δηλοῖ δὲ τοῦτο ἐν τοῖς τοιούτοις [B 8, 25. 5. 44. 45] καὶ
πᾶν ὅ τι ἄλλο τοιοῦτον· ὥστε μᾶλλον πεζὸν εἶναι δοκεῖν ἢ ποιητικὸν < τὸν
> λόγον. Lo stesso Parmenide, nel poema, pur essendo costretto, certamente a
causa della forma poetica, a far ricorso a metafore, figure e tropi, privilegiò
tuttavia una forma d’esposizione disadorna, controllata e semplice. Mostra ciò
in questi versi [B8.25, 5, 44, 45] e in tutti gli altri di questo tenore, così
che il suo discorso sembra piuttosto prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18).
Sembra rivendicare invece l’originaria e originale intenzione poetica
dell’opera parmenidea Genetlio: φυσικοὶ [sc. ὕμνοι] δὲ ὁποίους οἱ περὶ
Παρμενίδην καὶ Ἐμπεδοκλέα ἐποίησαν [vgl. 31 A 23]. […] εἰσὶν δὲ τοιοῦτοι, ὅταν Ἀπόλλωνος
ὕμνον λέγοντες ἥλιον αὐτὸν εἶναι φάσκωμεν καὶ περὶ τοῦ ἡλίου τῆς φύσεως
διαλεγώμεθα καὶ περὶ Ἥρας ὅτι ἀήρ, καὶ Ζεὺς τὸ θερμόν· οἱ γὰρ τοιοῦτοι ὕμνοι
φυσιολογικοί. καὶ χρῶνται δὲ τῶι τοιούτωι τρόπωι Π. τε καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἀκριβῶς...
Π. μὲν γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἐξηγοῦνται, Πλάτων δὲ ἐν βραχυτάτοις ἀναμιμνήισκει.
Inni fisici, come quelli composti da Parmenide, Empedocle e dai loro seguaci
[…] Essi sono tali quando, levando un inno ad Apollo, diciamo che è il sole e
discutiamo della natura del sole, e di Era diciamo che è l’aria, di Zeus che è
il calore: inni di questo tipo infatti riguardano l’indagine sulla natura. Si
servono di questa forma d’espressione Parmenide ed Empedocle in modo rigoroso
[…] Parmenide ed Empedocle infatti fanno da 241 guida e Platone lo ricorda
brevemente. (Genetlio; DK 28 A20). Parmenide ed Empedocle sarebbero stati
campioni in un genere, quello dei «poemi fisici» (φυσικοὶ ὕμνοι), vere e
proprie «indagini sulla natura» (φυσιολογικοί), riconosciuto nell’antichità
(Platone). Simplicio suggerisce, dal canto suo, un ulteriore interessante
accostamento: εἰ δ’‘εὐ κύκλουσφαίρης ἐν αλίγκιον ὄγκωι ’τὸ ἓν ὄν φησι [Β 8,
43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ τὴν ποίησιν καὶ μυθικοῦ τινος παράπτεται πλάσματος.
τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς Ὀρφεὺς [fr. 70, 2 Kern] εἶπεν ‘ὠεὸν ἀργύφεον’;
Se [Parmenide] afferma che l’essere uno è «simile a massa di ben rotonda palla»
[B8.43], non ci si deve meravigliare: a causa della poesia, infatti, egli
ricorre anche a qualche finzione mitica. Che differenza c’è dunque tra questo
modo di esprimersi e quello di Orfeo: «uovo d’argento»? (Simplicio; DK 28 A20).
La ricerca contemporanea ha documentato la matrice omerica praticamente
dell’intero lessico del poema (Coxon27), e rilevato la raffinatezza della sua
composizione ritmica e musicale (Henn), a dispetto della complessità della sua
materia (rispetto ai precedenti di riferimento, Omero ed Esiodo), rivendicando
quindi la dimensione poetica dell’opera di Parmenide e soprattutto la sua
formazione di rapsodo (Schwabl28), riconoscendo, in altre parole, che
«Parmenide era un bardo omerico, erede dei tesori di secoli di recitazione
orale» (Henn29), impegnato a comporre all’interno della tradizione epica e non
contro di essa. Parmenide, insomma, era (come Empedocle, probabilmente) in
primo luogo un poeta, interessato a sperimentare le potenzialità 27 A.H. Coxon,
The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, pp. 9-13. 28 H.
Schwabl, “Hesiod und Parmenides, Zur Formung des parmenideischen Prooimions (28
B1)”, «Reinisches Museum», 106 (1963), pp. 134-142. 29 M.J. Henn, Parmenides of
Elea…, cit., p.5. 242 del verso nel campo d’indagine della natura: i modelli
epici potrebbero tuttavia non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e
comprendere anche (soprattutto per la seconda parte del poema) la produzione
orfica, soprattutto teogonica e cosmogonica30, attribuita a Museo, Epimenide e
Onomacrito31. La rivelazione di Parmenide La scelta di una portavoce divina
esprimerebbe per alcuni il desiderio di Parmenide di marcare l'oggettività del
suo metodo32: se l’esito della ricerca fosse stato avanzato semplicemente come
la sua verità, avrebbe finito per riproporsi come un punto di vista, l’opinione
di un mortale in concorrenza con le opinioni degli altri (mortali)33. Secondo
il modulo epico, invece, il poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e
della Verità: come il contemporaneo Eraclito rimarcava che: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ
λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos
ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50), così Parmenide non
intende riferire la verità immediatamente a un soggetto, ma alla divinità, per
garantirne l’assolutezza34. 30 Sull’orfismo in generale si vedano ora i
numerosi e preziosi saggi contenuti in A. Bernabé y F. Casadesús (coords.),
Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In
particolare, nel primo volume A. Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos,
pp. 241-246; M. Herrero, Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp.
247-278. 31 Per questi aspetti R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos
próximos a Orfeo, ivi, pp. 549-576. 32 Tarán, op. cit., p. 31. 33 Parménide, Le
Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M.
Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996), p. 66. 34 Ivi, p. 65. 243
Questa plausibile spiegazione della cornice religiosa non può tuttavia non
tenere conto proprio della natura argomentativa della prima sezione del poema -
indicata dalla Dea come «discorso affidabile e pensiero intorno alla Verità»
(πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος
(disamina, prova), invitando il κοῦρος a giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ):
consapevolezza che sembrerebbe contraddire l’urgenza di un pegno divino per il
logos proferito. Rivelazione e verità In realtà Parmenide, come Senofane,
sembra per lo più aderire alla concezione pessimistica della condizione umana
espressa tradizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il
contemporaneo Teognide (vv. 139-41): οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα
θέληισιν· ἴσχει γὰρ χαλεπῆς πείρατ’ ἀμηχανίης. ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες
οὐδέν· θεοὶ δὲ κατὰ σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον Nessuno degli uomini ottiene
quanto è nei suoi desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura
inettitudine. Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla,
mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35.
È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in
B6 e B7, caratterizzerà l’impotenza dei «mortali» (βροτοί): essi sono apostrofati
come εἰδότες οὐδέν («che nulla sanno», come in Omero, Teognide, Mimnermo,
Semonide); la loro incapacità di realizzare ciò che è nei loro intenti è
stigmatizzata 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di
Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p.
162. 244 come ἀμηχανίη («impotenza», «inettitudine», come in Teognide e
nell’Inno Omerico ad Apollo, vv. 189-193); la loro attitudine cognitiva
liquidata come πλακτὸν νόον («mente errante», con paralleli in Archiloco fr.
58)36. A dispetto di questo quadro, del fatto che l’uomo, con le sole sue
forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, il proemio narra
come l’intervento e la benevolenza delle divinità consentano – almeno al poeta
– di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37. Non
sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2) della
successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a
valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse
concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello
stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi
(B3-4), facendo quasi coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il
proprio oggetto (εἶναι) 38. La specifica cornice letteraria e l’implicito
motivo della comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e
strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei principi
dell’argomentazione: Parmenide, insomma, avrebbe attribuito i fondamenti della
propria enciclopedia a un’anonima docenza divina, per assicurarne
incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta
avrebbe conservato, nella finzione della Dea, l’idea tradizionale
dell’onniscienza divina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme:
avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità
religiosa ma filosofica39. 36 Ivi, pp. 163-4. 37 Ivi, p. 166. 38 Su questo ancora
Leszl, op. cit., p. 168. 39 Conche, op. cit., p. 66. 245 Il problema della
verità Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale problema
cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella loro impotenza, sono
soggetti a illusoni, come può il sapiente riconoscere la verità, sottrarsi a
quella condizione di diffusa deficienza (cognitiva) e pretendere di sapere?
Nella cultura greca arcaica, solo un dio poteva essere fonte di verità, e il
linguaggio della comunicazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo
validavano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la verità, la
cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica41. In questo senso,
il motivo poetico della comunicazione divina è in Parmenide pervasivo, abbracciando
entrambe le sezioni del poema42: l’intero campo del sapere è esplicitamente
ricondotto alla lezione della Dea, tanto le tesi intorno all’essere, quanto
l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος), senza alcuno spazio per una
piena rivendicazione autoriale da parte del poeta. Se consideriamo la struttura
dell'opera delineata in conclusione del proemio, e i passi superstiti della
prima sezione, risulta evidente, nella narrazione, come il rilievo della
lezione divina sia funzionale alla focalizzazione del problema dell'accesso
alla veri- 40 Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W. Most,
"The poetics of early Greek philosophy", in The Cambridge Companion
to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, pp.
332-362. Nello specifico rinvio a p. 353. 41 Ivi, p. 343. 42 Sulla scorta delle
indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε […] A questo punto pongo termine
per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento
in poi opinioni mortali impara […] le due sezioni sono tradizionalmente
designate come Verità e Opinione. 246 tà43. Veridicità ed essenzialità44, in
effetti, erano fondamentali obiettivi poetici che le opere di Omero ed Esiodo
si proponevano e rivendicavano (implicitamente o esplicitamente): gli inni
teogonici, per esempio, articolavano il pantheon riconducendolo all’origine del
cosmo, così assicurando, in forza della rivelazione della Musa, una conoscenza
superumana di cose distanti nel tempo e nello spazio45. Quando le Muse di
Esiodo dichiarano: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν
ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo
anche, quando vogliamo, il vero cantare – (Teogonia 27-28), l’intenzione non è
di mettere in guardia dal contenuto della buona poesia, piuttosto dalla
comprensione della maggioranza degli uomini, così scadente da non poter
discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente nello stesso ambiente
culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente manifestato segni di
scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione poetica: πάντα θεοῖσ’
ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε, ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα καὶ ψόγος ἐστίν,
κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν ogni cosa agli dei attribuirono
Omero ed Esiodo, 43 Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ in
Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206. 44
Most, op. cit., p. 343. 45 K. Algra, "The beginnings of cosmology",
in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 45-65. Il passo
cui ci riferiamo è a p. 49. 46 Most, op. cit., p. 343. 47 La tradizione
dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane: tale relazione è
stata conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso del quale essa è
risultata profondamente scossa. Con buoni argomenti ha di recente rilanciato la
dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John Palmer (Plato's
Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186 ss.; Parmenides
& Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.). 247 quanto presso gli uomini
è cosa riprovevole e censurabile: rubare, commettere adulterio e
vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ τὸν
Κολοφώνιον Ξενοφάνη ὡς πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα, κλέπτειν
μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν Omero ed Esiodo, secondo Senofane di
Colofone: Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei: rubare,
commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B12). Egli (come
Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei contenuti di
quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è
significativo, in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si
sviluppi la più importante «misura di recupero»48 a protezione dei poeti:
l'interpretazione allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il
tentativo di sanare la frattura tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica
e i più recenti criteri di argomentazione concettuale49. Certamente la critica
di Senofane rischiava di accentuare il divario tra piano umano e piano divino,
come emerge da alcuni dei frammenti conservati, rendendo conseguentemente
problematico l'accesso alla verità: οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν,
ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον non è vero che dal principio tutte
le cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel tempo, ricercando, essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18) 48 L'espressione è di Most, op. cit., p. 339. 49
Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi,
"Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato, cit.. 248 καὶ
τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα
λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ
οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe,
né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se,
infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui
stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34). Benché
testo e significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi50, esso
sembra anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per
stabilire una verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si
esprimeva, tra i contemporanei di Parmenide, Alcmeone: Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης
τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς
Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte
e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la
certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi51 (DK 24
B1). La scelta di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la
comunicazione del poema - potrebbe allora simboleggiare 50 J.H. Lesher,
"Early interest in knowledge", in The Cambridge Companion to Early
Greek Philosophy, cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229. 51 Dal passo
iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la
Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente
traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du
début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques",
«Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19). 249 «la ripresa e la
soluzione parmenidea del problema della verità»52. Non va quindi trascurata la
possibilità di cogliere, negli echi della poesia religiosa e della stessa
poesia esiodea (con la ripresa di elementi cosmologici della Teogonia), la
specificità dell'esperienza narrata nel proemio come prefigurazione del
complesso dei contenuti dell’opera. Motivi poetici e suggestioni In uno studio
molto innovativo per l’attenzione alla forma poetica del Περὶ φύσεως,
Mourelatos 53 individuò alcuni motivi 54 dell’epica chiaramente presenti nel
poema. Tra questi appaiono di particolare interesse (i) quello del viaggio,
certamente il più importante, anche per le possibili implicazioni (in
precedenza segnalate) con la poesia religiosa; (ii) quello dell’istruzione,
marcata dall’uso della seconda persona nella comunicazione divina, e dal
ricorso a formule programmatiche (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; μαθήσεαι; κόμισαι
δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας; πεύσῃ; εἰδήσεις), memori di Esiodo (Le opere e i giorni) e
Omero. Viaggio ed erramento Dei cinque aspetti rilevati55 nella struttura di
questo «motivo» (motif) omerico - (i) progresso nel viaggio di ritorno, (ii)
regresso ed erramento; (iii) navigazione esperta; (iv) azione folle; (v)
ricerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i 52 Germani,
op. cit., p. 187. 53 A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of
Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven –
London 1970, pp. 12-14. 54 Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo
studioso, tra «tema» o «concetto», per cui le pure forme poetiche fungono da
veicolo (oggetto della «iconografia»), e «motivo» o «significato complessivo»,
«valore simbolico» (oggetto della «iconologia»). Ibidem, pp. 11-12. 55 Ivi, p.
18. 250 primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta
circolarità del viaggio nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa
(νόστος), per cui esiste una specifica impresa di ricerca (νόστον διζήμενος):
nel proemio si alluderebbe esplicitamente o implicitamente – a seconda delle
interpretazioni – alla stessa situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli uomini).
In ogni caso centrali risulterebbero, nell’economia del poema, la conduzione
(πομπή) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore e – per contrasto –
l’erramento (πλάνη) dei «mortali»: analogamente, l’eroe omerico - accorto e
istruito dalle divinità - sa di dover osservare un certo comportamento, mentre
i suoi compagni, privi di lungimiranza, si rendono colpevoli di azioni
irresponsabili, d’ostacolo al viaggio di ritorno56. Così, al kouros la Dea non
manca di riferire le coordinate (i «segni», σήματα) della via corretta (B8.1-2:
μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν), mettendolo in guardia dalle insidie della «abitudine
nata dalle molte esperienze» (B7.3: ἔθος πολύπειρον); alla cui deriva, invece,
come i compagni di Odisseo, si abbandonano i «mortali che nulla sanno» (B6.4:
βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), connotati come «uomini a due teste» (δίκρανοι). Ma il
motivo del viaggio non riconduce solo al paradigma omerico: è probabile ne
esistesse una variante letteraria nella poesia apocalittica 57, diffusa nei
circoli pitagorici, a partire dai Καθαρμοί del leggendario Epimenide sopra
ricordato. Non è solo Diels a crederlo; tra gli specialisti del XX secolo,
Guthrie58, per esempio, coglie, almeno a livello verbale, echi orfici, che
tuttavia non dimostrerebbero altro che il radicamento nella tradizione della
poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro, Bacchilide, Simonide),
mentre ritiene più consistente la possibilità di una influenza dello
sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti di Epimenide e altri
(Aristea, Abari, Ermotimo). 56 Ivi, pp. 18-21. 57 Uso l’aggettivo – come Diels
– nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω (scoprire, rivelare appunto).
58 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic Tradition
from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss.. 251
Esperienze dell'altro mondo Come segnalato in nota ai versi del proemio, alcune
scelte espressive di Parmenide – per esempio il vocativo κοῦρε (con cui la
δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprattutto la
formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente designato il poeta) – hanno fatto
pensare a un esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate
riprese in particolare da parte di Platone59. Rivestono in questo senso un
notevole interesse le laminette funerarie classificate come "orfiche"
(le più antiche risalenti al VIV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a
quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade:
non agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza
che propongono (il giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici
elementi che presuppongono (l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare
una scelta di fronte a un bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come
l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia
«molto in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano
nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni60. Non si tratterebbe
solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che Parmenide avrebbe
recuperato per garantire solennità alla propria composizione, ma di suggestioni
che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il racconto del
proemio e il resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione alla
fondazione logica del sistema»61. Così sarebbe possibile ricostruire la
topografia del viaggio parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione
delle EliaEliadi: κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato"
(εἰδὼς φώς) lungo la via che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός 59 Per
questi aspetti è ancora molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per
un'interpretazione del proemio", «La Parola del Passato», cit., pp.
383-396. 60 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza
dall'Odissea alle lamine misteriche, Pomba, Torino 2007, p. 115. 61 Sassi, op.
cit., p. 386. 252 πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale
non solo consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne),
ma soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguentemente, la sua istruzione.
Un tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico, Morrison aveva
connotato come quello del «poeta-sciamano in cerca di conoscenza»63,
accostandolo all'esperienza del platonico Er. In modo sorprendentemente simile,
le istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro
di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: ἐπεὶ ἂμ μέλληισι θανεῖσθαι εἰς Ἀΐδαο
δόμους εὐήρεας Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di
Ade64, dove, presso la palude di Mnemosine (Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe
stata affrontata e interpellata dai «custodi» (φύλακες): [ h ] οι δέ σε εἰρήσονται
ἐν φραςὶ πευκαλίμαισι ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος σκότους ὀλοέεντος che ti
chiederanno nel loro denso cuore Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade
rovinoso65. Ma le laminette propongono soprattutto un'altra suggestione, che
potrebbe emergere in Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico)
come riflesso di un fondo escatologico comune 66: la possibilità che una tappa
nell'itinerario tracciato da 62 La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito
oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino
verso l'Ade, abbiano bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες. 63
J.D. Morrison, "Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies»,
75, 1955, pp. 59-68. La citazione è a p. 59. 64 G. Colli, La sapienza greca,
vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3. 65 Colli, op. cit., pp. 172-3. 66 Sassi,
op. cit., pp. 390-1. 253 Parmenide sia costituita dal bivio dell'oltretomba ben
attestato nelle laminette (e nei testi platonici): ἔστ’ ἐπὶ δ < ε > ξιὰ
κρήνα, πὰρ δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος [...] ταύτας τᾶς κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν
ἐνγύθεν ἔλθηις· πρόσθεν δὲ [ h ] ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ λίμνας ψυχρὸν ὔδωρ
προρέον c'è alla destra una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto
[...] A questa fonte non andare neppure troppo vicino; ma di fronte troverai
fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Ipponio) εὑρήσσεις
δ’ Ἀίδαο δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον
ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας. εὑρήσεις δ’ ἑτέραν, τῆς Μνημοσύνης ἀπὸ
λίμνης ψυχρὸν ὕδωρ προρέον E troverai alla sinistra delle case di Ade una
fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte non
accostarti neppure, da presso. E ne troverai un'altra, fredda acqua che scorre
dalla palude di Mnemosine (laminetta di Petelia, circa 350 a.C.) εὑρήσεις Ἀίδαο
δόμοις ἐνδέξια κρήνην, πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς
κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα. πρόσσω εὑρήσεις τὸ Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ὕδωρ
προ < ρέον > Troverai alla destra delle case di Ade una fonte, e accanto
a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte non accostarti neppure, da
presso. E più avanti troverai la fredda acqua che scorre 254 dalla palude di
Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67. Così come l'iniziato è
preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle fonti cui attingere
per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa la propria
allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω,
κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una
volta ascoltata (B2.1), evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di ricerca»,
evidentemente biforcate: (i) ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3); (ii) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5); per
trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade
(analogamente alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai
«mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4)68. Sono stati compiuti,
negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per tutto il
materiale funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai
secoli V-II a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che farebbero
da sfondo alle istruzioni per le anime dei defunti69. Più prudentemente,
riferendosi alle laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e Entella (fine V- fine
IV secolo a.C.), Ferrari ha sottolineato come ci si trovi di fronte «a una
traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì che le
rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti 67 Colli, op. cit., pp.
172-7. 68 Sassi, op. cit., pp. 392-3. 69 Il tentativo più sistematico è quello
di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II: Orphicorum et
Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur, Münche-Leipzig 2005,
p. 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso bianco, cit., pp.
115-6. 255 importanti e complesse»70. In ogni caso, un elemento risulta nel
nostro contesto significativo: il fatto che nelle laminette (pur recuperate in
località diverse e in qualche caso distanti: si va dalla Magna Grecia per le
prime due laminette, alla Tessaglia per la terza, alla Sicilia per l'ultima) si
faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come divinità che dispensa il dono di
ricordare»71, e che rivelerebbe l'appartenenza dei defunti a circoli
pitagorici, a quella cultura, in altre parole, «che appunto alla memoria
assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di perfezionamento della
persona»72. Non è un caso che Pugliese Carratelli, editore delle laminette, proponga,
in relazione all'ambiente e allo specifico richiamo del proemio di Parmenide a
quella temperie, Mnemosine come la δαίμων innominata di Parmenide. Esperienze
sciamaniche Abbiamo citato Morrison a proposito del suo accostamento del
viaggio di Parmenide al tragitto di un «poeta-sciamano»: la figura dello
sciamano - il cui rilievo nell’ambito della cultura arcaica era stato notato,
qualche anno prima del contributo di Morrison, da Dodds, in una delle opere più
originali sulla civiltà greca73 - è quella di un mediatore tra uomini e dei,
che ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e di viaggiare in
cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni
mediche o cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente
narra in prima persona dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo
viaggio (il mezzo di trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e
può presentare momenti di erramento prima del desiderato confronto con la
divinità. 70 Ivi, p. 119. 71 Ivi, p. 124. 72 Ibidem. 73 E.R. Dodds, I Greci e
l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951),
capitolo V (Gli sciamani e le origini del puritanesimo). 256 Anche Mourelatos
74 riconosce le somiglianze tra l’itinerario del kouros e il complesso di
elementi focalizzati da Dodds e ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie.
Se concediamo la presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il
riferimento, nel proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta divina
(Guthrie parla di «odissea spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto
immediatamente evocare, nell’immaginazione di un ascoltatore
"iniziato" a tali pratiche, i segni dell’esperienza sciamanica. In
questo senso appare ancor più significativo l’accostamento a Odisseo. In
particolare, Mourelatos è convinto che, dietro o sotto la poesia di Parmenide,
si possa rintracciare, oltre a Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di
poesia cultuale e profetica del VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è
la mancanza di esemplari per valutarne la reale incidenza, forse più importante
di quella omerico-esiodea. È probabile, tuttavia, che l’importanza di questo
retroterra dipenda in larga misura da motivi e temi condivisi dall’epica
precedente, sebbene impiegati in una nuova prospettiva e con una nuova
contestualizzazione. Parmenide avrebbe così usato il complesso del viaggio
sciamanico come modello per il suo viaggio speculativo. Nonostante l’assenza di
evidenze testuali che autorizzino a parlare di un “motivo” letterario,
allusioni al paradigma dell'esperienza sciamanica sarebbero rintracciabili,
secondo Kingsley 75, proprio nel proemio, quasi a inquadrare la successiva
dottrina in una cornice sapienziale indiscutibile. Anche per l'autore inglese,
infatti, il modo di presentarsi del poeta (come «uomo che sa», εἰδὼς φώς)
costituirebbe uno standard nel mondo greco arcaico per indicare l’«iniziato»76,
colui che, in virtù delle proprie conoscenze, poteva giungere dove ad altri era
proibito. Analogamente l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta
denoterebbe una figura al limite (e tramite) tra mondo umano e divino77:
l’esperienza descritta, infatti, sarebbe quella di un’eccezionale 74 Op. cit.,
pp. 44-5. 75 P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999.
76 Ivi, p. 62. 77 Ivi, p. 72. 257 κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità
associata al mondo infero78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a
modelli letterari, che coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto
luogo della rivelazione (Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico
(Teogonia 736-774) e a particolari figure di predestinati, come l’eroe Eracle79
o il leggendario poeta Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a
Dodds80, come sciamano). A conferma della propria lettura (che in realtà si
regge su tradizioni posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate
dall’arte vascolare dell’epoca e della regione di Elea, che ritraggono
l’incontro di Eracle con Persefone secondo lo schema ripreso da Parmenide,
ovvero quello di Orfeo con la stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di
Dike81. In questo modo sarebbe attestato, se non un motivo poetico-letterario,
almeno un retroterra culturale, tradizionale e locale, in cui il poeta poteva
inserire i propri riferimenti, permettendosi l'anonimità della dea82. In
effetti, che il ruolo di divina interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è
suggerito dalla stessa accoglienza del kouros da parte della θεά: non una sorte
infausta (la morte?) lo ha allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di
conoscenza sotto l’egida della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse
preoccupata di rassicurare il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti.
D’altra parte, è assai probabile che il poeta si attenesse a norme compositive,
ricorrendo a scelte espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un
determinato obiettivo. Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla
ripetizione costante del verbo φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe
difficilmente tollerabile, da un punto di vista poetico, se non per l’effetto
“performativo” (immaginando la recitazione), di incantamento e trasporto.
L’attenzione per alcuni dettagli fa inoltre pensare che Parmenide evocasse
precisi riferimenti cultuali (se non poetici), così inquadrando la propria
rivelazione in uno sfondo comprensibile ai 78 Ivi, pp. 62-3. 79 Ivi, p. 61. 80
Op. cit., pp. 186-7. 81 Op. cit., p. 94. 82 Ivi, p. 97. 258 propri ascoltatori
(iniziati): potrebbe dunque non essere casuale il particolare rilievo iniziale
del suono («sibilo acuto», σῦριγξ) emesso dall’«asse del carro nei mozzi […]
incandescente», dal momento che esso ritorna nella posteriore tradizione dei
papiri magici greci, associato proprio al silenzio della «incubazione» e al
viaggio cosmico83. Maria Laura Gemelli Marciano84 ha inoltre richiamato
l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato nel proemio (che consideriamo
conservato integralmente) alla descrizione del viaggio e sull’acribia con cui
ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica e ottica), nonché la
topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il mero impiego
simbolico, tanto più considerando85 la stretta relazione tra suoni («sibilo», σῦριγξ),
movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις dei vv. 7-8) –
segnali di alterazione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle
figure divine86. Indizi che possono autorizzare la lettura del poema come
resoconto di un viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori concorrono in
effetti a collegare Parmenide a questo retroterra apocalittico. Nel 1962 fu
ritrovata a Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo che
recita87: Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di Pireto,
è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato nell’area
anatolica, da cui provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI secolo
a.C. Elea), e physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico: dal
momento che ad Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è
possibile che la figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla
iatromantica (di cui l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco
dello sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. Nella
stessa direzione punta un’altra evidenza dossografica: 83 Ivi, pp. 129-130. 84
Die Vorsokratiker, II, p. 54. 85 Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli
Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55. 87 Kingsley, op. cit., pp. 139
ss.. 259 ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ
πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον
ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ
Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη. Parmenide, come affermò Sozione, ebbe
familiarità anche con Aminia, figlio di Diochete, pitagorico, uomo povero, ma
nobile e retto, ciò che tanto più ne favorì l’influenza. Quando questi morì,
Parmenide, che era di famiglia illustre e ricca, eresse per lui un monumento
funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane, a volgerlo alla tranquillità di una
vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28 A1). Il termine ἡσυχία - qui tradotto
come «tranquillità di una vita di studio» - avrebbe in realtà un valore molto
diverso, soprattutto riferito allo stile di vita esemplare del pitagorico
Aminia: qualcuno parla di vita contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma
letteralmente il significato è quello di «quiete, riposo», «silenzio,
immobilità». L’ascetico Aminia sarebbe stato maestro di «incubazione», avrebbe
cioè avviato Parmenide alle tecniche di concentrazione già in uso presso i
gruppi pitagorici88. Come ha rilevato la Gemelli Marciano89, l'«incubazione»
può fornire la chiave per collegare la iatromantica, riferita all'Eleate dalle
evidenze archeologiche, all'attività di legislatore attribuitagli sempre da
Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno secondo lo schema che
Platone ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico Minosse, ma che
abbiamo ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche nel caso di
Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto le leggi
direttamente dagli dei. Sebbene non sia dato cogliere in quale modo questo
insieme di elementi potesse costituire un “motivo” letterario, è possibile
ipotizzare una sua codifica in una qualche forma recitativa (come nel 88
Kingsley, op. cit., pp. 179-181. 89 Op. cit., II, p. 45-6. 260 caso delle
Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide potrebbe essersi ispirato (viaggio,
incontro con Giustizia e Verità ecc.), evocando situazioni e particolari
significativi in una società ancora legata a quelle pratiche (importate, come
crede Kingsley, dalla patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia Minore).
La cornice cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e della sua destinazione
divina – con le diverse, possibili suggestioni - risulta comunque proiettato,
nel proemio, all’interno di uno sfondo cosmico (parzialmente delineato nelle
allusioni del testo) modulato su un terzo grande modello poetico, probabilmente
decisivo nell’elaborazione letteraria di Parmenide: la Teogonia di Esiodo.
Sulla sua incidenza pochi hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 90,
privilegino il confronto con Omero. Sommariamente, infatti, possiamo rilevare:
(i) le analogie tra il proemio del poema e l’inno alle Muse91 della Teogonia;
(ii) in particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse in
Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν
ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo
anche, quando vogliamo, il vero cantare -, rispetto al programma didattico
proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra verità e incerto opinare
umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico
dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e
teogonica) della seconda sezione del poema. 90 Op. cit., p. 33. 91 Su questo,
tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M.
Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on
Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974. 261 Quasi Parmenide volesse
sovrapporre o contrapporre la propria verità a quella del poeta di Ascra. A
livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il
precedente esiodeo appare evidente. Egli si muove in effetti all’interno delle
novità da questi introdotte nella tradizione aedica: il riferimento dell’autore
a se stesso nell’esordio dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al
poema. In relazione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha
colto, nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il
doppio risvolto della «contrapposizione polemica» e, soprattutto, del «distacco
critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 92: l’investitura poetica e il
dono divino della verità, come proposti in apertura della Teogonia,
giustificano la pretesa di una poesia diversa dalla tradizionale, in cui
l’autore fondatamente rivendica una visione unitaria del cosmo. D’altra parte,
anche la risorsa proemiale è da Esiodo sfruttata in modo peculiare, nella
misura in cui essa non si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto
poetico vero e proprio, a inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di
evocazioni dedicate, sul tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra
proemio e poema è, nel caso della Teogonia, molto stretto, sia per il
coinvolgimento diretto del poeta e della sua esperienza personale, sia, in
particolare, perché tale esperienza illumina la sostanza complessiva
dell’opera: «il proemio, con il racconto della epifania delle Muse, costituisce
la garanzia del carattere di veridicità del contenuto del poema»93. A
richiamare l’attenzione dell'interprete sul precedente esiodeo sono tuttavia
soprattutto alcuni elementi di contenuto, in primo luogo lo scenario
complessivo del proemio parmenideo, con un viaggio che conduce, lungo la
direttrice del sentiero di Notte e Giorno (il percorso lungo cui essi si
alternano), a un imponente portale (a protezione della dimora divina), il
quale, aprendosi, rivela un «vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco delle «porte»
(πύλαι) che chiudono (e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo: 92 Esiodo,
Teogonia, a cura di G. Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8. 93 Ivi, pp.
129-130. 262 ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο
καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα,
τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν οὖδας
ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ
θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι. τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς
ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι. τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο
πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν ἑστηὼς κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν ἀστεμφέως, ὅθι
Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν
χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς
ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ
δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται· ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι
φάος πολυδερκὲς ἔχουσα, ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί, κασίγνητον Θανάτοιο, Νὺξ ὀλοή,
νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ. ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν, Ὕπνος
καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν
οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων. τῶν ἕτερος μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα
θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι, τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη,
χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς
δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare
infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i
confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dèi hanno in odio, voragine
enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi
passasse dentro le porte, 263 ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta
crudele; tremendo anche per dèi immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la
casa terribile s'inalza, da nuvole livide avvolta. Di fronte a essa il figlio
di Iapeto tiene il cielo ampio reggendolo con la testa e con infaticabili
braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo vicini si salutano passando
alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per scendere dentro, l'altro
attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene,
ma sempre l'uno fuori della casa la terra percorre e l'altro dentro la casa
aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga; l'uno tenendo per i terrestri
la luce che molto vede, l'altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte, la
Notte funesta, coperta di nube caliginosa. Là hanno dimora i figli di Notte
oscura, Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro Sole splendente guarda coi raggi,
sia che il cielo ascenda o il cielo discenda. Di essi l'uno la terra e l'ampio
dorso del mare Tranquillo percorre e dolce per gli uomini, dell'altra ferreo è
il cuore e di bronzo l'animo, spietata nel petto; e tiene per sempre colui che
lei prende degli uomini, nemica anche agli dèi immortali.94 (vv. 736-766). Come
ci ricorda Privitera95, abbiamo nella cultura greca arcaica due prospettive
sull'alternanza di luce e oscurità: una fisica, rintracciabile nell'Odissea,
l'altra mitica, presente invece in Esiodo, ma con riscontri anche nell'Iliade.
La prima sarebbe "orizzontale", dal momento che i fenomeni coinvolti
(il movimento del Sole, nel suo trascorrere celeste da oriente a occidente, e
il suo 94 Esiodo, Teogonia, cit., pp. 111-3. 95 G.A. Privitera "La porta
della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole in Mimnermo", «Rendiconti
dell'Accademia Nazionale dei Lincei», s. 9, v. 20, 2009, pp. 447-464. 264
tragitto di ritorno a oriente navigando su Oceano intorno alla Terra) hanno
luogo sulla Terra e nel cielo sovrastante. La seconda, al contrario,
"verticale", in quanto i fenomeni terrestri e celesti sono radicati
nel mondo "infero"96. Non si tratta di prospettive incompatibili,
come puntigliosamente dimostra lo studioso: nel caso di Parmenide (come nel
precedente di Stesicoro97) registreremmo un originale tentativo di inquadrare
il rapporto tra Luce-Sole-Notte entro una cornice cosmica in cui si completano
le due prospettive tradizionali98. Nella lettura di Privitera, ciò avrebbe
comportato concentrare strutturalmente il baricentro del proemio sul percorso
solare, trasferendo la Porta del Giorno e della Notte dall'Ade sulla Terra:
sarebbe in questo senso esclusa qualsiasi forma di katabasis verso il regno dei
morti. Eppure i versi esiodei, a dispetto delle divergenze che pur ne
caratterizzano le interpretazioni cosmologiche 99, si prestano a suggestioni
diverse, proiettando decisamente verso il mondo infero la ripresa proemiale di
Parmenide. Dopo la narrazione della Titanomachia (665 ss.), della sconfitta dei
Titani (713 ss.) e della loro segregazione in un remoto luogo infero (720 ss.),
Esiodo ci informa che sopra quella prigione, nelle profondità sotterranee, si
sviluppano le radici del mare e della terra (729): come intendesse garantire
sulla sicurezza della detenzione, il poeta fornisce particolari sulle modalità
di reclusione dei Titani (immobilizzati da «lacci tremendi» 718), e sulla
località di carcerazione («un'oscura regione, all'estremo della terra
prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da portali di bronzo, e
guardiani infernali, 731-5). La descrizione del mondo sotterraneo è dunque
organicamente inserita nel contesto teogonico, sottolineando la rassicurante
distanza infera delle ostili forze titaniche: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου
ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος 96 Ivi, p. 449. 97 Ivi,
p. 453. 98 Ibidem. 99 Si vedano, per esempio la discussione specifica in
Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le annotazioni di Arrighetti
(op. cit., pp. 151-2). 265 ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα,
τά τε στυγέουσι θεοί περ. ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός, ἀστεμφὲς
ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς, αὐτοφυής· πρόσθεν δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων Τιτῆνες
ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο. Là della terra oscura e del Tartaro tenebroso,
del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti, sono le
scaturigini e i confini, luoghi squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in
odio. Là sono le porte splendenti e la bronzea soglia, inconcussa, su radici
infinite commessa, nata spontaneamente; davanti, lontano da tutti gli dèi, i
Titani hanno la loro dimora, di là dal caos tenebroso100 (vv. 807-814). In
questa sua intenzione, è possibile che Esiodo effettivamente giustapponesse
(come vogliono Privitera e Arrighetti) prospettiva orizzontale e verticale,
oscillando tra una dislocazione occidentale e una sotterranea dell'«al di là»,
ma, come ha puntualmente indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va
presa seriamente in considerazione l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro
cosmologico diverso da quello (sostanzialmente emisferico) della tradizione
omerica. La Terra vi comparirebbe come un disco piatto (ancorché ondulato sulle
due superfici), immobile, circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il
cui emisfero sovrastante sarebbe stato designato propriamente come «cielo»;
quello sottostante avrebbe invece costituito quella regione infera in cui
proiettare la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la
sua risorgenza. In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e
del corso cosmico e mitico del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto
all'esperienza terrestre, il tradizionale orientamento orizzontale (estovest,
secondo la direzione quotidiana dell'astro), con la prospet- 100 Teogonia,
cit., p. 115. 101 Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II. 266 tiva
verticale rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste
avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in qualche
dettaglio) si avrebbe semmai, secondo quanto rileva la Pellikaan-Engel102, tra
fenomeni (diurni e notturni) e loro personificazione (Giorno e Notte). Così,
nel quadro che possiamo ricostruire dai versi citati, all'estremo limite
occidentale della Terra, dove Atlante («il figlio di Iapeto») sorregge la sfera
celeste (per impedirle di gravare direttamente sulla superficie terrestre e
impedire il passaggio del Sole), si incontrano e danno il cambio Giorno e
Notte, i quali, alternativamente, discendono verso il mondo infero per
soggiornare nella «casa della Notte», e ascendere poi, quando giunge il loro
turno, verso il mondo terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime
diurno a quello notturno). A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i
versi del proemio: «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la
funzione di discriminare i due mondi, attraverso cui si succedono i passaggi
delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infero, in cui sarebbe
locata «la dimora della Notte» (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale prospettiva
"verticale" la possibile associazione tra tale sito e l'accesso
all'Ade, proprio come nella poesia esiodea: ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες
ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς Περσεφονείης ἑστᾶσιν Lì davanti del dio degli
inferi la casa sonora, del possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza
[...]103 (vv. 767-769a) Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta
struttura cosmologica che fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con
il modello esiodeo potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento
della soglia sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio
oltremondano, ma propriamente la 102 Ivi, p. 38. 103 Teogonia, cit., p. 113.
267 direzione dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente
privilegiato per le rivelazioni. Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie
È probabilmente questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli
altri elementi della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo
originale, materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei
contemporanei. Questo non implica che egli abbia semplicemente puntato
all’effetto comunicativo, curandosi essenzialmente dell’impatto persuasivo
dell’immaginario così plasmato. Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e
ancora della Gemelli Marciano) circa il radicamento del pensatore all’interno
di un sistema di credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo
popolo, potremmo ipotizzare che l’intenzione di Parmenide fosse quella di
veicolare, nelle forme ispirate della tradizionale poesia epica, arricchite
dell’eco suggestiva (suoni, movimenti ecc.) di una straordinaria esperienza
sciamanica, un nuovo punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel
confronto con la cultura ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di
vita. Una prospettiva interpretativa che, a partire dalla centralità
dell’elaborazione poetica, impone il problema di determinare il nesso tra gli
elementi di immediatezza ed emotività di quello sfondo culturale e
l'indiscutibile impianto logico del Περὶ φύσεως. Anticipando le conclusioni
delle successive analisi, è da rilevare come la difficoltà dell’interprete, nel
caso di Parmenide, risieda proprio nella determinazione della continuità tra
esperienze religiose, il cui retroterra emerge nell’espressione poetica, e
razionalità scientifica, che prende corpo nelle due sezioni del poema. Le
strade per lo più battute nella storia delle interpretazioni sono, in realtà,
quelle (maggioritarie) che scorporano i frammenti successivi dal proemio, quasi
si trattasse di corpo estraneo all’originale comunicazione parmenidea, ovvero
quelle (minorita- 268 rie) che unilateralmente insistono sull’evento rivelativo
(e sui suoi contorni), trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era
l’oggetto di analisi (anche dettagliata) nell’opera, come attestato dalla
titolazione tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione.
È plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefiguri le tesi del
filosofo e che queste non siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano),
indistricabilmente connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può
condividere il suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza comunicata
nel poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante l’accezione di
filosofia poi affermatasi (secondo la lezione di Hadot104) nel socratismo e
soprattutto nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos, per il quale,
invece, gli imperativi della dea sono tutti rivolti a un’attività di tipo
cognitivo, non al bios o al prattein105. D'altra parte, contestualizzando la
lettura del proemio, è prudente rigettare un approccio meramente allegorico,
rintracciandovi piuttosto l’espressione di un’esperienza vissuta. Appare
fondata l’osservazione di Leszl106, secondo cui un'interpretazione allegorica -
come quella fornita da Sesto Empirico - si scontra con il fatto che la pratica
dell’allegoresi era, al tempo (fine VI secolo a.C.), solo agli inizi, con
Teagene di Reggio (forse, come Parmenide, legato all’ambiente pitagorica107.
Possiamo supporre108, allora, che, nella narrazione del viaggio del poeta
Parmenide, siano confluiti elementi eterogenei - il resoconto di una genuina
esperienza visionaria, allusioni cosmologiche, intenzioni didascaliche: il
poeta avrebbe plasmato, nel modulo espressivo più vicino alla sua formazione
rapsodica, immagini e contenuti a un tempo adeguati a manifestare le sue
conquiste spirituali, ed efficaci per co- 104 P. Hadot, Exercices spirituels et
philosophie antique, Albin Michel, Paris 20022. 105 Op. cit., p. 45. 106 Op.
cit., p. 144. 107 Allegoristi dell’età classica, Opere e frammenti, a cura di
I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007, p. XII. 108 Come fanno lo stesso Leszl, op.
cit., p. 145, e Coxon, op. cit., p. 156. 269 involgere (emotivamente e
intellettualmente) il pubblico destinatario (plausibilmente un gruppo ristretto
di discepoli109). Ciò comportava, naturalmente, anche consapevoli opzioni
simboliche, per le quali egli poteva attingere all’immaginario dell’epica e,
probabilmente, della stessa poesia apocalittica: il poema appare in effetti
concentrato sull’effetto (il mutamento della prospettiva cognitiva e la
correlata trasformazione dell’attitudine personale) dell’impatto con la verità,
della scoperta del reale assetto del tutto cosmico. Il viaggio e la sua
esperienza L’esplicita indicazione di Sesto Empirico ci attesta – come abbiamo
riscontrato introduttivamente - la tradizione integrale dell’incipit del poema
in quello che è classificato, nella edizione Diels-Kranz, come frammento B1: il
privilegio di disporre dell’esordio nella sua originale interezza offre
l’opportunità di valutarne costruzione, impronta e ufficio all’interno
dell’impresa complessiva di Parmenide. Comunque se ne interpreti il messaggio,
è chiaro come il poeta intenda marcare l’eccezionalità dell'esperienza cantata,
che – abbiamo sottolineato - non appare mera, scontata formula di indirizzo,
sebbene, prendendo in considerazione i contenuti dell’opera conservati nei
frammenti successivi, l’aura del mito possa superficialmente risultare
stridente con gli incoraggiamenti alla ponderazione razionale (B7 e B8) e con
le fatiche argomentative di B8. Come abbiamo già rilevato, è plausibile,
infatti, che il preambolo proponesse quella veste proprio in funzione di quei
contenuti e degli obiettivi educativi che il filosofo-poeta si prefiggeva. 109
Questa è l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le
contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A.
Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is
Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve
d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90. 270 Nel segno
dell’eccezione Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione
d’insieme - dettagliata in alcuni passaggi (descrizione del carro e della
apertura della porta) e molto indeterminata in altri (tragitto oltre la
porta)110 - abbiano dato adito a vari tentativi di contestualizzazione del
viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da due momenti ben
evidenziati nei versi parmenidei: (i) l’intervento delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι)
presso Dike, austera (πολύποινος, «che molto punisce») guardiana del portale,
per persuaderla a consentire il passaggio del carro che conduce il poeta: le
fanciulle devono placarla «con parole compiacenti» (μαλακοῖσι λόγοισιν) e
«sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla a concedere una possibilità
evidentemente non garantita ad altri mortali; (ii) la formula di accoglienza
della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira infausta» (Μοῖρα κακὴ,
destino infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto; (b) la via (ὁδός)
per cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου). Incrociando i rilievi, si evince che l’esperienza di cui è protagonista
il poeta eccede i limiti dell’umano e che ciò accade secondo un disegno cui
concorrono le aspirazioni (θυμός) del filosofo (v. 1): ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον
τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio
potrebbe giungere, e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a): ὅτε σπερχοίατο
πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι mentre si affrettavano a scortar[mi] le fanciulle
Eliadi. 110 Leszl, op. cit., p. 141. 271 L’eccezione coinvolge in particolare
due aspetti. Il poeta ha chiaramente l’opportunità: (i) di spingersi oltre i
confini stabiliti per le ambizioni mortali, e, in tal modo, (ii) di accedere
non semplicemente alla rivelazione della verità, ma più esattamente a una
lezione articolata, che lo informerà circa (a) la natura della realtà (vv.
28b-29): χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ Ora è
necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, (b)
la natura del comune fraintendimento (v. 30): ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità, (c)
fornendo soprattutto (pensando alla struttura del poema), alla luce di quegli errori,
gli strumenti corretti di comprensione del mondo della nostra esperienza (vv.
31-2): ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ
παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero realmente, tutte insieme davvero esistenti. A
sancire tale eccezione registriamo, insomma, un triplice avallo divino: (i) la
scorta delle Eliadi, che si muovono a sostenere e realizzare lo sforzo del
poeta\filosofo; (ii) la condiscendenza di Dike, che veglia sulle infrazioni ed
è garante dei limiti; 272 (iii) la comunicazione della θεά senza nome - che può
offrire la chiave per giungere alla Verità - meta del viaggio cui viene
finalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo. Il quadro è, nell’insieme, una
modulazione di quello arcaico tradizionale: sotto protezione divina al poeta è
permesso accostarsi a una condizione sovrumana111, che descriveremmo in termini
di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In altre parole, il privilegio
della conoscenza superiore costituisce una sorta di trascendimento dello status
mortale: nel rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile primato del divino. Come
anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni al testo del frammento,
le indicazioni del proemio sembrano dislocare tale trascendimento nel mondo
infero. In tal senso si può interpretare il riferimento della dea a «Moira
infausta» (ovvero «destino infausto») e, soprattutto, alludendo a δώματα
Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto meticolosamente da Esiodo (Teogonia
736- 745)112, con la prossimità della «dimora della Notte» (scortata nel suo
corso da Sonno e Morte) alla «porta del possente Ade e della terribile
Persefoneia» (vv. 758-778). In analoga direzione concorrono vari elementi
esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114), cui abbiamo sopra
accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea, la probabile
relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la θεά,
innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel regno dei
morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze sciamaniche,
già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza della verità. La
stessa figura di Δίκη πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος ricorre solo in un
altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in cui Dike affianca
111 Leszl, op. cit., p. 167. 112 Cerri, op. cit., p. 173. 113 Kingsley conferma
che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che accoglie nell’Ade Eracle
e Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come la dea innominata fa con
il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100. 114 Elea era centro di un culto
dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p. 108). 273 Zeus nell’atto di
relegare i Titani nel Tartaro115 - troverebbe in tale scenario la propria
naturale collocazione: nell’Ade i morti subiscono il giudizio divino e
ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe commesse in vita. La
plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta avrebbe, tuttavia,
anche un secondo e non meno rilevante risvolto nella prospettiva del poema. Il
percorso indicato, infatti, richiama la visione mitica del cosmo espressa in
Esiodo e Omero, in cui i confini del mondo coincidono con quelli della terra
(la cui superficie è piatta), sui cui limiti estremi poggia il cielo-cupola116:
in questo senso, nel caso dell’Odissea, la katabasis non è intesa tanto come
discesa sotto la superficie della terra, piuttosto come raggiungimento di un
luogo oltre i limiti della superficie terrestre117. La nozione del limite (e
del suo superamento) è poi significativamente evocata dal vettore e dalla
scorta, che richiamano l’immagine del carro del Sole e il mito di Fetonte118.
In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole appunto) e il
tragitto verso «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ
Ἤματός κελεύθων, v. 11), che complessivamente tracciano i contorni celesti, se
da un lato sembrano insistere sul punto di vista privilegiato garantito al
poeta, dall’altro, indirettamente, attraverso l’implicita rievocazione di
Fetonte (fratello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il carro,
sottratto di nascosto al padre Sole, richiese l’intervento riparatore di Zeus),
suggeriscono anche l’idea della regolarità e della misura cosmica, rafforzata
dalla presenza severa di Dike. Come in Esiodo e in altri pensatori arcaici
(Anassimandro e il contemporaneo Eraclito), la processualità della natura –
l’alternanza di notte e giorno ai confini del cosmo - si svolge in conformità
con le prescrizioni della giustizia119. Al poeta è dunque attribuito – garante
Dike – il favore 115 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 116 Leszl, op. cit., p. 149.
117 Ivi, p. 144. 118 Benché in genere l’accostamento non sia sfuggito ai
commentatori, mi pare particolarmente felice la lettura che ne propone Leszl
(p. 147). 119 Ibidem. 274 di seguire il corso del Sole, abbracciando così nel
tragitto mitico l’intera realtà cosmica e accedendo ai misteri dell’oltremondo.
Al di là dell'esperienza quotidiana L’eccezionalità dell'esperienza del poeta,
sottolineata nel suo indirizzo dalla θεά, non sarebbe allora riducibile
semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli inferi, ovvero a una ascesa (ἀνάβασις)
celeste: quanto risulta marcato nei versi del proemio è la distanza della via
seguita nel corso del viaggio «dal percorso degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου ἐστίν, v. 27). La porta del Sole, identificata con la Porta dell’Ade
(Iliade VIII, 13- 16; Odissea XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757;
811-814), è, in effetti, miticamente situata nell’occidente estremo,
lontanissima quindi dalle regioni abitate: poggia sulla superficie terrestre,
al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i suoi pilastri si
elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa l’abisso, il mondo dei morti, il
regno di Ade e Persefone120. Come ricorda Cerri, si tratta di una «porta
cosmica», sia in quanto discrimina il percorso del sole e quindi giorno e
notte, sia in quanto separa il mondo dei vivi e quello dei morti121. Ciò che,
in realtà, viene sottolineato nel resoconto parmenideo non è l’allontanamento
dalla terra per pervenire alla porta del cielo, superare i confini del mondo e
incontrare, nell’etere celeste, la dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente
il viaggio nell’oltretomba (Burkert) ovvero verso il centro del cosmo
(Pellikaan-Engel). Il poeta, scortato dalle Eliadi sul carro solare, perviene
presso e oltrepassa la «porta cosmica», raggiungendo, dunque, il punto
privilegiato che è accesso, a un tempo, all’Ade e al cielo (con la duplice
valenza, quindi, di rivelazione e illuminazione). In ogni caso, la tradizionale
oscurità dell’Ade appare, per la meta del viaggio, più giustificata nel
contesto rispetto alla luce 120 Cerri, op. cit., p. 98. 121 Ivi, p. 99. 275
celeste122: sono le Eliadi a doversi portare «verso la luce», muovendo dalla
«dimora della Notte» (dove hanno soggiornato durante la pausa notturna: il loro
viaggio comincia, dunque, presumibilmente all’alba), a cui ritornano, con la
compagnia del poeta, percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare
(cioè al tramonto, quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per
dar cambio a Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a
Parmenide prema soprattutto evidenziare l’oltrepassammento dell'esperienza
quotidiana e la distanza dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio
delle relazioni umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma
influente. Al nodo della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei suoi
tempi. Il poema si apre con il presente: ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς
ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere
(v. 1), quasi a marcare un’abitudine123 ovvero, all’interno della narrazione,
un elemento di sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i
successivi rilievi (sempre riferiti al presente) sulla «strada […] della
divinità»: ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα che porta †... † l’uomo sapiente (v.
3), sulla struttura della “porta cosmica” e sul ruolo di Dike: ἔνθα πύλαι
Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός·
αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας
ἀμοιϐούς. Là sono i battenti dei sentieri di Notte e Giorno: architrave e
soglia di pietra li incornicia; 122 Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A.
Privitera, op. cit.. 123 Guthrie, op. cit., p. 7. 276 essi, alti nell’aria,
sono agganciati a grande telaio. Dike, che molto castiga, ne detiene le chiavi
dall’uso alterno (vv. 11-14). Nel primo caso sarebbe accentuato il tratto
sciamanico della figura del poeta, avvezzo a straordinarie escursioni; nel
secondo valorizzata, invece, la sua disposizione al sapere, la sua aspirazione
(θυμός, desiderio) alla verità124, condizione dell'esperienza di conoscenza
annunciata nel poema quanto la successiva rivelazione della Dea. In ogni caso,
l’uso del presente comporta che le «cavalle», soggetto della relativa, abbiano
una relazione non episodica con il poeta-narratore e dunque siano irriducibili
a mero vettore in una esperienza eccezionale, che continuino, cioè, a operare
nella contemporaneità, siano parte di un’esperienza di verità che possa
ripetersi (a cui altri, al limite, possano essere avviati125). Nel senso
allegorico proposto da Coxon126, il poeta è ancora sul carro, con un viaggio
ancora davanti a sé, con le cavalle che continuano a essere le sue forze
motrici: il viaggio diverrebbe allora figura del conseguimento metodico della
filosofia, secondo la lezione ricevuta; le cavalle figura della forza (θυμός)
che lo spinge a filosofare. Nel passaggio al secondo verso, al contrario,
appare chiara l’intenzione di Parmenide di raccontare, nelle sue sequenze, la
vicenda che lo ha visto privilegiato discepolo della Dea: πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν
βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος, ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα· 124 Martina
Stemich, nella sua ricerca su Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen,
Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41 ss.), rintraccia una precondizione filosofica
analoga nel frammento DK 22 B18: «Se uno non spera, non potrà trovare
l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio». In questo senso
ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., pp.
39-40) interpreta l’intera esperienza del proemio: sebbene il percorso verso la
Dea sia già stato compiuto, esso – in quanto motivo connesso a una
trasformazione comprensibile solo come sviluppo sistematico – diventerebbe
emblematico della graduale approssimazione alla conoscenza ricercata dal
filosofo. 126 Coxon, op. cit., p. 14. 277 τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι
φέρον ἵπποι ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον [Le cavalle] mi
guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato sulla via ricca di canti
della divinità che porta †... † l’uomo sapiente. Su questa via ero portato,
perché su questa via mi portavano molto avvedute cavalle, trainando il carro:
fanciulle mostravano la via (vv. 2- 5). L’uso dei tempi verbali impone sia la
prospettiva dello sviluppo e della continuità dell’azione nel passato
(imperfetto, che, comunque, qualcuno127 interpreta come “imperfetto storico”
traducendolo con il presente), sia quella delle sue successive e puntuali
sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2, anche dal ricorso alla
congiunzione ἐπεί («dopo che»). L’intero proemio è costruito intorno a questo
ordito temporale che, se valorizziamo l’opposizione presente-passato, potrebbe
alludere – come intendono Mansfeld128 e Ferrari129 - al presente della
condizione sapienziale del poeta, conseguita grazie alla rivelazione della Dea
e dunque giustificata dalla narrazione, dal passato. Nel presente della
performance recitativa il poeta evoca l’avventura della conoscenza che lo ha
visto fortunato protagonista al cospetto della divinità, del cui dono si
propone di far partecipi gli altri mortali: il sapiente, l’uomo che sa (εἰδὼς
φώς), è tale per essere stato guidato, condotto lungo la «via della divinità»
(il genitivo δαίμονος ha valore soggettivo e oggettivo a un tempo: «della
divinità» perché a essa appartiene ovvero a essa conduce); il canto poetico
documenta quel privilegio. Questa prospettiva temporale, che collegherebbe al
presente dei versi 1 e 3 una condizione di conoscenza giustificata dall'e- 127
Conche, op. cit., p. 44.. 128 J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und
die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 228-229. 129 F. Ferrari, La
fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII "Il ritorno del
«kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo
dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il ritorno". 278
sperienza (εἰδώς implica etimologicamente l’esperienza visiva) narrata in
quelli successivi 130, può essere messa in discussione partendo dall’uso che,
dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto, nella ritualità misterica, per
indicare l’«iniziato» (analogamente, come sappiamo, potrebbe intendersi anche
il ricorso a κοῦρος al v. 24), e che potrebbe dunque designare una minoranza
predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità131. Il
termine εἰδώς si potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di
Parmenide: in relazione all’obiettivo da raggiungere, ciò garantirebbe un senso
anche a θυμός (v. 1), allo slancio dell’animo del poeta verso il contatto con
la verità. Nulla vieta, tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie
per accedere alla verità – che il poeta\sapiente avrebbe evocato con il
paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla piena cognizione di essa,
disponibile – all’interno del tradizionale modello oppositivo tra conoscenza
umana e conoscenza divina – in virtù dell’eccezionale prerogativa di una
rivelazione divina. In tal caso la condizione che consente al poeta di
annunciare la verità (presente) è conseguita grazie alla comunicazione divina (passato),
in cui si realizza comunque la sua originaria aspirazione. Accentuando
(arbitrariamente) la significazione e composizione simbolica nel racconto, si
potrebbero identificare due movimenti – quello del poeta sul carro tirato dalle
cavalle e quello delle Eliadi che intervengono a scortarlo presso le divinità –
come rievocazione della tensione religiosa del κοῦρος verso l’esperienza della
rivelazione ovvero figurazione della ricerca di un accesso alla piena
conoscenza della realtà. Ancora sul nodo delle divinità Abbiamo già avuto modo
di portare l’attenzione – nell’economia complessiva del frammento B1 e nello
specifico 130 Si tratta appunto della proposta di Mansfeld, op. cit., pp.
226-7. 131 Cerri, op. cit., pp. 169-170. 279 rilievo dell'eccezionalità dell'esperienza
celebratavi – sul ruolo delle figure divine proposte nel proemio: (i)
l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi; (ii) la funzione di
garanzia e sanzione di Dike; (iii) l’ufficio rivelativo della θεά anonima,
rispetto a cui, globalmente, nella vicenda cantata, gli altri due risultano
subordinati. In un contesto già popolato da molte altre potenziali132 entità
divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non può essere
meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza che il poeta intendeva
comunicare, doveva probabilmente celare anche una valenza simbolica.
Riprendiamo brevemente la questione. Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad
accondiscendere all’eccezione, proprio per consentire la rivelazione: la dea è
evocata in una mansione che il pensiero arcaico le riconosce, come «ipostasi
mitica della legge della physis» 133, che vincola elementi e fenomeni
nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in Eraclito essa si
esplichi in relazione al movimento solare e in genere alla regolare alternanza
di giorno e notte (che tanto rilievo cosmologico hanno nel proemio): Ἥλιος γὰρ
οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν le
Erinni che troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue misure, sono
ministre di Dike (DK 22 B94). Incrociando nell’universo mitico la sua figura
con quella delle Eliadi (divinità solari dell'illuminazione)134, Parmenide si
rifaceva al mito di Fetonte, che esse, in una variante della storia (ripresa in
una perduta tragedia eschilea – le Eliadi appunto -, alla cui rappresentazione
a Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato135) aiutarono nell’impresa di
guidare il carro del Sole. Alla luce di 132 Se se ne accetta la
personificazione, giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del tono religioso
del poema. 133 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 134 Come ricorda Cerri, op. cit., p.
173. 135 Capizzi, op. cit, p. 52. 280 questa circostanza, che i versi
dell’esordio poetico possono richiamare, Parmenide si proporrebbe come una
sorta di nuovo Fetonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il viaggio
proceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono
convincere Dike, perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria solare. Se
accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3 potrebbe essere
proprio il Sole: il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il
suo, così come la via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del
mondo. Ma l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in un’altra
direzione: abbiamo ricordato come, nella cosmologia mitica esiodea ricostruita
puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle
profondità del Tartaro (il mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade
(il mondo dei morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il
mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli
dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e Giorno: da essa
muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica del
Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero
essere due, collocate alle estremità orientali e occidentali), prelevano
Parmenide (all’alba: si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa
porta, alta tra la terra e il cielo, seguendo verso occidente il percorso del
Sole. Al di là c’è il mondo infero: il suo vestibolo è a livello della
superficie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente dopo si spalanca
il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (come iniziato, εἰδὼς φώς) di
varcarne, ancora vivo, la soglia, per attingere la conoscenza: Dike è al suo
posto, nella misura in cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il
poeta viaggiatore in qualità di patrocinatrici (impiegano parole suasive per
ammansire la inflessibile sorvegliante dei confini)138. Gli elementi che
abbiamo riassunto suggeriscono che l’eccezionalità dell’impresa cantata
coincida con il massimo pri- 136 Leszl, op. cit., p. 146. 137 Ivi, p. 147. 138
Cerri, op. cit., pp. 106-7. 281 vilegio previsto per un mortale nell’universo
mitico: come Odisseo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non
forse propriamente “discendere”) all’Ade, per incontrare la divinità che vi è
regina, Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide insiste
inizialmente sull’uso del presente contrastato da quello del passato: per
marcare lo straordinario esito della sua esperienza, la cui specifica
difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i vivi, al presente
della condizione umana. Prima di concludere su questo punto, è ancora
necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a interpretare il proemio in
un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse del resoconto di un
viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando, quindi, le letture
allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto Empirico. Questo
non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte espressive di
Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che certe immagini o
situazioni concrete dovevano già avere assunto nella attività poetica all’epoca
di Parmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i primi passi, ma è
possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura pitagorica cui si
dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di Parmenide. Il
contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva ricorso al motivo
del viaggio con intento manifestamente metaforico, sebbene l’accostamento a
Parmenide risulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso). In
ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a rendere plausibile
un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare (un viaggio oltre i
confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta (spiritualmente), prefigurava,
nell'insegnamento della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero
potuto fruire. Così, sfruttando al massimo l’incidenza dei dettagli concreti
della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con la propria "odissea",
delineato un modello per le avventure dell’anima nel grande mito del Fedro
platonico140. 139 Coxon, op. cit., p. 14. 140 Su questo punto ampia è la
convergenza degli interpreti. 282 La sequenza del racconto e il progressivo
(non casuale) coinvolgimento di quelle divinità fanno comunque apparire poco
convincenti le letture che marcano nel proemio la mera figurazione allegorica
di opzioni gnoseologiche o la semplice legittimazione, in chiave di
illuminazione superiore, di una proposta filosofica. L’autore, invece, proprio
attraverso la narrazione in prima persona del viaggio, ha la possibilità di
coinvolgere il suo pubblico in un'esperienza di trasformazione radicale della
persona, che richiede l’identificazione con il protagonista (donde l’adozione
della prospettiva del viaggiatore)141. È la futura condotta di vita il vero
obiettivo delle istruzioni della dea: il viaggio, in tal senso, sarebbe
rappresentazione di una forma di κάθαρσις142. Lo sciamanesimo di Parmenide
potrebbe leggersi in questa prospettiva: non traduzione poetica di una trance
onirica (incubazione), ma assunzione della pervasività emotivo-esistenziale
(forse direttamente esperita) di quella prova al servizio di uno sforzo di
profondo riorientamento – teorico e pratico – nella realtà quotidiana. Alla
concretezza di un fenomeno culturale (la pratica sciamanica), forse radicato
nell’ambiente eleatico143, Parmenide associa un percorso di conoscenza,
proposto esemplarmente ai propri uditori, in cui la dimensione di estraneazione
dalle distorsioni della quotidianità è funzionale a un processo di
trasformazione spirituale e a una prassi di vita. Il corso delle Eliadi ai
limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di Persefone scandiscono
evidentemente una ricerca destinata a modificare l’intera personalità: in un
contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di iniziazioni e
incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini simbolici,
all'efficacia coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni 141 La Robbiano (pp.
65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando due elementi che, da
un lato, favoriscono l’identificazione tra pubblico e viaggiatore, dall’altro
contribuiscono alla costruzione di una nuova attitudine mentale: (i) la
focalizzazione e l’invenzione della autobiografia: le strategie dell’Io; (ii)
il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon (op. cit., pp. 15-6) parla di
katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e le
osservazioni della Gemelli Marciano. 283 dettagli riconducibili, secondo
Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi
estatico-religiosa. La rivelazione e il suo programma Con il concorso delle
Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie all’intervento
persuasivo delle figlie del Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui
si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che
ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro
nelle parole con cui la stessa θεά accoglie e rincuora («rallegrati!»)
l’attonito visitatore. Esse rivelano come viaggio e accompagnamento non siano
né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ
προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ
Qémij τε Díkh τε Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa
via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini), ma Temi e Dike
(vv. 26-28). Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta
al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente
battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella distanza dai mortali
sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che lo straordinario
incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del protagonista (che è
stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità della scorta. La
«via» (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina (ἡμέτερον δῶ
«la nostra casa») – probabilmente la stessa ὁδὸς πολύφημος δαίμονος («via ricca
di canti della divinità» vv. 2- 3), lungo la quale le cavalle conducevano il
poeta all’esordio: in 284 ogni caso una strada principale, come chiarisce
l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è percorsa sotto l’egida
della giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι ἡνιόχοισιν). Le
scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε («giovane») e il nominativo
in funzione vocativa συνάορος («compagno») – apparentemente descrittive della
condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in
realtà, alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque
legittimarne il privilegio. Imparare tutto L’eccezionalità della situazione si
riflette anche nella completa disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e
nell’informazione successiva: rilevando didascalicamente - secondo il
tradizionale paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina -
l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα πυθέσθαι), ella
propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco
(vv. 29-30) dalle congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione
ulteriormente precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης
(congiunzione avversativa + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure»
«anche così». L’interpretazione di questo passaggio è molto controversa, ma
anche decisiva, dal momento che all'articolazione programmatica presumibilmente
corrisponde poi la struttura del poema (cioè la successiva esplicitazione dei
contenuti della rivelazione), e dunque dall'interpretazione di quella dipende
la comprensione di questo. Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato
su tutto: ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ 144 Secondo Cerri (p. 182) la
fraseologia dell’incontro tra il poeta e la dea riprende tipicamente quella
delle scene di incontro tra dei e mortali in Omero. 285 ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali
le opinioni, in cui non è reale credibilità (vv. 29-30). Si tratta
dell’opposizione fondamentale, che genera tutti i contenuti del poema: il
nucleo essenziale (ἦτορ, «cuore») di Verità (Ἀληθείη), di ogni verità (εὐκυκλέος,
«ben rotonda»), la sua necessità immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ, letteralmente «cuore
che non trema»); le incerte «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), che non sono
veramente credibili: esse risultano, letteralmente, inaffidabili, in esse non
risiede πίστις ἀληθής («reale fiducia»). La qualificazione umana delle doxai
giustifica la loro debolezza, assumendo per scontato che la proposta della
Verità sia divina. Il modello è ancora quello di Teogonia vv. 27-28: ἴδμεν
ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι
sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando
vogliamo, il vero cantare, sebbene in Parmenide l'opposizione tra proferire
menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè contraffazioni del genuino stato delle cose, ed
esprimere le cose reali (ἀληθέα γηρύσασθαι) sia rimodulata nella tensione tra
la salda stabilità nella relazione con la realtà («di Verità il cuore fermo»)
illustrata dalla Dea, da un lato, e l'incredibilità dei punti di vista mortali,
dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia dell'esplicita e secca
contrapposizione verofalso: così l’oscillazione esiodea tra «cose false»
(ψεύδεα) e «cose vere» (ἀληθέα) diventa nel contesto parmenideo opposizione
determinata oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La divinità di
Parmenide è meno volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è vincolata
alla manifestazione della realtà (Verità) e, conseguentemente, alla denuncia
dell'origine degli sviamenti umani nelle molteplici opinioni. In questo senso,
allora, possiamo leggere la conclusione del programma: 286 ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα
μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure
anche queste cose imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario
fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32).
Nell’impegno a tutto insegnare, la Dea non si limita – attraverso
l'illustrazione della norma di verità – a denunciare l’inattendibilità delle
convinzioni umane (come vedremo, rintracciandone la distorsione genetica), ma
intende proporre una ricostruzione affidabile (δοκίμως) della totalità degli
enti che quelle opinioni travisavano. Il ricorso a δοκίμως suggerisce, nel
contesto, l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il materiale delle
inverosimili δόξαι βροτῶν, così da fornirne un quadro attendibile (credibile
alla luce della verità). Possiamo dunque articolare il programma della Dea in
tre momenti145: (i) l’esplicitazione della norma immanente (le «vie di ricerca
per pensare»), dell'intima necessità della verità (B2, B6), con la conseguente
manifestazione della struttura essenziale della realtà (B8); (ii) la denuncia
dell’errore di base delle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la
riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della
esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha
dunque risconto nella struttura del poema: (a) una prima sezione (primo logos),
indicata convenzionalmente come “Verità” (Ἀλήθεια) dalla formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς ἀληθείης («discorso affidabile e pensiero intorno alla verità»
B8.50-51), in cui, in successione e strettamente connessi, sono affrontati i
momenti (i) e (ii): i principi del corretto ricercare e le origini dell'errore
dei «mortali»; 145 Ruggiu, op. cit., p. 196. 287 (b) una seconda sezione
(secondo logos, considerevolmente più consistente), convenzionalmente nota come
“Opinione” (Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας βροτείας
(«opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del programma,
naturalmente più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza). Variante
di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon146, secondo cui, invece,
Parmenide, in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da
Senofane e Alcmeone nei passi sopra citati: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν
οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ
μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι
τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente
intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli
capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo
saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B 34). Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης
τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς
Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte
e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la
certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi147 (DK
24 B1). 146 Op. cit., p. 169. 147 Dal passo iniziale del frammento vero e
proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di
espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose
invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début…", cit., p. 19).
288 Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione omerica tra incerte convinzioni
umane (elaborate inferenzialmente nel caso di Alcmeone) e conoscenza divina:
Parmenide si limiterebbe semplicemente a riformularla nel senso di un contrasto
tra forme cognitive: una affidabile perché in grado di manifestare il reale,
l’altra opinabile e convenzionale, espressione di meri punti di vista. Solo riconoscendo
l’insufficienza dell'esperienza ordinaria, gli uomini hanno la possibilità
della certezza: ciò che Parmenide avrebbe tentato nella seconda parte del poema
è appunto una ridefinizione del campo delle doxai in termini non
contraddittori. Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga
tradizione che attribuisce valore diverso alle parole della Dea, per lo più
assimilando i punti (ii) e (iii): alla saldezza (razionale) della verità (i),
Parmenide contrapporrebbe l’incertezza (empirica) dell’opinare umano (ii), di
cui offrirebbe comunque, a scopo esemplificativo e\o critico, esposizione (o
ricostruzione) coerente (iii). Leszl 148 ritiene, in effetti, che la
distinzione verità-opinioni, che chiude la comunicazione della dea nel proemio,
corrisponda alla distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e
falsità: in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio completo
dell’ambito del vero e di quello dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale
perché simile al vero), sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a
esporre il vero, la dea di Parmenide espone anche ciò che non è vero,
nell’intento di coprire «tutto», di offrire un sapere globale che non
ritroviamo in Esiodo. Lo stesso parallelismo con l’inno alle Muse della
Teogonia è sfruttato da Mansfeld149, il quale riscontra, nel doppio resoconto
prospettato dalla Dea, l’analoga pretesa delle Muse di dire verità e menzogne:
in questo modo, evidentemente, tutto quanto si riferisce all’ambito della doxa
è stigmatizzato come ingannevole, con il risultato paradossale di ridurre
proprio la sezione cosmogonica e teogonica, più vicina al modello divinamente
ispirato del poema 148 Op. cit., pp. 153-4. 149 Op. cit., p. 33. 289 esiodeo, a
occasione per repertare gli errori dei mortali (sottolineando come τὰ δοκοῦντα
dovrebbero essere ma non sono150). Non è da escludere, invece, che proprio il
secondo logos rappresentasse il nucleo centrale e originario del progetto di
Parmenide, quello in continuità con la riflessione arcaica περὶ φύσεως (donde
la titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa riprodurrebbe anche
la logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle «cose accettate nelle opinioni», a
principi, «forme» (μορφαί) nel lessico parmenideo (B8.53); ma che l’elemento di
originalità (da cui l’attenzione tra gli antichi e la conservazione nelle
testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel primo
logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una coerente enciclopedia
del mondo naturale, denunciando a un tempo le debolezze delle ricostruzioni
alternative151. 150 Ivi, p. 210. 151 Il dibattito sulla natura della doxa
parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G. Reale a E.
Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I,
Volume III: Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente ripresa nello
specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on
Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997. Molto
utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes
d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-212; R. Brague, "La
vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi, pp. 44-68; A.
Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited
by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 45-64; H. Granger,
"The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P. Curd, The Legacy of
Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University
Press, Princeton 1998, cap. III: "Doxa and Deception"; le pagine di
D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific
Philosophy, Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp.
169-184). 290 Opinioni: credibili e non Secondo uno dei più accreditati
studiosi ed editori contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea
prospetterebbe, introduttivamente, il contenuto del suo «corso di filosofia»
nell’ambizioso riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti
complementari: (i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A
completamento del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile
modello per le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma «riconoscere
che le opinioni non sono vere è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso,
implausibile questa proposta di lettura è soprattutto l’estensione e
l’articolazione che supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi
come poema didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere
enciclopedico154. È necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore
delle opinioni155. Una prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei
lettori antichi: Aristotele, per esempio, osserva: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ
που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι,
τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ
ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας
καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων·
τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν 152 N.-L.
Cordero, By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las
Vegas 2004, p. 30. 153 Ivi, p. 32. 154 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di
scienza parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F.
Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80. 155 Torneremo
sull'argomento commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo
logos". 291 Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore
perspicacia: ritenendo, infatti, che non esista affatto, oltre all’essere, il
non-essere, egli crede che, di necessità, l’essere sia uno e nient’altro. […]
Costretto tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uno sia
secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi
dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Aristotele,
Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1; DK 28 A24). A sua volta, Teofrasto (secondo
quanto attestato da Alessandro di Afrodisia) rileva: Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας
ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι
πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν
τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ
γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην
τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse
entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di
spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse
convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e
ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine
di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e
terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Il
problema dei due logoi era già delineato come incrocio tra due forme diverse di
esplorazione della realtà, che potremmo sbrigativamente indicare come razionale
ed empirica: la seconda parte del poema avrebbe così riproposto un approccio
alla physis, dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima
292 parte, originale, avrebbe invece introduttivamente messo a fuoco le
implicazioni ontologiche a priori dell’indagine156. Certamente il programma
della Dea prevede un momento critico, che investe indiscutibilmente le
«opinioni dei mortali», in cui non risiede «reale credibilità»: individuare la
norma di verità comporta necessariamente denunciare l’origine di erronee convinzioni
circa il mondo dell’esperienza, senza escludere tuttavia la possibilità che la
stessa materia sia passibile di una trattazione diversa, rigorosa e plausibile.
Questo il senso della precisazione introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra
la saldezza della Verità (illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la
(contraddittoria, come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie
convinzioni umane, si annuncia la possibilità di una credibile (in quanto
coerente con i presupposti che fondano la ricerca) ricostruzione dei fenomeni.
Benché l’intervento divino sia teso a legittimare la norma di verità (che non
può giustificarsi empiricamente), l’impianto educativo del poema, la scelta del
kouros e la sollecitazione critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare
un'interpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio. Ciò che colpisce,
nell’articolazione della lezione divina, è, in ogni caso, soprattutto il punto
(iii) del programma, che risulta nel contesto meno scontato: comunque si intenda,
infatti, la direzione del viaggio cantato nei versi parmenidei,
indiscutibilmente la sua meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che
presuppone, con l’esito veritativo, l’opposizione tra il sapere che la Dea può
manifestare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la compiuta
(εὐκυκλέος, «ben rotonda» 157 ), salda consistenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore
fermo») di Verità è (naturalmente e tradizionalmente) contrapposta alla debole
(οὐκ ἀληθής, «non reale 156 Si tratta di una relazione che potrebbe ancora
trovare riscontro nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei
cui frammenti (DK 31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide
chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157
Per la lettura che proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante εὐπειθέος
(«ben convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e
Diogene Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo
notizia in nota al testo greco. 293 [genuina]») «credibilità» (πίστις)
riconosciuta alle βροτῶν δόξαι: «nondimeno», a proposito di queste opinioni, il
poeta apprenderà, dall’istruzione della Dea, anche come «le cose accolte nelle
opinioni» (τὰ δοκοῦντα: il contenuto empirico di tali opinioni) siano da
intendere «effettivamente» (δοκίμως: realmente, genuinamente), considerandole
«tutte insieme davvero esistenti» (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole
riconducendole rigorosamente alla «via di ricerca» lungo la quale è
effettivamente possibile procedere (B2.3). Senza questa precisazione il
percorso formativo destinato al kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ)
che lo introduce sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a conseguire una
nuova consapevolezza della realtà158. A tale scopo non è sufficiente (almeno
non per la formazione del kouros) conoscerne l’essenza e dunque prendere
coscienza della genesi delle opinioni erronee: per il poeta, destinato a
tornare tra gli uomini e a rivaleggiare con altri presunti sapienti, è
necessario saper affrontare i contenuti dell’esperienza umana. Non pare – come
invece molti sostengono159 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata
dal fatto che la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e la verità e
le opinioni, se per doxai si intendono quelle illusorie dei mortali: esse
saranno sbrigativamente liquidate (B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2)
dei criteri di verità. Ciò che, invece, risulta originale nella rivelazione
della Dea del poema, a dispetto della tradizionale frattura tra sapere umano e
sapere divino, è l’ardita combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una
realtà non immediatamente manifesta all’esperienza umana, e articolata
esposizione di un accettabile «ordinamento» (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni
naturali. La comunicazione dell’anonima divinità avrebbe insomma abbracciato
sia quanto tradizionalmente considerato appannaggio esclusivo del dio (la
verità), sia l’oggetto della contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in
questo modo, il poema avrebbe ridefinito, nel suo insieme, il quadro
cosmologico (e cosmogonico) della Teogonia esiodea. 158 Robbiano, op. cit., p.
77. 159 Tra gli altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2. 294 Verità e opinione Sul
programma introdotto dalla dea innominata in conclusione del proemio (vv.
28-32), possiamo ancora osservare come, a livello espressivo, l’articolazione
su cui abbiamo insistito emerga chiaramente nelle scelte verbali: χρεὼ δέ σε
πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. Intanto risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e
μαθήσεαι – il cui valore è quello di «apprendere per esperienza», «imparare per
indagine», ma anche «discernere»: essi possono veicolare, dunque, sia l’idea di
ricettività, sia quella di ricerca, perfettamente in contesto laddove la
docenza (divina: θεά) guida il processo di apprendimento, marcando a un tempo i
temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀληθείης ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ δοκοῦντα)
e l’urgenza di comprensione da parte dell’allievo (κοῦρος). La prima formula
didattica sottolinea l’opportunità che «tutto tu apprenda»: come in precedenza
rilevato, è netta la costruzione oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza
della Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e
la garanzia di verità del nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità
dei «mortali»: la rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda»
comporterà la contestazione della consistenza delle loro convinzioni. La
seconda formula introduce gli ultimi due versi, testualmente molto tormentati:
il fatto di ribadire «imparerai» sembra implicare che questa sezione della
lezione divina sia ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità
e credenza non vera), sebbene il complemento oggetto - «anche queste cose» -
plausibilmente rinvii al contenuto delle «opinioni dei morta- 295 li»160 e
soprattutto sia evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice
(δοκ) di δόξας, δοκοῦντα e δοκίμως. Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua
ricerca, il verbo δοκέω può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare»,
«supporre», sia (b) «sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di
«apparire»: presenta dunque a subject-oriented sense e an objectoriented sense.
Mentre δόξα e δοκίμως sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua
«funzione criteriologica», il ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le
implicazioni oggettive di (b), nonostante la derivazione da δοκέω lo renda
irriducibile a una «funzione fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι).
In δόξα (opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio come «plausibilmente»)
troveremmo allora coinvolta l’idea di valutazione e accettazione, di
approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν, come in Simplicio)
«le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono accettate». Ma
l’avverbio δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il valore di
«realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare
all’accezione oggettiva, a una situazione di fatto, a come stanno
effettivamente le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra traduzione). In
ogni caso, le βροτῶν δόξαι - che vengono denunciate come non fededegne - non
rappresentano mere impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi,
con cui ha evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali
punti di vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli
ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse
assunzioni, per riproporla in modo adeguato: in questo caso Parmenide impiega
non il termine δόξαι ma τὰ δοκοῦντα: non i punti di vista ma le cose che in
essi sono accolte. A τὰ δοκοῦντα collega la complessa (e testualmente
controversa) espressione participiale διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, che abbiamo
reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta appare non 160 In
funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare τάδε, non
ταῦτα, che sembra invece riferito a quanto precede. 161 Op. cit., pp. 195 ss..
296 quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quella di
proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mostrare come «le cose
accolte nelle opinioni» avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con
possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come ὄντα
(esistenti), in altre parole considerate alla luce della Verità, ovvero come
genuina realtà. La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα,
ὄντα), e la struttura del poema, con un secondo logos di natura enciclopedica,
suggeriscono di considerare positivamente il terzo punto del programma della
dea, ben distinto dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione
negativa), di cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: (i) il
contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla
base della esperienza; (ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle
forme in δοκ), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa
attraverso l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato
inaffidabile. La Dea procederà quindi: (i) in primo luogo, a introdurre quella
verità di cui è esplicitamente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta
delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la
struttura della realtà (B8); (ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla
scorta della forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e
impossibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose
e il loro divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione
coerente con i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo»
(διάκοσμος), vero obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene,
complessivamente, la rivelazione di tutta la Verità: della sua natura
intrinseca («cuore fermo»), fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e
della sua adeguata applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmenide si
riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si
sovrappongono: la meditazione della «parola» (μῦθος) della Dea, che segnala la
traccia che conduce ad Ἀληθείη, 297 assicurerà al κοῦρος la consapevolezza degli
errori comuni tra gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo della
sua esperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno lo
stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per la logica del poema): la
realtà, manifestata nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e nella
pluralità dei processi naturali dall’esperienza. La scansione di tale programma
nei moduli della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo scarto tra
sapere umano e sapere divino, proposto nella cornice dell'eccezionale tragitto
ai limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e giorno, mondo dei vivi e mondo
dei morti si incontrano, è ribadito non solo nella relazione didascalica tra
θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità dei loro due diversi sguardi sulla
realtà. Quello della Dea si rivolge impassibile (logicamente coerente e
inattaccabile) all’essere, alla totalità razionalmente afferrata nella sua
omogeneità e identità ontologica; quello dei mortali è invece condizionato (e
per lo più sviato) dal filtro dell’esperienza. Compito del poema condannare le
distorsioni e produrre – con la lezione divina – una consapevole mediazione.
Per via Prima di concludere l’esame del proemio e dopo averne considerato gli
ultimi versi e il programma contenutovi, è opportuno ritornare riassumere i
nostri risultati. Parmenide compone nei moduli della tradizione epica,
evocandone il rilievo veritativo e educativo e sviluppandone in particolare il
tema del viaggio, centrale non solo per l’epica omerica ma anche, in generale,
per l’esperienza culturale e religiosa arcaica (sciamanesimo). Modulando tali
paradigmi, il poeta insiste sull’eccezionalità della propria esperienza, sia
per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento, sia per la meta oltremondana,
sia, infine, per l’incontro con la dea rivelatrice: ciò comporta, da parte sua,
valorizzare, con la lezione divina, anche il percorso del viag- 298 gio, la
«via» (ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la dea innominata ci informa essere
«lontana dalla pista degli uomini. A sancire tale percorso e la legittimità
della percorrenza, Parmenide colloca Dike e Temi, giustizia e norma divina:
l’accesso alla verità, dunque, non è casuale, accidentale, ma risultato di uno
slancio educato (il poeta in apertura evoca la spinta del proprio desiderio,
θυμός), forse di una iniziazione (come rivelerebbe, in particolare, l’uso della
espressione εἰδὼς φώς). La lezione della Dea non si limita a manifestare la
Verità (di cui rileva la saldezza, il nucleo inattaccabile), mediandola a un
mortale, ancorché favorito, ma è attenta anche a dar conto del mondo
dell’esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per denunciarne gli
stravolgimenti, sia per offrirne un’illustrazione adeguata, coerente, nei suoi
principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere). I modelli e i temi
interessati suggeriscono che la comunicazione di verità, certamente centrale
nei frammenti disponibili, non fosse fine a se stessa, ma costituisse
l’elemento intorno a cui realizzare un profondo ri-orientamento della
esperienza umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra soggetto
umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e B8)162. La formazione
alla verità porterà il kouros a vedere il mondo in una prospettiva lontana
dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere diversamente dalla società163.
162 Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la Stemich (op.
cit., pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa delimitarne nettamente
la prospettiva oggettiva (che insiste sul referente, sull’entità data al di
fuori dell’individuo) da quella soggettiva (come nelle espressioni dire vero,
fare vero, in cui è sottolineata la relazione dell’uomo alla verità), osserva
comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista piuttosto sulla seconda,
ovvero sulla condizione che consente all’uomo di superare il senso comune
quotidiano. 163 È significativo che, di recente, oltre a Martina Stemich anche
Chiara Robbiano (op. cit., p. 56) abbia richiamato l’attenzione su questo
punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma educativo della Dea,
sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros deve maturare), e
dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza della realtà, allo
stesso tempo oggettiva. In questo senso il poema riguarderebbe una
trasformazione 299 Che si tratti di percorso astrale – quello solare – che
conduce alla porta cosmica, chiave di volta non solo dell’alternanza
giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero, ovvero di itinerario
celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole Mansfeld), o ancora
di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la divinità è comunque
destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto
il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella tradizione. L’evento è
decisivo non solo per quello che consentirà di conoscere ma per come consentirà
di condursi nell’esistenza: questa è forse la ragione della scelta comunicativa
di Parmenide, con le sue potenzialità performative (la recitazione) e le
allusioni a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.) note soprattutto per
la loro incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il poema si apre con
riferimenti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle cavalle di scorta,
e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere all’incontro con una dea (che
potrebbe essere Persefone) la quale introdurrà la propria rivelazione (B2) con
l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte al quale il kouros è chiamato
a scegliere. del punto di vista tale da investire non solo l’oggetto della
comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il soggetto (p. 37). Nonostante
i vari problemi di traduzione e interpretazione suscitati dai versi di B2, con
certezza possiamo asserirne, come nel caso del precedente B1, la collocazione:
all’inizio della prima sezione del poema1, a ridosso del proemio (se non
addirittura in continuità e contiguità con esso). Possiamo inoltre
ragionevolmente ritenere che B2 costituisca, con i successivi B3, B6, B72, un
blocco argomentativo continuo: l’introduzione dei presupposti per manifestare
(B8) i segni (σήματα), le proprietà della Realtà concepita come un tutto,
ovvero di quanto anticipato (B1.29) come Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ («di
Verità ben rotonda il cuore fermo»). All’interno di uno schema espositivo che
esplicitamente richiama l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8 (la
Dea, infatti, marca la significatività del proprio μῦθος, sollecitando
l’interlocutore a prenderne nota e averne cura), alcuni hanno voluto
valorizzare la condizionante presenza dei principi della logica occidentale3,
altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia4. Dire, ascoltare La
continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della
comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo
della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io dirò») e la ricezione (l’ascolto attento) del poeta
(κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi cura 1 Ricordiamo che, nella cesura di
B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης; B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione Πειθοῦς
κέλευθος. 2 Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione
DK (diversa da quella ricostruita dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7. 3 Per
esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch,
herausgegeben, übersetzt und erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum,
Artemis & Winkler, Zürich 19953. 4 Per esempio Leszl, op. cit., p. 85. 301
della parola»), destinata, a sua volta, a trasformarsi, attraverso il canto,
nella mediazione della verità a un discepolo: il σύ («tu») impiegato dalla
divinità è rivolto tanto da questa al poeta, quanto da questi al proprio
ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu ascolta e riferisci. Al poeta,
giunto alla meta del viaggio (infero), non sono riservate privilegiate visioni
o rivelazioni immediate; lo attendono, invece, parole, di cui si raccomanda
l'ascolto5. La sua ricerca della Verità dovrà dunque muovere da esse: parole
con cui la Dea non nomina se stessa, non descrive se stessa o la casa in cui
risiede, non designa neppure puntualmente un soggetto6. Un solo impegno è stato
assunto e quindi fa da sfondo alla sua parola: «è necessario che tutto tu
apprenda» (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι). Come sarà sottolineato in altro luogo
(B7.5), l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας («e tu abbi cura della parola
una volta ascoltata») certamente sollecita attenzione per la verità del
messaggio (μῦθος), ma implica anche – nella ricezione\cura - la sua valutazione
e trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta del termine μῦθος, la
«parola» divinamente ispirata del poeta, la parola che veicola, attraverso il
poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un tempo, il vincolo di
dipendenza del mortale dall’immortale, ma anche l’eccezionale rilievo del
poeta, la sua peculiare posizione sociale, la sua σοφίη 7. 5 L. Atwood
Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit., pp. 89-90. 6 Ivi, p. 79. 7 Su questo
punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama Senofane, DK 21
B2.11-14: ῥώμης γὰρ ἀμείνων ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη. ἀλλ’ εἰκῆι μάλα τοῦτο
νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης Migliore è infatti
della forza di uomini e cavalli la nostra sapienza. Ma si valuta questo in modo
veramente dissennato: e invece non è giusto preferire la forza alla buona
sapienza. Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria sapienza: 302 Io,
tu La polarità comunicativa ἐγώ-σύ introduce anche la dialettica del testo
parmenideo: essa, in effetti, sottolinea l’urgenza di illustrare la forza
persuasiva del messaggio al destinatario (B2.4: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ
γὰρ ὀπηδεῖ: «di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna») e
dunque la dimensione argomentativa (che si impone soprattutto in B8). A
dispetto del tono e della situazione solenni, è progressivamente sul piano
della (co)stringente discussione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione della
Dea, quasi assumendo il «tu» come muto interlocutore, di cui B8 sembrerebbe
confutare il punto di vista ordinario. In questa prospettiva, la dialettica
comunicativa esprime l’intenzione educativa anche nella forma di una lezione
sull’uso degli strumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo originale,
le premesse di base della successiva trattazione: Mansfeld, in particolare, ha
sostenuto che il ruolo condizionante della divinità e della sua rivelazione si
manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme verbali in prima
persona8, negli asserti imposti dall’autorità di ἐγώ («io»): εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω
[…] Orsù, io dirò (B2.1a) χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας εὐφήμοις
μύθοις καὶ καθαροῖσι λόγοις bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini
assennati, con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ἀνδρῶν δ’ αἰνεῖν
τοῦτον ὃς ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει, ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς da
lodare, poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole,
conformemente a memoria e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 Op. cit., pp.
61-2. 303 τὴν δή τοι φράζω Proprio questa ti dichiaro (B2.6a). Il primo momento
coinciderebbe con l’enunciazione (B2.2) delle «uniche vie di ricerca per
pensare» (solo A e B sono «per pensare», A e B sono immediatamente
incompatibili), in questi termini (letterali): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere
(B2.5). Il secondo con l’asserzione dell'impercorribilità della seconda via: τὴν
δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Proprio questa ti dichiaro essere
sentiero del tutto privo di informazioni (B2.6). Che (i) «è» e «non è»
rappresentino alternative incompatibili e che (ii) τό μὴ ἐὸν non sia
effettivamente disponibile per un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici
(garantite dall'iniziativa divina) della successiva discussione, come
evidenziato dall'invito all’ascolto9: il poeta paleserebbe in questo modo sia
il proprio proposito argomentativo sia la consapevolezza del suo articolarsi.
Anche non condividendo la tesi di Mansfeld, appare comunque indiscutibile
l’intenzione di Parmenide di sfruttare la presenza della Dea per muovere da una
verità fondamentale. Altri, invece, riconoscendo l’uso didascalico del mito, vi
hanno colto la rivendicazione di una verità indiscutibile (che non è mera
opinione umana) 10, ovvero l’espressione della matura consapevolezza
dell’oggetto e dei mezzi propri della filosofia11: non sarebbe stato 9 Ivi, p.
86. 10 Conche, op. cit., pp. 79-80. 11 La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il
primo filosofo ad argomentare, a dare ragioni a supporto della propria
posizione, a elaborare consapevolmente 304 più sufficiente enunciare la verità;
era necessario assicurarla con la costrizione del logos. Forse, più
semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva all'interno di una cultura
in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era radicato nella sfera della
comunicazione divina12, era scontato rispettare la convenzione e fondare le
premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea. Uniche vie di ricerca per
pensare All'esortazione di apertura che l’«io» della Dea rivolge al «tu» del
poeta (v. 1), invitandolo ad «aver cura di» (κόμισαι) – ovvero «prender nota,
meditare e trasmettere» – quanto ella sta per rivelare, fa immediatamente
seguito (v. 2), sintatticamente retto dall’impegnativa espressione omerica ἐρέω
(«dirò, proclamerò»), la prima indicazione concreta sul contenuto della
rivelazione: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι che abbiamo reso come:
quali sono le uniche vie di ricerca per pensare. Il verso presenta alcune
difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e complessiva.
Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come rendere εἰσι?
Come νοῆσαι? La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna (dopo averlo già
fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via, impiegando
un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo nel motivo
omerico del viaggio13. Il termine parmeni- il proprio ragionamento con metodo,
è di Cordero (By Being, It Is, cit., p. 38). 12 Su questo aspetto della cultura
greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e
sapere", in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e
G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 49-62. 13 Mourelatos, op. cit.,
p. 67. 305 deo δίζησις è infatti di derivazione epica, essendo δίζημαι
utilizzato in Omero per «ricercare persone o animali perduti» ovvero nel senso
lato di «concepire»: esso implica desiderio del e interesse nell’oggetto
ricercato (la cui esistenza quindi non sarebbe in discussione). La formula ὁδοὶ
διζήσιός alluderebbe allora a un investigare impegnato a raccogliere
informazioni che conducano all’oggetto desiderato. È significativo che il
contemporaneo Eraclito usi δίζημαι nel senso di ricercare in profondità: χρυσὸν
γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον Quelli che cercano
oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK 22 B22), marcando la
propria direzione d’indagine verso quanto nascosto e inaccessibile ai più: la
ricerca della φύσις, in contrapposizione alla πολυμαθία di poeti e sapienti tradizionali.
Eraclito, tuttavia, sottopone il verbo a un’ulteriore, originale, torsione: ἐδιζησάμην
ἐμεωυτό ho indagato me stesso (DK 22 B101), che Mourelatos14 legge in relazione
a: ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν
λόγον ἔχει i limiti dell’anima non potrai mai trovarli, sebbene tu ti spinga
per tutte le strade: tanto profondo è il suo logos (DK 22 B45). L’uso arcaico
di δίζημαι sottolinea, insomma, il fatto che si ricerca intorno a qualcosa che
non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. In questo senso il nesso
stabilito nei versi 3-4 tra la prima ὁδός e Ἀληθείη: 14 Mourelatos, op. cit.,
p. 68. 306 Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ di Persuasione è il
percorso - a Verità infatti si accompagna. È necessario un percorso di ricerca
per appalesare quanto è immediatamente nascosto: la via conduce alla scoperta
della realtà, e in questo senso alla «verità». La verità richiede dunque una
specifica ricerca: solo seguendo una «pista» (termini come πάτος, κέλευθος, ἀταρπός
sono ricorrenti nei primi due frammenti) non casuale è possibile cogliere ciò
che è genuinamente reale. Parmenide sceglie di ricorrere all'espressione «vie
di ricerca» proprio per dare risalto al fatto che esse hanno come obiettivo
essenziale la realtà (verità)15. La Dea proclama dunque solennemente: αἵπερ ὁδοὶ
μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι (letteralmente: quali vie uniche di ricerca sono
per pensare). La costruzione greca ha autorizzato sia (i) la lettura che
insiste sulla concepibilità delle vie (εἰσι νοῆσαι in senso potenziale, da
rendere come: «sono possibili da pensare», «possono essere pensate», «sono
pensabili/concepibili»), sia (ii) quella che, come pare corretto nel contesto,
facendo leva (a) sul valore finaleconsecutivo dell’infinito, (b) sul suo nesso
con μοῦναι, e (c) sulla successiva determinazione delle ὁδοί con formule
introdotte da ὅπως e ὡς, esprime il lato attivo del pensare (dunque: «quali
sono le uniche vie per pensare»), introducendo due modi di pensare («pensare
che...»). Qualcuno16 ha ipotizzato che Parmenide intendesse evocare entrambi i
valori, intenzionalmente giocando sull’ambiguità (in analogia con le modalità
di comunicazione del contemporaneo Eraclito): una chiave interpretativa che
potrebbe applicarsi ad altri passaggi del testo. 15 Leszl, op. cit., p. 124. 16
Robbiano, op. cit., pp. 81-2. 307 Ma il testo pone anche il problema della resa
di νοῆσαι: generico «pensare», o, secondo l’uso arcaico, «apprendere,
conoscere»17? La traduzione in questo caso impone un'opzione interpretativa:
«pensare» rischia di risultare troppo indefinito rispetto all'unicità
conclamata delle vie, consentendo, per esempio, di ammettere, oltre alle
razionalmente legittime, anche «le vie dell’irrazionale» (illuminazioni,
rivelazioni, ispirazioni ecc.), illegittime agli occhi della ragione18, come in
effetti alcuni frammenti del poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire.
D’altra parte, si potrebbe obiettare che, rendendo in senso forte νοεῖν con
«apprendere\conoscere», come pur giustificato dalla conclusione del proemio19,
risulterebbe poi problematica la comprensione della via introdotta in B2.5
(letteralmente): ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι che non è e che è
necessario non essere. Di essa, in effetti, la Dea si affretta subito a
osservare: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ
ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa di dichiaro essere sentiero
del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è
(non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8); sottolineatura
ripresa e accentuata ancora in B8.17-8: ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός
17 Mourelatos, op. cit., p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch
opta per erkennen. Per una discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit.,
pp. 69 ss.. 18 Come nel caso di Conche, op. cit., p. 77. 19 Ch.H. Kahn, “The
Thesis of Parmenides”, in Id., Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, pp.
146-147. 308 impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina).
Eppure è proprio questa difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura
e alla funzione delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοί μοῦναι διζήσιός
νοῆσαι): solo la nozione di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace
di prescindere dalle sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato,
appare in grado di giustificare l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata
nei versi B2.3 e B2.5. Intendendo νοεῖν come un «pensare» generico, si può
ridurre il paradosso di una «via di ricerca per pensare» connotata come
«sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν) e, addirittura,
come «impensabile e inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla
distinzione tra la sua prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua
praticabilità. Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di νοεῖν
secondo la prospettiva omerica (improntata all'analogia con il vedere) di una
relazione percettiva immediata con l'oggetto20, a dare senso alla disgiunzione
«è»-«non è»: essa allora esprimerà, per quella funzione ricettiva,
l'alternativa radicale tra necessità di rivolgersi a una realtà che è, e
impossibilità di afferrare ciò che non è. La Dea annuncia nel contesto quali
siano le «uniche vie di ricerca per pensare»: tre sono gli elementi da
considerare: (i) la ricerca (δίζησις), (ii) i percorsi lungo per cui essa si
sviluppa, (iii) la finalità che essa intende realizzare, designata dall'infinito
aoristo νοῆσαι: «pensare», svelare la realtà (verità), ovvero, come suggerisce
Palmer21, «comprendere», «giungere a comprensione». Il contesto di B2
suggerisce palesemente anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che traduce
in risultato la finalità dell'unico effettivo percorso di ricerca: come abbiamo
già osservato, della prima via di ricerca (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι)
la Dea sottolinea che (a) è «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), 20
Germani, op. cit., p. 189. 21 Op. cit., pp. 72-3. 309 in quanto (b) «attende
alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). L'apertura di B6 preciserà (letteralmente): χρὴ
τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι è necessario il dire e il pensare che ciò che
è è, fissando quindi in quanto espresso da ἐόν l'oggetto specifico di
comprensione. D'altra parte, le «vie» annunciate sono «uniche» (μοῦναι) in
forza di ciò che esse si propongono di pensare: in B8.16 sinteticamente
proposto come ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν («è o non è»), esso è in B2 rinforzato da due
formule modali: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che
non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Lungo la prima
via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a partire dall'immediata
evidenza: «è» (ἔστιν), rimanendo saldamente sul terreno dell'«essere»
(escludendo cioè la possibilità del «non-essere»). La seconda modalità, invece,
prospetta una ricerca che si svolga a partire dalla negazione di quella
evidenza: «non è» (οὐκ ἔστιν), pretendendo di svilupparsi conseguentemente sul
terreno del «non essere». Delineata come alternativa alla precedente, essa si
rivela di fatto impercorribile, dal momento che il pensiero non avrebbe
alcunché da afferrarvi e manifestarvi: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν·
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa
ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non
potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti
indicarlo. 310 Per pensare Prima di procedere alla determinazione delle «vie», è
opportuno, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora sulle
implicazioni dell’annuncio della Dea: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω [...] αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι
διζήσιός εἰσι νοῆσαι. Comunque si valutino queste parole, è evidente come in
esse Parmenide anticipi il senso di un messaggio (divino) che investe
indiscutibilmente la dimensione cognitiva del νοεῖν: si tratterà di riassumere,
nella schematica astrazione di due forme («vie»), le modalità di fondo del
«ricercare», del portare a conoscenza22, discriminandole rispetto all'ampia
fenomenologia di tentativi e sviamenti «mortali» (le δόξαι βροτῶν). Se si può
riconoscere alla narrazione del proemio anche un'intenzione simbolica,
ricordiamo come la θεά, accogliendo il κοῦρος, rilevasse (B1.27): τήνδ΄ ὁδόν
[...] γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν. Il filo che lega l’esordio della
comunicazione della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione di B2 è costituito dal
tema della ὁδός: la Dea dapprima (B1.27) – con riferimento alla via che, grazie
all’intervento di eccezionali coadiutrici, ha condotto al suo cospetto -
segnala come essa sia «lontana dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου); in B2 ella ne rievoca il tema nelle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός, precisando in
modo rigoroso i criteri per valutare la fondatezza di ogni punto di vista. In
gioco è esplicitamente (B1.29) la Verità: (i) nella sua “essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος
ἀτρεμὲς ἦτορ); (ii) nella sua manifestazione 22 Come ricordato in nota al
testo, Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, cit., p. 147) ha sostenuto
che δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη
(«ricerca scientifica»). 311 all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα); (iii) nella
sua diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι). La realtà da scoprire (Verità) rimane,
in effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottolineato a
proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione dall’omerico
δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una corrente
interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a
conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» (ἐς ὁδὸν πολύφημον)
che conduce «l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui
attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso
per conseguirla23. È questo decentramento della verità dalla Dea che
giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa coincidere la
verità con la via stessa. In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il
riferimento al νοεῖν – del poeta e del lettore\ascoltatore – è essenziale per
coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a partire dalla
comprensione delle implicazioni di due enunciati divini, insistendo sulla
centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale comprensione risulterà
ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali» (manifestando un decisivo,
comune denominatore razionale): (i) legittimando, da un lato, il taglio
argomentativo di alcuni dei frammenti della prima sezione (segnatamente B8,
parzialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina interlocutrice per istruire
il κοῦρος; (ii) contribuendo dall’altro a determinare l’oggetto intorno a cui
verte il discorso, indicato dallo stesso Parmenide (nella formula più astratta)
come τὸ ἐόν. Le «vie» e i loro problemi: natura e articolazione della ricerca
Le «uniche vie di ricerca per pensare», come abbiamo visto, sono proposte
letteralmente come: 23 Ruggiu, op. cit., p. 211. 312 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς
οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario
non essere (B2.5) ovvero, volendo risolvere le infinitive in una soggettive
esplicite (come appare più naturale): l’una che è e che non è possibile che non
sia l’altra che non è e che è necessario che non sia. La nostra preferenza per
la resa infinitiva è legata alla possibilità di rimanere più aderenti alla
costruzione greca e soprattutto di sfruttarne gioco espressivo e ambiguità. In
apparenza, l’alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) reitera – pur senza
sovrapposizione, come vedremo - lo schema oppositivo già impiegato dalla Dea
nella propria allocuzione di saluto, quando aveva sottolineato al κοῦρος
l’esigenza di «tutto» apprendere: ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν
δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia
dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità (B1.29-30). L'una -
l’altra Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni,
cariche di significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso -
B1.28 – l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo
implicito in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι), appaiono evidentemente
collegate, 313 anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una
puntuale correlazione. Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano
espressivo, nella scelta della costruzione (ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), ma
soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli enunciati, che
possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi dei versi 3 e 5, quindi: ἡ
μὲν ὅπως ἔστιν […] (B2.3a) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν […] (B2.5a) καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3b) καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). Letteralmente dovremmo tradurre,
attribuendo (come prevalentemente si fa) a ὅπως e ὡς il valore di congiunzioni
(subordinanti) dichiarative (sottintendendo, dunque «che dice» ovvero «che
pensa»): l’una [che pensa] che «è»25 […] (B2.3a) l’altra [che pensa] che «non
è» […] (B2.5a), e che «non è [possibile] non essere» (B2.3b) e che «è necessario
non essere» (B2.5b). L'alternativa più credibile a questa costruzione
dichiarativa non pare tanto quella avverbiale discussa da Mourelatos26: l’una
come è e come non sia non essere l’altra come non è e come sia necessario non
essere, 24 In modo coerente per esempio Cordero. 25 Il virgolettato vuol
sottolineare il contenuto dichiarato. 26 Op. cit., pp. 49.51. Untersteiner
rende in modo apparentemente analogo, ma in realtà con valore interrogativo:
«come una esista e che non è possibile che non esista» (p. LXXXVI). 314 quanto
quella proposta da Ferrari27, almeno per quel che concerne la resa di ὅπως e ὡς
con «secondo cui», che ben suggerisce l'idea delle diverse prospettive di
ricerca. Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato se – come è
possibile e per certi versi naturale nel contesto – B2.3b (καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι)
è reso con espressione modale; avremmo così: e che: «non è possibile non
essere» [ovvero: che non sia] (B2.3b) e che: «è necessario non essere» [ovvero:
che non sia] (B2.5b). In questo caso, sarebbe evidente come Parmenide abbia
deliberatamente costruito le «vie di ricerca» facendo leva sulle opposizioni
«è» – «non è» e «non è [possibile] non essere» - «è necessario non essere»: la
Dea – per acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι - ricorre a due
formule coordinate 28: (i) «[pensare] che A e che B» per la prima via; (ii)
«[pensare] che non-A e che non-B» per la seconda. In greco abbiamo: A = ἔστιν;
non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; non-B = χρεών ἐστι μὴ εἶναι. Nello
schema che così si delinea, da un punto di vista logico «non-B» dovrebbe corrispondere
alla negazione di «non è possibile non essere» e dunque a «è possibile non
essere», non a «è necessario non essere». In questo senso, è stato giustamente
osservato (Kahn, Mourelatos, Lloyd, Leszl) che, alla luce della posteriore
logica aristotelica, gli enunciati 2.3a e 2.5a sarebbero effettivamente
contraddittori29, mentre gli enunciati 2.3b e 2.5b (costruiti sulla opposizione
«non è possibile...»-«è necessario...») solo contrari30, e che dunque la
formulazione alternativa non sarebbe esaustiva. Eppure nell'insieme appare
chiara (Aubenque, 27 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 135 ss.. 28
Proposta da Cordero, By Being, It Is…, cit., p. 43. 29 Ammettendo, ovviamente,
l'identità di soggetto: uno necessariamente vero, l’altro necessariamente
falso. 30 Non potrebbero essere, quindi, veri entrambi, ma potrebbero essere
entrambi falsi. 315 Heitsch) l’intenzione di Parmenide di esprimersi attraverso
alternative esclusive (quindi in termini di espressioni incompatibili)31. In
questo senso la nostra scelta di rendere il testo greco con subordinate
implicite: l’una: è e non è possibile non essere l’altra: non è ed è necessario
non essere, quasi la Dea puntasse ad associare all’immediato rilievo dello
stato d’essere (ἔστιν) la forma infinitiva32 («essere»), in altre parole ad
anticipare, nel gioco verbale, i due oggetti al centro della disamina (B3, B4,
B6, B7, B8): ἐόν, τό ἐὸν, τό μὴ ἐὸν. Una volta delineata la formulazione
oppositiva delle vie d’indagine, due questioni delicate (da un punto di vista interpretativo
complessivo) si impongono: a chi o che cosa si riferiscono affermazione e
negazione (quale il loro soggetto)? Quale valore (esistenziale, copulativo,
veritativo) attribuire al verbo «essere»? È - non è Il primo interrogativo è
ovviamente suscitato dall'assenza, in greco, di un soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν:
dal momento che le principali lingue moderne richiedono che esso sia in qualche
modo esplicitato, la traduzione del testo ha sopportato svariati tentativi di
completamento: dalla scelta dell'assoluta indeterminatezza33, a quella della
forma impersonale34, dal ricorso a pronomi35 31 Si veda la discussione in
Cordero, op. cit., p. 71. 32 Heitsch rende ancora più esplicitamente questa
situazione: Der eine, (der da laPomba) «es ist, und Sein ist notwendig» Der
andere, (der da laPomba) «es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig». 33
Tipicamente Calogero. 34 Fränkel. 35 Si tratta della soluzione più frequente.
316 (it, es, on), sostantivi (l’essere36, la via37, la Verità38, il mondo
reale39, il corpo40), all'uso di intere formule sottintese - «whatever can be
thought and talked about»41 (come viene da alcuni tradotto il primo emistichio
di B6.1), «whatever we inquire into»42. Da un punto di vista filologico
l’ipotesi di una lacuna relativa al soggetto - azzardata per esempio da
Cornford43 e Loenen44, i quali propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e τι
(qualcosa) – appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio,
infatti, presentano lo stesso identico testo45 e l’operazione sul verso risponde
quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa. Parmenide, evidentemente,
ha scelto di esprimere i suoi enunciati in questo passaggio del poema senza un
soggetto esplicito. Può essere in questo senso provocatorio il suggerimento
della Wilkinson, la quale, in considerazione della naturale destinazione
recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto definito per ἔστιν
come una modalità intenzionale per esaltarne, nella ripetizione, la formula: la
sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per l’audience di Parmenide il
termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto esso stesso) fosse una
novità46. D’altra parte, l’esame del frammento consente di individuare un
soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle «vie» comporta,
infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottolinea: 36 Tipicamente
Cornford. 37 Untesteiner. 38 Verdenius. 39 Casertano. 40 Burnet. 41 Russell,
Owen. 42 Barnes. 43 F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge & Kegan
Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus, Gorgias: A
Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959. 45 Come osserva
Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le citazioni di questi
versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di un millennio. 46
Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss.. 317 οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν
- οὔτε φράσαις non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né potresti indicarlo (B2.7-8), conoscibilità ed esprimibilità – negate
a τό μὴ ἐὸν - debbano essere riferite a un ancora implicito [τὸ] ἐόν 47, come
chiarito in B6.1-2a (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι
γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν è necessario il dire e il pensare che ciò che è
è; è infatti [possibile] essere, [il] nulla, invece, non è. Se è vero, come
segnala Coxon48, che l’omissione del pronome indefinito (denotante «la cosa in
questione») come soggetto è ampiamente diffusa nell’epica e nel greco
posteriore, nel contesto dell’attuale B2, in altre parole all’esordio della
comunicazione divina, è tuttavia assai probabile che Parmenide rinunciasse
intenzionalmente al soggetto (per altro non immediatamente desumibile e quindi
difficile da sottintendere per l’ascoltatore), insistendo piuttosto sull’impatto
espressivo dell’intreccio oppositivo ἔστινοὐκ ἔστιν (con relative formule
modali), per (i) catturare progressivamente l’attenzione dell’ascoltatore e
(ii) coinvolgerne l’impegno intellettuale, lungo le due vie delineate,
nell’enucleazione della verità. Saremmo, in questo senso, in presenza di
un’ambiguità ricercata a scopo pedagogico. Se, come per lo più si conviene,
l’ordinamento DK dei frammenti della prima parte del poema è relativamente
plausibile, allora, da B2 a B8, assisteremmo a una graduale manifestazione del
47 Questo rilievo in R. Mondolfo, “Discussioni su un testo parmenideo (fr. 8.5-
6)”, «Rivista critica di storia della filosofia», 19 (1964), p. 311. Si veda
anche Coxon, op. cit., p. 177. 48 Op. cit., p. 175. 318 soggetto sottinteso49
in B2.3: dalla pura affermazione «ἔστιν» si passerebbe, in B6.1, a un soggetto
(ἐόν) sotto forma di participio ricavato dallo stesso verbo εἶναι, determinato
poi, in B.8, come vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con relative proprietà50. La
scelta espressiva di Parmenide (rinunciare a un esplicito soggetto per ἔστιν-οὐκ
ἔστιν) – che imbarazza il traduttore moderno, spesso costretto a ricorrere al
pronome neutro come mero soggetto grammaticale51 - ha l’effetto di porre in
risalto nei versi (per il lettore), ovvero nella recitazione (per
l’ascoltatore) l’assolutezza di ἔστιν (οὐκ ἔστιν) 52, una ricorrenza insistente
nel poema53. L'«impertinenza linguistica» di Parmenide54 si sarebbe concentrata
deliberatamente su una forma verbale esposta all’ambiguità, per la rottura
dello schema sintattico soggettopredicato verbale, e l’uso (di conseguenza
incondizionato) della terza persona singolare indicativa (ἔστιν). Con l’effetto
di richiamare l’attenzione sull’esperienza del reale55 implicita nel linguaggio
ordinario: l'evidenza del puro fatto d’essere56. Come verbo assoluto, senza
vincoli grammaticali e logici (soggetto, predicato), ἔστιν esprimerebbe
immediatamente lo «stato puro»57 della realtà, 49 Su questa proposta convengono
alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis, Cassin, Aubenque, Ruggiu. 50
O’Brien, op. cit., p. 164. 51 Che preannuncia il vero (reale) soggetto: Conche,
op. cit., p. 79. 52 Grazie al supporto delle formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e
χρεών ἐστι μὴ εἶναι. 53 Su questo aspetto, in particolare, Wilkinson, op. cit.,
p. 94. 54 P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical
Interpretation, Marquette University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p.
35: l’enfasi sull’«è» sorgerebbe da una certa awareness of language, e sarebbe
in realtà funzionale al rilievo delle implicazioni dell’uso pre-filosofico del
verbo «essere». 55 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 89. 56
Convincente per questo aspetto la lettura di Cordero, By Being, It Is, cit.,
pp. 61 ss.. Va per altro osservato come Parmenide coniughi il rilievo «ἔστιν»
con la formula «οὐκ ἔστι μὴ εἶναι», che certamente lo rafforza: è a partire
dalla sua assolutezza che si potrà procedere all'estrazione (B6-B8) di un
soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o εἶναι). 57 R. Di Giuseppe, Le Voyage
de Parménide, cit., p. 93. 319 presupposto in ogni affermazione58. Per questo
l’aggiunta di un pronome indefinito (qualcosa, τι in greco) tradirebbe
(attenuandola) la radicalità dell’indicazione della Dea, che potrebbe piuttosto
essere intesa come veicolo dell’originario stupore per, della primitiva
attenzione al «fatto d’essere». Nella lettura che proponiamo, infatti,
all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la Dea farebbe seguire, con una sequenza
verbale ad effetto59, οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, cioè l’estrazione e l’affermazione
(attraverso la doppia negazione) di εἶναι. Per quanto si valorizzino le
implicazioni linguistiche (come segnalato da Calogero, e da altri poi in vario
modo ribadito60), il contesto della dichiarazione della Dea rimane comunque
quello della determinazione di «vie di ricerca per pensare», nel senso di
percorsi prospettati per giungere a comprensione della realtà: Parmenide
intende dunque riferirsi in ultima analisi alla realtà sottesa a quelle
espressioni, delineata nella sua assolutezza («non è possibile non essere»).
Così, quando afferma (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· è
necessario il dire e il pensare che ciò che è è (B6.1a), ἐόν emerge come
espressione concettuale, consapevole sviluppo astratto, dell’immediato
contenuto di ἔστιν, denotando, a un tempo, la totalità degli enti (di ognuno
dei quali si dice che è «ciò 58 In questa prospettiva, è forse ancora utile
l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G. Giannantoni, "Le
due 'vie' di Parmenide", «La Parola del Passato», cit., pp. 207-221),
circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento logico e verbale
dell'affermazione» (G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze
19772, pp. 20-2). 59 L’effetto musicale in greco della sequenza verbale in ἡ μὲν
ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι non è facilmente riproducibile in
traduzione, mantenendo il valore potenziale di οὐκ ἔστι. 60 Riflessione intorno
all’uso della copula (Thanassas, op. cit., p.32; Cerri, op. cit., p. 60), alla
sua funzione «speculativa» nel rivelare il predicato essenziale di un soggetto
(la copula funzionerebbe da conveyer verso la realtà della cosa: Mourelatos,
op. cit., p. 59); riflessione sul fatto che, in greco, il linguaggio quotidiano
indica le cose come ὄντα (Cordero, op. cit., p. 60.). 320 che è», ἐόν/ὄν), ma
richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι) di quegli enti61.
[Pensare] «che è», [pensare] «che non è» La seconda questione suscitata dalla
formulazione delle «vie di ricerca […] per pensare» è relativa al valore da
attribuire al verbo «essere» negli enunciati: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere
(B2.5). L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e εἶναι risalta sia in
lettura sia all’ascolto: «è»\«non-è», «non è [possibile] nonessere»-«è
necessario non-essere». A partire da questo dato testuale è aperta la
discussione tra gli interpreti su come intendere le espressioni verbali. Nella
conclusione dell’esame precedente abbiamo posto in relazione l’affermazione di
B2.3 con il primo emistichio di B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι.
All'interno del verso, «essere» (qui nella forma epica ἔμμεναι) è riferito a un
esplicito soggetto, il participio ἐόν, con un valore che appare, naturalmente,
esistenziale (predicato verbale: «esiste»). Ora, volgendoci 62, senza
forzature, a B8, possiamo ulteriormente rilevare due passi chiaramente
significativi: 61 Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il rilievo secondo
cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente comparabile alla
espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν. 62 Seguendo l’esempio di O’Brien, op.
cit., pp. 170 ss.. 321 […] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza
nascita è ciò che è e senza morte (B8.3), οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις
εἶναι per questo non incompiuto l’essere è lecito che sia (B8.32). In questi
casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν (B8.3) e
nel participio sostantivato63 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι sono
impiegati con valore copulativo64. Più complessa la situazione di B8.5-6: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές· né un tempo era né
[un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6), dove
soggetto sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἔστιν ha un duplice ruolo: a
un tempo valore esistenziale (con l’avverbio: «è ora») e funzione copulativa65.
Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea
(B8-15-18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a «è o non è»,
il senso dell’ἔστιν in B2 si approfondisce: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ
ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. […] Il giudizio in
proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, 63
Che certamente comporta valore esistenziale. 64 In realtà per B8.3 la
situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi
diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerato,
l’essere è anche indistruttibile». 65 O’Brien, op. cit., p. 177. 322 di
lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina),
e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15-18). La via (ὁδός) che pensa che
«non-è [e che è necessario non essere]» è abbandonata, in quanto «impensabile
[e] inesprimibile», perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di
«sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovvero
«indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece «deciso»
(κέκριται) «sia\esista» (πέλειν) e «sia reale\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι).
Se in B2, nell’economia della lezione divina, è essenziale soprattutto
focalizzare l’attenzione sul valore decisivo della espressione verbale ἔστιν,
preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione
delle «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistematica
applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica esclusione della
seconda. La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la seconda lo
nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e assolutizza l’affermazione con la
negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), ovvero della possibilità del
non-essere. La seconda via assolutizza la negazione affermando la necessità del
non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima via, attraverso l’esplicito
(e incondizionato) rilievo di ἔστιν e dell’impossibilità di μὴ εἶναι, viene
implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della ricerca (ἐόν, εἶναι);
con la seconda, che nega quanto la prima afferma, viene, di conseguenza,
delineato l’oggetto alternativo, radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν,
dichiarato al v. 7 come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla
manifestazione. In B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν 323 è necessario il dire e il pensare che ciò che è è:
poiché è possibile essere, il nulla, invece, non è. con la piena esplicitazione
del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina critica. Se questa
prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione (ἔστιν)
e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute dalle relative formule modali,
possono generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due
soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa
leva in B6. La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ἐόν)
«è, esiste» fonda la propria legittimità sulla duplice premessa: (i) che
«essere» (εἶναι) «è possibile» (ἔστι); (ii) che il «nulla» (μηδέν) «non è» (οὐκ
ἔστιν). Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al
fraintendimento della portata di queste tautologie, nella contraddizione
generata dall’affermazione incrociata (ancorché solo implicita) di essere e
non-essere. Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a
proposito della deliberata opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν - οὐκ ἔστιν),
nel contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal
valore (esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo – appare insostenibile
il tentativo di attribuire τὸ ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e
B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν,
appunto, «l’essere»), l’altro fittizio, pura espressione verbale e funzione
logica (τό μὴ ἐὸν, «il non-essere», μηδέν il «nulla»), segnavia di una pista
che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare
di due «vie»: (i) una manifesta la «realtà» (Ἀληθείη) di «ciò che è
(necessariamente); (ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia
l'intervento della Dea) l'indisponibilità effettiva di «ciò che non è
(necessariamente)», che pertanto andrà sistematicamente escluso dall'orizzonte
dell'umano indagare. 324 Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si
debba attribuire la contraddizione che, invece, viene denunciata nelle
«opinioni dei mortali»: condivisibile su questo punto quanto sottolineato da
Mansfeld66. L’identificazione della seconda via con quella del mondo
dell’esperienza è errata: ricordiamo come la seconda via è ancora connotata in
B8.17-18: τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. [Si è deciso] di lasciare l’una [via] impensabile
[e] inesprimibile (poiché non è via genuina). Della via «non è» non si può
concepire un contenuto reale: essa è allora ἀνόητον, ma anche ἀνώνυμον
(letteralmente «senza nome»: non si può indicare ciò che non è in senso
assoluto). Ma sono proprio i «nomi» a caratterizzare il mondo fenomenico, come
sottolinea la stessa divinità (B8.38b.41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ
κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno
nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e
morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. A
rimanere «senza nome» è definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla,
quanto appunto espresso nella formulazione della seconda via, e designato come
τό μὴ ἐὸν. Le due enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie
di ricerca, le uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative
ma in sé incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i
quali: (i) generare le nozioni di «essere» e «non-essere»; (ii) valutare, in
relazione al coerente ri- 66 Op. cit., p. 55. 325 spetto dell’alternativa
concettuale prodottasi, la consistenza dei punti di vista umani. D’altra parte,
il motivo dell’intransitabilità della seconda via è non il suo carattere
contraddittorio - come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9)
che i «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» -
δίκρανοι), si fingono -, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò
che non è, né potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata
(con la negazione οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la via che pensa «che
non è e che è necessario non essere» è «percorso» (ἀταρπός) assolutamente privo
di contenuti, e quindi indicato come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena
consistenza dei suoi contenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per
pensare» (cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui
soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già
implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di B2, come formula
contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν. Si è detto67 che l’unico modo per
rispettare il valore oppositivo delle vie che la Dea propone è di mantenere lo
stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di
pensiero di Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia
intravedere. Attraverso l'asseverazione della tesi «è» (ὅπως ἔστιν), pura
espressione dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con la
contestuale negazione modale dell’antitesi («non è possibile non essere», ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι), la divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione
positiva di τὸ ἐὸν, che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e
necessario, il soggetto ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8:
la prima via è in questa prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς
κέλευθος). Nei versi 5-8, invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ ἔστιν)
di quell’originaria esperienza, coniugata con la relativa formula modale («è
necessario non essere», ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ
ἐὸν, marcandone subito l'in- 67 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221). 326
disponibilità facendo leva su un’ulteriore, immediata evidenza: non è «cosa
fattibile» (ἀνυστόν) conoscere e indicare «il nonessere» (τό μὴ ἐὸν). Il
percorso di Persuasione La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è
accompagnata da due rilievi. Relativamente alla via «che è e che non è
possibile non essere», la Dea osserva che: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ
- di Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) (B2.4),
marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e soggettivo, come il
viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη): essa appare,
allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica esclusione del
non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva, le formule
modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini, affinché
siano evitati gli sviamenti tipici dei «mortali che nulla sanno»: il «percorso»
(κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea della μέθοδος che
Platone introduce68, prospettando poi la filosofia (dialettica) come viaggio69.
68 In Fedone 79e: Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ Σώκρατες, ἐκ ταύτης
τῆς μεθόδου, καὶ ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν ἐστι ψυχὴ τῷ ἀεὶ
ὡσαύτως ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή Mi sembra – disse - che chiunque, Socrate, anche
il più tardo, muovendo da questa via [ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου], debba convenire
che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò che è sempre che a ciò
che non lo è. 69 Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di Repubblica (532b) è il
seguente: 327 L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è importante
perché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato, essenzialmente la
direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale del κοῦρος. In
questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della realtà autentica
(Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma l’associazione
(heideggeriana) tra ἀληθείη e disvelamento (non-nascondimento), dall’altro
accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde il rilievo
della “cognizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι δὲ λόγῳ)
e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν. La realtà (Verità) è obiettivo
del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, «si accompagna»,
ovvero «tien dietro», ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di apprendimento,
conoscenza e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella misura in cui
svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che ricerca con
intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è [possibile]
non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo più volte rilevato –
dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda via
(B2.6-8): Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς; Ebbene, non è
proprio questo itinerario che chiami dialettica? Poche righe sotto (532 d-e),
Glaucone invita Socrate a determinare la natura della dialettica: λέγε οὖν τίς ὁ
τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως, καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη διέστηκεν, καὶ τίνες
αὖ ὁδοί· αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν, αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ
ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς πορείας Devi dirci allora quale sia il modo
della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui è divisa, e quali
le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove,
pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio. 70 Mourelatos,
op. cit., p. 66. 328 τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro
essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere
ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. Si tratta
di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio
“io” (τοι φράζω, «ti dichiaro») per rivelare, della via «che non è e che è
necessario non essere», che essa è un «sentiero» (ἀταρπός, tracciato
secondario) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare
esperienza o imparare raccogliendo informazioni. Ciò-che-non-è È in questo
contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato).
Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo
omerico del viaggio71, la precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse
lasciarsi guidare dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe
propriamente incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensare «che non è e
che è necessario non essere» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida
divina può tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato
conoscitivo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν poiché non
potresti conoscere ciò che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7).
Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo
l'assunto «è e non è [possibile] non essere», 71 Mourelatos, op. cit., p. 76.
329 ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale percorso
può essere compiuto (cioè è «fattibile» - ἀνυστόν – a differenza dell'altro):
la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i criteri della via72. Dal
momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile
(«cosa fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non
è», solo la prima via, che pensa e afferma «che è e che non è possibile non
essere», che muove dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di
estrarre dall’«è» indicazioni positive e ultimative riguardo alla realtà (donde
il successivo impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati
fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a riflettere sono dunque: (i)
l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso
esse sono appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per
pensare» ne specifica la natura); (ii) la loro reciproca incompatibilità
(sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle formule modali - su
cui ancora tra breve); (iii) l’impercorribilità della seconda via: non è
possibile conoscere o indicare «ciò che non è»; (iv) la loro (conseguente)
natura ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare opposti modi
d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del necessario
non-essere73. B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per
«nonessere», probabilmente dandone per scontata l’immediata evidenza per il
lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare
le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso, l’argomentazione di
Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la
contrapposizione tra τὸ ἐὸν («essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere»)74, marcando
(a) la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere,
così da 72 Ivi., p. 78. 73 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive
Palmer, op. cit., pp. 83 ss.. 74 Leszl, op. cit., p. 105. 330 concludere
(letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero75, che
l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso
la negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico
del poema (sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν:
«è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è così proposto
contestualmente all’unico, fondamentale rilievo sul non-essere: «non è
[possibile] non essere». Due formule: «non è possibile non essere», «è
necessario non essere» Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle
due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra: non è ed è necessario non essere»(B2.5).
La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo
semplice (enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un
enunciato modale: «è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non
essere»76. Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti,
(a) e (b); la prima coppia (a): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν l’una [che pensa] che è, ἡ δ΄ ὡς
οὐκ ἔστιν l’altra [che pensa] che non è; 75 Op. cit., pp. 64-5. 76 O’Brien, op.
cit., p. 182. 331 la seconda coppia (b): τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e che non
è [possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], τε καὶ ὡς χρεών
ἐστι μὴ εἶναι e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che non
sia]. La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione
tra affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di ὅπως e
ὡς da νοῆσαι («le uniche per pensare: l’una che pensa che …, l’altra che pensa
che…») ovvero (come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’una che dice che…,
l’altra che dice che…»), non presenta particolari problemi di resa – a parte
quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore
da attribuire al verbo «essere». Nel caso della seconda coppia (secondo
emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal greco. Il greco οὐκ ἔστι
può essere predicato verbale («non esiste», «non c’è»), ovvero, come può
apparire naturale alla luce del corrispondente uso dell'espressione χρεών ἐστι
(«è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito (μὴ
εἶναι), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo
caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula modale οὐκ ἔστι come
sinonima di ἀδύνατον (impossibile), traspare allora l’intenzione parmenidea di
proporre l’alternativa in termini netti: nell’enunciare la tesi della prima via
(l’affermazione «è»), Parmenide marca, indirettamente, la sua necessità
sottolineando l’impossibilità della antitesi (la negazione «non è»). Quanto
affermato nella tesi non può essere negato, non può rovesciarsi nella antitesi:
nella argomentazione della Dea, l’affermazione è collegata strettamente alla
posizione della necessità logica e della impossibilità logica78. Resa italiana
in 77 P. Aubenque, "Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de
Parménide", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 109. 78 Ruggiu, op.
cit., p. 218. 332 questo senso più efficace potrebbe essere: «è e non è
possibile che non sia». A sua volta la formula della seconda via, οὐκ ἔστιν
(«non è»), vede accentuata la propria forza di negazione da un’espressione -
χρεών ἐστι μὴ εἶναι – che ribadisce l’intensità della antitesi («è necessario
che non sia»). L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la
loro assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità. Non si deve
tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il κοῦρος
rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione τό μὴ ἐὸν,
stigmatizzando l’impossibilità di afferrarne e determinarne la negatività (οὐ γὰρ
ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico
ἀμηχανίη - la strutturale impotenza)79. Le vie non hanno, quindi, una mera
consistenza logica, ma finiscono per enucleare due distinte nozioni
ontologiche. 79 Ivi., p. 220. 333 PENSARE ED ESSERE [B3] Il frammento (è
proprio il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei secoli il valore
di sintetica espressione dell’essenza della filosofia di Parmenide1: esito
paradossale dell’elaborazione della tradizione, dal momento che,
oggettivamente, esistono difficoltà per la sua contestualizzazione all’interno
del poema, e dunque anche per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da
parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto contesto e
cotesto delle testimonianze di Clemente2 e Plotino3, che citano il verso
parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi, quella che
appare la traduzione più naturale è stata spes- 1 Tarán, op. cit., p. 41. 2 Il
contesto di Clemente riporta: Ἀριστοφάνης ἔφη· δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν,
καὶ πρὸ τούτου ὁ Ἐλεάτης Παρμενίδης· τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί < ν > τε καὶ
εἶναι Aristofane ha detto: «il pensare ha lo stesso potere dell'agire», e prima
di lui Parmenide: [B3]. 3 Il contesto di Plotino (Enneadi V, I, 8) è il
seguente: οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν
ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο “τὸ γὰρ αὐτὸνο εῖν ἐστί τε
καὶεἶναι ” λέγων. Καὶ ἀκίνη τον δὲ λέγει τοῦτο - καίτοι προστιθεὶς τὸ νοεῖν -
σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α
ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ ὅτι τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν
ἑαυτῷ Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una opinione simile a questa,
quando riconduceva a unità essere e pensiero, e non poneva l'essere nell'ambito
delle cose sensibili, affermando: [B3]. E dice anche che è immobile, dal
momento che – avendo aggiunto il pensare – gli toglie ogni movimento corporeo,
affinché rimanga nell'identico stato, definendolo simile alla massa di una
palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare non gli è esterno ma
interno. 334 so rifiutata, a favore di altre meno immediate e più tormentate
dal punto di vista grammaticale, in quanto si è intravisto il rischio di fare
di Parmenide un neoplatonico ante litteram4. La collocazione Nel tentativo di
offrire contesto e senso al frammento si è per lo più operato in due direzioni,
che appaiono legittime: (i) ricondurlo a complemento di B2.7-8 5 e quindi
proporlo a sostegno (γάρ) dell'indicazione secondo cui il non-essere non può
essere né indicato né conosciuto6; (ii) proiettarlo verso B6.1-2 e B8.34-37,
come in particolare oggi propone Cordero7, con argomenti convincenti. B3 e B2
Nel primo caso si insiste soprattutto sulla compatibilità metrica e logica8 con
l’ultimo verso di B2: i termini coinvolti – νοεῖν e εἶναι – sono chiaramente
correlati nella prospettazione delle due vie («le uniche per pensare»), mentre
in B2.7 Parmenide utilizza l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su
cui andrebbe a vertere la seconda via: oggetto che non può essere conosciuto e
indicato. B3, dunque, non farebbe che esplicitare il nesso identita- 4 O’Brien,
op. cit., p. 19. D’altra parte il senso della citazione di Proclo (Theol. plat.
I, 66) appare indiscutibile: ταὐτόν ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ
Παρμενίδης 5 Come fanno – più o meno decisamente – Giannantoni, Ruggiu, Coxon,
Sellmer, Heitsch, Gallop, e, in passato, Calogero. Scettici Tarán, Conche,
O’Brien. 6 Ruggiu, op. cit., p. 233. Secondo Calogero (p. 19), B3 andrebbe
congiunto a B2.8, con l’aggiunta dι ὅσσα νοεῖς φάσθαι: si avrebbe così: «perché
pensare è lo stesso che dire che quello che tu pensi esiste». 7 E a suo tempo
propose Giorgio Colli. 8 Coxon (p. 180); Sellmer (p. 33); Gallop (p. 8). 335
rio tra εἶναι e νοεῖν: le relative nozioni si implicherebbero inscidibilmente9.
Questa conclusione non è in discussione: essa appare effettivamente il perno
della tesi di Parmenide anche in B6.1 e B8.34- 37, sebbene le traduzioni
possano diversamente modulare la relazione tra i due termini. In discussione è,
invece, il fatto che l’impossibilità di afferrare il nulla (B2.7-8) abbia
bisogno della dimostrazione introdotta da γάρ (B3): non è immediatamente chiaro
che nel nulla non c’è nulla da conoscere, concepire, pensare10? D’altra parte,
l’implicazione tra essere e pensare non sembra, a sua volta, aver bisogno della
mediazione di un argomento: è stato giustamente osservato come, nell’uso greco
arcaico, il verbo νοεῖν non veicolasse la possibilità di immaginare qualcosa di
non esistente, denotando fondamentalmente un atto di riconoscimento
immediato11. Concepito in analogia con la percezione sensibile, νοεῖν
comportava nell’uso che si pensasse appunto qualcosa di dato indipendentemente
dall'attività stessa del pensare, e che il rapporto con l’oggetto fosse del
tutto immediato, una sorta di contatto con esso12. È possibile che la Dea, in
B2.7, si limiti a rilevare come τό μὴ ἐὸν non possa essere conosciuto,
osservando semplicemente: οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», quasi
a richiamare un'evidenza, per cui non è necessario ulteriore argomento. A
questo corrisponderebbe il rilievo di B3, secondo cui εἶναι si identifica con
νοεῖν: leggendo in continuità i due frammenti, non dovremmo riconoscere alla
congiunzione γάρ un valore esplicativo, piuttosto intenderne nel contesto la
presenza a conferma della tesi di fondo. Dovremmo inoltre, in traduzione,
attribuire a νοεῖν non il generico significato di «pensare», ma, come suggerito
da vari interpreti, quello specifico di «conoscere» o «comprendere» («capire»13,
«Erkennen» 14, «Erfassen» 15 o ancora, più debolmente, 9 Heitsch, op. cit., p.
144. 10 Conche, op. cit., p. 87. 11 Guthrie, op. cit., pp. 17-8. 12 Leszl, op.
cit., p. 67. 13 Cerri. 336 «conceiving»16). L’uso arcaico di νοεῖν evoca
effettivamente funzioni analoghe a quelle del verbo γιγνώσκω (normalmente
tradotto con «conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo il riconoscimento,
la capacità di penetrazione intellettuale17. B3, B6.1 e B8.34-7 Anche Cordero
ammette che in B2 si stabilisca una relazione tra un oggetto (l’essere), il
pensare quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i versi B2.7-8 mirerebbero
a marcare il carattere assoluto e necessario di tale oggetto, essendo la sua
negazione impossibile. Come conseguenza, pensare e parlare non possono fare a
meno di questo oggetto18. Ma per lo studioso è rilevante la connessione con
B6.1, inteso a dimostrare la necessità di quella relazione: χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a) è necessario dire e pensare che – essendo - è 19;
e soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide attribuirebbe al pensiero una sola
causa20: il fatto d'essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. oὐ
γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a)
pensare e ciò a causa del quale c’è il pensiero sono la stessa cosa dal momento
che senza l'essere, grazie a 21 cui è espresso, 14 Heitsch. 15 Sellmer. 16
Coxon. 17 Leszl, op. cit., p. 68. 18 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83. 19
Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero. 20 Come si
vedrà, noi interpretiamo il passo in modo diverso. 21 Cordero utilizza la
versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente attestata nei manoscritti di Proclo.
337 non troverai il pensare22. Cordero osserva come nei due versi successivi si
precisi che «senza l'essere (τὸ ἐόν) […] non troverai il pensare», ciò
comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente quanto introdotto come οὕνεκεν ἔστι
νόημα («ciò a causa del quale c’è il pensiero»). Senza τὸ ἐόν, νοεῖν risulta
privo di fondamento, poiché (γάρ), come osserva Parmenide, c’è solo «l'essere»
(B8.36-7)23: οὐδ΄ ἦν γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος Né,
infatti, esiste, né esisterà altro oltre all’essere. È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ
νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν (B3) e quindi è plausibile che τε
καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli la formula più secca τε καὶ εἶναι (B3).
In forza di questo accostamento, difficile sostenere l’interpretazione
idealistica che vorrebbe l’essere dipendente dal pensiero: «senza l'essere» (ἄνευ
τοῦ ἐόντος), il pensiero non esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo
quando esprime qualcosa su ciò che è24. Da B2 a B3 Mantenendo aperte le due
prospettive e dunque collocando B3 concettualmente tra B2, B6 e B8, il
frammento andrebbe tematicamente inquadrato tra l’esclusione della concreta
possibilità di riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via
«che non è»), la conseguente affermazione della via alternativa alla precedente
(«che è»), e l’esplicitazione delle sue implicazioni per il pensiero e il
linguaggio. L’estrapolazione non consente di stabilire se B3 fosse
effettivamente parte di un argomento ovvero, come sopra abbiamo prospettato,
semplice precisazione a sostegno della tesi di B2. Certamente in B8 l’implicazione
tra pensiero 22 Come per B6.1, traduciamo il testo di Cordero. 23 Cordero, By
Being, It Is, cit., p. 85. 24 Ivi, pp. 88-9. 338 (νοεῖν, con il suo specifico
valore conoscitivo) e essere è inserita in una cornice argomentativa. Un
elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente, Plotino e Proclo
citano B3 senza collegarlo in alcun modo a B225. In altre parole, le tre fonti
del frammento vi leggono l’asserzione dell’identità di pensare (o conoscere) ed
essere, indipendentemente dalla discussione sulle «vie di ricerca»26. Plotino,
in particolare, mostra di intendere B3 chiaramente nell’orizzonte di B8,
insistendo sulla riduzione a unità di pensiero ed essere e sulla posizione
dell’essere al di fuori del campo sensibile («non poneva l’essere nell’ambito
delle cose sensibili»), e parafrasando in tal senso proprio B8. Le
ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos di Parmenide
(secondo Simplicio che riferisce in proposito la testimonianza di Alessandro di
Afrodisia) fanno tuttavia intravedere il nesso tra B2 e B3: τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν·
τὸ οὐκ ὂν οὐδέν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ciò che non è, è
nulla; dunque, l’essere è uno (Teofrasto; DK 28 A28) τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ
καὶ μοναχῶς λέγεται τὸ ὄν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ma
l’essere si dice in un solo senso, dunque l’essere è uno (Eudemo; DK 28 A28).
Nel citare i versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi contengono le
«premesse» (προτάσεις) del discorso di Parmenide: εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ καὶ αὐτοῦ
τοῦ Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι τὰς προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ
ὂν καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει ἐν ἐκείνοις
τοῖς ἔπεσιν 25 Un punto richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73. 26 Coxon, op.
cit., p. 179. 339 Se invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide stesso
queste premesse, quella che dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è nulla,
che è la stessa di quella che dice che l’essere si dice in un modo solo, le
troverà in questi versi [B2.3-8]. Significativamente Diels annota che B3 si
connette a questo: in effetti, l’espressione peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς
λέγεσθαι, che chiaramente Eudemo propone come premessa del sillogismo27,
comporta la determinazione dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν («uno secondo il
concetto»), versione aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld28, l’unità
concettuale dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione
peripatetica di B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non
introduce formalmente nella sua ricostruzione: Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ
τὸν λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι […] παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης
ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν Parmenide sembra aver inteso l’uno
secondo la forma (il concetto) […] Poiché egli ritiene che oltre l’essere non
ci sia affatto il non essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno
e null’altro (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b18, 986 b27; DK 28 A24). La
congettura adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di
B3 come assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2
attestata dalla tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come
modificazione della conclusione dell’argomento di B2, per noi solo implicita29:
solo l’essere (ciò che è) vi è allora per pensare e dire. 27 Mansfeld, op.
cit., pp. 78-9. 28 Ivi, p. 73. 29 Ivi, pp. 82-4. 340 Solo l’essere può essere
oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Parmenide avrebbe introdotto qualcosa che manca
nella enunciazione della prima premessa (la prima via) del sillogismo di B2 (la
cui conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere: «solo la prima via – che è e
che non è possibile non essere – è per pensare»). L’introduzione del soggetto τὸ
ἐόν sarebbe giustificata proprio da B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a
rilevare l’impossibilità («non è infatti cosa fattibile») di procedere lungo la
seconda via, designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare
immediatamente – come precisazione - alla conclusione formale, in cui essere e
pensiero sarebbero stati esplicitamente correlati. La Dea allora
sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di vista è una evidenza:
l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss. con una più
articolata riflessione). Essere e pensare Nella nostra traduzione abbiamo
scelto di mantenere la struttura sintattica più naturale del verso greco,
cercando, allo stesso tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di Parmenide
didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri frammenti)
risultato dell’argomento delineato in B2: (i) da un lato per marcare il nesso
tra νοεῖν e εἶναι e la sua natura intellettuale - così preparando la nota
discriminante rispetto all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine alle molte
esperienze» (B7.3); (ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul
contenuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν). Il
pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici;
un’attività in cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che –
pur considerando la possibile alternativa – per pensare e conoscere la verità
c’è una sola via da percorrere. Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3
sottolinea lo stretto rapporto tra il percorso (la sola «via di ricerca» che effettivamente
è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo impo- 341 sta
dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι). La via (o il
metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha l’essere (ovvero la
realtà) come contenuto30. Quale identità? Nel suo commento Cerri 31 ha
segnalato, nell'identificazione dei due verbi, «stranezza apparente» e
«sinteticità paradossale»: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della mente (che
viene reso come «capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto intellettivo
sarebbe dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due cose (esse
sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’ identità, invece,
l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo. Ruggiu32 sottolinea, da un lato,
l’aspetto linguistico dell’identità, la connessione immediata tra termini nel
linguaggio ordinario non considerati identici; dall’altro l’aspetto che
potremmo definire “dialettico” della relazione: l’identità è anche distinzione
e si costituisce come rapporto di reciproca implicazione. Thanassas, infine,
rileva come l’identità tra essere e pensiero non sia da intendere in senso
matematico: il testo greco con τε καὶ suggerisce un’interazione, una «mutua
connessione e reciproca referenza». Nessun pensare senza essere, nessun essere
senza pensare33. Dall’incrocio con B2, B6 e B8 abbiamo ricavato segnali
abbastanza definiti circa la relazione cui allude la sintetica formula del
frammento: (i) rilevata l’impossibilità di percorrere un corno della
disgiunzione tra le vie («è e non è possibile non essere - non è ed è
necessario non essere»), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né
indicare (φράζειν) «ciò che non è», e (ii) probabilmente integrato il rilievo
con la necessaria conclusione positiva circa la effettiva praticabilità della
via alternativa (conoscere e indicare ἐόν, «ciò che è»), la Dea (iii) estrae
quella che nella sua ot- 30 Leszl, op. cit., p. 64. 31 Op. cit., p.193. 32 Op.
cit., pp. 233 ss.. 33 Thanassas, op. cit., p. 39. 342 tica è un’evidenza
basilare, implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti,
generali, con due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare
genericamente un'operazione intellettuale, ma connotato specificamente per
veicolare un atto di riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro
degli altri due verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare
quanto si ritrova, come suo oggetto necessario, al fondo di un pensare che sia
riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere. Ma nell’identità accennata
da τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce semplicemente alla connessione tra pensare
e essere, ma soprattutto alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve
avere come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso, manifestato nel
pensiero. In apertura di una comunicazione di verità, questa osservazione è
capitale: pur prospettato (più avanti, in B8.34) come «causa del pensiero»
(Cordero), l’essere deve svolgersi completamente davanti al pensiero34, deve
essere pensabile (il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di
vista della Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che
la Dea comunica al filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri
discepoli e al pubblico di ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto35. Ancora
su pensare e essere Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo
della sua collocazione per una corretta attribuzione di significato; in
particolare, proponendolo come sentenza con cui la Dea, ellitticamente, svela
un principio fondamentale della sua rivelazione, dell’esposizione della Verità.
B3 è l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι. Abbiamo già
colto indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di
B2 e B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a
γιγνώσκειν e φράζειν, in- 34 Conche, op. cit., p. 90. 35 Ibidem 343 tendendolo
come atto di riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo individuato la forma
verbale con cui Parmenide esprime l’evidenza presupposta per ogni attività di
pensiero: quanto possiamo indicare come «essere» ovvero il fatto di esistere.
Una certa tensione sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di νοεῖν. Mentre in
apertura della propria comunicazione la Dea salda l’alternativa delle «vie di
ricerca» a νοεῖν (esse, ribadiamolo, sono «le uniche per pensare»), dunque
collegando al verbo non solo la via positiva, ma anche quella negativa - non
solo quella che avrà il proprio soggetto in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che
(non) lo trova (B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella formula sintetica del nostro
frammento il pensare sembra vincolato all’essere, addirittura si afferma che
pensare ed essere sono la stessa cosa. In che senso, allora, è possibile
sostenere la relazione tra νοεῖν e la via: «che non è»? Abbiamo già osservato
in sede di traduzione come i curatori delle edizioni dei frammenti abbiano
spesso optato per determinare νοεῖν in modo da evitare di renderlo
genericamente come «pensare»; ma non è facile aggirare la difficoltà, a meno di
non decidere di mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno specifico
(comprendere, capire) in B3. Operazione legittima ma un po’ forzata. Secondo
Leszl 36, invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν come atto puramente intellettuale
(implicitamente da contrapporre all’immediatezza del riscontro sensibile), che
coglie l’alternativa delle vie in quanto possibilità del tutto astratte. Tale
atto, tuttavia, sarebbe in ultima analisi riconducibile a un caso di
intellezione immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel riconoscimento
(intuitivo) della validità del principio del terzo escluso. In attesa di trovar
sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale carattere della facoltà indicata
come νοεῖν - la capacità di rendere presente qualcosa che può essere lontano
nello spazio e nel tempo -, possiamo provvisoriamente concludere che: 36 Op.
cit., p. 69. Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come
«quali sono le vie di ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi
attribuendo a noēsai valore passivo. 344 (i) νοεῖν è inizialmente introdotto in
relazione alle «due vie di ricerca», come loro finalizzazione («le uniche per
pensare») - evidentemente designando un atto di comprensione che dà senso
all’indagine -, ovvero, intendendo diversamente il testo greco, come loro
condizione di possibilità («le uniche da pensare\pensabili»), quindi
accentuandone il significato logico; (ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente
contrapposto ai sensi – riceve una connotazione metaempirica: le vie sono «per
pensare», non sono fatte per essere esperite percettivamente; νοεῖν è in grado
di evidenziare quanto celato o sfocato nella percezione; (iii) νοεῖν è dunque
attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, nel nostro contesto
probabilmente oltre la complessità dei dati empirici, per ridurli al loro
essenziale, al loro comune denominatore (fondamento) ontologico: nello
specifico, il fatto d’essere (condizione del pensare stesso) e la nozione
(opposta) di τό μὴ ἐὸν. In questo senso è giusto designarne la facoltà come
«penetrazione intellettuale»37. D’altra parte νοεῖν è costantemente riscontrato
su εἶναι o termini connessi: le vie sono determinate come «l’una che è (e che
non è possibile non essere)», «l’altra che non è (e che è necessario non
essere)»; l’oggetto della seconda è ulteriormente ripreso come «ciò che non è»;
attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν, νοεῖν è sovrapposto a εἶναι. All’acume e
intelligenza di sguardo del νοεῖν corrispondono dunque la profondità e
comprensione della nozione di εἶναι, che appare designare, nel contesto,
analogamente al termine Ἀληθείη, ciò che genericamente indicheremmo come «la
realtà», ciò che accomuna le cose che sono. Nell’uso quotidiano «essere» è
sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre presupposto in ogni possibile
predicazione («è»): il νοεῖν riconosce come proprio oggetto specifico e
condizione appunto questo presupposto, questa realtà. 37 Ivi, p. 68.
Conservatoci nella sua interezza dalla sola citazione di Clemente di
Alessandria, il frammento ha sempre costituito una croce per gli interpreti,
divisi sul problema della sua collocazione assoluta e relativa: incerti
riguardo alla sua appartenenza alla prima o alla seconda sezione del poema e
(ulteriormente) alla sua posizione e funzione all’interno di esse. In proposito
abbiamo due proposte estreme: (a) Diels, nella sua edizione del 1897,
presentava il nostro testo come primo frammento della prima sezione,
collocandolo subito dopo il Proemio (che in quella edizione, tuttavia,
includeva anche B7.2-6); (b) Bicknell1 e Hölscher2, al contrario, lo hanno
considerato conclusione dell’opera (collocandolo, quindi, dopo B19)3, quindi
nella seconda sezione. Possiamo considerare intermedie tutte le altre proposte,
variamente schierate, che fanno registrare convergenze su un punto da
valorizzare, anche perché potrebbe spiegare la oggettiva difficoltà degli
interpreti: il ruolo di cerniera di B4. Secondo Ruggiu, per esempio, esso
collegherebbe i contenuti propri dell’Opinione (τὰ δοκοῦντα), al tema primario
della Verità (τὸ ἐόν), marcando il radicamento del molteplice nell’Essere4. Che
cosa rende di così difficile contestualizzazione, all’interno del poema, i
versi del frammento? Che cosa contribuisce al disorientamento degli interpreti
– arrivati con Fränkel a negare piena intelligibilità a B4? Si possono
agevolmente individuare tre questioni: 1 P.J. Bicknell, “Parmenides' Refutation
of Motion and an Implication”, «Phronesis», 1, 1967, pp. 1-6. 2 U. Hölscher,
Parmenides von Wesen des Seienden. Die Fragmente, Frankfurt a.M. 1969. 3 In
questo sono stati seguiti anche da L. Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez
Parménide, Ousia, Bruxelles 1986), il quale, tuttavia, nell'ultima edizione
della sua opera (La Pensée de Parménide, Ousia, Bruxelles 2008), ha optato per
un inserimento all'interno di B8 (tra i vv. 41 e 42). 4 Op. cit., p. 245. 346
(i) il ruolo del νόος e la probabile valenza gnoseologica del frammento; (ii)
il nesso tra ἀπεόντα - παρεόντα e τὸ ἐόν (vv. 1-2) e l’ulteriore implicazione
tra gnoseologia e ontologia; (iii) i possibili riferimenti cosmogonici e
relativi obiettivi polemici (vv. 3-4). Il noos e il suo operare Per decidere
del significato del frammento è importante il contesto della citazione di
Clemente Alessandrino (V, 15): ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι αὑτοῦ ποιήματι περὶ τῆς ἐλπίδος
αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα λέγει· [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ ἐλπίζων καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι
νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ τὰ μέλλοντα. εἰ τοίνυν φαμέν τι εἶναι δίκαιον, φαμὲν δὲ
καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ ἀλήθειάν τι λέγομεν· οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς
εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι. Ma anche Parmenide, nel suo poema, alludendo
alla speranza, sostiene cose di questo genere: [citazione], in quanto anche
colui che spera, come colui che ha fede, con il pensiero vede le cose
intelligibili e quelle a venire. Se ora affermiamo che c'è qualcosa di giusto,
diciamo anche che c'è qualcosa di bello, ma anche che c'è qualcosa di vero:
nessuna di queste cose, tuttavia, mai vediamo con gli occhi, ma solo con il
pensiero. L’autore alessandrino sottolinea come quel che Parmenide afferma in
B4 alluda enigmaticamente (questo il senso del verbo αἰνίσσομαι: adombrare,
alludere per enigmi) alla ἔλπις (e alla πίστις) cristiana: il saper
rappresentare (rendere presente) il futuro da parte dell’intelligenza (νόος).
In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al νόος la capacità di rendere
presenti enti assenti e 347 lontani 5. La prospettiva appare certamente
gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente
caratterizza rispetto all’organo di senso: un «vedere» (εἴδομεν) «con il
pensiero» (τῶι νῶι) contrapposto (con l’avversativa) al vedere «con gli occhi»
(τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad accentuare l’opposizione troviamo anche l’indicazione di
oggetti specifici (τὰ νοητὰ) per l’intelligenza, diversi (significativo
l’accostamento a τὰ μέλλοντα, «le cose a venire») da quelli immediatamente
colti sensibilmente: si osserva, infatti: οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς
εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι nessuna di queste cose mai vediamo con gli occhi,
ma solo con il pensiero. Cose assenti presenti Ora, se passiamo alla citazione,
possiamo effettivamente intravedere la ragione del suo recupero da parte di
Clemente: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· Considera come cose
assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1). La Dea, che ha
la parola, invita il κοῦρος a osservare e prendere in considerazione come «cose
assenti (o lontane)» (ἀπεόντα) possano risultare «al pensiero» (νόῳ) a un tempo
«presenti (o prossime)» (παρεόντα). Precisando ulteriormente: οὐ γὰρ ἀποτμήξει
τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι non impedirai, infatti che l'essere sia connesso
all'essere (B4.2). 5 Per l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale
e convincente il contributo di C. Viola, “Aux origines de la gnoséologie:
Réflexions sur le sens du fr. IV du Poéme de Parménide », in Études sur
Parménide, cit., t. II, pp. 69-101. 348 È chiaro come la possibilità di pensare
(rappresentare) cose assenti o lontane come presenti o prossime passi
attraverso la consapevolezza dell’omogeneità di τὸ ἐόν: il νόος raccoglie e
supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze che si impongono sul piano
empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come uno sguardo altro rispetto a
quello dei sensi, in grado di superarne le discriminazioni alla luce di una
realtà che solo l’intelligenza stessa dischiude. È indicativo il fatto che
Parmenide scelga un verbo – λεῦσσω – etimologicamente legato a λευκός (nel
linguaggio omerico «chiaro», «limpido»), che porta con sé dunque l’idea di
chiarezza, luminosità, trasparenza6. Un verbo che può essere direttamente messo
in relazione con νόος (νόῳ), per assumere il valore di «chiarire con il
pensiero [l'intelligenza]». I primi due versi di B4, quindi, si prestano alla
curvatura gnoseologica che il contesto della citazione di Clemente implica,
senza tuttavia comportarne necessariamente le opposizioni; senza imporre, in
particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visioni, sensibile e
spirituale, come ha correttamente rilevato la Stemich, sottolineando come in λεῦσσε
νόῳ siano a un tempo coinvolti entrambi gli elementi 7. Possiamo inoltre
marcare come il frammento non autorizzi a retroiettare in Parmenide una teoria
dei due mondi (sensibile e intelligibile, ovvero presente e futuro), ma
semplicemente registri due distinte modalità di guardare alla realtà:
l’immediato sguardo sensibile e la più accorta considerazione
dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il risultato (che
traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due prospettive, una
soggetta a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia del poema sono
accentuate come «opinioni dei mortali» e «Verità»). È nostra convinzione (che
presuppone una complessiva interpretazione del pensiero di Parmenide) che
proprio da questo frammento possano ricavarsi preziose indicazioni riguardo
alla capacità dell’intelligenza di superare la frammentazione del dato 6 Viola,
op. cit., p. 80. 7 Stemich, op. cit., p. 178. 349 empirico, raccogliendone
pluralità e differenze nella unità e compattezza dell’Essere. L’uso del plurale
ἀπεόντα-παρεόντα, quindi del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come ἀπεόνταπαρεόντα
siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la compattezza
(nell’Essere) di tutti i suoi momenti8. Elementi che puntano in direzione della
seconda sezione del poema. I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad
associare a νόος (e νοεῖν) due distinte ma coordinate operazioni: (i) superare
i vincoli spazio-temporali “presentificando” la pluralità dispersa
(spazio-temporalmente), rappresentando presenti «cose assenti»; (ii) cogliere
la loro connessione (veicolata dal verbo ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto
che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν). La seconda operazione è propriamente
“ontologica”, nel senso che riconosce e traduce in termini di τὸ ἐόν la
molteplicità espressa nei due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα): la si
è voluta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla presenza
dell’essere9. Lo spessore gnoseologico (ed epistemologico) del passaggio
consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito,
direttamente10 o indirettamente11, è diverso dagli oggetti molteplici ai sensi
(senza tuttavia trasformarsi in una entità che neghi la molteplicità del
mondo12): li abbraccia e li raccoglie interamente, senza dislocarsi su un piano
di realtà altro. Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che
si spinge oltre l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente, senza la
sua preliminare evidenza percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha
per oggetto qualcosa che si impone 8 Ruggiu, op. cit., p. 241. 9
Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit., p. 336. 10 Se accettiamo che ἀποτμήξει
sia terza persona singolare dell’indicativo futuro, con νόος appunto soggetto
sottinteso del verbo. 11 Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente
anche Palmer e Tonelli) lo stesso verbo in seconda persona singolare futuro
indicativo medio, e la Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non
ostacolare la connessione di τὸ ἐόν. 12 Thanassas, op. cit., p. 43. 350 all’intelligenza13.
Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio: il movimento dalla
assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato nel mondo, legato
allo spazio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che verte sulle «vie di
ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), non
può sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente, attraverso quel
movimento, che porta con sé anche la potenzialità del suo errare15: la sua
conoscenza è esposta alla distorsione. È possibile che l’operare del νόος
riceva ulteriore significazione dall’accostamento a λεῦσσω, che Omero
utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e
avvenire per comprendere il presente 16. Una capacità associata alla maturità
dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei giovani, e
che nel poema potrebbe avere un riscontro nella relazione didascalica tra θεά e
κοῦρος. «…saldamente presenti» Ritornando sull’apertura di B4, è chiaro che
l’uso dell’avverbio βεϐαίως (saldamente) nel primo verso, e l’intero contenuto
del secondo contribuiscono a determinare νόος come un pensiero che conduce alla
continuità e stabilità dell’essere: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano
comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l'essere
[ciò che è] sia connesso all'essere (B4.1-2). 13 Op. cit., p. 68. 14
Couloubaritsis, op. cit., p. 340. 15 Viola, op. cit., pp. 94-5. 16
Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7. 351 Effetto dell’operare del νόος è la
solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate
spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere
(τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte,
illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di
introdurre discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν 17. Alla luce di B3,
esso aderisce completamente all’ἐόν: l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora
l’idea di stabilità, costanza, caratteristica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto),
ma suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della
verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un
modo di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e pieno di
fiducia18. Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della
affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo
in relazione B4 con B8.22-5: οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ
τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν
ἐόντος. Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει Né è divisibile, poiché è
tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò
tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Questa indicazione,
concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una presa di
posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non
implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a
una sua dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello
stesso B8, dopo i versi 22-5). Forse, accettandone le impli- 17 Viola, op.
cit., p. 100. 18 Robbiano, op. cit., p. 130. 352 cazioni cosmologiche, la
funzione di B4 potrebbe essere stata prolettica, nella introduzione del
discorso della Dea, che poi B8 avrebbe articolato e precisato. È significativo
che nella sua prima edizione del poema (1897), come abbiamo sopra ricordato,
Diels proponesse l’attuale B4 come B2, dunque all’inizio sostanzialmente della
prolusione divina. Rimane comunque l'impressione che il frammento possa aver
svolto, nell'economia dell'esposizione divina, un ufficio di raccordo, tra le
due sezioni, analogamente a B9. In alternativa, valutando soprattutto il
contesto della citazione di Clemente e la sua intenzione di marcare la
differenza tra visione percettiva e visione spirituale, e convenendo con
Coxon19 che Parmenide non sia in questo frammento interessato alla natura
dell’Essere (la cui indivisibilità sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma
alla natura del νόος come capacità intellettuale, potremmo ipotizzare il
posizionamento di B4 in relazione ai rilievi di B6 e B7 sui rischi della
«abitudine alle molte esperienze» (ἔθος πολύπειρον). L’espressione kata kosmon
e le implicazioni cosmologiche Sono comunque gli ultimi due versi (3-4) del
frammento a rappresentare il maggior cruccio per gli interpreti, soprattutto
per la determinazione del valore del greco κατὰ κόσμον e del senso della
dinamica imperniata intorno ai due participi σκιδνάμενον e συνιστάμενον, che
indicano dispersione e raccoglimento. Essi sono riferiti immediatamente a τὸ ἐόν,
della cui connessione interna (rilevata dal νόος) costituiscono una
alternativa: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ
πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον 19 Op. cit., p. 187. 353 non impedirai,
infatti, che l'essere sia connesso all'essere, né disperdendosi completamente
in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4.2-4). Parmenide si limita
a stigmatizzare la prospettiva di un moto – ordinato (conforme a un ordine) -
di disseminazione e concentrazione degli enti, quale potrebbe essere
rappresentato dalle cosmogonie ioniche, ovvero, più specificamente si riferisce
a un modello, intenzionalmente impiegando il termine κόσμος per designare
l’assetto complessivo della realtà? Il noos e il cosmo Che egli possa aver
imboccato – tra i primi - questa seconda direzione, è suggerito dai passi
paralleli - segnalati dagli editori - in Empedocle (B17.18-21; riferimento già
in Clemente) e Anassagora (B8), in cui la dimensione cosmologica è
indiscutibilmente centrale, implicando un’ontologia influenzata da Parmenide: πῦρ
καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος, Νεῖκός τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον
ἁπάντηι, καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε πλάτος τε· τὴν σὺ νόωι δέρκευ,
μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Fuoco e Acqua e Terra e l’altezza immensa dell’Aria, e
Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque, e Amore, in essi, uguale
in lunghezza e larghezza. Osservala con l’intelligenza, non restare con sguardo
stupito (Empedocle; DK 31 B17.18-21). οὐ κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ
κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε τὸ θερμὸν ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ
τοῦ θερμοῦ Nell’unico universo non si trovano separate le cose, le une dalle
altre, e non risultano tagliati a scure né il caldo dal freddo né il freddo dal
caldo (Anassagora; DK 59 B8). 354 Nel suo commento a B4, Cerri ha invece
richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale del trattato Sul cosmo per
Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più probabilmente di autore
genericamente peripatetico20), che contiene passaggi che sembrano
effettivamente riecheggiare i versi parmenidei: Πολλάκις μὲν ἔμοιγε θεῖόν τι καὶ
δαιμόνιον ὄντως χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι, μάλιστα δὲ ἐν οἷς
μόνη διαραμένη πρὸς τὴν τῶν ὄντων θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν αὐτοῖς ἀλήθειαν,
καὶ τῶν ἄλλων ταύτης ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν
οὐδ’ αὑτὴν τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα
πρέπουσαν ἐνόμισεν εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ
σώματι εἰς τὸν οὐράνιον ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα τὸν ἱερὸν ἐκεῖνον
χῶρον κατοπτεῦσαι, καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ γοῦν ψυχὴ διὰ
φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν τινα ὁδὸν
εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ συνεφόρησε, ῥᾳδίως,
οἶμαι, τὰ συγγενῆ γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα καταλαβομένη, τοῖς
τε ἀνθρώποις προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως
μεταδοῦναι βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων Ho più volte pensato che la
filosofia sia cosa veramente divina e sovrumana, o Alessandro, e soprattutto in
quell'aspetto per cui essa, da sola, innalzandosi alla contemplazione dei
componenti della realtà nella loro totalità, si è impegnata a conoscere la
verità che è in essi. E, mentre tutte le altre scienze si tennero lontane da
questa verità a motivo della sua altezza e grandezza, la filosofia non temette
l'impresa e non si reputò indegna delle cose 20 Rivendica la paternità
aristotelica dell’opera G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo per
Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996. 355 più
belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose fosse in sommo grado
congenere alla propria natura e massimamente conveniente. Infatti, poiché non
era possibile col corpo raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e
contemplare quelle sacre regioni, come follemente tentarono gli Aloadi,
l'anima, mediante la filosofia, preso l'intelletto come conduttore, varcò il
confine e abbandonò l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una via che
non stanca. E le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel
pensiero, con facilità, credo, perché riconobbe le cose che le sono congeneri e
con il divino occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli
uomini. E questo le accadde perché desiderava, nella misura in cui era
possibile, far partecipi senza restrizione tutti gli uomini dei suoi tesori21.
Quello che risulta interessante - in chiave eleatica – è, nei versi empedoclei
e nelle righe peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος,
διάνοια) e la dimensione del tutto - le quattro radici in Empedocle, il
riferimento agli elementi della totalità nello pseudo-Aristotele; nel frammento
anassagoreo, invece, l’uso di κόσμος nel senso evidentemente di universo,
complesso del mondo (e non genericamente di ordine), come rivelato dal
riferimento ai tradizionali contrari cosmogonici «caldo-freddo», unitamente
alla negazione della separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso
Empedocle (DK 31 B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον («in un
unico mondo») nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici
dell’alternanza ciclica di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον
τόνδε), il termine è presente in senso già prossimo al valore cosmico, per
indicare cioè l’ordine delle cose. L’espressione del pensatore agrigentino
«osservala con l'intelligenza» (τὴν σὺ νόωι δέρκευ) sembra effettivamente
ricalcare il parmenideo λεῦσσε νόῳ, così come la pseudo-aristotelica «le cose
più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero» (τὰ πλεῖστον
ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ 21 Ivi, p. 175. 356 συνεφόρησε)
richiama complessivamente B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως).
L’impressione è che i versi del Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose
lontane e vicine, assenti e presenti, allo sguardo del νόος, fossero
chiaramente significativi in prospettiva cosmologica già nel V secolo
(Empedocle, Anassagora), a ridosso della sua composizione: forse perché estrapolati
dalla sezione cosmologica del poema, forse perché in quel senso andava inteso
l’insieme dell’impegno parmenideo (come si evincerebbe in particolare dalla
ripresa peripatetica, che risente tuttavia della lezione aristotelica). La
possibile (probabile) implicazione cosmica, l’accenno alla dinamica di
concentrazione-dispersione (eco plausibile della cosmogonia di Anassimene), e,
in relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della funzione omogeneizzante del νόος
potrebbero suggerire ancora una posizione introduttiva del frammento rispetto
alla revisione cosmologica proposta dall’Eleate (sulla scorta della lezione di
B8): premessa, dunque, alla vera e propria esposizione fisicocosmologica della
seconda sezione. Disperdendosi, concentrandosi I versi 3-4 alludono a qualche
specifico precedente cosmologico-cosmogonico, ovvero dobbiamo pensare a un
riferimento generico? Gli interpreti sono divisi anche su questo punto:
qualcuno, come Coxon22, vi coglie una polemica nei confronti della teoria di
una sostanza prima soggetta a condensazione e rarefazione (Anassimene23, pur
non escludendo il coinvolgimento polemico di Eraclito DK 22 B9124); altri, come
Guthrie25, ritengono Parmenide 22 Op. cit., p. 189. 23 Su questo concordano
Reinhardt, Gigon, Albertelli. 24 Il frammento recita: ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι
δὶς τῶι αὐτῶι καθ’ Ἡράκλειτον οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν < τῆς
αὐτῆς >· ἀλλ’ ὀξύτητι καὶ τάχει μεταβολῆς σκίδνησι καὶ 357 alluda a Eraclito
(B91)26; altri ancora, come Conche27, valorizzando l’intenzione ontologica del
frammento, dubitano che possa riferirsi a fenomeni di
condensazione-rarefazione, giudicando tale lettura “obiettivista”, superficiale
e banale. In realtà, se si prende sul serio l’interesse cosmologico del poema
di Parmenide, pare corretto individuarne un obiettivo polemico, da cui il
filosofo avrebbe preso le distanze: nella logica dell’opera si potrebbe
ipotizzare che la riflessione più strettamente ontologica offra gli strumenti
concettuali per contestare alternativi modelli esplicativi della natura e
fondare una più consapevole e coerente teoria fisica. Schematicamente
convincente la lezione di Graham28, il quale, ammiccando a Thomas Kuhn,
individua tre “paradigmi” scientifici, successivamente attivi tra VI e V secolo
a.C.: (i) quello con cui originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις)
degli enti, il loro principio (ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni
naturali, indicato come Generating Substance Theory (GST); (ii) quello che
avrebbe, secondo l’autore, radici nella seconda parte del poema parmenideo e
sarebbe poi stato sviluppato, più o meno coerentemente, dai pensatori
tradizionalmente designati come “pluralisti” (Empedocle, Anassagora, atomisti),
definito come Elemental Substance Theory (EST); πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ
πάλιν οὐδ’ ὕστερον, ἀλλ’ ἅμα συνίσταται καὶ ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι
Non è possibile scendere due volte nello stesso fiume, secondo Eraclito, né si
può toccare due volte una sostanza mortale nell'identico stato; ma, per lo
slancio e la velocità del mutamento, si disperde e di nuovo si raccoglie
(piuttosto, non di nuovo né dopo, ma a un tempo si riunisce e si separa), viene
e va. 25 Op. cit., p. 32. 26 Su questo concordano Diels, Nestle, Cornford,
Vlastos, Calogero, Mondolfo. 27 Op. cit., p. 94. 28 D.W. Graham, Explaining the
Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University
Press, Princeton and Oxford 2006. 358 (iii) quello espresso pienamente nei frammenti
di Diogene di Apollonia, riconosciuto come Material Monism (MM). Il primo
corrisponde al programma scientifico ionico, così riassunto per punti29: a)
esiste una sostanza originaria da cui tutto il resto è sorto; b) esiste un
processo per cui gli elementi costitutivi del cosmo scaturiscono dalla sostanza
originaria; c) tali elementi si dispongono negli strati materiali del cosmo; d)
le strutture e i materiali del cosmo si stabilizzano nell’ordine che
conosciamo; e) emergono gli esseri viventi; f) un’ampia varietà di fenomeni è
spiegabile secondo il modello. Rispetto a questo paradigma (modulato da
Anassimene nel senso di una vera e propria teoria del mutamento30), Eraclito
(cui è dedicata da Graham un’analisi convincente31) avrebbe abbandonato l’idea di
primato della «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo
universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra,
acqua). È alla luce di questi precedenti, in particolare dell’impatto della
lezione di Eraclito32, che Graham interpreta l’ontologia di Parmenide. La prima
parte del Περὶ φύσεως metterebbe in campo tutti gli strumenti concettuali per
negare il divenire come generazione dal non-essere e affermare una concezione
di «ciò che è» che l’autore ritiene compatibile con il pluralismo di sostanze
ingenerate, incorruttibili, omogenee, immutabili e complete (Graham parla di
Eleatic Substantialism): la seconda sezione (Doxa) avrebbe quindi proposto una
cosmologia basata sulle proprietà focalizzate nella Aletheia, coerente con i
principi della metafisica di Parmenide33. Lasciando per il momento in sospeso
altre valutazioni, la collocazione della riflessione dell’Eleate proposta da
Graham appare 29 Ivi, pp. 8-9. 30 Ivi, pp. 45-84. La rivalutazione del
contributo del “terzo” milesio è uno degli aspetti più interessanti dell’opera.
31 Ivi, pp. 113-147. 32 Ivi, pp. 148-162. 33 Ivi, pp. 182-5. 359 sensata e
potrebbe aiutare a leggere correttamente anche il nostro frammento. Da un lato,
infatti, i versi attestano un ruolo del νόος chiaramente inteso a ricondurre
gli ἀπεόντα alla presenza di τὸ ἐόν, negando quindi lo spazio del non-essere
potenzialmente implicito nel movimento assenza-presenza; dall’altro anticipano
(ovvero sottintendono) i rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere, per
rifiutare quelle proposte esplicative che sembravano comportare, di fatto,
accanto all’essere del principio\natura, l’implicita ammissione del non-essere.
Anassimene (DK 13 B1), in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco,
avrebbe sostenuto: τὸ γὰρ συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί
φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν καὶ τὸ χ α λ α ρ ὸ ν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι)
θερμόν [Anassimene] dice infatti che la parte dell’aria che si contrae e si
condensa è fredda, mentre la parte che è dilatata e “allentata” (è proprio
questa l'espressione che usa) è calda […] (DK 13 B1). Eraclito, a sua volta:
σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει [...] καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι […] si disperde e di
nuovo si raccoglie […] viene e va (DK 22 B91). Il frammento di Parmenide – un
breve passaggio nelle centinaia di versi complessivi del poema – potrebbe
dunque essere risultanza di una più o meno esplicita evocazione dei precedenti
ionici, per marcare l'originalità del contributo eleatico soprattutto in
termini di coerenza – come attesterebbe l’insistenza sul νόος e sul suo operare
- con i presupposti taciti nella stessa concezione della realtà della φύσις- ἀρχή
ionica. Proprio questa possibile funzione critica farebbe di B4 una sorta di
passe-partout per il poema: 360 (i) come controparte gnoseologica
dell’argomentazione di B8 e dunque degli effetti paradossali di una coerente
riflessione ontologica rispetto ai dati del senso comune; (ii) come trait
d'union tra la sezione ontologica e quella cosmologica, a sottolinearne la
continuità, cioè nell’ambito di una positiva interpretazione della φύσις sulla
scorta della Verità, come vuole Ruggiu34. 34 Op. cit., p. 251. 361
UN’ESPOSIZIONE CIRCOLARE [B5] Il breve frammento ci è conservato in una
citazione di Proclo, che lo connette a B8.25 (ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, «ciò che è
si stringe infatti a ciò che è») e B8.44 (μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ, «a partire
dal centro ovunque di ugual consistenza»), riferendolo dunque all’Essere. In
realtà, come spesso è stato riconosciuto, è difficile sfuggire all’impressione
di una decontestualizzazione disorientante. Se l’indicazione di Proclo può
suggerire un suo significato ontologico, in linea, per altro, con la relazione
tra νοεῖν e εἶναι che emerge da B3 e la dinamica ἀπεόντα-παρεόντα-τὸ ἐόν di B4,
è forte tuttavia tra gli interpreti l’opzione metodologica, che appare in
qualche lettura particolarmente convincente1. Anche nel caso di B5, la
questione del suo significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove
prevalga il rilievo del suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere
mantenuta2. Laddove, al contrario, sia privilegiato il senso metodologico del
frammento, il suo posizionamento nell’attuale ordinamento del materiale
andrebbe rivisto (come fanno, tra gli altri, Pasquinelli e Coxon), a ridosso di
B1 e prima di B2, come preliminare della esposizione divina. Registrata la
ricorrenza dell’immagine del cerchio all’interno delle citazioni del poema - la
verità «ben rotonda» (B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος
(«massa di ben rotonda palla», B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς
Ἀληθείης (B8.51); il concetto di «limite estremo» (πεῖρας πύματον, B8.42) –
appare comunque forzata la conclusione di Ruggiu3, secondo cui B5 esporrebbe la
forma nella quale l’Essere esprime la propria natura. Soprattutto se teniamo
conto della possibilità che il materiale conservato rappresenti solo una quota
minoritaria dei versi del poema integrale. Nell’ambito della comunicazione
della Dea, invece, il passo potrebbe essere inteso e marcare lo scarto tra 1 È
il caso dell’analisi di Coxon e di quella di Conche. 2 Ovvero, ipotizzando una
(improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo
inserimento tra i due riferimenti di Proclo. 3 Op. cit., p. 253. 362 sapere
divino e sapere umano: la necessità di un ordine espositivo rivolto al κοῦρος e
la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo propone. Conche4 ha
giustamente messo in relazione il frammento con il programma di insegnamento
annunciato dalla Dea: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι È necessario che tutto tu
apprenda (B1.28). La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un
sapere compiuto: i limiti dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia
acquisito tutto in una volta. È necessario un ordine, corrispondente alle tappe
di una ricerca, modalità tipicamente umana di accedere alla conoscenza. Il
percorso, la via da seguire (affermazione di una via ed esclusione di un’altra,
ecc.) rappresentano un escamotage didattico che ha senso solo per il discepolo,
non per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di esposizione sono
indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής («ben
rotonda»), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del
frammento5, rafforzata dal possibile accostamento a Eraclito (DK 22 B1036 ) e
dall’eco nel Sofista platonico (237a7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di
circolarità della ricerca scientifica e del discorso che la espone8. 4 Op.
cit., p. 98. 5 Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo
coinvolgimento all’interno di una (in vero implausibile) specifica
argomentazione geometrica. 6 Il frammento recita: ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ
κύκλου περιφερείας Comune è, in effetti, nella circonferenza del cerchio il
principio e la fine. 7 Il passo è il seguente: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι
τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ
παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους 363 In ogni caso, alla luce
della successiva trattazione dell’Essere e del mondo della natura, sembra
difficile poter insistere su tale circolarità, come ha opportunamente segnalato
Coxon9: nel primo caso, infatti, lo sviluppo argomentativo procede in una
direzione lineare; nel secondo l’esposizione delle «opinioni dei mortali»
doveva diffondersi sul piano storico-descrittivo. Né è plausibile che la
circolarità indifferente possa riferirsi al complesso delle due esposizioni,
dipendendo la comprensione della seconda dalle analisi della prima10.
Indifferente e circolare, invece, potrebbe essere considerata la discussione
delle possibili vie di ricerca, non necessariamente legata a un ordine di
sequenza e in questo senso indifferente rispetto all’argomento da articolare.
Come segnala Coxon11, la circolarità di quella preliminare discussione sarebbe
contrapposta alla linearità degli argomenti sviluppati lungo la via imboccata
verso la Verità (B8). Una variante interessante è quella avanzata da
Bicknell12, che abbiamo registrato nelle annotazioni alla traduzione:
intendendo ξυνὸν come a basic point, B5 potrebbe essere immediatamente
anteposto alla κρίσις di B2, per marcare come a essa l’argomentazione della Dea
avrebbe dovuto ripetutamente richiamarsi. τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε
λέγων καὶ μετὰ μέτρων [DK 28 B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che sia
ciò che non è: il falso, in effetti, non potrebbe generarsi in altro modo. Il
grande Parmenide, invece, ragazzo mio, a noi che eravamo ragazzini proprio
contro questo discorso testimoniava dall'inizio alla fine, in prosa e in versi,
che [citazione B7.1-2]. 8 Cerri, op. cit., p. 202. 9 Op. cit., pp. 171-2. 10 In
questo senso non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici, p. 396)
sulla presunta comunanza di tutti i punti del discorso della Dea. 11 Op. cit.,
pp. 171-2. 12 P.J. Bicknell, “Parmenides, DK 28 B5”, cit., pp. 9-11. 364 ESSERE
E NULLA [B6] Il frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di
Simplicio (quindi, come osserva Cordero1, ricomparso a un millennio dalla
stesura del poema), è dallo stesso commentatore per un verso direttamente
connesso a B22, per altro proiettato su B7 e B8: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ
συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9]
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Sostiene che le
proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la
contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono
insieme gli opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione
B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro
che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9]
e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2],
soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2). È dunque
introduttivamente importante, per una valutazione del senso e della posizione
del testo, ricordare che la citazione di Simplicio è intesa a confermare l’uso
condizionante del principio di contraddizione3 (donde l’accostamento a B2) come
premessa 1 By Being, It Is, cit., p. 90. 2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo
aver citato B2.3-8. 3 In questo senso Simplicio ne confermava l’implicita
attribuzione a Parmenide da parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35):
365 che lo stesso Simplicio salda esplicitamente all’argomento ontologico
successivo (B8). In effetti, il primo verso e il primo emistichio del secondo
sono richiamati dal commentatore, in altro contesto, proprio per marcare il
nesso tra pensiero ed essere: ἀλλὰ καὶ τὸ πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον
τὸν τοῦ ὄντος ὁ Παρμενίδης φησὶν ἐν τούτοις [B6.1-2a]. εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ
ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι, πάντων εἷς ἔσται λόγος ὁ τοῦ ὄντος Ma che la nozione di
tutte le cose sia una e la stessa, quella dell'essere, Parmenide sostiene in
questi versi: [B6.1-2a] Se proprio l'essere è ciò di cui è possibile dire e
pensare, di tutte le cose vi sarà una sola nozione, quella dell'essere (In
Aristotelis Physicam 86, 25-30). Per la sua discussa interpretazione è corretto
e inevitabile rinviare al complesso B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che
gli attuali B4 e B5 siano fuori posto (in particolare che B5 possa precedere
immediatamente B2 e B4 trovarsi a cavaliere tra prima e seconda sezione). È
possibile, infatti, intravedere nei versi e nel contesto della citazione la
centralità del riferimento critico a τό μὴ ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι
(τοῦτο γὰρ αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν
ἡ θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν κατὰ μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν,
εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως
τοῦτο δρῶντες· μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος
Così, in quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in
quanto sono (l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui
che indaga l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi].
Perciò, nessuno di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di
dire qualcosa di essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico.
Ne parlarono, tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di
essere gli unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere. 366 ἐὸν
(Simplicio: τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2,
che evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella
parte mancante del primo logos della Dea. Come rivela l’ampio dibattito intorno
alla traduzione del testo greco e alla sua intellezione, il frammento è
decisivo per determinare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»;
(ii) il numero di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea. In
particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di
contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali
che nulla sanno»), δίκρανοι («uomini a due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere
scriteriate»), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci,
trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale
(come abbiamo segnalato in nota): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9). La natura delle vie Il
primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire
nell’insieme un asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato
dal ricorso all’indicatore di premessa γάρ), introducono il primo problema
interpretativo: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄
οὐκ ἔστιν che può rendersi letteralmente come: 367 È necessario il dire e il
pensare che ciò che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è
possibile infatti essere], il nulla, invece, non è». La nostra traduzione4
ricava due formule modali («è necessario», «è possibile») dal testo greco, che
appare invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: ἐὸν ἔμμεναι
(letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»), ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere
letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»), μηδὲν οὐκ ἔστιν
(letteralmente: «ni-ente non è»). L’essere dell’ente Il primo emistichio è
costituito da tre blocchi testuali: (i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo
reso come «è necessario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un
passaggio significativo della propria comunicazione, proposto come conclusione
di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ); (ii) le due forme
verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedute da τό, con valore di articolo
sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»), ovvero, come
crede qualcuno, di dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare
questo: ….»); in ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due
verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivelazione: νοεῖν
richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι), mentre λέγειν può collegarsi a
φράζω (B2.6-8); (iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio
presente del verbo «essere» (ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovvero «ente»
o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e dall’infinito dello stesso
verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che 4 Per le costruzioni e traduzioni
alternative rinviamo alle note testuali al frammento. 368 abbiamo reso, come appare
naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da λέγειν e νοεῖν:
si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo
essere) della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in
negativo: da una lato l’«ente» di cui si afferma l’essere, dall’altro il
«ni-ente» di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la traduzione proposta
appare plausibile, ed evidenzia la difficoltà di interpretazione dell’ultimo
blocco: la scelta di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità
semantica della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per marcare
l’identità di soggetto e verbo. L’effetto ricercato potrebbe essere quello – su
cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di Beaufret 5 e Conche 6 - di
richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere di ciò che
è; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza.
È da tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come: οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· poiché non potresti
conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo.
B6 si apre appunto sostituendo all’espressione negativa τό μὴ ἐὸν di B2.7 il
positivo ἐόν; al rilievo dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere)
«ciò che non è», quello della necessità di dire e pensare l’«essere» dell’ἐόν.
Nel passaggio interviene l’importante novità dell’introduzione del soggetto di
εἶναι (ἔμμεναι), ἐόν appunto: l’affermazione «è e non è possibile non essere»
(B2.3: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς
κέλευθος, «percorso di Persuasione», trova in B6.1a ἐόν come proprio naturale
soggetto di referimento. Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come
formula concettuale scaturita dalla riflessione sull'espressione della prima
via di 5 Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81. 6 Op.
cit., p. 102. 369 ricerca per pensare7: formula che manifesta l’essere di ciò
di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula sintetica riassumente la totalità
delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda Thanassas8, è
frequente l’uso del plurale ἐόντα nella sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν
focalizza il fatto d’essere: ciò che è, l’ente, la “cosa”, «è», esiste. Siamo
portati decisamente a credere che, nel contesto, il valore di ἔμμεναι sia
esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente con «essere». L’uso dell’iniziale
χρή – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità logica –
è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν,
integrata dal rilievo di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa
cosa, infatti, è pensare ed essere. Delle «due vie di ricerca» di B2 – le
uniche «per pensare» - quella che pensava che «non è» è di fatto indisponibile,
perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è conoscibile né
esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra νοεῖν e εἶναι,
tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale oggetto possibile (εἶναι)
alla luce dell’iniziale alternativa tra le vie. Nell’apertura di B6, ai due
infiniti (λέγειν e νοεῖν) viene esplicitamente attribuito un oggetto: la
dichiarativa ἐὸν ἔμμεναι («ciò che è è»). La Dea non si limita in questo modo a
riprendere ed esplicitare la propria tesi: sottolinea anche come pensiero e
discorso debbano correttamente ammetterla9. A tale scopo, in B6.1b-2a, ella
reitera nella sostanza le risultanze di B2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
essere, infatti, è possibile, 7 Thanassas, op. cit. p. 45. 8 Ivi, p. 44.
B4.1-2, B8.25, B8.47-8. 9 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il
carattere di necessità logica che Cordero attribuisce a χρή. 370 il nulla,
invece, non è. La formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di
affermazione e proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»: ὅπως ἔστιν
τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta,
ribadisce l'assolutezza della seconda via: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ
εἶναι, attribuendo coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico. La
traduzione dei due emistichi e la loro interpretazione sono comunque
particolarmente controverse. Essere, non-essere Traducendo letteralmente: ἔστι
γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν abbiamo almeno tre possibili costruzioni e
relative plausibili soluzioni: (i) intendere il precedente ἐὸν come soggetto
del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il
nulla, invece, non è; (ii) intendere ἐὸν come soggetto di entrambi, con μηδὲν
predicato (come εἶναι): poiché [ovvero: infatti] è essere, e non è nulla; 371
(iii) intendere εἶναι come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo:
poiché [ovvero: infatti] l'essere è, il nulla, invece, non è. Nell'ultimo caso,
esplicitamente ritroveremmo la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι, accompagnata dai due
soggetti logici (il primo εἶναι, il secondo μηδέν) che la trasformano in una
duplice asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta della
versione più naturale10, ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragione
dell’uso di γάρ. Seguendo una affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι),
esso dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la
doppia tautologia (si tratta dell’aspetto che rende più perplessi) sembra
semplicemente riformulare la dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in
sostituzione di ἐόν), negando l’essere al soggetto contrario («[il] ni-ente»).
La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente, marcando la non esistenza
del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora che essere «ciò
che è», perché solo «ciò che è [l’essere] è [esiste]». Il vantaggio di questa
soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle due vie di
B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è riformulata in
termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità, in questo senso
proposte come le uniche vie di ricerca per pensare11, una delle quali
(sviluppare coerentemente la premessa «che è») feconda, l’altra (sviluppare
coerentemente la premessa «che non è») assolutamente improduttiva. Questo
spiegherebbe il tono del discorso della Dea, che cambia e si fa sprezzante solo
quando denuncia la confusione dei βροτοί che incrociano le due vie: come fa
osservare Giorgio 10 Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal fatto che due
codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι. 11 In questo senso la lettura
della Germani, op. cit., p. 191. 372 Colli12, la via enunciata in B2.5 non era
stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece con quella
formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non si
allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto
dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poiché è
essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere di «ciò che
è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del
"ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea
otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è
«nulla». È necessario, è possibile, non è possibile Un’interessante soluzione
alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da O’Brien: essa,
rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni
modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν): Il faut
dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être, il n’est pas
possible que ce qui n’est rien. Poiché è possibile essere ed è impossibile che
il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno
riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come ricorda l’autore13,
infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e μηδέν: il
primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è
principalmente legata alla lingua greca, in cui ἔστι assume valore potenziale
in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo
emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12 Gorgia
e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti,
Adelphi, Milano 2003, p. 175. 13 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I,
p. 214. 373 non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
< εἶναι >). Anche Mansfeld14 opta per una (diversa15) resa potenziale in
entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo
ininfluente la traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto
di fare). Parmenide potrebbe dunque aver derivato, dall’affermazione della
possibilità dell’essere e dalla negazione del nulla, la necessità che l'essere
sia16. Resta comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17, per cui,
attribuendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la
simmetria e soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo. Le due vie di B2
in B6 In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in
B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento
dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di
B2.7), teorico contenuto della via di ricerca «non è ed è necessario non
essere», esista. In pratica ci troviamo di fronte a una riproposizione in
positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie
di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ ἔστιν
si sostituiscono le espressioni tautologiche – ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν
οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dunque, di adeguati soggetti logici. 14 Op.
cit., p. 90. 15 Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts
hingegen kann nicht sein». 16 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha
osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι) sia l'enunciazione
della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe,
secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa
lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una congiunzione
delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la necessità che il nulla
non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe a sua volta
necessità. 17 Op. cit., p. 133. 374 In B2 la Dea aveva prospettato due
potenziali percorsi di indagine – gli unici «per pensare»: (i) l'uno, ricercava
pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica sviluppando le
implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando possibilità al
non-essere: valorizzando il significato arcaico di νοεῖν (come un vedere che
coglie immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere che lungo
questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi assolutamente
sull'essere; (ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca imboccando la
direzione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι,
nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione «non è» rinforzata dal
vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via di ricerca per pensare»
tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale
direzione non vi era «ni-ente» (μηδὲν) da vedere e riferire. La seconda via
poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e
sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso
originario di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva
immediatamente connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace
di condurre alla vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento
in merito era giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della
via alternativa, ella aveva ammonito che τό μὴ ἐὸν è indisponibile
all’effettiva conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto
l'oggetto della seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In
B6.1-2a, abbiamo l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: χρὴ τὸ
λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati
delle formule delle vie: «ciò che è è» (ovvero «l'essere è») e «il nulla
[ovvero, letteralmente: ni-ente] non è». A questa lettura – che ha conseguenze,
come vedremo, sull'interpretazione dell’intero frammento - si contrappone in
particolare 375 quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel
complesso 6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima via18: «il
nulla non esiste» di B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è
possibile non essere», riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si
è orientato di recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la
Dea alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di
essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo,
come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα «che esistano cose che non sono»). La
struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario»
riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la compiuta, esplicita
espressione della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte
la possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto
questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la
seconda via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di informazioni»
(παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e
indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν,
come elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità
dell'opposto ἐὸν ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la
riconsiderazione critica (argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος («percorso di
Verità»), inizialmente introdotto in forma direttiva, sia la definizione
ufficiale del suo oggetto: ἐόν. Il numero delle vie È indicativa la formula
utilizzata per valorizzare l’argomento proposto in apertura di B6: la Dea,
infatti, con espressione caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste:
18 By Being, It Is, cit., p. 99. 19 Ivi, p. 105. 20 Parmenides &
Presocratic Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque
un'interpretazione diversa delle vie. 376 τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα Queste cose
io ti esorto a considerare, che sembra richiamare l’invito iniziale di B2: εἰ
δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura
della parola, una volta ascoltata. Come in quel caso, la Dea sottolinea il
rilievo dell’alternativa tra le due vie per la corretta comprensione della
realtà: il fraintendimento della loro natura, in effetti, è all’origine della
confusione dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve. Analogamente,
dopo aver presentato la via « è ed è necessario non essere», la Dea si premura
di osservare (B2.6): τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Questa ti
dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni; in B6.3, allora, ella
ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece non è»):
πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω > Da questa prima via di
ricerca, infatti, ti < tengo lontano >. Questa versione del testo greco,
con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da Diels (sulla base di una
tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata vigorosamente
avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas21 (e dalla Curd22), i quali
propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω-ἄρχομαι (forma
media), «cominciare»: 21 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of Inquiry”,
«Deucalion», 33-34, 1981, pp. 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota al testo
greco. 377 πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > since you
< will begin > with this first way of investigation, πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ
ταύτης διζήσιος << ἄρξω > For, first, < I will begin > for you
from this way of inquiry. L’esigenza di mettere in discussione la lezione
tradizionale, sebbene giustificata da un punto di vista filologico dalla
oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con l’ulteriore possibilità che
la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla incoerenza cui
si va incontro interpretando i primi due versi del frammento come ripresa della
sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui, ovviamente la Dea
non potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano»23, bensì solo «cominciare» o
invitare a cominciare. Pur segnalando la lacuna e riconoscendo la coerenza
degli argomenti filologici di Cordero, non crediamo necessario integrare
secondo la sua lezione 24, ma offrirla solo come possibilità. L’interpretazione
che proponiamo è coerente con la lettura tradizionale, dal momento che consente
di riferire il complemento iniziale e il dimostrativo ταύτης alla formula μηδὲν
δ΄ οὐκ ἔστιν. Essa evocava l'unica indicazione desumibile dalla via di indagine
«che non è e che è necessario non essere»: l'oggetto che se ne può estrarre in
verità non esiste. È probabile che dopo l'enunciazione delle due vie la Dea
avesse condotto la discussione a partire dalla seconda, mettendo in guardia dal
suo coinvolgimento: B6 e B7 rappresenterebbero la conclusione di tale disamina,
mirata ad affermare la necessità del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo
23 Noto, per inciso che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione
τ’ dei codici BC a quella σ’ (pronome personale) di D (con E e F), di cui si
era sottolineata, per la lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con
il personale «ti», l’integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso
di Cordero, meno naturale nel caso di Nehamas («comincerò per te»). 24 Che
appare comunque plausibile, dal momento che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è
caratteristica nella letteratura greca arcaica. 378 senso, la seconda via
prospetta diventa «prima» nell’ordine espositivo. Da questa prima via di
ricerca, poi da quella…. Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva
su B2 per sostenere un modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una
difficoltà, che la soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra
risolvere, indicando una sequenza nell’esposizione della Dea. Adottando la
congettura di Cordero avremmo: πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει
> αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > con
questa prima via di ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla
sanno s’inventano. Una sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del
poema, e richiamare B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e
introduzione alla Doxa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης ·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo
punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla
Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie
parole ascoltando, che può ingannare. 379 Nella tradizione interpretativa, è
stata decisiva (come per altri aspetti) la presa di posizione di Karl
Reinhardt25, il quale, dal confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di tre
vie: (i) quella che affermerebbe «l'essere è» (ricavata da B2); (ii) quella che
affermerebbe (a) «l'essere non è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere è»
(ricavata da B7.1); (iii) infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia
non è» ovvero «sia l'essere sia il non-essere sono». La prima via da evitare
(nella lettura tradizionale di Diels di B6.3) sarebbe la seconda via di B2;
l’altra via da evitare (B6.4) sarebbe allora una terza via rispetto alle due
menzionate in B2: dal momento che essa esplicitamente coinvolge la condizione
dei mortali, Reinhardt concludeva che dovesse concernere l’ambito
dell'opinione26. È proprio per precisare questo passaggio classico delle
interpretazioni parmenidee che il nodo delle vie richiede di essere affrontato
e risolto (per quanto è possibile) in questa sede. A noi appaiono indiscutibili
alcuni punti: (i) B2 delinea in modo netto una alternativa (ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς),
marcando l’esaustività («le uniche per pensare ») delle «vie di ricerca»
prospettate; (ii) B2 offre con «le uniche vie di ricerca per pensare» due
direzioni d'indagine lungo le quali dirigersi: (a) la prima muove
dall’immediata evidenza: «è» (ἔστιν), estraendone «essere» (εἶναι) e
respingendo la possibilità della sua antitesi (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι); (b) la
seconda dalla connessa negazione: «non è» (οὐκ ἔστιν), marcando la necessità
del non-essere (χρεών ἐστι μὴ εἶναι); (iii) lo stesso B2 registra
immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine, infatti, non
potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe discernervi
alcunché: non è possibile conoscere né indicare «ciò che non è»; (iv) le «vie
di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie premesse della
complessiva esposizione della Dea: le sue 25 Nel suo epocale K. Reinhardt,
Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio
Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la
ricostruzione di Leszl, op. cit., pp. 120-1. 380 parole («io dirò - e tu abbi cura
della parola, una volta ascoltata») suggeriscono il rilievo cruciale
dell'alternativa per il kouros (e dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore
e il lettore); (v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla
Dea la responsabilità di sostenere come possibile via di indagine («per
pensare»!) la tesi contradditoria: οὐκ ἔστιν ἐόν - «via dell'errore», come
vorrebbe Cordero27: è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà
(B8.17-8) come οὐ ἀληθής ὁδός («via non genuina»), percorso di indagine che non
può concretizzarsi in conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere
estratte due verità basilari per le successive argomentazioni: l'essere è
necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere
ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla potrà
dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della
direzione d'indagine alternativa. Come segnala la Germani 28 (e, in una
prospettiva diversa, Cordero29 ), potrebbe in questo senso non essere casuale
l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del principio del terzo
escluso: τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν
εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές dire che l'essere non è o che il non essere
è è infatti falso; [dire] che l'essere è e il non essere non è è invece vero
(Metafisica IV, 7 1011 b26-27). B6.1-2 costituirebbe, quindi, lo sviluppo della
conclusione di B2: la Dea, rievocando (implicitamente) l'alternativa tra le
vie, afferma la necessità di riconoscere che «ciò che è è» (ἐὸν ἔμμεναι),
attraverso il rilievo della possibilità di «essere» (ἔστι 27 By Being, It Is…,
cit., p. 73. 28 Op. cit., p. 193. 29 By Being, It Is…, cit., p. 105 nota. 381 εἶναι),
e dell’inesistenza del nulla (μηδὲν οὐκ ἔστιν) 30. In B8.15-18 il passaggio
sarà richiamato: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται
δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός -
τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò:
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via]
impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra
invece esista e sia reale. Il testo è significativo, secondo noi, perché
scandisce efficacemente le sequenze del procedimento parmenideo: (a)
introduzione (logica: le vie sono per pensare) della disgiunzione «è\non è»;
(b) esclusione della via «che non è» in quanto ἀνόητον e ἀνώνυμον (che
richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via
praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra
non lo è (non è «genuina», ἀληθής), non può costituirsi, per sua natura, come
effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι in quanto percorso di ricerca impraticabile («il nulla non è»), prima
ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι), la Dea si sofferma sull’erronea «invenzione» dei «mortali che
nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), effetto del colpevole misconoscimento
delle implicazioni nell’alternativa ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Ancorché prospettata
come ὁδὸς διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ εἰδότες οὐδέν è chiara- 30
L’argomento sarebbe quindi: (i) ἔστι εἶναι, (ii) μηδὲν οὐκ ἔστιν ® ἐὸν ἔμμεναι. 382
mente caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come illusione31.
L’impotenza dei mortali Il registro linguistico all’interno dei frammenti del
poema muta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione:
αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >,
δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον e poi da quella
che appunto mortali che nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei
loro petti guida la mente errante (B6.4-6). Questi versi assumono una grande
importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon,
Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea,
ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca arcaica,
veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger32 richiama i versi
del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla
natura): λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων, ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος·
οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι
μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα 31 Soprattutto se intendiamo il
verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι, «mi invento» e non di πλάζω
«vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 155. L’autore osserva: «par di
sentire l’eco di un’esortazione religiosa». 383 Parlerò senza disprezzo per gli
uomini, narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo
occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni
simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo,
Prometeo incatenato 445-50). Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6,
sia impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare
spunti della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella
produzione filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La ἀμηχανίη segna
la costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo
un consolidato stereotipo già impiegato dal poeta nel proemio): l’«impotenza»
si traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa
percezione della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da
Prometeo. Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, Parmenide pone
l’accento sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un
intreccio perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque
una falsa interpretazione del mondo reale, dell’esperienza, di cui si
sottolineerà l’inconsapevole consolidamento nel linguaggio del sentire comune,
in una vera e propria “seconda natura” (ἔθος di B7.3)33. La Dea riferisce ai
«mortali»una prima serie di caratteristiche negative. Li qualifica come εἰδότες
οὐδέν, «che nulla sanno», una formula frequentemente impiegata nell’epica e
nella lirica per indicare la limitatezza dell’orizzonte umano34 (concentrato
sul presente, immemore del passato e ignorante del futuro)35. Li connota come
δίκρανοι, «uomini a due teste», coniando un termine ad hoc per alludere allo
specifico deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie
comporta che quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni.
Attribuisce loro la “finzio- 33 Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257. 34 Ivi, p.
259. 35 A questa situazione mortale era stata contrapposta la conoscenza
rivendicata in B1.3 (εἰδώς φώς). 384 ne” (πλάσσονται, «si inventano») di una
via: invenzione evidentemente frutto della confusione delle «uniche vie di
ricerca per pensare». Denuncia la loro ἀμηχανίη, la debolezza per cui la loro
mente (νόος) cede all’attrazione del non-essere - alla vertigine del nulla,
come si esprime Conche36. In tal modo ella collega a un impulso irrazionale la
chiave dell’erranza dei mortali: ἐν αὐτῶν στήθεσιν, «nei loro petti», potrebbe
riferirsi a una localizzazione dello θυμός che consenta di differenziarne la
funzione rispetto al νόος. Queste determinazioni negative sono ulteriormente
accentuate con espressioni che sottolineano la fenomenologia del
disorientamento: οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα
Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate
(B6.6-7). I «mortali», dunque, non sono in controllo di sé; il loro
atteggiamento ne svela la radicale incomprensione, che si manifesta a tre
livelli: (i) nella perdita di contatto con la realtà: gli organi di senso
deputati (la vista e l’udito) producono – nel loro caso dei «mortali» –
isolamento, distorsione; (ii) nella conseguente tonalità emotiva della
sorpresa37, da intendere nel contesto non come positiva apertura alla
comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria: profonda
confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di discernimento (κρίσις, κρινεῖν),
con cui spregiativamente la Dea connota le «schiere» (φῦλα) dei βροτοί, cioè la
loro massa, il loro insieme indistinto, come confusa è la loro percezione della
realtà. 36 Op. cit., p. 108. 37 Con formula omerica (τεθηπότες): in Omero
(Odissea XXIII, 105) lo sgomento era attribuito allo θυμός e localizzato «nel
petto» (ἐνι στήθεσσι). 38 Si tratta, a nostro avviso, dell’indicazione più
importante nell’insieme del frammento. 385 Le due sequenze su cui ci siamo
concentrati sono interessanti perché mostrano lo sforzo di Parmenide, per bocca
della divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della fragilità
mortale: così nel poeta-sapiente non troviamo alcuna condanna dell’uomo in
quanto tale, semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma
razionale che vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso la
posizione di Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito: τοῦ δὲ
λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες
τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι,
πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν
διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες
ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre
gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo
averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano
privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io
presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli
altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi
destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto
Empirico; DK 22 B1) ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι,
τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται
proprio dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano,
e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco
Aurelio; DK 22 B72) ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι·φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ
παρεόντας ἀπεῖναι 386 ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di
loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK
22 B34) ὁ Ἡ. φησι τοῖς ἐγρη γορόσιν ἕνα καὶ κοινὸν κόσμον εἶναι, τῶν δὲ
κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴδιον ἀποστρέφεσθαι E. dice che per coloro che sono
desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di coloro che dormono ritorna
a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι
χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ
πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει
καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται Coloro che vogliono parlare con intendimento
devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla legge, e
ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano dell’unica
legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le cose e
avanza (Stobeo; DK 22 B114). Senza voler entrare nel dettaglio
dell’interpretazione del pensiero di Eraclito, è sufficiente osservare come
nelle citazioni sia marcato l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni
condivise dai più: il suo discorso consapevole (λόγος) che annuncia come
«tutto» accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura stabile del
mutamento) è contrapposto all’incomprensione (mancanza di intelligenza della
realtà) degli «altri» (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente
una condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in
Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di κόσμος come ordine del mondo)
che li circonda, gli «uomini» (ἄνθρωποι) ne ignorano la normatività; essi
vivono così non da «desti» (ἐγρήγοροι) in una condizione di torpore,
stordimento: una sorta di sonnambulismo. L’adesione al logos è adesione a «ciò
che è comune» (τὸ ξυνόν) e quindi sensato, oggettivo, diversamente
dall’ottusità della incon- 387 sapevole esperienza quotidiana, che convince
falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema
dell’estraneità). L’«io» della Dea di Parmenide e l’«io» personale di Eraclito
sono – come correttamente segnalato da Conche39 - dalla stessa parte, in quanto
«cooperatori del vero»; dall’altra ci sono coloro che non giudicano con la
ragione: il segreto dell’erranza dei «mortali» è nel loro stesso pensiero40. A
noi pare che lo studioso francese abbia colto nel segno sottolineando come
l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’«uomo collettivo», incapace di assumere la
decisione (κρίσις) riguardo alle due vie: in questo senso, analogamente a
quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio, giudicare con intelligenza è
possibile solo all’individuo che si distacchi intellettualmente dalle credenze
collettive41. Una via “inventata” Per riassumere e concludere sulle vie di B6,
ribadiamo la convinzione che Parmenide reiteri, in apertura del frammento,
l’alternativa di B2, introducendo poi, in relazione a essa, il tema specifico
dell’errore di fondo dei «mortali». Il passaggio alla confusa combinazione
delle vie è accompagnato nel testo dal recupero del motivo tradizionale
dell’impotenza umana (tanto più significativamente in quanto affidato alle
parole di una divinità), che viene tuttavia “curvato” per corrispondere alle
peculiari esigenze polemiche dell’autore. Il linguaggio parmenideo sembra
insistere soprattutto sulla natura illusoria di una ὁδὸς διζήσιος («via di
ricerca»), scaturita in realtà dalla presunzione e debolezza cognitiva dei
«mortali». In questo senso esso non avalla alcuna “terza via”, non le riconosce
alcuna consistenza, nemmeno sul piano strettamente logico: mentre la via che pensa
«che non è e che è necessario non essere» si presentava come uno dei corni
della alternativa 39 Non a caso editore sia dei frammenti parmenidei, sia di
quelli eraclitei! 40 Conche, op. cit., p. 107. 41 Ivi, p. 108. 388 fondamentale
e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata correttamente, questa
presunta “terza via” è stigmatizzata come “invenzione” di «coloro che nulla
sanno», dunque come logicamente insostenibile. Le due vie di B2 possono essere
ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν ἔμμεναι e μηδὲν οὐκ ἔστιν;
anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua negatività, è possibile,
dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente formale (μηδέν, ovvero τό γε μὴ
ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro scorretto argomentare e confuso
parlare “si fingono” un commercio delle due vie alternative - si rileva invece:
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9). È
opportuno ricordare che Simplicio cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando
l’esordio del nostro frammento e concentrandosi sulla disgiunzione essere-non
essere: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν
μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα Sostiene che le proposizioni
contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non
sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti
(In Aristotelis Physicam 117, 2). Precisa inoltre: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ
τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι Dopo aver biasimato coloro che congiungono
l’essere e il non-essere nell’intelligibile (Simplicio, Phys. 78, 2; DK 28 B6).
389 Pur non concordando con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di
Cordero), mi sembra inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende
rilevare la contraddizione in cui cadono i mortali combinando termini
incompatibili (essere e non-essere). Dei «mortali che nulla sanno» la Dea
parmenidea denuncia essenzialmente l’incapacità di discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ
εἶναι («essere e non essere»), ταὐτὸν κοὐ ταὐτόν («la stessa cosa e non la
stessa cosa»), che finiscono per essere contraddittoriamente riferiti a ἐόν.
Nella loro finzione, secondo la Dea, essi indifferentemente assumono e
combinano termini in realtà contraddittori, senza rendersi evidentemente conto
della loro incompatibilità: proprio nella contestazione di tale ingiustificata,
infondata assunzione, in questo come nei due successivi frammenti, si appalesa
l’accanimento verbale di Parmenide. L’obiettivo della polemica Ma chi sono i
«mortali» cui si rivolge l’attacco parmenideo? È possibile individuare un
obiettivo specifico, ovvero dobbiamo pensare a una generica presa di posizione?
Parmenide si limita a marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come
vuole Reinhardt), magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità
(come vuole Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei
successivi di B7) la condanna di un errore determinato? Più precisamente: le
assonanze espressive giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non
meglio precisati seguaci) come oggetto delle critiche (come credono in molti),
o dobbiamo piuttosto supporre che Parmenide prenda posizione in generale rispetto
allo sfondo complessivo (e grandioso) della sapienza milesia (come sostengono,
tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un certo senso,
citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo
indirettamente già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione
consolidate del dibattito interpretativo. 390 Quella che mortali che nulla
sanno s’inventano Se da un lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in
B6.4 il complemento pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del
verso precedente, e dunque a “ricercatori”, è dall’altro possibile che
Parmenide abbia colto l’occasione per polemizzare nei confronti di coloro (il
greco indica genericamente βροτοί, «mortali») che propongono un punto di vista
ordinario, teoreticamente ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel
linguaggio della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla sanno», εἰδότες οὐδέν)
presunti sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari. L’errore
ascritto – la mancata discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe
genericamente riferirsi all’incapacità di offrire una coerente (con le «uniche
vie di ricerca per pensare») spiegazione dei processi naturali, preoccupazione
esplicitata in B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema.
Ricordiamo che anche Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici,
una polemica analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a
rifiutare i modelli della tradizione, discutendone lo spessore (il caso di Omero)
o la competenza (Esiodo), dall’altro a contestare l’enciclopedismo dei
contemporanei: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι
καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli
agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42)
διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην
καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν Maestro dei più è Esiodo – costui
credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di
giorno e notte: sono infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57) 391 πολυμαθίη
νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά
τε καὶ Ἑκαταῖον l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza, altrimenti
l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo (Diogene
Laerzio; DK 22 B40) Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων μάλιστα
πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην,
πολυμαθίην, κακοτεχνίην. Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più
di tutti gli uomini e raccogliendo questi scritti ne produsse la propria
sapienza, il saper molte cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129).
L’obiettivo, nel caso di Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e
coinvolgere le alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea
interveniva a delineare, sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a
giudicare con intelligenza. Sul terreno filosofico è difficile pensare che le
posizioni della tradizione milesia potessero meritare un'attenzione così
critica e sprezzante. Il quadro offerto da Parmenide appare per molti versi
analogo a quello delineato a Mileto, con la fondamentale differenza che, nel
suo caso, non si punta a riscattare l’instabilità del divenire nella permanenza
della φύσις-ἀρχή: nel complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la
denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già
registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e
B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura
scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di
confronti del genere). L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una
volgare contraffazione del sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi
un riferimento alla massa di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di
intendere la parola della Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso,
potrebbe valere l’analogia con Eraclito. 392 Uomini a due teste All’inizio del
secolo scorso Döring42 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica
antipitagorica: una prospettiva rilanciata dall’adesione di una quota
minoritaria degli specialisti (tra i più autorevoli certamente Raven43). Tra
gli assunti di Döring44, soprattutto la convinzione che i primi pitagorici
asserissero l’esistenza del vuoto, considerato identico al non-essere:
posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua «terza via», combinando
essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili, che
speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze
documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la
sua tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel
tempo. È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di
escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto
insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente
comprensibili nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un
pubblico essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha
ravvisato in B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico45, in cui
lo studioso riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe
espressione nella tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile
alla originaria opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti
nella generazione di tutti gli enti46. 42 A. Döring, Geschichte der
griechischen Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore “Das
Weltsystem des Parmenides”, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische
Kritik», Raven, Pythagoreans and Eleatics. An Account of the Interaction between
the Two Opposed Schools during the Fifth and Early Fourth Centuries B.C.,
Cambridge University Press, Cambridge 1948. 44 Si veda Tarán, p. 68. 45 Sebbene
nella successiva opera con Kirk tale riferimento cada, a favore della
possibilità del tradizionale coinvolgimento di Eraclito. 46 Aristotele,
Metafisica, I, 5 986 a17-21: τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον καὶ τὸ
περιττόν, τούτων δὲ τὸ μὲν πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ 393 In
questo senso, gli uomini «a due teste» (δίκρανοι) cui allude Parmenide
potrebbero essere genericamente pitagorici oppure i pitagorici responsabili
dell’elaborazione di quel modello dualistico: la testimonianza aristotelica,
infatti, a dispetto dell’accenno a un contributo specifico dedicato
all’argomento, rivela, (come nel ricorso all’espressione «i cosiddetti
pitagorici», οἱ καλούμενοι Πυθαγόρειοι), incertezze di documentazione e
difficoltà di determinazione, ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio
matematico all'applicazione dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe
implicare un'evoluzione delle posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per
noi significativo il riferimento ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in
relazione alla tavola delle due serie di contrari: ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων
ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου
παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι
Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο δὲ παραπλησίως τούτοις· φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων,
λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας [...] In
tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi prendesse tale
dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì
quando Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile a costoro. Sosteneva,
infatti, che la maggior parte delle cose umane sono dualità, pur non
determinando, come fanno questi, le opposizioni, ma proponendole a caso [...]
(Metafisica I, 5 986a 27-34). ἀμφοτέρων εἶναι τούτων (καὶ γὰρ ἄρτιον εἶναι καὶ
περιττόν), τὸν δ’ ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς δέ, καθάπερ εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν
[Essi pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; di questi, il
primo è illimitato, l'altro limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi
(è, infatti, insieme, e pari e dispari). Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i
numeri, come s’è detto, costituirebbero l’intero universo. 394 Secondo la
Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza aristotelica si può concludere che,
come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità
pitagorica (ἄπειρον-πέρας), così alla cultura scientifica milesia dovevano
risalire quelle opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone
contribuì a introdurre nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una
elaborazione sistematica. Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che
le allusioni critiche dei versi parmenidei possano investire temi e figure di
una tradizione che doveva risultare riconoscibile nello humus locale: in
un’epoca per la quale è difficile valutare l’incidenza della distanza degli
ambienti culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una referenza
pitagorica. Sul rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo di
tornare nel commento a B8. Il percorso torna all'indietro Sin dall’Ottocento
(Bernays) è maturata tra un numero consistente di accreditati interpreti
(Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri,
Graham, tra gli altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di
B6.4-9 sia Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla
supposizione motivata da considerazioni di contenuto (Guthrie48), alla lettura
sostenuta dall'attenzione per la forma logica dei frammenti (Tarán e
Couloubaritsis), alle conclusioni giustificate da assonanze espressive (per
esempio Cerri). Sono spesso impiegati, come possibili evidenze testuali, le
seguenti citazioni eraclitee: οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει·
παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης 47 Pitagorici antichi,
Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano
2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134- 135. 48 Op. cit., p. 23. 395 non
capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia di
contrari, come l’armonia dell’arco e della lira (Ippolito; DK 22 B51) συνάψιες ὅλα
καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ
ἑνὸς πάντα congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico
disarmonico, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele
[de mundo 5 396 b7]; DK 22 B10) ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν,
εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non
siamo (Eraclito; DK 22 B49a) ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι non si
può discendere due volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a). Nel testo
di Parmenide si valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più
tradotti diversamente49): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato
essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti
il percorso torna all'indietro. 49 La resa italiana più frequente è la
seguente: per i quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa
e non la stessa cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro. 396
Secondo Tarán, la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22 B10)
l’identità dei contrari come identità-nelladifferenza, secondo un modello del
“sì e no”50, che l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non
essere (per cui appunto «l’essere e il non essere sono considerati la stessa
cosa e non la stessa cosa»). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco
di Parmenide sarebbe rivolto a una impostazione (quella eraclitea) ancora
prossima alla logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli
opposti suppone un legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella modalità
eraclitea di pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze da quella
ambivalenza, soprattutto per l’introduzione di un’opposizione più inglobante,
comune a tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a, B91)51.
Proprio la rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la κρίσις della
Dea parmenidea, discriminante dunque allo stesso tempo anche rispetto alla
posizione di Eraclito52. Ancora di recente, Graham53 ha proposto di leggere
l’ontologia parmenidea come reazione prodotta dall’impatto dell’opera di
Eraclito, la cui provocazione sarebbe consistita nella esasperazione della
polarità presente nel modello ionico, con l’abbandono dell’idea di primato di
una «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato
da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). A questi
elementi di contenuto o struttura, si aggiunge poi il riscontro di un’eco
espressiva eraclitea, quasi Parmenide intendesse colpire un avversario
evocandone le parole. Sebbene Tarán, a proposito del conclusivo πάντων δὲ
παλίντροπός ἐστι κέλευθος, metta in guardia dalla tentazione di leggervi un
puntuale riferimento alle parole di Eraclito (DK 22 B51)54, altri hanno molto
insistito su questo punto: tra i contemporanei, per esempio, Cerri 50 Tarán,
op. cit., p. 71. 51 Couloubaritsis, op. cit., p. 199. 52 Ivi, p. 200. 53 Per
esempio, sia in Explaining the Cosmos, sia in The Texts of Early Greek
Philosophy. 54 Semmai vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione delle
vedute degli assertori dell’identità dei contrari (p. 72). 397 trova conferma
in B6.9 di una vera e propria «tecnica della citazione», già emersa nel proemio
con la evocazione del mito di Fetonte e delle Eliadi55. Come Tarán e
Couloubaritsis, anche lo studioso italiano marca vicinanza e distanza specifica
della posizione di Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur avendo
anticipato la teoria dell'identità nella (apparente) differenza, manifestò nei
suoi enunciati paradossali viva consapevolezza della problematicità di tale
verità, delle oggettive contraddizioni insite nella realtà naturale e umana 56.
Così non vi è dubbio, secondo Cerri, che siano proprio le formule scelte da
Eraclito, del tipo «è e non è», a essere imputate da Parmenide: il filosofo di
Efeso avrebbe infatti praticato quella (presunta) “terza via” denunciata
dall’Eleate57. Lo studioso italiano, inoltre, sottolinea come le scelte
lessicali di Simplicio, nel citare B6, mostrino come egli avesse inteso che la
(presunta) “terza via” del frammento non si riferisse a un ingenuo
atteggiamento ordinario della mente umana, ma alla tesi specifica di un
indirizzo filosofico: il linguaggio impiegato dal commentatore, infatti,
sarebbe quello con cui la tradizione peripatetica connotava inequivocabilmente
la dottrina eraclitea58. Questa osservazione, tuttavia, non comporta alcunché
riguardo all'identificazione del referente dell’attacco di Parmenide: tra gli
specialisti è noto, infatti, come le ricostruzioni platonica e aristotelica
propongano un’anomalia di fondo, che si ritiene effetto dei peculiari canali
nella ricezione delle opinioni dei pensatori arcaici. Le prime collezioni delle
loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi, nella seconda metà del V secolo
a.C., ai sofisti Ippia59, che avrebbe approntato una selezione per temi, e
Gorgia, che invece avrebbe disposto il materiale per contrapposizioni teoriche:
è dunque molto probabile che la versione offerta da chi (Platone e 55 Cerri,
op. cit., p. 208. 56 Ivi, p. 206. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 208. 59 J. Mansfeld, “Aristotle,
Plato and the Preplatonic doxography and chronography”, in G. Cambiano (ed.),
Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Torino 1986, pp. 1-59. A.
Patzer, Der Sophist Hippias als Philosophiehistoriker, Münich 1986. 398
Aristotele appunto) diede inizio alle prime forme di storiografia filosofica
risentisse profondamente di quegli schemi riduttivi60. Mansfeld61 ha marcato
come ciò risulti particolarmente evidente proprio nel caso di Eraclito e di
Parmenide: del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del flusso
universale e della diversità (a scapito delle affermazioni su unità e
stabilità); del secondo il motivo dell’Uno e dell’immobilità62. In realtà, come
abbiamo già avuto modo di rilevare in precedenza, è possibile leggere i
frammenti di Eraclito in una prospettiva alternativa, tale da rendere
problematici le facili schematizzazioni. L’Efesio, in effetti, proprio nelle
citazioni sopra riportate, potrebbe essere impegnato in un'operazione analoga a
quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici e cosmogonici della prima
riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose per estrapolarne gli
schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine sistematica sulle forme
della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe
tradotto nel rilievo di tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del
divenire; ii) la forma inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel
divenire. Significativa anche l’altra convergenza già segnalata: Eraclito
esplicitamente polemizza con alcune figure della tradizione - Omero, Esiodo,
Archiloco - e intellettuali contemporanei - Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla
cui sapienza egli si proponeva, evidentemente, di prendere le distanze, per
delinearne, consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria. Eraclito
manifesta una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a
cui, pur avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione,
la maggioranza degli uomini - indicata spregiativamente con l’espressione «i
molti» (οἱ πολλοὶ) - rimane estranea. In questo senso, analogamente al kouros
privilegiato dalla rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio
isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione che va 60 Sebbene sia
plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo)
avessero accesso a un manoscritto dell’intero poema. 61 F. Mansfeld, “Sources”,
in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, C.U.P.,
Cambrdige 199, pp. 22-44. 62 Ivi, p. 27. 399 al fondo delle cose afferrandone
la natura e la semplice, superficiale erudizione (πολυμαθίη) o la percezione
parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini (δοξάσματα). La
pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica,
all’interno di due limiti essenziali: i) il «logos che è sempre» (τοῦ δὲ λόγου
τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che «sempre divengono secondo
questo logos» (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε). Eraclito sottolinea
il valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni all’unità
della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla
unicità della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la
funzione strutturante all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al
λόγος, «tutto è uno» 63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente
organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni
singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che regola il
prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo
sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là
dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione64) che la
supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a
meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come
sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo
come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella
ricostruzione della dottrina dell’«essere», giustifica l’attacco di Parmenide
come effetto dell’irritazione di fronte a un’incongruenza (la combina- 63 DK 22
B50: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι
non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64 Su
questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178).] [zione di «è» e «non
è»), che rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica65. In questo senso,
però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero
un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della
cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica.
Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di recente
Maria Laura Gemelli Marciano66 - un «contesto culturale e pragmatico» molto
«concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia
delle idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica
parmenidea un riferimento generico e specifico a un tempo: (i) agli ignoranti
colpevoli di fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da cui
l’insistenza sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità, sordità); (ii)
ai poeti responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della
realtà; (iii) ai pensatori ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di
fondo, riconoscendo la forza del principio a un elemento a scapito degli altri,
concentrando l’essere in un’area della realtà, piuttosto che in un’altra; (iv)
al limite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie
enunciazioni di un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto
apprezzare: formule in cui, pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere
e non-essere si trovavano accostati. Al centro dell’attacco dell’Eleate – come
confermerà B7 – sono gli “uomini della contraddizione”, coloro che implicano –
consapevolmente o meno67 – l’assurdo: «che siano cose che non sono»; in altre
parole coloro («schiere senza giudizio») che, affidandosi acriticamente al dato
empirico, condizionati dai meccanismi irriflessi dell’abitudine, avanzano una
inaccettabile terza via. 65 Cerri, op. cit., p. 209. 66 M.L. Gemelli Marciano,
"Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et
destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la
Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses
Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. 67 In
questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni
dei mortali riguardo a pluralità e divenire l’«assurda implicazione» che
«essere e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa». 401 Come
osserva Coxon68, la formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται
κοὐ ταὐτόν è da leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν
τ΄ ἐὸν ἔμμεναι: il verbo νομίζω, con la sua soggettività, è contrastato dai
positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche giustamente può marcare come
l’espressione «mortali che nulla sanno» si riferisca alla massa di non
filosofi, che Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la
parola della Dea, la parola della Verità69. Né va dimenticato un rilievo di
Jaeger: νενόμισται evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche
individuo, ma la communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè
della tradizione)»70. A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero
associate nella condanna anche quelle espressioni scientifico-filosofiche in
cui il discrimine tra «le uniche vie di ricerca per pensare» appariva debole o
confuso: un fronte potenzialmente ampio, dai Milesi a Eraclito, passando per i
pitagorici, la cui reale presenza polemica è comunque solo ipotetica. 68 Op.
cit., p. 185. 69 Op. cit., p. 109. 70 W. Jaeger, La teologia dei primi
pensatori greci, cit., p. 170, nota 36.
[B7] Il frammento, ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels
e Diels-Kranz, è un collage di diverse citazioni: (i) Platone (Sofista 237 a
8-9) e Simplicio (In Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo
emistichio del primo verso e l’intero secondo verso; (ii) Aristotele
(Metafisica XIV, 2 1089 a) riproduce l’intero primo verso; (iii) Sesto Empirico
(Adversus Mathematicos VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di seguito a
B1.28-32 e completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci
conserva i versi 3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la
plausibilità dell’attuale ricostruzione e la ragionevole unitarietà del
frammento1, nonché la sua probabile saldatura con B8, in considerazione del
fatto che il secondo emistichio dell’ultimo verso di B7 citato da Sesto
corrisponde al primo verso della citazione dell’attacco di B8 in Simplicio.
Anche da un punto di vista argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra
B6, B7 e B82 e la loro dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3 ritiene possibile
che B7 seguisse B4, a causa dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα che
richiamerebbe ἀπεόντα-παρεόντα (B4.1). Mansfeld4 - che propone la sequenza di
tre blocchi logici (B2-B3, B6-B7, B8) – riconosce la possibilità che B5 si
collochi tra il primo e secondo blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del
frammento, rimane aperto il problema della (parziale) citazione sestiana in
continuità con il proemio (e per questo accolta originariamente da Diels nel
primo frammento del poema5 ), cui possiamo aggiungere anche quello linguistico
e metrico, ipotizzando l'ulteriore continuità di 1 Tarán, op. cit., p. 76. 2
Mansfeld, op. cit., pp. 91-2. 3 Op. cit., p 189. 4 Op. cit., p. 92. 5 Di
recente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è
sostanzialmente tornato a riproporre l'originale versione dielsiana. 403
B7.6[a] con B8.1[b]6. Attribuire l'origine delle difficoltà a una libera
citazione antologica da parte di Sesto, ovvero a una sua citazione da antologia
poco affidabile7, non appare del tutto convincente, soprattutto alla luce del
fatto che da Sesto abbiamo l'unica citazione dell'intero proemio, con tracce
della redazione psilotica originaria (quindi di una tradizione alternativa a
quella attica): è possibile, dunque, che «egli disponesse di una buona copia
del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il poema»8. Nel
caso della sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione teoretica di
fondo: mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare passi di
un'opera ormai irreperibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente
"montato" parti del poema originariamente distinte, in funzione di un
assunto generale: respingere la validità della sensazione come vero strumento
di conoscenza9. Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la
critica si è mostrata tuttavia propensa a riconoscere la fondatezza della
ricostruzione di Diels-Kranz anche riguardo al presente frammento. Non è in
discussione, in ogni caso, il suo ruolo critico, per noi condizionato dalla
ricezione di B6 e dalla soluzione del problema delle “vie”. Una via che è
impossibile addomesticare L’attacco del frammento, infatti, ci proietta ancora
sulla krisis di B2, ribadita all’inizio di B6: 6 Nella citazione di Sesto, il
verso iniziale di B8 costiuisce il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα).
Ma la forma tràdita - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove
si troverebbe μοῦνος (in vece di μόνος); d'altra parte, rettificandola,
l'intero verso non reggerebbe metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides
& Presocratic Philosophy, cit., p. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del
testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31. 9 Ivi, p. 30.
404 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε
νόημα· Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da
questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). Il senso del primo verso
coincide con la reiterazione della condanna della contraddizione, da cui la Dea
mette in guardia il kouros, con scelte espressive (ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος, ma anche
εἶργε νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels per la lacuna di B6.2) che
richiamano evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora
impegnato a denunciare gli «uomini a due teste» (δίκρανοι), uomini della
contraddizione appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle
«uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι B2.2),
l’assurdità. Un pensare “selvaggio” Due elementi spingono in questa direzione:
(i) l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) secondo cui è
inammissibile che «cose che non sono» (μὴ ἐόντα) «sono [esitono]» (εἶναι); (ii)
il sostantivo νόημα, che, come vedremo, può essere messo in relazione sia con
la formula κρῖναι δὲ λόγῳ, («giudica invece con il ragionamento» ovvero valuta
discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con ἔθος
πολύπειρον, l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze». Per quanto riguarda il
primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella
tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha
difeso per la sua sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata proposta una
versione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che
aiuta a comprendere il valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: «Jamais, en
effet, cet énoncé ne sera dompté», «For never shall this [wild saying] be
tamed» (O’Brien); «Car jamais ceci se- 405 ra mis sous le joug» (Conche). Ciò
che la Dea vuol manifestare è l’insostenibilità, l’illegittimità della tesi che
può ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che nulla sanno». La
contraddittoria commistione delle «due vie» (che si fondano sull’immediata
evidenza «è» e sulla sua negazione), il mancato apprezzamento della loro
disgiunzione, si traducono in una “selvaggia” (bestiale) contaminazione, che è
impossibile “domare”, “aggiogare”, ricondurre a norma. Liddell-Scott-Jones
propongono per damázw, in questo caso, proprio in relazione a questa
attestazione parmenidea, lo specifico valore di «to be proved». La durezza
della presa di posizione della Dea, che reitera le formule sprezzanti del
frammento precedente, non si giustifica come semplice messa in guardia rispetto
alla inconcludenza della “seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui statuto,
ricordiamolo, era stato immediatamente definito in termini inequivocabili10: τὴν
δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ
ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto
privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti
cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8). Ciò che viene stigmatizzato è
piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno: il nume si riferisce
a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque implicano l’esistenza
del non-essere. 10 Insiste su questo punto, in diversi passaggi del capitolo 5
(Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in particolare pp. 77-8. 406 Cose che non
sono Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto che in questi versi
Parmenide utilizzi il plurale - εἶναι μὴ ἐόντα (una infinitiva, per altro, con
soggetto senza articolo, così da lasciarlo indeterminato). Si è per lo più
voluto cogliere in questa scelta un rilievo polemico nei confronti
dell'esperienza sensibile11, di una “via” dei sensi che cerca di attribuire
esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero12, la critica delle
attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi di B6 all’intero B7, in un
complessivo attacco al πλακτὸς νόος dei mortali. Insomma, l’infinitiva iniziale
(εἶναι μὴ ἐόντα), riassumendo B6.8-9, denuncerebbe l’esito di un modo di
pensare – quello di «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν) –
condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla guida di un intelletto
instabile, a credere che esistano cose che non sono13. Parmenide avrebbe
impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν) perché il pensiero
"selvaggio" di chi si allontana dalla strada dell’essere è esercitato
a partire dalle cose che si presentano nell’esperienza14. In questo passaggio
il filosofo non intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere», non sarebbe
impegnato a rigettare la seconda via15, ma a rilevare la contraddizione indotta
dal fraintendimento dell’esperienza16. L’insistenza su questo punto nei due
frammenti che precedono (secondo le ipotesi di ricostruzione cui abbiamo
introduttivamente accennato) la lunga analisi della “prima via” in B8.1-49,
rivela come esso sia cruciale nella economia del discorso di Parmenide,
soprattutto in funzione della seconda sezione del poema. 11 Tarán, op. cit., p.
77. 12 By Being, It Is, cit., p. 129. 13 Ivi, p. 130. 14 Ruggiu, op. cit., p.
263. 15 Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche, op. cit., p. 117. 407 Una
posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa da Coxon17, secondo
cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente condotta
nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma delle
teorie fisiche precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da Simplicio
(In Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2 proiettandolo nella
discussione aristotelica degli argomenti del V secolo a favore o contro
l’esistenza dello spazio vuoto: καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει χώραν ἐν τῷ παντελῶς ὄντι,
ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν non può esservi il vuoto in ciò che è in senso pieno, così
come non può esservi il non-essere. Nella sottolineatura parmenidea
dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo allora una contestazione delle
teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui alluderebbe anche
B4, i cui ἀπεόντα-παρεόντα sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα), e
probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente
B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a essere coinvolta nell’attacco
sarebbe appunto la supposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere),
condizione per discriminare l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe
il kouros (in questa prospettiva essenziale l’enfasi sul «tu» personale) dalla
tentazione di seguire coloro che asseriscono l’esistenza del non-essere
(vuoto)18. In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di
«non-essere» sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla
nozione pitagorica di ἄπειρον (illimitato): come risulta dalla testimonianza
aristotelica, i Pitagorici sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» (ἐκ
τοῦ ἀπείρου πνεύματος), il vuoto (τὸ κενόν) fosse penetrato nell'universo (οὐρανός)
come «respiro» (πνεῦμα), costituendo lo spazio discriminante e distanziante le
cose: 17 Op. cit., p. 189. 18 Ivi, pp. 190-191. 19 Op. cit., p. 101. 408 εἶναι
δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου
πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ
χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς·
τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermavano che
esistesse il vuoto e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo
come se questo respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il
vuoto fosse una sorta di separatore e divisore delle cose che sono in
successione. Questo accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti,
distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27). Come abbiamo
osservato commentando B6, l’ipotesi di un confronto con le tesi pitagoriche è
suggestiva, anche per l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di
Parmenide: le indicazioni di Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di
aggettivi come ἔμπλεόν (B8.24) – riferito a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per
«pieno»: Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν
εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος Né è
divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa
impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di
ciò che è. (B8.22-24). Αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte
sono state denominate, 409 e queste, secondo le rispettive proprietà, a queste
cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di
entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla. (B9). Nei
due diversi contesti – la sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente,
quella sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν omogeneità e
pienezza, evidenziando, nel secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò farebbe
supporre implicito il rifiuto del «vuoto» (τὸ κενόν) e la sua identificazione
con il nonessere (μηδέν, «nulla» appunto), che solo Melisso avrebbe
esplicitamente sostenuto: οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν· οὐκ
ἂν οὖν εἴη τό γε μηδέν Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla;
e ciò che è nulla non può esistere (DK 30 B7.7). Coxon20 nota come Aristotele –
nella discussione sul vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis Physicam
650, 11), cui si riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul tema, oltre a
Leucippo e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuito al
vuoto una funzione discriminante, all’origine della pluralità (in primo luogo
dei numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello
specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso a μὴ ἐόντα per
indicare il vuoto. Forse giustificato per designare i supposti enti molteplici,
effetto dell’assunzione del vuoto-nulla, l’uso del plurale – come conferma
anche il lessico di Melisso - sembra improprio in riferimento a qualcosa che è
in sé indiscriminabile e inconsistente. Appare dunque più probabile che
l’apertura dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta in B6 contro gli «uomini
a due teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il γὰρ del primo
verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trova- 20 Coxon, op.
cit., pp. 189-190. 410 re, nella formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα, la
possibilità di stigmatizzare con rigore l’assurdità implicita nelle assunzioni
di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta
nell’assumere la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3, ma la
proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7
riformulerebbero B6; εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il
senso con un chiaro esempio di composizione ad anello. L’attacco ai «mortali
che nulla sanno» sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla
disgiunzione fondamentale (B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e
l’invito a «giudicare con il ragionamento» (κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per
evocare la krisis di B2, prima e dopo la descrizione del mondo umano22. Che
siano cose che non sono La Dea mette in guardia il kouros: a dispetto
dell’alternativa rappresentata dalle «uniche vie di ricerca per pensare» e
dunque contro una coerente considerazione razionale della realtà, si tenta di
far accettare l’esistenza di cose che non sono. In gioco è la presunta
pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo associata, nei versi
successivi a ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze», un costume
mentale scaturito dal commercio quotidiano con il mondo. B4.1-2 può essere su
questo di aiuto alla comprensione: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano
comunque per la mente saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere
sia connesso all’essere. 21 Op. cit., p. 91. 22 Ibidem. 411 Ciò che non è
immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto nell’«essere» (τὸ ἐὸν),
perché il νόος impedisce di considerare l’essere a “intermittenza”, quasi fosse
alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e assenza immediate
degli enti; è l’abitudine a tale oscillante attestazione empirica a tradire la
corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a
riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I
sensi, in verità, non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente
ricorda Ruggiu23: essi attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua
assenza; mai, però, propriamente il nulla. Ciò che la Dea contesta è dunque una
superficiale inferenza condotta dai mortali a partire dalla loro esperienza: in
Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il valore dei sensi, ma
quello dei giudizi dei mortali24. Ma tu … Leggiamo ancora una volta l’attacco
di B7: Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος
εἶργε νόημα Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma
tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). La Dea esorta il
kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα) dall'incosciente illusione che
esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα). Ritorna il riferimento alla «via
di ricerca» (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che richiama B6.4-5: […] ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ
διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν 23 Op. cit., p. 266. 24 Conche, op. cit.,
p. 122. 412 < πλάσσονται >, δίκρανοι […] da quella [via di ricerca] che
mortali che nulla sanno < s’inventano >, uomini a due teste […] Nel
frammento precedente si era iniziato a costruire lo stereotipo degli
sprovveduti mortali, impaniati nella contraddizione: il loro, in fondo, era
solo un “preteso” percorso d’indagine, in realtà forgiato indebitamente
(πλάσσονται, «s’inventano»). In B7, invece, si punta su due elementi: (a) la
dura presa di posizione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) rispetto alla pretesa che
«siano cose che non sono»; (b) l’appello personale (ἀλλὰ σὺ) a trattanersi -
evidentemente contrapposto con enfasi agli ἄκριτα φῦλα, alle «schiere
scriteriate» (B6.7), impotenti a discriminare essere e non-essere. Questo
richiamo personale segue: (i) l’iniziale allocuzione di saluto della dea al
kouros (B1.24- 28) con l’illustrazione del suo programma di istruzione (B1.28b:
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι); (ii) l’invito ad aver cura della comunicazione
introduttiva sulle due vie alternative di ricerca, da cui dipende la
possibilità di accedere alla Verità (B2.1: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον
ἀκούσας); (iii) l’esortazione ad atteggiare coerentemente la propria
intelligenza (B4.1 e B6.2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως; τά σ΄ ἐγὼ
φράζεσθαι ἄνωγα); (iv) la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi
a uno stile di pensiero (e comportamento) diffuso ma logicamente
contraddittorio (B6.3-4: πρώτης γάρ σ΄25 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω
>, αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...). In B7 registriamo dunque il compimento dello
sforzo dissuasivo della dea nei confronti del kouros, esplicitamente
sollecitato a marcare il proprio atteggiamento intellettuale rispetto
all’«impotenza» dei «mortali», a condividere razionalmente la disamina critica
della Dea. La presunta "terza via" è delineata es- 25 Il codice D di Simplicio
riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 413 senzialmente per
distogliere da essa: B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di
«liberare la mente dell'allievo (e dell'uditorio) da presupposti invalsi e
premesse fallaci» per concentrarla sul compito arduo di «riconoscere i segni
scaglionati lungo la Via dell'essere»26. Chiara Robbiano, interessata a
valorizzare in chiave performativa l’efficacia comunicazionale del poema, ha
sottolineato lo specifico effetto identificativo sull’audience. Essa è stata
incoraggiata a immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un
«uomo che sa» (B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida di Themis e Dikē
(B1.28). All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative
«per pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre
alla manifestazione dei «segni» della realtà genuina, e l’altra, da cui ella
mette in guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις. Ora, le vie dei mortali,
nel loro sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in
B7.4-5 la Dea metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune
di guardare alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione
e distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu»
ai «mortali» (e alle loro vie confuse), il riferimento della Robbiano allo
schema dissuasivo dell’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno stereotipo
negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella scelta la
propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via sbagliata
impliche- 26 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 48-9. 27
Robbiano, op. cit., p. 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman & L.
Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris
1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 414 rebbe, infatti, essere assimilati a
una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29. Da questa via di
ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio
(forse direttamente dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea
inviterebbe a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν),
diversa da quella evocata in B6.4, inventata da «mortali che nulla sanno»:
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Dopo aver biasimato
infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile
[citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere
[citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78,
2). Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel
senso che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta
implicata nella posizione espressa dai mortali che combinano
indiscriminatamente essere e non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1
denuncia l'insostenibile contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove, come abbiamo già
segnalato, il neutro plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del
fraintendimento empirico di cui si renderebbero colpevoli i «mortali».
Condividiamo dunque la lettura di B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato:
la via di ricerca incriminata sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν
illusoriamente si forgiano, quella appunto che pretende che i non-enti siano.
Si tratta impropriamente di una 29 Robbiano, op. cit., pp. 103-4. 30 Op. cit.,
p. 120. 415 terza via, illegittima dal punto di vista della Dea: in B2 sono
definite le uniche vie legittime da un punto di vista razionale (quello della
Dea). Il pensiero e l’abitudine I versi che seguono l’avviso della Dea
contribuiscono probabilmente a chiarire l’origine dello sviamento dei «mortali
che nulla sanno»: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον
ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su
questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio
risonante e la lingua (B7.3-5). Appena invitato il kouros a trattenere il
pensiero (νόημα) dalla fittizia via di indagine lungo la quale si trascinano i
(o meglio certi) «mortali», il nume richiama l’attenzione sulle insidie dell’«abitudine»
(ἔθος), che allignano nella irriflessa consuetudine quotidiana, con l’effetto
di stravolgerne il quadro: i termini in gioco sono appunto (i) ἔθος, che
guadagna la sua forza dal contrasto con (ii) νόημα. Il linguaggio dei versi 4-5
riprende chiaramente la fenomenologia degli ἄκριτα φῦλα (B6.7): l’«abitudine» è
contrastata con la valutazione intellettuale implicita in νόημα, che può
dissolvere le illusorie (perché in sé contraddittorie) certezze empiriche.
Costume irriflesso Di quale abitudine si tratta? La Dea la qualifica come
πολύπειρον, probabilmente per marcarne l’origine dalle frequenti 416
esperienze, e ne rileva l’azione a un tempo dispotica e insidiosa:
evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con le cose, quanquando non è
guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e spingere,
inconsapevolmente, a ritenere che «siano cose che non sono». La nuova messa in
guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il nostro
orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati dalla
ragione31. È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al cattivo uso
dei sensi per effetto dell’abitudine e non ai sensi stessi: è infatti marcato
nel testo come sia l’ἔθος πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la percezione.
D’altra parte, se la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché lungo la
via sconsigliata la ragione non è impiegata, sotto l’effetto appunto
dell’abitudine32. Costantemente sottoposti a input sensibili che
richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una
acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una
spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di
vista: κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων
Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime
barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107). L’Efesio riconosce
all’anima una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la
consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e
in genere sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) –
integrata dalla capacità di discernimento, senza la quale, sostiene il
filosofo, i sensi sono fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono
insufficienti, richiedendo il vaglio critico della psychē, proposta come
istanza indipendente rispetto alla sensibilità. Interessante, nella prospettiva
parmenidea, l’uso dell’aggettivo «barbaro», in cui è stata ravvisata la
probabile implicazione linguistica: il termine si riferisce, 31 Ruggiu, op.
cit., p. 267. 32 Conche, op. cit., p. 121. 417 infatti, o al balbettare di chi
non ha un buon controllo della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di
chi non conosce il linguaggio. A sottolineare l’essenziale ruolo dell’anima
come facoltà di raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici. In
Parmenide, come in Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei
giudizi e del linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che attestare
presenza e assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio umani, che
attribuiscono ai dati sensoriali una consistenza ontologica che essi non
rivendicano33. L’erramento dei «mortali» è marcato dalla Dea (come in B6.4-9)
come erramento del pensiero, intellettuale: se consideriamo il contesto del suo
discorso, assicurato da B1, potremmo convenire con Conche che, se la via della
Dea è discosta «dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου B1.27),
l’abitudine, al contrario, pare proprio trattenere e intrattenere su quel
percorso34. In questa prospettiva l’esortazione rivolta al kouros in B7.2 (ἀλλὰ
σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα) può essere letta di nuovo in parallelo
con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6):
l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini»
(τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela nella tensione tra il suo discorso
consapevole - che annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e
l’incomprensione degli uomini (nei frammenti connotata come torpore,
stordimento, una sorta di sonnambulismo) per le cose che li circondano, tanto
più grave in quanto essi pure si muovono nell’ambito di quella legge universale
e eterna, cui è improntato il divenire di tutti gli enti. Ramnoux35 preferisce
allora al termine «abitudine» il termine «costume», per evidenziarne un
effetto: esso ci spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un punto
di visto ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria
identità. Per questo, dunque, l’appello personale della Dea al discepolo
affinché valuti 33 Ivi, p. 122. 34 Ivi, p. 121. 35 C. Ramnoux, Parménide et ses
successeurs immédiats, Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La referenza è di
Conche, op. cit., p. 121. 418 ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione
suggestiva: l’abitudine esercita il suo potere in modo insidioso, facendo leva
sulla pressione sociale, con il risultato di alienare il giudizio personale nel
giudizio collettivo. La via ordinaria è la via “collettiva” dei mortali; la via
della Dea, la via della Verità, è la via “singolare” del kouros37. Sempre in
relazione a Eraclito, ma all’interno del più generale quadro di riferimento
della cultura arcaica, Cerri 38 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il
«vezzo di molto sapere». I termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo
di πολυμαθία e ἱστορία) indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a
collezionare notizie, denotando in ultima analisi una forma di cultura
nozionistica, nell’antichità attribuita per esempio a Solone39, impartita con
la memorizzazione scolastica, che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente
condanna (come πολυπειρία e πολυμαθία), ma già duramente stigmatizzata, come in
precedenza ricordato, da Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli
Marciano40, anche Chiara Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto
presocratico (in particolare in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante
la polemica nei confronti di altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in
campo culturale e sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre
critiche di Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come
sapienza tradizionale, che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte
cose41. 36 Che, ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. 37 Conche, op. cit.,
p. 122. 38 Op. cit., pp. 61-2. 39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe
compiuto viaggi in giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e di indagine
conoscitiva». 40 M.L. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des
Présocratiques: adversaires et destinataires”, cit., pp. 83-114. 41 Robbiano,
op. cit., p. 102. 419 Occhio, orecchio e lingua La “forza” della consuetudine è
dunque contrastata dalla “persuasività” (B2.4) che caratterizza il viaggio
lungo la via autentica42: il logos deve rettificare l’eco confusa della comune
ricezione empirica, la cui cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la distorsione:
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν
ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti
faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la
lingua (B7.3-5). Parmenide recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in
Omero43 e nei lirici e ritornerà ancora in Empedocle (DK 31 B3), ma
soprattutto, come abbiamo già ricordato a proposito di B6.7, in Eschilo: οἳ πρῶτα
μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι
τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα Dapprima essi [gli uomini], pur avendo
occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni
simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo,
Prometeo incatenato 447-50). Couloubaritsis ritiene che i μὴ ἐόντα
(analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da identificare con le “cose”, cui
Parmenide 42 Coxon, op. cit., p. 191. 43 Coxon (p. 192) sottolinea la risonanza
omerica (non l’uso che se ne fa ) dell’intero verso 4. 420 negherebbe lo
statuto di essere, attribuendo al commercio quotidiano con esse, all’esperienza
multipla, quella violenza sul pensiero che si traduce nella identificazione del
reale con il divenire44. In verità, la Dea insegnerebbe che il loro statuto è
quello di «nome» (ὄνομα): svuotate di ogni consistenza ontologica, le “cose”
sono così destinate a sparire. Secondo l’autore belga, dunque, questa prima
forma di “nominalismo” condannerebbe ogni tentativo di attribuire realtà alle
cose come «vuoto parlare», «parlare per non dire niente»45. Noi riteniamo che
in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia contro il modo comune di guardare
alle cose e di esperirle: i mortali implicano il non-essere nel tentativo di
comprendere la realtà attraverso il dato sensibile: dunque, per riprendere una
osservazione della Robbiano46, la Dea ammonisce la propria audience che quando
si coinvolge il non-essere, non si troverà la verità. Per riprendere una
formulazione, che ci pare efficace, della Wilkinson47, la Dea «non critica i
mortali perché percepiscono in modo scorretto, piuttosto critica i mortali
perché nominano in modo scorretto quello che percepiscono»48. Logos e elenchos
Il frammento si chiude con una esortazione notevole: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον
ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me
enunciata (B7.5-6). L’interesse del passo è legato alla connessione tra
vocaboli destinati a diventare tecnici nelle filosofie posteriori - λόγος e 44
Mythe et Philosophie…, cit., p. 201. 45 Ivi, pp. 201-2. 46 Op. cit., p. 97. 47
Op. cit., p. 105. 48 Enfasi dell’autrice. 421 ἔλεγχος: il kouros è invitato a
valutare, a sottoporre a scrutinio, con il logos (con il discorso, con
l'argomentazione) l’elenchos (qualificato come πολύδηριν, «polemico», ma anche
«molto contestato») appena proposto (sulle implicazioni temporali del
participio aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La Dea, con
trasparenza, sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza
della forza (razionale) della contestazione condotta: (i) ogni distanza (tra
umano e divino) è così annullata sul terreno dell’argomentazione: il potere del
logos può accomunare docente e discente; (ii) giudicare e discriminare appaiono
come operazioni implicanti il logos e riferentesi a una «prova» destinata a
contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende accertare una
contraddizione. Il termine λόγος indicava originariamente l’attività e il
risultato del «raccogliere» (λέγειν), donde una prima associazione semantica
alla «numerazione» e le successive due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e
«racconto» (inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi
«discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento». Nel nostro
contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di operatività
razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, λόγος
risulta polivalente, designando a un tempo il «discorso», la sua espressione
scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in
cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura interna.
Secondo Ruggiu49, anche in Parmenide, come in Eraclito B1, λόγος indicherebbe
quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente al νόος)
consente di penetrare il senso profondo delle cose. A determinarne l’accezione
è proprio l’associazione con ἔλεγχος: il valore etimologico originario del
verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è «provocare vergogna»,
una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura; collegato a esso è il
significato di «smentire una menzogna», riuscire a provare che qualcuno è
colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49 Op. cit., p. 267. 422
modo il verbo abbia assunto il senso di «mettere alla prova, verificare,
accertare qualcosa». L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra dunque riferirsi
proprio alla critica, sviluppata tra B6 e B7, nei confronti della presunta
sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi di pensatori ionici e forse
pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo che la polemica è
consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione implicita in quelle
posizioni. La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) propone l’espressione diretta della
semplice e immediata esperienza della realtà, ἔστιν, contrapponendole la
negazione (οὐκ ἔστιν): da questa alternativa fondamentale e radicale, può
ulteriormente ricavare τό μὴ ἐὸν (B2.7) e τὸ ἐὸν (B42; ἐὸν B6.1) come soggetti
(ancorché il primo solo logico, il secondo reale) delle due coerenti «vie per
pensare». Quindi, dopo aver riformulato (B6.1-2) in termini tautologici (ἐὸν ἔμμεναι;
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) il contenuto delle vie, ella si concentra (B6.4-9; B7) sul
cortocircuito prodotto nel pensiero (νόος) dei «mortali» dalla loro
contraddizione50, cioè dall’incauta contravvenzione delle norme: οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3b); χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). In questo senso la «prova» intorno a cui
la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore accezione aristotelica,
una «confutazione» (ἔλεγχος), deduzione di una contraddizione (ἀντίφασις), cioè
procedimento dialettico per eccellenza 51. 50 Heitsch, op. cit., p. 161. 51 Su
questo si vedano in particolare i contributi di Enrico Berti, ora raccolti in
E. Berti, Nuovi studi aristotelici. I – Epistemologia, logica e dialettica,
Morcelliana, Brescia 2004. Il frammento B8 ci è interamente conservato da
Simplicio, in due passi del suo commento alla Fisica aristotelica, ma brevi
citazioni (per lo più di singoli versi) sono riscontrabili nello stesso
commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo Aristotele, Aetius, Plutarco,
Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo, Ammonio, Filopono, Asclepio,
Damascio. La collazione dei codici ha creato, almeno in alcuni casi, non pochi
problemi per la ricostruzione del testo originale, con conseguenti, profonde
divergenze interpretative, come abbiamo già documentato nelle note. L’acribia
nella discussione critica si giustifica per il rilievo del lungo frammento,
attestato dalla stessa messe di citazioni e comunque dalla sua eccezionale
tradizione (B8 rimane uno dei più lunghi passi superstiti della sapienza greca
arcaica): con tutta probabilità in questi versi Simplicio ci ha conservato
(consapevole della rarità dell’opera) l’intera comunicazione di verità del
poema - dopo le premesse (B2, B3) e un primo esame critico (B6 e B7) - insieme
con l’introduzione della sezione convenzionalmente designata come Doxa (che,
secondo i calcoli contemporanei, da sola doveva coprire i 2\3 dell’opera): καὶ
εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ
πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ
λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ
μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν anche a costo di sembrare insistente, vorrei
aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere
uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto
parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere, le cose stanno così: [B8.1-52]
(Simplicio, Commentario alla Fisica 144, 25-29). Nella nostra edizione e nel
nostro commento abbiamo deciso di dividere i due segmenti, ma solo per ragioni
di omogeneità: abbiamo in altre parole preferito concentrare l’attenzione prima
424 sulla presunta ontologia del poema, per passare poi in modo più sistematico
a discuterne i principi interpretativi della natura. La via «che è» e la Verità
Diogene Laerzio (IX.22), a proposito delle tesi di Parmenide, afferma: δισσήν
τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la
filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo
opinione. Alla luce di quanto risulta dalla nostra analisi di B1, tale
struttura emerge dal programma annunciato dalla Dea in B1.28b ss.: χρεὼ δέ σε
πάντα πυθέσθαι ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità
ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero
esistenti. Nella prima sezione (dopo il proemio) indicata - per antica
consuetudine, sulla scorta di tale programma - come Verità1, ritroveremmo
dunque - concentrato essenzialmente in B8 - l’insegnamento (πυθέσθαι, anche
«imparare») del «cuore fermo di 1 E che – ricordiamolo - Parmenide in B2.4
designa come Πειθοῦς κέλευθος - «percorso di Persuasione». 425 Verità ben
rotonda» (ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla denuncia (B6, B7 e
ancora B8) dell’errore insito nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας). La
sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra interpretazione) da
mettere invece in relazione all’ultimo punto del programma: conterrebbe cioè
una lezione (μαθήσεαι, «apprenderai») adeguata su τὰ δοκοῦντα, sui contenuti
dell’esperienza. È significativo dell'originalità della sezione sulla Verità –
soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più numerose e
consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse articolato il
poema – Proemio, Verità, Opinione - l’apertura proemiale, che si prestava
all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età ellenistica:
probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione
da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il
testo (forse da fonte non attica2 ). In genere, però, già la produzione del V
secolo a.C. attesta l’incidenza del modello argomentativo e della concettualità
della Verità, che doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione
ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che i
"naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3, abbiano
adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente
eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo
subordinatamente (so- 2 Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe
utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel
secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso,
invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica
redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto
disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un
esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean
Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of
Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot
2002, pp. 51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero
mutuato le caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si
sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi
giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno,
forse, di continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce
esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il
proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con il poema. 426
prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi
come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante
osservare come, anche da un punto di vista “musicale”, dell’esperienza di
ascolto dell’intero poema, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla
cadenza del verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio
ritorna alla semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio4. La reiterazione di ἔστιν (senza soggetto) produce
(i) un’interruzione di ritmo (suono) e (ii) una dissociazione di significato5,
come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le regolari relazioni
semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il poema si legga in
silenzio, sia che si ascolti in lettura, in B2 e B8 “è” (senza soggetto)
incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico consueto nei due
terzi finali del discorso della dea6. La via che è L’attacco del frammento (vv.
1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς… Unica parola
ancora, della via che «è», rimane; su questa [via] sono segnali molto numerosi:
che... Esplicito il richiamo a B2 (μῦθος; ὁδός) e ai suoi esiti: rimane
un’unica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto l’impraticabilità di
alternative. È giunto dunque il momento di in- 4 L.A. Wilkinson, Parmenides and
To Eon…, cit., p. 107. 5 Ivi, p. 96. 6 Ivi, p. 107. 427 camminarsi lungo la via
che appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo Parmenide è ancora più netto nei
vv. 15-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν,
ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è.
Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale. Nel sottolineare la bontà del proprio argomento, la Dea ricostruisce
sinteticamente la ratio per cui μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται («unica parola
ancora […] rimane» B8.1-2), evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν
(espressione sincopata delle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι di B2.2) – e la
conseguente, necessaria esclusione della via «che non è» (B2.7-8): «non è
fattibile» (οὐ ἀνυστόν) conoscere (γνῶναι) e indicare (φράζειν) «ciò che non è»
(τό μὴ ἐὸν). In questo senso va intesa la coppia di aggettivi «impensabile» (ἀνόητον)
e «indicibile» («senza nome», ἀνώνυμον): la via ὡς οὐκ ἔστιν (τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι) è effettivamente impalpabile (B2.6), «sentiero del tutto privo di
informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν). La «decisione» (il «giudizio», κρίσις) è
conseguente: come destino («necessità», ἀνάγκη), ricorda la Dea, si è
riconosciuto che non si tratta di via «genuina» (οὐ ἀληθής ἔστιν ὁδός), lungo
la quale sia realmente possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. All’inizio
di B8, delle «uniche vie di ricerca […] per pensare», non rimane quindi che
imboccare quella «reale» (ἐτήτυμον), quella, appunto, ὡς ἔστιν (τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι): muoversi sul terreno di «è e non è possibile non essere»,
rinunciando a dare 428 consistenza a «non-è ed è necessario non essere»,
garantisce intelligibilità e comprensione della realtà7. Una sola parola L’eco
inziale del μῦθος che la Dea aveva invitato il kouros ad accogliere e
conservare - e che dunque propone i tratti di un authoritative speech act
(Morgan) – è funzionale alla successiva notifica della vanità del nominare
mortale (B8.38b-39): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι
ἀληθῆ Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono,
persuasi che fossero reali, ma anche al rilievo della svolta introdotta in
conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una formula indicativa: ἐν τῷ σοι
παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε
κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al
discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi
opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può
ingannare (B8.50-52). La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea traccia i
contorni della realtà attraverso l’esclusione sistematica di ciò che, nella
propria inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela ἀνόητον ἀνώνυμον. Si tratta della
rigorosa applicazione argomentativa della formula della prima «via»: 7 Sul
rapporto tra il tema della “via” e l’unicità del discorso in apertura di B8 si
veda in particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide, in
Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30. 429 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è possibile non essere. In questo senso, in B7.5
ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente (κρῖναι δὲ λόγῳ) la
«prova polemica» (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse – ipotizzando una
sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il
commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) – l’apertura
con l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται. Tale μόνος μῦθος è relativo
alla «via: è» (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui la Dea informa (vv. 2b-3a): ταύτῃ δ΄ ἐπὶ
σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il
discorso è uno, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile;
molti i «segni» (σήματα) che consentono di identificarla8, molti gli argomenti
che possono essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra
πολύδηρις ἔλεγχος, μόνος μῦθος e σήματα. Come rivela il precedente epico del
riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere
usati per provare (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona9. Sarà
allora lo stesso intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν
e dunque a mostrare l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei
«mortali»: essi ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come
evidenza ultimativa la molteplicità di enti, senza ricondurla all’identità
dell’«essere». Il μόνος μῦθος che la θεά articola in B8.1-49 corrisponde a
quanto annunciato (B2.4) come Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Persuasione») in
quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ («tien dietro a Verità»): lungo la 8 Secondo gli
interessanti rilievi di Robbiano, op. cit., pp. 108-9. 9 Ibidem 430 «via: è e
non è possibile non essere» si esprime – non solo per l’autorevolezza
dell'indicazione divina, ma per l’intrinseca costruzione razionale – quella
πίστις ἀληθής (B8.28) che era stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali»
(ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής, «in cui non è reale credibilità»). Con una
differenza significativa: nel proemio il kouros doveva semplicemente registrare
un annuncio; la πίστις ἀληθής rappresentava quella credibilità che la Dea
disconosceva alle convinzioni correnti. In B8 è lo stesso «convincimento»,
maturato argomentativamente, a trattenere dalla distorsione tipica dei «mortali
che nulla sanno»: considerare (νομίζειν) (B8.27-28): ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε
μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής poiché nascita e morte sono state
respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Analogamente, in
B6.4-9 e B7.1-5 la Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica
corrente, mettendo in guardia il kouros: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν
< πλάσσονται > […] ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν […] [ti tengo lontano] da quella [via] che appunto
mortali che nulla sanno, […] schiere scriteriate, per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa […] οὐ γὰρ
μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα·
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω Mai, infatti, questo sarà
forzato: che siano cose che non sono. 431 Ma tu da questa via di ricerca
allontana il pensiero; né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti
faccia violenza. In B8.38 ss. è lo stesso μόνος μῦθος (articolato in relazione
ai σήματα) a svelare in che cosa effettivamente consista quello stravolgimento:
perdere di vista il fatto che, prescindendo dall’unico referente reale
(l’essere), i vari nomi con cui designiamo i fenomeni della nostra esperienza
sono, in realtà, solo simboli: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome,
quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali: nascere e morire,
essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. L’«essere» (τὸ ἐόν),
ovvero «ciò che è» (ἐόν), è la sola cosa che possa essere pensata ed espressa
nel linguaggio: a qualsiasi cosa i mortali pensino o di qualsiasi cosa i
mortali parlino e in qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi in realtà
pensano o parlano di ciò-che-è 10. Questa è la lezione che si ricava dalla
«parola» della Dea: trasfigurazione del linguaggio dell’esperienza, della rappresentazione
ingenua, ma anche della (contestata) cosmologia ionica. Una lezione che
discende, dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), condotta escludendo τό μὴ ἐὸν:
l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa attraverso i «segnali»
che possono identificarla per la ragione. In questa prospettiva i vv. 50-52
marcano effettivamente un passaggio, dal momento che spostano l’attenzione (e
l’istruzione) del kouros da quella manifestazione – il «discorso affidabile»
(πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) – all’ambito delle
nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα 10 R. McKirahan, “Signs and Arguments
in Parmenides B8”, cit., p. 205. 432 B1.31), da ridurre a uno schema
interpretativo adeguato (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα B1.32). È
la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a rilevarne
con formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla κρίσις (ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo statuto trascendentale.
La «parola», infatti, nel suo procedere argomentativo, appalesa, della realtà
(τὸ ἐόν), ordine e superiore garanzia: «Giustizia [lo] tiene (ἔχει)»,
«Necessità potente [lo] tiene (ἔχει)», «Moira (Destino) lo ha costretto (ἐπέδησεν)».
La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta, esplicitamente
determinata: è sempre la divinità a sottolinearne la materia diversa –
conseguenza dell’adozione di un punto di vista che potremmo definire “umano”:
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε («da questo momento in poi opinioni mortali
impara» B8.51-2). Contestualmente, nell’abbandonare la parola garantita e il
suo oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi σήματα), è la Dea stessa a mettere in
guardia sul passaggio dal rigore del «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον), del
«pensiero intorno alla Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης), alla ricostruzione
potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, «ascoltando
l’ordine delle mie parole che può ingannare»). Il poeta segnala il cambio di
registro anche a livello espressivo, tornando, come abbiamo in precedenza
ricordato, alla semantica convenzionale e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio: in questo senso, rispetto ai versi centrali della
Verità, ἀπατηλὸν (passibile di inganno) appare effettivamente l’organizzazione
stessa delle parole11. L’attuale frammento B19 confermerà la natura “umana”
della prospettiva (κατὰ δόξαν) adottata, e la sua peculiare costruzione
linguistica: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ 11 L.A.
Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 433 Ecco, in questo modo,
secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito
sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero,
distintivo per ciascuna. La via e i suoi «segnali» La Dea si affretta a
osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός (ὡς ἔστιν), come: ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι
πολλὰ μάλ΄ su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il rilievo è importante
perché sottolinea la fondatezza della comunicazione divina, sottraendola
all’arbitrio, e la sua intenzione razionale: essa allude a «segni», proprietà,
evidentemente da riconoscere come genuini indicatori della realtà, e implicitamente
è introdotta la loro discussione. La presenza di «segnavia» lungo un percorso
(κέλευθος) è naturale, così come la loro funzione di orientamento: trattandosi
di Πειθοῦς κέλευθος, il compito educativo della Dea diventa quello di
illustrarli e, così facendo, di sviluppare la conoscenza della via, di guidare
alla comprensione dell’essere. I σήματα si riferiscono immediatamente alla ὁδός,
non a τὸ ἐόν, ma la loro discussione, il riconoscimento della loro funzione,
contribuisce a determinare e far prendere consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν:
la «via», in effetti, è indicata come ὡς ἔστιν. In questo caso la natura
descrittiva dei «segnali» rispetto al percorso di conoscenza si fa ancora più
netta. Simplicio (Phys. 78, 11) parla di τὰ τοῦ κυρίως ὄντος σημεῖα, che
potremmo tradurre come «connotazioni dell’essere che veramente è». 434 Segnali
La Dea ne propone un catalogo, nel seguito utilizzato (anche se non
integralmente) per l’analisi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον
μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto
intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà,
poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Dei molti problemi testuali abbiamo
dato notizia in nota. Qui interessa tentare di comprendere che cosa i σήματα
rappresentino per l’autore. Una prima risposta possiamo ricavare dalla versione
che abbiamo proposto (una delle possibili): la via ὡς ἔστιν è tradotta in
termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo stesso emerso in B6.1) e,
apparentemente12, due serie di predicati: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον,
μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. I
«segnali molto numerosi» sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque caratteristiche
che si possono legittimamente riferire a «ciò che è», sulla scorta – come
risulterà più chiaramente nel corso della esposizione divina (e come abbiamo
anticipato) - della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando diversamente lo
stesso concetto: predicati essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e deducibili) dalla
12 Come segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer (tra gli altri),
fanno iniziare l’analisi dei segni dal v. 5, con ciò considerando gli attributi
dei vv. 5-6 già parte della discussione e non propriamente σήματα. 435 stessa
nozione di ἔστιν (τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν
(τε καὶ [...] χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti all’essere, essi ne manifestano
la natura. È plausibile nel contesto che la Dea intenda σήματα e ἔλεγχος non
disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento conoscitivo richieda non
semplicemente il catalogo, ma l’argomentazione che lo sostiene. Anzi, dal punto
di vista della lezione divina, la valutazione razionale del giovane allievo
appare preoccupazione primaria, come marcato in B7.5-6: κρῖναι δὲ λόγῳ
πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova
polemica da me enunciata. I «segnali» potrebbero dunque costituire il materiale
concettuale su cui esercitare la razionalità del kouros, con un duplice scopo:
(i) fargli prendere confidenza con τὸ ἐόν; (ii) fargli prendere coscienza delle
inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche, forse pitagoriche). Si
tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia, nella misura in cui
il riconoscimento della natura di «ciò che è» comporta, per un verso, la presa
di distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile, per altro la
contestazione di lezioni concorrenti. Così ritroveremo riaffermato (B8.34-36a)
il nesso tra pensiero (addirittura nella formulazione astratta τὸ νοεῖν) e
essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa invero è pensare e il
pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso,
troverai il pensare. Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di B3: τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere, 436
e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως
ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι
Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. L’aspetto che appare
tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il fatto che alcuni dei
«segnali» fondamentali siano evidentemente costruiti - sul piano linguistico –
con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo (attraverso ἔλεγχος,
confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di senso comune (nascita
e morte, accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un risultato che a loro
modo anche la sapienza ionica aveva ottenuto, ma, come rivelerebbe la
discussione parmenidea, in modo contraddittorio. In questo senso, i σήματα
possono essere letti come elementi concettuali espressamente rivolti a
contestare i metodi tradizionali di interpretazione dell’universo13. Il
catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni
contributi della elaborazione cosmologica arcaica14: (i) il paradigma di fondo
della cosmogonia (B8.6-21); (ii) il modello esplicativo per successive
differenziazioni – quale è possibile intravedere nelle testimonianze su
Anassimandro e Anassimene (B8.22-25); (iii) la riflessione sul mutamento – cui
possono ricondursi in parte i frammenti di e le testimonianze su Anassimene e
Eraclito (B8.26-31); (iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che
possiamo ritrovare nelle testimonianze su Anassimandro (B8.32-49). È allora
possibile che la natura dei σήματα non fosse quella di predicati astratti,
concettualmente dedotti dalla nozione di «esse- 13 Robbiano, op. cit., p. 109.
14 Ibidem. 437 re», bensì quella di contrafforti dialettici scaturiti dal
confronto con specifiche dottrine, e, in questo senso, storicamente,
culturalmente determinati. La loro funzione “segnica” rispetto alla «via»
consisterebbe nell’evitare che essa possa essere abbandonata, seguendo il richiamo
di assunzioni acritiche ovvero di presunte, scorrette, teorie. Donde l’impronta
discutiva e confutatoria dell’analisi di Parmenide. La via, i segnali e la
guida D’altra parte è evidente nel testo come la Dea scelga di riferirsi ai
«segnali» nel contesto della propria istruzione al kouros, del proprio
esercizio di guida. Anzi: ella guida attraverso σήματα, che impegnano
razionalmente. La tradizione li conosceva come «segni augurali» che gli
indovini dovevano interpretare15, come mezzi di rivelazione di una potenza
superiore16. In questo senso il contemporaneo Eraclito evocava lo stesso
modello: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ
σημαίνει Il signore, di cui è l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde ma dà
un segno (Plutarco; DK 22 B93). Anche la dea di Parmenide invia segnali ai
mortali, per far conoscere cose normalmente oltre la loro portata: Robbiano e
Cerri hanno probabilmente ragione nel sottolineare come il termine σήματα non
si riferisca allora tanto ai predicati enumerati in B8.2- 6, quanto ai
successivi argomenti, risultando essenziale nella relazione tra l’umano e il
divino il momento dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In
questa prospettiva – come rilevato da Mourelatos17 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν)
si salderebbero nel motivo della quest: per raggiungere il fine della ricerca è
necessa- 15 Cerri, op. cit., p. 219. 16 Mansfeld, op. cit., p. 104. 17 Op.
cit., p. 94. 438 rio percorrere la strada «che è»; per fare ciò è necessario
tenere d’occhio i segnavia. L’accostamento al modello oracolare - giustificato
non solo dalle implicazioni tra σήματα e σημαίνειν, ma pure dal nesso lessicale
tra σήματα e σημεῖον, termine per «segno divinatorio» (di qualsiasi tipo), e
«responso oracolare» (testo verbale) – è ricco di risvolti significativi nel
contesto. Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera divina: nel segno
la sapienza divina irrompe nell'ambito umano, per condensarsi poi nel
responso,: la parola del responso è umana come suono, ma rivela una conoscenza
che separa l'uomo dal dio18. Ora, non vi è dubbio che Parmenide rielabori, in
forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo scarto conoscitivo e il
suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come evento privilegiato.
Come ricorda la Robbiano19, la dea di Parmenide evoca un dio che manda segnali
ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata:
non dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione comporta la conoscenza
delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in
passato: […] τοῖσι δ’ ἀνέστη Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος, ὃς ᾔδη
τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον εἴσω ἣν
διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων Si alzò allora Calcante, figlio di
Testore, di gran lunga il migliore degli indovini, il quale conosceva le cose
che sono, le cose che saranno, le cose che furono, e aveva guidato le navi
degli Achei fino a Ilio grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo (Iliade
I, 68-72). 18 Su questo punto si veda G. Manetti, Le teorie del segno
nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987. 19 Op. cit., p. 126. 439 In
Parmenide è la divinità stessa a indicare i «segnali» che tracciano la via al
pieno dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli
per il kouros; è la divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini
e discorsi: essa riassorbe in sé, insieme alla funzione rivelativa, anche
quella di μάντις e προφήτης, marcando l’eccezionalità del privilegio concesso.
Il «colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni cosa» (Pindaro), la visione
simultanea di passato, presente e futuro, si presenta nei segni che l’indovino
deve riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali.
In questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse
(le quali garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello
sviluppo del canto), ma “laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque
diversamente declinata. La Dea, infatti, propriamente non ispira un canto,
piuttosto insegna argomentando; pur marcando lo scarto tra umano e divino, ella
comunica razionalmente, insistendo sulla «forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς),
sulla «convinzione genuina» (ovvero «reale credibilità», πίστις ἀληθής), per
illustrare i σήματα al proprio interlocutore (cui è richiesto di non accogliere
supinamente, ma riflettere su quanto comunicato): interpretarli significa, nel
nostro contesto, giustificarli razionalmente alla luce dei principi (le «vie»)
introdotti in B2. Alla ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una
sostanziale revisione: è attraverso ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato
della «via che "è"»; è contestando ed escludendo errate assunzioni di
senso comune e contributi teorici concorrenti che ella viene determinandola
dialetticamente. È indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide
scelga di proporre in prima istanza un catalogo (memorizzabile) di «segni»,
quindi un prolungato sforzo argomentativo – un unicum nel panorama della
produzione arcaica –, sostenuto da una serie di immagini plastiche (catene,
legami, sfera) e figure (divine). Ritroviamo sapientemente intessuti ἔλεγχος,
metafora e mito, quasi costituissero ancora tre aspetti inscindibili di una
stessa esperienza comunicativa. Segnavia 440 L’attacco di B8 sottolinea dunque
una volta di più il ruolo della guida divina e la centralità del tema della
via: è la Dea, infatti, a ricordare come rimanga ancora solo la possibilità di
un μῦθος; è la Dea ad annunciare i «segnavia» (σήματα) e quindi che il percorso
sarà discorsivo. È la Dea, insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità
della via che resta (ὡς ἔστιν), ma prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il
giovane discepolo deve sostenere. Come opportunamente osservato da Coxon20, B8
è introdotto da un resoconto delle evidenze lungo la via, sulla quale, nella
narrazione, il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti di B8 valgono quindi
come guida (filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la direzione e
percorrere fino in fondo la «via genuina» (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata come
Πειθοῦς κέλευθος. Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio
registro di evidenze da sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita
(vv. 3-6): ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς
ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές
che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e
senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme,
uno, continuo. Ne abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν: (i) ἀγένητον,
ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,
συνεχές. L’argomento di B8 – pur coinvolgendoli complessivamente – sembra
costruito per privilegiare questi enunciati: 20 Op. cit., p. 193. 441 γένεσις μὲν
ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος è estinta nascita e morte oscura (B8.21) πᾶν ἐστιν
ὁμοῖον è tutto omogeneo (B8.22) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se
stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (B8.29-30) οὐκ ἀτελεύτητον
τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές non incompiuto l’essere [è] lecito che
sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché] (B8.32-33). In questo senso
appare plausibile la ricostruzione di Mourelatos21 (ripresa di recente anche da
Robbiano22), elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui
seguenti blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento: B8.6-21: ἀγένητον
(ingenerato) e ἀνώλεθρόν (imperituro); B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον
(indiviso); B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile); B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον
(non incompiuto); B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto). Possiamo precisare
leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος) di quattro
σήματα di base, riferibili, in quanto «segnavia», direttamente a ὁδός (ma,
nella nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare
gli altri: (i) «senza nascita e morte» (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν B8.5-21); (ii)
«tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον B8.22-25); (iii) «immobile» 21 Op. cit., p. 95. 22
Op. cit., p. 108. 442 (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) «compiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον B8.32-49). Di recente McKirahan23 ha proposto un elenco più
minuzioso, classificando con una più articolata suddivisione in gruppi tutti i
predicati: A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro) B: οὖλον (intero)
τέλειον24 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene insieme) C:
οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è ora) D: ἀκίνητον
(immobile) ἔμπεδον (immutabile) E: ἀτρεμὲς (stabile) F: μουνογενές (unico25) ἕν
(uno). Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di Mourelatos che abbiamo
precisato, integrandolo con le osservazioni desumibili dall’elenco di
McKirahan. Ingenerato (e imperituro) Il vero e proprio attacco argomentativo
del frammento è formulato come interrogazione (vv. 6-7)26: τίνα γὰρ γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?
Come e donde cresciuto? 23 “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The
Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham,
O.U.P., Oxford 2008, p. 191. 24 McKirahan legge hdè téleion in vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον.
25 Noi abbiamo preferito rendere come «uniforme». 26 Ma alcuni sostengono che
l'argomentazione cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται... 443
L’implicita opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si
limiterà a ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico
confronto dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso
comune) che è necessario confutare per dimostrare la propria tesi. Un possibile
modello argomentativo I versi 7-15 – nella versione (a dire il vero tormentata)
che abbiamo accolto e tradotto27 - possono esemplificare efficacemente la
struttura del procedimento razionale di Parmenide: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν
μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ
πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί. οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει
πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε
Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· Da ciò che non è non permetterò che tu dica e
pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». Quale bisogno,
inoltre, lo avrebbe spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima?
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Né mai concederà forza di
convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere né morire
concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 27 Come risulta dalle
annotazioni al testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten
della forma ἐκ μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ < τοῦ ἐ >
όντος.L’argomento – insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come
soggetto sottinteso (nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne
generazione (τίνα γένναν αὐτοῦ; - «quale nascita di esso?») e derivazione (πῇ
πόθεν αὐξηθέν; - «come e donde cresciuto?»), la Dea non concede: (i) che esso
possa nascere (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - «da ciò che
non è» (ἐκ μὴ ἐόντος); (ii) che esso origini (γίγνεσθαi) «dall’essere» (ἐκ <
τοῦ ἐ > όντος). Non rimanendo alternative, ella conclude il proprio
ragionamento (a dimostrazione della tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν)
appoggiandosi alla superiore garanzia di Dike (il nume tutelare dei limiti e
delle prerogative a essi associate), la quale vincola ciò che è a essere ἀγένητον
(e ἀνώλεθρόν). La struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come
segnalato dall'uso di οὔτε (v. 7) e οὐδέ (v. 12): «non è vero questo, e neppure
è vero quest’altro», dove «questo» e «quest’altro» rappresentano le uniche due
possibilità concepibili in proposito28, appunto ἐκ μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ <
τοῦ ἐ > όντος (v. 12 emendato). Di questa struttura si trova conferma nello
scritto Sul non-essere di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus
mathematicos VII, 71): καὶ μὴν οὐδὲ γενητὸν εἶναι δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ
γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ τοῦ ὄντος γέγονεν·
[...] οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος·[...] οὐκ ἄρα οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν E ancora,
l'essere non può neppure essere generato: se è stato generato, infatti,
certamente è stato generato o dall'essere o dal non-essere; ma non è stato
generato né dall'essere [...] né dal non essere [...]. L'essere, di
conseguenza, non è stato generato; 28 Leszl, op. cit., p. 177. 445 e in
Aristotele (Fisica I, 8 191 a23 ss.), con chiara allusione anche agli Eleati29:
Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες
γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν
οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων
οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος
ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι
(εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω
δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν.
Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo
diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo
filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una
via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti
nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera,
necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile
che ciò accada in entrambi i casi30. L'essere, infatti, non si genera (perché è
già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve
fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano
allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. Lo stesso
Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre questo
senso: 29 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy cit., pp. 129-133) ha
contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli
Eleati. 30 Enfasi nostra. 446 καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν
ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος
Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato:
mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere
oltre a esso), né dal non essere (162.11). Accettando questa lezione,
ritroveremmo Parmenide impegnato a elaborare una dimostrazione dialettica
rigorosa31: (i) gli interrogativi (retorici: τίνα [...] γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;)
introducono l’ipotesi contraddittoria alla tesi che l’autore intende dimostrare
(nella forma gorgiana: εἰ γὰρ γέγονεν), in questo modo delineando la struttura
dilemmatica di base: «ciò che è è ingenerato» (ἀγένητον ἐὸν) - «ciò che è è
generato» (Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν); (ii) tale ipotesi viene articolata in
un nuovo dilemma: nascita e crescita implicano necessariamente un’origine o (a)
ἐκ μὴ ἐόντος o (b) ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (secondo lo schema citato da
Simplicio); (iii) dal momento che entrambe le possibilità sono razionalmente
insostenibili, l’ipotesi (nascita e crescita di ciò che è) si rivela infondata,
e la sua contraddittoria, la tesi difesa da Parmenide, è dimostrata: «che ciò
che è è ingenerato» (ὡς ἀγένητον ἐὸν … ἐστιν). Come abbiamo già segnalato,
anche il contesto appare implicitamente dialettico: viene (monologicamente)
mimato il dibattito tra un sostenitore (che pone gli interrogativi) e un
oppositore (di cui si anticipano le risposte possibili) della tesi di Parmenide.
Compito (retorico-persuasivo) della Dea rispetto al kouros (e al pubblico di
ascoltatori e lettori di Parmenide) è di illustrare i passaggi della (virtuale)
discussione, marcando il nesso tra «forza di 31 Contro questa ricostruzione,
che presume l’introduzione (consapevole) di un modello argomentativo
dilemmatico da parte dell’autore, può valere l’osservazione di Leszl (p. 178)
secondo cui la sequenza di tre argomenti (vv. 7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a)
rende improbabile una struttura dilemmatica. 447 convinzione» (πίστιος ἰσχύς),
«giudizio» (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη). Appare trasparente nella
confutazione della prima possibilità: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν·
οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è il
riferimento a B2.7-8 e B6.1: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν -
οὔτε φράσαις poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né indicarlo χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι È necessario il
dire e il pensare che ciò che è è. Questo comporta che quanto leggiamo a
livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione
argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta
richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle
«uniche vie di ricerca per pensare» ricavate dall’alternativa «è»-«non-è», il
rifiuto del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di
contenuto da pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della prima
via di indagine («che è»), insieme alla conseguente esclusione di una effettiva
“terza via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di fatto con
i principi di non-contraddizione e del «terzo escluso»32: donde l’impossibilità
di sostenere che «ciò che è» non sia, ovvero 32 Conche, op. cit., p. 142. 448
ammettere qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non sia33. D’altra
parte la pervasiva presenza della Dea - che pone domande e risponde (vv. 6b-7a:
τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che sottolinea i passaggi
(v. 7b: οὔτ΄... ἐάσω;) e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν
τῷδ΄ ἔστιν...), che complessivamente ribadisce il rigore del procedimento
seguito (v. 16b: κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne conferma i risultati
con il proprio commento (l’inciso ai vv. 17b-18a: οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός) –
ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce il ragionamento è
comunque quello di una rivelazione. Il fatto che alcune premesse rimangano
implicite si giustifica forse proprio con la forma apodittica della
comunicazione divina: come osserva Mansfeld34, i «segni» sono ricavati -
immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, le cui premesse sono
garantite dal μῦθος della Dea. Questo potrebbe anche spiegare la scelta
dell’espressione σήματα, il mezzo di comunicazione di una potenza superiore:
Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i
processi (e progressi) del pensiero in B835. Ella sollecita l’autonomia del
discepolo, ma lo invita a registrare e ad aver cura di un μῦθος contrapposto a
quanto comunemente assunto dai «mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “eccede”
lo stesso esercizio razionale, assicurandone i principi, così come le altre
divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke, Moira) “trascendono” (garantendolo)
τὸ ἐὸν, ciò che, secondo l’istruzione razionale, pretende di dominare – di
fronte al pensiero – senza eccezione36. 33 McKirahan, op. cit., p. 192. 34 Op.
cit., pp. 103-4. 35 Mansfeld, op. cit., p. 106. 36 Su questo in particolare la
terza edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata, Mythe et
Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de Parménide
(en appendice traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008, per esempio
p. 247. 449 Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima sezione
argomentativa si apra con tre interrogativi, che offrono alla Dea l’opportunità
di dimostrare ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν; essi sono così formulati
(vv. 6b-7a): τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita,
infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? È possibile intenderli
come introduzione ai tre successivi argomenti: (i) vv. 7b-9a: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che
non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e
pensare che non è; (ii) vv. 9b-10: τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ
πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale necessità lo avrebbe mai spinto,
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? (iii) vv. 12-13a: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai
concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. 450 Le
relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a: τοῦ
εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per
questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo]
tiene. Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare
a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi
retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione dilemmatica sembrano evocare
l’incalzare dialettico di un confronto, i cui termini di riferimento – il
sostantivo γέννα («nascita», «generazione») e il participio αὐξηθέν
(«cresciuto», da αὐξάνω, «crescere, incrementare») – puntano direttamente al
problema dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due espressioni
verbali indicative: ἀρξάμενον (da ἄρχω, «iniziare, cominciare, dare origine»,
da cui ἀρχή, «principio») e φῦν (da φύω, «generare, produrre», ma anche
«sorgere, nascere», da cui φύσις, «natura»). In questo senso le tre formule
inquisitive (τίνα γένναν, πῇ αὐξηθέν, πόθεν αὐξηθέν) potrebbero essere assunte
come equivalenti: la seconda e la terza, in particolare, come riferentesi alle
condizioni necessarie alla nascita: essa è un processo (questo spiega il
«come?») che richiede un’origine («donde?»)37. Analogamente gli argomenti
possono essere letti come momenti della stessa progressione negativa contro
l’ipotesi di γένεσις di τὸ ἐόν: le domande ne articolerebbero le implicazioni
per consentire di confutarne più efficacemente le condizioni di possibilità. 37
McKirahan, op. cit., p. 193; Robbiano, p. 112. 451 Nascita e morte oscura
Proprio la connessione tra γέννα e φύσις (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei
significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide nel nostro passo
discuta il senso stesso della nozione di φύσις, scomponendola nei suoi
originari termini costitutivi, di fatto attaccando la riduzione dell’Essere a
φύσις. Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare, Esiodo (il quale
aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori ionici (per la
ricerca della ἀρχή) 39. Esemplari in questa prospettiva i frammenti di
Anassimandro: ἀρχὴn... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵
καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν
ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. principio delle cose che sono è
l’infinito... è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che
sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero letteralmente: le
cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro origine, verso quelle
stesse cose avviene la loro distruzione secondo necessità]; esse, infatti,
pagano le une alle altre pena e riscatto della colpa, secondo l’ordinamento del
tempo (Simplicio; DK 12 B1) ταύτην (sc. φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου ) ἀίδιον εἶναι
καὶ ἀ γ ή ρ ω che essa [una certa natura dell’infinito] è eterna e non
invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) ἀθάνατον.. καὶ ἀνώλεθρον (τὸ ἄπειρον = τὸ θεῖον)
immortale.... e indistruttibile (Aristotele; DK 12 B3). 38 Per esempio a
Ruggiu, op. cit., p. 289. 39 Ivi, p. 290. 452 Il frammento B1 ci è conservato
nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo commento alla Fisica
aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno degli ultimi a
disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue Opinioni dei fisici:
la citazione, che appare sostanzialmente accurata40, è inserita in una
presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di
vista per intenderne correttamente le parole: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον
εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν
μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον,
ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ...
τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα
μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον
ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν
γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...]
dichiarò l’apeiron principio e elemento delle cose che sono, adottando per
primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né
acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa
altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: [B1],
parlando di queste cose così in termini piuttosto poetici. È evidente allora
che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non
ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcosa di diverso, al
di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno.
[...] (Simplicio; DK 12 A9). 40 Per l’analisi relativa si rinvia al
fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of Greek
Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943, in particolare alla prima parte,
dedicata alla documentazione dossografica. 453 Dal complesso di testimonianza e
citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti
su cui si sarebbe concentrata la sua indagine: (i) l’ἄπειρον come «principio
delle cose che sono» (ἀρχή τῶν ὄντων); (ii) «le cose che sono» (τὰ ὄντα), la
totalità degli enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di
generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (iii) «le cose dalle quali» (ἐξ ὧν)
le altre («le cose che sono») hanno origine: nel contesto molto probabile il
riferimento agli «elementi» (στοιχεία) – nel linguaggio peripatetico della
testimonianza; più plausibile intendere i «contrari» (τὰ ἐναντία) da cui esse
si fomerebbero direttamente, come documentato da PseudoPlutarco: φησὶ δὲ τὸ ἐκ
τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι
καί τινα ἐκ τούτου φλογὸς σφαῖραν περιφυῆναι τῶι περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι
δένδρωι φλοιόν [Anassimandro] sostiene anche che ciò che, derivato dall’eterno,
è produttivo di caldo e freddo fu separato alla generazione di questo mondo, e
da esso una sfera di fiamma si sviluppò intorno all'aria che circonda la terra,
come la scorza intorno all'albero (DK 12 A10); (iv) «le cose verso cui» (εἰς ταῦτα)
si produce (γίνεσθαι) la corruzione delle altre cose: gli elementi (ovvero i
contrari) cui esse si riducono; (v) il come tale processo si sviluppa: «secondo
necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν)
42; 41 Su questo punto la nostra interpretazione diverge da quella di Kahn (pp.
180 ss.), che costituisce ancora un riferimento imprescindibile. 454 (vi) il
perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto
conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας).
Da un punto di vista filologico, Kahn43 ha convincentemente insistito sulla
probabile genuinità della citazione, rilevando, con riscontri nella letteratura
del periodo, le ascendenze ioniche e arcaiche del lessico del frammento: è per
noi di particolare interesse la conferma – addirittura nella costruzione
sintattica – dell’uso omerico di γένεσις nel senso di «generazione» ma anche di
«origine causale» e - accanto alla plausibile autenticità di φθορά (termine non
attestato prima di Erodoto e Eschilo), come in Parmenide impiegato nella
letteratura ippocratica in contrapposizione a αὔξη («crescita») - la
possibilità di τελευτή («morte»), presente, con forme verbali derivate (τελευτᾶν),
in Senofane (τελευτᾶι B27) e appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19). Secondo
quanto attesta Ippolito: οὗτος ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς
γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τὸν ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω
[B 2], ἣν καὶ πάντας περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς
γενέσεως καὶ τῆς οὐσίας καὶ τῆς φθορᾶς [Anassimandro] disse che principio delle
cose che sono è una certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e
l'ordine [il mondo] che è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre
circonda tutti i mondi. parla poi del tempo in quanto la generazione,
l'esistenza e la dissoluzione risultato ben delimitate (DK 12 A11), 42 Secondo
S.A. White ("Thales and the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p.
4) l'espressione rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo
stesso tema l'autore è tornato più diffusamente in "Milesian Measures:
Time, Space and Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy
cit., pp. 89-133). 43 Op. cit., pp. 168 ss.. 455 di quella «certa natura
dell’infinito» (φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe inoltre sostenuto
che (i) è «eterna» (ἀίδιον) e (ii) «non invecchia» (ἀγήρω). Predicati analoghi
a quelli - «senza morte» (ἀθάνατον, immortale) e «senza distruzione» (ἀνώλεθρον)
- che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro, aveva a sua
volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come principio: non a caso marcandone
il nesso con «il divino» (τὸ θεῖον). Ora, è possibile che Parmenide, nel
complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti proprio il modello se non
addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali (ovviamente per
quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono
esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος)
qualcosa possa «essere cresciuto» (αὐξηθέν) – ovvero che qualcosa possa
«nascere» (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον); appare chiaro
soprattutto il disegno di sistematica contestazione di nozioni come γένεσις e
γέννα (cui si deve aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che (ii) «da ciò che
è» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος) possa generarsi «qualcosa accanto [o oltre] a
esso» (τι παρ΄ αὐτό). È una evidenza che la Dea, nella propria confutazione,
insista sulla γένεσις, senza produrre, in effetti, una specifica argomentazione
a supporto dell’incorruttibilità (ἀνώλεθρόν): sebbene poi sottolinei (vv. 14 e
21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere44 che Parmenide giudicasse gli
argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti anche per ἀνώλεθρόν (considerando
l’affermazione dell’indistruttibilità dell’essere implicita nell’esclusione
della sua generabilità45); ovvero che non ritenesse necessario confutare la
corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al precedente; o ancora
che la rubricasse tra le espressioni della via negativa. Significativamente,
egli connota ὄλεθρος («morte», distruzione) come ἄπυστος («oscura», oggetto di
oblio) come aveva fat- 44 Con McKirahan, op. cit., p. 193. 45 Tarán, op. cit.,
p. 106. 456 to per la via negativa con παναπευθής («del tutto privo di
informazioni» B2.6)46. D’altra parte, l’idea di forze elementari a un tempo
«immortali» e tuttavia generate era parte della tradizionale concezione del
mondo omerica ed esiodea (donde il genere teogonico) 47. Lo schema della
testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio potrebbe confermarne il residuo
nella distinzione anassimandrea tra: (i) «principio» - τὸ ἄπειρον, pensato
eterno e stabile, in contrapposizione all’instabilità degli elementi
(στοιχεία); (ii) «contrari» (τὰ ἐναντία: di base «caldo» e «freddo») che
scaturiscono per «separazione» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων), «a causa del
movimento eterno» (διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως), e che producono con il proprio
conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la
«cosmo-gono-phthoria»48); (iii) «cose» (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine
di generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come,
secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a implicare la stessa incorruttibilità
abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i
cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di «generazione», nel
duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di produzione
di altro essere. Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della
discussione arcaica sulla «generazione» nella ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della
«maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων
φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι), secondo cui «principi di tutte le co- 46
Mourelatos, op. cit., p. 97. 47 Ibidem. 48 A. Laks, Introduction à la
«philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10. 457 se» (ἀρχὰς πάντων)
sarebbero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας),
Aristotele osserva: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ
εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι
μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ
τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da
cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un
verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono
essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si
generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva
sempre (983 b8- 13). Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle origini
della tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del divenire degli
enti, l’applicazione di un principio: nulla si genera (dal nulla) e nulla si
distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di «monismo
materialistico»49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente
del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè
verso «quella natura che si conserva sempre» (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης), richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso
al singolare e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti,
precisando tale posizione che riconosce «unico il sostrato» (ἓν τὸ ὑποκείμενον),
Aristotele si riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: ἀλλ’ ἔνιοί
γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν
φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν
τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) 49 Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the
Cosmos…, cit., pp. 48 ss.. 458 ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο
αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν ma alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti
da una tale ricerca, affermano che l’uno è immobile e così anche l'intera
natura, non solo rispetto alla generazione e alla corruzione (questa è infatti
convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro
mutamento: e questo era loro peculiare (984 a29-984 b1). L’inciso nel passo
rende ancora più evidente l’assunto aristotelico secondo cui già i primi
filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò
che non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della
posizione eleatica (a Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è
risultato della “estremizzazione” della stessa doxa adottata dagli Ionici50. In
pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta di continuità tra la posizione
ionica e quella eleatica - nella condivisione del principio esplicativo di
fondo, dall’altro rileva lo scarto alla base della deviazione eleatica
dall'indagine peri physeōs nella radicalizzazione dell’applicazione di quel
principio, che avrebbe condotto alla negazione di ogni forma di divenire e
dunque fuori dell’ambito della filosofia della natura. Torneremo più sotto sul
modello cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema interpretativo
aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle
testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica) faccia in realtà
intravedere la possibilità di una lettura diversa: dalla natura individuata
come origine (ἀρχή) si sarebbero generate, per effetto in ultima analisi del
moto intrinseco, alcune realtà elementari indipendenti (connesse ai «contrari»:
Pseudo-Plutarco accenna a fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il
resto. Un modello pluralistico, che 50 Sulla ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia sono molto interessanti le osservazioni di Leszl in W.
Leszl, “Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to
the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy”,
in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di
M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 355-380, in particolare pp.
362 ss.. 459 ancora risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo51, e che
avrebbe suscitato dunque almeno due ordini di problemi di
"second'ordine" (metacosmologici) per la riflessione posteriore: (i)
perché una realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle
altre? (ii) come è possibile che una natura ne produca altre? Da ciò che non
è... Tornando ora al testo, per mostrare l’insensatezza degli interrogativi
sull’origine di «ciò che è» espressi all’inizio della sezione: τίνα γὰρ γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?
Come e donde cresciuto?, la Dea, come abbiamo già osservato, procede a
considerare una prima eventualità: che ἐόν sia scaturito (nato e cresciuto) ἐκ
μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata sulla base di due successive
argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero sviluppata nei
frammenti precedenti: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ
νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò 51 Su questo schema
interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the Cosmos…, cit.,
capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato dall'autore in saggi precedenti:
per esempio in "Heraclitus' criticism of Ionian philosophy", «Oxford
Studies in Ancient Philosophy», 1997, 15, pp. 1-50. A. Nehamas
("Parmenides Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy,
cit., pp. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto da Graham.
Elabora un modello analogo S.A. White, “Milesian Measures: Time, Space, and
Matter”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, cit., pp. 112 ss..
460 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è».
(vv. 7b-9a). Abbiamo sopra rilevato in questo caso la ripresa delle tesi di
B2.7-8 e B6.1, e dunque di quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i)
esistono solo «due vie di ricerca per pensare» (B2.2); (ii) «una: è» (B2.3),
«l’altra: non è» (B2.5); (iii) la seconda è di fatto impercorribile, in quanto
παναπευθής ἀταρπός («sentiero del tutto privo di informazioni» B2.6); (iv) è
allora necessario che ciò che è sia (cρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι
B6.1). Il primo argomento dipende direttamente dall’autorevolezza (e
dall’autorità) del μῦθος divino, per escludere, con le sue logiche implicazioni
(la formula χρή, con le sue sfumature di cogenza, correttezza e opportunità),
un percorso di ricerca che coinvolga la via negativa, cioè comporti
concettualmente – a qualunque titolo – il ricorso a «ciò che non è». A questa
contestazione fa seguito un secondo, più discusso, argomento (vv. 9b-10): τί δ΄
ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale
bisogno lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o
prima? Come abbiamo segnalato nel commento, il testo greco lascia adito a due
possibili interpretazioni. (i) Perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è»
dovrebbe generarsi? Nel «nulla», in effetti, manca una ragione per cui esso
debba sorgere. (ii) Per quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò
che è» dovrebbe generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più
tardi piuttosto che prima»)? In realtà - «originando dal nulla» - non c’è
ragione per cui un momento debba essere privilegiato rispetto a un altro: non
vi è affatto ragione, dunque, per la sua generazione. In entrambi i casi ci
troviamo in presenza dell’applicazione del principio di ragione, per cui un
evento determinato è necessario 461 che abbia la propria «ragione», cioè la
propria causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo).
La più antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti
ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla
concettualità eleatica): οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ’
ἀνάγκης nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità (DK 67 B2). In
questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi sull’origine di «ciò
che è» è netta: nel «nulla» non è possibile rintracciare tale causa; non c’è
ragione per cui «ciò che è» debba nascere (φῦν) dal nulla. Ma nella seconda
interpretazione, al comune terreno rappresentato dal principio di ragione si
aggiungerebbe un’ulteriore implicazione: il ricorso consapevole
all'indifferenza rispetto al tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi
sia una ragione sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La
nascita in un momento piuttosto che in un altro non è casuale, ma conseguenza
necessaria di una causa determinata53: (i) affinché «ciò che è» si possa
generare, è necessario si generi in un certo momento; (ii) ma, derivando dal
nulla, non c’è ragione per cui si generi in un momento piuttosto che in un
altro; (iii) non essendoci ragione per cui esso si generi in un qualche
momento, esso non potrà mai generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che
faccia la differenza: il non-essere non può fare differenza. È qui possibile
ancora un’eco di Anassimandro, nel cui scritto sarebbe stata presente una
particolare applicazione cosmologica del principio, per giustificare l’immobilità
e la centralità della Terra all’interno della sfera celeste: 52 Leszl, op.
cit., p. 183. 53 Conche, op, cit., p. 140. 462 τὴν δὲ γῆν εἶναι μετέωρον ὑπὸ
μηδενὸς κρατουμένην, μένουσαν δὲ διὰ τὴν ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν La Terra è
sospesa, da nulla dominata: rimane nel suo luogo a causa della equidistanza da
tutto [da tutti i punti della circonferenza celeste?] (Ippolito; DK 12 A11)
μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι κέντρου τάξιν ἐπέχουσαν la terra giace in mezzo,
occupando la posizione centrale (Diogene Laerzio; DK 12 A1) εἰσὶ δέ τινες οἳ διὰ
τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων Ἀναξίμανδρος· μᾶλλον μὲν γὰρ
οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ πλάγια φέρεσθαι προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ μέσου ἱδρυμένον
καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον· ἅμα δ’ ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον ποιεῖσθαι τὴν
κίνησιν· ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν vi sono alcuni, come Anassimandro tra gli
antichi, che sostengono che essa [la terra] rimanga in posizione a causa della
equidistanza: una cosa stabilita al centro, infatti, e equidistante rispetto
agli estremi, non conviene si porti verso l’alto piuttosto che verso il basso o
orizzontalmente; ma poiché è impossibile muoversi contemporaneamente in
direzioni opposte, necessariamente rimane in posizione (Aristotele, De Caelo
295 b11-16; DK 12 A26). Nel caso del Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza
di “ragione” per il movimento in una direzione o nell’altra) è espressa in
relazione ai limiti celesti; Parmenide l’avrebbe applicata al tempo, nel senso
di negare la possibilità che nel nulla si dia ragione per fare differenza, ai
fini di un’ipotetica generazione dell’essere, tra un momento e l’altro. Appare
tuttavia più plausibile che il filosofo intendesse semplicemente marcare la
mancanza di una ragione per cui, «originando dal nulla», «ciò che è» si possa
formare in un qualsiasi momento: nella completa negatività del non-essere non
può tro- 463 varsi alcuna necessità che possa generarlo, nulla che possa
fungere da ragione (causa) per la sua generazione54. Al termine del secondo
argomento, al v.11, abbiamo un rilievo: οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Insistendo sul valore
avverbiale di οὕτως, qui non ritroveremmo la conclusione del ragionamento ma
solo una sottolineatura importante: «ciò che è» deve essere integralmente
ingenerato ovvero assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe
l’alternativa fondamentale della propria rivelazione, escludendo che tra le due
vie possa darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e
non-essere. Come indicato in nota al testo, McKirahan55 ha riconosciuto al
verso una funzione prolettica: segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante
per la successiva discussione. In effetti, πάμπαν πελέναι appare plausibile
parafrasi di «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον), «tutto pieno d’essere» (πᾶν ἔμπλεόν
ἐόντος) - discussi a partire dal v. 22 – piuttosto che di «ingenerato» o
«ingenerato e incorruttibile». Se invece, come per lo più si riscontra tra gli
interpreti, si attribuisce a οὕτως valore conclusivo («perciò»), il verso
risulterebbe comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16 («Il giudizio in
proposito dipende da ciò: "è" o "non è"»), ribadendo
l’assoluta incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio
dal non-essere all’essere (e viceversa): nel contesto questo significa bandire
definitivamente la possibilità di generazione «dal nulla», ovvero che ci possa
essere una diversità dell’essere nel tempo56. Leszl, in particolare, convinto
che l’uso degli avverbi sottolinei nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea
rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: «in ogni momento l’essere c’è
tutto o non c’è per nulla»57. In questo senso la conclusione – e- 54 Leszl, op.
cit., p. 185. 55 Op. cit., p. 194. 56 Leszl, op. cit., pp. 185-186. 57 Ivi, p.
185. 464 scludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa
anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità. Né mai
dall’essere... Accettando l’emendazione di Karsten, i vv. 12-13a risultano: οὐδὲ
ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né
mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. In
pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è»
dal non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità
alternativa: che «ciò che è» si generi da altro essere. In che senso, infatti,
«qualcosa» (τι) potrebbe «generarsi» (γίγνεσθαί) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ
> όντος)? Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ < τοῦ ἐ >
όντος introduca implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso
dall’essere, cioè che «accanto [o oltre] a esso» (παρ΄ αὐτό) possa prodursi
altro. È plausibile che anche qui egli si confronti direttamente con la
riflessione sull’ἀρχή: nella misura in cui si riconosca l’ἀρχή come «ciò che è»
e si tenga fermo il principio di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe
generarsi «accanto [oltre] a esso»? In pratica ammettere la generazione
dall’essere comporterebbe riconoscere che: εἶναι μὴ ἐόντα siano cose che non
sono (B7.1). La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto diversa
da quella “personale” utilizzata in B8.7 (ἐάσω... οὐδὲ «non permetterò
che...»): in questo caso la proibizione risulta più astratta, vincolata a una
considerazione razionale (οὐδὲ ποτ΄... 465 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς «Né mai
concederà forza di convinzione [certezza]», B8.12), alla linea di pensiero
espressa nel testo precedente. Una versione alternativa dell’ultimo argomento è
quella tradizionalmente accolta sulla scorta dell’autorevolezza del codice di
Simplicio: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
Né mai dal non essere concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto
a esso. (B8.12-3) Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla
negazione della possibilità di generazione dal nulla, che presenta tuttavia una
difficoltà: il riferimento, nel contesto, dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon58,
per esempio, traduce: Nor will the strength of conviction ever impel anything
to come to be alongside it from Not-being, riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore
locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo intendono il passo, tra gli
altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni origine dal nulla sia impossibile
(il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri60, che vi intravede addirittura la
dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν, συνεχές. Altri, come
Leszl61 esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e colgono una (nuova)
giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil fit): il non-essere,
per la sua negatività, non può essere la causa di qualcosa. Conche62 segnala,
in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire valore comparativo ad αὐτό
(«autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea implicherebbe
l’esistenza del Non-essere. 58 Op. cit., p. 197. 59 Op. cit., p. 95. 60 Op.
cit., p. 224. 61 Op. cit., p. 187. 62 Op. cit., p. 143. 466 Alcuni 63 di coloro
che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non riconoscono
struttura dilemmatica all’argomentazione parmenidea, rilevandovi piuttosto tre
successive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e
dell’accrescimento dal non-essere - colgono nel passo un riferimento al
concetto pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele: εἶναι
δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου
πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ
χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς·
τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermarono ci fosse
il vuoto, e che esso penetrasse, dall’infinito soffio, nel cielo [universo]
come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi
essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione;
affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti,
distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) οἱ μὲν οὖν
Πυθαγόρειοι πότερον οὐ ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ διστάζειν· φανερῶς
γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ
σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο
καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος Non si deve allora essere per nulla esitanti
circa la questione se i Pitagorici non assumano o assumano la generazione:
essi, infatti, affermano chiaramente che, una volta costituito l’uno – sia da
superfici, sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà
a indicare – subito la parte prossima dell’infinito fu attirata e delimitata
dal limite (Aristotele, Metafisica XIV, 3 1091 a13-18). 63 Cornford, Raven,
Untersteiner, Mondolfo, per esempio. 467 Mondolfo64, in particolare, nel
complesso della sezione B8.5- 21 non coglie semplicemente la negazione del
divenire come processo di generazione e corruzione, in antitesi ai modelli
cosmogonico e teogonico, ma l’attacco a una concezione determinata, di cui lo
studioso ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che
affermava la molteplicità in connessione con la discontinuità; che introduceva
la generazione dell’essere, senza precisarne processo e necessità, e,
soprattutto, suscitava il problema dell’inizio, suscettibile di accrescimento
in relazione al nonessere. Come risulta appunto dall'attestazione aristotelica,
si sarebbe trattato della cosmologia pitagorica, l’evocazione della quale
spiegherebbe convincentemente anche la sequenza di interrogativi ai vv. 6-7 e
in genere la scelta dei σήματα dell’essere da parte di Parmenide. Pur non
escludendo le due possibilità - (i) che la versione dei codici di Simplicio sia
quella corretta e (ii) che l’allusione sia effettivamente alla “respirazione
cosmica”, che avrebbe lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e
Pindaro, secondo Mondolfo65) – l’impressione è che in realtà l’insistenza del
poeta sia essenzialmente su γενέσθαι e ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento
dottrinale sia da individuare all’interno di una discussione più ampia, in cui
per Parmenide era fondamentale attaccare le posizioni che in qualche misura
ancora implicavano γένεσις e ὄλεθρος. In questa prospettiva, l’emendazione che
abbiamo accolto e la connessa ricostruzione argomentativa (in cui οὐδέ al v. 12
richiama οὔτε al v. 7) appaiono più convincenti. Sarebbe forse praticabile
un’altra strada66 per l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia più complessa
e meno plausibile: ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura
parmenidea, proprio in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή,
quasi 64 E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo
storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La
Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op.
cit., pp. 143-4. 468 che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici
fosse connaturato il «non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ
λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non
c’è principio, ma che esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e
tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK
12 A15). Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή
che è anche περιέχον (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i
pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe
fatto un “non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato
principio. È chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή
difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare
dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere
polemicamente. Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento -
una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere
e ribadito che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può
concludere provvisoriamente (vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è
legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata
con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio
interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a
Dike – e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una
lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione)
mitica fosse semplice «metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i
quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al
rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge dell’Essere» 68:
in altre parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La
questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione
del poema, sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è
elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una
collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di
sorveglianza; (ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione:
persuasa dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito
di tutela del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale;
(iii) Θέμις e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio
del suo discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα
κακὴ, ma sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke,
Moira), insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o
«via» (κέλευθος), costituiscono la struttura portante nell'architettura
dell’opera69, elementi di continuità nella sua articolazione, le sue condizioni
“trascendentali”: il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che
è» e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure
svolgono la propria mansione di 67 Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69
Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua
opera e accentuato nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470
garanzia “trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle
parole della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere
dall’esterno70, a dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike,
in particolare, assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν
da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini
preservandone il perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia
oppositiva nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo
costume, quello di consegna al portale discriminante del mondo infero, di
salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro
passo tale connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la
discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e
omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere non si dà un mondo altro.
Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né morire concesse Giustizia,
sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν
δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31)
Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37). La Robbiano ha accostato, su
questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come
sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70
Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5. 471 forse a questa soluzione
e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a
un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto
delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed
equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno. Mentre
l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio,
Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον),
non hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la
comprensione dell’audience cui il poema si rivolgeva72. In realtà, il recupero
del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e
la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere,
potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a
giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione
sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la
limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea, supplirebbe
a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia assoluta: utilizzate
per significare l’essere come se lo trascendessero, le figure delle tre
divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto trascendentale e
sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema, tra discorso
significante e discorso mitico74. Giudizio ed essere D’altra parte, che la
tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv. 15b-18: ἡ δὲ
κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73 Mythe et
philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν
καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque
deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene»
(χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι
δεσμῶν v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει
v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della
decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il
vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive
è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη).
Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni
della scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule
contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in
quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii)
conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi
della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il
rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni
che in qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una
precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule
contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo
apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν
non è «genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione
con l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa
in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come
qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21)
e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di
controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε
γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale
sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è
esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua
resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo
livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla
contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma
anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo,
γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se
l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in
seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre
allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» -
che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere»
(ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a
se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις
può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e
non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide
intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai
due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora
diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che
sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è
inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale).
Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la
temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere
di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre
uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente
ovvero «venire a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile
valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire
all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla
prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε
μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo
punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un
tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da
non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di
un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento
l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος
al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica
caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6.
Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77
Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται.
εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ
ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e
sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non
fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal
nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι
τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον
γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è
necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e
si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila
anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La
stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo,
negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una
differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e
immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale
dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν -
«è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον
πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto
insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario
considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente
il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra
negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo
[passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra
traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto
modificate dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe
allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme
avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un
tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni
coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ)
– alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il
rilievo della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di
«ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica
discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche
nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra
sull’eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v.
19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν
ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ
ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Se riscontriamo i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare
come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o
esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν)
che si esprime nell’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80. 79 Ma come
insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι;
o, come preferiamo, ἔστιν esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ
εἶναι è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit.,
p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn,
ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e
assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι),
si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito:
l’idea dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo.
Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente
limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva
temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in
relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni
temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul
presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla
reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a)
κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del
laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la
formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως
ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso
riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione
verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν
ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore
circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi
che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con
l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per
quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi,
l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere
comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un
impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso
(si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni
precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto
essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν
ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei
processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la
decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione,
(iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la caratterizzazione
della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita», «inconcepibile». Omogeneo e
continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco a giustificazione dei
σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme),
συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον,
τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile, poiché è
tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò
tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile al
non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον letteralmente
«tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in altre parole, è
«tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso
(uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di σήματα,
il precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra
citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e,
così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30). L’indivisibilità,
l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità, alla sua densità, in
ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può inframezzarsi a «ciò che
è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una
serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa impedirgli di essere
continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è tutto continuo»; (iv)
«ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che centrale risulta la (ii):
πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che sembra ricavata direttamente
dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι),
esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Dal riconoscimento dell’identità dell’essere con se stesso
(ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν),
seguono sia che «tutto pieno è di ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli
di essere continuo», e, ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del
verso finale del passo: «è tutto continuo» e «ciò che è si stringe a ciò che
è». Tutto intero, uniforme Parmenide suggerisce compattezza, coesione e
identità, in forza di scelte espressive che escludono la possibilità di
distinzione, riduzione, separazione: πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν,
πελάζει. Le implicazioni materiali e psicologiche della pienezza e dei vincoli
evocati sono state messe in valore nell’analisi di Mourelatos81, il quale ha
marcato la presenza sullo sfondo di due elementi: (i) la semplicità
inqualificata di ciò-che-è; (ii) la negazione di dualismi. Questo consente di
collegare il passo in questione con l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione
«tutto intero, uniforme» (οὖλον μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82,
anticiperebbe l’argomento a sostegno dell'indivisibilità, anche grazie
all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato
in nota al testo, per il significato della formula μουνογενές lo studioso
richiama un importante precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben
presente e in opposizione al quale avrebbe coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα
μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε
νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν Non vi era dunque un solo
genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono due: l’una potrebbe onorare
chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi, p. 95. 481 l’altra è da
riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i giorni 11-13). Il
segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di genere, di natura,
un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di potenziale discriminazione
all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe impiegato – nel nostro frammento
– in antitesi alla dicotomia che il filosofo pone al fondo delle «opinioni
mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite intorno a una coppia di «forme»
(μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e
reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων vv. 55b-56a).
Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo
decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla scorta di
essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità” (o meglio
uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo come un
blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν, è
possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione della
formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι.
È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora
un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come
abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e
Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di
formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato
primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ
ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene
che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato
alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου
Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην
φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην,
ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον
μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν,
εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ
τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di
Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura
soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata,
chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per
rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco,
condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi
terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno
il movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ
αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ
τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ
λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος
ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι
κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο.
(3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον
διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος <
δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον
πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς
γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui
milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui
si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno
e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa
prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa
risulta invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il
movimento. Si muove sempre: le cose che mutano, infatti, non muterebbero, se
essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in
modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco;
mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per
compressione, si formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione,
l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e, crescendo al massimo, le pietre.
Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il
freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e
Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della
convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è
l’idea che: (i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari
(Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si
dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò
che può generare» (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi
di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo degli
opposti (γόνιμον), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata
sull’aria, nel secondo, sarebbero a loro volta effetto di un «movimento eterno»
(κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio riconosciuto (per entrambi)
come causa diretta del «mutamento» (μεταβολή). Il lessico peripatetico delle
testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi
esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle
cosmologie (e cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di
Simplicio su Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις)
«si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ
μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da qualche passaggio di
Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον
γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono
aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che
prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di
Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo
interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In
questo schema le «sostanze» della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole,
acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di
passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio materiale.
Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose si
ridurrebbero ad aria84. Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio in
Anassimandro (citato in precedenza): [...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ
στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου
κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno
(DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in
questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della
dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco
effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins
of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già
presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma
rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la
generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento,
nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con
probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον
ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e
rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da
cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra
i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε,
τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν
καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo
ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu
sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue
secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα
καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono
scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono
scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος
ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος
δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte
diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si
genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ
ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco
vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la
morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da
un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito
riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni
trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36
e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono
gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85. I limiti di
documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e
l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con
certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in
ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi
potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in
precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e
nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema
(γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare
la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un
lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in
particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per
indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla
formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la
scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) – che evoca attività di
secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile,
feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in
ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la
riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi
esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze
ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη 85 Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος),
dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος), (iii) si
produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv) suo
differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui»
discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non
sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere
della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale
delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare»,
διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando
con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello
stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In
effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i
primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto
rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità
di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ
γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν
ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli
di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono
state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e
nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente
dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo
[lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve
ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico,
il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i)
accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e
«senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente
esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità
di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con
la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al
moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento
della propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare
interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità
(connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde
forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo
che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista
linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente
dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό
τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di
grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό
μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo
segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un
nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’
ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν
αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ
ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ
μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre
gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e
sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli
dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa
procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per
Zeus,, almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma esse
furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως·
ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν
χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’
ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno
cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il
tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane,
sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre
nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice
spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni
di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la
preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente
riferite al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente
contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale
degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre
per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo
(«sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον
οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella
stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι
μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra
giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli
si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di
Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base
di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate
dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le]
fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente
sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della
contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene;
(ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità
(sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν
con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea,
tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al
precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori
dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι
μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in
Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη
(Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii)
l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione
e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il
movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi
escluso87. Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di
«ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής
che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος.
Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore
della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι
γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto
l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non
essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che
Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce
l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si
sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di
vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di
Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e
salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος).
87 Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments,
in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press,
Oxford 1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità,
identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero,
uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal
rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale
dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare
discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e
sui suoi «segnali» (B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di
ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come
manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in
difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»);
il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo
diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο
non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole],
invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per
qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto,
come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo
complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse
cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato
a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue
trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata
e vitalità, per garantire gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di
Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo
per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione. 493 Essere e
pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce
(vv. 34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato
dibattito, filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo:
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ
πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa
cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui
[il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà
altro oltre all’essere, poiché Moira lo ha costretto a essere intero e
immobile. Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea
recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε
καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a).
Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra
νοεῖν e εἶναι - e dunque anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν)
possa realmente essere oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di
B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89
Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic
Arguments, cit., p. 19. 494 poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è
infatti cosa fattibile), né indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di escludere
che possa darsi per l’intelligenza della realtà oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto
si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da
quel che segue immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ
κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le
cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali:
nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore.
Gli eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo irriflesso
interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire», «cambiare luogo e
mutare luminoso colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες) della loro genuina
consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano, all'intelligenza critica sollecitata dalla
Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in altre parole,
utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già esplicitamente
proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo» - per
articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata, risulta
essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico genuino (vero)
oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da quel
che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi
realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 90. 90 McKirahan, op. cit., p.
202. 495 Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν – in
particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale
dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide
richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni iniziali
(B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente
il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò
che non è» (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula
impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ
τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare
e e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è
espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra
ricordati, qui non si tratta semplicemente di un’affermazione di identità (generica)
tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa d’atto della necessità per il
pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si spinge a
delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di dipendenza
(espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91) - i cui
membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero» (νόημα)
«che "è"». Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere non può
che essere l’oggetto del pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come l’essere
sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro cui
necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in verità il
solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio, qualsiasi cosa i
mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o dicano, essi stanno
parlando di ciò-che-è 92. C’è tensione, dunque, tra quanto essi sono «convinti»
di nominare e 91 Ma che altri scelgono di rendere come «a causa di». 92
McKirahan, op. cit., p. 205. 496 quanto in realtà essi nominano: sebbene non ne
siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte (trascendentale)
dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93. Nel contesto, insomma,
a dispetto di una lunga tradizione interpretativa, intenzione della Dea sarebbe
non tanto aprire una parentesi per discutere dell'inattendibilità
dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che altro (dall’essere e dai
suoi «segnali») possa essere l’ambito del pensare. In questione sarebbe allora
la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma non in quanto di per sé
illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto perché non inquadrato
coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria cornice d’essere, e
dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato dei mortali è
contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94. A chi si riferisce il
termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il tradizionale rilievo
della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza divina) e dunque
accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta? Ovvero a un gruppo
o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte espressive di Parmenide
(γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα
φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una generica allusione alle modalità
ordinarie di lettura della realtà (cambiamento di luogo, mutamento
qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico (nascere e morire,
essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato nelle testimonianze
relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei frammenti
eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente una pausa
nella sequenza argomentativa del frammento – faccia emergere un aspetto
peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione speculativa.
Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle implicazioni
(ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή, denunciando le
incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche) circolanti, è 93
Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a un certo punto
concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa
attività di νοεῖν): questione di «secondo livello» 95 (meta-cognitiva), intesa
a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni» dell’essere, anche dei
presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia così a un
tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la comprensione
(νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per l’intelligibilità
del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto emergere nel
confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura della tradizione
ionica96. Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel frammento, la Dea
assicura il proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine mitica (e a una
formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a essere intero e
immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che nulla
«esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò,
in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la
garanzia di Moira risulti formalmente essenziale per affermare integrità,
unicità e immutabilità dell’essere (e dunque per sostenere come i «nomi» dei
«mortali» si riferiscano in vero sempre e solo all’essere). Ma la superiore
tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche l’identità di essere e
pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non possa esistere ἄλλο πάρεξ
τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»). In questo senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν,
essa riveste una funzione “trascendentale”: richiamando implicitamente le
immagini dei legami (πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la
fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo
Le pluralisme de la vie intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet
(éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., p. 166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi
(πέδαι), con la figura di Moira la Dea, da un lato, ribadisce la stabilità
dell’essere, dall’altro indica in quella invariabilità un carattere
fondamentale della conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che è» e
costanza del νόημα che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come
cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai,
infatti, che l’essere sia connesso all’essere. La Dea le contrappone la
precarietà tutta umana e artificiale («saranno nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto
(πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi
traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che
concludono la sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia, insistendo
particolarmente su compiutezza e omogeneità di «ciò che è», attraverso un ampio
ricorso a metafore “spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί
πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε
τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι,
τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον
τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι
κύρει. Inoltre, dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è
compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla, 499 a partire
dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è necessario che esso non sia
in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o
dall’altra. Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a
omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì
meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti, da ogni parte uguale,
uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. I versi propongono contestualmente
due diverse prospettive: l’accostamento alla «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per
comunicare un’impressione ottica (“da fuori”) della compatta estensione
dell’essere, della sua compiuta integrità; d’altra parte, la sottolineatura
dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire dal centro» (μεσσόθεν),
manifesta piuttosto un punto di vista “interno” (dal centro alla superficie
perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν come totalità
piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite
estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto
discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a tutto il ragionamento
della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi
del poema – appare evidente il debito nei confronti dell’immaginario epico: ἔνθα
δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος
ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί
περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα
πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη·
δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν
νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare
infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i
confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine
enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi
passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta
crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte
oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745.
Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro
contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte
le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è
inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία
δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata
nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di
tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua
comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere).
Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo
argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al
limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον
μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό
γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a
essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν
ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del
vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal
momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i
legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione
e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a
garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle
immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustizia,
Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come destino ovvero legge
dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa
l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον), all'accostamento al
«corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle
altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in
presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un
estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente
pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg, "Ananke.
Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München
1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss..
Citato in Robbiano, op. cit., p. 140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι
τῷ κόσμῳ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo99, e confermerebbe
la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In effetti, Aëtius
attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine «cosmo» per indicare
il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι
τάξεως Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine
che vi regna (DK 14 A21) Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del
cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui
principio (l’apeiron) Aristotele afferma: [...] διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή,
ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν [...]
per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che
sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle
[abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15). A suo modo Parmenide
avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del tardo VI secolo
il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo, espresso
soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς
ἐν πείρασι κύρει A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente
entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta
profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla Verità,
l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la dimensione
d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321 b4. 503 sere
(ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di discriminazione
spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100.
Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe
infatti a ciò che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione
dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è» risulta compatto (v. 19: πᾶν
δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25: ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ
ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι
εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a
omogeneità (vv. 46-47a). La proibizione di percorrere la via che pensa «che non
è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni
della realtà. In effetti, la recisa affermazione della Dea: «vi è un confine
estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora formalmente giustificata, a questo
punto, dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla
sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare
il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò che è» come
totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si
enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un
avverbio connette inizio e fine del passo: τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che
è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di
M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in
Frühgriechisches Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 2005, pp. 252-269, in particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει a se stesso, infatti, da ogni parte
uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane (v. 49). La compiutezza (in
ogni direzione) di «ciò che che è» è sostenuta sulla base della sua
"densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ
δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno
(vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità
(τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare l'essere comporta escluderne
(con il non-essere) ogni possibile deficienza e dunque equivale ad affermarne
eguaglianza, uniformità, totale identità con se stesso, in altre parole la
inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa... Estremamente controversa a
livello interpretativo è la similitudine introdotta dalla Dea all'inizio del
nostro passo (ma in conclusione della sua comunicazione di Verità!): εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ simile a massa di ben rotonda
palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come
abbiamo rilevato in nota al testo, tre punti sono criticamente determinanti:
(i) il soggetto (sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον);
(ii) ἐναλίγκιον («simile») si riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος);
505 (iii) ἰσοπαλὲς («di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso
(«ciò che è») della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla».
Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile
tuttavia – proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi
– sottrarsi all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque
esteso: il tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque
coincidere con la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta
"in quanto essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò
che è»), ovvero – più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative
conseguenze logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei
versi in esame) sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da
quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) -
come già documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla
cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di
definirla "ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la
stessa realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze
razionali, che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ
δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule
che evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il
ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo
sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile
connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale
della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e
cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν:
nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν,
ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna,
continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of
the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506
cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono
superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa
estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono
evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse
elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa
qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero
indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità
delle cose considerate appunto come essere103. Solo in coerenza con l'esigenza
di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà
possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non
propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le
condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli
atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla»
è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione
della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi
è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a).
L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa
sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza
ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle
figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di
esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua
interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas
(Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν
di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on
*h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando
tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira)
e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al
carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti
rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà,
rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera
insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in
Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di
conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La
similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme:
sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha
osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di
criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre
«identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema
nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato
soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le
ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo
fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente
intelligibile, nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di
allusioni (e parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ
συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα
τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ
πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν
τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ
πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν
γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie
cit., p. 249. 105 Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J.
Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς,
οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς
ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην
ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...]
E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al
vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella
che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una
sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle
estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se
stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese
perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non
aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno,
né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un
organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo
averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo
33b-c7)108. 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR,
Milano 2003. [B8 VV. 50-61] Sin dalla
antichità si è presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e
due sezioni, di diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via
della Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη
τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia
si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28
A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero
marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati
soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo
B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che
doveva coprire i 2/3 del poema1. Su questo elemento strutturale avremo modo di
riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi
12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente
il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto
delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί
[vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς
αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς
στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ
> πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…,
cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον
παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno
all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys.
38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si
esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv.
50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la
prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o
identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati,
[citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la
posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle
sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il
linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre
testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno
sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del frammento
è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta nell'esposizione
divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo
termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea al proprio
interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν λόγον) e
della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme,
l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo
sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare
fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde
l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano
puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della
dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente
correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei
mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα
- «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra
convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in
B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8
allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo
genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una
direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva
invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in
termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il
costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia,
probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla
preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È
significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato:
come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è
plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto
premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori:
καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου
μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ
λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di
sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi
di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette,
sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda parte, in
fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica milesia:
non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente, apertura e
conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo sottolineato in
precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane interlocutore circa il
mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης ·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo
punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità;
da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole
ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati risultano fuori
discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»; (ii) il passaggio
alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), in altri
termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina. Nel contesto della
narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge a un essere umano –
adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la propria lezione,
ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della
realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista.
Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il linguaggio della pluralità e del
divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il relativo correlato
oggettivo, il mondo delle cose in mutamento, è, dal punto di vista dell’essere,
apparenza. Dal momento che – nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8
– la 514 Dea insiste perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti,
possiamo inferire che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni
che il giovane allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né,
diffondendosi (secondo quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali
della realtà naturale, avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!);
(c) piuttosto riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della
verità. A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del
frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή
ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato,
per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si
tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a
cavallo tra Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea)
offre indicazioni sul passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali
sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una
pluralità: così al κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60
l'espressione διάκοσμον ἐοικότα πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero
dell'ordinamento cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di
elementi da sistemare: è possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia
valenza semantica di κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo»,
accentuando i rischi della costruzione verbale (che può risultare
«ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione divina è comunque connotata
positivamente: il rilievo dei pronomi personali (σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno
e la responsabilità della Dea, nei confronti del kouros, di fornire in ogni
modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del quadro complesso dei
fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione qualitativa
dell'esperienza (in questo senso sembrerebbe scontato il ri- 515 chiamo a τὰ
δοκοῦντα), come rivelano in particolare le connotazioni delle «due forme»
(μορφαί δύο), e dunque l'adeguamento della prospettiva della comunicazione
divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali strumenti (il modello
oppositivo) di illustrazione dei fenomeni naturali, così da evitare le
contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la
preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo naturale
(διάκοσμος) comunque superiore a quella della concorrenza. Rispetto alla
sezione sulla Verità, in cui era essenziale determinare, con lo sguardo dell'intelligenza,
la compatta fisionomia dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza
avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza
il mondo dell'esperienza. Un ordinamento verosimile Può essere utile, per
comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4:
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera
come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi
completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui
collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per il νόος la
molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si
riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν
τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver
illustrato quell’identità in cui tutte le cose si riassumono e averne
analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso la direzione
opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta
all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa
essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la
realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia una distinzione di
piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come all'unica realtà si possa
guardare nell'ottica immediata dell'esperienza, ovvero attraverso il sondaggio
dell'intelligenza, ricavandone due immagini sostanzialmente diverse: nel primo
caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli, nel secondo la sua
estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità,
differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A
partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione ἔθος
πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale
una molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli
esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si
tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del
progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione
peripatetica delle origini, con la riduzione di «tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα)
all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία ὑπομενούσα), a un tempo
«principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura» (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων):
ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται
τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο
στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι
οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui,
infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si
generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza,
per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono 517 essere elemento
e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né
si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele,
Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere
la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone –
attraverso l'esclusione del non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver
denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee,
offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta
nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα)
– in esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che
è» (ὡς ἔστιν), come evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος
καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le
cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive
proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno
egualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente
quello della conoscenza e non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν
τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄
ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ
φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν
Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518 Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti
i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde
ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio
rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge,
donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini
degli astri. Diagnosi di un errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla
«riflessione intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali»
(δόξας βροτείας) e il mutamento di registro - dalla necessaria enunciazione di
«ciò che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto
dell’«ordine delle mie parole che può ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων,
B8.52) – la Dea concentra la propria attenzione, con una formula non priva di
ambiguità, su uno schema linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un
verso dal significato molto discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ
κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν
- · Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità
non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada
(B8.53-4). Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo
indicato in nota al testo le principali opzioni interpretative contemporanee:
in estrema sintesi, gli studiosi hanno individuato i destinatari della
contestazione o genericamente nei «mortali», intendendo l'universale approccio
umano al mondo naturale, o specificamente in una determinata posizione teorica
(per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il modello
519 (dualistico) cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per
gli esseri umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi
alla riflessione cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un
ruolo rilevante). D'altra parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento
potrebbe spiegarsi – all'interno della cultura aurale in cui matura l'opera di
Parmenide – con la possibilità da parte dell'audience di individuare facilmente
il soggetto: in questo senso potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle
nostre incertezze circa la sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica.
Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile
approccio "mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da
cui evidentemente egli ha interesse a prendere le distanze, per introdurre poi
un resoconto «appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come
abbiamo sopra segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente
riferibili a posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore
fuorviante (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b)
che viene imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali,
distinguendone due momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς
γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a
due forme... (v. 53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per
loro] necessario [nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla
nostra rapida sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate
analisi linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato
del se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte
interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è
probabile, come suggerito da Mourelatos2, che il costrutto verbale fosse
intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un
efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in
altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi
parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento
dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura
nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν
τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro
che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la
generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso
materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea
si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava
strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello
(pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con
l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν
ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di
procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del
non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione
delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»:
non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per
poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ
φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è
pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di
entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4).
Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso,
secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν...,
«poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il
quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali»
criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono
ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle
ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα)
Doxa divina3. In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico
introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων,
τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄
ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente
gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece,
non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche
opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle
precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione
si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la
requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p.
65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che
nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti
guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi,
sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non
essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso
torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica
l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις
(decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità
(εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito
delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι
δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας
si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli
elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che
viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo
dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando
l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la
confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti
una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e
difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema
oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da
una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare,
l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e
indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
[...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero
separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico,
rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se
stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile credere che
in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς
οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto
adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa
superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena
determinate 4, mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario
della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del
mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema
oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H.
Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare
Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi
conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore
segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere
quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν
περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ
τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv.
50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο,
ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ
ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso
infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione
vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili,
o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in
cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle
cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco
e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in
precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea
prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come
«opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà
reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici
erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei
fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἀτὰρ τἀντία
νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma etereo fuoco,
che è mite, molto leggero dall’altra parte le caratteristiche opposte: notte
oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59). Dalla testimonianza aristotelica
sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora, qualcuno produsse un sistema
seriale di opposizioni entro cui è possibile riscontrare anche quella sfruttata
da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ
συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον, περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος,
δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ, ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ]
καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ] κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ
τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ
ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων
[ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi
stessi [Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di
opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro,
maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e
cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che
egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui:
Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria
simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele
- che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche
ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia
un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato
quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago
accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti
sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per
stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza
dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di
Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6. Ma di recente Kahn7, pur rilevando
nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la
modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali
sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo
implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν)
che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente
umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il
dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse
risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la
considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e
le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile
Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον
Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ
Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι
Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον
ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ
πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven
(nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic
Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832, p. 339. 6 Una indicazione analoga si può
ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek
Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans,
Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς
ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane
(Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro).
Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo
quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di
Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando
morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse
un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla
tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ
Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli
eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK
28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee
correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8. In alternativa,
sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli
"elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in
Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός)
i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo:
χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος
αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς
θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto;
celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia
ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica
che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che
da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il
salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle
laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono
figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ
Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di
Petelia)9. Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a
quella tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in
cui, come mostra ancora Kahn10, αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ
assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la
formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma,
sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione
del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione
cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli
opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro,
dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto
le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»),
[ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono
riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo
diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante»)
concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco
e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp.
172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis
1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se consideriamo nel
complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle connotazioni nella
tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo in realtà bisogno di
coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella tradizione Parmenide
avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i poteri (δυνάμεις)
cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole e terra e che
Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in Empedocle,
colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello elementare (le
quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo rilevante: ἀλλ’ ἄγε,
τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο
μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ
ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον τε· ἐκ δ’ αἴης
προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa attestazione delle
cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è mancato qualcosa alla
forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto, quante cose imperiture
sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la pioggia in tutte le cose
oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose compatte e solide (DK 30 B21.1-6).
In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere quello schema
cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della separazione
delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
[...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
τἀντία [...] 530 Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero
separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione
identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche
quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...] (vv. 55-59a), emendata
con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere: τῶν μίαν οὐ
χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · delle quali l’unità non è [per loro]
necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (v. 54).
Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della
determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione
della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una
indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato
Nehamas12, essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo sensibile
mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si trasformi
nell'altro. Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla lezione
di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un modello
dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce ai
vv. 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri ontologici di
B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della fondamentale
alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità con sé
stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean
Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ
μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale
contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il rischio13. La situazione
appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di
spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente
con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che
cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un
singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita
debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato, il lessico dei
frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10: εἴσῃ «conoscerai»,
πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala che in qualche modo tale
debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver
superato il paradosso: perché introdurre «due forme» e poi insistere sulla loro
unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare,
interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ
ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν
[...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν
λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo senso la Curd riferisce
correttamente la natura «enantiomorfa» del modello delineato nei versi
conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale,
invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14 Nehamas, op. cit., pp.
61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia
secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar ragione dei fenomeni,
Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti cosmologici) e
solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a quella di essere e
non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν
[...] εἰ δὲ "μη δετέρωιμέτα μηδέν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι
δηλοῦται e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle
due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che
sono opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo
nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro proprietà
costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari – e nella
misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur opposte
nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma, l'Eleate
avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico,
emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua
esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro,
senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero la decisione
di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è
sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e
«opinioni mortali» (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta Mansfeld, op.
cit., pp. 137-139. 533 indicato nei versi che precedono, una componente
essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio,
nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata netta
la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno
nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e
morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Alla
necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui,
in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν)
e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono
segnali molto numerosi: che...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...),
la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la
decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di «opposti» (ἀντία
ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende,
dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti
dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων).
Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento
intellettuale proposto all'interno dell’esposizione divina. Da una
considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia con
l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone
argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta
sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile:
questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come confermano
appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della Doxa
attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è assimilabile
a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε
βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle
molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che
non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di riduzione dei
fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra cosa rispetto
alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος πολύπειρον),
pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla scorta
dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da Parmenide
soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale: l'insistenza su
formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο) e disposizione
(ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν). Così la Dea
attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana risorsa del
classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui esplicitamente nei
nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà (come denuncia
B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento di registro
all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella comunicazione
della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che il mondo della
Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale", inconsistente, illusorio:
non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui la Doxa proporrebbe una
descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto accurata, rimarrebbe
pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo falso16. È vero
piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione nell'immagine della
realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro che in B6.4-5 sono
apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda sezione del poema,
al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas, “Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come alternativa alle cosmologie
ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto illustrare la
superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa potrebbe
ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ
διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ
Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai
alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se
l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità
dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa
«è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione,
l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture
portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del
tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di
espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e ἐοικότα
(B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile»)
potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della
περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il
possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι
τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero
l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza
Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è forse possibile che la sfida
fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536
chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti,
ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non
lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα
τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ
θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato
ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’
ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non
hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento,
rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo,
qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti
della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura.
Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle
cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli
uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19. 18 Explaining the Cosmos…,
cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste
oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit., pp.
7- 37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo
quindi un senso profondamente diverso: Il pensatore di Crotone (che Diogene
Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area
geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale
opposizione (μὲν θεοὶ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano
solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze.
Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in
realtà fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è»,
sforzandosi poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle
linee di stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla
luce delle indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni»
attribuiti alle due «forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν
θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono
la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli
indizi.Simplicio offre, nel caso di B9, un'indicazione preziosa, ancorché
approssimativa, circa la sua collocazione nel poema parmenideo. Afferma infatti
il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ
‘μη δετέρωι μέτα μηδέν ’ καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo
poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se "con nessuna delle due è il
nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono
opposti. Dal momento che il rilievo è posto subito dopo la citazione di
B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi di B9 seguissero dappresso la
conclusione di B8, anche se non necessariamente come prosecuzione (come
ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la scelta di alcuni
editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11 (ovvero di ipotizzare
la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o addirittura, dopo altri
intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld), nonostante l'evidenza di
una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione generale all'esposizione
cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono state denominate In
effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19 l'importante
riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo visto essere
centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare, nelle
prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due μορφάι: αὐτὰρ
ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε
καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono
state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state
attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione plurale delle
cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha riassunto
nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di classificare
e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel commento al
frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul complesso dei
fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i σήματα che accompagnano le due
μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione elementare, il mondo
empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν, comune denominatore che
contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la totalità degli enti, e
averne approfondito le implicazioni (alla luce della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),
Parmenide delinea una strategia conseguente di recupero del cosmo
dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare l'apparire senza che
venga ammesso come principio il nulla2. Alcuni accostamenti verbali manifestano
questa operazione. Al verso B8.24b la Dea aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν
ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ
μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di
più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno
(B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu, op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν
ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22).
A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza dell'essere possiamo
far corrispondere l'affermazione centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν
ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e
notte invisibile di entrambe alla pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso
ontologico di totalità e pienezza (πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al
duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς), salvaguardando comunque l'esigenza di
uniforme densità e continuità – veicolata in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν
(B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι
(B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ e dalla
precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna delle due è il nulla
Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il διάκοσμος
proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato discriminante rispetto alle
narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione ontologica essenziale a tutela della
fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto orientata a ordinare ciò che
è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il pensare) ovvero il νόος
(l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo) confermano
nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della relativa
disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις (proprietà) riba-
541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν). Insomma, il linguaggio
della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul terreno
dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, quasi che la
doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne costituisse
la diretta prosecuzione3. Perché, ci si potrebbe chiedere, Parmenide avrebbe
dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una realtà già
ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può contribuire a
una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso della
dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς
οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto
appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa
superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così
l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale
disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate
assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον
ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su
questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio
risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si
impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di
quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza
contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto
in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin-
3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il suo
"riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno
esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità
del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa
prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata –
come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può
far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della
Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione
cosmologica e cosmogonica. Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la
costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la
complessiva interpretazione della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
[...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e
notte invisibile. La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende
dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le
interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii)
aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema
polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti
(B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4),
Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le
cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle
due μορφάι – e i relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è
associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come
possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ
καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως·
ἐπὶτῶι δέ ἐστι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τὸ φάος καὶ τὸ μαλθακὸν καὶ τὸ κοῦφον,
ἐπὶ δὲτῶιπυκνῶι ὠνόμασται τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra
i versi è riportato un passo in prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso
afferma: «per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e
leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e
pesantezza». Quanto è stato denominato conformemente a tale strategia assume lo
spessore di un mondo comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in
premessa l'espressione πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude
che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς. 544 Le due «forme» concorrono alla
composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la
stabilità del mondo4. Il fatto che entrambe siano parte dell'Essere rende
possibile una fisica della mescolanza (κρᾶσις) 5. La κρᾶσις funge così da
principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza delle due forme e la
presenza delle rispettive potenze spiega come ogni cosa sia costituita insieme
(anche se non nella stessa misura) di Luce e Notte6. È tuttavia necessario
ricordare – con Conche 7 - che le due μορφάι parmenidee non sono assimilabili
agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di principi eterni e
immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc,
per una adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve
rendere cauti rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne giustifica
l'assolutizzazione al di fuori di questo mondo. 4 Conche, op. cit., p. 201. 5
Ruggiu. I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse:
Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C
.) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De caelo, B12
in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12,
un’indicazione approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα δὲ
πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...]
poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa
efficiente, dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga approssimazione
(«poco dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe
seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a
ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e
il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e
B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte
diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da
varie fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio),
viene citato da Simplicio in stretta connessione con B12. Clemente (autore che
rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello
che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ
μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ε ἴ σ η
ι... ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole
ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai... degli astri». Il
commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν
ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν
μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili
afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle
cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali.
Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla
vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco
(Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della
Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una
loro plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ
λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ
γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων
ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del
mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i
fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli
uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo
arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non
distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro
orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose
fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema
del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore,
chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea
l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha
composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è
funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον)
implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione.
Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica
(conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra»
(στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e
per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ)
«tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto
scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema
cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere
a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in
B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale
successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura
programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie
(εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della
Teogonia esiodea1, unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il
fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello
stesso B92. A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa)
di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla
conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10
costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che
chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un
"secondo" 1 Cerri, op. cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548
proemio3. B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος)
- e descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica
e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma,
ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei
processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci
aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che
una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze
immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme»
(B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva.
O'Brien4, in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti
principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una
precisazione sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della
δαίμων che le «governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La
disposizione proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto
compatibile con le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque
preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ
δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα
σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν
ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell
propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell,
«Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur
Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura
eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le
opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche
della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo
che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo
costrinse a tenere i confini degli astri. La promessa è quella di: (i) far
«conoscere» (εἰδέναι) «la natura eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni»
(πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le «opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα)
del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν) esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far
«apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere» (ἔργα) della Luna e «la [sua] natura»
(φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι) «il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto
intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν) «scaturì» (ἔφυ); (v) far
conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν) il cielo a «mantenere
nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto della citazione di B11
(nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo disegno di Parmenide:
Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων
καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide
intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11] e descrive
l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli
animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come
Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea,
evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i
temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali
nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte
non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in
Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο
τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ
σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e; da cui divenne
manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida
e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che
Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la
sezione astronomica del proprio poema 6. Le opere della natura Di questo
programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61,
l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in
particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni
come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e
l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo
dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la
«generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις:
nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p.
259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò
che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in
ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di
formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα),
nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota
identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di
classificare i fenomeni 7: in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν
ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8. Nell'indirizzo
della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i)
quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura
che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9. Nella
stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ
τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e
l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In
questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta
la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide
non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e
posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e
γίγνεσθαι è indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7
In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi
pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione»
dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda
Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e
«opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà
[δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo
concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si
manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo,
costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche
Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo
"catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è
lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato,
nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche
nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio
dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli
dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς
ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette
[interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si
riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem.
11 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto
medio (πλῆνται), proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12
alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come
vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del
sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste
(sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui
si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della
«Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione
"copulatrice": ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις
ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di
tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo
l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al
femminile (B12.3-6). Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non
sia rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui
riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto
al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che
nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi
a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla
loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della
riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente
«invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai
processi cosmici. Articolando il programma scientifico annunciato in B10, B11
si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere «ebbero impulso a
generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di formazione del cosmo a
partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9, infatti, doveva essere
molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la citazione dei primi 3
versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν
δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti
[B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,
dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo più accettata, i
versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque l'introduzione degli elementi
materiali (στοιχεία); d'altra parte essere dappresso anche a un primo
riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι) cosmiche, di cui ci dà
notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano implicitamente in
apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ
δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· Quelle più
strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive
[si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco; in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il processo cui
alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la comprensione
dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua configurazione e
composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti
superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo
estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto
intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da
Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il
cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di
uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel
testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche
consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato,
sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o
«corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni
cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa)
testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro
d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους,
τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ
σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν,
ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης
[sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ
< αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν
καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι
τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν
ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος
καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit.,
p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν,
ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno
all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra
queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è
solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che
è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle
corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e
causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che
governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione
della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più
intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna
mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una
cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come
«anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto,
dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche,
anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ
μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato:
come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi
impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è
infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo
restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης,
«e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona]
ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del
testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti».
Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ
μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene
che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso
opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza
degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre
corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una
evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ
σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας
τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione
conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse
la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e
Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν
μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma
di sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον
ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον
ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ
Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da
tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare
da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si
muove. La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da
Aëtius, analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι
κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ
ς δίκην στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας).
Qui incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al
contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius)
dovrebbe comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la
sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere»
avvolga tutto «dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’
ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una
sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente
costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al
centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte
densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico).
Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo
una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels
con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la
corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος
ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua
struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa
interpretazione delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso
americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno
contestato questa ricostruzione. Coxon18, per esempio, pur rilevando che la
testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che
l'accostamento al muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato
dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla
fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su
τὸ περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di
Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come
si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella
sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili,
cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος
δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ
κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam:
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et >
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora
qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera
di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...]
(Cicerone; DK 28 A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di
Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius
– costituirebbe in Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il
cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 19. Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei
frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel pensiero
arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata intorno a un
punto centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in Parmenide sta la
Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la
periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto
contiene, ancora igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo
sostanzialmente Cerri21: nel complesso delle στεφάναι – corone sferiche
concentriche – la più esterna, il confine limite dell'universo visibile,
sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente un'altra corona di
etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op. cit., p.
343. 21 Op. cit., p. 266. 560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una
doppia funzione per il cielo, che ancora può intravedersi nei frammenti: esso
è, per un verso, (i) οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente limitante,
circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo vincolò a
tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il
cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri,
dislocati sulle στεφάναι, con i rispettivi moti, immersi al suo interno
nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22. In effetti risulta evidente, nelle testimonianze, il
nesso tra cielo ed etere. Parmenide avrebbe indicato due aree nell'etere
celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri;
(ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco23. A questo
alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π.
πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν
τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α
ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui
identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri
nella zona ignea che chiama cielo. Alla luce delle indicazioni che si possono
ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la
fascia più interna del sistema cosmico - densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς
μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος),
che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere rigido. Il
termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti
nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura
celeste delineata e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22
Ruggiu, op. cit., p. 336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί
λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ
ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ
παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν
γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί
φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ
σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων· καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι
δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ
ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον
τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ
φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ
μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι. Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il
cielo e in quanto modi lo diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto
d'indagine. In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del
tutto, cioè il corpo naturale nell'estrema volta del tutto; è appunto la
regione estrema e più elevata che siamo soliti chiamare cielo, in cui
affermiamo aver sede tutto quanto è divino. In altro senso [diciamo cielo] il
corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e
alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo. In
un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso] dall'estrema
volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto [ovvero:
l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre modi, l'intero
abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale
e sensibile, poiché nessun corpo esiste, 562 né è possibile si generi fuori del
cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25). È plausibile che nella propria
sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia parmenidea ovvero di un
modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in effetti «il corpo
naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ
τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν ἀμφὶς
ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la sua
associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per altro
chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che
[Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ) si
riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema
volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» (τὸ συνεχὲς
σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων).
Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός:
«l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il
corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si
generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di
Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla
sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva
riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla
Aristotele. In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella
ricostruzione del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le
citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla concettualità della
posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i
dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del
centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo
estremo»), pensata come una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τείχους δίκην
στερεὸν); 563 (ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore eterea,
composta cioè di corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda
fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza
fascia a ridosso della superficie della Terra, corrispondente a una atmosfera
aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi
celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le indicazioni non sono
concordi). La δαίμων e il cosmo Il contesto e la citazione di B12, insieme alla
relativa testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo:
quello relativo alla posizione e al ruolo della δαίμων che lì viene evocata:
μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν
λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ... κυβερνᾶι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων
μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς
παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ ’ ἐπὶ... θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος
μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δαίμονα
τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la
causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo
dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla
generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli
pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è
causa di ogni generazione ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον
αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose
governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione,
spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il
maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il neoplatonico
Anatolio di Laodicea (III secolo d.C.) offre un'ulteriore indicazione: πρὸς
τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα ἑναδικὸν
διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι [...]. ἐοίκασι δὲ
κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα καὶ
Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας
τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν Oltre a
queste cose [i Pitagorici] sostenevano che nel mezzo dei quattro elementi sta
un cubo unitario di fuoco, la cui posizione centrale era nota anche a Omero
[...]. Sembra che abbiano in questo seguito i Pitagorici i discepoli di
Empedocle e Parmenide e per lo più i [lett.: «quasi la maggioranza dei»]
sapienti antichi, dal momento che affermano che la natura monadica è posta al
centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede in 565 forza
dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del sistema] (DK 28
A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con quello filolaico,
quale possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze: ὁ κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο
δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς
κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ
κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ μέσον
κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il cosmo è uno; iniziò a formarsi
dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi passaggi verso il
basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in senso opposto a
quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in mezzo si trovano
rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le altre in modo simile:
dal momento che rispetto al mezzo entrambe si trovano nella stessa relazione,
solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς
καλεῖ [B 7] καὶ Διὸς οἶκον καὶ μη τέραθεῶν βωμόν τε καὶ συνοχὴν καὶ μέτρον
φύσεως. καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ
μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν
σφαῖραν > τοὺς ε πλανήτας, μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’
ἧι τὴν ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ
μὲν οὖν ἀνωτάτω μέρος τοῦ περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν
στοιχείων, ὄ λ υ μ π ο ν καλεῖ, τὰ δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς
πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης τετάχθαι, κόσμον, τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν
τε καὶ περίγειον μέρος, ἐν ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν.
καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν, περὶ δὲ τῶν
γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ ρ ε τ ή ν, τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην.
Filolao definisce il fuoco in mezzo attorno al centro «focolare del tutto
[dell'universo]» e «casa di Zeus» e «madre degli dei», «altare» e «vincolo» e
«misura della natura»; l'altro fuoco in alto invece «l'involucro». Sostiene che
primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi
divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole,
quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del
focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la parte più alta
dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi, «Olimpo»;
quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5 pianeti con il Sole
e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la parte sublunare e circumterrestre,
entro cui sono le cose della generazione mutevole, «cielo». E intorno alla
disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al disordine delle
cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK
44 A16). È probabile che alcuni particolari delle concezioni pitagoriche siano
stati utilizzati per ricostruire a posteriori il quadro del cosmo parmenideo,
sempre che quegli elementi non fossero sullo sfondo della stessa elaborazione
eleatica, almeno come tratti consolidati di una tradizione. Aëtius (che si
appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος
«la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli
elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός –
compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica
sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi
nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone»,
probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto
punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del
principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede
ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ
πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν
δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che
la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio,
non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra
(Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia)
filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva
lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del
ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che
costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse
nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente»
(ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il
rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo
della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale
al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη:
καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ
πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e
comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione.
D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al
centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p.
234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13,
osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀφροδίτη ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι
κοσμογονίαι γράφων ‘πρώτιστον... πάντων’ «perciò Parmenide mostra Eros come la
prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]». Le
testimonianze e i frammenti superstiti consentono di affermare che
effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione cosmogonica
(πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è
invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua
identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco
è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse
accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione
attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con
Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo
punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569
non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono
alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ
καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite la
generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non possiamo
stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una speculazione
ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella cosmogonia» (ἐν
τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso, nella
misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire
che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo
dell'accoppiamento26. D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca
la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a
uno di essi, è possibile, incrociando le due testimonianze, ipotizzare che essa
coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica dell'influenza
cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos (Ἕως
ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella
della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ
καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato
da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe aver dato per primo il nome di
Afrodite all'astro27. Contro questa identificazione e collocazione si pongono
le informazioni che giungono dal contesto delle citazioni di Simplicio, che
chiaramente parla a favore della centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ:
in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene
introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle corone miste
(come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile
pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una 26
Cerri, op. cit., pp. 267-268. 27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse
fraintenderne il testo su questo punto; né la sua indicazione contraddice
quella di Plutarco, il quale si limita a identificare la δαίμων come Ἀφροδίτης.
La testimonianza di Anatolio di Laodicea è dello stesso tenore, marcando in
particolare la continuità con le cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la
«natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν) è posta da Parmenide (ed Empedocle) al
centro (ἐν μέσωι) «al modo di un focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle
citazioni di Filolao e delle relative testimonianze confermano che nella
tradizione pitagorica del V secolo «il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν
μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ
παντὸς), ovvero «dimora di Zeus» (Διὸς οἶκον) o «madre degli dei» (μητέραθεῶν),
connotazione che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ μέσον οἶκον ἔχεις
πυρὸς ἀενάοιο Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco eterno (Orphica,
Hymnii 84.1-2) ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη, da te
[Hestia] ebbe nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica, Hymnii
27.7)28, e che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13:
ταύτην [δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la [dea
che tutto governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La
collocazione della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili
convergenze con il pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina,
potrebbero avvalorare il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei
mondi impossibili, cit., pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo
centrale dell'universo risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla
superficie terrestre (sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà
implicite nelle testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta
di Cicerone (A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della
divinità. Come abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare
come «una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile
efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui
cingit caelum, quem appellat deum immagina una corona (egli la chiama
στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli
denomina dio; incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius:
περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’
ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi tutto avvolge
dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è posto proprio
l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo (Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe
concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata
da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo,
coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν. Questa identificazione
sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco
il ruolo di principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione
ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν
αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή τις οὖσα· τό τε γὰρ 29
Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ
φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ
περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας
αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον,
ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων Ogni cosa, in effetti, è
o principio o [deriva] da principio; dell'apeiron però non v'è principio, dal
momento che vi sarebbe un limite di esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato
e incorruttibile, in quanto è un principio: è necessario, infatti, che ciò che
è generato abbia una fine, e vi è un termine finale di ogni corruzione. Proprio
per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che
sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle
[abbracciarle] tutte e tutte governarle, come affermano quanti non pongono
oltre all'infinito altre cause, per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il
divino: è infatti senza morte e senza distruzione, come sostengono Anassimandro
e la maggioranza degli studiosi della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου
Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο· ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς
αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ ψυχή, φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς,
καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα).
Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è
l'aria: da essa tutto si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la
nostra anima, che è aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno
universo» (aria e soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι
γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste
una sola sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto
(Diogene Laerzio; DK 22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν
αὐτῶι διὰ πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι
κατευθύνει, κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι
τὸ πῦρ καὶ τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia
luogo un giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il
fuoco, in tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con
il fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo
fuoco è dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento
[dell'universo] (Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero
avvalorare la convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle
origini della speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della
naturaprincipio (καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito
direttivo sui processi cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose»
(Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare
l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν κόσμον περιέχει), in analogia con il
controllo dell'anima sulle nostre funzioni vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In
B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει, che, come vuole Coxon30, potrebbe
alludere direttamente ad Anassimandro (cui Teofrasto riconosce il merito di
aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È tuttavia possibile che la
parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco identificata come Ἀφροδίτης, sia
in realtà solo l'espressione mitica della potenza generatrice cui alluderanno
Empedocle e Lucrezio, il quale - ci ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni
analoghe a quelle del filosofo greco (quae... rerum naturam sola gubernas,
I.21). A insistere per questa lettura è so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op.
cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32, per il quale la δαίμων sembra essere
la personificazione della stessa forza vivificatrice (mana) presente in tutte
le cose: l'impulso immanente alla generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι).
Nel senso di una attribuzione ad Afrodite della forza demiurgica è orientato
anche il commentatore (IV secolo) della teogonia (V secolo) del papiro Derveni,
e conferme ulteriori si potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros,
che potrebbe coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche,
documentate negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione
cosmo-teogonica della δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo
cosmogonico e, in relazione a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della
δαίμων, la quale «spinge all'unione» (πέμπουσα μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e
«maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις
ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di
tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo
l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al
femminile (B12.3-6). Un ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio
peripatetico di Simplicio (contesto B12): 32 Op. cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ
πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ...
κυβερνᾶι ’. καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ
ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ’ἐπὶ...
θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι
πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo
[B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,
dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a
generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione,
Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa
efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni
generazione, e connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione
teogonica: ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘πρώτιστον... πάντων ’ κτλ.
καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν
φησιν. sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo
[B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora
in senso opposto (Simplicio; contesto B13). L'indicazione di Simplicio
suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν
μητίσατο πάντων… Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore, confermata dalla
testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576 διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀφροδίτης
ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν... π ά ν τ ω ν ’
perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo
nella cosmogonia [B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può
cogliere nel contesto della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4
984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις
ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.· οὗτος γὰρ
κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν ‘πρώτιστον μέν, φησίν Ἔρωτα … πάντων’ Si
potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del
genere, anche se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o
desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti, ricostruendo la genesi del
tutto, affermò: [B13]. Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita
liquidazione (e incomprensione) della strategia parmenidea, è anche la
testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem commenticium quiddam:
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et >
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo neque figuram divinam
neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem < modi >
monstra: quippe qui B e l l u m, qui Discordiam, qui Cupiditatem [B 13]
ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel somno vel
oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae reprehensa in
alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di fittizio: una corona
(egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e
che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci sia figura divina né
sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità di tale specie:
riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e tutte le altre cose
del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal sonno o dall'oblio o
dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli astri: essendo già
state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in questo. Quelli che
abbiamo elencato sono i testi che complessivamente autorizzano la speculazione
sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi sufficientemente certi: (i)
la testimonianza di Simplicio – che pone la funzione della δαίμων in relazione
diretta con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste
decisamente sulla divinità come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e
comune» (ἓν κοινὸν), origine di ogni generazione (γένεσις); (ii) la sua
causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei
due contrari: la divinità è causa comune in quanto, attraverso la mescolanza
delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende possibile quanto i mortali definiscono
generazione e corruzione33; (iii) a nascita e morte allude probabilmente
Simplicio quando osserva che «[la dea] invia le anime talora dal visibile
all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς
εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo stesso fenomeno si riferisce Parmenide
in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di
tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione. Conche (tra gli
altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore»),
che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, portato di
una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un pessimismo
proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp. 225 ss.. 578 suo caso, rispetto
alla poesia, dalla condizione umana al divenire nel suo complesso; (iv) la
mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una
forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros.
Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è anche «causa
degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al
concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la genesi del
tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di Cicerone, altre
figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare all'attività
direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze cosmogoniche di
Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato direttamente al modello
parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία, è possibile dunque che
Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione propriamente cosmogonica
era accompagnata e intrecciata a una versione immediatamente teogonica. Ciò è
suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4, della formula «ebbero impulso a
generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra implicare una spinta immanente,
dall'interno della natura stessa del cosmo, dall'altro, dalla attribuzione
aristotelica a Eros di una funzione analoga. Secondo Ruggiu35 l'impulso
(cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi il processo di costituzione
delle cose) sarebbe guidato dalla potenza immanente, da quella forza
vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀφροδίτης), di cui Eros (insieme alle
altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe espressione teogonica e cosmogonica
a un tempo, nella misura in cui l'unione sessuale rientra tipicamente nelle
forme di congiunzione\mescolamento, essenziali, nello schema parmenideo che
prevedeva due principi elementari di base, per produrre generazione e
corruzione. Sarebbe, insomma, in vista dell'«odioso parto» e dell'«unione» che
la dea avrebbe «concepito» (letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può
dunque osservare ulteriormente che: 35 Op. cit., p. 340. 36 Coxon, op. cit., p.
242. 579 (vi) la δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω:
pilotare, timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai
processi, sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω:
meditare, deliberare, ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e
della tradizione teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un
rapporto di pura filiazione concettuale»37. 37 Cerri, op. cit., p. 273. I
quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo del poema (B14a,
per altro, normalmente non considerato frammento autentico ma imitazione
aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il cui valore è discusso. È
significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati da Plutarco
non per documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma, strumentalmente,
per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le implicazioni etiche
(obbedienza volontaria a un superiore)1: οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ λέγων εἶναι τὸν
πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην [B14: νυκτιφαὲς
περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ σελήνης φύσιν.
nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna Sole, ma come
Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce d'altri» –
elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι τοσούτων τὸ πλῆθος
ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς
ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va in giro
bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide....sempre rivolta verso i raggi del
sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un significato
poetico e solo subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla costruzione
ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide: la Luna
come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio amante (il Sole),
illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine che Empedocle
avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota al testo. 1
Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581 Dai pochi versi si
possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni cosmologiche: (i) la
conferma della natura circolare del moto di rivoluzione della Luna («vagante
intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde l'inferenza circa la
probabile sfericità della stessa, confermata dalle testimonianze teofrastee;
(iii) l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce
solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso
Aëtius, siamo informati della origine e composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον
καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου
μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene
che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via
Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda;
l'altra dalla più densa, che è fredda (DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν
σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός La luna è mescolanza di entrambi, di aria e
di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην [sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc.
εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου
φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ.... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di
fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in
effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata
dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide...... È la diversa commisurazione
degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la
Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici)
più deboli 582 rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza):
il pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla
calda e quindi neppure splendente3. 3 Conche, op. cit., pp. 235-6. Frammento di
interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente una
sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo
all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà
per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto immediato,
infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le possibili,
diverse soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta risulta
anche la sua collocazione all'interno della struttura del poema. Prevalente è
l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti alla sezione
sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi contemporanei
(Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla
sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il frammento esprimerebbe
una concezione soggettivistica del comune pensare umano, costantemente
condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante; per gli
altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e realtà.
L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso dei
versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera. Il contesto
peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in
Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu 3) – e due
parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al testo
aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una
disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le
opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584
fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti
specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo
posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια
ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni
è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης
τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι
τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano
sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli
sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide
verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla
conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche
riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero
(φρόνησις), ovvero (ii) processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La citazione
di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν φρόνησιν
μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν ἐξ
ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ τῶν
ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς
μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται
ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν,
τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται
τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia
pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la
sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni
che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti]
si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che,
mutando la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione
presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per
quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare
cose diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È
interessante notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti,
afferma che, mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero
(μεταβάλλειν τὴν φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere
ἕξις e φρόνησις, come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ
Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello
stesso modo. In effetti i primi due versi del frammento parmenideo sono
costruiti sulla connessione ὡς.... τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων
πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται2 come, in effetti, di volta in
volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 1 È questa la forma verbale
prevalente nei codici: nello stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la
lectio difficilior ἔχῃ (congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento
abbiamo accolto la versione παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il
pensiero si presenta agli uomini, così che la citazione, nel contesto del
discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις):
si è spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come
corrispettivo di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto
che la seconda citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ'
σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando
diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama,
nella formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare
per l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι
è riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche
evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di
lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama
ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει
τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν
καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ
ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι
ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’
καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ
τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν
σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ
ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è
per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare,
il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano
qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e
conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare
e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla
situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per
quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare
cose diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti
la mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di
corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso
il simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3
427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto
doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e
«percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta
agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del
pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ
αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli
antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione
omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui
molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che
vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei
(Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la
costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza
dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia
arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino.
Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl),
Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3,
Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del
maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un
testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16
troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De
Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione
(dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata)
lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν·
οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ
Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν
γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν
διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην
δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑκάστοτε, φησίν, ἔ χ ε ι... ν ό η μ α ’ (B
16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ τὴν
λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον ἔσται
φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι
καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ
θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς
καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν
οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν.
3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e
diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal
contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e
Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato
alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo
l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo, il
pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello
secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione.
[citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della stessa cosa:
perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose attraverso la
mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità che gli
elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e quale la
sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario
in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto
non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che
percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che tutto
l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli sembra
eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A
differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici
materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea,
il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica.
Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia
generale4: né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e
νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις
e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due intendesse realmente
attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a percezione5, riferendosi
entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza del mondo sensibile. 4
Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251. 590 In ogni caso,
Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno dell'esame delle due
opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze aristoteliche che
doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità rispetto all'indicazione
del maestro, infatti, interviene proprio su questo punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ
μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι
ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ
Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e
diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal
contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e
Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i sostenitori della
derivazione della percezione dall'azione del simile sul simile, sebbene
all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come: Π. μὲν γὰρ ὅλως
οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché
[...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è che, immediatamente
di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da Aristotele: ἀλλὰ μόνον,
ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] ma solo
che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che
prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento proprio alla conclusione di
B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy, "Parménide sophiste. La citation aristotélicienne
du fr. XVI", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ
πλέον ἐστὶ νόημα ciò che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di
Teofrasto è questa la peculiarità del contributo parmenideo in campo
conoscitivo: il principio della dipendenza del pensiero dall'elemento che
prevale nella mescolanza. Il terzo rilievo interessante della testimonianza è
quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso
[sostiene] anche che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. La
convinzione espressa potrebbe discendere dai fondamenti della
"fisica" parmenidea: i due costitutivi "materiali" (Fuoco e
Notte) presenti in tutte le cose hanno «proprietà» (δυνάμεις) per cui
funzionano anche come principi di movimento e conoscenza. Possiamo così
riassumere le preziose informazioni teofrastee sulle concezioni gnoseologiche
di Parmenide: (i) due sono gli elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις):
«il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii) essa si produce con il
prevalere di uno dei due (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della
preponderanza, «il pensiero cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν
διάνοιαν); (iii) il pensiero (διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ
καθαρωτέραν) è «quello secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) «una certa
proporzione [degli elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος
συμμετρίας); (v) percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι
καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi) la percezione è del simile attraverso il simile
(evidentemente Teofrasto ha presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι
δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν
φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός,
ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la
percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente
laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la
perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta
la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ
γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi,
che Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico.
Al centro dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii)
e (iii), che giustificano la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente
nel poema il rilievo esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità
del pensiero, ma solo sotto il profilo della prevalenza di uno dei due
«elementi» (στοιχεία), sottolineando invece l'assenza in Parmenide di una
perspicua considerazione degli effetti dell'eventuale loro equilibrio.
L'impressione è che il frammento parmenideo sia impiegato non tanto per
sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva (non per marcare la
relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto piuttosto per rimarcare la
relazione psico-fisica che vi è tematizzata7. Ricostruzione dei vv. 1-2a I
primi due versi del frammento sono di interpretazione relativamente più agevole
rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze nella ricostruzione
sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν
μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des
"Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p.
181. 593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si
ha temperamento di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli
uomini. Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per
il soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo,
intransitivo). Complessivamente, tuttavia, si conferma un'indicazione
fondamentale: la condizione mentale degli uomini è correlata alla loro
situazione fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι), alle
variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων
πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero
(ovvero della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto Aristotele
rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις. Si tratta di una tesi di
antropologia generale che trova indirettamente conferma nella tradizione
dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν,
τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν
τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν
ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος
τὰ δόγματα. Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha
funzione di artefice, l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini
deriva in primo luogo dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il
caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che
l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto
nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene
Laerzio; DK 28A1). Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος
πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος
594 ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide
dice che l'anima è costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide
e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha
sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che l'intelligenza
e l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale sarebbe
completamente senza ragione (Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe ricondotto
rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra) la natura
umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività percettiva e
conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la vicinanza
di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed Empedocle,
nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del temperamento delle
componenti in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il genitivo μελέων (πολυπλάγκτων)
non si riferirebbe (se non indirettamente) agli elementi, ma immediatamente
alle «membra» corporee, secondo il costume omerico di designare il complesso
fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare dunque, in primo luogo, attento
a rilevare, nella relazione psicofisica, l'interdipendenza tra disciplina delle
«membra» e condizione della mente 8: in tal caso, il tradizionale motivo
poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della comprensione umana risulterebbe
decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una generica dipendenza
del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come nella formula
omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De Anima): τοῖος γὰρ
νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε
tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo M. Stemich,
op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione da Marcinkowska-Rosół, op.
cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei,
quanto il suo condizionamento da parte del mutevole equilibrio fisiologico
corporeo10. L'attenzione di Parmenide sembrerebbe allora, in secondo luogo,
tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità della situazione
psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε («ogni volta,
di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων («molto vaganti, dai
molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi, nella prospettiva
antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che sia proposta una
concezione del pensare come attività (e del pensiero come prodotto: νόημα) che
sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è indicativa:
παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante di «membra
che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il soggetto non
sembra essere in controllo11. Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il frammento prosegue:
τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ
γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa ciò che pensa negli
uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in ciascuno: ciò che
prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp. 162-3. 596 Si
tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema sopravvissuto.
Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea, riferendosi alla
propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende dal temperamento
delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in virtù del fatto che
«ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν) coincide (τὸ αὐτό ἔστιν)
con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις). La soluzione
interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella proposta
originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del
frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella
tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων
φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13.
A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero
(νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che
prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come
abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo
l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di
"conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico
di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la
determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra
posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco),
informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa
l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno
della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel
loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina
della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione
si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di
formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base
delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per
mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a
differenza di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite
dimensione corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος,
νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una
consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero»
(νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος
è stato invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄
ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν
καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia
violenza a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua
(B7.3-5a), (ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»:
una strada che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della
realtà: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che
nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la
mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti,
schiere scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando
criticamente la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον
Giudica invece con il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere
sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero
saldamente presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere
(B3). In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del
pensiero sia da inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica:
averne cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene
avvantaggiare, garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora
non essere casuale la relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον, B6.5b-6a):
ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero nei loro
petti guida la mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων πολυπλάγκτων,
B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι
παρέστηκεν come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra
molto vaganti, 14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si
presenta agli uomini. Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo,
espressi da πολυπλάγκτα μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il
pensiero dei «mortali». Per converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di
stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il
miglior temperamento degli elementi corporei: nella testimonianza teofrastea
«il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione
dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente)
la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione:
difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere
affidato a un accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non
avesse opportunità di controllo15. Queste supposizioni assumono maggiore
consistenza se accettiamo i riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i
quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la
possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un
«cenacolo di filosofi razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad
Apollo Οὔλιος (guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita
forse dallo stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a
Velia (l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης
φυσικός (Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre
iscrizioni recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una
tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος,
letteralmente «risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης
ἰατρόμαντις, un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa,
come si è fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di
una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo
visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione
del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17
Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare
probabilmente con lo stesso Parmenide18. È possibile, dunque, che egli
praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria,
ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga
alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora
sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della
esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male
in uno stato di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche
idonee19. Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata
preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo
consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il
manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva
interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione
della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo,
la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare
corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit.,
pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari,
Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit.,
pp. 120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere
solo impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi
(B17) e della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici),
delineando un abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il
risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che
doveva corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del feto
maschile: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν
παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli
antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero.
Parmenide in effetti dice [B17]. Proprio l'intenzione di confermare le proprie
convinzioni biologiche e l'assenza di indicazioni che attestino il rimando
diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che
rimane comunque una "scheggia" testuale1. A Celio Aureliano (V
secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in particolare,
nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν
(Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo
invece la parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La
citazione è proposta nel seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u
r a scripsit, eventu inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines
generari. cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos
enim ut potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘femina...
sexum ’. Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le modalità di
concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602 uomini molli e
sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo proporrò io pure
in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto mi è
stato possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue.
[B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione
letterale, ma traduzione-rielaborazione2, sebbene, come ha osservato Coxon3, la
facilità con cui si possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la
loro fedeltà al greco (come segnalato dalla precisazione: «ut potui simili
modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle
citazioni si riferivano, sono essenziali le testimonianze di Aëtius e
Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς
τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη
τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen unde exeat inter sapientiae
professores non constat. P. enim tum ex dextris tum e laevis partibus oriri
putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte destra sono
gettati nella parte destra dell'utero, quelli della sinistra nella parte
sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano femmine. Tra i cultori
della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.: da dove
esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla parte
destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53). Evidentemente Parmenide prendeva
posizione nel confronto scientifico circa natura e meccanismi del concepimento,
e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la testimonianza di
Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di Galeno. Questi
richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della 2 Cerri, op. cit., p.
285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il maschio sarebbe concepito nel
lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De generatione animalium
IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι τῶν φυσιολόγων):
φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας
καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ
παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν,
καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς
Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi già in origine nei semi, come
Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina
invece fornisce il luogo; e il maschio viene da destra, la femmina da sinistra,
e i maschi si formano nelle parti destre dell'utero, le femmine nelle parti
sinistre, e associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel
seme (fornito esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che
trasmette carattere maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette
carattere femminile dalla sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente
avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse derivare i maschi e le femmine
rispettivamente dalla parte destra e dalla parte sinistra dei genitali maschili
e femminili. La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a
chiarire la posizione di Parmenide circa il contributo al concepimento: Femina
virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine
virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Quando femmina e maschio
mescolano insieme i semi di Venere, la potenza formatrice nelle vene, che
[deriva] da sangue opposto, 604 conservando la giusta misura plasma corpi ben
fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune
informazioni importanti: (i) i semi originano dal sangue (maschile e
femminile); (ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente
maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue da cui provengono5 («da
sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due semi, maschile e femminile,
cooperano nella riproduzione. Incrociando queste informazioni con i riferimenti
delle testimonianze e dei contesti delle citazioni, possiamo così ricostruire
la probabile posizione parmenidea sulla relazione genetica dei figli ai
genitori6: entrambi i semi delle parti (genitali) destre generano maschi simili
ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine simili alle
madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile e
femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri. Parmenide
probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e seme
femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due
tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes,
δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica
potenza formatrice (informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in
negativo che chiude B18: Nam si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant
unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. Se,
infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono e non diventano
un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche 4 Conche, op.
cit., p. 262. 5 Ibidem. 6 Coxon, op. cit., p. 253. 605 affliggeranno il sesso
nascente con il [loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio
Aureliano alla sua citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes,
quae si se ita miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui
generent voluntatem; si autem permixto semine corporeo virtutes separatae
permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che
i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se
si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano
carattere (voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta
mescolato il seme corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati
desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi
fosse stata rispettata (temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto
semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo
così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso
contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio
sessuale e psichico7: lo sviluppo coerente della personalità sessuale (congruam
sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella costituzione
dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di Parmenide presentano
certamente affinità con quanto attestato del pensiero del contemporaneo
Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come «discepolo di Pitagora»
(Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως leggiamo
infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σονομίαν τῶν δυνάμεων, ὑγροῦ,
ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν αὐτοῖς
μοναρχίαν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου
μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene
la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo
caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera
di malattia: micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti.
[...] La salute, invece, è mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le
consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi
fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia
degli elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le
testimonianze accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente
seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il
feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante»
(Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che
entrambi i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur
avendo sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι
τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius;
DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse
Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico
l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in
effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni
(umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p.
252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare
le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico
appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni
biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva
interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo
riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato
nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica:
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος
ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende
all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al
maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile,
come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente
elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte
pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia;
probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni
ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi
archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve
sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito
biologico. Il tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per
altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di
Alcmeone: come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva
dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse
verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni [...] le cui potenze egli
constatava nella pratica della medicina10. Su questo sfondo piuttosto sfumato è
possibile parlare di comuni obiettivi scientifici nella ricerca di Parmenide e
Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi
condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica
preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e
della pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito
della tradizione pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita
come μάθημα essenziale11. 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi.
Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale
1958-1964), pp. 134-5. 11 Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato
esclusivamente da Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto
particolare (557-8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del
poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν
ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου
τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν
εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ
καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε
πάλιν [B19]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ
νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς
νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ
καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ
ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide,
Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente,
dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale
essi non ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che
appare. Per questo afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il
divenire. Parmenide, infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato
il ragionamento intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre
[la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53].
Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse
ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose
sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di
condurre riflessioni di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere
riportate qui? Come ha potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose
intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità
dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non
ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere? Riflettendo
sulle indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse
citazioni, dovremmo concludere che: (i) il poema si articolava in due sezioni
principali, per le quali il commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il
passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era
apposto a compimento di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν
αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la
deduzione che esso chiudesse il poema1. Ancora sulla doxa parmenidea Il
contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella
culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del
VI secolo - sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo
Simplicio, delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti:
(i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως
ὄντος λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια):
nel lessico della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito
dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto»
(ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica
dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui
statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo
punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento –
naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera
e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura
«sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La
trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che
concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in
divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso,
l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ
δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν
δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema
doveva, dopo l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben
rotonda il cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò
cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione
effettiva (δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle
«cose accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore
designa come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche
l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il
contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione
del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica
sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in
cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che
doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici
che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del
poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante
precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς
τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς
ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν
προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν
ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ
ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ
παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι.
καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν;
οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna
conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e
dell'essere, definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora
uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile
invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è
possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che
raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le
opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte
con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come
avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem
1114 d-e), e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’
ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν
ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν
μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν
εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν
ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […]
percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca
anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie
le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è
uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al
fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi,
fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28
A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in
termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno
sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico
proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione
sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende
marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso,
il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον)
dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro.
Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo
Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν)
«secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la
sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide
il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν)
- formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto
in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista,
Timeo) 2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante
dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta
di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa,
probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴὄντος ἢ
Περὶ φύσεως. Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi
retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di B19 e dunque al
riferimento al complesso della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura
"costruttiva" della seconda sezione del poema. In Teofrasto e
Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da
tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 - si conferma, in
particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa
realtà4: secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur
avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza –
e quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ
νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di
individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli
di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti
intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su
questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di
lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4 Per questa linea interpretativa si
veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 32 ss., in
particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco
più di una scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della
discussione: come abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce
effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche» considerate
nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica»5 ): οὕτω
τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι
τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo
modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in
seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini
imposero, distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν –
giustifica l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme verbali
impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile intravedere la
corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in
vero, attraverso scelte espressive ben ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ
richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις (B10) nella ricerca
condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il presente connotato
avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5,
caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di
precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità
sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e
compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5 Conche, op.
cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore
diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ
ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in
quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6. Per la terza volta,
dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore linguistico
della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli
effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli
uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei
contenuti fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui
appare implicita la possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7. Non
a caso l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo
principi (B9) di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In
questo senso, Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in
questo passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità
delle cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini
ontologici dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e
dell'«assenza». Un sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne
avrebbe colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ
κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν
τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε
φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ
ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ
ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς
συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Ruggiu. Coloro
che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la
natura degli enti, dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi
sostengono che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò
che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da
entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è
già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in
effetti qualcosa che funga da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero,
aggravando le cose, ad affermare che non esistano i molti ma che esista solo
l'essere (Fisica I, 8 191 a25 ss.). Verb fīō (present infinitive fierī,
perfect active factus sum); third conjugation, semi-deponent (passive
form of) faciō (copulative) I become, am made Vōs ōrāmus ut discipulī ācerrimī
fīātis. We are begging you so that you may becomevery keen students I happen,
take place, result, arise – quotations, synonyms. Synonyms: interveniō, ēveniō,
expetō, obtingō, incurrō, accēdō, incidō, accidō, contingō ut fit ― as happens
usually/as is customary fit ut ― it happens that Titus Livius, Ab Urbe Condita
I, 13: silentium et repentina fit quies A stillness and a sudden hush
took place I appear quotations: Titus Livius, Ab Urbe Condita I, 10: fit obvius
cum exercitu Romulus Romulus appeared with his army Conjugation Edit While it
does have a fourth conjugation pattern when conjugated, this verb has an
irregular infinitive (fierī), and is therefore third
conjugation. Conjugation of fīō (third conjugation iō-variant, irregular
long ī, suppletive in the supine stem, semi-deponent) indicative singular
plural first second third first secondthird activepresent fīō fīs fit fīmus fītis fīunt imperfect
fīēbam fīēbās fīēbat fīēbāmus fīēbātis fīēbant future fīam fīēs fīet fīēmus fīētis fīent perfect
factus + present active indicative of sum pluperfect factus + imperfect active
indicative of sum future perfect factus + future active indicative of sum
subjunctive singular plural first second thirdfirstsecondthird active present
fīam fīās fiat fīāmus fīātis fīant imperfect fierem fierēs fieret fierēmus
fierētis fierent perfect factus + present active subjunctive of sum pluperfect
factus + imperfect active subjunctive of sum imperative singular plural first
second third first secondthird activepresent— fī — — fīte — future—fītō
fītō—fītōte fīuntō non-finite formsactivepassive presentperfect future
presentperfect future infinitives fierī factumessefactum īrī participles factus
verbal nounsgerundsupine genitivedative accusativeablativeaccusativeablative
fiendīfiendō fiendum fiendō factum factū Usage notes Edit This verb ousted
Facior, Facī in the sense of "to be made". Verb Edit fīō
first-person singular present passive indicative of faciō Related terms Edit
faciō fīat lūx fīat jūstitia ruat cælum Descendants Edit Vulgar Latin: *fiō
(see there for further descendants) → English: fiat References Edit fio in
Charlton T. Lewis and Charles Short (1879) A Latin Dictionary, Oxford:
Clarendon Press fio in Charlton T. Lewis An Elementary Latin Dictionary, New
York: Harper & Brothers fio in Gaffiot, Félix (1934) Dictionnaire illustré
Latin-Français, Hachette. Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni
sulla metafora mitica in Parmenide Author(s): Antonio Capizzi Source: Quaderni
Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 3 (1979), pp. 149-160 Published
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Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni
sulla metafora mitica in Parmenide. Non
posso fare a meno di ringraziare Fajen per la dura critica che ha rivolto alia
mia interpretazione dei frammenti di Parmenide. Devo ringraziarlo perche, a
differenza di altri critici non meno duri, prima di giudicare il mio saggio lo
ha letto da cima a fondo e lo ha compreso assai bene, dato che i punti da lui
attaccati sono in effetti gl’argomenti portanti della mia dimostrazione. Ma
soprattutto devo essergli grato perche, attaccando quei punti, mi ha costretto
ad approfondirli, e conseguentemente a scoprire nuovi e piu validi argomenti in
loro favore. A questo punto, pero, i ringraziamenti finiscono. Gli argomenti di
Fajen colpiscono i bersagli giusti, ma li colpiscono assai debolmente.
Vediamoli in breve uno per uno. a) lo ritengo che la mia intera interpretazione
del frammento 1, e cio? la lettura realistica e topografica del viaggio di
Parmenide sulla "via del nume", poggi sui solido pilastro dei tempi
verbali “Sulla natura”; sui fatto cio? che, nei due punti in cui il viaggio si
localizza, in quanto vengono nominate prima la via e poi la porta, la
narrazione passa dai tempi storici ai tempi principali. Fajen invece del parere
che, in qualunque modo la narrazione venga considerata, sia come preparatoria
ad una specie di rivelazione o simili, sia come esposizione di un viaggio
storico, i tempi sono comunque privi di un qual siasi peso. Premetto che il “Sulla
natura”, formalmente parlando, in ogni caso "preparatorio ad una specie di
rivelazione". Il contenuto del “Sulla natura” viene presentato come il
discorso di una dea, Dike, a Parmenide, cosi come il contenuto della Teogonia
una rivelazione che altre dee, le muse, hanno fatto ad Esiodo. E la divergenza
tra le varii interpretazioni verte sulla localizzazione dell’incontro tra la
divinita e il poeta, localizzazione inesistente nelle letture mistiche e [Gymnasium,
La porta di Parmenide, Roma] allegoriche, esistente nel mondo celeste nelle
esegesi astronomiche, e infine esistente in una citta reale di questo mondo -- certamente
Velia -- nella mia interpretazione. Ora, Fajen puo pensare cio che meglio crede
sui significato dei tempi verbali nei vari tipi di narrazione; ma tanto il suo
parere quanto il mio restano inverificabili se non si basano su esempi
concreti. Concretamente parlando, i filosofi precedenti Parmenide, o a lui
contemporanei, non ci forniscono esempi di narrazioni allegoriche in prima
persona. E, per quanto concerne viaggi nel Pal di l? (celeste, infero o mistico
che sia questo al di l?), non ci danno che la Nekyia omerica. Ma anche la sola
Nekyia, analizzata strutturalmente, ? assai significativa per il nostro
problema. Essa si compone di tre parti: il passaggio di Ulisse e dei suoi
compagni per l’ultimo agglomerato umano, abitato da esseri viventi e definibile
come un 8?po<; e come una toXic 3, e cio? per il paese dei Cimmerii {k
1-19); il loro inoltrarsi nei luoghi indicati da Circe4, e cio? nel bosco di
Persefone, dove viene scavata una fossa alla quale le ombre dei morti giungono
uscendo fuori dalPErebo 5 (k 20-565); infine la penetrazione di Odisseo
(preannunciata da un intermezzo in cui Al cinoo assicura il suo ospite che ci?
che dira verra creduto 6 anche se narrera "avvenimenti
straordinari"7) nella casa stessa di Ade8, dove pu? vedere anche
personaggi (Minosse, T?ntalo, Sisifo) impos sibilitati ad uscire dalPErebo (k
583 sgg.). La seconda parte, la pi? lunga, si svolge tutta presso la fossa, in
mezzo ad una nebbia che a mala pena lascia vedere i contorni delle persone, ed
? quindi priva di localizzazioni; la prima e la terza, invece, contengono
localizzazioni e descrizioni rispettivamente di cose del nostro mondo (appunto
la citt? e la terra dei Cimmerii) e del mondo dei morti (il lago e Palbero di
T?ntalo, il monte e il macigno di Sisifo). Ora, parlando dei Cim merii il poeta
interrompe la serie degli aoristi e degli imperfetti, che punteggiano il
viaggio della nave, con un presente (xccTaS?pxETai, v. 16) e con un perfetto
equiparabile ad un presente (Texaxai, v. 19); mentre ci? non avviene per i
luoghi delPErebo, e cio? per il lago (Xlexvtq-Tzpoff?Tzko?^z, v. 583; uSwp
anokzcrxzio, v. 586), per la 3 Evfra 8? KiujXEptcov ?vSpcov 5?p?<; te tc?Xic
te (0?. XI 14). 4 ocpp' e<; x&pov a^xou-eft' ov cppacTE K?pxiQ (ibidem,
22). 5 ai 5' ?y?povTo ipuxai ?rc?? 'Epa?eix; (ibidem, 36-37). 6 J??, 363-366. 7
dicrxzka spy a (ibidem, 374). 8 xoct' E?puTCuX?? "A?5w? 565 Eliadi,
Meleagridi, Pandionidi 151 terra lasciata scoperta dal ritirarsi del lago {ycda
piXaiva cp?vECXE, v. 587), per gli alberi (S?vSpea .. . x&, v. 588), per il
macigno (tot' ?-Koo-zpityaaxz xpotTout;, v. 597), e soprattutto per la cintura
di Era cle, la cui descrizione ? an?loga a quella parmenidea della porta (fr.
1, vv. 11-13), ma ne differisce appunto perch? alP dai iniziale si sosti tuisce
un Tjv (v. 610). II processo, per cui i tempi storici di una nar razione si
interrompono e lasciano il posto ai tempi principali ogni volta che il
narratore vuole localizzare con precisione il racconto rea l?stico, non ?
limitato all'inizio della Nekyia: molti dei numerosi rac conti contenuti
nelPultima parte dtWOdissea vi fanno ricorso9; ed ? presente anche nei tragici,
come nella narrazione della sconfitta di Salamina fatta in Eschilo dal
messaggero persiano 10, allorch? questi vuole localizzare un'isola n e un fiume
12, o l? dove il "pedagogo" di Euripide, riferendo di av?re udito la
gente parlare di un decreto di Creonte 13, allude a una fontana ben nota (come
la porta e la via di Parmenide) ai suoi ascoltatori. b) Pi? centrata ?
Posservazione di Fajen a proposito del termine aorxu: per me la oS??
TO^?cpirpoc Sai[jiovo<; r\ xax?c tc&vt' ?cron, cp?psi elS?toc cpwTa ? la
via principale della citt?, che congiunge tutti i quar tieri cittadini; Fajen
mi osserva che acnu non significa "quartiere cit tadino", ma la
citt?, o una sua parte composta di pi? quartieri. Fin qui il critico ha
probabilmente ragione: "quartiere" implica un cen tro compatto,
magari diviso in quattro parti come nelle citt? nate da accampamenti; e
xgct<x tuocvt' ?o*TT] significa "attraverso tutte le cit 9 Tra i molti
racconti che punteggiano la storia di Odisseo approdato ad Itaca ve ne sono
due, quello di Eumeo a Odisseo (XV 390-486) e l'altro di Odisseo a Penelope che
ancora non lo ha riconosciuto (XIX 165-202), che sem brano ricalcati su uno
stesso clich?: entrambi infatti contengono un'introdu zione, nella quale
l'oratore acconsente a parlare e spiega le ragioni del suo as senso (XV
390-402; XIX 165-171); una localizzazione, in cui vengono descritte
rispettivamente le isole di Siria e di Creta (XV 403-412; XI 172-178); e la
narra zione vera e propria, legata alia localizzazione in entrambi i casi dal
ricordo di un re che regnava nelle terre descritte (XV 413-486; XIX 178-202).
La localiz zazione ? sempre caratterizzata da tempi principali, la narrazione
da tempi sto rici; e ci? avviene anche in altri racconti deH'ultima parte
d?iVOdissea (cfr. ad es. XXIV 331-344). 10 Pers. 272 sgg. 11 Ibidem, 447-449.
12 Ibidem, 487. 13 Med. ta" (in
quanto forse la Via del Nume non aveva solo un tratto citta dino, ma
congiungeva Velia a Posidonia e alle altre citt? costiere) o "attraverso
tutti i nuclei abitati" (nel senso che la strada univa i due porti,
Pacropoli e magari la fortezza di Moio della Civitella, avam posto velino verso
il retroterra 14. Ma, anche concedendo la corre zione, non ci ritroviamo sempre
in una lettura topogr?fica, e cio? pro prio in quella lettura che Fajen ritiene
inammissibile? Dato che Fajen non propone interpretazioni alternative, devo
supporre che egli opti per le interpretazioni non topografiche ten?ate fino ad
oggi. Ora, se si accetta la lettura che fa del proemio un'allegoria speculativa
simbo leggiante il viaggio delPintelletto verso la conoscenza (Fr?nkel, Bowra,
Deichgr?ber), gli occttt) sono le province del sapere; se si propende per
Piniziazione religiosa o mist?rica (Diels, Mondolfo, Zafiropulo, Jaeger,
Verdenius, Untersteiner, Mansfeld, ecc), dobbiamo intendere per ?o-rr] i gradi
delPilluminazione; se infine si sceglie Pesplorazione c?smica, e cio? la corsa
sui carro del sole lungo le orbite celes ti (Gil bert, Kranz, Capelle), i
"centri abitati" simboleggiano i segni dello zodiaco o qualcosa di
simile. Fajen, cosi scrupoloso nel consultare gli autori antichi in cerca
delPesatto significato di acrru, ha trovato in qualche scrittore traslati di
questo genere? Se si, sar? lieto di saperlo. c) Diels ritiene che il
izk?-zTovai = -rcXoco-crovTai di Parm. 6,5 non sia una forma regolare di
rcXacrcrG), ma una forma an?mala di izka?u, e puntella la sua ipotesi con
esempi tratti dal tarantino; Fajen mi concede il diritto di rifiutare gli
esempi, "non essendo plausibile un dorismo in quel contesto", ma non
di invalidare Pipotesi, essendo Pipotesi stessa {Tzkavvovzai per TcXa?ovTcci)
fondata su "un'intera se rie di verbi in -o"o*co invece del -?w che
ci si aspetterebbe" citata nella grammatica greca di Schwyzer 15. Non
credo che sia necessario rileg gere le grammatiche per sapere ehe in greco le
reg?le sulla formazione del presente dal tema verbale sono alquanto precarie:
ma icX?Cco ha un presente regolare attestato da numerosi scrittori, e Diels non
lo ha certo negato. Diels ipotizza un hapax, e cio? una forma irrego lare che
sarebbe attestata dal solo Parmenide, e solo in quel passo; e non devo essere
io a ricordare al collega che un'ipotesi di hapax (cosi corne anche un
emendamento) viene a cadere appena si dimostri che 14 Si veda in proposito E.
Greco, 'Il (ppo?piov di Moio della Civite?V, Riv. studi salern. 1969, pp.
389-396. 15 E. Schwyzer, Griechische Grammatik I, M?nchen il passo ha senso compiuto senza di essa.
Anche se Fajen trovasse non una serie di presenti irregolari o di doppi
present? (come quelli elen cati da Schwyzer), ma addirittura una serie di hapax
analoghi a quello presunto da Diels, Poner? della prova resterebbe sempre a
lui. Alla fine della sua breve ma densa recensione Fajen mi accusa "di non
essere al servizio della scienza", e non posso dargli torto: se scienza ?
quella che traspare dalle sue argomentazioni, essa consiste nelPaccettare il
vecchio perch? vecchio e nel rifiutare il nuovo perch? nuovo; e scienziato ?
chi (come Cesare Cremonini) rifiuta di guardare nel cannocchiale se il
cannocchiale non mostra Puniverso descritto da Aristotele. II servizio di
questo tipo di scienza lo lascio volentieri al mio c?rtese obiettore. 2. Ho
tralasciato volutamente il primo argomento di Fajen, quello riguardante la mia
interpretazione delle "fanciulle Eliadi", citate in Parm. 1,9, come
pioppi fiancheggianti la strada, dato che in tutte le fonti, tranne che in
Omero, le 'HXi?S?<; compaiono trasformate in pioppi o in altri alberi: Fajen
obietta che in questi autori vi ? sempre (tramite il nome di Fetonte o Paccenno
al pianto delle fanciulle) al lusione al mito metamorfico, allusione che in
Parmenide viene a man care. Se accettiamo il criterio qui proposto, ci troviamo
al di fuori di ogni possibilit? interpretativa: le Eliadi non possono essere
a?YSi?poi come in Eschilo perch? Parmenide non si riferisce al mito di Fetonte,
ma neanche possono essere v?^cpai come in Omero perch? Parmenide non accenna al
mito di Odisseo. Se poi cerchiamo di completarlo con altri criteri, Pallusione
al mito di Fetonte ? preferibile non solo per la quantit? delle fonti, e per la
contemporaneit? tra Parmenide ed Eschilo che ? la pi? antica di esse, ma anche
e soprattutto perch? Pespressione 'HXi?SEc (a volte accompagnata da xo?pai e a
volte no) ci risulta esclusivamente nelle narrazioni del mito metamorfico. Ma
anche ammettendo che la mia lettura incontri qualche difficolt?, Pin
terrogativo ? lo stesso che ci siamo posti a proposito di rcavi' ?crn}: quai ?
Palternativa, e che cosa ? stato proposto fino ad oggi? Ancora una volta: se
optiamo per la lettura speculativa, le Eliadi sono forze intellettuali; se
riprendiamo Pipotesi mistica, sono potenze divine; se ripieghiamo sull'interpretazione
astron?mica, sono ?nergie cosmi che. In quale mito troviamo le Eliadi come
equivalenti di cose del genere? E quali riferimenti di Parmenide ci riportano a
miti consimili? Ci? che Fajen sembra trascurare ? il fatto che fino ad oggi nes
suno ha letto il proemio di Parmenide come una narrazione mitica mai esistito
un mito di cui fosse protagonista lo scrittore che lo nar rava) : i moderni
fautori delle tre interpretazioni menzionate pi? sopra hanno visto tutti nelle
Eliadi una met?fora; quanto agli antichi (il cui giudizio Fajen mi rimprovera
di trascurare), Sesto Emp?rico, P?nico che abbia tentato un'interpretazione del
proemio, riduce anch'egli a met?fora le figlie del sole (che simboleggerebbero
le sensazioni)I6, mentre Proclo 17 attesta il continuo uso di metafore
(xp^oflai [XETacpo pa??) da parte di Parmenide, e il retore Menandro 18 precisa
che fece uso di quelle particolari metafore mitiche consistenti nel dire
"Apol lo" per sole, "Era" per aria, "Zeus" per
calore, ecc. Si tratta di metafore comunissime in tutta la letteratura antica,
da Omero in poi, e costruite proprio nel modo che io propongo per le Eliadi
parme nidee e che Fajen ritiene inammissibile: il personaggio m?tico viene
nominato al posto delPoggetto cui ? associato, senza alcun riferimento al mito
che giustifica Passociazione. Queste considerazioni sarebbero sufficienti per
rispondere alie contestazioni di Fajen; ma, come ho detto, la mia inveterata
abitudine di rimettere in questione le mi? tesi mi ha spinto a fare ulteriori
ri cerche sulle strutture della met?fora mitica. Ho osservato, ad esempio, che
questo tipo di met?fora, pur essendo forse il pi? fr?quente nel Pantichit?,
compare assai di rado nel lungo elenco di metafore poe tiche e retoriche
fornitoci da Aristotele 19, e il fatto non mi ? sembrato casuale: Panomalia
dipende, a mio avviso, "dal carattere sincr?nico e non diacronico
delPindagine aristot?lica, alia quale ? estraneo il pro blema della genesi e
delPevoluzione della lingua e dei suoi modi"20. Aristotele scrive in
un'epoca nella quale i poeti cominciavano gi? a comporre pensando ad altri
poeti, i retori in pol?mica con altri re tori, cosicch? le metafore erano
soprattutto preziosismi stilistici (?cTTEia): tutta Pindagine aristot?lica
valuta le metafore a seconda del loro valore est?tico, e non c'? una volta che
il filosofo di Stagira si ponga il problema del rapporto tra efficacia e
comprensibilit?. Per Aristotele la met?fora ? letteraria, non popolare; ed ?
per questo che lo interessano assai poco le metafore mitiche, che sono
allusioni dei 16 Sext. Adv. Math. VII 112. 17 Parm. I 665,17. 18 Rhet. I 5,2.
19 Poet. 21-22; Rhet. Ill 2-4; 10-11. 20 G. Morpurgo Tagliabue, Ling?istica e
stilistica di Aristotele, Roma poeti e degli oratori a modi di dire gi?
esistenti e diffusi tra la gente del pop?lo che (in ?poca di viva tradizione
orale) li ascolta diretta mente. Aristotele, insomma, non pensava mai che gli
aedi omerici dovevano farsi capire dalla gente delle citt? che visitavano; e
che i poeti e gli oratori del sesto e del quinto sec?lo avevano un ben pre ciso
uditorio 21, nel quale le loro met afore dovevano suscitare reazioni immediate.
Nessun cantore o parlatore avrebbe detto "Ares" per indicare la
guerra se non av?sse saputo che i suoi ascoltatori usavano gi? la stessa
met?fora; e le metafore mitiche erano popolari prima di essere letterarie. La
popolarit? delle metafore cui pi? sopra ho accennato era senza dubbio estesa
all'intero mondo di lingua greca, e la ragione ? f?cil mente intuibile: si
tratta di metafore o gi? presenti nei poemi ome rici, o da essi der?vate. Ma
esistevano metafore mitiche popolari di origine postomerica o extraomeriea:
Empedocle, che subi fortemente la suggestione stilistica di Parmenide, e che
gi? il retore Menandro accomunava a Parmenide proprio per Puso di metafore
mitiche22, usa per i suoi elementi tre nomi di divinit? omeriche, Zeus, Era e
Edoneo (= Ade), ma per il quarto elemento, Pacqua, si serve di Nesti23, una
divinit? siciliana24; e abbiamo qui un chiaro esempio di met?fora po? tica che
riproduce una met?fora mitica popolare locale, e cio? di poesia adattata ad un
uditorio limitato, come era anche quella di Parmenide. Le Eliadi pero, pur non
essendo un mito omerico, non sono neanche un mito locale campano, o pi? in
gen?rale italiota: sono, nel momento in cui Parmenide compone il suo poema, un
mito tr?gico. I miti metamorfiei e i miti dionisiaci sono i due pi? importanti
gruppi di miti non omerici, ed hanno entrambi la stessa origine: i sa tiri e i
sileni della mitografia dionisiaca, le donne-uccello e le donne albero della
mitografia metamorfica, derivano tutti certamente dai riti di caccia, raccolta
e agricoltura in cui i danzatori o le danzatrici si camuffano con pelli di
animali o con fronde vegetali per mimare 21 Rinvio, per lo sviluppo di questa
prospettiva storica, a B. Gentili, 'Aspetti del rapporto poeta committente
uditorio nella lirica c?rale greca', Stud. urb. 39, 1965, pp. 70-88: per
Parmenide si vedano le pp. 87-88. 22 Menand. loc. cit. 23 Emp. fr. 6, v. 3; fr.
96, v. 2. Un altro personaggio facente parte di un mito siceliota, Baub?, la
nutrice di Persefone, viene nominato da Empedocle (fr. 153) metaf?ricamente per
indicare il ventre. 24 Lo attestano Eustazio {ad II. p. 1180,14) e Fozio (s.v.
N^ctttic). appunto le operazioni di sostentamento collettivo e propiziarne la
buona riuscita. Tali miti hanno dunque, fin dalle origini, uno stretto l?game
con la tragedia ^ ?(che ricorda nel suo stesso nome il travesti mento con pelli
di capra): non c'? dunque da meravigliarsi se fu la tragedia a renderli
popolari in tutta la Grecia, man mano che le com pagnie girovaghe li
rappresentavano. Le metafore popolari nate da questi miti sono chiaramente di
origine tr?gica. I miti metamorfici hanno scarse metafore, ed ? facile capire
il perch?: nella maggioranza di essi (Aracne, Dafne, Cieno, Atlante, Aretusa,
ecc.) il personaggio che si trasforma ha gi? il nome della cosa nella quale si
trasformer?, essendo costruito solo in funzione della metamorfosi. Ma spesso si
tratta in vece di personaggi gi? no ti fuori del mito metamorfico, o comunque
dotati di nomi propri, e allora la met?fora ? possibile: ? questo appunto il
caso delle Eliadi, gi? pre sent? in Omero in una narrazione non metamorfica, e
che rientrano nella tipolog?a delle "sorelle trasformate mentre piangono
la morte di un congiunto". Una variante del mito delle Eliadi ? la storia
delle Meleagridi, anch'esse "sorelle piangenti", che differiscono
dalle Elia di per il nome del fratello morto (Meleagro anziehe Fetonte) e per
il tipo di metamorfosi (uccelli anziehe pioppi), ma ad esse strettamente si
l?gano per il fatto che dopo la metamorfosi piangono lacrime d'am bra: in
effetti Plinio il vecchio cita entrambe le favole nella sua lunga elencazione
delle opinioni sulPorigine dell'ambra, e ne mette anche in evidenza la comune
origine tr?gica, attestando come la storia delle Eliadi derivi dalPomonimo
dramma di Eschilo 26 e quella delle Me leagridi dal Meleagro di Sofocle. Ma la
leggenda delle Meleagridi presenta analogie anche con quella delle Pandionidi, figlie
di un m? tico re di Atene, che probabilmente nella versione originaria erano 25
Questo l?game ? ancora rintracciabile, ad esempio, nel Prometeo inca tenato,
dove lo, fanciulla trasformata in vacca cui continuamente si allude anche nelle
Supplici, viene d?fini ta ?ouxepcoc irapdevoc (v. 588): ? chiaro che ancora in
Eschilo il personaggio trasformato in animale compariva sulla scena con una
maschera atta a ricordare l'animale stesso. ? probabile che anche negli Uccelli
di Aristofane Procne entrasse in scena con qualche attributo legato alla sua me
tamorfosi in uccello: alla maschera animalesca alludono chiaramente i due per
sonaggi che commentano la sua comparsa (vv. 672-674). 26 ?piufumi po?tae
dixere, primique, ut arbitror, Aeschylus, etc." {N.H. XXXVII 2, 11,31). 27
"Super omnis est Sophocles po?ta tragicus [...] Hic ultra Indiam fieri
dixit e lacrimis meleagridum avium Meleagrum deflentium" [ibidem, 41).
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Pandionidi 157 state trasformate in rondini mentre piangevano anch'esse un
parente morto (e ce lo suggerisce il fatto che tanto Esiodo28 quanto Saffo29,
due poeti vissuti assai lontani Puno dalPaltra nel tempo e nello spa zio,
chiamino IIav8iovi<; la rondine): divenute uccelli corne le Melea gridi,
esse esprimono il loro dolore non con lacrime, ma con strid?i. Nei tragici,
prima in forma allusiva nel primo coro delle Supplici di Eschilo, poi per
esteso nel Tereo di Sofocle, troviamo questo mito gi? contaminate
(probabilmente per la somiglianza tra i patronimici Ilav Siovi? e navSapTQi?)
con quello di Aedone, figlia di Pandareo, che uc cide per errore il proprio
figlio Itilo e si trasforma in usignolo M, oltre che con la truce storia
(variante tessala del mito di Medea) della vendetta di Procne su Tereo: ne vien
fuori un complesso mito meta morfico, dove le Pandionidi si sono prec?sate
nelle due sorelle Procne e Filomela, mutate Puna in usignolo e Pa?tra in rondine,
mentre Tereo si trasforma in upupa; tuttavia anche in questo caso il mito
diventa popolare (e ce lo attesta perfino Aristofane)31 quando si rappresenta
pubblicamente la tragedia sofoclea che narra la metamorfosi. Tutti e tre questi
miti diedero luogo a metafore popolari, e Ate ne, proverbialmente ricca di
uccelli, appunto la sua attenzione sui due miti sofoclei, ritrovando le
Pandionidi e le Meleagridi nelle colonie avicole locali: la rondine dovette
essere chiamata abitualmente Filo mela, se tutti compresero a vol? quando
Gorgia ne apostrofo una con questo nome (una met?fora famosissima,
evidentemente, se perfino Aristotele32, che abbiamo visto cos? restio a citare
metafore mitiche, la ritenne degna di menzione); e Meleagridi furono chiamati,
pi? in gen?rale, gli uccelli che nidificavano numerosi nelPAcropoli e che ri
chiamavano con immediatezza agli Ateniesi le immagini e i cori del Meleagro 33.
A Velia, ricca di pioppi **, suscito invece maggiore im 28 Op. 568. Probabile
reminiscenza esiodea in Mnesalc. Anth. Palat. IX 70. 29 Fr. 88 Bergk. 30 Od.
XIX 518-523; Apollod. III 5,6. 31 Toia?Ta uivToi Eo<poxX??}? )apa?v?Tai ?v
to?? TpaY^Siaiciv ?ui t?v Trjp?a (4i;. 100-101). 32 Rhet. III 3, 1406 b 16-19.
33 Hesych.: MeXeocyp?Se? opv?i?, ai ?v?u-ovco ?v t^ ?xpoitoXei. 5W.: M?
X?aYP?8?c * opv?a, ?citep ?v?p,ovTO ?v xfi ?xporcoXei X?Youca 8? o? uiv tgc?
?SfiXcp?? toO M?X?aYPOu [xz-zct?aXzl^ ?i? tgc? u-?X?aYp?8a<; apvida? xtX.
Phot. s.v. = Sud. 34 Cfr. L# porta di Parmenide cit. pp. 33-34. This content downloaded
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http://about.jstor.org/terms 158 A. Capizzi pressione la
metamorfosi delle Eliadi messa in scena da Eschilo: gli abitanti del centro
campano cominciarono a chiamare "fanciulle Elia di" gli alberi che
fiancheggiavano la Via del Nume, tanto che Par menide utilizz? Pimmagine
mitizzata degli alberi per caratterizzare la "famosa via". Ma il
fatto significativo ? che chiunque alludesse alle metafore popolari locali non
mancava di riferirsi anche, pi? o meno apertamente, alle trag?die cui il suo
uditorio riallacciava le metafore. Gorgia lo fece da oratore, dato che si
rivolse alla rondine-Filomela "col pi? elevato tono dei tragici"35;
Parmenide invece si comporto anche in questo da poeta, illuminando la met?fora
popolare di origine eschilea con altre metafore tratte dai testi stessi di
Eschilo, come Tuso di "xaX?-rcTpi?]" per "?ocpo?" e di
"x??P" per "o?o?" e l'?vidente gioco sui doppio significato
di "x?pa" ("testa" e "cima"36 che ritroviamo
nella splendida immagine del verso 10: "xaX?-rcTpa" per "velo di
t?n?bre" ? in effetti accertato come espressione eschilea37, mentre le
immagini della trasformazione delle braccia in rami e della testa in cima
frondosa sono anche nei versi dedicati aile Eliadi da Ovi dio 38, versi che
nella parte finale (allorch? le sorelle si lamentano tutte insieme con un
andamento che richiama i cori tragici)39 sembrano fortemente influenzati dalle
Eliadi di Eschilo, dove le figlie del Sole costituivano appunto il coro. ?
anche significativo come queste metafore popolari abbiano dato, in epoca pi?
tarda, esiti assai simili: mentre i mitografi conti nuavano a narrare la
metamorfosi senza discostarsi molto dalla versione tr?gica, gli scienziati
attingevano ai nomi mitici per denominare ani mali o piante poco conosciuti. Il
nome di Filomela, che i latini usa 35 aplata twv TpaYixwv (Arist. loe. cit.).
Aristotele aveva coito bene l'al lusione perch? conosceva il testo del Tereo
(cfr. Poet. 16, 1454 b 37). 36 Per x?pa significante "cima d'albero"
cfr. Soph. fr. 23 Nauck. 37 Cfr. Choeph. &14. Ma va chiarito che i versi di
Parmenide risentono con tinuamente di quelli di Eschilo: si cfr. per es. Eum.
516 con Parm. 1,25; Eum. 538-542 con Parm. 1,14; Prom. 210 con Parm. 8,53-54;
Prom. 447 con Parm. 7,5; ecc. 38 Tertia cum crines manibus laniare pararet,
avellit frondes. Haec stipite crura teneri, ilia dolet fieri longos sua brachia
ramos (Met. II 350-352). 39 Parce, precor, mater, quaecumque est saucia clam?t,
parce precor: nostrum laniatum in arbore corpus vano come sin?nimo di
"uccello"40 o pi? specificamente di "ron dine"41, venne
dato dai naturalisti greci prima ad una specie di cuculo (la "filomela
maggiore")42, poi per estensione al pesce-cuculo (trigla cuculus)43, cosi
detto perch? si diceva emettesse un suono simile al canto delPuccello omonimo;
e Pequivalenza tra "rondine" e "Pan dionide" fece si che la
celidonia (la comune "erba da porri"), detta dai Greci per la sua
forma "x^S?viov pi?Ya" {= "rondinella mag giore") venisse
detta a volte anche "tcocvSlo? pt?oc"44, certamente, come ben vide
Wellmann, corruzione di un originario "IlavSiovic; pi?a".
"Uccello meleagride" fu, a cominciare da Aristotele45, e so prattutto
dal suo discepolo Clito da Mileto, che ne fece una minuziosa descrizione46, il
nome dato dagli ornitologi47 alla gallina faraona, e cio? a quello, tra gli
uccelli comuni nelPAcropoli, che si riteneva ori ginario dall'Etolia48, sede
del mito di Meleagro. Non ce dunque da stupirsi se, con un processo del tutto
id?ntico, i botanici chiamarono "pioppo eliade"49 una certa variet?
di quella pianta. L'unica differenza tra i miti di questo gruppo sta dunque nel
fatto che i glossari e i trattati di retorica ci hanno trasmesso le meta fore
popolari zoologiche di Atene e non quelle botaniche di Velia; e la ragione ?
quella che deduciamo da Diogene Laerzio ^: la maggior notoriet? e anche la
maggior presunzione (\xzyaka\)yi*v<) della metr?poli attica rispetto alia
piccola e poco nota polis italiota, "capace solo di allevare uomini di
valore". Ci? non ci impedisce pero di ritrovare 40 Qualis populea moerens
philomela sub umbra amissos queritur fetus, quos durus ara tor observans nido
implumes detraxit (Verg. Georg. IV 511-513). 41 "Mortalium penatibus
fiducialis nidos philomela suspendit, et inter commanentium turbas pullos
nutrit intr?pida" (Cassiod. Var. VIII 31). 42 Mey<xXtq (piXou//)Xa
(Ptochoprodr. Ms. c. Hegumen.). 43 Aristot. Hist. anim. IV 9; Lexicon Ms.
Cyrill. s.v.; Gloss, ad Oppian. Hal. s.v. K?xxuyEc. 44 [Diosc] De mat. med. II
180. 45 Hist. anim. VI 2, 559 a 25. 46 Riportata testualmente da Athen. XIV 655
B-E. 47 Diod. Ill 39,2; Paus. X 9,16; Pollux, V 90; Plin. N.H. X 26,74. 48
Menodot. Sam. ap. Athen. XIV 655 A. 4* ttqv T?pa?5a ai'YEipov (Philostr. V.
Apoll. T. V 5,87). quelle metafore nei
versi del pi? illustre figlio di Velia, n? di rico noscerle come tali anche se
in quei versi essa compare disgiunta dalla nota narrazione cui fa evidente
riferimento. . Antonio Capizzi.
Keywords: Velia, la scuola di Velia. Zenone, sono/fui, il latino no necesita il
verbo divenire, perche usa la radice de fui-. +l’adolescenziale, conversazione,
calogero, veliatichi, veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico,
meleagride, pandionide, fieri, in esse,
in fieri. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Capizzi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Capocasale: l’implicatura conversazionale dei segni di dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Montemurro). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso filosofico,’ which the monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla Witters! Capocasale multiplies the principles of reason – I thought there was just one – On top, he uses the trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is philosophising about the ‘vero principio della ragione,’ or its plural! In fact, he is philosophising about conversational implicature!” Figlio di Lorenzo e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre nel suo mestiere di fabbro ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia, mostrando grande attitudine nella filosofia romana antica in particolare. Con la morte del padre, avvenuta quando C. aveva 15 anni, visse tra Corleto Perticara, Stigliano e San Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante privato, dedicandosi contemporaneamente allo studio della filosofia e del diritto. Dopo esser stato governatore baronale di Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata per trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli studi universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a Napoli. Vestì l'abito talare e fu nominato da Ferdinando IV precettore
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