Monday, December 2, 2024

GRICE ITALO A/Z B BON

 Grice e Bontadini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale neo-classica –de-ellenizante –I nazionalisti romani – Appio – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I would call Bontadini a Griceian; first, he likes sports, like I do; second he is a neo-classical (as I am) and a anti-anti-metaphysicist, as I am!” --  “Se Dio non ci fosse, il mondo sarebbe contraddittorio»  (G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell'esperienza). Esponente di spicco del movimento neotomista, che ebbe presso Milano uno dei suoi più importanti punti di riferimento e diffusione. Iscrittosi presso Milano quando essa aveva iniziato le sue attività, ma non era ancora riconosciuta dal governo italiano, egli fu il terzo laureato assoluto dell'ateneo, presso il quale fu poi professore di filosofia teoretica. Ha insegnato anche presso l'Urbino, Milano e Pavia. Pur rifacendosi alla metafisica classica, quella aristotelica e tomistica, Bontadini si dichiara "neoclassico" intendendo evidenziare il nuovo ruolo che quell'antica metafisica può svolgere nella filosofia contemporanea.  Egli infatti definisce se stesso come «un metafisico radicato nel cuore del pensiero moderno».  Rifacendosi alla filosofia idealistica ne apprezza soprattutto la «verità metodologica» che ha evidenziato il ruolo della coscienza, del cogito cartesiano, nel cogliere il significato dell'essere pur considerandolo come altro, diverso dalla soggettività della coscienza stessa, realizzando cioè una identità tra il soggetto e l'oggetto, tra l'intelletto e la sensibilità che riporta in luce l'antica teoria parmenidea dell'identità di Essere e Pensiero.  Un Parmenide, quello di Bontadini, che non esclude la constatazione del divenire, da un lato, e la denuncia della sua contraddittorietà, dall'altro. Due protocolli che fanno capo rispettivamente ai due piloni del fondamento: l'esperienza e il principio di non contraddizione (primo principio). I due protocolli sono tra loro in contraddizione, e tuttavia godono entrambi del titolo di verità  sono verità, però, che in quanto prese nell'antinomia (antinomia dell'esperienza e del logo) si trovano a dover lottare contro un'imputazione di falsità. Giacché l'esperienza oppugna la verità del logo e il logo quella dell'esperienza».  Il sapere Una nuova concezione del sapere è alla base del pensiero di Bontadini che ne ribadisce l'origine nell'esperienza che però va intesa non più come risultato delle operazioni della ragione (razionalismo) o come ricezione passiva dei dati empirici (empirismo), ma come "presenza": mentre la gnoseologia contemporanea continua a concepirla nell'ambito di un dualismo dell'essere e del conoscere, correlando così il problema metafisico a quello del conoscere e facendo nascere la questione, di difficile soluzione, di quale correlazione possa esserci tra il pensiero e la realtà.  Ma ogni qual volta si considera ciò che si ritiene sia "al di là" del pensiero, questo inevitabilmente è nel pensiero, appartiene al pensiero stesso.  Quindi ogni esperienza come presenza è assoluta, perché non costruita, ed è totale, poiché ogni singolo fatto empirico fa parte di essa.  L'unità dell'esperienza Si arriva quindi alla concezione di "unità dell'esperienza" dove tra l'esperienza e il pensiero si sviluppa quel rapporto di circolarità che costituisce il sapere.  Ma secondo l'insegnamento di Parmenide l'essenza dell'esperienza è il divenire che si presenta come contraddittorio nella sua realtà di essere e di esistere inteso come opposto al non essere.  Come può il sapere allora basarsi su una struttura contraddittoria di essere e divenire?  «Il divenire si presenta cioè contraddittorio; anzi come la stessa incarnazione della contraddittorietà (l'identificarsi del positivo e del negativo), come la smentita alla suprema e immediata identità: l'essere è. La soluzione in Dio creatore «L'ente, che è temporale in quanto empirico, è eterno in quanto divino».  La contraddizione insita nel divenire cioè può essere superata nell'esistenza di Dio creatore. La contraddizione del divenire è superata con la dottrina della creazione, in quanto quella identificazione dell'essere e del non essere, che riscontriamo nell'esperienza, è ora vista come il risultato dell'azione dell'Essere, di Colui che crea dal non essere l'essere. Ma l'essere poi non ricade, divenendo, nel nulla?  Non si può, risponde Bontadini, pensare assurdamente che l'essere sia distrutto dal nulla ma il mondo creato da Dio è diverso da Lui ma insieme coincide nella sua creazione non alterando la sua essenziale immutabilità. Severino, traendo le conclusioni dalla concezione del suo maestro Bontadini  in un saggio pubblicato su la Rivista di filosofia neo-scolastica dal titolo “Ritornare a Parmenide” elimina ogni differenza tra l'immutabilità di Dio e quella del mondo soggetto al divenire per cui ogni cosa è eterna come è eterno Dio.  Rispose con toni duramente ironici Bontadini in un articolo dal titolo“Sozein ta fainomena”. Io mi chiesi con quale barba si trovi, nel mondo dell'essere, il mio alter ego immutabile. Giacché, da quando ero matricola venendo fino ad oggi, di barbe io ne ho cambiate molte centinaia. Ora, se poniamo che tutte sono immutabili, mi pare che non troverei abbastanza superficie sul mio corpoquello fissato per l'eternitàper fare posto a tutte. Ribadì quindi la sua concezione del principio di creazione che permette di superare la contraddittorietà del divenire tramite l'azione creatrice di Di, «in quanto quella identificazione dell'essere e del non-essere, che riscontriamo nell'esperienza, è ora vista come il risultato dell'azione dell'essere (azione indiveniente dell'essere indiveniente). Altre opere: “Saggio di una metafisica dell'esperienza” (Milano, Vita e pensiero); “Studi sull'idealismo” (Urbino, Argalia); “Dall'attualismo al problematicismo. Studi sulla filosofia italiana contemporanea” (Brescia, Scuola); “Studi sulla filosofia dell'età cartesiana” (Brescia, La scuola); “Dal problematicismo alla metafisica. Nuovi studi sulla filosofia italiana contemporanea, Milano, Marzorati); “Indagini di struttura sul gnoseologismo moderno” (Brescia, La scuola); Il compito della metafisica” (Milano, Fratelli Bocca); “Studi di filosofia moderna, Brescia, La scuola); “Conversazioni di metafisica” (Milano, Vita e pensiero); Metafisica e de-ellenizzazione” (Milano, Vita e pensiero); “Appunti di filosofia, Milano, Vita e pensiero), “Metafisica e de-ellenizzazione”; “Sull'aspetto dialettico della dimostrazione dell'esistenza di Dio”. Espulso per le sue posizioni filosofiche dalla Cattolica di Milano. Sembra qui tornare il Deus sive Natura di Spinoza. “Sozein ta fainomena”. Dal diveniente all'immutabile. Studio sul pensiero di Gustavo Bontadini, prefazione di Emanuele Severino, Venezia: Cafoscarina,. Bontadini e la metafisica.  L'Essere è Persona. Riflessioni su ontologia e antropologia filosofica in Gustavo Bontadini, Orthotes, Napoli-Salerno. Francesco Saccardi, Metafisica e parmenidismo. Il contributo della filosofia neoclassica, Orthotes, Napoli-Salerno. Dizionario di filosofia. SIEKE. APPIO. Historische disöertation, welche... ^M vi "^r.  eingereicht hat. Marburg, Thesis. Marburg. APPIVS CLAVDIUS CÆCVS CENSOR. HisTORiscFiE Dissertation, WELCHE ZUR ErLAKGUXG DER DoCTüRWÜRDE BEI DER Philosophischen Facultät DER KÖNIGLICHEN Universität Marburg EINGEREICHT HAT -- SIEKE.  MARBURG. Der Censor APPIO ist schon den Alten ein Problem  gewesen. Die Quellenberichte, welche uns vorliegen, geben  uns keineswegs ein einheitliches und übereinstimmendes Bild;  wir werden vielmehr zwischen den einzelnen Gewährsmännern  sowohl in Bezug auf die Thatsachen, als auch auf das Urteil  über den Censor und seine politische Wirksamkeit die grössten  Unterschiede und Widersprüche finden. Von den alten Autoren  haben sich, wie das natürlich ist, die Differenzen auf die neueren  Forscher übertragen.   In diesem Widerstreit der Meinungen galt es für mich,  eine feste Grundlage für alle Erörterungen zu finden. Und  diese glaube ich in dem Satze sehen zu müssen, dass der  Bericht Diodors über die Censur der älteste, reinste und beste  ist, welcher uns überliefert ist. Von diesem Berichte müssen  wir bei jeder einzelnen Frage ausgehen, ihn überall zu Grunde  legen. Von keinem neueren Forscher scheint mir dieser  quellenkritische Grundsatz konsequent durchgeführt zu sein.   Dies zu versuchen, ist die Aufgabe der folgenden Abhandlung. Amtsantritt und Amtsdauer des Censors App. Claudius.   Die Quellen, aus denen fast allein die Kenntnis von der  Censur des APPIO und überhaupt seiner Persönlichkeit und politischen Wirksamkeit fliesst, sind Diodor und LIVIO. Verschiedener zu-  fälliger Erwähnungen des Censors bei anderen Schriftstellern  sowie seines Elogiums (Corp. Inscr. lat.),  welches die Ämterlaufbahn giebt, werden wir im Gange der  Darstellung zu gedenken haben. Ich stelle die Berichte der  beiden Hauptquellen im Zusammenhang voraus.   Diod. lautet: 'Ev dt "Fotfifi xartx lomov tot  iviamov ri^n^rai; «Aovto xai rovTViv o eteQOi: '^titiio^ K'/Mudiog  inmoov l%on' tov avvctiixoyTa yUvxiov Ilkuriiov tio'A/m nur  ^GTituiiav vo/ulfiMv ixivf^ae, xat n^onov fih to xaloö^ttrov  ^'ATiTtiOvvÖMQ and atadiiov oydoi-xoma xmi-yayfv dg rijv 'Piofn;v  xai TiolXd Tiov dt]/iWaio)r xQ^Jf^ckm' eig lavrr^r n]v xazaaxevfjv  dvi^kcjasv av€v doyitiatog rijc; aiyxh'^iov. fif-uc dt ravta lijg  a^'avTOv xh^&eiat^g ''AnTiiag oöov rd 7cktov fitQOi; d^oig  areQeoig xartarQwaev and 'Pio/iit^g f^x^i^ Kanvi^g ovroi: tov  öiaöTrjltiaTOi; aradiviv Tiltiown'*' i^dnon' rovi;  /.dv vnsQtxovTai; öiaüxcci^fag roug dt (paQayyviöfig ?} xoilovg  dvalrifi^iaaiv d^iohlyotg iSiocooccg xaravi^hoatv dnaöag rag  ör^liwalag n()oa6dovgy auzod de juvi^juelov d&dvarov xaTehnev  dg xoivrjv evx{)j]aTiav cpiloTifiT^d^eig' xatejiii^t dt xai rijv auyxh]TOv  ov tovg evyevslg xai nQOtxovTag xdig a'^uofiaac 7i()ogyiid<pcov  ^lovovg, uig r^v si^oS, dlkd nollovg xai rtov d7iBXtvd^i{)iov vlovg  dvt^u^B^ i(f olg ßaQtojg tfSQOv oi xavx^o/nevoi Tijg eoyeveiag*  edioxe dt Toig noUTaig xai ti]y t^ovalav onoi TiQoaiQoh'TO rifii^-  aaa^ar ro dt okov dQclt' rtOrjaavQiafutvov xax" avrov TiaQa rolg  iTiKpavtatdioig rdv <p^dvov i^txhve rd Tt^oaxomHy^iöi tiov  dllojv Tiohtviv dvTiiay^ia xaTaoxevd^on' rjj rwv svyevdjv dkko-  TQiozr^Tt TTJv 7ia(td lioY nokhov evvoiav xai xaid fitv T?jv tiov  Innkiiv doxijtiaaiav ovdevdg dcfsü.eTO rdv 'innov, xard dt r?}v  TcJv avvtdQtJv xatayQaipi]}' oudtva tiov ddo^ovvTon' avyxh]TixLov  t^tßakevj onti) j}y td^og noielv rolg rifirjaJg, a^' oi fih vnaTOi  did TOV (fO^drov xa) duc rd ßovltotha Tolg tniffareOTaTOig x«-  ()U€Gi)^ai oimy/or n)v Oüyyh]TOv ov ti)v vrid toütov xaraleyelöav,  dlld T}]v und Ttr7v n()oyty€V7^^itru)v tifirjiör xcaayqacptlöav  o dt di^jiwg jOiTOig fitv dvTi7T()dTTiov, Tift dt ^AnnUi* ov/ii(pikoTt  jitovuti'og Xia f/;r nor dcoytTtor 7ii)oay('tyt]r ßtßcucoaai ßov?,6fitrog  dyo()dvofior tiktio trg tniifartaititag dyoi>avoftiag vidv  dnelevd^iiiov rralov 0/Mßiov, og n^onog ' FiD^ialuv TavTrjg Trjg  di)xrjg f-V<7« naiodg vh' dtdov'/.tixoTog.ddt^'AnniogzijgdQyrjg  dno/.v&e}g xai tov andTijg avyxlrjtovip^ovov 8vkaßr;^€lg  nQoaenoiijO^r^ rvcpkdg elvai xai xar oixiav ejAeivsv. LIVIO: Et censura clara eo anno APPIO et C. Plautii fuit, memoriae tarnen felicioris ad posteros nomen  Appi, quod viam munivit et aquam in urbem duxit, eaqüe unus perfecit, quia ob infamem atque invidiosam senatus lectionem verecundia victus collega magistratu se abdicaverat: APPIO iam inde antiquitus insitam pertinaciam familiae gerendo solus  censuram obtinuit Itaque consules, qui eum annum secuti sunt,  C. Junius Bubulcus tertium et Q. Aemilius Barbula iterum, initio anni questi apud populum deformatum ordinem prava  lectione senatus, qua potiores aliquot lectis praeteriti essent,  negaverunt eam lectionem se, quae sine recti pravique discrimine ad gratiam et libidinem facta esset, observaturos, et  senatum extemplo citaverunt eo ordine, qui ante censores App. Claudium et C. Plautium fuerat. Permulti iam anni erant, cum inter patricioa  magistratus tribunosque nulla certamina fuerant, cum ex ea  familia, cui velut fato lis cum tribunis et plebe erat, certamen  oritur. APPIO (si veda) CLAUDIO censor circumactis decem et octo mansibus, quod Æmilia lege finitum censuræ spatium temporis erat, cum C. Plautius collega eius magistratu se abdicasset, nulla vi compelli, ut abdicaret, potuit. P. Sempronius erat  tribunus plebis, qui finiendae censuræ intra legitimum tempus  actionem susceperat, non populärem magis quam iustam nee  in vulgus quam optimo cuique gratiorem (Schluss): Haec taliaque cum dixisset, prendi censorem et in vincula duci iussit. adprobantibus sex tribunis  actionem collegae tres appellanti APPIO (si veda) CLAUDIO auxilio fuerunt, summaque invidia omnium solus censuram gessit. APPIO censorem petisse consulatum, comitiaque eius ab L. Furio tribuno plebis interpellata, donec se censura abdicarit, in quibusdam annalibus invenio. creatus consul, Ceterum Flavium dixerat aedilem fore nsis  factio, APPIO (si veda) CLAUDIO censura vires nacta, qui senatum primus  libertinorum filiis lectis inquinaverat et, posteaquam eam  lectionem nemo ratam habiiit, nee in curia adeptus erat, quas  petierat opes urbanas, humilibus per omnes tribus divisis forum   et campum corrupit ex eo tempore in duas partes discessit civitas: aliud integer populus fautor et cultor bonorum, aliud forensis factio tenebat, donec Q. Fabius et P. Decius  censores facti, et Fabius, simul concordiae causa, simul ne humillimorum in manu comitia essent, omnem forensem turbam excretam in quattuor tribus coniecit urbanasque eas appellavit.  adeoque eam rem acceptam gratis animis fcrunt, ut Maximi cognomen, quod tot victoriis non pepererat, hac ordinum temperatione pareret Diodor berichtet die Wahl des APPIO zum Censor  zu Ol.  Er erzahlt, man habe in diesem Jahre den  APPIO und Lucius (sie!) Plautius zu Censoren gewählt.  Es ist dies das Jahr der Varronischen Zählung oder das  Jahr  v. Chr., das Jahr der Consuln Q. Fabius und C.  Marcius (Diod.). Zugleich erzählt er an dieser Stelle  alles, was er von der Censur zu berichten hat; nur  noch einmal erwähnt er späterhin den App. Claudius, nämlich  als Consul des Jahres Ol. 118 d. i. des Jahres aer. V.  V. Chr. Livius, welcher die Nachrichten über den Censor annalistisch zersplittert, setzt den Amtsantritt der Censoren App.  Claudius und Gaius (!) Plautius unter das Consulat des M., 1 TL 44* Ä6r. VÄrr.   Valerius und P. Decius (IX, 29), d. h. m das Jahr 312 v. chr.  Zum Jahre ^ berichtet er, dass App. Claudius nach Verlauf  von IS Monaten, welches nach der lex Aemilia die gesetzmässige Dauer der Censur war, sein Amt nicht niedergelegt,  sondern es, obwohl sein College C. Plautius abgedankt habe, bis zur Bewerbung um das Consulat 1. J. -^  fortgeführt habe (IX, 42, 3). Es besteht also im chronologischen Ansatz der Censur  zwischen Diodor und Livius eine Differenz von zwei Jahren.  Die neueren Forscher schliessen sich sämtlicii, olnie die  Differenz zu erörtern, dem Livius an (vgl. Xiebuhr, K. G. Mommsen, R. G. R. Forsch, Wir w^erden jedoch den Ansatz Diodors als den richtigen  erkennen. Schon das allgemeine Quellenverhältnis der beiden Autoren,  ihr Wert und ihre Glaubwürdigkeit, wird bei der Entscheidung  der Frage von Bedeutung sein. Es ist eine seit Niebuhr feststehende Thatsache, dass die  bei Diodor erhaltenen Berichte über die ältere römische Ge-  schichte eine weit bessere und glaubwürdigere Tradition sind  als die livianisclien (Xiebuhr, R. G. Kissen, Rhein. Museum XXV,  27; vgl. dagegen Schwegler, R. G. 11, 22. III, 199). Während diese von Fälschungen völlig durchsetzt sind, bis in das  geringste Detail durch die Tendenz rhetorischer Ausschmückung  und Erweiterung und patriotischer Verherrlichung entstellt  sind und infolge dessen eine sehr trübe Quelle bieten, so  weisen die Berichte Diodors, so wenig ihrer sind, und so knapp und lücken-  haft diese wenigen auch sind (vgl. jNFommsen, R. Forsch. Chron. Niebuhr, R. G. Volquardsen, Quelle Diodors 11) eine fast reine und unver-  fälschte Tradition auf.   Die Quelle, aus der Diodor geschöpft hat, reicht eben in  relativ alte Zeit hinauf. Freilich lä^st sich sein Gewährsmann  nicht mit Bestimmtheit nachweisen ; es ist nicht erwiesen, dass  Fabius, der älteste römische, noch griechisch schreibende  Annalist, Diodors Quelle sei (Petavius, Doctr. Tempi. Lib. IX,  C. 55. Wesseling zu Diodor XI, 1. Xiebuhr, R. G. II  192 A. 629 if., wo aber das 13, und 14. Buch Diodors ausgenommen ist. Mommsen, Chron. 221. R. Forsch. Fabius und Diodor." Vgl. dagegen Schwegler, R. Gesch. Peter, Zur Kritik der Quellen der ältesten römischen  Geschichte, 118 f. Nitzsch, Rom. Annalistik, 227. Niese,  Hermes XIII, 412 f. Thouret, Fleckeisens Jahrbücher, Splb.  1880. Meyer, Rhein. Museum); es ist leere Hypothese, dass Diodor aus der angeblich ältesten Redaktion der römischen  Annalen, welche der Schützling und Parteigenosse unseres App.  Claudius, derÄdil Gn.Flavius, bewerkstelligt haben soll, geschöpft  habe (Nitzsch, R. Annalistik, 229 if. ; vgl. Momnisen, Chronol.  R. G. I, 467. R. Forsch. Schwegler, R. G.); ebenso hypothetisch ist die Behauptung, dass L. Piso,  ein Annalist aus der Grachenzeit, Diodors Quelle sei (Clason,  Heidelberger Jahrbücher 1872 S. 35. R. G. I, 17. Klimke,  Diodor und die röm. Annalistik. Colni, Philologus 1883. S. 1  bis 22; vgl. Mommsen, R. Forsch. 11, 338 A); ganz in der  Luft aber schwebt die neueste Ansetzuug Matzats, der in  L. Cincius Alimentus, neben Fabius dem ältesten römischen  Annalisten, Diodors Gewährsmann sieht (Matzat, R. Chronol.; vgl. Niese, Piniol. Anzeiger 1884 S. 554 f.). Aber wenn auch alle diese Versuche, die Quelle Diodors mit Sicherheit zu ermitteln, misslungen sind, so ist dieselbe dennoch in  relativ alte Zeit hinaufzusetzen (vgl. Rhein. Museum 37, 617).  Dagegen gehören die Quellen des Livius fast nur der  sullanischen und nachsullanischen Zeit oder sogar der cicero-  nischen und augusteischen an, wo der Fälschungs- und Aus-  schmückungsprozess der Annalistik in vollem Gange war.  Zuweilen nennt Livius zwar ältere Gewährsmänner, den Fabius, Cincius, Piso; aber sehr wahrscheinlich hat er diese nur  aus zweiter Hand benutzt oder höchstens an dieser oder jener  Stelle kurz eingesehen. Meistens nennt Livius als Gewährsmänner Namen wie Lic. Macer, Val. Antias, Aelius Tubero, von deren ersterem es z. B. feststeht, dass er ein Geschichts-  fälscher im verwegensten Sinne des Wortes war (Mommsen,  R. Forsch. I, 1 ff. II, 315 f. Seeck, Kalendertafeln der Pon-  tifices S. 42 ff.). Alle Fälschungen darf man freilich nicht  diesen Männern zuschreiben, es giebt Anhaltspunkte, dass die Ausschmückung der Annalen selbst zu Ciceros Zeiten fort-  geführt wurde (Niese, Observationes de annalibus Romanis^  Marburg 1885 L 13). Im einzelnen lassen sich die livianischen  Berichte nicht auf bestimmte Quellen zurückführen. Man hat  ^s zwar, wie für die 3., 4. und 5. Dekade (Nissen, Kritische  Untersuchungen über die Quellen der 4. und 5. Dekade des  Livius. Böttcher, Quellen des Livius im 21. und 22. Buch),  «o auch für die 1. Dekade zu thun versucht (Nitzsch, Röm.  Annalistik; Clason, R. G.); aber die Mittel, die man dabei  -angewandt hat, leisten keine Bürgschaft für die Wahrheit der  Resultate (vgl. Peter, Zur Kriiik der Quellen S. ü ff. Mommsen,  R. Forsch). Das dargelegte Quellenverhältnis zwischen Diodor und  Livius, wonach Diodor eine weit ältere und getreuere Ueber-  lieferung giebt als LIVIO, lässt sich für die Kriegsgeschichte,  Verfassungsgeschichte sowie auch für die Zeitrechnung und  die Fasten, auf denen die Chronologie beruht, nachweisen. Mommsen hat an schlagenden Beispielen die Güte der diodo-  rischen Tradition gegenüber der sonstigen , namentlich der  livianifcchcn, nachgewiesen (R. Forsch. II, 222 fl'.). Zwei der  Mommsenschen Beispiele betreffen die Fasten (die Consuln  des Jahres 433, die Consulartribunenliste a. a. O.). Selbst  bei chronologischen Einzelan?ätzen ist derjenige Diodors, wenn  €r von dem des Livius abweicht, immer der richtige.   Gerade in der Zeit des sog. zweiten Samnterkrieges, in  welche die Censur unseres App. Claudius fällt, können wir  mehrfach bei Livius Verschiebungen von Ereignissen um  mehrere Jahre finden, so berichtet Livius den Waffenstillstand  des Jahres 320 zu 318 (IX, 20 vgl. Rhein. Museum 25, 34;,  so setzt er den Anfang des Etruskerkrieges schon ins  Jahr 312 (LIVIO, Diodor Fleckeisens  Jahrb. Splb.).   Das allgenn'ine QuellenverhälMiis, wie wir es dargestellt  haben, weist darmif hin. 'lass wii in Betreff des Zeitansatzes  der Censur unseres Ajjp. Claudius bei Livius eine Verschie-  bung anzunehmen und dem Diodor zu folgen haben werden. Zudem lassen sich hierfür eine Reihe von sachlichen Gründen  geltend machen. Zunächst ist zu erwähnen, dass sich in des  Livius eigener Erzählung Spuren von der ünwahrscheinkeit  seines Ansatzes finden. Wenn nämlich Livius den Amts-  antritt des Censors in das Jahr 312 setzt und  zum Jahre 310 berichtet, dass die 18 Monate,  in welchen App. Claudius nach der lex Aemilia gesetz-  mässiger Censor war, abgelaufen seien, so folgt daraus, dass  sich die 18 ]\Ionate auf ;> Jahre erstreckt liätten, und dass  App. Claudius seine Censur in der zweiten Hälfte des Jahres  312 angetreten habe. Nun aber ist nach allem, Avas wir von  diesen Verhätnissen wissen, ziemlich sicher, dass die Censoren  gewöhnlich kurz nach dem Amtsansritt der ihre Wahl leitenden  Oberbeamten, der Consuln, d. i., um hier nur eine allgemeine  Bestimmung zu geben, im Frühjahr gewählt wurden i]\Iommsen,  Str. II, 324 ff.)? sodass also die 18 Monate jedes Mal schon  im nächsten Jahre abliefen. Eine Erstreckung der Censur  über 3 Jahre ist nirgends bezeugt, vielfach aber ist überliefert,  dass das Lustrum, der Abschluss der censorischen Thätigkeit,  im folgenden Jahre stattfand (De Boor,  fasti censorii S. 9., LIVIO De Boor, S.  10, Liv. X, 47, 2. i. J. 209. De Boor S. 15, Liv.  XXVII, 36, 6 cf. 11, 7 u. s. w.). So wird auch die Censu  des App. Claudius, solange sie rechtmässig war, t^ich nicht  über 3 Jahre erstreckt haben. Vielmehr wird durch diese  Angabe des Livius sein chronologischer Ansatz sehr unwahr-  scheinlich gemaclit.   De Boor (fasti censorii) hat die zwischen Diodor und  Livius bestehende Differenz zu Gunsten des livianischen An-  satzes so auszugleichen versucht, da^s er annimmt, Diodor  habe die Censur deswegen zum Jahre 310 behandelt, weil er  unter diesem Jahre in seiner Quelle die wichtigsten Ereignisse  der Censur, die Zwietracht des App. Claudius mit seinem  Collegßn C. Plautius und die Uebertretung des über die  Dauer der Censur gegebenen Gesetzes (lex Aemilia) von  Seiten des App. Claudius, berichtet gefunden hätte. Diese Annahme hebt aber einerseits nicht das Bedenken, welches  über die Ausdehnung der Censur oben geltend gemacht ist,  und dann widerspricht sie direkt den Worten Diodors, dessen  Bericht so beginnt: tv <)t ' Pv'tiii] zcaa rovrov iny triavrov   /444 \ ^ f ',' t f " # 1f -J Tiiirini^ hi/.inro y.ca lovntv o fTfooc, ^iTTcrio^ hhxv-  tho^ etc. —   Man könnte nun für den livianischen Ansatz anführen,  dass sowohl die Capitolinischen Fasten, als auch Frontin und  Cassiodor mit Livius übereinstimmen. Frontin (de aquis 5)  und Cassiodor setzen die Censur unter das Consulat des M.  Valerius und P. Decius d. h. in das Jahr 312. Aber dies  hat unserer Ansicht nach absolut keine Bedeutung; denn die  gesamte nachlivianische Geschichtschreibung über die römische  Republik ruht auf den Schultern des Livius, alle Historikei*^  nach Livius gebrauchen ihn als Gewährsmann, so haben auch  sor.der Zweifel Frontin und Cassiodor diese chronologische  Angabe aus Livius geschöpft.   Von grösserer Bedeutung schon könnte es sein, dass die  Capitolinischen Fasten gleichfalls mit Livius übereinstimmen,  indem sie berichten (C. J. L, I, 432 z. J. ^, De Boor, a. a.  O. S. 8), dass im Jahre 312 App. Claudius und C. Plautius  das 2ß. Lustrum gefeiert hätten. Es pflegen nämlich die  Capitolinischen Fasten zum Antrittsjahr der Censoren die  Lustration zu berichten, obwohl das Lustrum doch als Schluss-  akt der censorischen Thätigkeit gegen Ende der Censur, also  im 2. Jahre der Censur, abgehalten wurde (Mommsen, Str. 11^  326 A.).   Aber auch diese Uebereinstimmung des Livius mit den  Capitolinischen Fasten kann nichts für den livianischen Ansatz  beweisen. Es ist zwar sicher, dass die Fasten des Livius^  obwohl die Capitolinischen Fasten, als Livius schrieb, schon  auf dem Forum standen (Mommsen, R. Forsch), doch  von den letzteren unabhängig sind, und dass zwischen beiden  die grundsätzlichen Differenzen bestehen, welche überhaupt  die Fasten der Jahrtafel (Fasti Capitolini, Chronograph v. J.  354, Idatius, Paschalchronik) von denen der Chroniken <Diodor, Dionys, Livius, Cassiodor) trennen, deren wesent-  lichste die ist, dass die Jahrtafel die sog. 4 Diktatorenjahre  <v. Chr.) der chronologischen Aus-  gleichung wegen eingefügt hat, während die Chroniken  -dieselben weder nennen noch zählen (Mommsen, R. Chronol.  110 ff.). Aber ebenso sicher ist, dass die Capitolinischen  Fasten, wie die gesamte Jahrtafel, aus keiner besseren und  früheren Quelle geflossen sind als die des Livius, während  <iie Fasten und die Chronologie des Diodor auf derselben guten, alten Quelle beruhen, aus denen seine Berichte ge-  flossen sind (vgl. Rhein. Museum). Es giebt eine  Menge Beispiele dafür, dass, während Livius und die  €apitolinisclien Fasten gefälschte oder entstellte Fasten und  falsche Chronologie haben, Diodor die echten Fasten bewahrt  und die richtige Chronologie giebt (vgl. Mommsen, R. Forsch II,  222 u. passim). Deshalb geben wir auch hier dem diodorischen  Ansatz den Vorzug.   Es bedarf noch der Untersuchung, wie derselbe in die  Reihe der Lustren und Censoren, die uns, obzwar nicht von  'Quellen ersten Ranges überliefert ist, passt. Die Vorgänger  des App. Claudius in der Censur traten ihr Amt i. J. 318 an.  Darin stimmen die Capitolinischen Fasten mit Diodor und  Livius überein (C. J. L. I, 432 z. J. ^f, Diod. XIX, 10  Liv. IX, 20, 5). Wenn die beiden letzten dies auch nicht  ausdrücklich sagen, so berichten sie doch, dass in diesem  Jahre die Tribus Falerna und Ufentina neu eingerichtet seien.  Die Neueinrichtung der Tribus war aber ein censorisches  Geschäft (LIVIO, cf. Mommsen, Str. II,  361 m. A. 1.) Zwischen dem Amtsantritt, und füglich auch  dem Lustrum, dieser Censoren und demjenigen des App.  Claudius und C. Plautius lagen demnach, wenn wir dem  Livius und den Capitolinischen Fasten folgen, 6 Jahre (318—312);  wenn wir mit Diodor den Amtsantritt des App. Claudius ins  Jahr 310 setzen, 8 Jahre (318—310). Die nächsten Censoren,  M. Valerius und C. Junius, wurden im Jahre 307 gewählt  <fasti Capit. C. J. L. I, 432 z. J. ^J^ Liv. IX, 43,25). Das  Lustrurn des App. Claudius und C. Plautius ist also nach  Livius vierjährig (312—307), nach Diodor zweijährig;  das Jahr 309 ist nämlich als Diktatorenjahr nicht zu berechnen^   Die Nachfolger in der Censur, Q. Fabius u. P. Decius,  bind nach dem Zeugniss des Livius (IX, 46, 13,) und der Ca-  pitolinischen Fasten ((J. J. L. z. J. ~) i. J. 304 gewählt; efv  liegen also zwischen ihrem Amtsantritt und dem ihrer Vor-  gänger drei Jahre. Das Lustrum des Q. Fabius^  u. P. Decius war dreijährig; die folgenden Censoren traten  nämlich ihr Amt i. J. 300 an, wie ^loramsen aus den Resten  der Capitolinischen Fasten eruiert hat (C. ,1. L. I, 566  z. J. ~) ; das Jahr 303 ist dabei als Diktatorenjahr nicht zu  rechnen.   Schon aus dieser Reihe der Lustren, welche dem des-  App. Claudius und C. Plautius unmittelbar vorangingen und  folgten, geht hervor, dass das Lustrum kein bestimmter Zeit-  raum damals gewesen sein kann. In der späteren Zeit, seit  dem hannibalischen Kriege, wurde als regelmässige Frist des-  Lustrums 5 Jahre festgesetzt und es ist lange so durchgeführt  worden (De Boor, fasti censorii S. 15 — 20), bis die beginnende  Revolution das Institut erschütterte und bald ganz zerstörte  (Mommsen, Chronol. 161. Str. II, 318). In der früheren  Zeit waren die Lustrenintervalle ganz imbestimmt ; es werden  Lustren von 3, 4, 5 und mehr Jahren überliefert (De Boor,  a. a. 0. S. 1  14), ja eins wird ausdrücklich als siebzehn-  jährig bezeichnet (Dionys XI, 63). Eine solche Unregel^  mässigkeit kann doch offenbar nicht erklärt werden, wenn  man nicht für die frühere Zeit auf die Annahme des Lustrums^  als einer festen Zeitfrist verzichtet; falsch ist es, wenn  Mommsen meint, das Lustrum sei, wie die griechische Olym-  piade, ursprünglich ein vierjähriger Zeitraum gewesen, aber  es sei dies nur als Minimaldauer festgesetzt worden (Chronol.  158. Str. II, 316): es sind ja doch mehrere dreijährige  Lustren sicher bezeugt ; unbewiesen ist ferner, wenn De Boor  als anfängliche Minimaldauer des Lustrums drei Jahre ansetzt  (a. a. 0. S. 43 f.).  Die Dauer des Lustrums war ohne Zweifel von der all-  gemeinen Lage des Staates abhängig, je nach den Bedürfnissen  war das Lustrum länger oder kürzer. Für mehrere Lustren  ist es bezeugt, dass sich ihre Kürze aus der Lage der Zeit  erklärt z. B. für die des Jahres 89 u. 92 v. Chr. (vgl. Rhein.  Museum 25, 487).   Da nun das Lustrum ursprünglich kein fester Zeitraum  war, so widerspricht dem die Annahme des appianischen  Lustrums als eines zweijährigen (310—307) nicht, obgleich  kein anderes von solcher Kürze nachweisbar ist. Diese aber  erklärt sich aus den Zeitverhältnissen von selbst : Die Patrizier  waren durch die Anordnungen des Censors App. Claudius,  seine senatus lectio und Tribusänderung, hart getroffen und  suchten so schnell als möglich dieselben zu nichte zu machen  (s. unten, vgl. Niebuhr, R. G. III, 374. Mommsen, Chronol.). Deshalb wählten sie schon zwei Jahre nach  dem Amtsantritt des App. Claudius, also gleich im Jahre  nach des Appius Lustration, i. J. 307, neue Censoren, den  M. Valerius u. C. Junius. Da aber diese Censoren nichts  erreichen konnten — wir wissen nicht, aus welcher Ursache,  da von ihrer Amtsführung nichts überliefert ist (Liv., VALERIO MASSIMO) — so wurden schon nach weiteren  drei Jahren, i. J. 304, neue Censoren in den Personen des  Q. Fabius u. P. Decius gewählt, welche alsbald die Tribus-  verteilung des App. Claudius rückgängig machten oder  wenigstens umänderten (s. unten). Auch die anstössige Senats-  liste des App. Claudius (s. unten) wurde von den Patriziern  sogleich umgestossen, u. zwar sofort von den Consuln des  folgenden Jahres. Dies waren, wenn wir, wie es richtig ist,  mit Diodor den Amtsantritt des App. Claudius in das Jahr  310 setzen — das Jahr 309 ist Diktatorenjahr — die  Consuln d. J. 308, Q. Fabius u. P. Decius (Diod., LIVIO). Also haben, wenn wir der guten Quelle Diodors  folgen, dieselben Männer, welche als Censoren i. J. 304 die  Tribusänderung des App. Claudius rückgängig gemacht haben,^  als Consuln i. J. 308 die Senalsliste des App. Claudius umgestossen. Und es ist diese Thatsache in sich sehr wahr-  scheinlich: denn nachdem die ersten Nachfolger des App.  Claudius in der Censur die Abschaffung der Tribusänderung  des App. Claudius nicht hatten erreichen können, ist es sehr  natürlich, dass die Patrizier nun die Männer, welche schon  als Consuln so energisch gegen die Neuerungen des App.  Claudius vorgegangen waren, zu Censoren wählten.   Dies von der Kritik hergestellte Zusammentreffen scheint  mir unsere Ansiclit, dass Diodors chronologischer Ansatz der  richtige sei, wesentlich zu stützen.   In den Quellen des Livius ist also die Censur von 310  auf 312 verschoben: der Grund dieser Verschiebung hängt  mit der Ansiclit des Livius über die Amtsdauer des APPIO zusammen, worüber wir nun zu sprechen haben.   Die Censur ist nach der Ueberlieferung (Liv. IV, 8,  Dion. XI, 63, Zonaras VII, 19, Val. Max IV, 13, Frontin,  de aquis 5) bei ihrer Einsetzung (443 v. Chr.) als fünfjährige  Magistratur bestimmt worden. Die lex Aemilia d. J. 434  V. Chr. soll sie dann auf 18 Monate beschränkt haben (Liv.). Wahrscheinlich aber ist sie überhaupt erst i. J.  434 V. Chr. eingesetzt worden u. von Anfang an auf 18 Mo-  nate beschränkt gewesen (Mommsen, Chronol., Str. II, 322,  vgl. dagegen Rhein. Museum 25, 480 ff.).   Die angeführte lex Aemilia nun hat APPIO, so  erzählt Livius, eigenmächtig übertreten, indem er nach Ver-  lauf von 18 Monaten sich das Amt selbst prorogierte  (LIVIO). Betrachten wir die Angaben des  Livius hierüber, so müssen wir zunächst das Resultat einer  Mommsenschen Abhandlung berücksichtigen: „Die patrizischen  Claudier" (Rom. Forsch.). Mommsen hat darin  nachgewiesen, dass in den jüngeren römischen Annalen, bei  Livius u. Dionysius u. bei den aus diesen schöpfenden Sueton  u. Tacitus alle Glieder der alten und hochadligen gens Claudia  eine ähnliche oder dieselbe Rolle spielen, indem sie sämtlich  vom höchsten Adelstolz und höchster Feindseligkeit gegen die  Plebs beseelt sind. Nicht bloss wird dies häufig von der  geiiB Claudia im allgemeinen ausgesagt (gens superbissima in  plebem Romanam LIVIO), sondern man lässt alle Claudier,  welche auf dem politischen Schauplatz auftreten, harte Kämpfe  mit der Plebs und den Volkstribunen auskämpfen. Ja, es^  kehren sogar häufig Reden von Claudiern gegen die Plebs oder  umgekehrt claudierfeindliche Reden von Volkstribunen wieder,  worin sich offenbar die Erfindung ausdrückt. Dass Livius  oder Dionysius die Erfinder seien, wird Niemand annehmen.  Mommsen meint, die Fälschung sei in politischer Tendenz ge-  schehen, ein wütender Claudierfeind zur Zeit der Bürger-  kriege habe die Annalen in solch claudierfeindlichem Smne  gefälscht: und zwar sei dies L. Macer gewesen. Die letzte  Behauptung ist völlig unbewiesen, und was die Erfindung  selbst angeht, so glaube ich nicht, dass sie in politischer  Tendenz geschehen ist ; sie scheint vielmehr aus der rlietorischen  Strömung, welche die römische Geschichtschreibung beherrscht,  geflossen. Man suchte nach allen Mitteln, die Erzählung ausschmückend zu erweitern, und wie so vieles in den Annalen,  z. B. die meisten Schlachtberichte, nach feststehenden Mustern  erzählt wurde, so wurden, da vielleicht ein Claudier ein  adelstolzer Junker war, alle Claudier schablonenhaft als Volks-  feinde behandelt.   Dieselbe Rolle ist nun auch unserm Censor übertragen,  was wir zunäclist und besonders aus der Erzählung von der  ungesetzlichen Fortführung der Censur ersehen. Livius be-  richtet hierüber zuerst, App. Claudius, heisst es  da, vollendete die Bauten allein, weil sein College C. Plautius  aus Scham über die ruchlose und gehässige Senatsliste ab-  dankte, während Appius mit dem alten Claudiertrotze die  Censur weiterführte. Daraus muss geschlossen werden, dass  C. Plautius abgedankt habe, ohne die senatus lectio zu  billigen, oder wenigstens gleich nach ihrer Vollendung. Da  aber die Censoren die senatus lectio kurz nach dem Amts-  antritt vornahmen (Mommsen, Str. II, 3i)6, Lange, Alter-  thümer, Willems, le senat de la republique Romaine), was auch nach der Ordnung der Erzählung bei Diodor und Livius in der Censur des App. Claudius ge-  schehen zu sein scheint, so müsste C. Plautius vor Ablauf der  18 Monate abgedankt haben (vgl. Weissenborn, Livius zu IX,  29, 7. Willems, a. a. 0. I, 186). Dies hat schon Frontin  (de aquis) aus Livius' Worten gefolgert; er sagt: sed  quia is (Plautius) intra annum et sex menses deceptus a  collega . . . abdicavit se censura. Aber an einer späteren  Stelle sagt Livius selbst, dass C. Plautius nach  Verlauf von 18 Monaten vom Amte abgetreten sei. Er  widerspricht sich also ausdrücklich. Von dem Verhältnis des  App. Claudius zu seinem Collegen wissen wir nur, dass  letzterer alles that oder thun musste, was Appius wollte (Diodor  a. a. O. : VTitjxoov f/wv tov avvcc()xovTCi Aevy.iov nkavTiov)^  also eine untergeordnete Rolle spielte. Er hätte ja die  senatus lectio durch seinen Widerspruch vernichten können.  An das Verliältnis des App. Claudius zu C. Plautius hat die  Fälschung des Livius offenbar angeknüpft. Sie ist gemacht,  um den Censor, den Claudier, als ungesetzlich handelnden  Mann darzustellen, dass er gegen das Gesetz der Collegialität  (Mommsen, Str. IT, 312) die Censur allein fortgeführt habe.  Aber damit begnügte sich der Fälscher noch nicht. Er  erdichtete auch noch eine Fortführung des Amtes über die  gesetzmässige Dauer hinaus. „Viele Jahre, so beginnt Livius  hierüber zu erzählen, waren schon vergangen, seit  zwischen den patrizischen Magistraten und den Volkstribunen  keine Streitigkeiten stattgefunden hatten, als aus der Familie,  quae velut fatalis ad lites cum tribunis ac plebe erat, sich  ein Kampf erhob. App. Claudius konnte nach Ablauf der  gesetzmässigen Frist der Censur nicht bewogen werden, sein  Amt niederzulegen. Der Volkstribun P. Sempronius übernahm  die Aufgabe, ihn zur Abdankung zu zwingen. Livius setzt  selbst hinzu, dass diese actio ebenso populär als gerecht und  auch dem Volke angenehm gewesen sei, w^ie den Optimaten;  dennoch rechnet er sie zu den Streitigkeiten, welche den  Claudiern mit der Plebs und ihren Tribunen gleichsam vom  Schicksal beschieden gewesen seien. Der Tribun Sempronius erinnerte nun den Ap]). Claudius ener-iscli an die lex Aemilia.  Dieser erwiderte, dnss dies Gesetz nur für die beim Erlass  desselben amtierenden Censoren bindend gewesen wäre,  während alle danach gewählten Censoren und also auch er  selbst nicht von ihm betroffen würden ; denn, sagt er, id quod  postremum popuhis iussisset, ius ratumque esse. Wie  sophistisch dieses Zwölftafelgcsetz hier angewandt wird, liegt auf der Hand. Eine rechtliche Begründung für die Amtsverlängernng, die dem App. Claudius in den l\lund gelegt  werden könnte, fehlt völlig; aber darauf kam es auch den  Fälschern nicht an, sie wollten eben den Claudier als einen  jedes Gesetz verachtenden Mann darstellen. Alsdann lä&st  Livius den Tribun Sempronius eine längere Rede lialten, in welcher der gens Claudia ein langes Sündenregister  vorgehalten ^'ird. Es kehren, wie erwähnt, solche claudier-  feindliche Reden oder auch Reden von Claudiern gegen die  Plebs sehr häufig bei Livius wieder (vgl. II, 56, 57. IV, 48.  Y 3 — 6. VI, 40, 41 u. a.) u. sie stehen sämtlich auf dem-  selben Niveau, d. h. sie sind sämtlich erdichtet, entstanden aus  dem rhetorischen Bedürfnis der Annalisten ihre Erzählung  auszuschmücken. Dennoch, so erzählt Livius weiter, stehen  dem App. Claudius sechs Volkstribunen bei, und er führt  summa invidia omnium ordinum die Censur allein w^elter.   Die inneren Unwahrscheinlichkeiten, die wir in diesem Berichte dargelegt haben, machen uns sehr misstrauisch gegen  denselben. Dazu kommt aber noch eine ganze Reihe von  Gründen, durch welche der ganze Bericht als völlig un-  historisch erwiesen wird. Zunächst ergeben sich einige aus  Livius selbst. Wenn Livius den Tribun Sempronius sagen  lässt: „Satis est aut diem aut mensem censurae adicere?  triennium, inquit, et sex menses ultra quam licet Aemilia  lege censuram et solus geram% so folgt daraus, dass Livius  annimmt, APPIO habe das Amt fünf Jahre beibehalten  wollen, und da er ausser einer Andeutung (s. unten) nichts  weiter hierüber sagt, so scheint er auch anzunehmen, App.  Claudius habe dies durchgeführt. Der Verfasser von „de viris illustribus" hat dies offenbar aus der Angabe des Livius  gefolgert, wenn er sagt: censuram solus omnium quinquen-  nis obtinuit. Von der Abdankung des Censors sagt Livius  selbst nichts, er führt nur eine Version an, dass  nämlich Appius Claudius noch als Censor sich um das  Consulat ])eworben hätte, aber vom Tribun L. Furius ge-  zwungen sei, die Censur niederzulegen, und dann zum Consul  gewählt sei: Livius scheint sich dieser Version anzuschliessen.  Danach hat also App. Claudius seine Censur am Ende d. J.  308 niedergelegt; das konnten die Annalisten nicht ändern,  weil 307 neue Censoren und Appius Claudius selbst für  dieses Jahr als Consul in den Magistratsfasten verzeichnet   waren.   Nun liegen nach den Capitolinischen Fasten zwischen  312 und 307 zwar 5 Jahre, nicht aber so bei Livius, da er  ja das Diktatorenjahr 309 nicht kennt und zählt: seine An-  sicht, App. Claudius habe die Censur 5 Jahre hindurch be-  hauptet, wird also durch seine eignen Angaben widerlegt.   Dass App. Claudius sich noch als Censor um das Con-  sulat beworber habe, ist eine Erfindung eines Annalisten, der  dem Censor ausser den genannten Ungesetzlichkeiten noch  ^as Streben nach der Cumulierung zweier hoher Amter an-  dichtete, um ihn noch schärfer als Verächter aller Gesetze  darzustellen.   Bei dieser ganzen Erdichtung von der gewaltsamen Proro-  gation der Censur durch App. Claudius hat man ohne Zweifel  nach Analogie dessen verfahren, was von dem Ahnen unseres  Oensors, dem Decemvirn gleichen Kamens, überliefert ist, der  decemvir in annum creatus, altero anno se ipse creavit, tertio  nee a se nee ab ullo creatus fasces et imperium obtinuit (LIVIO).   Nach unserer Ansicht ist demnach der Bericht des Livius  über die gesetzwidrige Amtsverlängerung des Censors von  Anfang bis Ende erfunden. Dafür spricht ausser der oben  gegebenen Kritik des Berichtes . entscheidend folgende Er-  w^ägung : App. Claudius hat nach der guten Nachricht Diodors   i. J. 310 die Censur angetreten, wir Laben das als historisch  nachgewiesen. Am Ende des Jahres 308 muss er aber ab-  gedankt haben, einmal weil 307 neue Censoren in den Ma-  gistratslisten erscheinen (Liv. IX, 43, 25. C. J. L. I, 432 z. J.  ^), und dann weil App. Claudius selbst i. J. 307 zum Con-   307 ' '   sul gewählt wurde (Diod. XX, 45. Liv. IX, 42, 3. C. J. L. I,   432 z. J. ^).   Zwischen 310 und 307 liegen aber nur zwei Jahre, also  kann die Censur kaum länger als 18 Monate gedauert haben.   Dennoch halten die meisten neueren Forscher, obwohl  sie zugeben, dass in der Erzählung des Livius Vieles er-  dichtet und übertrieben sei, an der Annahme der Prorogation,  der Censur fest. Ja Niebuhr (R. G.), Lange (Alterth. I,  85 ff.), Siebert (Appius Claudius S. 67 ff.) u. a. folgen dem  Livius fast in dem ganzen, offenbar erfundenen Detail, dass er  die Censur 5 Jahre habe beibehalten wollen, dass er das Con-  sulat der Censur habe cumulieren wollen u. a.   Nur stellen sie, wovon nichts überliefert ist, eine Hypo-  these über den Zweck der Amtsfortführung auf. App. Clau-  dius, meinen sie, habe sich deshalb sein Amt verlängert, um  seine grossartigen Bauten zu Ende zu führen, und damit keinem  andern die Ehre der Vollendung zufalle.   Mommsen schliesst sich dieser Hypothese an, nur ver-  mutet er, es sei keine ungesetzliche Prorogation gewesen. Es  bestand nämlich in der That die Einrichtung, dass die Censur,  wenn 18 Monate nicht genügten, prorogiert wurde „ad  opera, quae censores locassent, probanda et ad sarta tecta  exigenda^' (LIVIO, cf. Mommsen, Str. II, 324 m. Anm.  1, 2.). Es sei nun, wenn man alles Incriminieren und Moti-  vieren, welches den Claudiererzählungen anzuhaften pflege,  ausscheide, sehr wahrscheinlich, dass auch des App. Claudius  Amtsverlängerung nur eine solche gesetzmässige Prorogation  sei (ähnlich Madvig, Verfassung und Verwaltung.  Herzog, Geschichte und System l, 273). Aber dagegen ist  zu sagen, dass grade die Ungesetzlichkeit in dem Berichte    <ias Wesentliche ist, dann, dass die kolossalen Bauten, die  des Censors Namen tragen , auch schliesslich in vier oder  fünf Jahren nicht vollendet werden konnten , woran schon  Niebuhr erinnert (R. G.). Ausserdem ist wohl bei  einer solchen gesetzmässigen Prorogation (ex instituto) immer  beiden Censoren das Amt verlängert, weil, wie Mommsen  selbst sagt, (Str. II, 312 m. Anm, 6), das Prinzip der CoUe-  gialität bei der Censur mit besonderer Strenge gehandhabt  wurde. Und wenn nun Mommsen dennoch meint (a. a. 0.),  dass die appianische Prorogation diesem Prinzip nicht wider-  streite, so scheint mir das keineswegs ein bindender Schluss  zu sein. Endlich liegen, was das Entscheidende ist, zwischen  dem Amtsantritt des App. Claudius und dem seiner Nach-  folger überhaupt nur zwei Jahre (310 — 307 s. oben); die  Censur kann ihm also kaum, jedenfalls nicht 4 oder 5 Jahre  prorogiert sein.   Wiederholen wir kurz unsere Resultate: App. Claudius  trat seine Censur i. J. 310 v. Chr. an und behielt sie ganz gesetzmässig 18 Monate lang mit seinem Collegen C. Plautius,  der ihm völlig zu Willen war {vTir/.oog),   Wir kommen nun zu den Thaten des Censors.   Cap. 2.  Die Bauthätigkeit des App. Claudius.   Eine Hauptseite der censorischen Thätigkeit war die Re-  gulierung der Gemeindeeinnahmen (mit Ausnahme der persön-  lichen, directen Vermögenssteuer, des Tributums) und der Ge-  meindeausgaben.   Nach der römischen Finanzpraxis wurden die indirecten  Staatseinnahmen von jeglichem ertragsfähigen Staatsgut (Zölle,  Gemeindeland, Ausbeutung von Flüssen, Seen, Bergwerken u.a.)  nicht direct vom Staate erhoben, sondern an einzelne Unter-  nehmer zur Ausnutzung gegen eine bestimmte Entrichtung  an die Staatskasse verpachtet.   Ebenso Hess der Staat die Lieferungen, die er brauchte,  und die Arbeiten, die er vornehmen Hess, an Private verdingen  (locare opera publica od. sarta tecta od. ultro tributa).     99     Die Censoren waren es, welche mit diesen Verpachtungen  beider Art betraut waren. Aber sie standen dabei unter der  Oberaufsicht des Senates. Neue Zölle konnten sie z. B. nur  mit Bewilligung des Senates anordnen, der Senat konnte cen-  sorische Verpachtungen rückgängig machen, die Pachtsumme   ^rmässigen u. a.   Bei vielen Ausgabeposten wurde den Censoren nicht bloss  die Verdingung, sondern auch die Überwachung, Leitung und  schliessliche Übernahme der Arbeit übertragen (Polyb. 6, 17  Liv. 42, 3 faciendum oder reficiendum curare C. J. L. I,.   p. 177, n. 605).   Dies geschah namentlich bei den öfFentlichen Bauten, bei  Reparaturen (z. B. des Circus Liv. 41, 27, der Mauern Liv.  6, 32, der Strassen Liv. 29, 37. 41, 47, Wasserleitungen,  Frontin. aq. 95 u. a.) wie bei Neubauten (z. B. bei Tempeln,  Basiliken, Theatern, Brücken, Heerstrassen, u. a.). Nach  dieser Seite hin wird die censorische Competenz gradezu als  Fürsorge für die Bauten aufgefasst. Aber auch hierbei waren  sie vom Senat abhängig. Vor allem musste der Senat die-  Gelder verwilligen; nur wenn und insoweit es der Senat ge-  stattete, konnten die Censoren das aerarium in Anspruch nehmen,,  und zwar durch Vermittlung der Quästoren, welche als Ver-  walter der Staatskasse die Gelder einnahmen und auszahlten.  Der Senat bewilligte den Censoren eine Bauschsumme (pe-  cunia decreta Liv. 39, 44. Polyb. G), jedoch als certa pe-  cunia, und zwar gewöhnlich eine gewisse Quote der Staats-  einnahmen (vectigal annuum Liv. 40, 46. 44, 16). Was die  Censoren im einzelnen damit anfangen wollten, war ihre Sache.  Inwieweit sie darin vom Senat abhängig waren, ob sie z. B.  zu Neubauten die Einwilligung des Senates einholen mussten  (cf. Liv. 36, 36), lässt sich nicht bestimmen.   Soviel musste ich im allgemeinen über diese Seite des  censorischen Amtes vorausschicken, um die Thätigkeit des-  App. Claudius in dieser Hinsicht richtig zu würdigen.   Die Censur des App. Claudius ist nämlich die erste, bei  der uns dies censorische Geschäft in der Überlieferung entgegeniritt, und APPIO nacht von dieser Seite semes  Amtes in so grossartiger und zugleich von der gewöhnlichen  und späteren Handhabung dieses Rechtes verschiedentlich in  so abweichender Art Gebrauch, wie es kaum wieder ge-   schehen ist. .   Über die Bauthätigkeit des Censors App. Claudius sind  ausser den Notizen bei Diodor und Livius noch die Angaben  des S. Julius Frontinus in seiner Schrift „de aquis Romae" zu  benutzen. Ohne Zweifel beruhen die Angaben Frontins, der unter  dem Kaiser Nerva 97 n. Chr. curator aquarum war (Fronün 1. c.  Einleitung), auf eigener Erfahrung und Anschauung. Ausführ-  lich und klar beschreibt er auch die aqua Appia, berichtet, wo-  her sie kommt, wie lang sie ist, welchen Weg sie nimmt etc.  Was er sonst über die Censur des App. Claudius beibringt,  ist offenbar aus den Hvianischen ähnlichen Quellen geschöpft.  Auch Diodors Angaben sind relativ ausführlich, und mit Recht  nimmt Mommsen an, dass der vielgereiste Verfasser (Diodor  1, 4) hier aus eigener Anschauung spricht (Mommsen, Rom.   Forsch. II, 284 A. 90). LIVIO berührt die Bauten des Appius nur ganz kurz;  doch ist bemerkenswert, dass er, während er im allgemeinen  sowohl in dem Sachlichen als in der Beurteilung sehr von  Diodor abweicht, im Lobe der Bauthätigkeit des Censors mit  ihm übereinstimmt. Er sagt (IX, 29,6): et censura clara  eo anno App. Claudii et C. Plautii fuit, memoriae tamen  felicioris apud posteros quod viam munivit et aquam in urbem  duxit, und bei Diodor heisst es: caror d^ ^nriiehn' c^Jcaarov   Die Bauwerke, welche des App. Claudius Censur ver-  ewigen, sind die Wasserleitung und die Heerstrasse, welche  beide seinen Namen tragen, die via und aqua Appia.   Es war nämlich das Recht des bauleitenden Beamten, den  öffentlichen Gebäuden, natürlich mit Ausnahme der Tempel,  seinen Namen beizulegen; seit App. Claudius ist dies wenig-  stens zumeist geschehen, und es scheint sein Beispiel dies Recht  hervorgebracht zu haben, da sich vor ihm keine solche Fälle nachweisen lassen. Die grossartigen Bauwerke der Republik  in der Stadt Rom sind fast alle nach ihren Erbauern genannt,  die mit wenigen Ausnahmen Censoren sind (Beispiele : basilica  Porcia, Aemilia-Fulvia , Sempronia; circus Flaminius. Die  Erbauer der Bauten ausserhalb Roms sind nicht Censoren,  ausgenommen von zwei Heerstrassen, der via Appia und Flaminia). Die aqua Appia ist der älteste und erste Trinkwasser-  aquadukt Roms, deren es später so viele gab. Bis zur Zeit  des Appius hatte man sich mit dem Wasser mehrerer Quellen  und Brunnen (Frontin I, 4: putei, worunter auch Cisternen  bejrriften werden können. Kiebuhr, R. G. III, 359 A. 24)  begnügt, ja man hatte Tiberwasser getrunken (Frontin a. a. O.j.  Der Ruhm, die Quellen gefunden zu haben, aus denen  die aqua Appia gespeist wurde, wird dem Collegen des Appius,  L. Plautius, zugeschrieben, der deshalb den Beinamen Venox  (von Vena) erhalten haben soll (Frontin I, 5. Fasti Capit.  C. J. L. I, 432 ad a. 442: qui in hoc honore Venox appel-  latus est). Das Bedenken Drumanns, dass dies Cognomen  nicht von vena abgeleitet sei, da hiervon besser Venosus ge-  bildet werde, sondern mit dem häufig in der gens Plautia  wiederkehrenden Cognomen Venno oder Veno (vgl. Liv. VIII,  19, IX, 20) identisch sei, scheint in der That begründet.  Die Quellen, welche diese etymologische Ableitung geben,  leisten nicht hinlänglich Gewähr für die Richtigkeit derselben ;  es scheint nur ein Versuch der Erklärung des Cognomens zu  sem, wie wir von dem des Appius selbst mehrere finden werden.  Den Lauf der aqua Appia beschreibt Frontin (I, 5) fol-  gendermaassen : Concipitur Appia in agro Lucullano via Prae-  nestina inter milliarium septimum et octavum deverticulo sinis-  trorsus passuum septingentorum octoginta; ductus eius habet  longitudinem a capite usque ad Salinas, qui locus est ad por-  tam Tergeminam, passuum undecim millium centum nonaginta:  ex eo rivus est subterraneus — offenbar absichtlich unter-  irdisch, damit das Wasser nicht abgeschnitten würde (Niebuhr, R. G.) — passuum undecim millium centum triginta : supra terram substructio et opus arcuatum proximum  portam Capenam — ein Mauerwerk, welches wahrscheinlich  die sog. XII portae bildete (vgl. Siebert, APPIO S. 63).   Jungitur ei ad Spem veterem in confinio hortorum Torquatianorum ramus Augustae ab Augusto in supple-  mentum eius additus hie via Praenestina ad milliarium  sextum deverticulo sinistrorsus passuum nongentorum octoginta  proxime viam Collatiam accipit fontem, cuius ductus usque  ad Gemellos efficit rivo subterraneo passuum sex millia tre-  centos sexaginta. Incipit distribui Appia imo Publica clivo  ad portam Trigeminam (Frontin, de aq. I, 5. cf. Kiebuhr,  R. G. III, 356 ff\ Siebert, App. Claud. S. 62 f. Becker,  Handbuch I, 702. Jordan, Topogr. der Stadt Rom I, 456.  <jf. „Auetor de viris illustr." 34, der die aqua „Anienem'^  nennt, was oifenbar ein Schreibfehler ist. Eutrop II, 4 nennt  sie „aqua Claudia", die erst von Kaiser Claudius ausge-  führt ist).   Wie Frontin angiebt (s. oben) hatte man in dem Thal  zwischen dem Caelius und Aventinus ein Mauerwerk von nur  60 Schritt nötig; daraus zieht Kiebuhr mit Recht den Schluss,  dass die Gänge nicht eben sehr tief gelegt waren (R. G. III,   361).   Die aqua Appia war von den 9 Wasserleitungen, die  €s zur Zeit des Kaisers Claudius gab, die zweitniedrigste  (Siebert a. a. O. 62). Sie konnte daher nur den niedrigsten  Stadtteilen, der Vorstadt, dem Circus, dem Velabrum, dem  Vicus Tuscus, vielleicht noch der Subura, Wasser zuführen  und selbst diesen kaum in ausreichendem Maasse (Kiebuhr,   R. G. III, 361). Das grössere der Bauwerke des Censors ist jene Heer-  strasse, welche gleichfalls seinen Kamen trägt. Es scheint  aber nicht die älteste ihrer Gattung zu sein ; bei der  via Latina und Salaria weist der Käme auf höheres Alter hin,  (Kiebuhr, R. G. III, 359). Die späteren Heeresstrassen, welche  in Italien censorische Bauten (Flaminia, Aemilia) , in den  v" r . -a i. "a > < 4 4 ~ 26 Provinzen und im cisalpinisclien Gallien consularisclie Baute»  sind (Aemilia in Gallia cisalpina, Postmnia ebenda, Doniitia in  iS^arbonensis u. a.), sind alle nach ihren Erbauern genannt;,  die via Appia wäre also die erste, bei der dies geschehen  ist, sodass also allgemein das Beispiel des App. Claudius das  Recht der Eponymie für die bauleitenden Beamten hervor-  gebracht zu haben scheint.   Es führte die via A])i)ia an der ]\[eeresküste entlang  durch die Städte Terracina, Fuudi, lAIola bis nach Capua.  Durch die pomptinischcn Sümpfe hat erst Trajan die Strasse  gebaut. App. Claudius hat durch dieselben wahrscheinlich,  nur einen Damm gelegt, während man als lleeresstrasse  durch die Sümpfe von Velitrae nach Terracina damals die-  via Setina benutzte (Niebuhr, R. G.).   Diodor berichtet, dass App. Claudius die via Appia von-  Rom bis Capua mehr als 1000 Schritte weit zum grössten  Teil mit festen Steinen gepflastert habe (//^o/c; ateoeolg-  yxalöTQOJüev), Nissen (Pompejanische Studien S. 519) meint,  dies sei nicht recht: Diodor und seine Gewährsmänner  hätten ihre eigene Zeit vor Augen, wenn sie von der  Pllasterung der via Appia sprächen (ebenso der Verfasser  von „de viris illustribus" 34 und Procop, bell. got. I, 14).  Denn erst i. J. 29G sei die erste Strecke der via Latina  saxo quadrato (Peperinplatten, Kiebuhr, Nissen,  a. a. O.) gepflastert, und zwar eine semita von der porta Ca-  pena bis zum Marstempel, so berichte LIVIO.. Dann  hätten i. J. 293 die curulischen Aedilen die Chaussee von dort  bis nach Bovillae silice (Lavapolygonen, s. Niebuhr und Nissea  a. a. 0.) zu pflastern fortgefahren (Liv. X, 47). ]\lir scheint  aber durch diese Notizen des Livius das Zeugnis Diodors  noch nicht aufgehoben zu werden. Es ist zwar zuzugeben,,  dass App. Claudius die Chaussee nicht schon mit der Kunst  und in der herrlichen Weise gepflastert habe, wie die römi-  schen Heerstrassen später gepflastert wurden. Aber der Aus-  druck Diodors {yMCtocQtoü'F — bedecken, bestreuen) braucht  o-ar nicht von einer eigentlichen Pflasterung verstanden zu  werden; und dann sagt Diodor auch nur, dass Appius de»  grösseren Tlieil (n> 'ixUmy uioog) der Strasseso ausgeführt habe.  Worin die wesentliche Arbeit beim Bau dieser Chaussee  bestand, sagt Diodor mit deutlichen Worten: 7('7r rorrtüv  riwg fdr v7ie()tyoviic^ (hanyMif^as, tov^ (>^ ijcyir/ytodets K  y.inhw^ <}vah;ufia(JLV u'^io/jr/oii: fif/rRr^W.c yaniW/AOüF etc...  Dass das Terrain, über welches die Strasse führen sollte, ge-  ebnet wurde, Anhöhen abgetragen und Thäler ausgefüllt wurden, dass der Grundbau solid und bequem hergestellt wurde, darin bestand zunächst die Hauptarbeit, darin das Ver-  dienst des App. Claudius. Deshalb konnte er mit Repht die  Heerstrasse als sein Werk betrachten, und derselben sein  Name beigelegt werden. Keineswegs aber kann sie App. Clau-  dius schon ganz in der grossartigen Weise vollendet haben,,  in der sie später den Namen regina viarum erhielt.   Mitten in den pomptinischcn Sümpfen, unmittelbar an der  via legte App. Claudius das forum Api)ii an, das jetzt noch  als Foro Appio existiert (vgl. IMommsen, U. Forsch., Niebuhr, 11. G. HL 358. Lange, Alterth. II, 87). Hier  scheint er sich selbst eine statua diademata gesetzt zu haben,.  woraus das Gerücht entstanden ist, dass er sich Italien per  clientelas habe unterwerfen wollen. Denn was Sueton (Tib. 2>  über einen gewissen Claudius Drusus sagt, bezieht sich, wie  Mommsen überzeugend dargethan hat (R. Forsch. II, 305 ff.  vgl. Niebuhr, R. G. HI, 355 ff. und Strebe, xM. L. Drusus,  Diss. Marburg 1889), auf unsern App. Claudius.   Diodor setzt beim Bericht über die aqua Appia hinzu r  xcd TioUix TOJV dj;iioouov yorjuucor fig icwn.r T/;r yMiaüxevy-  ccn-hoaev avev d(r/itcaü^ zi^g ücyyhpov; und weiter unten beim  Bericht über die via Appia: xtaco7;/.oKJ6v c^tJüc^c,- 7«^* (5';.«o<^'W  nooooöov^ Wir bemerkten, dass in späterer Zeit die Censoren.  in Bezug auf ihre Ausgaben ganz vom Senat abhängig waren^  indem ihnen eine pecunia certa angewiesen wurde. Wenn  nun Diodor sagt, dass App. Claudius die Staatsgelder urfir  düyftcnog Tr^s; övyyli[iov verwandt habe, so kann er entweder  me'i'nen, dass zur Zeit des Appius lür die censorischen Aus- -jviibcii tlas ^)uyitlc iP^^ ar/yli\inv noch nicht nötig gewosen sei,  oder, was nilher liegt, dass APPIO venuüge seiner  energischen Persönlichkeit sicli von der Abhängigkeit vom  Senate in seinen Geldausgabcn zum öftcntlichen Nutzen trei-  gemaclit habe. Jedenfalls folgt aus der Thatsache, das App.  •Claudius das öoyficc des Senates ganz übergehen konnte, die  weitere, dass die Grenze der Befugnis des Senats und des  Zensors bei den Staatsausgaben nicht gesetzlich scharf gezoecen war, und dass das Schalten der Censoren zu dieser Zeit  freier war als später.   Ein drittes Bauwerk, welches App. Claudius ausführte,  ist der Tempel der Bellona d. i. der griechischen 'Evvu) (Liv. X,  19. Ovid, fasti, 6, 203. C. J. L. I, 287: Elogium des Appius  Claudius); es fällt dies aber erst in seine spätere Lebenszeit.  Ap]-). Claudius ist es aber entgegen der Mommsenschen An-  nahme (K. Forsch. I, 308) nicht gewesen, der in diesem Tempel die Ahnenbilder seiner Vorfahren autgestellt hat (vergl.  Starck, Verhandlungen der dtsch. rhilologenversammlung zu  Tübingen, Lpz..). Auf diese Fragen jedoch  brauche ich, da sie sich nicht auf die Ccnsur beziehen, füglich  nicht einzugehen.   Jn der gewaltigen Bautliätigkcit drückt sich sehr prägnant  •der politische Charakter dos Ccnsors und seine politischen Ten-  denzen aus. „Er warf^', sagt ]\Ionnnscn treifend, „das veraltete  Bauernsystem des Si)arschatzsammeln bei Seite und lelirtc  seine ]\Iitbüvger die ölfentlichen jNIittel in würdiger V\Visc zu  gebrauchen'' (R.- G.). App. Claudius war, wie wir bei  allen seinen politischen Maassnahmen sehen werden, ein De-  mokrat, und zwar förderte er besonders die Verkehrsinteressen,  die der städtischen Bevölkerung; dazu passt vortrefflich, dass  wir ihn als Beförderer des griechischen Einflusses in Kom  kennen lernen, was sich sclion in dem Bau eines Tempels zu  Ehren einer rein griechischen Gottheit ausdrückt.   Vortrefflich passt zu solchen politischen Tendenzen die  Bauthätigkeit des App. Claudius .und die Richtung, in der er  .sie entfaltete.  Cap. 3.  Die Senatsliste und die Rittermusterung des App. Claudius.   Die senatus lectio des App. Claudius ist die erste, über  •welche uns etwas Bestimmtes überliefert ist. Es ist dcshalb-  von liohem Wert, dass wir grade über sie den Bericht eines  80 alten und bewährten Autors, wie ihn Diodor benutzt hat,,  besitzen. Schon zur Zeit des App. Claudius, das sagt Diodor  deutlich, war es Sitte {i}v tO-o^), die euyerelg und u^uoftuöt  nqohyfivieg in den Senat zuzuschreiben {7Toni:'/ou(fetr). Von-  dieser Gewohnheit nun, erzählt Diodor, sei App. Claudius in-  sofern abgewichen, als er nicht bloss diese hinzuschrieb,-  sondern auch viele Freigelassenensöhne darunter niischte-  (avtfu^e jToAAotv ycd ich' dTiF?.8i)0^t()0)v tiovi;),   Livius erzählt zwar zu dem Jahre der Censur selbst nur,  dass die senatus lectio infamis und invidiosa gewesen sei, dass^  sie sine recli pravique discrimine geschehen sei, dabei potiores-  aliquot übergangen seien. Offenbar berichteten seine Quellen  an dieser Stelle nichts Spezielles von der Senatsliste; und  diese hatten die Wahl von Libertinensöhnen in den Senat  ohne Zweifel übergangen, weil eine solche Maassregel dem  hocharistokratischen Charakter, welchen sie dem App. Clau-  dius beilegen, widers])rochcn hätte. Livius selbst aber fügt  an einer späteren Stelle, die, wie wir darthun werden,  aus einer anderen und besseren Quelle geschö])ft ist, hinzu,,  dass App. Claudius den Senat zuerst durch Libertinensöhne   befleckt habe. Auch von anderen Geschichtschreibern wird die senatus  lectio des App. Claudius erwähnt. Sueton sagt im Leben  des Claudius (24) : (Claudius imperator) Appium Caecum censorem generis sui proauctorem libertinorum tilios in senatum  adlegisse docuit, ignarus temporibus Appii et deinceps ali-  quamdiu libertinos dictos non ipsos qui manu mitterentur sed  ingenuos ex his pracreatos.   Aus welcher Quelle Sueton diese Nachricht hat, wisse»  wir nicht; manche neuere Forscher halten sie für richtig; sie cineu also, dass u,>tcr libcrtini ursi,rü,.glich nicht Frei-  gelassene, d. h. ge^-esene Sklaven, sondern deren ^öhne verstanden seien (Momnisen, Str. I, 387 f. m. Ann,. Madvg, \ erf.  u Verhalt. I, 137. Siel.crt, Ap,.. Claud. 23 ft. A\ os.senborn.  zu Liv IX, 4C, 1 u. 10). Mommsen, der frülier auch diese  Ansicht vertrat, hat neuerdings seine Meinung etwas geändert  (Str III 422 m. Anm. 2 u. 3). In späterer Zeit hicssen  libcrtini diejenigen, welche Servituten, servierunt oder manu  missi .sunt. Wenn nun Sucton sagt, früher seien als l.bevt.n.  die Sühne solcher Freigelassenen bezeichnet, so schen.t er zu  meinen, dass die Freigelassenen selbst liberti genannt seien..  Dies ist aber sprachlich unmöglich, was durch die Analogien  divus - divinus, masculus - masculinus bewiesen wird (W lUenis,  le sönat, I, 184 ,n. A. 3). Ausserdem widerspricht einer  solchen Annahme der feststehende Unter-schicd der beiden Be-  zeichnungen : beide bez-eichnen nämlich allein den gewesenen  Sklaven, nur dass bei libertinus derselbe nach seiner allge-  meinen bürgerlichen Stellung, bei libertus aber nach dem  Verhältniss zu seinem Herrn verstanden wird (Mommsen,   Str. III, 423). . c . A   So kann also die Stelle Suetons nicht gefasst werden.   Ernesti meint, Sueton wolle sagen, zur Zeit des App. Claudius  seien nicht bloss die Freigelassenen, sondern auch ihre  Sühne libcrtini genannt. Diese Interpretation setzt allerdings  eine ungenaue Ausdrucksweisc bei Sueton voraus; aber sie  kann ja richtig sein, obwohl auch dies noch unbewiesen bleibt.  Es ist ohne jeden Zweifel, dass alle andern Schriftsteller  unter libcrtini nur die Freigelassenen, und zwar für alle Zeiten,  verstehen. Alle beziehen die senatus lectio unseres Censors  auf die Söhne gewesener Sklaven. Diodor nennt die von App.  Claudius in den Senat Aufgenommenen c}Tre).i'^ii>iov wotv,  und von dem i. J. 304 zum curulischen Aedil gewählten An-  lönger unseres Censors, dem Cn. Flavius, sagt er direkt, er  sei der Sohn eines gewesenen Sklaven gewesen (rr«ro<.,- «»  dsdov/.suxöms). Hiermit stimmen alle andern Gewährsmänner  überein: Livius (IX, 46), der Kaiser Claudius (Sueton 1. c), TACITO (si veda) (ann.), Plutarch (Pomp.). Wir werden  -also mit diesen Autoren annehmen müssen, dass Söhne von  Freigelassenen, niclit Enkel, wie Sueton meint, von App. Clau-  <lius in den Senat aufgenommen seien.   Wertlos ist die Angabe des Verfassers von „de viris  illustribus" (34), dass App. Claudius Libertinen selbst in den  Senat aufgenommen habe.   Die Freigelassenen selbst wie ihre Söhne waren eben,  ^a sie mit dem Makel der Knechtschaft behaftet waren, ob-  Äwar nicht durch Gesetz, sondern nur durch das Herkommen  Tom Senat wie von der l\Iagistratur ausgeschlossen (Mommsen,  Str. l, 459 f.)» während die Enkel der Freigelassenen zu allen  Zeiten zu den ingenui gehört haben (Mommsen, Str. III, 422),  und von den plebejischen Geschlechtern, deren Glieder im  Senat sassen , stammen sicher manche von Libertinen ab  (Willems, le s^nat, I, 188). Indem nun App. Claudius I.iber-  tinensöhne in den Senat wählte, warf er den staatsrechtlichen  Usus, wonach sie vom Senat und von der Magistratur aus-  geschlossen waren, um. Und dies ist der Grund, weshalb  die senatus lectio unseres Censors für so schimpf lieh galt und  den Adel aufs äusserste erbitterte (Diod. 1. c. : i(p' olg ßaQtvf^  i'(feQOV oi yMVXiouaroi 7a/> Fvyeveiai;).   Il2in hat nun die von App. Claudius in den Senat auf-  genommenen Libertinensöhne näher bestimmen zu können ge-  glaubt. Willems meint, es seien solche Libertinensöhne ge-  wesen, welche seit dem .1. 318 v. Chr. Volkstribunen gewesen  .seien (le senat, I, 185 m. Anm. 5). In dieses Jahr ungefähr  setzt nämlich Willems die lex Ovinia, durch welche bestimmt  wurde, dass optimus quisque ex omni ordine — d. h. nach  Willems omni ordine magistratuum et curulium et plebeiorum   in den Senat gewählt werden sollte. Nach diesem Gesetze   * hätten, meint Willems, nicht bloss gewesene Consuln, Prätoren,  <>urulische Aedilen, sondern auch Volkstribunen und plebejische  Aedilen gewählt werden müssen. Dass die von App. Claudius in den Senat gewählten  Libertinensöhne gewesene Volkstribunen seien, glaubt Willems daraus folgern zu können, dass zu diesem Amte welches zehn  Männer jedes Mal zusammen bekleideten, d,e L.bertmensohne  leichteren Zutritt hatten als zu irgend einem andern Wir  wissen niehts darüber, dass in dieser Zeit schon em L.ber-  tinensohn zum Volkstribunat gelangt sei; L. Macer L.v IX,  46, 3), dessen Zeugnis sehr wenig gilt, überliefert allem dass  Cn. Fiavius vor seiner Aedilität (i. J. 304) sclK,n Volkstnbun  gewesen sei. Es ist dies aber sehr unwahrschemhch, da vor  ier Tribusänderung des App. Claudius das St.mmrecht d r  niedri-en Bürger in den Tributcomitien wenig Gewicht hatte   (s. unten). ,. ^ , xj„„;i   Wie hypothetisch dieser Schluss ist, liegt auf der Hand..  Und dass überhaupt die gewesenen Tribunen hätten in der.  Senat gewählt werden müssen, ist nichts als Vemmtung.  Willems behauptet es nach seiner Auslegung der lex Ovinia.  Ich habe mich auf diese Frage, weil sie memem Ziele fern  liegt, nicht einzulassen, will nur erwähnen, dass m der lex  Ovinia unter omnis ordo, aus dem optimus quisque m den Se-  „at gewählt werden sollte, nicht omnes ordines magis ra uum  et curulium et plebeiorum (Willems a. a. OO, auch nicht blos.  ordines magistratuum curulium (Lange, R. Alterth. I, «U  de plebiscito Ovinio et Atinio. Progr. 7 ff.) zu vers eben  sind sondern dass die Worte am einfachsten und natürlichsten  als der gesamte Bürgerstand zu fassen sind (Hotmann, der rom.  Senat S 7 ff., Becker, Handbuch, II, 2, 300 .Herzog Gesch.  u. System 1,882 f. Mommsen, Str. H, 39o, 397 -• Anm^ 1).  Die senatus lectio des App. Claudius war nicht bloss  wecen der Aufnahme von Libertinensöhnen anstössig, sondern  auch deshalb, weil App. Claudius nicht, wie es die Censoren  zu thun hatten, die anrüchigen Senatoren ausstiess (Diod. 1. c.  o,]J^m rc.> döo^ocvTcov avyy2rjry.ä^v tS^ßale), Beachten wir  aber den Grund, welchen Diodor für diese Maassregel angiebt:  Weil App. Claudius, sagt er, sich bei den Patriziern äusserst  verhasst gemacht habe, so mied er es, bei irgend einem an-  dern Bürger anzustossen, und in dieser Absicht unterliess er  auch die Reinigung der Senatsliste von anrüchigen Personen VeOTUTOL^ TÜV (fd^üVOV^ i^l'xklVF TO TlQOOXÜTlTeiVTlVt liOV tikXcüV   tioXltwv xai xaia rtiv riov owtö^icüv xarayQatfr^v ovdh'ct etc.  Diod. 1. c).   In demselben Gedanken nahm er auch bei der Rittermusterung  (equitum recognitio oder census) keinem sein Ritterpferd  (Diod. : xa) xara Trjv tcüv ltitifhov doxLf.iaolav ovdh'a difFiXero  Tov 'iTtJiov), Es ist dies die einzige Notiz, welche wir über  die Rittermusterung des App. Claudius haben. Sein Auftreten  dabei steht aber im Einklang mit seiner politischen Stellung,  die Diodor mit den Worten bezeichnet: ccvTiTayf^a xaxaaxF vciCiov   Die Senatsliste unseres Censors ist aber bald wieder um-  gestossen worden. Die Consuln beriefen, so erzählt Diodor,  aus Hass und zugleich um sich dem Adel gefällig zu zeigen,  den Senat nach der früheren Liste, {sid^" ol fih v^raTot did  zov (fMvov xal did to ßovkEöd^ai rolg sTiKpavsaTaTOic; /«(»/Led^ar  övvijyov irjv GvyxXr^cov etc. Diod. 1. c.)   Damit stimmt Livius über ein (IX, 30, 1,2): Consules  negaverunt eam lectionem observaturos esse et senatum ex-  templo citaverunt eo ordine, qui ante censores App. Claudium  et C. Plautium fuerat.   Diodor erzählt die Zurückweisung der appianischen Senats-  liste zu demselben Jahr, wo App. Claudius sein Amt antrat (310  V. Chr.). Daraus darf man aber nicht schliessen, dass es von den  Consuln dieses selbigen Jahres geschehen sei. Das war nicht  der Fall, nicht sowohl, weil Livius, der den Amtsantritt des  App. Claudius in das Jahr 312 setzt, die Zurückweisung der  Senatsliste zum folgenden Jahr 311 erzählt und den Con-  suln d. J., C. Jun. Bubulcus und P. Aem. Barbula, zuschreibt,  als deshalb, weil die Censoren nach den Consuln und zwar  unter ihrem Vorsitz gewählt wurden, im ersten Jahr der Cen-  sur also immer der Senat schon in der früheren Ordnung zu-  sammen getreten war (Mommsen, Str. II, 396). Und diese  Annahme widerstreitet dem Diodor keineswegs, da er öfters  Ereignisse, die sich auf mehrere Jahre verteilen, zusammen erzählt, wofür die Erzählung der Gallierkriege (Diod. XIV,  113 ff) ein klares Beispiel giebt. Diodor deutet d,es an  unserer Stelle klar genug an, indem er die Zurückwe.sung  der Senatsliste zugleich mit der ebenfalls nieht m das Jahr  310 .gehörenden Wahl des Cn. Flavius zum Aedden am  Schlüsse seines Berichtes erzählt und mit dra anknüpft.   Wenn wir nun mit Diodor den Amtsantritt des App.  Claudius h. d. J. 310 setzen, so müssen -- J"-'™-: ^^^JJ  die Senatsliste von den Consuln des Jahres 308 -oO.» ^ em  Diktatorenjahr - umgestossen ist. D.ese waren (f 1 abms  und P Decius (Diod. XX, 37). Es sind d.es dieselben Manner,  welche als Censoren i. J. 304 die Tribusänderung des App.  Claudius rückgär>gig machten (s. unten). Wir sähe,, m d.esem  von der Kritik hergestellten Zusammentreften emen kratt.gen  Beweis für die Richtigkeit des chronologischen Ansatzes   Aus den Angaben Diodors folgt, dass schon die Vor-  gänger des App. Claudius und C. Plautius in der Censur eine  lenatsliste aufgestellt haben; er sagt ausdrücklich, dass die  Consuln den Senat berufen hätten o*^ ir:v vm> tinnov y.ara-  }a^^8lmv dl/M t^v vn.) u^n' .r^oy. /fr^7'^ rrn- xt//yo>r  yaia^'oaifeiaar. Diese unzweideutige Angabe scheint mir ent-  scheidend für eine weitere Streitfrage , welche sich an die  Senatsliste des App. Claudius knüpft. Es ist nämhch die An-  Sicht aufgestellt worden, dass die senatus lectio des App.  Claudius überhaupt die erste censorische sei, und dass die  lex Ovinia, welche das Amt der Senatswahl von den Consuln  auf die Censoren übertragen hat, im Jahre der Censur des  App. Claudius oder kurz vorher gegeben worden sei. Die  lex Ovinia ist uns von Festus an einer etwas verderbten stelle  überliefert (ed. Müller: praete riti senatores quondam  in opprobrio non erant, quod ut reges sibi legebant sublege-  bantque, quos in consilis publico haberent, ita post exactos  eos consules quoque et tribuni militum c. p. coniunctissimos  sibi quosque patriciorum et deinde plebeiorum legebant, donec  Ovinia tribunicia intervenit, qua sanctum est, ut censores ex omni ordine optimum quemque legerent, quo factum est, ut  >qui praeteriti essent et loco moti haberentur ignominiosi").  Über die vielen Streitfragen in Bezug auf dies Plebiscit  vgl. Hofman, der röm. Senat S. 3 if. Willems, le senat,  153 ff. u. a. Uns geht nur die Frage nach der Datierung  an. Dieselbe ist nicht überliefert.   Man bringt nun die lex Ovinia in engen Zusammenhang  mit der senatus lectio des App. Claudius (Mommsen, Str. II,  395 m. A. 1. Willems, le senat, I, 185 ff.). Es gebe, so  meint man, kein anderes Beispiel dafür, dass eine censorische  senatus lectio von den Consuln umgestossen sei. Und wenn  die Censoren schon lange diese Befugniss gehabt hätten, so  hätten die Consuln nicht gewagt, die appianische Senatsliste  zu ignorieren. Wenn man dagegen annehme, dass App. Clau-  dius und C. Plautius zum ersten Male als Censoren den Senat  zusammengesetzt haben, so erkläre es sich leicht, dass die  Consuln, zu deren Amtskreis bis dahin die Senatswahl gehörte,  die Liste des App. Claudius hätten umstossen können, zumal  dieselbe gegen Gesetz und Herkommen Verstössen habe.   Es ist diese Deduction reine Hypothese; von unsern  Quellen w^ird als Grund der Verwerfung der appianischen  senatus lectio ganz allein ihre Ungesetzlichkeit oder vielmehr  ihr Verstoss gegen das Herkommen angegeben ; und es scheint  dies zur Erklärung auch völlig zu genügen.   Zudem sagt ja Diodor mit klaren Worten, dass schon  die früheren Censoren den Senat gewählt hätten, und diesem  •bestimmten und guten Zeugnis glaube ich mehr Gewicht bei-  legen zu müssen als den unbestimmten Worten des Livius  (IX, 33 senatum citaverunt eo ordine qui ante censores App.  Claudium et C. Plautium fuerat). Wir werden also den Er-  lass der lex Ovinia jedenfalls vor das Jahr 318, wo die Amts-  vorgänger des App. Claudius Censoren wurden, setzen. Ge-  nauer dem Datum nachzuforschen ist nicht meine Aufgabe.   Allerdings können wir in der Umstossung der appiani-  schen senatus lectio von Seiten der Consuln noch einen Nach-  klang eines ehemals senatorischen Rechtes bemerken. Die  Consuln vom J. 308 werden sich bei ihrer That ohne Zweifel  darauf berufen haben, dass die Senatswahl ursprünglich ein  consularisches Recht war.   Was ist nun von der Senatsliste unseres Censors zu ur-  teilen? Welche politische Absicht verfolgte er bei der Ein-  wahl von Libertinensöhnen? Auch hierüber bestehen die  grössten Differenzen zwischen den neueren Forschern. Nie-  buhr (R. G. III, 344 ff".) und mehrere Anhänger (Lange,  R. Alterth. Herzog, Gesch. u. Syst.  Siebert, App. Claudius) halten an dem Grundcharakter  fest, welcher der Politik des App. Claudius von Livius bei-  gelegt wird, d. h. sie meinen, App. Claudius sei ein strammer  Aristokrat gewesen und habe nur die hohe und höchste No-  bilität mit allen seinen censorischen Maassregeln fördern wollen.  Diesem politischen Charakter widerspricht nun off'enbar die  senatus lectio, durch welche die niedrigste Bevölkerungsklasse  der Libertinen begünstigt wurde, sowie auch die Tribusänderung  des App. Claudius. Auf eigenthümliche Weise suchen die ge-  nannten Forscher diesen Widerspruch zu lösen. Der Adel, so  führt Niebuhr aus, und also auch der Senat zerfalle damals in  zwei Klassen, die patrizische Kobilität, welche schon sehr ab-  genommen habe, und die plebejische Nobilität, welche jene zu  überflügeln drohe. App. Claudius nun, selbst aus einem alt-  und hochadligen Geschlecht stammend, habe seine ganze poli-  tische Thätigkeit in den Dienst des alten patrizischen Adels  gestellt und den plebejischen Adel herabdrücken wollen. Dies  erkenne man aus seinen späteren Thaten: J. J. 299 v. Chr.  habe er gegen die lex Ogulnia gestimmt (LIVIO (si veda)), als  Kandidat für das Consulat (LIVIO (si veda)) i. J. 295 und als  interrex (Cic. Brutus XIV, 55) habe er mit aller Macht da-  nach gestrebt, dass die Patrizier die beiden Consulnstellen  wieder erlangten (Niebuhr, R. G. 353). Durch die Aufnahme  von Libertinensöhnen in den Senat, dessen grösster Teil schon  damals dem plebejischen Adel angehört habe, habe er diesen  nur insultieren und sich dafür rächen wollen, dass er bis jetzt,  eben durch die Verhinderung des plebejischen Adels, noch nicht zum Consulat gelangt sei (R. G. III, 345). Andere  fingieren eine sog. „Coalitionspartei" (Siebert, a. a. O. 45),  deren Ziel gewesen sei, eine enge Verbindung zwischen der  patrizischen und plebejischen Nobilität im politischen Leben  herzustellen. Gegen diese sei besonders die politische Thätig-  keit unseres Censors gerichtet gewesen. Um sie herabzu-  drücken, habe er die Libertinensöhne in den Senat aufge-  nommen, damit sie die Zahl der Anhänger der alten Nobilität  vergrössern sollten.   Die UnWahrscheinlichkeit steht dieser Ansicht an der  Stirn geschrieben. Sie könnte sich allein stützen auf zwei  Angaben des Livius, wo dieser den App. Claudius nach seiner  Censur altpatrizische Standesvorrechte vertreten lässt. Dass diese  aber Dichtungen sind, erfunden nach der bekannten Claudier-  schablone, werden wir in anderm Zusammenhange nachweisen  (s. unten). Wir fassen die politische Bedeutung der Senats-  liste in dem positiven Sinne, dass App. Claudius Libertinen-  söhne in den Senat aufnahm, weil er das libertinische Element  und überhaupt die niederen Volksschichten begünstigte und  in ihren politischen Rechten fördern wollte. Die Demagogie,  die sich in der appianischen senatus lectio, wie in der ge-  sammten censorischen Thätigkeit ausdrückt, ist in dem Berichte  Diodors klar gesagt, was selbst die Gegner zugeben müssen  {Siebert, a. a. 0. 21).   C a p. 4.   Die Tribusänderung des App. Claudius und ihre Verwerfung  durch die Censoren d. J. 304 v. Chr., Q. Fabius und P. Decius.   Die Änderung, welche App. Claudius mit der Tribus-  ordnung vornahm, gilt allgemein als die wichtigste und ein-  schneidendste seiner censorischen Maassregeln. Sie wurde  schon von den zweiten Nachfolgern des App. Claudius und  O. Plautius, den Censoren Q. Fabius und P. Decius d. J. 304    V. Chr., umgestossen; daher ist diese Censur in den Rahmen  unserer Betrachtung mit hinein zu ziehen.   Über die Tribusänderung des App. Claudius liegen un&  drei Berichte vor : Diodor XX, 36. Livius IX, 46. Plutarch,  Popl. 7. Die Gegenmassregel des Fabius erwähnen: Liv. IX^  46. Val. Max. II, 2, 9 und der Auetor de viris illustribus 32^  von denen die beiden letzten Angaben wertlos sind.   Diese Berichte sind aber weder hinlänglich ausführlich  und klar, noch stimmen sie so überein, dass sie, aus einander  ergänzt, ein genaues und deutliches Bild von des Appius  Claudius Tribusänderung geben. Zudem wissen wir im übrigen  vom Wesen der Tribus, ihrer Bedeutung und praktischen Ver-  wendung im Staat äusserst wenig. Es kann daher nicht  Wunder nehmen, dass dies Edikt des App. Claudius von seiner  gesamten censorischen Thätigkeit am meisten umstritten ist.  Vieles freilich, was von den Gelehrten zur Begründung ihrer  Ansichten über die Tribusänderung des App. Claudius vor-  gebracht wird, ist lediglich Vermutung; und wenn derselben  auch bei der Knappheit der Überlieferung Raum gegeben  wird, so scheint mir doch das, was vermutet und aus der  Überlieferung gefolgert wird, von dem, was wirklich unzwei-  deutig überliefert wird, streng geschieden werden zu müssen.  In Bezug auf die Überlieferung unseres Gegenstandes ist die  Grundfrage, welchem Berichte wir das Hauptgewicht beilegen  sollen, ob dem diodorischen oder dem livianischen. Nach  unsern Erörterungen im ersten Kapitel über den Wert und  das Verhältnis der beiden Quellen ist die Frage für uns schon  dahin entschieden, dass wir von Diodors Berichte auszugehen  und ihn zu Grunde zu legen haben. Wenn seine Angabe  auch äusserst kurz ist, so werden w^ir doch finden, dass sie,  genau und wortgetreu ausgelegt, das Edikt des Censors über  die Tribusänderung in der knappsten Weise, vielleicht mit  den Worten des Ediktes selbst, richtig wiedergiebt, ohne frei-  lich seine Bedeutung oder Wirkung auch nur zu berühren.  Den Bericht des Livius glauben wir zur Ergänzung heran-  ziehen zu dürfen, wir haben Gründe dafür, dass er da, wo er von der Tribusänderung des App. Claudius und ihrer Ver-  werfung durch Q. Fabius spricht, aus einer besseren Quelle  schöpft, als sein hauptsächlicher Gewährsmann dieses ganzen  Abschnittes ist (s. unten), und wir werden sehen, dass seine  Angaben in Bezug auf die Wirkung der appianischen Tribus-  änderung mit den Schlüssen, die wir aus Diodors Worten  ziehen müssen, wohl übereinstimmen; daher werden wir auch  seinen Angaben über die Censur des Fabius, wo er die einzige  Quelle ist, und w^elche er offenbor von demselben Gewährs-  mann hat, in gewissem Grade Vertrauen entgegen bringen.   Erörtern wir zunächst kurz, was wir von der Tribus-  ordnung vor der Censur des App. Claudius, ihrem Wesen  und ihrer Bedeutung weissen, weil dies notwendig zum Ver-  ständnis der appianischen Änderung ist.   Die Tribus sind von Haus aus lokale Bezirke. Das be-  weisen viele Quellenbelege (Dionys IV, 14. Liv. I, 43.  Verrius Flaccus b. Gellius XVIII, 7. Laelius Felix b. Gelhus  XV, 27), die ich in anderm Zusammenhang, wo ich erörtere,  wie die lokale Grundlage der Tribusordnung zu fassen ist,  behandeln werde. Das beweisen vor allem die Namen der  einzelnen Tribus. Zunächst haben die 4 städtischen Tribus  örtliche Namen: Die Sucusana von der Sucusa (Subura)  (Jordan, Topogr. v. Rom I, 185 f. 199), die Esquilina vom  mons Esquilinus (Jordan I, 183 f.), die Palatina vom mons  Palatium (Jordan, I, 182 f.), die Collina vom collis sc. Qui-  rinalis (Jordan, I, 180 f.). Alsdann ist die lokale Grundlage  evident für alle in historischer Zeit seit 389 errichteten  Tribus, deren Namen von Seeen, Flüssen, Städten ge-  nommen sind oder sonstigen örtlichen Ursprungs sind (vgl.  Moramsen, Str. III, 171 A. 1—8. 172 A. 1—9. Kubit-  schek, de Rom. tribuum origine et propagatione bei Be-  handlung der einzelnen Tribus). Wenn die ältesten sechszehn  Tribus auch nach alten patrizischen Geschlechtern genannt  sind, so gilt für sie dennoch dasselbe örtliche Prinzip: es  wird z. B. neben der Tribus Pupinia der ager Pupinius ge-  nannt (s. Kubitschek a. a. O. S. 10). Grotefend vermutet, dass   erst i. J. 495 mit der Tribus Crustumina die Lokaltribus ein-  gerichtet sei (Imp, Rom. trib. descr. S. 3). Aber dem ist  entgegen zu halten, dass doch die tribus urbanae, welche nach  der Überlieferung zuerst geschaffen sind, schon Namen ört-  lichen Ursprungs tragen.   Die Benennung von 16 Tribus nach patrizischen Ge-  schlechtern erklärt man so, dass die Tribus von der gens,  deren Grundbesitz der Tribusbezirk umfasste, den Namen er-  halten habe (Mommsen, Str. III, 168). Das die Geschlechter im  frühesten Gemeindeleben Roms von grosser Bedeutung gewesen  sind, ist ohne Zweifel, und es kann leicht sein, dass, als das  damals noch kleine römische Gebiet in Tribus zerlegt wurde,  die einzelnen Tribus nach den Geschlechtern genannt wurden,  deren Grundbesitz hauptsächlich den Tribusbezirk bildete.  Aber es kann ja auch möglich sein, dass die gentilizischen  Namen erst später erfunden sind. Genug, der Grundsatz, dass  die Tribus ursprünglich Territorialbezirke sind, wird allgemein  anerkannt. Nur ist man uneinig, in welcher Weise die lokale  Grundlage der Tribus zu fassen ist. Damit hängen aufs engste  die verschiedenen Ansichten von der Tribusänderung des App.  Claudius zusammen.   Mommsen fasst die lokale Grundlage der Tribus in eigen-  tümlichem Sinne, er meint, dass die Tribuseinteilung anfangs  nur eine Einteilung des römischen Privatgrundbesitzes (ager  privatus) gewesen sei (Rom. Trib. 17, 151 ff. Rom. Forsch.). „Die Tribus, sagt er bei der neuesten und ausführ-  lichsten Auseinandersetzung dieser seiner Ansicht (Rom. Staatsr.  III, 164), kommt nur dem Grundstück zu, welches im quiri-  tischen Eigentum steht oder stehen kann. Die Einzeichnung  von Grundstücken in die Tribus ist nicht Folge der Grenz -  erweiterung , sondern der Ausdehnung des Privateigentums,  mag diese nun erfolgen durcii die Adsignation von Gemeinde-  land an römische Bürger, wohin namentlich die Gründung  der Bürgerkolonien gehört, oder durch Aufnahme von Halb-  bürger- oder Nichtbürgergemeinden in das Vollbürgerrecht."  Der ursprüngliche Privatbodenbesitz ist nach Mommsens  Ansicht der an Haus und Garten (Str. III, 24). Dann  wurde das personale Eigentum ex iure Quiritium auf den  Orundbesitz überhaupt übertragen, was dasselbe ist als die  Erstreckung der Tribus von der Stadt auf die Flur (Str.). Demnach hat sich die Tribuseinteilung anfangs  (bei der Giündung durch Servius TuUius) nur auf die Stadt  bezogen (Str. III, 166) und ist erst, als die Flur quiritisches  Eigentum ward, auf sie bezogen worden. Diese Übertragung  ivird ausgedrückt durch die Einrichtung der 16 ältesten Tribus,  ivelche ihre Namen von den Geschlechtern, deren Grundbesitz  sie umfassten, erhielten: die Flur war ja Anfangs lediglich  Geschlechtsbesitz und zerfiel in Geschlechtsäcker, deren Auf-  teilung eben die Einrichtung der ältesten ländlichen Tribus  bedeutet (Str. III, 168, 170).   Aus der Bodentribus ist die personale abgeleitet ; und da  «ich die Bodentribus anfangs nur auf den ager privatus bezog,  so folgt für Mommsen daraus, dass ursprünglich nur die  Römer die Tribus hatten, welche am ager privatus ex iure  <5uiritium partizipierten d. h. anfangs standen nur die An-  sässigen (adsidui-adsidentes, locupletes = qui in loco sunt) in  den Tribus, einerlei ob dies Patrizier oder Plebejer waren  (Rom. Forsch. I, 151 f. 154. Rom. Trib. 151 ff. Str. II,  ^71 f. Str. III, 182 ff.). Der Besitzer von Privatgrund-  stücken stand in der Tribus, in welcher sein Grundstück lag ;  und mit dem Grundstück ist die personale Tribus von dem  jedesmaligen Besitzer gewonnen und verloren worden. Die  Personaltribus ist also wandelbar (Str.), während die  Bodentribus unwandelbar ist, indem das einer Tribus zuge-  schriebene Grundstück späterhin nicht in eine andere über-  tragen werden kann (Str. II, 371; III, 162).   Die Tribus in personaler Hinsicht umfassen also die ge-  samte Bürgerschaft, Patrizier wie Plebejer, welche am ager  privatus partizipieren. Aber dies ist keineswegs die Gesamt-  bürgerschaft (R. Str. III, 182. R. Forsch. 154). Alle nicht  ansässigen Bürger stehen eben ausserhalb der Tribus.Die personale Tribus ist nun der Inbegriff aller Pflichten '  und Rechte, welche dem Bürger aus der Bodentribus er-  wachsen ; sie ist das Zeichen desjenigen Bürgers, der zur Be-  steuerung und Aushebung fähig ist und das Stimmrecht be-  sitzt. Steuer-, Heer- und Stimmordnung beruhen auf der  Tribusordnung, sodass die Tribulen, d. h. die Ansässigen, und  nur diese, nach Tribus diesen ihren Pflichten und Rechten  nachkamen. Was zunächst die Kriegspflicht imd das Stimm- |  recht betrifft, so gilt für beides die Tribus als Qualifikation^  nur mit dem Unterschied, dass diese schlechthin an den Grund-  besitz, Dienstpflicht und Stimmrecht dagegen an einen Minimal-  satz von Grundbesitz geknüpft ist (III, 247). Denn wenn  auch die 5 Abstufungen, welche König Servius in Heer- und  Stimmordnung geschaffen hat, in Geldansätzen überliefert sind^  so sind diese doch anfangs vermutlich in Landmaass aus-  gedrückt (s. Gründe Mommsens Str. III, 247): die 1. Klasse  hat den Besitz einer Hufe (wahrscheinlich c. 20 iugera) und  die vier niederen den Besitz einer Dreiviertel-, Halb-  Viertel- und Kleinstelle (c. 20 jug.) erfordert, während  Eigentümer von kleinerem Grundbesitz nicht zu den Grund-  besitzern gezählt sind (Str.). Innerhalb dieser Grenze  war die Bürgerschaft, von den Censoren in Centurien formiert  und zwar nach dem Prinzip der gleichmässigen Verteilung  der Tribulen einer jeden Tribus in sämtliche Centurien, zu  Waflendienst und Abstimmung berechtigt. Die Nichtgrund-  besitzer und Vermögenslosen gehörten in eine Zusatzcenturie  (accensi velati), deren Stimmrecht aber bei ihrer Masse illu-  sorisch war (Str. III, 284), und die zwar in der Ordnung des  exercitus centuriatus ihre Stelle hatten, aber vom Waffendienst  ausgeschlossen waren (Str. III, 281, 82). Zwischen der Heer-  und Stimmordnung einerseits und der Steuerordnung anderer-  seits bestehen nach Mommsen keine inneren Beziehungen  (III, 230). In älterer Zeit ist nur Grund und Boden und das,  was wesentlicher Bestandteil der Ackerwirtschaft ist (Sklaven,  Zug- und Lastvieh), steuerpflichtig. Indessen gilt dies nur für  die Grundbesitzer, d. h. die Tribulen. Ihnen entgegengesetzt sind  die Aerarier „die Steuerpflichtigen" im eminenten Sinn, diesehaben nämlich nach Mommsen von Haus aus Steuern vonL  sämtlichen Mobiliarvermögen entrichtet, während sie, wie wir  erwähnten, in Heer- und Stimmordnung nur scheinbar berück-^  sichtigt waren. Späterhin, es scheint ziemlich früh, setzt  Mommsen hinzu, wurde das tributum allgemein, also auch für  die Grundbesitzer, zur Vermögenssteuer; so war also der  Gegensatz zwischen Grundbesitzern (= Tribulen) und Arariern  in Frage gestellt (Str. II, 262 ff.). Unmittelbar hieran knüpft  Mommsen seine Ansicht über die Tribusänderung des Censors  Appius Claudius. Bleiben wir zunächst hier stehen. Wir haben das System  Mommsens von dem Wesen und der ursprünglichen Bedeutung der Tribus kurz in seinem Zusammenhang dargelegt, um zu  zeigen, wie der Grundgedanke des Systems, dass der Grund-  besitz ursprünglich das Requisit für den römischen Vollbürger  gewesen ist, zwar consequent, aber zu sehr schematisch und  doktrinär durchgeführt ist , und um nun unsere Kritik der  Mommsenschen Ansicht anzureihen und unsere eigene ab-  weichende Ansicht zu entwickeln.   In den späteren Zeiten der römischen Geschichte, seit  dem Bundesgenossenkrieg, war der lokale Zusammenhang  der Tribus, welcher bei einer Bodeneinteilung jedenfalls ur-  sprünglich vorauszusetzen ist, völlig zerstört. Nach dem ge-  nannten Kriege, durch welchen die meisten bisher bundes-  genössischen italischen Städte und Staaten das römische  Vollbürgerrecht und damit die Tribus erlangten, verteilte man  die neuen Vollbürgergemeinden in die bestehenden 35 Tribus,  sodass nun die einzelnen Tribus, lokal gefasst, aus zerstückelten,  über ganz Italien verbreiteten Landcomplexen bestanden. Eine  Zusammenstellung der zu den einzelnen Tribus gehörigen Ge-  meindeterritorien ergiebt die Italia tributim descripta (CICERONE (si veda), de  pet. cons. 8, 30), welche Grotefend mustergültig, soweit es  möglich, rekonstruiert hat („Imperium Romanum tributim  descriptum" Hannover 1863 vgl. Kubitschek, de Romanarum  tribuum origine et propagatione. Abhdl. des arch. - epigr^   Seminars. Wien 1882). Schon in Italien schrieb man grössere  Territorien einer bestimmten Tribus zu (wie z. B. Calabrien  der Fabia, Campanien der Falerna, u. a. vgl. Kubitschek) *, und in der Kaiserzeit, als der Zuwachs des römischen  Gebietes immer grösser wurde, pflegte man oft ganze Länder-  massen einzelnen Tribus einzuverleiben (so wurden die neuen  Vollbürgergemeinden von Spanien der Quirina und Galeria,  die von Gallia Narbonensis der Voltinia zugeteilt vgl. Kubit-  schek S. 199).   Indem eine Gemeinde in das Vollbürgerrecht aufge- ]  nommen wurde, wurden alle in ihr heimatsberechtigten frei-  gebornen Bürger einer bestimmten Tribus zugewiesen. Sie  ist also der Ausdruck der Zugehörigkeit 1. zur communis  patria Roma und 2. zur Sonderheimat, der domus (origo) und  der aus dieser Zugehörigkeit erwachsenden politischen Pflichten  und Rechte; sie ist das Zeichen der Heimatsberechtigung in  einer römischen Vollbürgergemeinde. Es ist dies inschriftlich  so ausgedrückt und sehr vielfach belegt, dass hinter den  Namen die Bezeichnung der Ingenuität, der Tribus und des  Heimatsortes gesetzt wird. (Z. B.: L. Cornelius. L. F. Vel.  Secundinus. Aquileia. Grotefend.) Die Qualifikation  für die Tribus ist die Ingenuität: Jeder Freigeborne in einer  neuen Vollbürgergemeinde erhält die Tribus seiner Heimat  und damit eine persönliche und erbliche Rcchtsqualität, die  nicht durch Adoption (Grotefend) noch durch den In-  <iolat, selbst wenn der Übergesiedelte zu Magistratswürden in  ,€einem neuen Wohnort gelangte (Grotefend 21), affiziert wurde.  Kur bei Aussendung einer römischen Colonie (colonia  <5ivium Romanorum) mussten die Ausgesandten ihre ange-  stammte Tribus mit der Tribus der Colonie vertauschen (Grotefend).   In der Auff'assung dieser Bedeutung der jüngeren Tribus,  wie wir sie hauptsächlich aus den Inschriften kennen, herrscht  im allgemeinen Übereinstimmung (Grotefend. Vorbemerkungen.  Mommsen, R. Forsch. I, 151 fl". R. Str.).  Mommsen, der als Qualifikation für die Tribus älterer Form  den Grundbesitz annimmt , giebt nun selbst zu , dass die  spätere Tribus vom Grundbesitz unabhängig gewesen sei. Er  hat also die Pflicht zu erklären, wie und wann sich diese  radikale Veränderung im Wesen der Tribus vollzogen haty.  dass aus der Tribus, welche das Zeichen der Ansässig-  keit ist, die Tribus geworden ist, welche die origo, die  Heimatsberechtigung in einer Vollbürgergemeinde ausdrückt.  Staatsrecht II, 341 A. 2 nennt er dieselbe eine ebenso  bekannte und sichere wie in ihrer Entstehung schwierig zu  erklärende Umgestaltung. Er giebt zu, dass über das Auf-  kommen der theoretisch wie praktisch gleich tief einschneiden-  den Änderung nichts berichtet werde (Str. III, 781). Aber  sie stimme so vollkommen mit der Tendenz des Bundes-  genossenkriegs, dass sie mit voller Sicherheit auf ihn zurück-  geführt werden könne. Er beschreibt dann die Änderungen^  welche seit Einführung des neuen Prinzips mit den Tribus-  verhältnissen in lokaler und personaler Hinsicht vorgenommen  sein müssten (Str.). Was die Stadt Rom selbst  angehe, so sei auch für ihre Bürger, die füglich keine Sonder-  heimat und also keine Ortsangehörigkeit hätten, irgend einmal  durch Gesetz die Tribus als eine persönliche und erbliche  vom Grundbesitz unabhängige Rechtsqualität fixiert worden,  sodass jeder Bürger diejenige Tribus, die er infolge seines  dermaligen Grundbesitzes eben inne hatte, als persönliche über-  kam und auf seine Nachkommen vererbte (R. Forsch. I, 153).  Die Patrizier hätten sich die Tribus selbst gewählt bei dem  Eintreten der neuen Ordnung: daher komme es, dass zwei  der ältesten Patriziergeschlechter, die Aemilier und Manlier,  in der Palatina erschienen, die ihrem Adelstolz durch diese  Tribus des königlichen Rom hätten Ausdruck geben wollen.  (Str.)   Die Auff'assung Mommsens von der lokalen Grundlage  der Tribus ist also die, dass dieselbe sich anfangs auf den  ager privatus Romanus, und personal auf die Ansässigen bezogen  habe, später dagegen auf das Territorium einer Vollbürger-  gemeinde und personal auf alle freigeborne in diesem Territorium Heimatsbereclitigten ; die Entwicklung vom ersten zum  letzten Prinzip liabe sich im Bundesgenossenkrieg vollzogen.  Abgesehen davon, dass die jüngere und ältere Tribus nach  dieser Auffassung nicht die geringste Verwandtschaft mit ein-  ander haben, sondern etwas ganz und gar Fremdes, Verschiedenes, ja Entgegengesetztes ausdrücken, würde es doch  äusserst merkwürdig sein, wenn eine solche gänzliche Um-  wandlung der rechtlichen Bedeutung der Tribus auch nicht  die geringste litterarische Spur hinterlassen hätte, zumal sie  doch in ziemlich später Zeit geschehen sein soll. Und dass  «ie absolut unbezeugt ist, muss Mommsen selbst zugeben.   Die Erklärung einer solchen radikalen Umwandlung fehlt  zudem bei Mommsen völlig. Denn was er über die allmäh-  liche Einwirkung der Ortsangehörigkeit auf die Personaltribus  (Str. III, 779 f.) und über das Verhältnis beider (Str. III,  782 ff.) sagt, wird man doch nicht als Erklärung gelten lassen  können. Es erheben sich aber überhaupt gegen eine solche  Umwandlung der Tribus die gewichtigsten Bedenken. Zu-  nächst wäre, vorausgesetzt einmal, dass aus der Tribus der  Grundsässigkeit die des Territoriums einer Vollbürgergemeinde  entstanden sei, der Zweck einer solchen Umwandlung absolut  nicht abzusehen. Bei der Aufnahme einer Vollbürgergemeinde  wies man die gesamten Bürger derselben, einerlei ob Grund-  besitzer oder nicht, einer bestimmten Tribus zu. Warum  zeichnete man denn z. B. bei der Aufnahme Tusculums nicht  bloss den ager Tusculanus und die Eigentümer an demselben  in die papirische Tribus? So wäre ja das alte Prinzip ge-  wahrt worden. Ein weiterer Widerspruch ist folgender: Auf die Stadt  Rom selbst ist das neue Prinzip nicht vom Anfang seines  Aufkommens an bezogen worden: denn aus der Zunahme  der Vollbürgergemeinden hat es sich ja erst entwickelt. Wenn  also für Rom noch die alte Ordnung bestand, d. h. nach  Mommsen, wenn nur die Grundbesitzer in den ländlichen  Tribus standen, während die nicht Grundansässigen in den  4 tribus urbanae zusammengedrängt waren, so standen die  Bürger einer Vollbürgergemeinde sämtlich in einer ländlichen  Tribus, sodass z. B. ein nichtansässiger Tuskulaner vor dem  nichtansässigen Römer ein Vorrecht hatte, indem jener in der  Papiria stand, dieser aber in eine der städtischen Tribus ge-  hörte. Welches Missverhältnis dies bei dem Dignitätsunter-  :schiede der tribus urbanae und rusticae (s. unten) gewesen  wäre, liegt auf der Hand.   Der entscheidende Grund ergiebt sich aus folgender Er-  wägung : Dass die Tribus der späteren Form vom Grundbesitz  unabhängig ist, giebt auch Mommsen zu. Kun aber bezieht  sich die Hauptquellenstelle (CICERONE (si veda), pro Flacco), auf  welche Mommsen seinen Grundsatz, dass die Tribus - Distrikte  des ager privatus Romanus seien, stützt (Mommsen, Str. II,  360 mit A. 2 u. 3. Rom. Trib. 3), auf die Zeit Ciceros, wo,  auch nach Mommsen, die neue Tribusordnung schon bestand.  Wenn Cicero den Decianus fragt: sintne ista praedia censui  censendo ... in qua tribu denique ista praedia censuisti?  fio geht doch daraus mit Evidenz hervor, dass noch damals  der Grundbesitz in der Tribus stand. Und dass er dies stets  sethan hat and der Grundbesitz stets für die Tribus von Be-  deutung gewesen ist, werden wir in anderm Zusammenhang  erörtern. Keinesfalls aber kann die angeführte Stelle dazu  benutzt werden, um die Ansicht, dass die Tribus sich ur-  sprünglich lediglich auf den ager privatus bezogen  habe, zu stützen.   Alle diese Erwägungen führen zu dem Resultate, dass  eine Entwicklung, wie sie Mommsen annimmt, von einer Tribus,  welche die Grundansässigkeit ausdrückte, zu einer solchen,  welche, vom Grundbesitz unabhängig, die Zugehörigkeit zu  einer Vollbürgergemeinde bezeichnete, nicht stattgefunden  haben kann. Da nun das Wesen der späteren Tribus fest-  steht, so muss die Mommsensche Auffassung von der ursprüng-  lichen Tribus falsch sein.   Und in der That ist der Satz, dass die Tribus sich ur-  sprünglich lediglich auf den Grundbesitz b^ogen habe, den  Mommsen freilich stets als quellenmässig belegt bezeichnet  und in seinen Consequenzen darlegt, gänzlich unbewiesen.  Zunächst ist scharf zu betonen, dass er keineswegs in dei>  Quellen bezeugt ist und ledighch eine kühne Hypothese ist. ,|  Nirgends findet sich bei den alten Autoren, so oft sie auch  die Tribuseinteilung erwähnen, eine Angabe, dass die An-  sässigkeit die Grundbedingung für das Stehen in der Tribute  sei. Und es wäre dies doch sehr zu verwundern, wenn ein  so klares Prinzip so scharf durchgeführt wäre, wie ea  Mommsen annimmt, zumal dasselbe, wenigstens für die tribu&  rusticae, bis in die späte historisch helle Zeit gegolten   haben soll.   Welches war aber die lokale Grundlage der Tribusord-  nung? Was sagen die Alten darüber? Unserer Ansicht nach  war die Tribuseinteilung eine geographische Distriktseinteilung  des gesamten römischen Gebietes, eine nackte Zerlegung in  Bezirke, und zwar war sie von Haus aus dazu bestimmt, eine  Volks einteilung zu sein mit dem Zwecke, im Staatsleben  praktisch verwandt zu werden. Die Tribus wurde also vom  Lokal auf die Person übertragen und zwar, wie das natürlich  ist, in der Weise, dass alle, die in dem Bezirke einer Tribus  wohnten, dieser Tribus angehörten, um in ihr ihre politischem  Pflichten und Rechte zu erfüllen. Das Domizil bestimmte  also ursprünglich die Tribus.   Eine Reihe direkter Quellenbelege lassen sich für diese  unsere Auffassung geltend machen. Wenn Laelius Felix  (b. Gellius XV, 27) die Tributcomitien so definiert, dass in  ihnen ex regionibus et locis abgestimmt würde, so kann das-  nicht anders aufgefasst werden, als dass nach Bezirken und  Wohnsitzen abgestimmt werde. Mit regiones meint er offen-  bar die lokalen Tribusbezirke, nach denen geordnet die Bürger-  schaft abstimme, und mit loca die Wohnsitze der Einzelnen.  Durchaus müsste, wenn der Grundbesitz das notwendige Re-  quisit für das Stehen in der Tribus also das Stimmen in den  Tributcomitien wäre, dies possessorische Prinzip in einer De*  finition der Tributcomitien ausgedrückt sein. Dionys erwälint direkt die Beziehung zwischen Tribus  und Domizil. Nacli ihm (IV, 14) richtete König Servius die  Tribus ein rjf-jnom^ Hfiyxcoij^^ dTrodf-i'^ca^' ()ruuo()ic{^ vjü'Tre(i   ül/.iuY {-'yMüH}^ üiy.rl ; ausserdem lässt Dionys (IV, 14) den  König Servius demjenigen , der in eine bestimmte Tribus  eingeschrieben sei, verbieten '/Mitßari-ti' uh^ku oiy.rüiv.   Wenn diese Angaben auch keineswegs im einzelnen zu  glauben sind, so folgt doch daraus, dass Dionys meint, der  Wohnort habe die Zugehörigkeit zur Tribus bestimmt. Und  das ist unserer Ansicht nach sicher der Fall gewesen.   Wenn Avir in diesem Sinne die lokale Grundlage der  Tribus auflassen, lässt sich das, was uns vom Verhältnis  der Tribulen unter einander überliefert ist, sehr einfach und.  natürlich erklären. Es was ein nachbarlicher Geist, so wird  uns mehrfach berichtet, der sie verband. Freilich wäre dies  ja auch denkbar, wenn die Tribus nur die Grundbesitzer um-  fasst hätten. Aber es ist mehrfach bezeugt, dass grade zwischen  den niederen und höheren Tribulen einer Tribus dies Nahver-  hältnis bestand (der geringe Mann wird von seinem vornehmen  Tribusgenossen zu Tisch gezogen Horaz ep. I, 13, 15 und  beschenkt Sueton, Aug. 4 und anderes; vgl. Mommsen, Str. III,  197 f.). Es war das gemeinsame Interesse des Wohnbezirks  (Cic. pro Roscio IG, 47: tribules vel vicinos meos), welches  die Tribulen mit einander verband (so z. B. wie die Censoren  i. J. 204 in einigen Tribus den Salzpreis erhöhten).   Und dies weist eben darauf hin, dass die Tribus rein   lokale Bezirke sind.   Wie viel leichter lassen sich bei dieser Auffassung der  lokalen Grundlage der Tribus die anderen Quellenstellen ver-  stehen, welche die Lokalität der Tribus erwähnen! Die Worte  des Livius (I, 4o): (Servius Tullius) quadrifariam urbe divisa  regionibus collibusque partes eas tribus appellavit sind doch,  meine ich, viel naturgemässer so auszulegen, dass S. Tullius  das gesamte Stadtgebiet in vier rein lokale Bezirke teilte, als  so, dass der im Stadtgebiet gelegene ager privatus in vier Tribus zerlest sei. Dasselbe gilt von dem Ausdruck des  Dionys, dass S. Tullius die Stadt in 4 to.-ax«, <fcm zerlegt  habe. Dionys sagt selbst, wie er ro.-r,.o,aufgefasst wissen  will, und auch Livius hat nach den ob.gen Worten die  lokale Bedeutung der Tribus nicht anders aufgetasst. Schliess-  lich führe ich noch die Erklärung der Tribus an, welche  Verrius Flaccus (b. Gellius XVIII, 7) giebt: tribus d.c.  et pro loco et pro iure et pro hominibus. Auch hier ist  locus einfach und natürlich als Wohnort zu fassen. Wenn  also Mommsens Anschauung von dem Wesen der Tnbus einer-  seits auf einer gezwungenen Quelleninterpretation beruht, so  erheben sich anderseits dagegen auch viele sachliche Be-   Der Tribule. d. h. nach Mommsen der Grundbesitzer, hat  diejenige persönliche Tribus, in deren lokalem Bezirk sein  Grundbesitz lag. Wie aber war es, wenn Jemand in mehreren  Tribusbezirkcn Grundstücke besass? Persönlich konnte doch  Jeder nur in einer Tribus stehen (Mommsen, Str. 111, 1»^),  und in der Steuerrolle konnte Jeder nur einmal seinen Platz  finden In einem solchen Falle, vermutet Mommsen, habe die  Wahl der Personaltribus und die EinSchätzungssumme vom  Censor besthumt werden müssen. Die Willkür, die in einer  solchen Sachlage liegt, giebt Mommsen selbst zu (11, d7 J t.;.  So hätte es also Grundstücke gegeben, deren Tribus sich  nicht auf den Eigentümer übertrug.   Dasselbe trat ein, wenn Personen, die nicht Bürger sein  konnten, - etwa Frauen oder Ausländer - römischen ager  privatus erwarben. Auch dann sei, meint Mommsen (Str. 111  18;]) die Übertragung der Bodentribus auf die Personen tort-  gcfallen, so dass also für die Tribus in diesem Falle der Um-  stand, dass Jemand nicht aktiver römischer Bürger sein konnte,  wichtiger war als der Grundbesitz.   Wie sich gegen die Auffassung des Tribulen Bedenken  erheben, so auch' gegen die des Nichttribulen, des Arariers.  Die Annahme, es seien die Ärarier eine den Tribulen absolut  entgegengesetzte Bürgerklasse, sie seien ohne Stimmrecht und Heerespflicht und nur stärker besteuert, ist lediglich Hypo-  these ; sie beruht allein auf der häufig wiederkehrenden Formel  der censorischen nota „tribu movere et aerarium facere".  Aus derselben geht allerdings hervor, dass das aerarium facere  häutig mit tribu movere verbunden war, aber nicht, dass es  identisch ist. Dies kann es vielmehr nicht gewesen sein. Das  folgt deutlich aus einem Bericht des LIVIO (si veda), wo er erzählt, der  Censor M. Livius habe 34 Tribus zu Arariern gemacht (Liv.). Da nach Mommsen tribu movere in späterer Zeit gleich einer  Versetzung in die tribus urbanae ist, so müssten also damals alle  Tribulen in die städtischen Tribus versetzt sein, was Unsinn  ist. Tribu movere kann nicht dasselbe sein wie aerarium facere ; dazu stimmt, dass letzteres mehrfach allein genannt wird  (LIVIO (si veda0, IL Gellius). Wer Ärarier  war, brauchte noch nicht tribu motus zu sein ; das folgt gleich-  falls aus dem angeführten Bericht des Livius. Der tribu  motus war aber immer aerarius: also ist der eine Begriff  weiter als der andere.   Tribu movere heisst die Tribus ändern lassen (Liv. 45,  15 : tribu movere nihil aliud est quam mutare iubere tribum).  Was dies für Nachteile mit sich brachte, wissen wir absolut  nicht. Die Ärarier aber sind nichts als eine Art Strafklasse,  die höher besteuert war. Livius deutet die Art dieser will-  kürlichen Straf besteuerung an, wenn er berichtet (IV, 24),  Mam. Aemilius sei zum aerarius octuplicato censu gemacht,  d. h. zum Ärarier unter Erhöhung seiner Steuerpflicht um  das Achtfache (vgl. Soltau, Volksversamml., Madvig,  Verf. u. Verw.). Hiermit ist der absolute Gegensatz auf-  gehoben, welchen Mommsen zwischen Tribulen und Arariern  annimmt, als seien alle Ärarier Nichttribulen.   Das Resultat dieser Erörterungen besteht darin, dass die  Mommsensche Theorie von der Tribusordnung, als sei sie an-  fangs lediglich eine Einteilung des ager privatus, und als  ständen nur die Grundbesitzer in den Tribus, nicht recht sein  kann. Die lokale Grundlage besteht vielmehr, wie wir aus  den Quellen gefolgert haben und jetzt noch weiter erörternd beweisen werden, darin, dass die Tribuseinteilung eine einfache  geographische Distriktseinteilung des gesamten römischen Ge-  bietes war. Diese lokale Grundlage ist stets dieselbe geblieben: deutlich lässt sie sich noch in der späten Zeit erkennen, wo Mommsen einen völligen Umschwung im Wesen  der Tribus annimmt. Denn nachdem man zu dem Grundsatz ge-  kommen war, keine neuen Tribusbezirke mehr einzurichten,  konnte man füglich das angegebene lokale Prinzip nur wahren,  wenn man das ganze Gebiet einer neuen Vollbürgergemeinde  einer der bestehenden Tribus zuwies. Und so geschah es:  nach demselben einfachen lokalen Prinzip, nach welchem das  gesamte römische Gebiet in Tribusbezirke zerlegt war, schrieb  man die späteren neuen Vollbürgerterritorien einem jener Ur-  bezirke zu. Nur der örtliche Zusammenhang, welcher für die  Urbezirke bestand, ward dadurch aufgehoben ; das war aber eine notwendige Folge davon, dass man keine neue Bezirke  seit d. J. 241 v. Chr. stiftete. Es liegt nicht in meinem  Plane, zu erörtern, aus welchen Gründen man zu diesem  Grundsatz kam, die Zahl der Tribus nicht mehr zu vermehren,  noch auch, nach welchen Prinzipien man später die neuen  Vollbürgerterritorien an die einzelnen Tribus verteilte. Darin  dass man bei der Neuaufnahme einer Vollbürgergemeinde ihr  ganzes Territorium einer Tribus zuschrieb, zeigt sich dasselbe  lokale Prinzip, welches wir von Anfang an anzunehmen haben.  Von dem Lokal wurde die Tribus auf die Person übertragen.  In späterer Zeit gehörte derjenige zum Verbände einer Voll-  bürgergemeinde, also in die Tribus dieser Gemeinde, der in  ihrem Territorium heimatsberechtigt war. Dass die Heimats-  berechtigung in der Regel mit dem Domizil zusammenfiel,  liegt in der Natur der Sache; aber es ist ausdrücklich be-  zeugt, dass solche, welche in andere Städte übersiedelten, die  Tribus ihrer Heimat behielten (Mommsen, R. Forsch.).  In früherer Zeit war in dieser Hinsicht das Domizil ent-  scheidend. Wer in dem Bezirke einer Tribus wohnte, hatte  persönlich diese Tribus, und mit dem Wechsel des Wohn-  sitzes ward auch die Tribus gewechselt. Die Personaltribu&  ist also auch nach unsrer Ansicht wandelbar. IMit diesen  Unterschieden der Personaltribus in späterer und früherer Zeit,  werden wir sehen, hängt das Edikt des App. Claudius eng  zusammen.   Die lokale Grundlage der Tribus in dem Sinne, wie wir  entwickelt haben, nimmt schon Niebuhr an (R. G.).  Wenn wir auch in allem andern, was er über die Tribus und  ihre ursprüngliche Bedeutung annimmt, ihm widersprechen  müssen, so hat er doch das lokale Prinzip, auf dem die  Tribusordnung beruht, richtig erkannt, dass sie nämlich eine  einfache Distriktseinteilung ist und in persönlicher Hinsicht  alle in dem Distrikte einer Tribus Wohnenden umfasst. Von  Niemanden ist diese Ansicht angenommen, nur Clason (Kritische  Erörterungen über den röm. Staat.) vertritt sie,  leitet sie aber weder beweisend ab, noch verfolgt er ihre  Consequenzen in der politischen Verwendung der Tribusord-  nung. Die Übertragung der Tribus vom Lokal auf die Per-  son geschah in der Weise, dass, grade wie später die Per-  sonen, welche dem Territorium einer Vollbürgergemeinde an-  gehörten, der Tribus derselben zugeschrieben wurden, auch  früher die Tribus auf die Personen, welche ihrem Bezirke an-  gehörten, übertragen wurde. Doch war dazu eine bestimmte  Qualifikation notwendig. Diese war in späterer Zeit die In-  genuität. Wann dies Prinzip aufgekommen, habe ich nicht  zu erörtern; es scheint erst sehr spät (Mommsen, R. Staatsr. III,  439 ff.j. In früherer Zeit und ursprünglich bestand diese  Grenze nicht. Vielmehr haben ursprünglich alle in dem Be-  zirke einer Tribus wohnenden römischen Bürger auch personal  diese Tribus gehabt. Die Qualifikation für die Personaltribus  war also ursprünglich das Bürgerrecht, und zwar das Bürger-  recht schlechthin und unbeschränkt.   Die Ansicht Niebuhrs (R. G. I, 457 f.), dass ursprüng-  lich nur die Plebejer in den Tribus gestanden hätten, wird  schon dadurch widerlegt, dass die 16 ältesten ländlichen Tribus  ^atrizische Geschlechtsnamen tragen. Die Schriftsteller bezeichnen ausdrücklich die 35 Tribu»  als identisch mit dem ganzen römischen Volke (z. B. CICERO (si veda), de  leg.: populus fuse in tribus convocatus und viele andere  Stellen), und nirgends schliessen sie einen Teil der Gesamt-  bevölkerung aus, was bei der Annahme einer distriktartigen  Einteilung des gesamten Gebietes sehr erklärlich und natur-   gemäss ist.   Selbst die Freigelassenen haben ursprünglich in den  Tribus gestanden. Denn wenn Dionys und Zonaras über-  liefern, dass S. Tullius den Libertinen das Bürgerrecht ge-  geben habe und sie in die Tribus (Zon. VII, 9), und zwar  in die 4 tribus urbanae (Dion. IV, 22) aufgenommen habe,  so besagt dies jedenfalls soviel, dass das römische Staatsrecht,  indem es die Tribus der Freigelassenen auf S. Tullius, den  mythischen Urheber des römischen Verfassungslebens, zurück-  führt, keine Zeit kannte, wo die Freigelassenen nicht in den  Tribus gestanden hätten. Die Freigelassenen haben ja von  Haus aus das Bürgerrecht, wenn auch ein zurückgesetztes.  Und da sie deshalb dem Staate gegenüber Pflichten und  Rechte, wenn auch in geringerem Masse, hatten, so mussten  sie auch in den Abteilungen der Bürgerschaft Platz linden,  welche dazu bestimmt waren, damit die Bürgerschaft nach  ihnen ihren Pflichten und Rechten dem Staate gegenüber ge-  nüge (vgl. über die Tribus der Libertinen Becker, Hdb. II,  1, 96 ff. Madvig, Verf. u. Verw. I, 203. Clason, App.   Claud.).   In der politischen Bedeutung nämlich liegt das weitere  wesentliche Moment der Bedeutung der Tribusordnung.  Sie ist dazu geschaffen, und dieser Zweck ist ihr von Haus  aus eigentümlich, dass sie im Staatsleben praktisch zu politisch-  administrativen Zwecken verwandt werde. Denn was hätte  eine solche geographische Distriktseinteilung für einen Wert,  wenn sie nicht von Anfang an dazu bestimmt gewesen wäre,  eine Volkseinteilung zu sein, dass die Bürgerschaft, nach  diesen Distrikten geordnet, ihren politischen Pflichten und  Rechten nachkomme? Die Tribusordnung ist von Anfang an  die Voraussetzung der Steuerordnung, Heerordnung und Stimm-  ordnung. Die Alten selbst betrachten diese politisch - admi-  nistrative Verwendung der Tribus als ihren Zweck. Dionys  sagt vom König Servius (IV, 14) : Ta^ y.cauyoaifd^ tlov oya-  Tivncov ycci nc^ Fi^7ii>a§F.i^ n^n' y^njicktov rag yivofihag etg ra  oroaTiomyi} vmi rag aUag /of/c.,-, ag ^yaorov ^'ösi toj y.oivco  Tiuolyeiv, inyÄTi yard rag iQflg cfr/Mg rag yerimg, (k tcqoteqov,  cWm 'xard rag rhra^ag rag romy^g rag v(f' kwnw diarayßeiaag  tTCOulro. Dasselbe ergiebt sich aus den Etymologien, welche  von dem Worte tribus gegeben werden. VARRONE (si veda) (d. 1. 1.) sagt: tributum dictum a tribubus quod ea pecunia, quae  populo imperata erat, tributim a singulis pro portione census  exigebatur, und Livius umgekehrt: (Servius) partes  urbis tribus appellavit, ut ego arbitror, a tributo. Diese Ety-  mologien haben selbstverständlich als solche keinen Wert; sie  beweisen nur, dass sich die Schriftsteller die Steuerordnung und  die Tribuseinteilung als unzertrennlich dachten; ebenso haben  auch ohne Zweifel Heer- und Stimmordnung von Anfang an  auf der Tribusordnung beruht.   Ich kann, wenn ich die politische Bedeutung der ur-  sprünglichen Tribus darlegen will, selbstverständlich nicht alle  die einzelnen Fragen, die zum Teil äusserst schwierig sind,  und über die noch lange nicht die Akten geschlossen sind,  sowie über die politischen und administrativen Institute, bei  denen die Tribuseinteilung praktisch verwandt worden ist,  handeln : ich habe mich lediglich darauf zu beschränken, dar-  zulegen, in welchem Verhältnis die Tribus zu Steuer-, Heer-  und Stimmordnung stehen. Der Akt, welcher eine allgemeine  Zählung der Bürger bezweckte, um nach ihren eidlichen Aus-  sagen über ihre Verhältnisse ihre Bürgerpflichten und Bürger^  rechte zu bestimmen, ist der Census, die Schätzung (vgl.  Mommsen, Str. H, 333 ff". Madwig, Verf. u. Verw. I,^ 399 ff".).  Diese nun beruht unmittelbar und allein auf der Tribusein-  teilung. Denn tributim mussten alle römischen Bürger auf  dem Marsfelde vor dem Censor erscheinen und ihre eidlichen  Angaben über Namen, Alter, Vermögen machen. (Dionys.). Darin dass beim Census durchaus alle  Bürger mcldungspfliclitig waren (Ladungsbefehl b. Varro 1. 1.  6, 86: omnes Quirites, Liv. 1, 44: lex de incensis etc. Cic.  pro Cluent. 34. Dion. IV, 15), und dies tributim geschah,  sehe ich einen neuen Fingerzeig dafür, dass die Tribus auch  alle Bürger umtasst haben: von einer Schätzung, die nicht  tributim geschehen wäre, erfahren wir absolut nichts. Momm-  sen hilft sich, indem er für seine ausser der Tribus stehenden  Ärarier eine besondere Schätzung, welche derjenigen der  Tribulen folgte, annimmt (Str. II, 343). Auf dem Census  beruht zunächst die Bestimmung des Tributum, der direkten  Vermögenssteuer (Mommsen, Str. III, 228. Madvig, Verf. u.  Verw. II, 387 f.). Der Bürger musste sein Vermögen de-  klarieren, und der Censor hatte es abzuschätzen zum Zweck  der Besteuerung. Als steuerpflichtig werden die verschieden-  sten Gegenstände bezeichnet (cf. Mommsen, Str. II, 363 m.  A. 1). Das hauptsächlichste steuerpflichtige Objekt ist, zumal  vor dem Aufkommen der Geldwirtschaft, der Grundbesitz:  m Grundbesitz hat Anfangs wohl allein, wie das natürlich  ist und allgemein angenommen wird, der Pwcichtum bestanden,  und auch später ist dies vielfach der Fall gewesen. Da nun  die o-esamte Schätzung und also auch die Deklarierung des  steuerfähigen Vermögens tributim geschah, so musste auch  der Grundbesitz tributim zum Zweck der Besteuerung ab-  geschätzt werden d. h., wenn man will, auch der ager pri-  vatus stand in der Tribus. Es ist dabei natürlich, dass an-  fangs, wo die Personaltribus an das Domizil gebunden war,  dies in der Tribus geschah, in dessen Bezirk der Grund-  besitzer wohnte, mochte sein Grund])esitz oder Teile desselben  auch in den Bezirken andrer Tribus liegen. So allein, glaube  ich, können die Quellenstellen, die von agri censui censendo  oder der Tribus von Grundstücken sprechen, ausgelegt werden.  (Festus, epit. p. 58. Cic. pro Flacco). Dies ist das  Verhältnis von tribus und ager privatus, welches, wie Cic. pro  Flacco 32, 79 beweist, stets so geblieben.   Auf dem Census beruht ferner die gesamte sog. servianische Klasseneinteilung und Centurienverfassung. Da der  Census nach Tribus geschah, so folgt, dass zwischen Tribus-  einteilung und der Centurienverfassung ein Zusammenhang be-  stehen muss. Für die sog. reformierte Centurienverfassung,  welche seit der Mitte des dritten vorchristlichen Jahrhunderts  bestand (vgl. Mommsen, Str. III, 280), steht das Verhältnis  ziemlich fest, schon seit Pantagathus (vgl. die neusten Ab-  weichungen Mommsens vom bekannten Schema Str.). Aber damit habe ich mich nicht zu befassen. Auch  für die ältere sog. servianische Centurienverfassung ist ein  Verhältnis zur Tribusordnung anzunehmen, wenngleich nichts  <lavon überliefert ist. Mommsen hat das wahrscheinliche Ver-  hältnis nachgewiesen (Trib. Str.). Sein  Resultat ist dies, dass das leitende Prinzip bei der Centuriation  ^die gleichmässige Verteilung der Tribulen einer jeden Tribus  in sämtliche Centurien, also die Zusammensetzung einer jeden  Centurie aus gleich vielen Tribulen aller Tribus" gewesen sei.  Aber mehr als approximativ hätte diese Gleichmässigkeit im  besten Falle nicht sein können. Ganz so wie Mommsen das  Prinzip der Centuriation annimmt, kann es unmögUch gegolten  haben. Denn wenn eine jede Centurie aus gleich vielen  Tribulen aller Tribus zusammengesetzt worden wäre, so würde  dadurch vorausgesetzt, dass in jedem Tribusbezirk gleich viel  Bürger einer jeden Censusklasse gewohnt hätten, dass also  alle Tribus an Kopfzahl und Vermögen sich einander gleich  gewesen wären, was, selbst approximativ, unmöglich der Fall  gewesen sein kann, wie Polyb. VI, 20 (s. unten die Inter-   pietation) beweist.   Das Prinzip der gleichmässigen Centuriation ist wohl  nur auf die Angehörigen einer Tribus von gleichem Census  zu beziehen, sodass die in einer Tribus wohnenden Bürger  mit gleichem Census in die Centurien ihrer Censusklasse gleich-  massig verteilt wurden. Und selbst so eingeschränkt, kann  das Prinzip keineswegs als Gesetz gegolten haben, sondern  ist vielfach, wie Mommsen sehr wahrscheinlich macht (Str.), der Machtvollkommenheit der Censoren überlassen : vielleicht sind auch noch andere Dinge bei der Centuriation berücksichtigt (s. unten). Für die nicht klassischen Tribulen d. h.  die Bürger, deren Census den Satz der untersten Klasse nicht  erreichte, kam die Centuriation überhaupt nicht in Frage ; sie  standen in einer Zusatzcenturie. Wenn sich auch kein be-  stimmtes Verhältnis zwischen der Tribusordnung und der  älteren Centurienverfassung nachweisen lässt, so müssen sie  doch in notwendigem Zusammenhang stehen ; es folgt die&  eben schon daraus, dass die Centurienordnung auf dem Census^  und dieser auf den Tribus beruht.   Direkt auf der Tribusordnung ruhten die Tributcomitien,  Sie waren diejenige Volksversammlung, in welcher unmittelbar  nach Tribus, Mann für Mann, viritim, ohne Rücksicht auf  Census oder Unterschied des Standes und der Stellung ab-  gestimmt wurde (Dionys VII, 59 Cic. de leg. III, 19 Liv. 39,^  15 u. a.).   Wir haben das Wesen der Tribus dahin festgestellt, das»  sie lediglich einfache, lokale Bezirke sind, dass alle römischen  Bürger, welche in dem Bezirke einer Tribus wohnen, auch  persönlich dieser Tribus angehören, und zwar, um in derselben .  ihre politischen Pflichten und Rechte auszuüben. So können  wir zur Erörterung der Tribusänderung des App. Claudius  übergehen.   Wir gehen aus von der besten Überlieferung Diodors.  Wenngleich seine Angabe äusserst knapp ist und vielleicht  mehrfache Auslegung zulassen könnte, so glaube ich doch,,  dass sie, wortgetreu aufgefasst, klar, deutlich und wahr ist.  Diodor sagt (XX, 36): i^dioite rolg Tio/Ajai^ ij]v e^ovaiav otiol  TiQoaiQolvTO xif.uaaal>ca d. h. er gab den Bürgern die Erlaub-  nis, sich schätzen zu lassen, wo d. h. in welcher Tribus sie  wollten. Mit Recht hat Dindorf die Worte, welche in einigen  Handschriften folgen: 'Acd iv unoia Tig ßov/.8Tai cpv/,fi TccTzea-  d^ai gestrichen, da sie dasselbe bedeuten wie die vorhergehen-  den. Wenn Siebert (App. Caudius S. 50) die Worte otiol tt^^o-  aiQolvTO TifojaaaS^ta auf die Klassen bezieht, während die  folgenden iv oTioia iig ßauXerat (fvXfi TaTTeoO^at nach seiner     'i!-  Meinung die Tribus bezeichnen, so ist die Tautologie, die in  dem Zusatz läge, noch nicht aufgehoben, weil, wer in der  Tribus stand, auch nach dem Census in die Klassen aufge-  nommen werden musste; zudem widerspricht Sieberts Auslegung den Worten Diodors; denn er -giebt selbst zu, das&  der Census bei der Bestimmung der Klasse massgebend war :  die Bürger konnten sich also die Klasse nicht wählen {7i()oaL~  QohTo), sondern der Censor hatte sie nach dem Census in  die bestimmte Klasse zu setzen.   Noch willkürlicher ist der Versuch Gerlachs („Griechischer  Einfluss in Rom" Basel 1872. S. 36 ff. 40), die Worte iv  OTioirf rtg ßovkeTai (fvl^ Tcareoü^ca als echt zu erweisen.   Appius Claudius gab nach Diodors Worten den Bürgern  die Erlaubnis, sich in der Tribus, in welcher sie wollten^  schätzen zu lassen. Der Ton liegt auf den Worten oTiot  TiQOaiQoh'TO, und es folgt aus ihnen, dass vor App. Claudius  die Bürger sich nicht in jeder beliebigen Tribus schätzen lassen  durften, sondern, so fahren wir nach unseren obigen Erörte-  rungen fort, in der Tribus, in deren lokalem Bezirke sie  wohnten. Es stimmt dies so genau und klar zusammen, dass  Diodors Worte nicht anders ausgelegt werden können, wenn  man ihnen nicht Gewalt anthun will. Diodor bezieht die Ände-  rung, die Appius Claudius mit den Tribus vornahm, zunächst  auf die Schätzung {jL^irfiaad^ai)', da aber auf dem Census^.  der eben nach den Tribus vorgenommen wurde, Steuer-^  Heer- und Stimmordnung, wie wir sahen, beruhte, so musste  das Edikt des App. Claudius natürlich und notwendig auf  alle diese Verhältnisse zurückwirken. Die Änderung des  App. Claudius bestand also darin, dass er die Personal-  tribus von dem Wohnsitz löste, dass er den Zwang be-  seitigte, nach welchem der römische Bürger für die Aus-  übung seiner politischen Pflichten und Rechte an den Bezirk  seines Wohnortes geknüpft war; an Stelle des früheren  Domizilzwangs für die Ausübung der Bürgerpflichten und  Bürgerrechte setzte App. Claudius also die Freizügigkeit.  Absoluter Domizilzwang hat wohl nie bestanden, obwohl dies Dionys vom König Servius einführen lässt (IV, 14); also ist  wohl auch Tribuswechsel gestattet gewesen: aber vor Appius  <^laudius konnte letzterer nur die Folge des ersteren sein,  nur wer sein Domizil in einen andern Tribusbezirk verlegte,  erhielt auch personal diese andere Tribus und kam in ihr  seinen politischen Obliegenheiten nach. Seit der Censur des  App. Claudius konnte jeder Bürger in jeder beliebigen Tribus  sich schätzen lassen und seinen politischen Pflichten und  Rechten nachkommen, jeder im Bezirk einer städtischen Tribus  wohnende Bürger in jeder beliebigen städtischen und länd-  lichen und umgekehrt.   Den Zweck, welchen App. Claudius mit seinem Edikte  verfolgte, seine Wirkung und Bedeutung werden wir, soweit  und was sich darüber festsetzen lässt, unten erörtern; sehen  war zunächst, w^as die anderen Berichte über die Tribusände-  rung des App. Claudius sagen.   Livius übergeht in dem Jahre, in welches er die Censur  <les App. Claudius setzt, die Tribusänderung desselben vöUig.  Ohne Bedenken kann man annehmen, dass seine Quelle, der  «r an dieser Stelle folgt, gleichfalls davon schwieg. Und es  scheint dies bei dem Standpunkt, den die Quellen des Livius  dem App. Claudius und überhaupt der gens Appia gegenüber  einnehmen, nicht wunderbar. In anderm Zusammenhang haben  wir bereits erwähnt, dass der gens Claudia in der späteren  römischen Annalistik eine merkwürdige, durchweg erkennbare  Rolle angedichtet ist: alle Appii Claudii werden seit Livius  und besonders von ihm als ultraconservative Vertreter des  Adelsregimentes dargestellt. Nach demselben Schema ist auch  unser Censor geschildert (9, 34). Es hätte nun die Massregel  der Tribusänderung, welche, wie wir noch genauer betrachten  -werden, durchaus demagogisch ist, mit dem politischen Charakter, den die spätere Annalistik dem App. Claudius beilegt,  keineswegs übereingestimmt: so überging man dieselbe eben.  Zu einem späteren Jahre jedoch, dem Jahre der Adilität des  €n. Flavius (304), berührt Livius kurz die Tribusänderung  des App. Claudius, und es ist höchst wahrscheinlich, dass er  an dieser Stelle (9, 4G von ceterum bis Schluss) aus einer  andern, und zwar bessern, Quelle geschöpft hat. Er berichtet  nämlich in diesem Kapitel (9, 46) zunächst die Wahl des  Cn. Flavius zum Ädilen, alsdann dessen Amtsführung und  kehrt schliesslich mit ceterum wieder zur Wahl zurück, um  noch neues Detail über dieselbe beizubringen. Es ist dies  offenbar ein Compositionsfehler, der sich am besten so erklärt,.  dass man annimmt, Livius habe nach Abschluss seiner Er-  zählung in einer neuen Quellle andere Angaben gefunden  über die Wahl des Cn. Flavius, die er nun anhangsweise bei-  fügte (cf. Seeck, Kalendertafel der Pontifices). Dass  diese Quelle eine bessere ist als die, welcher Livius sonst  über App. Claudius folgt, geht daraus hervor, dass er die  Massregeln des App. Claudius erwähnt, welche als dema-  gogische dem ihm sonst von Livius beigelegten politischen  Charakter widersprechen, und das Demagogische derselben  sogar ohne Hehl ausdrückt.   Es heisst bei Livius a. a. 0.: Ceterum Flavium dixerat  aedilem forensis factio Appii Claudii censura vires nacta, qui  senatum primus libertinorum filiis lectis inquinaverat et postea-  quam eam lectionem nemo ratam habuit nee in curia adeptus  erat quas petierat opes urbanas humilibus per omnes tribus  divisis forum et campum corrupit. Den Gedanken, dass App.  Claudius, weil er nach dem Scheitern seiner senatus lectio  nicht die erstrebten opes urbanas erreicht hatte, dies nun durch  seine Tribusänderung bezweckt habe, werfen wir weg: es ist  offenbar eine causale Verbindung der beiden Massregeln, die  Livius selbst hergestellt hat, und die aus der allgemeinen  Auffassung des Livius von dem politischen Streben des App.  Claudius geflossen ist. Nach Livius besteht die Tribusände-  rung des App. Claudius darin, dass derselbe die humiles über  alle Tribus verbreitet habe und so die Tributcomitien (forum)  und die Centuriatcomitien (campum sc. Martium) verschlechtert,   heruntergebracht habe.   Unter humiles versteht Livius nie eine bestimmte Bürger-  klasse, es ist bei ihm nur der Gegensatz von nobilis, potens opuleritus, bedeutet also im allgemeinen niedrig, an Geburt,  Stand oder Macht und Vermögen (cf. Siebert).  Zuweilen versteht Livius darunter auch die ärmeren Plebejer. Und ein solcher allgemeiner Begriff,  den Livius stets mit humilis verbindet und daher sicher auch  hier, passt vortrefflich zu unserer Auffassung von des App.  Claudius Tribusänderung.   Es ist naturgemäss anzunehmen, dass die Bewohner der  Stadt Rom dichter zusammenwohnten als die des umliegenden  flachen Landes, ferner dass die Stadtbewohner zum grössten  Teil zu den mittleren und unteren Volksschichten gehörten,  seien es Kaufleute, Handwerker oder ein sonstiges städtisches \  Gewerbe Treibende. Zu den Reichen werden die Stadtbe- i  wohner in ihrer grossen Masse nicht zählen können, zumal in  ältester Zeit nicht, wo der Grundbesitz der alleinige Reich-  tum war. Dabei ist nicht ausgeschlossen, dass reiche Grund-  besitzer in der Stadt wohnten und umgekehrt Nichtgrund-  besitzer auf dem Lande, wie für die spätere Zeit der Repu-  blik es vielfach bezeugt ist, dass Grundbesitzer in der Stadt  wohnten (s. unten). Ihrer grossen ]\Iasse nach waren aber  die Städter einmal dichter zusammengedrängt und dann ärmer  als die Masse der Landbewohner. Zur Ausübung ihrer poli-  tischen Pflichten und Rechte waren sie nun an die Tribus  ihres Wohnplatzes gebunden, und es ist nicht zweifelhaft,  dass sie in diesem d. h. ni den tribus urbanae von jeher  das Übergewicht gehabt haben. Aber es standen den städ-  tischen Tribus von jeher eine grössere Anzahl ländlicher  gegenüber, in denen ohne Zweifel die Reicheren und  Reichsten die Überzahl ausmachten. Zur Zeit des App. Clau-  dius standen 21 ländliche gegen die 4 städtischen Tribus.  Vermöge der Überzahl der Bezirke der ländlichen Tribulen  hatte diese also stets, vor allem in den Tributcomitien, die  Oberhand, während das Stimmrecht der ärmeren und ärmsten  Tribulen, die in der Stadt zusammengedrängt waren, ziemlich  illusorisch war, da nur die Abstimmung der 4 tribus urbanae precLde Macht in den Comitien m we chen d- Kopfzahl  entschied, zu erlangen, sich über d.e l^^^^f ^ Jj \^ ;;;„  breiteten und so vern,öge ihrer Masse '" -«1^ "/ J" „meisten ländlichen Tribus das Übergewicht -lang -Und  dies sagt ia eben Livius mit nicht misszuverstehenden Worten  (ipp C humilibus per on,nes tribus divisis forun, corrup.t .  Ltht so leicht erklärbar ist der Zusatz des Livius, dass durch  JSicht so leiciii. Stimmrecht in den Centuriatcomitien   diese Massregel auch das Stimmrecht m ae  verschlechtert sei (eampum sc. Martmm corrupit). Denn de  Erklärung Clasons, -'»^r campus se. d^ u.  .eine ländliche Tribus, unter forum d.e S;-";-J '^;;.  comitien zu verstehen, wird doch schon aus dern g'-f J^^J  fällig weil darin eine Tautologie läge, mdem das Ubei gewicht  Tln gesamten Tributcomitien dasjenige - /-.-f"/;^  Tribusbezirken voraussetzt. Wenn bei der Centunafon das  Szt dir gleichmässigen Verteilung der TrlbtUen em. jeden  Tribus auf alle Centurien Gesetz gewesen wäre, so hatten schon  n; Claudius die hunüles auf die Centurien der d.em^.us  entsprechenden Klasse gleichmässig verteil --d- ^^Tg  Aber dass dem nicht so gewesen ist, wird d-h die Wnkun  des appianischen Ediktes bewiesen. Liyius sagt, dass durch  die Verteilung der humiles auf alle Tribus auch das Stimm  thl il den Lturiatcomitien verschlechtert worden sei ; als  gewannen die humiles, indem sie sich auf alle T"bus zer  Eeuten, auch mehr Geltung in den C-turi^-—  ,. je mehr Tribus sie -;^ VklTsiorl^Tu: aTf t  langten sie auch von da aus. Ls kann sicn u letzte höchstens vorletzte Censusklasse beziehen, da de  dltber Stehenden wohl nicht mehr zu den humiles gezahlt  werden können. So liegt hier das Verhältnis zwisciien Tribus und Cen-  turien; aber wie es zu erklären ist, ist mir unmöglich zu  finden. Die ]\[achtvollkommenheit der Censoren, die dies zu  regeln hatte, genügt auf keinen Fall zur Erklärung (vgl.  Mommsen, Str.). Sei ihm, wie es wolle, wir dürfen  dem Livius glauben, dass die Wirkung des appianischen  Ediktes sich nichi bloss auf die Tribut-, sondern auch auf die  Centuriatcomitien geäussert hat.   Aber damit hören auch unsere Nachrichten über die  Wirkung des Ediktes auf. Ob es und welchen Einfluss es auf  Steuererhebung und Aushebung geübt hat, ist kaum zu er-  mitteln. Die Zahl der Steuer- und aushebungspÜichtigen Bürger  wurde durch dasselbe nicht vergrössert, sondern es trat durch die  Massregel nur eine andere Verteilung der Tribulen über die  Tribus ein. Also trat wohl eine Veränderung der Tribulen-  anzahl in den meisten Tribus ein, indem sich viele Bürger  nicht in ihrer Heimattribus sondern in einer andern schätzen  Hessen; aber das Gesamtresultat der Aushebung und Steuer-  erhebung musste, da die Zahl der zu beiden Verpflichteten  nicht vermehrt wurde, füglich dasselbe bleiben. Das Edikt  hatte wesentlich nur die oben ausgeführte, von Livius über-  lieferte politische Wirkung, dass es durch die Freistellung der  Tribuswahl das Stimmrecht der humiles verbesserte. Und  wenn hierin der hauptsächlichste, wenn nicht ehizige, Zweck  des Censors selbst beim Erlassen des Ediktes bestanden hat,  so stimmt dies vortrefflich mit seinem gesamten politischen  Charakter. Er war Neuerer und Demagog, begünstigte die  niederen Volksschichten und besonders die städtische Be-  völkerung. Ohne Zweifel ist der Samniterkrieg, der ja  unter der Censur des App. Claudius geführt wurde, auf die  demokratische Massregel von Einfluss gewesen. Die W^ehr-  kraft des römischen Volkes musste in diesen Jahren aufs  höchste gespannt werden, und da die unteren Schichten die  meisten Krieger stellten, so war es zeitgemäss, wenn unser  volksfreundlicher Censor deren politischen Rechte förderte.  Die Tribusänderung des App. Claudius ist sehr wohl denkbar mit der alleinigen Wirkung auf die Comitien, be-  sonders die Tributcomitien. Alles, was sonst von neueren  Gelehrten über die Wirkung der appianischen Massregel auf  Steuerordnung und Aushebung aufgestellt ist, ist unbeglaubigt;  besonders gilt dies von Mommsens Ausführungen, die aller-  dings consequent mit seiner Ansicht über das ursprüngliche  Wesen der Tribus und die Tribusänderung- des App. Clau-  dius zusammenhängen. Anfangs steuerten nach Mommsen  die Tribulen d. h. die Grundbesitzer nur vom Grundbesitz,  während die Ararier von jeher vom ganzen Vermögen steuerten.  Bald aber ward auch für die Tribulen aus der Grund-  steuer eine Vermögenssteuer. Und hieran consequent an-  knüpfend, verband App. Claudius die persönliche Tribus  statt mit dem Grundbesitz mit dem Vermögensbesitz schlecht-  hin oder vielmehr mit dem Bürgerrecht, indem er die Ararier  in die Tribus aufnahm, sie also den Tribulen gleichstellte  (Str. II, 375). In Folge des Ediktes, dass sich jeder Bürger,  in welcher Tribus er wolle, schätzen lassen dürfe, konnte^  während früher nur der Ansässige in der Tribus seines Grund-  besitzes gestanden hatte, jetzt sowohl der Ansässige in eine  andere als auch der Nichtansässige, der bisher ausserhalb der  Tribus gestanden hatte, in jede beliebige Tribus eintreten.  Die natürliche Wirkung des Erlasses sei die gewesen, dass  sich die besitzlose, in Rom zusammengedrängte Menge über  alle Tribus verteilt habe (Rom. Trib.) : es habe sich  diese Wirkung geäussert auf Stimm-, Heer- und Steuerordnung,  in Bezug auf die erstere sowohl in den Tribut- als den Cen-  turiatcomitien. Für die Tributcomitien sei es klar , ebenso  für die (Centuriatcomitien, da jeder, der in die Tribus neu  aufgenommen werde, auch in die Centurien gelangen müsse  je nach dem Census. (Rom. Trib. Str.). Da  nun die Centurien sowohl dem Zwecke der Abstimmung als  dem des lleerdienstes dienten, so hätten die Nichtansässigen  seit App. Claudius auch ihre Stellung in der Wehrordnung.  Nur sei das letztere an einen Minimalsatz von Vermögen ge-  knüpft. Dieses, das ursprünglich, wie alle Censussätze, in Bodenmass ausgedrückt sei, könne in der Epoche des App.  Claudius nur in schweren Ass angesetzt sein, grade wie die  gesamten Censussätze (40,000, 30,000, 20,000, 10,000, 4400  Ass, letzteres der Miniraalsatz. Str)   In Bezug auf die Steuerordnung sei durch die Censur  des Appius der Vermögensbesitz schlechthin auch für die  Tribulen d. h. die Grundbesitzer als Objekt der Besteuerung  festgesetzt worden (Str. III. 249). Grade dieser Punkt ist  1^ geeignet, um mit der Kritik der Mommsenschen Ansicht ein-  zusetzen. Mommsen macht nämlich selbst den Zusatz,  dass die Censur des App. Claudius nicht wohl denkbar sei,  wenn nicht damals schon das Tributum allgemein zur Ver-  mögenssteuer geworden wäre, d. h. wenn nicht damals schon  auch die grundsässigen Leute vom ganzen Vermögen gesteuert  hätten (Str. II, 363 A. 4). Appius Claudius habe nur die  Consequenz daraus gezogen, indem er die Ärarier auch an  Rechten den Tribulen gleichstellte. Mommsen erkennt also  an, dass der faktische Gegensatz, der nach seiner Ansicht  zwischen Ärariern und Tribulen bestand, dass jene vom ganzen  Vermögen steuerten, diese nur vom Grundbesitz und also die  bessere Steuerklasse waren, schon vor der Censur des Appius  Claudius aufgehoben sei. Mindestens müsste man doch beides  als gleichzeitig ansetzen; denn die Gleichstellung in den  Pflichten gegenüber dem Staate hätte doch naturgemäss die  Gleichstellung in den Rechten zur notwendigen und sofortigen   Folge gehabt.   Aber überiiaupt steht diese Ansicht von der Tribusände-  rung des App. Claudius auf schwachen Füssen. Wie ge-  zwungen ist zunächst die Interpretation der Quellenstellen,  wenn man sie in Mommsens Sinne auflassen will. Sagt denn  Diodor oder Livius ein Wort oder liegt in ihren Notizen auch  nur eine Andeutung, dass die Massregel des App. Claudius  in der Neuaufnahme von Nichttribulen bestanden hätten?  Vv'arum hätten diese Schriftsteller, wenn sie die appianische  Massregel so aufFassten, wie Mommsen meint, nicht deutlich  gesagt, dass App. Claudius viele bisherige Nichttribulen in <lie Tribus aufnahm und dann allen Tribulen das Recht gab,  «ich in einer beliebigen Tribus schätzen zu lassen? Diodor  und Livius selbst können also die Massregel unmöglich in  Mommsens Sinne gefasst haben, denn sonst hätten sie ja,  müsste man annehmen, das Wesentliche derselben, die Neu-  aufnahme bisheriger Nichttribulen, nicht gesagt. Nein!  Beide sprechen nur von einer anderen Verteilung der Tribulen.  Es hängt diese Ansicht Mommsens, die von vielen Seiten,  nur hier und da mit nebensächlichen Abweichungen vertreten  wird (Niebuhr R. G. I, 477, ITI, 346 f. 349 — 52. Alterth.  70, 98, ist darin Mommsens Vorgänger, hat die Ansicht  nur nicht im einzelnen so genau ausgeführt. Herzog, Gesch.  und System I, 269 fl*. Ihne, Rom. Gesch. I, 366 fl*. u. a.)  eng zusammen mit seiner Auflassung vom ursprünglichen Wesen  der Tribusordnung, die wir oben widerlegt zu haben glauben.  Wie unwahrscheinlich ist es, um den oben ausgeführten Grün-  den noch eine hierhin gehörende Erwägung vom historischen  Standpunkt aus hinzuzufügen, dass eine ganze Bevölkerungs-  klasse mit einem Male in die Rechte der Vollbürger eingesetzt  sei. Denn es umfassten doch nach Mommsen die Ararier d. h.  die Nichtgrundbesitzer die ganze gewerbetreibende und die  „ganze in Rom zusammengedrängte besitzlose Menge" (R.  Trib. 153), deren Gesamtzahl doch sehr gross gewesen sein  muss, da sie durch die Verteilung auf alle Tribus in der  Mehrzahl der Tribus die Majorität erlangt hat, sodass sie  z. B. die noch nicht dagewesene Wahl eines Libertinensohnes  zum Curulaedilen durchsetzen konnte. Diese Nichtgrund-  besitzer müssen demnach nach Mommsen, da doch Centuriat-  und Tributcomitien den populus („die patriizisch - plebejische  Bürgerschaft") ausmachen, bis auf App. Claudius aus dem  Begrifl* des populus ausgeschieden werden. Die ganze grosse  Bevölkerungsklasse der Nichtansässigen lebte also Jahrhunderte  lang bis zum Jahre 310 v. Chr. ohne jede Teilnahme an  den politischen Rechten der Bürger lediglich als Steuerzahler.  Und nirgends wird von einem Versuche dieser grossen Be-  ^ölkerungsklasse, sich die politischen Vollbürgerrechte zu erringen, berichtet, wie es doch die plebs gethan hat. Erst da&  Machtedikt eines Schatzungsbeamten setzte sie in die Voll-  bürgerrechte ein. Ziehen wir hinzu, dass nirgends in unser»  Quellen weder von einer ursprünglichen Ausschliessung der  Nichtgrundbesitzer aus den Tribus, d. h. den VoUbürgerrechten^  noch von einer Neu aufnähme derselben durch Appius Clau-  dius auch nur eine Andeutung gemacht wird, so kann man  wohl das gesamte System Mommsens als hinfällig bezeichnen,  zumal wenn dessen Consequenzen, wie wir bei der Erörterung,  der Censur des Fabius darthun werden, bestimmten, von  Quellen ersten Ranges überlieferten Thatsachen widersprechen.  Ausser Diodor imd Livius erwähnen noch einige alte  Autoren die Tribusänderung des App. Claudius: Plutarch,.  Popl. 7. Val. Max. II, 2, 9. Valerius Maximus hat, wie  man auf den ersten BHck erkennt, aus Livius geschöpft und  kann, da er nichts neues beibringt, übergangen werden. Plu-  tarch sagt a. a. O. : (Ova/Joio^) rov Orndlxior t.iJ>}](pioc(ro  ngviTOv tmekevd^eimv ty,elr<n' tv 'Piöur yeviO&ai TToUxr.v xal  (fl^etv ifjijffov I] ijOv'/MiTO (f>(ita()iH :TO(K;rfiit;0ivTa. Tol^; dt  aklot^ ccTislecdiooii; oipf- y.ca uem riolvv yomov tiovoiav   Diese Stelle ist der Ausgangspunkt für die von manchen  Neueren, in einigen Variationen, vertretene Ansicht, dass die  Massregel des App. Claudius sich lediglich auf die Frei-  gelassenen bezogen habe, indem man meint, der präciseren  Angabe Plutarchs über die vom appianischen Edikt Betroffenen  vor den ungenaueren des Diodor und Livius den Vorzug geben  zu dürfen.   Madvig lässt die Freigelassenen mit der übrigen besitz-  losen hauptstädtischen Einwohnermasse von Anfang an auf  die 4 tribus urbanae beschränkt sein (Verf. u. Verw. 1, 202 f.),.  während die übrigen Bürger je nach der Lage ihres Grund-  besitzes in die Tribus eingezeichnet wären. In den städtischen Tribus hätten die Libertinen seit Ser-  vius Tullius, wie Dionys überliefere, das Stimm  recht gehabt. Zwar sei diese Beschränkung: in und wieder durchbrochen, aber immer wieder zur Geltung  gekommen und habe bestanden, so lange es Volksversamm-  lungen gegeben habe. Die erste Aufhebung dieser Beschrän-  kung sei eben das Edikt des App. Claudius, welches den  Freigelassenen den Zutritt zu allen Tribus gestattet habe.   Siebert fasst den Begrift der Leute, auf welche sich das  Edikt des App. Claudius bezogen habe, noch enger. Er  meint, es seien davon nur die grundsässigen Libertinen betroifen;  das Prinzip der Ansässigkeit für die ländlichen Tribus habe  der Censor nicht aufgehoben, sondern nur die grundsässigen  Libertinen den ingenui gleichgestellt, indem er sie und ihre  ISöhne, welche beide mit den nichtansässigen Freigelassenen  und nichtansässigen Freigebornen bisher auf die städtischen  Tribus eingeschränkt waren (S. 23 ff.), in die ländlichen Tribus  aufnahm, und zwar in diejenige, in welcher sie ansässig waren ;  in Folge dessen habe er sie auch in die Klassen und Cen-  turien aufgenommen, während sie vorher von diesen ausge-  schlossen waren und in der letzten Zusatzcenturie gestimmt  hatten. In diesem Sinne interpretiert Siebert in äusserst gezwungener Weise die Angaben aller Autoren über App.  -Claudius (l. c. S. 50 ff.). Ausgehend von der Auffassung  ;Niebuhrs über den politischen Charakter des App. Claudius  als eines streng patrizischen Politikers bringt nun Siebert die  Tribusändrung in der Weise mit den angeblich patrizischen  Tendenzen in Einklang, dass er annimmt, App. Claudius habe  die Libertinen begünstigt, um sich auf sie gegen die plebejische  Nobilität und die Coalitionspartei, deren Ziel die Verbindung er patrizischen und plebejischen Nobilität gewesen sei, zu   stützen.   Nach Lange sind unter den humiles, welche das Edikt  <les Censors betraf, sowohl die nichtansässigen Freigeborenen  als die gesamten Freigelassenen, einerlei ob ansässig oder  nicht, zu verstehen. Diese habe App. Claudius, wenn sie es  wünschten, in die Tribus des Landes eingezeichnet. Das  Prinzip der Grundsässigkeit sei also für die Tribus aufgehoben  nicht aber für die discriptio classium et centuriarum. Diese  sei von App. Claudius' Edikt nur insofern berührt, als die^  ansässigen Freigelassenen auch in die Klassen und Cen-  turien gelangt seien (Lange, Altert.). Soltau, nach  dessen Ansicht das Prinzip der Grundsässigkeit zur Zeit der  Decemvirn durchbrochen ist (Entstehung u. Zusammensetzung  der altröm. Volksversammlungen S. 477 ff.) lässt den App.  Claudius nur die Libertinen in die Tribus aufnehmen (a. a,  O. 404 ff. 606).   Diesen Ansichten gegenüber muss zunächst die Frage  aufgeworfen werden, ob der einzige Plutarch, der für gewöhn-  lich seine Nachrichten über römische Geschichte aus späten»  Quellen schöpft, das Gewicht hätte, dem Diodor und Livius  vorgezogen zu werden. Letztere können nämlich sicher nicht  die Tribusändrung des App. Claudius allein auf die Frei-  gelassenen bezogen haben. Denn es wäre doch wahrlich  wunderbar, wenn sie diese allein als vom appianischen Edikt  betroffen angenommen hätten und sich dabei so unbestimmt  ausgedrückt hätten (Diodor: ol Tiollxm. Liv. humiles), während  sie doch bei der senatus lectio des Censors die von Appius  in den Senat Aufgenommenen ganz bestimmt als Libertinen -  söhne bezeichnen. Aber sagt denn Plutarch wirklich, das&  sich die Tribusändrung des Censors allein auf die Freigelassenen,  bezogen habe? Vindicius, so berichtet er, erhielt zur Be-  lohnung von Valerius Poplicola das Bürgerrecht und die  Erlaubnis, sich eine Tribus, welcher er angehören wolle, zu  wählen ; daran knüpft er die Bemerkung : col^ (U ttlloi^ dne-  ^evd^'ciioig e^ovoiar ffi/^ipou ör^(.it(yioytov vöioi^e ^'ATiTTiot^, Das  kaim doch nicht heissen, dass App. Claudius den Freigelassenen^  das Bürgerrecht gegeben habe, da dies doch noch mehr als  das Stimmrecht umfasst, sondern es bezieht sich auf das, was-  Plutarch vom Stimmrecht des Vindicius gesagt hat; Plutarch  meint also ohne Zweifel, dass App. Claudius den Libertinen  dasselbe Stimmrecht gegeben habe, wie Valerius dem Vin-  dicius, d. h. das Recht, die Stimme in der Tribus, in welchei?.  sie wollen, abzugeben. Und so gefasst enthalten die Worte Plutarchs offenbar  Wahrheit. Denn dass die Freigelassenen zum grössten Teile  von städtischem Gewerbe lebten und unter den humiles urbam  eine grosse, wenn nicht die grösste, Anzahl ausmachten, ist  an sich schon wahrscheinlicli und folgt auch daraus, dass eme  der wichtigsten Wirkungen der appianischen Tribusänderung  die Wahl eines Libertinensoimes zur curulischen Aeddität  gewesen ist (s. unten), dass also die vom appianischen Edikt  Betroffenen vom libertinischen Element dominiert wurden.   Aber allein können die Freigelassenen nicht diejenigen  gewesen sein, auf welche sich das Edikt bezog. Das sagt  kein Schriftsteller, selbst Plutarch nicht, und es wird be-  sonders dadurch bewiesen, dass erst im 6. Jahrhundert der  Stadt ein rechtlicher Unterschied zwischen libertini und ingenui  festgesetzt wurde, indem um das Jahr 220 v. Chr. die liberum  auf die 4 tribus urbanae beschränkt wurden (Liv. Ep. 20. cf.  Mommsen, Str. III, 436 ff Madvig, Verf. und Verw. I, 203 f.).  Auch Mommsen lässt die Freigelassenen nur einen Teil  derer sein, auf welche sich die Massregel des App. Claudius  bezog, und zwar hätten sie unter den Bürgern, denen sie vor  allem zum Vorteil gereichte, an Zahl besonders hervorgeragt.  Die Libertinen, meint er (R. Trib., Str.),  hätten unter den nicht grundsässigen ohne Zweifel die erste  Stelle eingenommen, weil es ihnen bei „der noch ungebrochenen  Erbgutsqualität ^ unmöglich, wenngleich nicht verboten, ge-  wesen sei, Grundbesitz zu erwerben. Deshalb hätte die That  des Appius, die Aufhebung des Prinzipes der Grundsässigkeit  für die Personaltribus , allenfalls als Verleihung des Stimm-  rechtes an die Freigelassenen bezeichnet werden können, wie  es Plutarch thue. Es hängt diese Ansicht, wie man sieht,  eng mit der allgemeinen Auffassung Mommsens von der Tribus-  ändrung des App. Claudius zusammen.   Recapitulieren wir kurz unsere Resultate: Die Tribus-  ändrung war eine lokale Distriktseinteilung, sie war von Haus  aus dazu bestimmt, eine politische Volkseinteilujig zu sein,  d. h. sie hatte den Zweck, dass die Bürger nach ihr geordnet ihre Ptlichten und Rechte gegenüber dem Staate erfüllten.  Sie umfasste daher die gesamte Bürgerschaft (mit P]inschluss  der Freigelassenen): die Tribus in personaler Beziehung be-  zeichnete also das Bürgerrecht schlechtliin. Der Bürger war  in Bezug auf die Ausübung der Rechte, welche ihm die Tribus  gewährte, an die Tribus seines Wohnortes gebunden. Diesen  Domizilszwang für die Tribusordnung hob App. Claudius auf.  Es hatte dies die natürliche Wirkung, dass sich die in der  Stadt zusammengedrängte Masse der niedrigen Volksschichten  über alle Tribus verbreiteten, um einen ihrer Kopfzahl ent-  sprechenden Einfluss in den einzelnen Tribus zu gewinnen;  sie erhielten so' in den Tributcomitien die Oberhand und auch  in den Centuriatcomitien gewannen sie grössere Geltung.   Es haben sich Spuren in der Überlieferung erhalten, dass  die humiles von ihrem neuen Rechte, in jede beliebige Tribus  eintreten zu dürfen, ausgiebig und leidenschaftlich Gebrauch  gemacht haben, vielleicht dass sie sich planmässig über die  einzelnen Tribusbezirke verteilt haben, um in möglichst vielen  oder allen Tribus vermöge ihrer Kopfzald — und diese muss  gross gewesen sein die Majorität zu erlangen. Livius sagt: ex eo tempore (vgl. Weissenborn z. d. St.: seit  der Censur des Appius Claudius) in duas partes discessit  civitas: aliud integer populus fautor et cultor bonorum, aliud  forensis factio tenebat, doncc etc. ; es sind hier unter der  forensis factio die Leiter der Bewegung zu verstehen, welche  bezweckte, auf Grund der appianischen Tribusänderung die  humiles möglichst planmässig über die Tribus zu verteilen,  um ihnen in den meisten Tribus die Majorität zu verschaffen,  während der integer populus diejenigen bezeichnet, welchen  nichts daran lag oder liegen wollte, dass die humiles so in  ihren Rechten gefördert wurden, und welche sich daher an der  Bewegung nicht beteiligten. Die humiles, zu deren Nutzen  A.pp. Claudius sein Edikt der Tribusändrung erlassen hat,  scheinen also ihr neues Recht energisch benutzt zu haben.   Einen grossen Erfolg erreichten sie sechs Jahre nach dem  Erlass des Ediktes: sie setzten nämlich in den Tributcomitien ciie Wahl eines Libertinensohnes, des Cn. Flavius, zum curu-  lischen Aedilen durch. Dass diese Wahl mit der Censur des App.  Claudius zusammenhängt, ist sicher bezeugt (s. unten). Diodor  sagt a. a. O.: o di- drjuo^ TOthoig f-dv dvTi7TQdTT0)v (d. i. rolg  iTiKpaveOTcnoig) t(;7 di- ^Atttiui) o i luf i /.OTijiiObuerog y.a) t/]v tlov  dtoyerolr TFQOayioyj]}' ßsßcatoaai ßoch^ievog^ dyn^aroiwr eilezo  ^rjg tTiKfarearFnag ccyooavoiiiag vlor uTte/.rvd^H^no FvaTov 0l(xßiov  etc. ; und Livius : ceterum Flavium dixerat aedilem forensis  factio App. Claudii censura vires nacta. Die Nobilität hatte zwar sogleich im folgenden Jahr nach  der Abdankung des App. Claudius (d. i. im J. 307) neue  Censoren, M. Valerius und C. Junius , gewähl t, offenbar so  schnell, um die Tribusändrung des App. Claudius rückgängig  zu machen. Aber diese erreichten nichts, wir wissen nicht,  warum. Kach sehr kurzem Lustrum, drei Jahren, wählten sie  nun zwei Männer zu Censoren, welche schon als Consuln  d. J. 308 energisch gegen eine Neuerung des App. Claudius vor-  gegangen waren, den Q. Fabius und P. Decius.   Diesen gelang es auch, die Tribusändrung des App. Clau-  dius umzustossen.   Über die Censur des Q. Fabius und P. Decius ist allein  der Bericht des Livius (IX, 46) von Wert. Wir haben er-  örtert, dass der Abschnitt, in welchem Livius hiervon berichtet  (IX, 46 von ceterum bis Schluss) , aus einer andern und  besseren Quelle geschöpft ist. Valerius Maximus (II, 2, 9)  kann, weil er den Livius benutzt hat und nichts neues bei-  bringt, bei Seite gelassen werden ; ganz wertlos ist wegen ihrer  Nachlässigkeit die Angabe des Auetor de viris illustribus 32:  censor libertinos tribubus amovit.   Es heisst bei Livius a. a. O. : Fabius simul concordiae  causa simul, ne humillimorum in manu comitia essent, omnem  forensem turbam excretam in quatuor tribus coniecit urbanas-  que eas appellavit; adeoque eam rem acceptam gratis animis  ferunt, ut Maximi cognomen, quod tot victoriis non pepererat,  hac ordinum temperatione pareret. Dieser Bericht wird von den Forschern je nach ihrem  verschiedenen Standpunkt, den sie der Massregel des App^  Claudius gegenüber einnehmen, ausgelegt. Mommsen nimmt  an, dass Fabius für die seitdem sogenannten ländliclien Tribu»  den Zustand wieder eingeführt habe, der vor Appius war,  d. h. dass für sie ländlicher Grundbesitz wieder das Requisit  wurde. Die vier städtischen dagegen , in deren lokalem Be-  reich die forensis turba domiziliert war, habe er den nicht  ansässigen Bürgern überlassen und habe sie, die nicht minder  ländliche gewesen waren , deshalb die städtisclien genannt.  (R. Trib. 154.) Von Ansässigen seien vermutlich mir die  nicht zahlreichen Hausbesitzer ohne Landbesitz in den städti-  schen Tribus geblieben (Str. III, 186). Dass so in den Tribut-^  comitien das Übergewicht der ansässigen Bürger w^ieder her-  gestellt wurde, sei klar; und dafür, dass die Nichtansässigen  sich nicht aus den vier städtischen Tribus über alle Centurien  verbreiteten, habe die Machtvollkommenheit der Censoren sorgen  müssen. (R. Trib. 155. Str. III, 184 f. 269 f.).   Es steht und fällt diese Ansicht mit der Auffassung vom  Wesen der Tribus und der Änderung, die App. Claudius damit  vornahm. Aber gerade an dieser Stelle erheben sich noch  einige gewichtige Bedenken, welche das ganze Mommsensche  System treffen.   Mommsen meint, dass in den städtischen Tribus nur  Nichtansässige und höchstens w^enige städtische Hausbesitzer,  also zumeist die ärmeren und ärmsten Bürger, ständen. Es  müssen aber in ihnen Bürger aller Censusklassen gestanden  haben. Das geht deutlich aus dem Ausliebungsbericht des  Polybius hervor. Von der Aushebung sind  nach Polybius überhaupt au.sgeschlossen die Libertinen und alle,  deren Census 4000 Ass nicht erreichte. Nach dem Berichte  des Polybius werden nun die einzelnen Tribus nach dem Loose  vorgerufen imd dann für 4 Legionen je 4 und 4 ausgewählt.  Da die Dienstpflicht und die Ausrüstung sich nach dem Census  abstufte, so muss innerhalb der einzelnen Tribus die Aushebung  nach den Censusklassen stattgefunden haben. Also müssen doch alle Censusklassen in allen Tribus vertreten sein, also  auch in den städtischen (vgl. Niese, Göttinger gelehrte Anzeigen).   Auch in den städtischen Tribus müssen demnach die höchsten  Censusklassen vertreten gewesen sein. Für die spätere Zeit  ist dies wirklich nachgewiesen. Senatoren erscheinen mehrfach  in städtischen Tribus: Ein Aemilier (C. J. L.), ein  Manlier (C. J. L.), ein Nummier (C. J. L.)  in der Palatina, ein Sestius (Bull, de corr. Hellen.),  ein Coponius (Josephus, Archäol.), ein Matius^  (C. J. L.), welches sämtlich Senatoren sind (vgL  Mommsen Str. III, 788 f. Niese, Gott. Gel. Anz. a. a. O.).  Mommsen übersieht dies freilich nicht, er weiss es auch zu  erklären: In der späteren Zeit, so sagt er, sei die Bedeutung^  der Tribus ganz anders geworden, und zwar seit dem Sozial-  krieg ; sie habe seitdem eine persönliche und vom Grundbesitz  unabhängige, nur die origo d. h. die Heimatsberechtigung in  einer Vollbürgergemeinde ausdrückende Rechtsqualität be-  zeichnet. Auch auf Rom selbst sei diese neue Bedeutung^  übertragen; und als dies geschehen sei, da hätte sich ein  jeder seine Tribus wählen können oder seine frühere behalten  können. So seien die genannten Patrizier in die städtischen  gelangt: und die altadligen Manlier und AemiHer hätten füg-  lich ihrem Adelstolz durch die Wahl der Tribus des könig-  lichen Rom Ausdruck geben wollen (Str. III, 789). Die Un-  wahrscheinlichkeit steht dieser Erklärung an der Stirn  geschrieben. Wozu nimmt man eine solche Wandlung in der  Bedeutung der Tribus an, die so künstlich erklärt werden  muss, und die zu dem ganz und gar unbezeugt ist. Nach  unserer Ansicht erklärt sich der Umstand, dass später auch  die ersten Censusklassen in den städtischen Tribus vertreten  sind, einfach so, dass sie auch in früherer Zeit und von Anfang:  an darin haben stehen dürfen und gestanden haben.   Diejenigen Forscher, welche die Tribusändrung des App^  Claudius allein auf die Libertinen beziehen, müssen dasselbe^  auch von der Massregel des Fabius behaupten; sie meinem also, dass die Libertinen von Fabius auf die 4 städtischen  Tribus beschränkt seien. Auf die einzehien Variationen dieser  Ansicht (Madvig, Verf. u. Verw. Lange, Altert. Siebert, App. Claud.) und ihre Widerlegung brauche  ich nicht einzugehen, nachdem wir nachgewiesen, dass des  Appius Massregel nicht allein die Libertinen betroffen haben   kann.   Wie nun hat Q. Fabius die Tribuaiindrung des App. Claudius rückgängig gemacl\t?   Die wichtigste und den Optimaten so unangenehme Wirkung  des appianischen Edikts war die gewesen, dass die urbani  Jiumiles sich über alle Tribus verteilten und besonders die  Abstimmungen der Tributcomitien völlig in ihre Gewalt be-  kamen. Diese Wirkung musste nun ausgeglichen werden.  Und Fabius bewirkte dies dadurch, dass er den humiles nicht  mehr alle Tribus, sondern nur eine kleine Anzahl frei Hess.  Omnem forensem turbam excretam in quatuor tribus coniecit  urbanasque eas appellavit, sagt Livius. Fabius schied also  die forensis turba, die humiles aus, d. h. er schied sie aus  <ler Zahl der übrigen Tribulen und den Gesetzen, welche für  diese galten, aus, nahm ihnen das Recht, sich in jeder beliebigen  Tribus zu schätzen, und beschränkte sie auf vier Tribus, und  zwar, wie sich das natürlich ergab, auf die ihres Wohnsitzes,  die städtischen. Der Domizilszwang für die Ausübung der  Rechte, welche mit der Tribus verbunden waren, blieb nach  wie vor aufgehoben. Nur auf die humiles bezog sich das  Edikt des Fabius, während für alle andern Bürger die An-  ordnung des App. Claudius auch weiterhin zu Rechte bestand,  sodass sich dieselben also in jeder beliebigen ländlichen  oder städtischen Tribus schätzen lassen konnten , welches  letztere aber kaum vorgekommen ist, da es wertlos war. Die  Massregel bezweckte nur das Übergewicht der humiles urbani  ^u brechen, welches diese nach dem Edikt des App. Claudius  vermöge ihrer Kopfzahl in den Tributcomitien erlangt hatten,  und dies wurde dadurch erreicht, dass den humiles die vier  «tädtischen Bezirke angewiesen wurden, in welchen sie allein ihre politischen Rechte ausüben durften. Innerhalb derselben  wird dem Einzelnen die Wahl der Tribus überlassen sein^  sodass also auch für sie nicht wieder der alte Domizilszwang  für die Ausübung der politischen Rechte eingesetzt wurde.   Das Edikt des Fabius bezog sich demnach ledighch auf  die humiles urbani, deren Vorteil App. Claudius mit seiner  Tribusänderung bezweckt hatte. Aber Fabius kann unmög-  lich als die, welche sein Edikt betraf, nur ganz unbestimmt  die humiles genannt haben, er muss eine bestimmte Grenze  gezogen haben für die, welche in der Folge nur in den  städtischen Tribus ihre politischen Rechte ausüben durften.  Es ist darüber nichts überliefert. Kahe liegt die Vermutung^  dass die Beschränkung sich auf diejenigen bezog, welche den  Minimalcensus nicht erreichten. Doch ist das eine blosse  Vermutung.   Wenn Livius sagt: urbanas eas appellavit, so heisst das  nicht, dass diese Tribus vorher noch nicht bestanden hätten^  oder dass die Bezeichnung tribus urbanae von Fabius er-  funden wäre. Da aber jetzt durch ein Gesetz der in der  Stadt wohnenden niederen Volksmasse die vier städtischen  Tribus speziell angewiesen wurden, so verband sich mit dem  Begriff der tribus urbanae seitdem der Begriff der geringer  geachteten Tribus gegenüber den rusticae; und so scheint  Livius den obigen Ausdruck zu fassen: Fabius habe die  Tribus urbanae zuerst so in dem geringschätzigen Sinn ge-  nannt. Damit ist nicht ausgeschlossen, dass nicht Patrizier  oder sonstige reiche Grundbesitzer in den städtischen Tribut  nach Fabius stehen konnten. Gestattet war es nach unserer  Auffassung der Massregel des Fabius, und es ist nach den  angeführten Beispielen sicher. Vielleicht sind es solche,  welche in der Stadt wohnten und es vorzogen, ihre politischen  Rechte am Wohnort zu üben oder aus einem andern Grund.   Wie durch die Massregel des Fabius das Uebergewicht  der humiles in den Tributcomitien gebrochen wurde, ist klar.  Aber auch in weniger Centurien müssen sie verteilt sein, da.     "sie in weniger Tribus standen. Doch dies ist eben ein völlig  unbekannter Punkt (s. oben). Die Bedeutung und der Zweck der Massregel des Fabius  lag darin, dass sie das Uebergewiclit der humiles in den  meisten Tribus brach.   Und dies war eine grosse That, seitdem dieselben schon  sechs Jahre lang ihr neues Recht, sich in allen Tribus  schätzen zu lassen, gebraucht hatten. Fabius erhielt davon  den Namen des Grossen (Liv. a. a. O.).   Cap. 5.   Sonstiges über den Censor App. Claudius Caecus   und Schlussurteil.   Der Neuerungssinn unseres Censors hat sich auch auf  andern Gebieten bethätigt. Ich erwähne kurz, dass er sich  auch mit litterarischen Dingen, Eloquenz, Poesie, Grammatik,  Orthographie, befasst haben soll (Cic. Tusc., Priscian, Dig. 1, 2, 36. Hart. Cap. 1, 3, 261. vgl. Mommsen,  Rom. Forsch.).   Alsdann habe ich zwei Anordnungen des App. Claudius  über sakrale Dinge zu nennen. Die erste ist die Austreibung  der Pfeifergilde aus dem Tempel des Jupiter. Livius (X, 30)  erzählt diese heitere Geschichte genauer (vgl. Censorin. d. d.  n. 12. OVIDIO (si veda), fasti, Val. Max. II, 5, 4); man  kann aber nicht wissen, in wie weit sie historisch ist (vgl.  Mommsen, R. Forsch. Lange, Alterth. II, 78). Eine  zweite Änderung des App. Claudius im Götterkult ist die  Uebertragung des Herkuleskult von der gens der Potitier auf  Gemeindesklaven (LIVIO (si veda) cf. Festus, VARRONE (si veda), L. L., Val. Max., Macrob. Saturn.). Historisch scheint daran die Uebernahme des Her-  kuleskult von Seiten des Staates zu sein, der ihn dann durch  Staatssklaven ausüben Hess (Preller, Mjthol. 651. Marquardt,  Staatsalterth. Niebuhr, III, 362. Schwegler, R. G.).  Mit der Potitierlegende steht in unserer Ueberlieferung  unseres Censors Beiname Caecus im Zusammenhang. Die  Götter seien durch jene Massregel erzürnt , erzählt Livius  <^IX, 29), und hätten ihn einige Jahre nach seiner Censur mit  Blindheit geschlagen. Daher habe er seinen Beinamen er-  halten. Aber diese Annahme wird schon dadurch widerlegt,  •dass App. Claudius in den Fasten noch zwei Mal, i. J., als Consul erscheint (Diod.). Es ist diese  Erzählung ohne Zweifel nur ein Versuch , das Cognomen zu  erklären, der aber durch die angegebene Thatsache als falsch  "bewiesen wird; denn was CICERO (si veda) (Tusc. disp.)  sagt, APPIO (si veda) CLAUDIO habe sich, obwohl er blind gewesen sei,  keinem Amte entzogen, ist doch nicht zu glauben. Ein eben-  so zu beurteilender Erklärungsversuch des Beinamens ist die  Nachricht Diodors, dass App. Claudius ^iji; di)yf^g diioi.v^tig  xal lor icTTO r/;s' avyy.hWov ifih'.vov ev'Ucßr.^rt)^ tc oo^- tTTOirOrj  TV(fi/Mg elvai y.u) xar^ oiy.iar iiietrer. In Diodors eignen Fasten  erscheint App. Claudius i. J. 307 bereits wieder als Consul  (Nitzsch, Rom. Annal. Mommsen, Forsch.).   Die natürlichste Erklärung des Beinamens ist die , dass  man annimmt, App. Claudius sei im Alter erblindet; einige  Autoren melden dies (Liv. ep., CICERONE (si veda) de senect., Plut. Pyrrh. 18. Appian, Samn. X, 2. Dionys.); und  viele neuere Forscher folgen ihnen (vgl. dagegen Mommsen,  R. Forsch.). Sicher nachweisen lässt es sich nicht,  denn in den ältesten Annal en ist es nicht überliefert. Das  geht daraus hervor, dass der alte Gewährsmann Diodors eine  so falsche und merkwürdige Erklärung des Beinamens geben  konnte.   Die Aemter, welche App. Claudius ausser der Censur  bekleidet hat, führt sein Elogium (C. J. L. I, S. 287 N.  XXVIII) auf, welches auch einige Thaten berichtet. Es  lautet: Appius Claudius C. F. Caecus Censor. cos. bis dict.  interrex III. Pr. II. aed. cur. IL Q. Tr. mil. III complura  oppida de Samnitibus cepit, Sabinorum et Tuscorum exercitum fudit, pacem iieri cum Pyrrho prohibuit, in censura viam Appiam stravit et aquam in urbem adduxit, aedem Bellonae  facit.   Ich komme nun zu einer wichtigeren Frage, zur Erörte-  rung des Zusammenhangs der Censur des APPIO mit  der Ädihtät des Cn. Flavius im J. 304 (über die Schwierig,  keiten des chronologischen Ansatzes der Adilität vgl. Liv.  IX. 46. PLINIO (si veda), n. h. Mommsen, Chron.  Matzat, Chron. I, "266. Seeck, Kalendertafeln f. Soltau, Prolegomena zu einer röm. Chron. 4 ff.).   Cn. Flavius war der Sohn eines Freigelassenen (Diod:  TiuT{id^ (oy ()8dov'/.evy,(hü^). Als solcher ist er zuerst zu einem  curulischen Amte gelangt. Bald scheint dies öfter vorge-  kommen zu sein ; in einem Briefe Philipps V. von Makedonien  an die Larisäer (Hermes) heisst es, dass die Römer  im Unterschiede von den Griechen die freigelassenen Sklaven  zum Bürgerrecht und zu den Amtern zulassen. Cn. Flavius  verdankte seine Wahl der Tribusänderung des App. Clau-  dius. Die curulischen Adilen wurden in den Tributcomitien  gcAvählt, was bei dieser Gelegenheit zuerst erwähnt wird (Pisa  b. Gellius VII, 9. Livius IX, 40, 1 — 2, der aus Piso wört-  lich geschöpft hat). Wir haben erörtert, dass durch die appia-  nische Tribusänderung die niederen Bevölkerungsklassen das  Übergewicht in den Tributcomitien erhalten haben, sodass sie  einen solchen Erfolg, wie die Wahl eines Libertinensohnes^  zum curulischen Ädilen, erzielen konnten. Diodor und Livius  erwähnen klar genug den Zusammenhang der Tribusänderung  des App. Claudius mit der Wahl des Cn. Flavius zum  Ädilen (Diod.: o ()i- ()/;/i()s" f^;^ \i7i7iUi) oi\u(fi'/.OTtfiouf.i€vOi;  xui Ttjv diayev(^)i' 7r{iüir/vr/i]r ßeßati'lGai ßou/.uuerOi^ cr/OQm'ojnor  eilfjo etc. Liv: ceterum Flavium dixerat aedilem forensis  factio Appii Claudii censura vires nacta). App. Claudius und  Cn. Flavius haben überhaupt wahrscheinlich in nähern Be-  ziehungen zu einander gestanden. Eine Nachricht lässt den  Flavius vor seiner Aedilität Schreiber des App. Claudius sein  (Plin. a. -a. O.j. Cn. Flavius führte sein Amt ganz im Sinne  seines Meisters, des App. Claudius. Das beweisen seine  Thaten, auf die ich aber nicht einzugehen habe. Die Forscher  shid sich noch nicht einig darüber (vgl. LIVIO (si veda), CICERONE (si veda) pro Murena, PLINIO. n. h., Mommsen, Röm. Forsch. Seeck, Kalendertafeln). Ohne Zweifel ist, dass die Thaten des Cn. Flavius den-  selben demokratischen Neuerungssinn zeigen als diejenigen des  App. Claudius.   Über App. Claudius hat schon der gute Gewährsmann  Diodors dieses Urteil, tioIICc toIv TtaT^ycliov voiiliicor ly.ivr^ae.  sagt Diodor von unserm Censor. Dem gegenüber haben  einige Notizen jüngerer Autoren, woraus folgen würde, dass App.  Claudius speziell hocharistokratische Tendenzen in seiner Po-  litik verfolgt habe, kein Gewicht. Die Nachrichten des LIVIO (si veda),  App. Claudius habe i. J. 299 die lex Ogulnia, wonach vier  Pontifices und fünf Augurn aus der Plebs hinzugewählt  werden sollten, mit allen Mitteln zu vereiteln gesucht, er habe  als Kandidat für das Konsulat (nach CICERONE (si veda). Brut. als  interrex, was er i. J. 399 (LIVIO (si veda)) war,) die zweite  Konsulstelle den Patriziern zurückzugewinnen versucht, diese  Nachrichten sind, was Mommsen (R. Forsch.) dar-  gethan hat, erfunden: wer wird es glauben, dass ein Mann  wie App. Claudius, nachdem er als Censor die niederen Volks-  schichten mit seinen Massnahmen begünstigt hat, nun einige  Jahre später extrem aristokratische Tendenzen verfolgen konnte?  Offenbar sind diese Nachrichten erfunden nach dem Schema,  nach welchem alle Claudier als Volksfeinde in der jüngeren  Annalistik dargestellt sind. Unserer Ansicht nach war unser Censor ein demo-  kratischer Neuerer, ein Urteil, welches schon, wie gesagt, der  Gewährsmann Diodors gehabt hat. Er begünstigte und  förderte die niedrigen und niedrigsten Volksschichten, be-  sonders die städtische Bevölkerung^klasse , den Handelsstand  und das in ihm am meisten vertretene libertinische Element.  Dazu passt vortreff'lich , dass wir ihn als Beförderer des  griechischen Einflusses kennen lernen; und schliesslich lässt  sich in diesem Zusammenhange recht klar sein letztes politisclies Auftreten, seine bekannte Senatsrede gegen den Gresandten des Pyrrlms, verstehen. Nur in dieser Auffassung  lässt sich ein harmonisclies Bild von dem politischen Charakter  unseres Censors, von seinen politischen Absichten und Zielen  herstellen. Lebenslauf. I Icli, Theodor Ludwig Carl Sieke, Solin des Volksschulllehrers Friedrich Sieke zu Marburg, bin geboren zu Mengringhausen im Fürstentum Waldeck; Ich bekenne mich zur evangelischen Confession. Die erste  Ausbildung erhielt ich von meinem Vater, trat Ostern  in die Quarta des Marburger Gymnasiums, welches icli Ostern  mit dem Zeugniss der Reife verliess. Ich bezog als-  dann die Universität Marburg, um mich dem Studium der  '^eschichte, germanischen und klassischen Piiilologie zu  idmen. Ich hörte Vorlesungen bei den Herren Professoren  Bergmann, Birt, Caesar, Cohen, Fischer, Justi, Koch,  -enz, Lucae, Niese, Varrentrapp, Schmidt, beteiligte mich  nehrere Semester an den Uebungen der historischen Semi- liare, des althistorischen unter Leitung des Herrn Professor  Niese, des neuhistorischen unter Leitung der Herren Professoren  nz und Varrentrapp, war Mitglied des germanistischen Semi-lars des Herrn Professor Lucae und wohnte den pliilo-  Bophischen Uebungen des Herrn Professor Bergmann bei.  fm Sommer-Semester besuchte ich die Universität Berlin  md hörte dort Vorlesungen bei den Herren Professoren  Delbrück, Kiepert, Koser, Roediger, Scherer, v. Treitschke  md Zeller. Allen diesen Herren spreche ich an dieser Stelle meinen  iefsten Dank aus, besonders den Herren Professoren Niese  and Varrentrapp. I>ruck von Gebrüder Gotthelft in Casael. Gustavo Bontadini. Keywords: la neoclassica, neoclassico come concetto contradittorio o ironico -- storia della filosofia, storia della filosofia italiana, de-ellenizzazione”, appio primo filosofo romano in lingua Latina -- “conversazioni metafisiche”, “conversazione metafisica”, “gnoseologia”, “gnoseologismo”, “problematicismo”, “metafisica dell’esperienza”, ens, essential, l’essere, essere, verbo, nome, sostantivo, copula, parmenideismo, severino, la porta di Velia, Grice Vx, x izz x. Grice, RAA, Reductio ad absurdum.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bontadini” – The Swimming-Pool Library. Bontadini.

 

Grice e Bontempelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del sintomo – scuola di Pisa –filosofia pisana – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Pisa). Filosofo pisano. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Pisa, Toscana. Grice: “Bontempelli knows that the Romans never liked the Greek ‘symptom,’ but ‘coincidence’ seems weak: x means y if y coincides with x, or if x is a symptom of y.’ (‘those spots mean measles’ – and ‘dog’ means that there is a dog.”” -- “I suppose my favourite Bontempelli is his section on Roman philosophy in his history of philosophy series!” -- There is the other Massimo Bontempelli, nato a Como. Como-born Massimo Bontempelli had a son, called Massimo Bontempelli. Massimo Bontempello ha un cugino, nipotte di Massimo Bontempelli: Alessandro Bontempelli. Nato a Pisa, dopo il conseguimento della laurea in filosofia, Bontempelli dedica all'insegnamento negli istituti superiori, alla realizzazione di manuali scolastici di storia e filosofia e alla stesura di saggi di argomento filosofico. Storico di impostazione marxiana, e originale pensatore filosofico di orientamento neoidealista, realizza i suoi più importanti contributi imperniando lo studio dei processi storici attorno alla categoria di "modo di produzione". Tematizza con attenzione le strutture sociali entro i modi di produzione neo-litico, nomade-pastorale, prativo-campestre, antico-orientale, asiatico, africano, meso-americano, schiavistico, colonico, feudale e capitalistico, elaborando su queste basi una ri-costruzione della genesi sociale dei fenomeni filosofici. Rilevante è la sua interpretazione della figura storica di Gesù, ricostruita entro una totalità sociale a partire dalla analisi dell'economia pianificata del modo di produzione antico-orientale palestinese, sulla scorta di una prospettiva metodologica storico-scientifica nei confronti dei vangeli. Come storico della filosofia ha studiato in particolare il pensiero platonico, neo-platonico e la dialettica hegeliana. Come pensatore filosofico originale viene collocato da Costanzo Preve all'interno della corrente del neo-idealismo italiano, essendo il suo pensiero fortemente influenzato dalla Scienza della Logica hegeliana. Muove dalle profonde critiche al nichilismo contemporaneo e al relativismo anti-metafisico per approdare ad un tentativo di rifondazione onto-assiologica degli orizzonti di senso dell'esistenza umana sulla scorta di una indagine della natura trascendentale dell'uomo, alla luce di un superamento della polarità dualistica empiria/trascendenza. Si dedica alla critica serrata della sinistra politica e allo sviluppo del tema della decrescita.  Altre saggi: “Il senso della storia antica. Itinerari e ipotesi di studio” (Milano, Trevisini); “Antiche strutture sociali mediterranee” (Milano, Trevisini), “Storia e coscienza storica” (Milano, Trevisini); Per il triennio; “Civiltà e strutture sociali dall'antichità al medioevo” (Milano, Trevisini); “Antiche civiltà e loro documenti” (Milano, Trevisini); “Civiltà storiche e loro documenti” (Milano, Trevisini, Per il triennio); “Filosofia:  Il senso dell'essere nelle culture occidental” (Milano, Trevisini); Filosofia, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS,. [riedito nel  in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum] “Eraclito e noi”” (Milazzo, Spes); “Percorsi di verità della dialettica antica” (Milazzo, Spes); “Nichilismo, verità, storia” (Pistoia, CRT); “Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero” (Pistoia, CRT); “La conoscenza del bene e del male, Pistoia, CRT); “La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT); “Tempo e memoria, Pistoia, CRT); “Il concetto di realtà e il nichilismo contemporaneo, Pistoia, CRT); “L'agonia della scuola italiana” (Pistoia, CRT); “Un sentiero attraverso la foresta hegeliana, Pistoia, CRT); “Eraclito e noi. La modernità attraverso il prisma interpretativo eracliteo, CRT, Diciamoci la verità, "Koiné" n.6, Pistoia, CRT, Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia, L'arbitrarismo della circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, -- very Griceian: Grice: “D. K. Lewis drew his example of the arbitrariness of a convention from Massimo Bomtempelli.” Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull'ambiente di Bin Laden e su quello di Bush” (Pistoia, CRT, -- cf. Grice: “I took the example, ‘those spots mean measle’ from Bontempelli, “Il sintomo e la malattia” – “Il SINTOMO” -- [ristampato nel  dalla casa editrice Petite Plaisance] Diciamoci la verità, CRT, Pistoia); “Il respiro del Novecento. Percorso di storia” (Pistoia, CRT, Il mistero della sinistra’ (Genova, Graphos,  La Resistenza Italiana. Dall'8 settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione, Cagliari, CUEC, La sinistra rivelata” (Bolsena, Massari, Il Sessantotto. Un anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC  [ristampato nel ] Civiltà occidentale” Genova, Il Canneto,. Marx e la decrescita, Trieste, Abiblio,. Platone e i preplatonici. Morale in Grecia, introduzione di Antonio Gargano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS); “Un pensiero presente:  scritti su Indipendenza, Roma, Indipendenza Editore Francesco Labonia,. Capitalismo globalizzato e scuola, Roma, Indipendenza Editore Francesco Labonia, La sfida politica della decrescita, Roma, Aracne,. Gesù di Nazareth, Pistoia, Petite Plaisance; “Il respiro del Novecento, "Koiné" n.6, Pistoia, CRT); “Metamorfosi della scuola italiana, "Koiné" n.4, Pistoia, CRT, Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, "Koiné" n.5, Pistoia, CRT, Scienza, cultura, filosofia, "Koiné" n.8, Pistoia, CRT. I cattivi maestri, in I Forchettoni Rossi, Roberto Massari, Bolsena, Massari. Addio al professor Massimo Bontempelli, Il Tirreno.  Bontempelli individua, in diverse epoche, un feudalesimo ario, cinese, indiano, iranico del regno dei Parti, del Vicino Oriente islamico, del Ghana e infine il feudalesimo occidentale.   Gesù uomo nella storia, Dio nel pensiero (uaar)  Costanzo Preve, Ideologia italiana. Saggio sulla storia delle idee marxiste in Italia, Milano, Vangelista, 1993 (p. 201 sgg.)  Marxismo modo di produzione. Una vita semplice, una mente scintillante,Le idee forti di Massimo Bontempelli. Il bene come processo possibile concreto: natura umana e ontologia sociale.  u a  be US  (2 Se Um   %. Pr pn d Der  sd g,’ fr  Ben =  Ri  » e Wu  sIGM FREUD Hemmung, Symptom  und Angst    re et. Van A 1.1 ee ne ia he Hemmung, Symptom  und Angst von  Freud  Internationaler Psychoanalytischer Verlag  Leipzig u RE ai Zürich, Psychoanalytischer Verlag, Ges. m. b. H., Wien Druck: Elbemühl Papierfabriken und Graphische Industrie A.G.  Wien, Rüdengasse ıı I. Unser Sprachgebrauch läßt uns in der Beschreibung pathologischer Phänomene SYMPTOME und Hemmungen  unterscheiden, aber er legt diesem Unterschied nicht  viel Wert bei. Kämen uns nicht Krankheitsfälle vor,  von denen wir aussagen müssen, daß sie nur Hemmungen und keine SYMPTOME zeigen, und wollten wir  nicht wissen, was dafür die Bedingung ist, so brächten  wir kaum das Interesse auf, die Begriffe Hemmung  und SYMPTOM gegeneinander abzugrenzen. Die beiden sind nicht auf dem nämlichen Boden erwachsen. Hemmung hat eine besondere Beziehung zur Funktion und bedeutet nicht notwendig etwas Pathologisches, man kann auch eine normale Einschränkung einer Funktion eine Hemmung derselben nennen. SYMPTOM hingegen heißt soviel wie Anzeichen  eines krankhaften Vorganges. Es kann also auch eine Hemmung ein SYMPTOM sein. Der Sprachgebrauch verfährt dann so, daß er von Hemmung spricht, wo eine einfache Herabsetzung der Funktion vorliegt, von SYMPTOM [“Those spots are a symptom of measles”], wo es sich um eine ungewöhnliche Abänderung derselben oder um eine neue Leistung handelt. In vielen Fällen scheint es der Willkür überlassen, ob man die positive oder die negative Seite des pathologischen Vorgangs betonen, seinen Erfolg als SYMPTOM oder als Hemmung bezeichnen will. Das alles ist wirklich nicht interessant und die Fragestellung, von der wir ausgingen, erweist sich als wenig fruchtbar.Da die Hemmung begrifflich so innig an die Funktion geknüpft ist, kann:man auf die Idee kommen, die verschiedenen Ichfunktionen daraufhin zu untersuchen, in welchen Formen sich deren Störung bei  den einzelnen neurotischen Affektionen äußert. Wir  wählen für diese vergleichende Studie: die Sexualfunktion, das Essen, die Lokomotion und die Berufsarbeit. Die Sexualfunktion unterliegt sehr mannigfaltigen  Störungen, von denen die meisten den Charakter  einfacher Hemmungen zeigen. Diese werden als psychische Impotenz zusammengefaßt. Das Zustandekommen der normalen Sexualleistung setzt einen sehr  komplizierten Ablauf voraus, die Störung kann an  jeder Stelle desselben eingreifen. Die Hauptstationen  der Hemmung sind beim Manne: die Abwendung  der Libido zur Einleitung des Vorgangs (psychische Unlust), das Ausbleiben der physischen Vorbereitung  (Erektionslosigkeit), die Abkürzung des Aktes (Ejaculatio praecox, die ebensowohl als POSITIVES SYMPTOM beschrieben werden kann, die Aufhaltung desselben  vor dem natürlichen Ausgang, Ejakulationsmangel,  das Nichtzustandekommen des psychischen Effekts, der Lustempfindung des Orgasmus. Andere Störungen erfolgen durch die Verknüpfung der Funktion mit  besonderen Bedingungen, perverser oder fetischistischer  Natur. Eine Beziehung der Hemmung zur Angst kann  uns nicht lange entgehen. Manche Hemmungen sind  offenbar Verzichte auf Funktion, weil bei deren Ausübung Angst entwickelt werden würde. Direkte Angst  vor der Sexualfunktion ist beim Weibe häufig; wir  ordnen sie der Hysterie zu, ebenso das ABWEHRSYMPTOM des Ekels, das sich ursprünglich als nachträgliche Reaktion auf den passiv erlebten Sexualakt einstellt, später bei der Vorstellung desselben auftritt. Auch eine großse Anzahl von Zwangshandlungen erweisen sich als Vorsichten und Versicherungen gegen  sexuelles Erleben, sind also phobischer Natur. Man kommt da im Verständnis nicht sehr weit;  man merkt nur, daß sehr verschiedene Verfahren verwendet werden, um die Funktion zu stören: die  bloße Abwendung der Libido, die am ehesten zu  ergeben scheint, was wir eine reine Hemmung heißen, die Verschlechterung in der Ausführung  der Funktion, die Erschwerung derselben durch  besondere Bedingungen und ihre Modifikation durch  Ablenkung auf andere Ziele,ihre Vorbeugung durch Sicherungsmaßregeln, ihre Unterbrechung  durch Angstentwicklung, sowie sich ihr Ansatz nicht  mehr verhindern läßt, endlich eine nachträgliche REAKTION, die dagegen protestiert und das Geschehene  rückgängig machen will, wenn die Funktion doch  durchgeführt wurde.  Die häufigste Störung der Nahrungsfunktion ist  die Efunlust durch Abziehung der Libido. Auch  Steigerungen der Eßlust sind nicht selten; ein Eßzwang motiviert sich durch Angst vor dem Verhungern,  ist wenig untersucht. Als hysterische Abwehr des  Essens kennen wir das Symptom des Erbrechens.  Die Nahrungsverweigerung infolge von Angst gehört  psychotischen Zuständen an (Vergiftungswahn). Die Lokomotion wird bei manchen neurotischen  Zuständen durch Gehunlust und Gehschwäche gehemmt,  die hysterische Behinderung bedient sich der  motorischen Lähmung des Bewegungsapparates oder  schafit eine spezialisierte Aufhebung dieser einen  Funktion desselben (Abasie). Besonders charakteristisch  sind die Erschwerungen der Lokomotion durch Ein-  schaltung bestimmter Bedingungen, bei deren Nicht-  erfüllung Angst auftritt (Phobie). Die Arbeitshemmung, die so oft als isoliertes SYMPTOM Gegenstand der Behandlung wird, zeigt uns  verminderte Lust oder schlechtere Ausführung oder  Reaktionserscheinungen wie Müdigkeit (Schwindel, Er-  brechen), wenn die Fortsetzung der Arbeit erzwungen wird. Die Hysterie erzwingt die Einstellung der Arbeit  durch Erzeugung von Organ- und Funktionslähmungen,  deren Bestand mit der Ausführung der Arbeit unvereinbar ist. Die Zwangsneurose stört die Arbeit durch  fortgesetzte Ablenkung und durch den Zeitverlust bei  eingeschobenen Verweilungen und Wiederholungen.   Wir könnten diese Übersicht noch auf andere  Funktionen ausdehnen, aber wir dürfen nicht erwarten,  dabei mehr zu erreichen. Wir kämen nicht über die  Oberfläche der Erscheinungen hinaus. Entschließen wir  uns darum zu einer Auffassung, die dem Begriff der  Hemmung nicht mehr viel Rätselhaftes beläßt. Die  Hemmung ist der Ausdruck einer Funktions-  einschränkung des Ichs, die selbst sehr ver-  schiedene Ursachen haben kann. Manche der Mecha-  nismen dieses Verzichts auf Funktion und eine allgemeine Tendenz desselben sind uns wohlbekannt.   An den spezialisierten Hemmungen ist die Tendenz  leichter zu erkennen. Wenn das Klavierspielen, Schreiben  und selbst das Gehen neurotischen Hemmungen unter-  liegen, so zeigt uns die Analyse den Grund hiefür in  einer überstarken Erotisierung der bei diesen Funk-  tionen in Anspruch genommenen Organe, der Finger  und der Füße. Wir haben ganz allgemein die Einsicht  gewonnen, dafs die Ichfunktion eines Organs geschädigt  wird, wenn seine Erogeneität, seine sexuelle Bedeutung,  zunimmt. Es benimmt sich dann, wenn man den  einigermaßen skurrilen Vergleich wagen darf, wie eine Köchin, die nicht mehr am Herd arbeiten will, weil  der Herr des Hauses Liebesbeziehungen zu ihr ange-  knüpft hat. Wenn das Schreiben, das darin besteht,  aus einem Rohr Flüssigkeit auf ein Stück weißes  Papier fließen zu lassen, die symbolische Bedeutung  des Koitus angenommen hat, oder wenn das Gehen  zum symbolischen Ersatz des Stampfens auf dem Leib  der Mutter Erde geworden ist, dann wird beides,  Schreiben und Gehen, unterlassen, weil es so ist, als  ob man die verbotene sexuelle Handlung ausführen  würde. Das Ich verzichtet auf diese ihm zustehenden  Funktionen, um nicht eine neuerliche Verdrängung  vornehmen zu müssen, um einem Konflikt mit  dem Es auszuweichen. Andere Hemmungen erfolgen offenbar im Dienste  der Selbstbestrafung, wie nicht selten die der be-  ruflichen Tätigkeiten. Das Ich darf diese Dinge  nicht tun, weil sie ihm Nutzen und Erfolg bringen  würden, was das gestrenge Über-Ich versagt hat. Dann  verzichtet das Ich auch auf diese Leistungen, um  nieht in Konflikt mit dem Über-Ich zu geraten.   Die allgemeineren Hemmungen des Ichs folgen  einem einfachen anderen Mechanismus. Wenn das Ich  durch eine psychische Aufgabe von besonderer Schwere  in Anspruch genommen ist, wie z. B. durch eine  Irauer, eine großartige Affektunterdrückung, durch  die Nötigung, beständig aufsteigende sexuelle Phantasıen niederzuhalten, dann verarmt es so sehr an der  ihm verfügbaren Energie, dafs es seinen Aufwand an  vielen Stellen zugleich einschränken muß, wie ein  Spekulant, der seine Gelder in seinen Unternehmungen  immobilisiert hat. Ein lehrreiches Beispiel einer solchen  intensiven Allgemeinhemmung von kurzer Dauer konnte  ich an einem Zwangskranken beobachten, der in eine  lähmende Müdigkeit won einbis mehrtägiger Dauer  bei Anlässen verfiel, die offenbar einen Wutausbruch  hätten herbeiführen sollen. Von hier aus mufß auch  ein Weg zum Verständnis der Allgemeinhemmung zu  finden sein, durch die sich die Depressionszustände  und der schwerste derselben, die Melancholie, kenn-  zeichnen.  Man kann also abschließend über die Hemmungen  sagen, sie seien Einschränkungen der Ichfunktionen,  entweder aus Vorsicht oder infolge von Energie-  verarmung. Es ist nun leicht zu erkennen, worin  sich die Hemmung vom Symptom unterscheidet. Da  Symptom kann nicht mehr als ein Vorgang in oder  am.Ich beschrieben werden. Die Grundzüge der SYMPTOMBILDUNG sind längst  studiert und in hoffentlich unanfechtbarer Weise aus-  gesprochen worden. Das SYMPTOM sei Anzeichen und  Ersatz einer unterbliebenen Triebbefriedigung, ein Erfolg  des Verdrängungsvorganges. Die Verdrängung geht  vom Ich aus, das, eventuell im Auftrage des Über-  Ichs, eine im Es angeregte Triebbesetzung nicht mitmachen will. Das Ich erreicht durch die Verdrängung,  daß die Vorstellung, welche der Träger der unliebsamen Regung war, vom Bewußtwerden abgehalten  wird. Die Analyse weist oftmals nach, daß sie als unbewußste Formation erhalten geblieben ist. So weit  wäre es klar, aber bald beginnen die unerledigten  Schwierigkeiten. Unsere bisherigen Beschreibungen des Vorganges  bei der Verdrängung haben den Erfolg der Abhaltung  vom Bewußtsein nachdrücklich betont, aber in anderen  Punkten Zweifel offen gelassen. Es entsteht die Frage,  was ist das Schicksal der im Es aktivierten Triebregung, die auf Befriedigung abzielt? Die Antwort  war eine indirekte, sie lautete, durch den Vorgang der  Verdrängung werde die zu erwartende Befriedigungs-  lust in Unlust verwandelt, und dann stand man vor  dem Problem, wie Unlust das Ergebnis einer Triebbefriedigung sein könne. Wir hoffen den Sachverhalt  zu klären, wenn wir die bestimmte Aussage machen,  der im Es beabsichtigte Erregungsablauf komme infolge  der Verdrängung überhaupt nicht zustande, es gelingt  dem Ich, ihn zu inhibieren oder abzulenken. Dann  entfällt das Rätsel der Affektverwandlung bei der  Verdrängung. Wir haben aber damit dem Ich das  Zugeständnis gemacht, daß es einen so weitgehenden  Einfluß auf die Vorgänge im Es äußern kann, und  sollen verstehen lernen, auf welchem Wege ihm diese  überraschende Machtentfaltung möglich wird.   Ich glaube, dieser Einfluß fällt dem Ich zu infolge  seiner innigen Beziehungen zum Wahrnehmungssystem,  die ja sein Wesen ausmachen und der Grund seiner  Differenzierung vom Es geworden sind. Die Funktion  dieses Systems, das wir W-Bw genannt haben, ist mit  dem Phänomen des Bewußstseins verbunden; es empfängt  Erregungen nicht nur von außen, sondern auch von  innen her und mittels der Lust-Unlustempfindungen,  die es von daher erreichen, versucht es, alle Abläufe  des seelischen Geschehens im Sinne des Lustprinzips  zu lenken. Wir stellen uns das Ich so gerne als ohn-  mächtig gegen das Es vor, aber wenn es sich gegen einen Triebvorgang im Es sträubt, so braucht es blof3  ein Unlustsignal zu geben, um seine Absicht durch  die Hilfe der beinahe allmächtigen Instanz des Lust-  prinzips zu erreichen. Wenn wir diese Situation für  einen Augenblick isoliert betrachten, können wir sie  durch ein Beispiel aus einer anderen Sphäre illustrieren.  In einem Staate wehre sich eine gewisse Clique gegen  eine Mafsregel, deren Beschluß den Neigungen der  Masse entsprechen würde. Diese Minderzahl bemächtigt  sich dann der Presse, bearbeitet durch sie die souve-  räne „Öffentliche Meinung“ und setzt es so durch,  daf$ der geplante Beschluf3 unterbleibt.   An die eine Beantwortung knüpfen weitere Frage-  stellungen an. Woher rührt die Energie, die zur Erzeugung des Unlustsignals verwendet wird? Hier weist  uns die Idee den Weg, daß die Abwehr eines un-  erwünschten Vorganges im Inneren nach dem Muster  der Abwehr gegen einen äußeren Reiz geschehen  dürfte, daß das Ich den gleichen Weg der Verteidi-  gung gegen die innere wie gegen die äußere Gefahr  einschlägt. Bei äußerer Gefahr unternimmt das  organische Wesen einen Fluchtversuch, es zieht zunächst die Besetzung von der Wahrnehmung des  Gefährlichen ab; später erkennt es als das wirk-  samere Mittel, solche Muskelaktionen vorzunehmen,  dafs die Wahrnehmung der Gefahr, auch wenn man  sie nicht verweigert, unmöglich wird, also sich dem  Wirkungsbereich der Gefahr zu entziehen. Einem solchen Fluchtversuch gleichwertig ist auch die Verdrängung. Das Ich zieht die (vorbewußte) Besetzung  von der zu verdrängenden Triebrepräsentanz ab und  verwendet sie für die Unlust-(Angst-)Entbindung. Das  Problem, wie bei der Verdrängung die Angst entsteht,  mag kein einfaches sein; immerhin hat man das Recht,  an der Idee festzuhalten, daß das Ich die eigentliche  Angststätte ist, und die frühere Auffassung zurück-  zuweisen, die Besetzungsenergie der verdrängten Regung  werde automatisch in Angst verwandelt. Wenn ich  mich früher einmal so geäußert habe, so gab ich  eine phänomenologische Beschreibung, nicht eine meta-  psychologische Darstellung.   Aus dem Gesagten leitet sich die neue Frage ab,  wie es ökonomisch möglich ist, daß ein bloßer Abziehungs- und Abfuhrvorgang wie beim Rückzug der  vorbewufßsten Ichbesetzung Unlust oder Angst erzeugen  könne, die nach unseren Voraussetzungen nur Folge  gesteigerter Besetzung sein kann. Ich antworte, diese  Verursachung soll nicht ökonomisch erklärt werden,  die Angst wird bei der Verdrängung nicht neu erzeugt,  sondern als Affektzustand nach einem vorhandenen  Erinnerungsbild reproduziert. Mit der weiteren Frage  nach der Herkunft dieser Angst, wie der Affekte  überhaupt, verlassen wir aber den unbestritten  psychologischen Boden und betreten das Grenzgebiet  der Physiologie. Die Affektzustände sind dem Seelen-  leben als Niederschläge uralter traumatischer Erlebnisse einverleibt und werden in ähnlichen Situationen  wie Erinnerungssymbole wachgerufen. Ich meine, ich  hatte nicht Unrecht, sie den spät und individuell erwor-  benen hysterischen Anfällen gleichzusetzen und als  deren Normalvorbilder zu betrachten. Beim Menschen  und ihm verwandten Geschöpfen scheint der Geburts-  akt als das erste individuelle Angsterlebnis dem Aus-  druck des Angstaffekts charakteristische Züge geliehen  zu haben. Wir sollen aber diesen Zusammenhang nicht  überschätzen und in seiner Anerkennung nicht übersehen, daß ein Affektsymbol für die Situation der  Gefahr eine biologische Notwendigkeit ist und auf  jeden Fall geschaffen worden wäre, Ich halte es auch  für unberechtigt anzunehmen, daß bei jedem Angst-  ausbruch etwas im Seelenleben vor sich geht, was  einer Reproduktion der Geburtssituation gleichkommt.  Es ist nicht einmal sicher, ob die hysterischen Anfälle,  die ursprünglich solche traumatische Reproduktionen  sind, diesen Charakter dauernd bewahren.   Ich habe an anderer Stelle ausgeführt, daß die  meisten Verdrängungen, mit denen wir bei der  therapeutischen Arbeit zu tun bekommen, Fälle von  Nachdrängen sind. Sie setzen früher erfolgte  Urverdrängungen voraus, die auf die neuere  Situation ihren anziehenden Einfluß ausüben. Von  diesen Hintergründen und Vorstufen der Verdrängung  ist noch viel zu wenig bekannt. Man kommt leicht  in Gefahr, die Rolle des Über-Ichs bei der Verdrängung zu überschätzen. Man kann es derzeit nicht  beurteilen, ob etwa das Auftreten des Über-Ichs die Abgrenzung zwischen Urverdrängung und Nachdrängen  schafft. Die ersten, sehr intensiven,  Angstaus-  brüche erfolgen jedenfalls vor der Differenzierung des  Über-Ichs. Es ist durchaus plausibel, daß quantitative  Momente, wie die übergroße Stärke der Erregung  und der Durchbruch des Reizschutzes, die nächsten  Anlässe der Urverdrängungen sind.   Die Erwähnung des Reizschutzes mahnt uns wie  ein Stichwort, daß die Verdrängungen in zwei unter-  schiedenen Situationen auftreten, nämlich wenn eine  unliebsame Triebregung durch eine äußere Wahr-  nehmung wachgerufen wird, und wenn sie ohne solche  Provokation im Innern auftaucht. Wir werden später  auf diese Verschiedenheit zurückkommen. Reizschutz  gibt es aber nur gegen äußere Reize, nicht gegen  innere Triebansprüche.   Solange wir den Fluchtversuch des Ichs studieren,  bleiben wir der SYMPTOMbildung ferne. Das SYMPTOM  entsteht aus der durch die Verdrängung beeinträch-  tisten Triebregung. Wenn das Ich durch die Inan-  spruchnahme des Unlustsignals seine Absicht erreicht,  die Triebregung völlig zu unterdrücken, erfahren wir  nichts darüber, wie das geschieht. Wir lernen nur  aus den Fällen, die als mehr oder minder mißglückte  Verdrängungen zu bezeichnen sind.   Dann stellt essich im Allgemeinen so dar, dafs die Triebregung zwar trotz der Verdrängung einen Ersatz  gefunden hat, aber einen stark verkümmerten, ver-  schobenen, gehemmten. Er ist auch als Befriedigung  nicht mehr kenntlich. Wenn er vollzogen wird, kommt  keine Lustempfindung zustande, dafür hat dieser  Vollzug den Charakter des Zwanges angenommen.  Aber bei dieser Erniedrigung des Befriedigungs-  ablaufes zum SYMPTOM zeigt die Verdrängung ihre  Macht noch in einem anderen Punkte. Der Ersatz-  vorgang wird wo möglich von der Abfuhr durch die  Motilität ferngehalten; auch wo dies nicht gelingt,  mufS er sich in der Veränderung des eigenen Körpers  erschöpfen und darf nicht auf die Außenwelt übergreifen; es wird ihm verwehrt, sich in Handlung um-  zusetzen. Wir verstehen, bei der Verdrängung arbeitet  das Ich unter dem Einfluß der äußeren Realität und  schließt darum den Erfolg des Ersatzvorganges von  dieser Realität ab.   Das Ich beherrscht den Zugang zum Bewußtsein  wie den Übergang zur Handlung gegen die Außen-  welt; in der Verdrängung betätigt es seine Macht  nach beiden Richtungen. Die Triebrepräsentanz  bekommt die eine, die Triebregung selbst die andere  Seite seiner Kraftäußerung zu spüren. Da ist es denn  am Platze, sich zu fragen, wie diese Anerkennung der  Mächtigkeit des Ichs mit der Beschreibung zusammen-  kommt, die wir in der Studie „Das Ich und das Es“  von der Stellung desselben Ichs entworfen haben.  Wir haben dort die Abhängigkeit des Ichs vom Es  wie vom Über-Ich geschildert, seine Ohnmacht und  Angstbereitschaft gegen beide, seine mühsam aufrecht  erhaltene Überheblichkeit entlarvt. Dieses Urteil hat  seither einen starken Widerhall in der psychoanaly-  tischen Literatur gefunden. Zahlreiche Stimmen  betonen eindringlich die Schwäche des Ichs gegen  das Es, des Rationellen gegen das Dämonische in uns  und schicken sich an, diesen Satz zu einem Grund-  pfeiler einer psychoanalytischen Weltanschauung zu  machen. Sollte nicht die Einsicht in die Wirkungs-  weise der Verdrängung gerade den Analytiker von so  extremer Parteinahme zurückhalten?   Ich bin überhaupt nicht für die Fabrikation von  Weltanschauungen. Die überlasse man den Philosophen,  die eingestandenermafßsen die Lebensreise ohne einen  solchen Baedeker, der über alles Auskunft gibt,  nicht ausführbar finden. Nehmen wir demütig die  Verachtung auf uns, mit der die Philosophen vom  Standpunkt ihrer höheren Bedürftigkeit auf uns herabschauen. Da auch wir unseren narzißtischen Stolz  nicht verleugnen können, wollen wir unseren Trost in  der Erwägung suchen, daß alle diese Lebensführer rasch veralten, daß es gerade unsere kurzsichtig  beschränkte Kleinarbeit ist, welche deren Neuauflagen  notwendig macht, und daß selbst die modernsten  dieser Baedeker Versuche sind, den alten, so bequemen und so vollständigen Katechismus zu ersetzen.  Wir wissen genau, wie wenig Licht die Wissenschaft  bisher über die Rätsel dieser Welt verbreiten konnte;  alles Poltern der Philosophen kann daran nichts  ändern, nur geduldige Fortsetzung der Arbeit, die  alles der einen Forderung nach Gewißheit unter-  ordnet, kann langsam Wandel schaffen. Wenn der  Wanderer in der Dunkelheit singt, verleugnet er  seine Ängstlichkeit, aber er sieht darum um nichts  heller. Um zum Problem des Ichs zurückzukehren: Der  Anschein des Widerspruchs kommt daher, daf wir  Abstraktionen zu starr nehmen und aus einem kom-  plizierten Sachverhalt bald die eine, bald die andere  Seite allein herausgreifen. Die Scheidung des Ichs  vom Es scheint gerechtfertigt, sie wird uns durch  bestimmte Verhältnisse aufgedrängt. Aber anderseits  ist das Ich mit dem Es identisch, nur ein besonders  differenzierter Anteil desselben. Stellen wir dieses  Stück in Gedanken dem Ganzen gegenüber, oder hat  sich ein wirklicher Zwiespalt zwischen den beiden  ergeben, so wird uns die Schwäche dieses Ichs offenbar. Bleibt das Ich aber mit dem Es verbunden, von  ihm nicht unterscheidbar, so zeigt sich seine Stärke.  Ähnlich ist das Verhältnis des Ichs zum Über-Ich; für  viele Situationen fließen uns die beiden zusammen,  meistens können wir sie nur unterscheiden, wenn sich  eine Spannung, ein Konflikt zwischen ihnen hergestellt  hat. Für den Fall der Verdrängung wird die Tatsache entscheidend, daß das Ich eine Organisation ist,  das Es aber keine; das Ich ist eben der organi-  sierte Anteil des Es. Es wäre ganz ungerechtfertigt,  wenn man sich vorstellte, Ich und Es seien wie zwei  verschiedene Heerlager ; durch die Verdrängung suche  das Ich ein Stück des Es zu unterdrücken, nun  komme das übrige Es dem Angegriffenen zu Hilfe  und messe seine Stärke mit der des Ichs. Das mag  oft zustande kommen, aber es ist gewifs nicht die  Eingangssituation der Verdrängung; in der Regel  bleibt die zu verdrängende Triebregung isoliert. Hat  der Akt der Verdrängung uns die Stärke des Ichs  gezeigt, so legt er doch in einem auch Zeugnis ab für  dessen Ohnmacht und für die Unbeeinflußbarkeit der  einzelnen Triebregung des Es. Denn der Vorgang,  der durch die Verdrängung zum SYMPTOM geworden  ist, behauptet nun seine Existenz außerhalb der  Ichorganisation und unabhängig von ihr. Und nicht er  allein, auch alle seine Abkömmlinge genießen das-  selbe Vorrecht, man möchte sagen: der Extraterritorialität, und wo sie mit Anteilen der Ichorganisation  assoziativ zusammentreffen, wird es fraglich, ob sie  diese nicht zu sich herüberziehen und sich mit diesem  Gewinn auf Kosten des Ichs ausbreiten werden. Ein  uns längst vertrauter Vergleich betrachtet das SYMPTOM  als einen Fremdkörper, der unaufhörlich Reiz- und  Reaktionserscheinungen in dem Gewebe unterhält,  in das er sich eingebettet hat. Es kommt zwar vor, daß der Abwehrkampf gegen die unliebsame  Triebregung durch die SYMPTOMbildung abgeschlossen  wird; soweit wir sehen, ist dies am ehesten bei der  hysterischen Konversion möglich, aber in der Regel  ist der Verlauf ein anderer; nach dem ersten Akt  der Verdrängung folgt ein langwieriges oder nie zu  beendendes Nachspiel, der Kampf gegen die Trieb-  regung findet seine Fortsetzung in dem Kampf gegen  das SYMPTOM. Dieser sekundäre Abwehrkampf zeigt uns zwei  Gesichter — mit widersprechendem Ausdruck. Einer-  seits wird das Ich durch seine Natur genötigt, etwas  zu unternehmen, was wir als Herstellungs- oder Versöhnungsversuch beurteilen müssen. Das Ich ist eine  Organisation, es beruht auf dem freien Verkehr und  der Möglichkeit gegenseitiger Beeinflussung unter all  seinen Bestandteilen, seine desexualisierte Energie bekundet ihre Herkunft noch in dem Streben nach Bindung  und Vereinheitlichung und dieser Zwang zur Synthese  nimmt immer mehr zu, je kräftiger sich das Ich entwickelt. So wird es verständlich, daß das Ich auch versucht, die Fremdheit und Isolierung des SYMPTOMs  aufzuheben, indem es alle Möglichkeiten ausnützt, es  irgendwie an sich zu binden und durch solche Bande  seiner Organisation einzuverleiben. Wir wissen, daß  ein solches Bestreben bereits den Akt der SYMPTOM-  bildung beeinflußt. Ein klassisches Beispiel dafür sind  jene hysterischen SYMPTOMe, die uns als Kompromifszwischen Befriedigungs- und Strafbedürfnis durchsichtig  geworden sind. Als Erfüllungen einer Forderung des  Über-Ichs haben solche SYMPTOMe von vorneherein  Anteil am Ich, während sie anderseits Positionen des  Verdrängten und Einbruchsstellen desselben in die  Ichorganisation bedeuten; sie sind sozusagen Grenz-stationen mit gemischter Besetzung. Ob alle primären  hysterischen SYMPTOMe so gebaut sind, verdiente  eine sorgfältige Untersuchung. Im weiteren Verlaufe  benimmt sich das Ich so, als ob es von der Er-  wägung geleitet würde: das SYMPTOM ist einmal da  und kann nicht beseitigt werden; nun heißt es, sich  mit dieser Situation befreunden und den größtmög-  lichen Vorteil aus ihr ziehen. Es findet eine Anpassung  an das ichfremde Stück der Innenwelt statt, das  durch das SYMPTOM repräsentiert wird, wie sie das  Ich sonst normalerweise gegen die reale Außenwelt  zustande bringt. An Anlässen hiezu fehlt es nie. Die  Existenz des Symptoms mag eine gewisse Behinde-  rung der Leistung mit sich bringen, mit der man eine  Anforderung des Über-Ichs beschwichtigen oder einen  Anspruch der Außenwelt zurückweisen kann. So wird  das Symptom allmählich mit der Vertretung wichtiger  Interessen betraut, es erhält einen Wert für die  Selbstbehauptung, verwächst immer inniger mit dem  Ich, wird ihm immer unentbehrlicher. Nur in ganz  seltenen Fällen kann der Prozeß der Einheilung eines  Fremdkörpers etwas ähnliches wiederholen. Man kann die Bedeutung dieser sekundären Anpassung an das  Symptom auch übertreiben, indem man aussagt, das  Ich habe sich das Symptom überhaupt nur ange-  schafft, um dessen Vorteile zu genießen. Das ist  dann so richtig oder so falschh wie wenn man die  Ansicht vertritt, der Kriegsverletzte habe sich das  Bein nur abschießen lassen, um dann arbeitsfrei von  seiner Invalidenrente zu leben.   Andere Symptomgestaltungen, die der Zwangs-  neurose und der Paranoia, bekommen einen hohen  Wert für das Ich, nicht weil sie ihm Vorteile, sondern  weil sie ihm eine sonst entbehrte narzißtische  Befriedigung bringen. Die Systembildungen der Zwangs-  neurotiker schmeicheln ihrer Eigenliebe durch die  Vorspiegelung, sie seien als besonders reinliche oder  gewissenhafte Menschen besser als andere; die Wahn-  bildungen der Paranoia eröffnen dem Scharfsinn und  der Phantasie dieser Kranken ein Feld zur Betätigung,  das ihnen nicht leicht ersetzt werden kann. Aus all  den erwähnten Beziehungen resultiert, was uns als  der (sekundäre) Krankheitsgewinn der Neurose  bekannt ist. Er kommt dem Bestreben des Ichs, sich  das Symptom einzuverleiben, zu Hilfe und verstärkt  die Fixierung des letzteren. Wenn wir dann den Ver-  such machen, dem Ich in seinem Kampf gegen das  Symptom analytischen Beistand zu leisten, finden wir  diese versöhnlichen Bindungen zwischen Ich und  Symptom auf der Seite der Widerstände wirksam. Es wird uns nicht leicht gemacht, sie zu lösen. Die beiden  Verfahren, die dasIch gegen das Symptom anwendet,  stehen wirklich in Widerspruch zu einander.   Das andere Verfahren hat weniger freundlichen  Charakter, es setzt die Richtung der Verdrängung  fort. Aber es scheint, daß wir das Ich nicht mit dem  Vorwurf der Inkonsequenz belasten dürfen. Das Ich ist  friedfertig und möchte sich das Symptom einverleiben,  es in sein Ensemble aufnehmen. Die Störung geht  vom Symptom aus, das als richtiger Ersatz und  Abkömmling der verdrängten Regung deren Rolle  weiterspielt, deren Befriedigungsanspruch immer wieder  erneuert und so das Ich nötigt, wiederum das Unlust-  signal zu geben und sich zur Wehre zu setzen.   Der sekundäre Abwehrkampf gegen das Symptom  ist vielgestaltig, spielt sich auf verschiedenen Schau-  plätzen ab und bedient sich mannigfaltiger Mittel.  Wir werden nicht viel über ihn aussagen können, wenn  wir nicht die einzelnen Fälle der Symptombildung  zum Gegenstand der Untersuchung nehmen. Dabei  werden wir Anlaß finden, auf das Problem der Angst  einzugehen, das wir längst wie im Hintergrunde lauernd  verspüren. Es empfiehlt sich, von den Symptomen,  welche die hysterische Neurose schafft, auszugehen;  auf die Voraussetzungen der Symptombildung bei der  Zwangsneurose, Paranoia und anderen Neurosen sind  wir noch nicht vorbereitet. IV Der erste Fall, den wir betrachten, sei der einer  infantilen hysterischen Tierphobie, also z.B. der gewifs  in allen Hauptzügen typische Fall der Pferdephobie  des ‚ Kleinen Hans‘. Schon der erste Blick läßt uns  erkennen, daß die Verhältnisse eines realen Falles  von neurotischer Erkrankung weit komplizierter sind  als unsere Erwartung, solange wir mit Abstraktionen  arbeiten, sich vorstellt. Es gehört einige Arbeit dazu,  sich zu orientieren, welches die verdrängte Regung,  was ihr Symptomersatz ist, wo das Motiv der Verdrängung kenntlich wird. Der kleine Hans weigert sich, auf die Straße zu  gehen, weil er Angst vor dem Pferd hat. Dies ist  der Rohstoff. Was ist nun daran das Symptom: die  Angstentwicklung, die Wahl des Angstobjekts, oder  der Verzicht auf die freie Beweglichkeit, oder mehreres  davon zugleich? Wo ist die Befriedigung, die er sich  versagt? Warum muß er sich diese versagen? Siehe: Analyse der Phobie eines fünfjährigen Knaben. (Ges.  Schriften) Es liegt nahe zu antworten, an dem Falle sei  nicht so viel rätselhaft. Die unverständliche Angst  vor dem Pferd ist das Symptom, die Unfähigkeit, auf  die Straße zu gehen, ist eine Hemmungserscheinung,  eine Einschränkung, die sich das Ich auferlegt, um  nicht das Angstsymptom zu wecken. Man sieht ohne  weiteres die Richtigkeit der Erklärung des letzten  Punktes ein und wird nun diese Hemmung bei der  weiteren Diskussion außer Betracht lassen. Aber die  erste flüchtige Bekanntschaft mit dem Falle lehrt uns  nicht einmal den wirklichen Ausdruck des vermeint-  lichen Symptoms kennen. Es handelt sich, wie wir  bei genauerem Verhör erfahren, gar nicht um eine  unbestimmte Angst vor dem Pferd, sondern um die  bestimmte ängstliche Erwartung: das Pferd werde ihn  beifsen. Allerdings sucht sich dieser Inhalt dem Bewußt-  sein zu entziehen und sich durch die unbestimmte  Phobie, in der nur noch die Angst und ihr Objekt  vorkommen, zu ersetzen. Ist nun etwa dieser Inhalt  der Kern des Symptoms?   Wir kommen keinen Schritt weiter, so lange  wir nicht die ganze psychische Situation des Kleinen  in Betracht ziehen, wie sie uns während der  analytischen Arbeit enthüllt wird. Er befindet sich  in der eifersüchtigen und feindseligen Ödipusein-  stellung zu seinem Vater, den er doch, so weit die  Mutter nicht als Ursache der Entzweiung in Betracht  kommt, herzlich liebt. Also ein Ambivalenzkonflikt, gut begründete Liebe und nicht minder berech-  tigter Haß, beide auf dieselbe Person gerichtet.  Seine Phobie muß ein Versuch zur Lösung dieses  Konflikts sein. Solche Ambivalenzkonflikte sind sehr  häufig, wir kennen einen anderen typischen Ausgang  derselben. Bei diesem wird die eine der beiden mit-  einander ringenden Regungen, in der Regel die zärt-  liche, enorm verstärkt, die andere verschwindet. Nur  das Übermaß und das Zwangsmäßige der Zärtlichkeit  verrät uns, daf3 diese Einstellung nicht die einzig  vorhandene ist, daß sie ständig auf der Hut ist, ihr  Gegenteil in Unterdrückung zu halten, und läßt uns  einen Hergang konstruieren, den wir als Verdrängung  durch Reaktionsbildung (im Ich) beschreiben.  Fälle wie der kleine Hans zeigen nichts von solcher  Reaktionsbildung; es gibt offenbar verschiedene Wege,  die aus einem Ambivalenzkonflikt herausführen.  Etwas anderes haben wir unterdes mit Sicherheit  erkannt. Die Triebregung, die der Verdrängung unter-  liegt, ist ein feindseliger Impuls gegen den Vater.  Die Analyse lieferte uns den Beweis hiefür, während  sie der Herkunft der Idee des beifßenden Pferdes  nachspürte. Hans hat ein Pferd fallen gesehen, einen  Spielkameraden fallen und sich verletzen, mit dem er  Pferd gespielt hatte. Sie hat uns das Recht  gegeben, bei Hans eine Wunschregung zu konstruieren,  die gelautet hat, der Vater möge hinfallen, sich  beschädigen wie das Pferd und der Kamerad. Beziehungen zu einer beobachteten Abreise lassen ver-  muten, daß der Wunsch nach der Beseitigung des  Vaters auch minder zaghaften Ausdruck gefunden  hat. Ein solcher Wunsch ist aber gleichwertig mit  der Absicht, ihn selbst zu beseitigen, mit der mör-  derischen Regung des Ödipuskomplexes. Von dieser verdrängten Triebregung führt bis jetzt  kein Weg zu dem Ersatz für sie, den wir in der  Pferdephobie vermuten. Vereinfachen wir nun die  psychische Situation des kleinen Hans, indem wir  das infantile Moment und die Ambivalenz wegräumen;  er sei etwa ein jüngerer Diener in einem Haushalt,  der in die Herrin verliebt ist und sich gewisser  Gunstbezeugungen von ihrer Seite erfreue. Erhalten  bleibt, dafß er den stärkeren Hausherrn haßt und ihn  beseitigt wissen möchte; dann ist es die natürlichste  Folge dieser Situation, daß er die Rache dieses Herrn  fürchtet, daß sich bei ihm ein Zustand von Angst vor  diesem einstellt — ganz ähnlich wie die Phobie des  kleinen Hans vor dem Pferd. Das heißt, wir können  die Angst dieser Phobie nicht als Symptom bezeichnen;  wenn der kleine Hans, der in seine Mutter verliebt  ist, Angst vor dem Vater zeigen würde, hätten wir  kein Recht, ihm eine Neurose, eine Phobie, zuzu-  schreiben. Wir hätten eine durchaus begreifliche  affektive Reaktion vor uns. Was diese zur Neurose  macht, ist einzig und allein ein anderer Zug, die  Ersetzung des Vaters durch das Pferd. Diese Verschiebung stellt also das her, was auf den Namen  eines Symptoms Anspruch hat. Sie ist jener andere  Mechanismus, der die Erledigung des Ambivalenzkonflikts ohne die Hilfe der Reaktionsbildung gestattet.  Ermöglicht oder erleichtert wird sie durch den Um-  stand, daß die mitgeborenen Spuren totemistischer  Denkweise in diesem zarten Alter noch leicht zu  beleben sind. Die Kluft zwischen Mensch und Tier  ist noch nicht anerkannt, gewif3 nicht so überbetont  wie später. Der erwachsene, bewunderte, aber auch  gefürchtete Mann steht noch in einer Reihe mit dem  großen Tier, das man um so vielerlei beneidet, vor  dem man aber auch gewarnt worden ist, weil es  gefährlich werden kann. Der Ambivalenzkonflikt wird  also nicht an derselben Person erledigt, sondern gleich-  sam umgangen, indem man einer seiner Regungen  eine andere Person als Ersatzmann unterschiebt.  Soweit sehen wir ja klar, aber in einem anderen  Punkte hat uns die Analyse der Phobie des kleinen  Hans eine volle Enttäuschung gebracht. Die Entstellung,  in der die Symptombildung besteht, wird gar nicht  an der Repräsentanz (dem Vorstellungsinhalt) der zu  verdrängenden Triebregung vorgenommen, sondern  an einer davon ganz verschiedenen, die nur einer  Reaktion auf das eigentlich Unliebsame entspricht.  Unsere Erwartung fände eher Befriedigung, wenn  der kleine Hans an Stelle seiner Angst vor dem  Pferd eine Neigung entwickelt hätte, Pferde zu mißshandeln, sie zu schlagen, oder deutlich seinen Wunsch  kundgegeben hätte, zu sehen, wie sie hinfallen, zu  Schaden kommen, eventuell unter Zuckungen verenden  (das Krawallmachen mit den Beinen). Etwas der Art  tritt auch wirklich während seiner Analyse auf, aber  es steht lange nicht voran in der Neurose und  — sonderbar wenner wirklich solche Feindseligkeit,  nur gegen das Pferd, anstatt gegen den Vater gerichtet,  als Hauptsymptom entwickelt hätte, würden wir gar  nicht geurteilt haben, er befinde sich in einer Neurose.  Etwas ist also da nicht in Ordnung, entweder an  unserer Auffassung der Verdrängung oder in unserer  Definition eines Symptoms. Eines fällt uns natürlich sofort  auf: Wenn der kleine Hans wirklich ein solches Ver-  halten gegen Pferde gezeigt hätte, so wäre ja der  Charakter der anstößigen, aggressiven Triebregung  durch die Verdrängung gar nicht verändert, nur deren  Objekt gewandelt worden.   Es ist ganz sicher, daß es Fälle von Verdrängung  gibt, die nicht mehr leisten als dies; bei der Genese  der Phobie des kleinen Hans ist aber mehr geschehen.  Um wieviel mehr, erraten wir aus einem anderen  Stück Analyse.   Wir haben bereits gehört, daß der kleine Hans  als den Inhalt seiner Phobie die Vorstellung angab,  vom Pferd gebissen zu werden. Nun haben wir.später  Einblick in die Genese eines anderen Falles von Tier-  phobie bekommen, in der der Wolf das Angsttier war, aber gleichfalls die Bedeutung eines Vaterersatzes hatte."  Im Anschluß an einen Traum, den die Analyse durch-  sichtig machen konnte, entwickelte sich bei diesem  Knaben die Angst, vom Wolf gefressen zu werden,  wie eines der sieben Geifjlein im Märchen. Daß der Vater des kleinen Hans nachweisbar ‚‚Pferdl‘‘ mit ihm  gespielt hatte, war gewiß bestimmend für die Wahl  des Angsttieres geworden; ebenso lief3 sich wenigstens  sehr wahrscheinlich machen, daf3 der Vater meines  erst im dritten Jahrzehnt analysierten Russen in den  Spielen mit dem Kleinen den Wolf gemimt und  scherzend mit dem Auffressen gedroht hatte. Seither  habe ich als dritten Fall einen jungen Amerikaner  gefunden, bei dem sich zwar keine Tierphobie ausbildete, der aber gerade durch diesen Ausfall die  anderen Fälle verstehen hilft. Seine sexuelle Erregung  hatte sich an einer phantastischen Kindergeschichte  entzündet, die man ihm vorlas, von einem arabischen  Häuptling, der einer aus eßbarer Substanz bestehenden  Person (dem Gäingerbreadman), nachjagt, um ihn zu  verzehren. Mit diesem eßbaren Menschen identifizierte  er sich selbst, der Häuptling war als Vaterersatz  leicht kenntlich und diese Phantasie wurde die erste  Unterlage seiner autoerotischen Betätigung. Die Vorstellung, vom Vater gefressen zu werden, ist aber  typisches uraltes Kindergut; die Analogien aus der  Bd.) Mythologie (Kronos) und dem Tierleben sind allgemein  bekannt.   Trotz solcher Erleichterungen ist dieser Vorstellungs-  inhalt uns so fremdartig, daß wir ihn dem Kinde nur  ungläubig zugestehen können. Wir wissen auch nicht,  ob er wirklich das bedeutet, was er auszusagen scheint,  und verstehen nicht, wie er Gegenstand einer Phobie  werden kann. Die analytische Erfahrung gibt uns aller-  dings die erforderlichen Auskünfte. Sie lehrt uns, daß  die Vorstellung, vom Vater gefressen zu werden, der  regressiv erniedrigte Ausdruck für eine passive zärtliche  Regung ist, die vom Vater als Objekt im Sinne der  Genitalerotik geliebt zu werden begehrt. Die Ver-  folgung der Geschichte des Falles läßt keinen Zweifel  an der Richtigkeit dieser Deutung aufkommen. Die  genitale Regung verrät freilich nichts mehr von ihrer  zärtlichen Absicht, wenn sie in der Sprache der  überwundenen Übergangsphase von der oralen zur  sadistischen Libidoorganisation ausgedrückt wird.  Handelt es sich übrigens nur um eine Ersetzung der  Repräsentanz durch einen regressiven Ausdruck oder  um eine wirkliche regressive Erniedrigung der genital-  gerichteten Regung im Es? Das scheint gar nicht  so leicht zu entscheiden. Die Krankengeschichte des  russischen Wolfsmannes spricht ganz entschieden  für die letztere ernstere Möglichkeit, denn er benimmt  sich von dem entscheidenden Traum an schlimm,  quälerisch, sadistisch und entwickelt bald darauf eine richtige Zwangsneurose. Jedenfalls gewinnen wir die  Einsicht, daf3 die Verdrängung nicht das einzige Mittel  ist, das dem Ich zur Abwehr einer unliebsamen Triebregung zu (sebote steht. Wenn es ihm gelingt, den  Trieb zur Regression zu bringen, so hat es ihn im  Grunde energischer beeinträchtigt, als durch die Ver-  drängung möglich wäre. Allerdings läßt es manchmal  der zuerst erzwungenen Regression die Verdrängung  folgen. |   Der Sachverhalt beim Wolfsmann und der etwas  einfachere beim kleinen Hans regen noch mancherlei  andere Überlegungen an, aber zwei unerwartete Ein-  sichten gewinnen wir schon jetzt. Kein Zweifel, die  bei diesen Phobien verdrängte Triebregung ist eine  feindselige gegen den Vater. Man kann sagen, sie wird  verdrängt durch den Prozeß der Verwandlung ins  Gegenteil; an Stelle der Aggression gegen den Vater  tritt die Aggression, die Rache, des Vaters gegen  die eigene Person. Da eine solche Aggression ohne-  dies in der sadistischen Libidophase wurzelt, bedarf  sie nur noch einer gewissen Erniedrigung zur oralen  Stufe, die bei Hans durch das Gebissenwerden ange-  deutet, beim Russen aber im Gefressenwerden grell  ausgeführt ist. Aber außerdem läßt ja die Analyse  über jeden Zweifel gesichert feststellen, daß gleich-  zeitig noch eine andere Triebregung der Verdrängung  erlegen ist, die gegensinnige einer zärtlichen passiven  Regung für den Vater, die bereits das Niveau der genitalen (phallischen) Libidoorganisation erreicht hatte.  Die letztere scheint sogar die für das Endergebnis  des Verdrängungsvorganges bedeutsamere zu sein, sie  erfährt die weitergehende Regression, sie erhält den  bestimmenden Einfluß auf den Inhalt der Phobie. Wo  wir also nur einer Triebverdrängung nachgespürt  haben, müssen wir das Zusammentreffen von zwei  solchen Vorgängen anerkennen; die beiden betroffenen  Triebregungen — sadistische Aggression gegen den  Vater und zärtlich passive Einstellung zu ihm — bilden  ein (Gegensatzpaar, ja noch mehr: wenn wir die  Geschichte des kleinen Hans richtig würdigen, erkennen  wir, daß durch die Bildung seiner Phobie auch die  zärtliche Objektbesetzung der Mutter aufgehoben  worden ist, wovon der Inhalt der Phobie nichts verrät.  Es handelt sich bei Hans beim Russen ist das weit  weniger deutlich um einen Verdrängungsvorgang,  der fast alle Komponenten des Ödipuskomplexes betrifft,  die feindliche wie die zärtliche Regung gegen den Vater  und die zärtliche für die Mutter.   Das sind unerwünschte Komplikationen für uns, die  wir nur einfache Fälle von Symptombildung infolge  von Verdrängung studieren wollten und uns in dieser  Absicht an die frühesten und anscheinend durch-  sichtigsten Neurosen der Kindheit gewendet hatten.  Anstatt einer einzigen Verdrängung fanden wir eine  Häufung von solchen vor und überdies bekamen wir  es mit der Regression zu tun. Vielleicht haben wir die Verwirrung dadurch gesteigert, daß wir die beiden  verfügbaren Analysen von Tierphobien — die des  kleinen Hans und des Wolfsmannes durchaus auf  denselben Leisten schlagen wollten. Nun fallen uns  gewisse Unterschiede der beiden auf. Nur vom kleinen  Hans kann man mit Bestimmtheit aussagen, daß er  durch seine Phobie die beiden Hauptregungen des  Ödipuskomplexes, die aggressive gegen den Vater  und die überzärtliche gegen die Mutter, erledigt; die  zärtliche für den Vater ist gewif) auch vorhanden, sie  spielt ihre.Rolle bei der Verdrängung ihres Gegensatzes,  aber es ist weder nachweisbar, daß sie stark genug  war, um eine Verdrängung zu provozieren, noch dafs  sie nachher aufgehoben ist. Hans scheint eben ein  normaler Junge mit sog. „positivem‘‘ Ödipuskomplex  gewesen zu sein. Möglich, daß die Momente, die wir  vermissen, auch bei ihm mittätig waren, aber wir  können sie nicht aufzeigen, das Material selbst unserer  eingehendsten Analysen ist eben lückenhaft, unsere  Dokumentierung unvollständig. Beim Russen ist der  Defekt an anderer Stelle; seine Beziehung zum weib-  lichen Objekt ist durch eine frühzeitige Verführung  gestört worden, die passive, feminine Seite ist bei  ihm stark ausgebildet und die Analyse seines Wolfs-  traumes enthüllt wenig von beabsichtigter Aggression  gegen den Vater, erbringt dafür die unzweideutigsten  Beweise, daß die Verdrängung die passive, zärtliche  Einstellung zum Vater betrifft. Auch hier mögen die anderen Faktoren beteiligt gewesen sein, sie treten  aber nicht vor. Wenn trotz dieser Unterschiede der  beiden Fälle, die sich nahezu einer Gegensätzlichkeit  nähern, der Enderfolg der Phobie nahezu der nämliche  ist, so muß uns die Erklärung dafür von anderer Seite  kommen; sie kommt von dem zweiten Ergebnis unserer  kleinen vergleichenden Untersuchung. Wir glauben  den Motor der Verdrängung in beiden Fällen zu kennen  und sehen seine Rolle durch den Verlauf bestätigt,  den die Entwicklung der zwei Kinder nimmt. Er ist  in beiden Fällen der nämliche, die Angst vor einer  drohenden Kastration. Aus Kastrationsangst gibt der  kleine Hans die Aggression gegen den Vater auf; seine  Angst, das Pferd werde ihn beißen, kann zwanglos ver-  vollständigt werden, das Pferd werde ihm das Genitale  abbeißßen, ihn kastrieren. Aber aus Kastrationsangst  verzichtet auch der kleine Russe auf den Wunsch,  vom Vater als Sexualobjekt geliebt zu werden, denn  er hat verstanden, eine solche Beziehung hätte zur  Voraussetzung, daß er sein Genitale aufopfert, das,  was ihn vom Weib unterscheidet. Beide Gestaltungen  des Ödipuskomplexes, die normale, aktive, wie die  invertierte, scheitern ja am Kastrationskomplex. Die  Angstidee des Russen, vom Wolf gefressen zu werden,  enthält zwar keine Andeutung der Kastration, sie  hat sich durch orale Regression zu weit von der  phallischen Phase entfernt, aber die Analyse seines  Traumes macht jeden anderen Beweis überflüssig. Es ist auch ein voller Triumph der Verdrängung,  daß im Wortlaut der Phobie nichts mehr auf die  Kastration hindeutet.   Hier nun das unerwartete Ergebnis: In beiden  Fällen ist der Motor der Verdrängung die Kastrations-  angst; die Angstinhalte, vom Pferd gebissen und vom  Wolf gefressen zu werden, sind Entstellungsersatz für  den Inhalt, vom Vater kastriert zu werden. Dieser  Inhalt ist es eigentlich, der die Verdrängung an sich  erfahren hat. Beim Russen war er Ausdruck eines  Wunsches, der gegen die Auflehnung der Männlich-  keit nicht bestehen konnte, bei Hans Ausdruck einer  Reaktion, welche die Aggression in ihr Gegenteil  umwandelte. Aber der Angstaffekt der Phobie, der  ihr Wesen ausmacht, stammt nicht aus dem Verdrängungsvorgang, nicht aus den libidinösen Besetzungen  der verdrängten Regungen, sondern aus dem Verdrängenden selbst; die Angst der Tierphobie ist die  unverwandelte Kastrationsangst, also eine Realangst,  Angst vor einer wirklich drohenden oder als real  beurteilten Gefahr. Hier macht die Angst die Verdrängung, nicht, wie ich früher gemeint habe, die Ver-  drängung die Angst.   Es ist nicht angenehm, daran zu denken, aber es  hilft nichts, es zu verleugnen, ich habe oftmals den  Satz vertreten, durch die Verdrängung werde die  Triebrepräsentanz entstellt, verschoben u. dgl., die  Libido der Triebregung aber in Angst verwandelt.  Die Untersuchung der Phobien, die vor allem berufen  sein sollte, diesen Satz zu erweisen, bestätigt ihn also  nicht, sie scheint ihm vielmehr direkt zu widersprechen.  Die Angst der Tierphobien ist die Kastrationsangst  des Ichs, die der weniger gründlich studierten Agoraphobie scheint Versuchungsangst zu sein, die ja genetisch mit der Kastrationsangst zusammenhängen muß.  Die meisten Phobien gehen, so weit wir es heute  übersehen, auf eine solche Angst des Ichs vor den  Ansprüchen der Libido zurück. Immer ist dabei die  Angsteinstellung des Ichs das Primäre und der Antrieb  zur Verdrängung. Niemals geht die Angst aus der  verdrängten Libido hervor. Wenn ich mich früher  begnügt hätte zu sagen, nach der Verdrängung er-  scheint an Stelle der zu erwartenden Äußerung von  Libido ein Maß von Angst, so hätte ich heute  nichts zurückzunehmen. Die Beschreibung ist richtig  und zwischen der Stärke der zu verdrängenden  Regung und der Intensität der resultierenden Angst  besteht wohl die behauptete Entsprechung. Aber  ich gestehe, ich glaubte mehr als eine bloße Be-  schreibung zu geben, ich nahm an, daß ich den  metapsychologischen Vorgang einer direkten Umsetzung der Libido in Angst erkannt hatte; das kann  ich also heute nicht mehr festhalten. Ich konnte auch  früher nicht angeben, wie sich eine solche Umwandlung  vollzieht. Woher schöpfte ich überhaupt die Idee dieser Umsetzung? Zur Zeit, als es uns noch sehr ferne lag,  zwischen Vorgängen im Ich und Vorgängen im Es zu  unterscheiden, aus dem Studium der Aktualneurosen.  Ich fand, daß bestimmte sexuelle Praktiken, wie Coitus  interruptus, frustrane Erregung, erzwungene Abstinenz  Angstausbrüche und eine allgemeine Angstbereitschaft  erzeugen, also immer, wenn die Sexualerregung in  ihrem Ablauf zur Befriedigung gehemmt, aufgehalten  oder abgelenkt wird. Da die Sexualerregung der Aus-  druck libidinöser Triebregungen ist, schien es nicht  gewagt, anzunehmen, daf die Libido sich durch die  Einwirkung solcher Störungen in Angst verwandelt.  Nun ist diese Beobachtung auch heute noch gültig;  anderseits ist nicht abzuweisen, daß die Libido der  Es-Vorgänge durch die Anregung der Verdrängung eine  Störung erfährt; es kann also noch immer richtig sein,  daß sich bei der Verdrängung Angst aus der Libido-  besetzung der Triebregungen bildet. Aber wie soll  man dieses Ergebnis mit dem anderen zusammenbringen, daß die Angst der Phobien eine Ich-Angst ist,  im Ich entsteht, nicht aus der Verdrängung hervorgeht, sondern die Verdrängung hervorruft? Das scheint  ein Widerspruch und nicht einfach zu lösen. Die  Reduktion der beiden Ursprünge der Angst auf einen  einzigen läft sich nicht leicht durchsetzen. Man kann  es mit der Annahme versuchen, daß das Ich in der  Situation des gestörten Koitus, der unterbrochenen  Erregung, der Abstinenz, Gefahren wittert, auf die es  mit Angst reagiert, aber es ist nichts damit zu machen.  Anderseits scheint die Analyse der Phobien, die wir  vorgenommen haben, eine Berichtigung nicht zuzulassen. Von liguet! Wir wollten die Symptombildung und den sekun-  dären Kampf des Ichs gegen das Symptom studieren,  aber wir haben offenbar mit der Wahl der Phobien  keinen glücklichen Griff getan. Die Angst, welche im  Bild dieser Affektionen vorherrscht, erscheint uns nun  als eine den Sachverhalt verhüllende Komplikation. Es  gibt reichlich Neurosen, bei denen sich nichts von  Angst zeigt. Die echte Konversionshysterie ist von  solcher Art, deren schwerste Symptome ohne Bei-  mengung von Angst gefunden werden. Schon diese  Tatsache müßte uns warnen, die Beziehungen zwischen  Angst und Symptombildung nicht allzu fest zu knüpfen.  Den Konversionshysterien stehen die Phobien sonst so  nahe, daß ich mich für berechtigt gehalten habe,  ihnen diese als ‚Angsthysterie anzureihen. Aber  niemand hat noch die Bedingung angeben können,  die darüber entscheidet, ob ein Fall die Form einer  Konversionshysterie oder einer Phobie annimmt, niemand  also die Bedingung der Angstentwicklung bei der  Hysterie ergründet. Die häufigsten Symptome der Konversionshysterie,  eine motorische Lähmung, Kontraktur oder unwillkür-  liche Aktion oder Entladung, ein. Schmerz, eine Halluzination, sind entweder permanent festgehaltene oder  intermittierende Besetzungsvorgänge, was der Erklärung  neue Schwierigkeiten bereitet. Man weiß eigentlich  nicht viel über solche Symptome zu sagen. Durch die  Analyse kann man erfahren, welchen gestörten  Erregungsablauf sie ersetzen. Zumeist ergibt sich, daß  sie selbst einen Anteil an diesem haben, so als ob  sich die gesamte Energie desselben auf dies eine  Stück konzentriert hätte. Der Schmerz war in der  Situation, in welcher die Verdrängung vorfiel, vor-  handen; die Halluzination war damals Wahrnehmung, die motorische Lähmung ist die Abwehr einer Aktion,  die in jener Situation hätte ausgeführt werden sollen,  aber gehemmt wurde, die Kontraktur gewöhnlich eine  Verschiebung für eine damals intendierte Muskel-  innervation an anderer Stelle, der Krampfanfall Aus-  druck eines Affektausbruches, der sich der normalen  Kontrolle des Ichs entzogen hat. In ganz auffälligem  Maße wechselnd ist die Unlustempfindung, die das  Auftreten der Symptome begleitet. Bei den perma-  nenten, auf die Motilität verschobenen Symptomen,  wie Lähmungen und Kontrakturen, fehlt sie meistens  gänzlich, das Ich verhält sich gegen sie wie unbe-  teiligt; bei den intermittierenden und den Symptomen  der sensorischen Sphäre werden in der Regel deutliche Unlustempfindungen verspürt, die sich im Falle  des Schmerzsymptoms zu exzessiver Höhe steigern  können. Es ist sehr schwer, in dieser Mannigfaltigkeit  das Moment herauszufinden, das solche Differenzen  ermöglicht und sie doch einheitlich erklären läßt. Auch  vom Kampf des Ichs gegen das einmal gebildete  Symptom ist bei der Konversionshysterie wenig zu  merken. Nur wenn die Schmerzempfindlichkeit einer  Körperstelle zum Symptom geworden ist, wird diese  in den Stand gesetzt, eine Doppelrolle zu spielen.  Das Schmerzsymptom tritt ebenso sicher auf, wenn  diese Stelle von außen berührt wird, wie wenn die  von ihr vertretene pathogene Situation von innen her  assoziativ aktiviert wird, und das Ich ergreift Vor-  sichtsmaßregeln, um die Erweckung des Symptoms  durch äußere Wahrnehmung hintanzuhalten. Woher  die besondere Undurchsichtigkeit der Symptombildung  bei der Konversionshysterie rührt, können wir nicht  erraten, aber sie gibt uns ein Motiv, das unfrucht-  bare Gebiet bald zu verlassen.   Wir wenden uns zur Zwangsneurose in der  Erwartung, hier mehr über die Symptombildung zu  erfahren. Die Symptome der Zwangsneurose sind im  allgemeinen von zweierlei Art und entgegengesetzter  Tendenz. Es sind entweder Verbote, Vorsichtsmaßregeln, Bußen, also negativer Natur, oder im Gegen-  teil Ersatzbefriedigungen, sehr häufig in symbolischer  Verkleidung. Von diesen zwei Gruppen ist die negative, abwehrende, strafende, die ältere; mit der Dauer des Krankseins nehmen aber die aller Abwehr spotten-  den Befriedigungen überhand. Es ist ein Triumph der  Symptombildung, wenn es gelingt, das  Verbot mit der  Befriedigung zu verquicken, so daß das ursprünglich  abwehrende Gebot oder Verbot auch die Bedeutung  einer Befriedigung bekommt, wozu oft sehr künstliche  Verbindungswege in Anspruch genommen werden. In  dieser Leistung zeigt sich die Neigung zur Synthese,  die wir dem Ich bereits zuerkannt haben. In extremen  Fällen bringt es der Kranke zustande, daß die meisten  seiner Symptome zu ihrer ursprünglichen Bedeutung  auch die des direkten Gegensatzes erworben haben,  ein Zeugnis für die Macht der Ambivalenz, die, wir  wissen nicht warum, in der Zwangsneurose eine so  große Rolle spielt. Im rohesten Fall ist das Symptom  zweizeitig, d. h. auf die Handlung, die eine gewisse  Vorschrift ausführt, folgt unmittelbar eine zweite, die  sie aufhebt oder rückgängig macht, wenngleich sie  noch nicht wagt, ihr Gegenteil auszuführen.   Zwei Eindrücke ergeben sich sofort aus dieser  flüchtigen Überschau der Zwangssymptome. Der erste,  daß hier ein fortgesetzter Kampf gegen das Verdrängte unterhalten wird, der sich immer mehr zu  ungunsten der verdrängenden Kräfte wendet, und  zweitens, daß Ich und Über-Ich hier einen besonders  großen Anteil an der Symptombildung nehmen.   Die Zwangsneurose ist wohl das interessanteste und dankbarste Objekt der analytischen Untersuchung,  aber noch immer als Problem unbezwungen. Wollen  wir in ihr Wesen tiefer eindringen, so müssen wir  eingestehen, daß unsichere Annahmen und unbe-  wiesene Vermutungen noch nicht entbehrt werden  können. Die Ausgangssituation der Zwangsneurose ist  wohl keine andere als die der Hysterie, die not-  wendige Abwehr der libidinösen Ansprüche des Ödipus-komplexes. Auch scheint sich bei jeder Zwangsneurose  eine unterste Schicht sehr früh gebildeter hysterischer  Symptome zu finden. Dann aber wird die weitere  Gestaltung durch einen konstitutionellen Faktor ent-  scheidend verändert. Die genitale Organisation der  Libido erweist sich als schwächlich und zu wenig  resistent. Wenn das Ich sein Abwehrstreben beginnt,  so erzielt es als ersten Erfolg, daf3 die Genitalorgani-  sation (der phallischen Phase) ganz oder teilweise auf  die frühere sadistisch-anale Stufe zurückgeworfen wird.  Diese Tatsache der Regression bleibt für alles folgende  bestimmend.   Man kann noch eine andere Möglichkeit in  Erwägung ziehen. Vielleicht ist die Regression nicht  die Folge eines konstitutionellen, sondern eines zeitlichen Faktors. Sie wird nicht darum ermöglicht  werden, weil die Genitalorganisation der Libido zu  schwächlich geraten, sondern weil das Sträuben des  Ichs zu frühzeitig, noch während der Blüte der sadi-  stischen Phase eingesetzt hat. Einer sicheren Entscheidung getraue ich mich auch in diesem Punkte  nicht, aber die analytische Beobachtung begünstigt  diese Annahme nicht. Sie zeigt eher, dafs bei der  Wendung zur Zwangsneurose die phallische Stufe  bereits erreicht ist. Auch ist das Lebensalter für den  Ausbruch dieser Neurose ein späteres als das der  Hysterie (die zweite Kindheitsperiode, nach dem  Termin der Latenzzeit), und in einem Fall von sehr  später Entwicklung dieser Affektion, den ich studieren  konnte, ergab es sich klar, daß eine reale Entwertung  des bis dahin intakten Genitallebens die Bedingung  für die Regression und die Entstehung der Zwangs-  neurose schuf."   Die metapsychologische Erklärung der Regression  suche ich in einer „Triebentmischung“, in der Ab-  sonderung der erotischen Komponenten, die mit  Beginn der genitalen Phase zu den destruktiven  Besetzungen der sadistischen Phase hinzugetreten waren.   Die Erzwingung der Regression bedeutet den  ersten Erfolg des Ichs im Abwehrkampf gegen den  Anspruch der Libido. Wir unterscheiden hier zweck-  mäßig die allgemeinere Tendenz der „Abwehr“ von  der „Verdrängung“, die nur einer der Mechanismen  ist, deren sich die Abwehr bedient. Vielleicht noch  klarer als bei normalen und hysterischen Fällen erkennt  man bei der Zwangsneurose als den Motor der Abwehr  Be an    2 n S. Die Disposition zur Zwangsneurose. (Ges. Schriften,  den Kastrationskomplex, als das Abgewehrte die  Strebungen des Ödipuskomplexes. Wir befinden uns  nun zu Beginn der Latenzzeit, die durch den Unter-  gang des Ödipuskomplexes, die Schöpfung oder Kon-  solidierung des Über-Ichs und die Aufrichtung der  ethischen und ästhetischen Schranken im Ich gekenn-  zeichnet ist. Diese Vorgänge gehen bei der Zwangs-  neurose über das normale Maß hinaus; zur Zerstörung  des Ödipuskomplexes tritt die regressive Erniedrigung  der Libido hinzu, das Über-Ich wird besonders strenge  und lieblos, das Ich entwickelt im Gehorsam gegen  das Über-Ich hohe Reaktionsbildungen von Gewissen-  haftigkeit, Mitleid, Reinlichkeit. Mit unerbittlicher,  darum nicht immer erfolgreicher Strenge wird die  Versuchung zur Fortsetzung der frühinfantilen Onanie  verpönt, die sich nun an regressive (sadistisch-anale) Vor-  stellungen anlehnt, aber doch den unbezwungenen Anteil  der phallischen Organisation repräsentiert. Es liegt ein  innerer Widerspruch darin, dafs gerade im Interesse  der Erhaltung der Männlichkeit (Kastrationsangst) jede  Betätigung dieser Männlichkeit verhindert wird, aber  auch dieser Widerspruch wird bei der Zwangsneurose  nur übertrieben, er haftet bereits an der normalen  Art der Beseitigung des Ödipuskomplexes. Wie jedes  Übermaß den Keim zu seiner Selbstaufhebung in  sich trägt, wird sich auch an der Zwangsneurose  bewähren, indem gerade die unterdrückte Onanie  sich in der Form der Zwangshandlungen eine immer weiter gehende Annäherung an die Befriedigung  erzwingt.   Die Reaktionsbildungen im Ich der Zwangsneuro-  tiker, die wir als Übertreibungen der normalen Cha-  rakterbildung erkennen, dürfen wir als einen neuen  Mechanismus der Abwehr neben die Regression und  die Verdrängung hinstellen. Sie scheinen bei der  Hysterie zu fehlen oder weit schwächer zu sein.  Rückschauend gewinnen wir so eine Vermutung,  wodurch der Abwehrvorgang. der Hysterie ausge-  zeichnet ist. Es scheint, daß er sich auf die Ver-  drängung einschränkt, indem das Ich sich von der  unliebsamen Triebregung abwendet, sie dem Ablauf  im Unbewußstten überläßt und. an ihren Schicksalen  keinen weiteren Anteil nimmt. So ganz ausschließend  richtig kann das zwar nicht sein, denn wir kennen ja  den Fall, daf$ das hysterische Symptom gleichzeitig  die Erfüllung einer Strafanforderung des Über-Ichs  bedeutet, aber es mag einen allgemeinen Charakter  im Verhalten des Ichs bei der Hysterie beschreiben.   Man kann es einfach als Tatsache hinnehmen, daß  sich bei der Zwangsneurose ein so strenges Über-Ich  bildet, oder man kann daran denken, daß der funda-  mentale Zug dieser Affektion die Libidoregression ist,  und versuchen, auch den Charakter des Über-Ichs  mit ihr zu verknüpfen. In der Tat kann ja das Über-  Ich, das aus dem Es stammt, sich der dort einge-  tretenen Regression und Triebentmischung nicht entziehen. Es wäre nicht zu  verwundern, wenn es  seinerseits härter, quälerischer, liebloser würde als  bei normaler Entwicklung. Während der Latenzzeit scheint die Abwehr der  ÖOnanieversuchung als Hauptaufgabe behandelt zu  werden. Dieser Kampf erzeugt eine Reihe von Symptomen, die bei den verschiedensten Personen in  typischer Weise wiederkehren und im allgemeinen  den Charakter des Zeremoniells tragen. Es ist sehr  zu bedauern, daß sie noch nicht gesammelt und  systematisch analysiert worden sind; als früheste  Leistungen der Neurose würden sie über den hier  verwendeten Mechanismus der Symptombildung am  ehesten Licht verbreiten. Sie zeigen bereits die Züge,  welche in einer späteren schweren Erkrankung so  verhängnisvoll hervortreten werden : die Unterbringung  an den Verrichtungen, die später wie automatisch  ausgeführt werden sollen, am Schlafengehen, Waschen  und Ankleiden, an der Lokomotion, die Neigung zur  Wiederholung und zum Zeitaufwand. Warum das so  geschieht, ist noch keineswegs verständlich; die Subli-  mierung analerotischer Komponenten spielt dabei eine  deutliche Rolle. Die Pubertät macht in der Entwicklung der   Zwangsneurose einen entscheidenden Abschnitt. Die  in der Kindheit abgebrochene Genitalorganisation setzt  nun mit großer Kraft wieder ein. Wir wissen aber,  daß die Sexualentwicklung der Kinderzeit auch für den Neubeginn der Pubertätsjahre die Richtung vorschreibt. Es werden also einerseits die aggressiven  Regungen der Frühzeit wieder erwachen, anderseits  muß ein mehr oder minder großer Anteil der neuen  libidinösen Regungen — in bösen Fällen deren Ganzes die durch die Regression vorgezeichneten Bahnen  einschlagen und als aggressive und destruktive Absichten auftreten. Infolge dieser Verkleidung der  erotischen Strebungen und der starken Reaktions-  bildungen im Ich, wird nun der Kampf gegen die  Sexualität unter ethischer Flagge weitergeführt. Das  Ich sträubt sich verwundert gegen grausame und  gewalttätige Zumutungen, die ihm vom Es her ins  Bewufßstsein geschickt werden, und ahnt nicht, daß es  dabei erotische Wünsche bekämpft, darunter auch  solche, die sonst seinem Einspruch entgangen wären.  Das überstrenge Über-Ich besteht um so energischer  auf der Unterdrückung der Sexualität, da sie so  abstoßende Formen angenommen hat. So zeigt sich  der Konflikt bei der Zwangsneurose nach zwei Rich-  tungen verschärft, das Abwehrende ist intoleranter,  das Abzuwehrende unerträglicher geworden ; beides  durch den Einfluß des einen Moments, der Libido-  regression.   Man könnte einen Widerspruch gegen manche  unserer Voraussetzungen darin finden, daß die unlieb-  same Zwangsvorstellung überhaupt bewußt wird. Allein  es ist kein Zweifel, daß sie vorher den Prozeß der Verdrängung durchgemacht hat. In den meisten ist  der eigentliche Wortlaut der aggressiven Triebregung  dem Ich überhaupt nicht. bekannt. Es gehört ein  gutes Stück analytischer Arbeit dazu, um ihn bewußt  zu machen. Was zum Bewußtsein durchdringt, ist in  der Regel nur ein entstellter Ersatz entweder von  einer verschwommenen, traumhaften Unbestimmtheit,  oder unkenntlich gemacht durch eine absurde Ver-  kleidung. Wenn die Verdrängung nicht den Inhalt  der aggressiven Triebregung angenagt hat, so hat sie  doch gewiß den sie begleitenden Affektcharakter  beseitigt. So erscheint die Aggression dem Ich nicht  als ein Impuls, sondern, wie die Kranken sagen, als  ein bloßer ‚„‚Gedankeninhalt‘, der einen kalt lassen  sollte. Das Merkwürdige ist, daß dies doch nicht der  Fall ist.   Der bei der Wahrnehmung der Zwangsvorstellung  ersparte Affekt kommt nämlich an anderer Stelle zum  Vorschein. Das Über-Ich benimmt sich so, als hätte  keine Verdrängung stattgefunden, als wäre ihm die  aggressive Regung in ihrem richtigen Wortlaut und  mit ihrem vollen Affektcharakter bekannt, und behandelt  das Ich auf Grund dieser Voraussetzung. Das Ich, das  sich einerseits schuldlos weiß, muß anderseits ein  Schuldgefühl verspüren und eine Verantwortlichkeit  tragen, die es sich nicht zu erklären weiß. Das Rätsel,  das uns hiemit aufgegeben wird, ist aber nicht so  groß), als es zuerst erscheint. Das Verhalten des Über-Ichs ist durchaus: verständlich, der Widerspruch im  Ich beweist uns nur, daß es sich mittels der Verdrängung gegen das Es verschlossen hat, während es  den Einflüssen aus dem Über-Ich voll zugänglich  geblieben ist.‘ Der weiteren Frage, warum das Ich  sich nicht auch der peinigenden Kritik des Über-Ichs  zu entziehen sucht, macht die Nachricht ein Ende,  daf dies wirklich in einer großen Reihe von Fällen  so geschieht. Es gibt auch Zwangsneurosen ganz ohne  Schuldbewußtsein; soweit wir es verstehen, hat sich  das Ich die Wahrnehmung desselben durch eine neue  Reihe von Symptomen, Bußhandlungen, Einschränkungen zur Selbstbestrafung, erspart. Diese Sym-  ptome bedeuten aber gleichzeitig Befriedigungen ma-  sochistischer Triebregungen, die ebenfalls aus der  Regression eine Verstärkung bezogen haben.   Die Mannigfaltigkeit in den Erscheinungen der  Zwangsneurose ist eine so großartige, daß es noch  keiner Bemühung gelungen ist, eine zusammenhängende  Synthese aller ihrer Variationen zu geben. Man ist  bestrebt, typische Beziehungen herauszuheben und  dabei immer in Sorge, andere nicht minder wichtige  Regelmäßigkeiten zu übersehen.   Die allgemeine Tendenz der Symptombildung bei  der Zwangsneurose habe ich bereits beschrieben. Sie  geht dahin, der Ersatzbefriedigung immer mehr Raum    ı) Vgl. Reik, Geständniszwang und Strafbedürfnis,  SEHE. u  auf Kosten der Versagung zu schaffen. Dieselben  Symptome, die ursprünglich Einschränkungen des Ichs  bedeuteten, nehmen dank der Neigung des Ichs zur  Synthese später auch die von Befriedigungen an, und  es ist unverkennbar, daf3 die letztere Bedeutung all-  mählich die wirksamere wird. Ein äußerst einge-  schränktes Ich, das darauf angewiesen ist, seine  Befriedigungen in den Symptomen zu suchen, wird  das Ergebnis dieses Prozesses, der sich immer mehr  dem völligen Fehlschlagen des anfänglichen Abwehr-  strebens nähert. Die Verschiebung des Kräfteverhält-  nisses zugunsten der Befriedigung kann zu dem  gefürchteten Endausgang der Willenslähmung des Ichs  führen, das für jede Entscheidung beinahe ebenso  starke Antriebe von der einen wie von der anderen  Seite findet. Der überscharfe Konflikt zwischen Es  und Über-Ich, der die Affektion von Anfang an  beherrscht, kann sich so sehr ausbreiten, daf keine  der Verrichtungen des zur Vermittlung unfähigen  Ichs der Einbeziehung in diesen Konflikt entgehen  kann. VI Während dieser Kämpfe kann man zwei symptom-  bildende Tätigkeiten des Ichs beobachten, die ein  besonderes Interesse verdienen, weil sie offenbare  Surrogate der Verdrängung sind und darum deren  Tendenz und Technik schön erläutern können. Viel-  leicht dürfen wir auch das Hervortreten dieser Hilfs-  und Ersatztechniken als einen Beweis dafür auffassen,  dafs die Durchführung der regelrechten Verdrängung  auf Schwierigkeiten stößt. Wenn wir erwägen, dafs bei  der Zwangsneurose das Ich soviel mehr Schauplatz  der Symptombildung ist als bei der Hysterie, daß  dieses Ich zähe an seiner Beziehung zur Realität und  zum Bewußtsein festhält und dabei alle seine intellek-  tuellen Mittel aufbietet, ja, daß die Denktätigkeit  überbesetzt, erotisiert, erscheint, werden uns solche  Variationen der Verdrängung vielleicht näher gebracht.   Die beiden angedeuteten Techniken sind das  Ungeschehenmachen und das Isolieren. Die  erstere hat ein großes Anwendungsgebiet und reicht  weit zurück. Sie ist sozusagen negative Magie, sie  will durch motorische Symbolik nicht die Folgen  eines Ereignisses (Eindruckes, Erlebnisses), sondern  dieses selbst „wegblasen“. Mit der Wahl dieses  letzten Ausdruckes ist darauf hingewiesen, welche  Rolle diese Technik nicht nur in der Neurose, sondern  auch in den Zauberhandlungen, Volksgebräuchen und  im religiösen Zeremoniell spielt. In der Zwangsneurose  begegnet man dem Ungeschehenmachen zuerst bei  den zweizeitigen Symptomen, wo der zweite Akt den  ersten aufhebt, so, als ob nichts geschehen wäre, wo  in Wirklichkeit beides geschehen ist. Das zwangsneurotische Zeremoniell hat in der Absicht des Unge-  schehenmachens seine zweite Wurzel. Die erste ist  die Verhütung, die Vorsicht, damit etwas Bestimm-  tes nicht geschehe, sich nicht wiederhole. Der Unter-  schied ist leicht zu fassen; die Vorsichtsmafßregeln  sind rationell, die „Aufhebungen‘ durch Ungeschehen-  machen irrationell, magischer Natur. Natürlich muß  man vermuten, daß diese zweite Wurzel die ältere,  aus der animistischen Einstellung zur Umwelt stam-  mende ist. Seine Abschattung zum Normalen findet  das Streben zum Ungeschehenmachen in dem Ent-  schluß ein Ereignis als ‚»on arrive“ zu behandeln,  aber dann unternimmt man nichts dagegen, kümmert  sich weder um das Ereignis noch um seine Folgen,  während man in der Neurose die Vergangenheit  selbst aufzuheben, motorisch zu verdrängen sucht. Dieselbe Tendenz kann auch die Erklärung des in  der Neurose so häufigen Zwanges zur Wieder-  holung geben, bei dessen Ausführung sich dann  mancherlei einander widerstreitende Absichten zu-  sammenfinden. Was nicht in solcher Weise geschehen  ist, wie es dem Wunsch gemäß hätte geschehen  sollen, wird durch die Wiederholung in anderer Weise  ungeschehen gemacht, wozu nun alle die Motive hin-  zutreten, bei diesen Wiederholungen zu verweilen. Im  weiteren Verlauf der Neurose enthüllt sich oft die  Tendenz, ein traumatisches Erlebnis ungeschehen zu  machen, als ein symptombildendes Motiv von erstem  Range. Wir erhalten so unerwarteten Einblick in eine  neue, motorische Technik der Abwehr oder, wie wir  hier mit geringerer Ungenauigkeit sagen können, der  Verdrängung.   Die andere der neu zu beschreibenden Techniken  ist das der Zwangsneurose eigentümlich zukommende  Isolieren. Es bezieht sich gleichfalls auf die motorische Sphäre, besteht darin, daß nach einem unlieb-  samen Ereignis, ebenso nach einer im Sinne der Neu-  rose bedeutsamen eigenen Tätigkeit, eine Pause ein-  geschoben wird, in der sich nichts mehr ereignen  darf, keine Wahrnehmung gemacht und keine Aktion  ausgeführt wird. Dies zunächst sonderbare Verhalten  verrät uns bald seine Beziehung. zur Verdrängung.  Wir wissen, bei Hysterie ist es möglich, einen trau-  matischen Eindruck der Amnesie. verfallen zu lassen,  bei der Zwangsneurose ist dies oft nicht gelungen,  das Erlebnis ist nicht vergessen, aber es ist von  seinem Affekt entblößt und seine assoziativen Bezie-  hungen sind unterdrückt oder unterbrochen, so daß  es wie isoliert dasteht und auch nicht im Verlaufe  der Denktätigkeit reproduziert wird. Der Effekt dieser  Isolierung ist dann der nämliche wie bei der Ver-  drängung mit Amnesie. Diese Technik wird also in  den Isolierungen der Zwangsneurose reproduziert, aber  dabei auch in magischer Absicht motorisch verstärkt.  Was so auseinandergehalten wird, ist gerade das, was  assoziativ zusammengehört, die motorische Isolierung  sol eine Garantie für die Unterbrechung des  Zusammenhanges im Denken geben. Einen Vorwand  für dies Verfahren der Neurose gibt der normale  Vorgang der Konzentration. Was uns bedeutsam als  Eindruck, als Aufgabe erscheint, soll nicht durch  die gleichzeitigen Ansprüche anderer Denkverrichtun-  gen oder Tätigkeiten gestört werden. Aber schon im  Normalen wird die Konzentration dazu verwendet,  nicht nur das Gleichgültige, nicht Dazugehörige, sondern  vor allem das unpassende Gegensätzliche fernzuhalten.  Als das Störendste wird empfunden, was ursprüng-  lich zusammengehört hat und durch den Fortschritt  der Entwicklung auseinandergerissen wurde, z. B. die  Äußerungen der Ambivalenz des Vaterkomplexes in  der Beziehung zu Gott oder die Regungen der Ex-  kretionsorgane in den Liebeserregungen. So hat das Ich normalerweise eine große Isolierungsarbeit bei der  Lenkung des Gedankenablaufes zu leisten, und wir  wissen, in der Ausübung der analytischen Technik  müssen wir das Ich dazu erziehen, auf diese sonst  durchaus gerechtfertigte Funktion zeitweilig zu ver-  zichten.   Wir haben alle die Erfahrung gemacht, daß es  dem Zwangsneurotiker besonders schwer wird, die  psychoanalytische Grundregel zu befolgen. Wahr-  scheinlich infolge der hohen Konfliktspannung zwischen  seinem Über-Ich und seinem Es ist sein Ich wach-  samer, dessen Isolierungen schärfer. Es hat während  seiner Denkarbeit zuviel abzuwehren, die Einmengung  unbewußter Phantasien, die Äußerung der ambi-  valenten Strebungen. Es darf sich nicht gehen lassen,  befindet sich fortwährend in Kampfbereitschaft. Diesen  Zwang zur Konzentration und Isolierung unterstützt  es dann durch die magischen Isolierungsaktionen, die  als Symptome so auffällig und praktisch so bedeut-  sam werden, an sich natürlich nutzlos sind und den  Charakter des Zeremoniells haben.   Indem es aber Assoziationen, Verbindung in  Gedanken, zu verhindern sucht, befolgt es eines der  ältesten und fundamentalsten Gebote der Zwangsneu-  rose, das labu der Berührung. \Wenn man sich  die Frage vorlegt, warum die Vermeidung von  Berührung, Kontakt, Ansteckung in der Neurose eine  so große Rolle spielt und zum Inhalt so komplizierter Systeme gemacht wird, so findet man die Antwort,  daß die Berührung, der körperliche Kontakt, das  nächste Ziel sowohl der aggressiven wie der zärt-  lichen Objektbesetzung ist. Der Eros will die Berüh-  rung, denn er strebt nach Vereinigung, Aufhebung  der Raumgrenzen zwischen Ich und geliebtem Objekt.  Aber auch die Destruktion, die vor der Erfindung  der Fernwaffe nur aus der Nähe erfolgen konnte,  muß die körperliche Berührung, das Handanlegen,  voraussetzen. Eine Frau berühren ist im Sprach-  gebrauch ein Euphemismus für ihre Benützung als  Sexualobjekt geworden. Das Glied nicht berühren ist  der Wortlaut des Verbotes der autoerotischen Befrie-  digung. Da die Zwangsneurose zu Anfang die ero-  tische Berührung, dann nach der Regression die als  Aggression maskierte Berührung verfolgte, ist nichts  anderes für sie in so hohem Grade verpönt worden,  nichts so geeignet, zum Mittelpunkt eines Verbotsystems  zu werden. Die Isolierung ist aber Aufhebung der  Kontaktmöglichkeit, Mittel, ein Ding jeder Berührung  zu entziehen, und wenn der Neurotiker auch einen  Eindruck oder eine Tätigkeit durch eine Pause isoliert,  gibt er uns symbolisch zu verstehen, daß er die  Gedanken an sie nicht in assoziative Berührung mit  anderen kommen lassen will.   So weit reichen unsere Untersuchungen über die  Symptombildung. Es verlohnt sich kaum, sie zu resu-  mieren, sie sind ergebnisarm und unvollständig ge- Siem. Freud    blieben, haben auch wenig gebracht, was nicht schon  früher bekannt gewesen wäre. Die Symptombildung  bei anderen Affektionen als bei den Phobien, der  Konversionshysterie und der Zwangsneurose in Betracht  zu ziehen, wäre aussichtslos ; es ist zu wenig darüber  bekannt. Aber auch schon aus der Zusammenstellung  dieser drei Neurosen erhebt sich ein schwerwiegendes,  nicht mehr aufzuschiebendes Problem. Für alle drei  ist die Zerstörung des Odipuskomplexes der Ausgang,  in allen, nehmen wir an, die Kastrationsangst der  Motor des Ichsträubens. Aber nur in den Phobien  kommt solche Angst zum Vorschein, wird sie einge-  standen. Was ist bei den zwei anderen Formen aus  ihr geworden, wie hat das Ich sich solche Angst  erspart? Das Problem verschärft sich noch, wenn wir  an die vorhin erwähnte Möglichkeit denken, daß die  Angst durch eine Art Vergährung aus der im Ablauf  gestörten Libidobesetzung selbst hervorgeht, und  weiters: steht es fest, daß die Kastrationsangst der  einzige Motor der Verdrängung (oder Abwehr) ist?  Wenn man an die Neurosen der Frauen denkt, muß  man das bezweifeln, denn so sicher sich der Kastrations-  komplex bei ihnen konstatieren läßt, von einer  Kastrationsangst im richtigen Sinne kann man bei  bereits vollzogener Kastration doch nicht sprechen. Kehren wir zu den infantilen Tierphobien zu-  rück, wir verstehen diese Fälle doch besser als alle  anderen. Das Ich muf also hier gegen eine libidinöse  Objektbesetzung des Es (die des positiven oder  des negativen Odipuskomplexes) einschreiten, weil es  verstanden hat, ihr nachzugeben brächte die Gefahr  der Kastration mit sich. Wir haben das schon erörtert  und finden noch Anlaß, uns einen Zweifel klar zu  machen, der von dieser ersten Diskussion erübrigt ist.  Sollen wir beim kleinen Hans (also im Falle des posi-  tiven Odipuskomplexes) annehmen, daß es die zärt-  liche Regung für die Mutter oder die aggressive gegen  den Vater ist, welche die Abwehr des Ichs heraus-  fordert? Praktisch schiene das gleichgültig, besonders  da die beiden Regungen einander bedingen, aber ein  theoretisches Interesse knüpft sich an die Frage, weil  nur die zärtliche Strömung für die Mutter als eine  rein erotische gelten kann. Die aggressive ist wesent-  lich vom Destruktionstrieb abhängig, und wir haben immer geglaubt, bei der Neurose wehre sich das Ich  gegen Ansprüche der Libido, nicht der anderen  Triebe. In der Tat sehen wir, daf$ nach der Bildung  der Phobie die zärtliche Mutterbindung wie ver-  schwunden ist, sie ist durch die Verdrängung gründ-  lich erledigt worden, an der aggressiven Regung hat  sich aber die Symptom- (Ersatz-) Bildung vollzogen.  Im Falle des Wolfsmannes liegt es einfacher, die ver-  drängte Regung ist wirklich eine erotische, die  feminine Einstellung zum Vater, und ah ihr vollzieht  sich auch die Symptombildung.   Es ist fast beschämend, daß wir nach so langer  Arbeit noch immer Schwierigkeiten in der Auffassung  der fundamentalsten Verhältnisse finden, aber wir  haben uns vorgenommen, nichts zu vereinfachen und  nichts zu verheimlichen. Wenn wir nicht klar sehen  können, wollen wir wenigstens die Unklarheiten schart  sehen. Was uns hier im \Wege steht, ist offenbar  eine Unebenheit in der Entwicklung unserer Trieb-  lehre. Wir hatten zuerst die Organisationen der Libido  von der oralen über die sadistisch-anale zur genitalen  Stufe verfolgt und dabei alle Komponenten des Sexual-  triebs einander gleichgestellt. Später erschien uns der  Sadismus als der Vertreter eines anderen, dem Eros  gegensätzlichen Triebes. Die neue Auffassung von den  zwei Iriebgruppen scheint die frühere Konstruktion  von den sukzessiven Phasen der Libidoorganisation zu  sprengen. Die hilfreiche Auskunft aus dieser Schwierigkeit brauchen wir aber nicht neu zu erfinden. Sie  hat sich uns längst geboten und lautet, daß wir es  kaum jemals mit reinen Triebregungen zu tun haben,  sondern durchwegs mit Legierungen beider Triebe in  verschiedenen Mengenverhältnissen. Die sadistische  Objektbesetzung hat also auch ein Anrecht, als eine  libidinöse behandelt zu werden, die Organisationen  der Libido brauchen nicht revidiert zu werden, die  aggressive Regung gegen den Vater kann mit dem-  selben Anrecht Objekt der Verdrängung werden wie  die zärtliche für die Mutter. Immerhin setzen wir als  Stoff für spätere Überlegung die Möglichkeit beiseite,  daf3 die Verdrängung ein ProzefS ist, der eine beson-  dere Beziehung zur Genitalorganisation der Libido hat,  daß das Ich zu anderen Methoden der Abwehr  greift, wenn es sich der Libido auf anderen Stufen  der Organisation zu erwehren hat, und setzen wir  fort. Ein Fall wie der des kleinen Hans gestattet  uns keine Entscheidung; hier wird zwar eine aggressive  Regung durch Verdrängung erledigt, aber nachdem  die Genitalorganisation bereits erreicht ist.   Wir wollen diesmal die Beziehung zur Angst  nicht aus den Augen lassen. Wir sagten, so wie das  Ich die Kastrationsgefahr erkannt hat, gibt es das  Angstsignal und inhibiert mittels der Lust-Unlust-  Instanz auf eine weiter nicht einsichtliche Weise den  bedrohlichen Besetzungsvorgang im Es. Gleichzeitig  vollzieht sich die Bildung der Phobie. Die Kastrationsangst erhält ein anderes Objekt und einen entstellten  Ausdruck: vom Pferd gebissen (vom Wolf gefressen),  anstatt vom Vater kastriert zu werden. Die Ersatz-  bildung hat zwei offenkundige Vorteile, erstens, dafß  sie einem Ambivalenzkonflikt ausweicht, denn der  Vater ist ein gleichzeitig geliebtes Objekt und zweitens,  daf3 sie dem Ich gestattet, die Angstentwicklung ein-  zustellen. Die Angst der Phobie ist nämlich eine  fakultative, sie tritt nur auf, wenn ihr Objekt Gegen-  stand der Wahrnehmung wird. Das ist ganz korrekt;  nur dann ist nämlich die Gefahrsituation vorhanden.  Von einem abwesenden Vater braucht man auch die  Kastration nicht zu befürchten. Nun kann man den  Vater nicht wegschaffen, er zeigt sich immer, wann  er will. Ist er aber durch das Tier ersetzt, so braucht  man nur den Anblick, d. h. die Gegenwart des  lieres zu vermeiden, um frei von Gefahr und Angst  zu sein. Der kleine Hans legt seinem Ich also eine  Einschränkung auf, er produziert die Hemmung, nicht  auszugehen, um nicht mit Pterden zusammenzutreffen.  Der kleine Russe hat es noch bequemer, es ist kaum  ein Verzicht für ihn, daß er ein gewisses Bilderbuch  nicht mehr zur Hand nimmt. Wenn die schlimme  Schwester ihm nicht immer wieder das Bild des auf-  rechtstehenden Wolfes in diesem Buch vor Augen  halten würde, dürfte er sich vor seiner Angst gesichert  fühlen. Ich habe früher einmal der Phobie den Charakter einer Projektion zugeschrieben, indem sie eine innere  Triebgefahr durch eine äußere Wahrnehmungsgefahr  ersetzt. Das bringt den Vorteil, daß man sich  gegen die äußere Gefahr durch Flucht und Ver-  meidung der Wahrnehmung schützen kann, während  gegen die Grefahr von innen keine Flucht nützt. Meine  Bemerkung ist nicht unrichtig, aber sie bleibt an der  Oberfläche. Der Triebanspruch ist ja nicht an sich  eine Gefahr, sondern nur darum, weil er eine richtige  äußere Gefahr, die der Kastration, mit sich bringt.  So ist im Grunde bei der Phobie doch nur eine  äußere Gefahr durch eine andere ersetzt. Daß das  Ich sich bei der Phobie durch eine Vermeidung oder  ein Hemmungssymptom der Angst entziehen kann,  stimmt sehr gut zur Auffassung, diese Angst sei nur  ein Affektsignal und an der ökonomischen Situation  sei nichts geändert worden.   Die Angst der Tierphobien ist also eine Affekt-  reaktion des Ichs auf die Gefahr; die Gefahr, die  hier signalisiert wird, die der Kastration. Kein anderer  Unterschied von der Realangst, die das Ich normaler-  weise in Gefahrsituationen äußert, als daf3 der Inhalt  der Angst unbewußt bleibt und nur in einer Entstellung  bewußt wird.   Dieselbe Auffassung wird sich uns, glaube ich, auch  für die Phobien Erwachsener giltig erweisen, wenngleich  das Material, das die Neurose verarbeitet, sehr viel    reichhaltiger ist und einige Momente zur Symptombildung hinzukommen. Im Grunde ist es das nämliche.  Der Agoraphobe legt seinem Ich eine Beschränkung  auf, um einer Triebgefahr zu entgehen. Die Triebgefahr  ist die Versuchung, seinen erotischen Gelüsten nachzu-  geben, wodurch er wieder wie in der Kindheit die  Gefahr der Kastration, oder eine ihr analoge, herauf-  beschwören würde. Als Beispiel führe ich den Fall eines  jungen Mannes an, der agoraphob wurde, weil er  befürchtete, den Lockungen von Prostituierten nach-  zugeben und sich zur Strafe Syphilis zu holen.   Ich weiß wohl, daf viele Fälle eine kompliziertere  Struktur zeigen und dafs viele andere verdrängte Trieb-  regungen in die Phobie einmünden können, aber diese  sind nur auxiliär und haben sich meist nachträglich mit  dem Kern der Neurose in Verbindung gesetzt. Die  Symptomatik der Agoraphobie wird dadurch kompli-  ziert, daßß das Ich sich nicht damit begnügt, auf etwas  zu verzichten; es tut noch etwas hinzu, um der Situation  ihre Gefahr zu benehmen. Diese Zutat ist gewöhnlich  eine zeitliche Regression in die Kinderjahre (im extremen  Fall bis in den Mutterleib, in Zeiten, in denen man gegen  die heute drohenden Gefahren geschützt war) und tritt  als die Bedingung auf, unter der der Verzicht unter-  bleiben kann. So kann der Agoraphobe auf die Straße  gehen, wenn er wie ein kleines Kind von einer Person  seines Vertrauens begleitet wird. Dieselbe Rücksicht mag  ihm auch gestatten, allein auszugehen, wenn er sich nur  nicht über eine bestimmte Strecke von seinem Haus entfernt, nicht in Gegenden geht, die er nicht gut kennt  und wo er den Leuten nicht bekannt ist. In der Aus-  wahl dieser Bestimmungen zeigt sich der Einfluß der  infantilen Momente, die ihn durch seine Neurose be-  herrschen. Ganz eindeutig, auch ohne solche infantile  Regression, ist die Phobie vor dem Alleinsein, die im  Grunde der Versuchung zur einsamen Önanie aus-  weichen will. Die Bedingung der infantilen Regression  ist natürlich die zeitliche Entfernung von der Kindheit.   Die Phobie stellt sich in der Regel her, nachdem  unter gewissen Umständen auf der Straße, auf der  Eisenbahn, im Alleinsein — ein erster Angstanfall  erlebt worden ist. Dann ist die Angst gebannt, tritt  aber jedesmal wieder auf, wenn die schützende Be-  dingung nicht eingehalten werden kann. Der Mechanismus  der Phobie tut als Abwehrmittel gute Dienste und  zeigt eine große Neigung zur Stabilität. Eine Fort-  setzung des Abwehrkampfes, der sich jetzt gegen das  Symptom richtet, tritt häufig, aber nicht notwendig, ein.   Was wir über die Angst bei den Phobien erfahren  haben, bleibt noch für die Zwangsneurose verwertbar.  Es ist nicht schwierig, die Situation der Zwangsneurose  auf die der Phobie zu reduzieren. Der Motor aller  späteren Symptombildung ist hier offenbar die Angst des  Ichs vor seinem Über-Ich. Die Feindseligkeit des Über-  Ichs ist die Gefahrsituation, der sich das Ich entziehen  muß. Hier fehlt jeder Anschein einer Projektion, die  Gefahr ist durchaus verinnerlicht. Aber wenn wir uns  fragen, was das Ich von seiten des Über-Ichs befürchtet,  so drängt sich die Auffassung auf, dafs die Strafe des  Über-Ichs eine Fortbildung der Kastrationsstrafe ist.  Wie das Über-Ich der unpersönlich gewordene Vater  ist, so hat sich die Angst vor der durch ihn drohenden  Kastration zur unbestimmten sozialen oder Gewissens-  angst umgewandelt. Aber diese Angst ist gedeckt,  das Ich entzieht sich ihr, indem es die ihm auferlegten  Gebote, Vorsichten und Bußhandlungen gehorsam aus-  führt. Wenn es daran gehindert wird, dann tritt sofort  ein äußerst peinliches Unbehagen auf, in dem wir das  Äquivalent der Angst erblicken dürfen, das die Kranken  selbst der Angst gleichstellen. Unser Ergebnis lautet  also: Die Angst ist die Reaktion auf die Gefahr-  situation; sie wird dadurch erspart, daß das Ich etwas  tut, um die Situation zu vermeiden oder sich ihr zu  entziehen. Man könnte nun sagen, die Symptome  werden geschaffen, um die Angstentwicklung zu ver-  meiden, aber das läßt nicht tief blicken. Es ist richtiger  zu sagen, die Symptome werden geschaffen, um die  Gefahrsituation zu vermeiden, die durch die Angst-  entwicklung signalisiert wird. Diese Gefahr war aber  in den bisher betrachteten Fällen die Kastration oder  etwas von ihr Absgeleitetes.   Wenn die Angst die Reaktion des Ichs auf die  Gefahr ist, so liegt es nahe, die traumatische Neurose,  welche sich so häufig an überstandene Lebensgefahr  anschliefst, als direkte Folge der Lebens- oder Todesangst mit Beiseitesetzung der Abhängigkeiten des Ichs  und der Kastration aufzufassen. Das ist auch von den  meisten Beobachtern der traumatischen Neurosen des  letzten Krieges geschehen, und es ist triumphierend ver-  kündet worden, nun sei der Beweis erbracht, dafs eine  Gefährdung des Selbsterhaltungstriebes eine Neurose  erzeugen könne ohne jede Beteiligung der Sexualität  und ohne Rücksicht auf die komplizierten Annahmen  der Psychoanalyse. Es ‘ist in der Tat aufserordentlich  zu bedauern, daß nicht eine einzige verwertbare Analyse  einer traumatischen Neurose vorliegt. Nicht wegen des  Widerspruches gegen die ätiologische Bedeutung der  Sexualität, denn dieser ist längst durch die Einführung  des Narziffmus aufgehoben worden, der die libidinöse  Besetzung des Ichs in eine Reihe mit den Objekt-  besetzungen bringt und die libidinöse Natur des Selbst-  erhaltungstriebes betont, sondern weil wir durch den  Ausfall dieser Analysen die kostbarste Gelegenheit zu  entscheidenden Aufschlüssen über das Verhältnis  zwischen Angst und Symptombildung versäumt haben.  Es ist nach allem, was wir von der Struktur der  simpleren Neurosen des täglichen Lebens wissen, sehr  unwahrscheinlich, daß eine Neurose nur durch die  objektive Tatsache der Gefährdung ohne Beteiligung  der tieferen unbewufßten Schichten des seelischen  Apparats zustande kommen sollte. Im Unbewußsten ist  aber nichts vorhanden, was unserem Begriff der Lebens-  vernichtung Inhalt geben kann. Die Kastration wird  sozusagen vorstellbar durch die tägliche Erfahrung der  Trennung vom Darminhalt und durch den bei der  Entwöhnung erlebten Verlust der mütterlichen Brust;  etwas dem Tod Ähnliches ist aber nie erlebt worden  oder hat wie die Ohnmacht keine nachweisbare Spur  hinterlassen. Ich halte darum an der Vermutung fest,  dafs die Todesangst als Analogon der Kastrationsangst  aufzufassen ist, und dafß die Situation, auf welche das  Ich reagiert, das Verlassensein vom schützenden Über-  Ich  den Schicksalsmächten ist, womit die  Sicherung gegen alle Gefahren ein Ende hat. Außer-  dem kommt in Betracht, daf3 bei den Erlebnissen, die  zur traumatischen Neurose führen, äußerer Reizschutz  durchbrochen wird und übergroße Erregungsmengen  an den seelischen Apparat herantreten, so dafs hier  die zweite Möglichkeit vorliegt, daß Angst nicht nur  als Affekt signalisiert, sondern auch aus den ökono-  mischen Bedingungen der Situation neu erzeugt wird.   Durch die letzte Bemerkung, das Ich sei durch  regelmäßig wiederholte Objektverluste auf die Kastration  vorbereitet worden, haben wir eine neue Auffassung  der Angst gewonnen. Betrachteten wir sie bisher als  Affektsignal der Gefahr, so erscheint sie uns nun, da  es sich so oft um die Gefahr der Kastration handelt,  als die Reaktion auf einen Verlust, eine Trennung.  Mag auch mancherlei, was sich sofort ergibt, gegen  diesen Schluß sprechen, so muß uns doch eine sehr  merkwürdige Übereinstimmung auffallen. Das erste Angsterlebnis des Menschen wenigstens ist die Geburt  und diese bedeutet objektiv die Trennung von der  Mutter, könnte einer Kastration der Mutter (nach der  Gleichung Kind — Penis) verglichen werden. Nun wäre  es sehr befriedigend, wenn die Angst als Symbol einer  Trennung bei jeder späteren Irennung wiederholt  würde, aber leider steht einer Verwertung dieses Zu-  sammenstimmens im Wege, daß ja die Geburt subjektiv  nicht als Trennung von der Mutter erlebt wird, da  diese als Objekt dem durchaus narzifßstischen Fötus  völlig unbekannt ist. Ein anderes Bedenken wird  lauten, daß uns die Affektreaktionen auf eine Trennung  bekannt sind, und daß wir sie als Schmerz und Trauer,  nicht als Angst empfinden. Allerdings erinnern wir  uns, wir haben bei der Diskussion der Trauer auch  nicht verstehen können, warum sie so schmerzhaft ist. Es ist Zeit, sich zu besinnen. Wir suchen offenbar  nach einer Einsicht, die uns das Wesen der Angst  erschließt, nach einem Entweder—Oder, das die  Wahrheit über sie vom Irrtum scheidet. Aber das ist  schwer zu haben, die Angst ist nicht einfach zu erfassen.  Bisher haben wir nichts erreicht als Widersprüche,  zwischen denen ohne Vorurteil keine Wahl möglich  war. Ich schlage jetzt vor, es anders zu machen; wir  wollen unparteisch alles zusammentragen, was wir  von der Angst aussagen können, und dabei auf die  Erwartung einer nahen Synthese verzichten.   Die Angst ist also in erster Linie etwas Empfundenes.  Wir heißen sie einen Affektzustand, obwohl wir auch  nicht wissen, was ein Affekt ist. Sie hat als Empfindung  offenbarsten Unlustcharakter, aber das erschöpft nicht  ihre Qualität; nicht jede Unlust können wir Angst  heifßen. Es gibt andere Empfindungen mit Unlust-  charakter (Spannungen, Schmerz, Trauer) und die  Angst mufS außer dieser Unlustqualität andere Besonder-  heiten haben. Eine Frage: Werden wir es dazu bringen, die Unterschiede zwischen diesen verschiedenen Unlust-  affekten zu verstehen?   Aus der Empfindung der Angst können wir immer-  hin etwas entnehmen. Ihr Unlustcharakter scheint eine  besondere Note zu haben; das ist schwer zu beweisen,  aber wahrscheinlich; es wäre nichts Auffälliges. Aber  außer diesem schwer isolierbaren Eigencharakter nehmen  wir an der Angst bestimmtere körperliche Sensationen  wahr, die wir auf bestimmte Organe beziehen. Da  uns die Physiologie der Angst hier nicht interessiert,  genügt es uns, einzelne Repräsentanten dieser Sensa-  tionen hervorzuheben, also die häufigsten und deut-  lichsten an den Atmungsorganen und am Herzen.  Sie sind uns Beweise dafür, dafß motorische Inner-  vationen, also Abfuhrvorgänge an dem Granzen der  Angst Anteil haben. Die Analyse des Angstzustandes  ergibt also ı) einen spezifischen Unlustcharakter,  2) Abfuhraktionen, 3) die Wahrnehmungen derselben.   Die Punkte 2) und 3) ergeben uns bereits einen  Unterschied gegen die ähnlichen Zustände, z. B.  der Trauer und des Schmerzes. Bei diesen gehören  die motorischen Äußerungen nicht dazu; wo sie vor-  handen sind, sondern sie sich deutlich nicht als Bestand-  teile des Ganzen, sondern als Konsequenzen oder  Reaktionen darauf. Die Angst ist also ein besonderer  Unlustzustand mit Abfuhraktionen auf bestimmte Bahnen.  Nach unseren allgemeinen Anschauungen werden wir  glauben, daß der Angst eine Steigerung der Erregung zugrunde liegt, die einerseits den Unlustcharakter  schafft, andererseits sich durch die genannten Abfuhren  erleichtert. Diese rein physiologische Zusammenfassung  wird uns aber kaum genügen; wir sind versucht,  anzunehmen, dafß ein historisches Moment da ist,  welches die Sensationen und Innervationen der Angst  fest an einander bindet. Mit anderen Worten, daß  der Angstzustand die Reproduktion eines Erlebnisses  ist, das die Bedingungen einer solchen Reizsteigerung  und der Abfuhr auf bestimmte Bahnen enthielt, wodurch  also die Unlust der Angst ihren spezifischen Charakter  erhält. Als solches vorbildliches Erlebnis bietet sich  uns für den Menschen die Geburt, und darum sind  wir geneigt, im Angstzustand eine Reproduktion des  Greburtstraumas zu sehen. Wir haben damit nichts behauptet, was der Angst  eine Ausnahmsstellung unter den Affektzuständen ein-  räumen würde. Wir meinen, auch die anderen Affekte  sind Reproduktionen alter, lebenswichtiger, eventuell  vorindividueller Ereignisse und wir bringen sie als allgemeine, typische, mitgeborene hysterische Anfälle  in Vergleich mit den spät und individuell erworbenen  Attacken der hysterischen Neurose, deren Genese und  Bedeutung als Erinnerungssymbole uns durch die  Analyse deutlich geworden ist. Natürlich wäre es sehr  wünschenswert, diese Auffassung für eine Reihe anderer  Afiekte beweisend durchführen zu können, wovon  wir heute weit entfernt sind. Die Zurückführung der Angst auf das Geburts-  ereignis hat sich gegen naheliegende Einwände zu  verteidigen. Die Angst ist eine wahrscheinlich allen  Organismen, jedenfalls allen höheren zukommende  Reaktion, die Geburt wird nur von den Säugetieren  erlebt, und es ist fraglich, ob sie bei allen diesen die  Bedeutung eines Traumas hat. Es gibt also Angst  ohne Geburtsvorbild. Aber dieser Einwand setzt sich  über die Schranken zwischen Biologie und Psychologie  hinaus. Gerade weil die Angst eine biologisch unent-  behrliche Funktion zu erfüllen hat, als Reaktion auf  den Zustand der Gefahr, mag sie bei verschiedenen  Lebewesen auf verschiedene Art eingerichtet worden  sein. Wir wissen auch nicht, ob sie bei dem Menschen  ferner stehenden Lebewesen denselben Inhalt an Sen-  sationen und Innervationen hat wie beim Menschen.  Das hindert also nicht, daf3 die Angst beim Menschen  den Geburtsvorgang zum Vorbild nimmt. Wenn dies die Struktur und die Herkunft der  Angst ist, so lautet die weitere Frage: Was ist ihre  Funktion? Bei welchen Gelegenheiten wird sie reprodu-  ziert? Die Antwort scheint naheliegend und zwingend  zu sein. Die Angst entstand als Reaktion auf einen  Zustand der Gefahr, sie wird nun regelmäßig reprodu-  ziert, wenn sich ein solcher Zustand wieder einstellt.   Dazu ist aber einiges zu bemerken. Die Inner-  vationen des ursprünglichen Angstzustandes waren  wahrscheinlich auch sinnvoll und zweckmäßig, ganz  a  so wie die Muskelaktionen des ersten hysterischen An-  falls. Wenn man den hysterischen Anfall erklären will,  braucht man ja nur die Situation zu suchen, in der  die betreffenden Bewegungen Anteile einer berech-  tigten Handlung waren. So hat wahrscheinlich während  der Geburt die Richtung der Innervation auf die  Atmungsorgane die Tätigkeit der Lungen vorbereitet,  die Beschleunigung des Herzschlags gegen die Ver-  giftung des Blutes arbeiten wollen. Diese Zweckmäßig-  keit entfällt natürlich bei der späteren Reproduktion  des Angstzustandes als Affekt, wie sie auch beim  wiederholten hysterischen Anfall vermißt wird. Wenn  also das Individuum in eine neue Gefahrsituation gerät,  so kann es leicht unzweckmäßig werden, daß es mit  dem Angstzustand, der Reaktion auf eine frühere  Gefahr antwortet, anstatt die der jetzigen adäquaten  Reaktion einzuschlagen. Die Zweckmäßigkeit tritt aber  wieder hervor, wenn die Gefahrsituation als heran-  nahend erkannt und durch den Angstausbruch signa-  lisiert wird. Die Angst kann dann sofort durch ge-  eignetere Maßnahmen abgelöst werden. Es sondern  sich also sofort zwei Möglichkeiten des Auftretens der  Angst: die eine, unzweckmäßige, in einer neuen Gefahr-  situation, die andere, zweckmäßige, zur Signalisierung  und Verhütung einer solchen. Was aber ist eine „Gefahr‘‘? Im Geburtsakt  besteht eine objektive Gefahr für die Erhaltung des  Lebens, wir wissen, was das in der Realität bedeutet. Aber psychologisch sagt es uns gar nichts. Die Gefahr  der Geburt hat noch keinen psychischen Inhalt.  Sicherlich dürfen wir beim Fötus nichts voraussetzen,  was sich irgendwie einer Art von Wissen um die  Möglichkeit eines Ausgangs in Lebensvernichtung an-  nähert. Der Fötus kann nichts anderes bemerken  als eine großartige Störung in der Ökonomie seiner  narzißtischen Libido. Große Erregungssummen dringen  zu ihm, erzeugen neuartige Unlustempfindungen, manche  Organe erzwingen sich erhöhte Besetzungen, was wie  ein Vorspiel der bald beginnenden Objektbesetzung  ist; was davon wird als Merkzeichen einer ‚Grefahr-  situation‘ Verwertung finden?   Wir wissen leider viel zu wenig von der seelischen  Verfassung des Neugeborenen, um diese Frage direkt  zu beantworten. Ich kann nicht einmal für die Brauch-  barkeit der eben gegebenen Schilderung einstehen. Es  ist leicht zu sagen, das Neugeborene werde den Angst-  affekt in allen Situationen wiederholen, die es an das  Geburtsereignis erinnert. Der entscheidende Punkt  bleibt aber, wodurch und woran es erinnert wird.   Es bleibt uns kaum etwas anderes übrig, als die  Anlässe zu studieren, bei denen der Säugling oder  das ein wenig ältere Kind sich zur Angstentwicklung  bereit zeigt. Rank hat in Das Irauma  der Geburt einen sehr energischen Versuch gemacht, [Rank, Das Trauma der Geburt und seine Bedeutung  für die Psychoanalyse. Internat. Psychoanalyt. Bibliothek.  die Beziehungen der frühesten Phobien des Kindes  zum Eindruck des Geburtsereignisses zu erweisen,  allein ich kann ihn nicht für geglückt halten. Man kann  ihm zweierlei vorwerfen: Erstens, dafs er auf der Vor-  aussetzung beruht, das Kind habe bestimmte Sinnes-  eindrücke, insbesondere visueller Natur, bei seiner  Geburt empfangen, deren Erneuerung die Erinnerung  an das Greburtstrauma und somit die Angstreaktion  hervorrufen kann. Diese Annahme ist völlig unbewiesen  und sehr unwahrscheinlich; es ist nicht glaubhaft, dafs  das Kind andere als taktileund Allgemeinsensationen vom  Geburtsvorgang bewahrt hat. Wenn es also später  Angst vor kleinen Tieren zeigt, die in Löchern ver-  schwinden oder aus diesen herauskommen, so erklärt  Rank diese Reaktion durch die Wahrnehmung einer  Analogie, dieaber dem Kinde nicht auffällig werden kann.  Zweitens, daß Rank in der Würdigung dieser späteren  Angstsituationen je nach Bedürfnis die Erinnerung an die  glückliche intrauterine Existenz oder an deren trauma-  tische Störung wirksam werden läßt, womit der Willkür  in der Deutung Tür und Tor geöffnet wird. Einzelne  Fälle dieser Kinderangst widersetzen sich direkt der  Anwendung des Rank schen Prinzips. Wenn das Kind  in Dunkelheit und Einsamkeit gebracht wird, so sollten  wir erwarten, dafs es diese Wiederherstellung der  intrauterinen Situation mit Befriedigung aufnimmt, und  wenn die Tatsache, daß es gerade dann mit Angst  reagiert, auf die Erinnerung an die Störung dieses Glücks durch die Geburt zurückgeführt wird, so kann  man das Gezwungene dieses Erklärungsversuches:nicht  länger verkennen.   Ich muf3 den Schluß ziehen, daß die frühesten  Kindheitsphobien eine direkte Rückführung auf den  Eindruck des Geburtsaktes nicht zulassen und sich  überhaupt bis jetzt der Erklärung entzogen haben.  Fine gewisse Angstbereitschaft des Säuglings ist unver-  kennbar. Sie ist nicht etwa unmittelbar nach der  Geburt am stärksten, um dann langsam abzunehmen,  sondern tritt erst später mit dem Fortschritt der  seelischen Entwicklung hervor und hält über eine  gewisse Periode der Kinderzeit an. Wenn sich solche  Frühphobien über diese Zeit hinaus erstrecken, er-  wecken sie den Verdacht einer neurotischen Störung,  wiewohl uns ihre Beziehung zu den späteren deutlichen  Neurosen der Kindheit keineswegs einsichtlich ist.   Nur wenige Fälle der kindlichen Angstäufßserung  sind uns verständlich; an diese werden wir uns halten  müssen. So, wenn das Kind allein, in der Dunkelheit,  ist und wenn es eine fremde Person an Stelle der ihm  vertrauten (der Mutter) findet. Diese drei Fälle reduzieren  sich auf eine einzige Bedingung, das Vermissen der  geliebten (ersehnten) Person. Von da an ist aber der  Weg zum Verständnis der Angst und zur Vereinigung  der Widersprüche, die sich an sie zu knüpfen  scheinen, frei.   Das Erinnerungsbild der ersehnten Person wird GB ., Siem. Freud    gewif) intensiv, wahrscheinlich zunächst halluzinatorisch  besetzt. Aber das hat keinen Erfolg und nun hat es  den Anschein, als ob diese Sehnsucht in Angst um-  schlüge. Es macht geradezu den Eindruck, als wäre  diese Angst ein Ausdruck der Ratlosigkeit, als wüßte  das noch sehr unentwickelte Wesen mit dieser sehn-  süchtigen Besetzung nichts Besseres anzufangen. Die  Angst erscheint so. als Reaktion auf das Vermissen  des Objekts und es drängen sich uns die Analogien  auf, daf®? auch die Kastrationsangst die Trennung  von einem hochgeschätzten Objekt zum Inhalt hat,  und daß die ursprünglichste Angst (die „Urangst“  der Geburt) bei der Trennung von der Mutter ent-  stand.   Die nächste Überlegung führt über diese Betonung  des Objektverlustes hinaus. Wenn der Säugling nach  der Wahrnehmung der Mutter verlangt, so doch nur  darum, weil er bereits aus Erfahrung weiß, daß sie  alle seine Bedürfnisse ohne Verzug befriedigt. Die  Situation, die er als „Gefahr“ wertet, gegen die er  versichert sein will, ist also die der Unbefriedigung,  des Anwachsens der Bedürfnisspannung,  gegen die er ohnmächtig ist. Ich meine, von diesem  Gesichtspunkt aus ordnet sich alles ein; die Situation  der Unbefriedigung, in der Reizgrößen eine unlustvolle  Höhe erreichen, ohne Bewältigung durch psychische  Verwendung und Abfuhr zu finden, muß für den Säug-  ling die Analogie mit dem Geburtserlebnis, die Wiederholung der Gefahrsituation sein; das beiden Gemein-  same ist die ökonomische Störung durch das Anwachsen  der Erledigung heischenden Reizgrößen, dieses Moment  also der eigentliche Kern der „Gefahr“. In beiden  Fällen tritt die Angstreaktion auf, die sich auch noch  beim Säugling als zweckmäßig erweist, indem die  Richtung der Abfuhr auf Atem- und Stimmuskulatur  nun die Mutter herbeiruft, wie sie früher die  Lungentätigkeit zur Wegschaffung der inneren Reize  anregte. Mehr als diese Kennzeichnung der Gefahr  braucht das Kind von seiner Geburt nicht bewahrt  zu haben.   Mit der Erfahrung, daß ein äußeres, durch Wahr-  nehmung erfaßbares Objekt der an die Geburt mahnenden  gefährlichen Situation ein Ende machen kann, ver-  schiebt sich nun der Inhalt der Gefahr von der öko-  nomischen Situation auf seine Bedingung, den Objekt-  verlust. Das Vermissen der Mutter wird nun die  Gefahr, bei deren Eintritt der Säugling das Angst-  signal gibt, noch ehe die gefürchtete ökonomische  Situation eingetreten ist. Diese Wandlung bedeutet  einen ersten großen Fortschritt in der Fürsorge für  die Selbsterhaltung, sie schließt gleichzeitig den Über-  gang von der automatisch ungewollten Neuentstehung  der Angst zu ihrer beabsichtigten Reproduktion als  Signal der Gefahr ein.   In beiden Hinsichten, sowohl als automatisches Phänomen wie als rettendes Signal, zeigt sich die Angst als Produkt der psychischen Hilflosigkeit des  Säuglings, welche das selbstverständliche Gegenstück  seiner biologischen Hilflosigkeit ist. Das auffällige  Zusammentreffen, daß sowohl die Geburtsangst wie die  Säuglingsangst die Bedingung der Trennung von der  Mutter anerkennt, bedarf keiner psychologischen  Deutung; es erklärt sich biologisch einfach genug aus  der Tatsache, daf3 die Mutter, die zuerst alle Bedürf-  nisse des Fötus durch die Einrichtungen ihres Leibes  beschwichtigt hatte, dieselbe Funktion zum Teil mit  anderen Mitteln auch nach der Geburt fortsetzt.  Intrauterinleben und erste Kindheit sind weit mehr ein  Kontinuum, als uns die auffällige Zensur des Geburtsaktes glauben läßt. Das psychische Mutterobjekt  ersetzt dem Kinde die biologische Fötalsituation. Wir  dürfen darum nicht vergessen, daf3 im Intrauterin-  leben die Mutter kein Objekt war, und daß es damals  keine Objekte gab.   Es ist leicht zu sehen, daß es in diesem Zusammen-  hange keinen Raum für ein Abreagieren des Geburtstraumas gibt, und daß eine andere Funktion der  Angst als die eines Signals zur Vermeidung der  Gefahrsituation nicht aufzufinden ist. Die Angst-  bedingung des Objektverlustes trägt nun noch ein  ganzes Stück weiter. Auch die nächste Wandlung der  Angst, die in der phallischen Phase auftretende  Kastrationsangst, ist eine Irennungsangst und an die-  selbe Bedingung gebunden. Die Gefahr ist hier die Irennung von dem Genitale. Ein vollberechtigt  scheinender Gedankengang von Ferenczi läßt uns  hier die Linie des Zusammenhanges mit den früheren  Inhalten der Gefahrsituation deutlich erkennen. Die hohe  narzifßtische Einschätzung des Penis kann sich darauf  berufen, daß der Besitz dieses Organs die Gewähr für  eine Wiedervereinigung mit der Mutter (dem Mutterersatz) im Akt des Koitus enthält. Die Beraubung  dieses Gliedes ist soviel wie eine neuerliche Trennung  von der Mutter, bedeutet also wiederum, einer unlust-  vollen Bedürfnisspannung (wie bei der Geburt) hilflos  ausgeliefert zu sein. Das Bedürfnis, dessen Ansteigen  gefürchtet wird, ist aber nun ein sSpezialisiertes, das  der genitalen Libido, nicht mehr ein beliebiges wie in  der Säuglingszeit. Ich füge hier an, daf3 die Phantasie  der Rückkehr in den Mutterleib der Koitusersatz des  Impotenten (durch die Kastrationsdrohung Gehemmten)  ist. Im Sinne Ferenczis kann man sagen, das  Individuum, das sich zur Rückkehr in den Mutter-  leib durch sein Genitalorgan vertreten lassen wollte,  ersetzt nun regressiv dies Organ durch seine ganze  Person.   Die Fortschritte in der Entwicklung des Kindes,  die Zunahme seiner Unabhängigkeit, die schärfere  Sonderung seines seelischen Apparats in mehrere  Instanzen, das Auftreten neuer Bedürfnisse, können  nicht ohne Einfluß auf den Inhalt der Gefahrsituation  bleiben. Wir haben dessen Wandlung vom Verlust  des Mutterobjekts zur Kastration verfolgt und sehen  den nächsten Schritt durch die Macht des Über-Ichs  verursacht. Mit dem Unpersönlichwerden der Eltern-  instanz, von der man die Kastration befürchtete, wird  die Gefahr unbestimmter. Die Kastrationsangst ent-  wickelt sich zur Gewissensangst, zur sozialen Angst.  Es ist jetzt nicht mehr so leicht anzugeben, was die  Angst befürchtet. Die Formel: „Trennung, Ausschluß  aus der Horde‘, trifft nur jenen späteren Anteil des  Über-Ichs, der sich in Anlehnung an soziale Vorbilder  entwickelt hat, nicht den Kern des Über-Ichs, der der  introjizierten Elterninstanz entspricht. Allgemeiner aus-  gedrückt, ist es der Zorn, die Strafe. des Über-Ichs,  der Liebesverlust von dessen Seite, den das Ich als  Gefahr wertet und mit dem Angstsignal beantwortet.  Als letzte Wandlung dieser Angst vor dem Über-Ich  ist mir die Todes-(Lebens-)Angst, die Angst vor der  Projektion des Über-Ichs in den Schicksalsmächten  erschienen.   Ich habe früher einmal einen gewissen Wert auf  die Darstellung gelegt, daß es die bei der Verdrän-  gung abgezogene Besetzung ist, welche die Verwen-  dung als Angstabfuhr erfährt. Das erscheint mir nun  heute kaum wissenswert. Der Unterschied liegt darin,  daß ich vormals die Angst in jedem Falle durch einen  ökonomischen Vorgang automatisch entstanden glaubte,  während die jetzige Auffassung der Angst als eines  vom Ich beabsichtigten Signals zum Zweck der Beeinflussung der Lust-Unlustinstanz uns von diesem  ökonomischen Zwange unabhängig macht. Es ist  natürlich nichts gegen die Annahme zu sagen, daß  das Ich gerade die durch die Abziehung bei der  Verdrängung frei gewordene Energie zur Erweckung  des Affekts verwendet, aber es ist bedeutungslos  geworden, mit welchem Anteil Energie dies geschieht.   Ein anderer Satz, den ich einmal ausgesprochen,  verlangt nun nach Überprüfung im Lichte unserer  neuen Auffassung. Es ist die Behauptung, das Ich sei  die eigentliche Angststätte; ich meine, sie wird sich  als zutreffend erweisen. Wir haben nämlich keinen  Anlaß, dem Über-Ich irgendeine Angstäußerung zuzu-  teilen. Wenn aber von einer „Angst des Es die  Rede ist, so hat man nicht zu widersprechen, sondern  einen ungeschickten Ausdruck zu korrigieren. Die  Angst ist ein Affektzustand, der natürlich nur vom  Ich verspürt werden kann. Das Es kann nicht Angst  haben wie das Ich, es ist keine Organisation, kann  Gefahrsituationen nicht beurteilen. Dagegen ist es ein  überaus häufiges Vorkommnis, daß sich im Es Vor-  gänge vorbereiten oder vollziehen, die dem Ich  Anlaß zur Angstentwicklung geben; in der Tat sind  die wahrscheinlich frühesten Verdrängungen, wie die  Mehrzahl aller späteren, durch solche Angst des Ichs  vor einzelnen Vorgängen im Es motiviert. Wir unter-  scheiden hier wiederum mit gutem Grund die beiden  Fälle, daß sich im Es etwas ereignet, was eine der    88 Siem. Freud    Gefahrsituationen fürs Ich aktiviert und es somit  bewegt, zur Inhibition das Angstsignal zu geben, und  den anderen Fall, daß sich im Es die dem Geburts-  trauma analoge Situation herstellt, in der es automatisch  zur Angstreaktion kommt. Man bringt die beiden  Fälle einander näher, wenn man hervorhebt, daf der  zweite der ersten und ursprünglichen Gefahrsituation  entspricht, der erste aber einer der später aus ihr  abgeleiteten Angstbedingungen. Oder auf die wirklich  vorkommenden Affektionen bezogen: daß der zweite  Fall in der Ätiologie der Aktualneurosen verwirklicht  ist, der erste für die der Psychoneurosen charakteri-  stisch bleibt.   Wir sehen nun, daf wir frühere Ermittlungen  nicht zu entwerten, sondern bloß mit den neueren  Einsichten in Verbindung zu bringen brauchen. Es ist  nicht abzuweisen, daß bei Abstinenz, mißbräuchlicher  Störung im Ablauf der Sexualerregung, Ablenkung  derselben von ihrer psychischen Verarbeitung, direkt  Angst aus Libido entsteht, d. h. jener Zustand von  Hilflosigkeit des Ichs gegen eine übergroße Bedürfnis-  spannung hergestellt wird, der wie bei der Geburt in  Angstentwicklung ausgeht, wobei es wieder eine gleich-  gültige, aber nahe liegende Möglichkeit ist, daß gerade  der Überschuß an unverwendeter Libido seine Abfuhr  in der Angstentwicklung findet. Wir sehen, daß sich  auf dem Boden dieser Aktualneurosen besonders  leicht Psychoneurosen entwickeln, das heißt wohl, daß    Femmung, Symptom und Angst 89    das Ich Versuche macht, die Angst, die es eine Weile  suspendiert zu erhalten gelernt hat, zu ersparen und  durch Symptombildung zu binden. Wahrscheinlich  würde die Analyse der traumatischen Kriegsneurosen,  welcher Name allerdings sehr verschiedenartige  Affektionen umfaßt, ergeben haben, daf3 eine Anzahl  von ihnen an den Charakteren der Aktualneurosen  Anteil hat.   Als wir die Entwicklung der verschiedenen Gefahr-  situationen aus dem ursprünglichen Geburtsvorbild  darstellten, lag es uns ferne zu behaupten, dafs jede  spätere Angstbedingung die frühere einfach außer  Kraft setzt. Die Fortschritte der Ichentwicklung tragen  allerding dazu bei, die frühere Gefahrsituation zu entwerten und beiseite zu schieben, so daf man  sagen kann, einem bestimmten Entwicklungsalter sei  eine gewisse Angstbedingung wie adäquat zugeteilt.  Die Gefahr der psychischen Hilflosigkeit pafst zur  Lebenszeit der Unreife des Ichs, wie die Gefahr des  Objektverlustes zur Unselbständigkeit der ersten Kinder-  jahre, die Kastrationsgefahr zur phallischen Phase, die  Über-Ichangst zur Latenzzeit. Aber es können doch  alle diese Gefahrsituationen und Angstbedingungen  nebeneinander fortbestehen bleiben und das Ich auch  zu späteren als den adäquaten Zeiten zur Angstreaktion veranlassen, oder es können mehrere von  ihnen gleichzeitig in Wirksamkeit treten. Möglicher-  weise bestehen auch engere Beziehungen zwischen der wirksamen Gefahrsituation und der Form der auf sie  folgenden Neurose.'   Als wir in einem früheren Stück dieser Unter-  suchungen auf die Bedeutung der Kastrationsgefahr  Seit der Unterscheidung von Ich und Es mußte auch unser  Interesse an den Problemen der Verdrängung eine neue Belebung  erfahren. Bisher hatte es uns genügt, die dem Ich zugewendeten  Seiten des Vorgangs, die Abhaltung vom Bewußtsein und von der  Motilität und die Ersatz- (Symptom-) Bildung ins Auge zu fassen, von  der verdrängten Triebregung selbst nahmen wir an, sie bleibe im  Unbewußten unbestimmt lange unverändert bestehen. Nun wendet  sich das Interesse den Schicksalen des Verdrängten zu, und wir  ahnen, daß ein solcher unveränderter und unveränderlicher Fortbestand nicht selbstverständlich, vielleicht nicht einmal gewöhnlich  ist. Die ursprüngliche Triebregung ist jedenfalls durch die Ver-  drängung gehemmt und von ihrem Ziel abgelenkt worden. Ist aber  ihr Ansatz im Unbewußten erhalten geblieben und hat er sich  resistent gegen die verändernden und entwertenden Einflüsse des  Lebens erwiesen? Bestehen also die alten Wünsche noch, von  deren früherer Existenz uns die Analyse berichtet? Die Antwort  scheint naheliegend und gesichert: Die verdrängten alten Wünsche  müssen im Unbewußten noch fortbestehen, da wir ihre Abkömmlinge,  die Symptome, noch wirksam finden. Aber sie ist nicht zureichend,  sie läßt nicht zwischen den beiden Möglichkeiten entscheiden, ob  der alte Wunsch jetzt nur durch seine Abkömmlinge wirkt, denen  er all seine Besetzungsenergie übertragen hat, oder ob er außerdem  selbst erhalten geblieben ist, Wenn es sein Schicksal war, sich in  der Besetzung seiner Abkömmlinge zu erschöpfen, so bleibt noch  die dritte Möglichkeit, daß er im Verlauf der Neurose durch Re-  gression wiederbelebt wurde, so unzeitgemäß er gegenwärtig sein  mag. Man braucht diese Erwägungen nicht für müßig zu halten;  vieles an den Erscheinungen des krankhaften wie des normalen  Seelenlebens scheint solche Fragestellungen zu erfordern. In meiner  Studie über den Untergang des Ödipuskomplexes bin ich auf den  Unterschied zwischen der bloßen Verdrängung und der wirklichen  Aufhebung einer alten Wunschregung aufmerksam geworden.   bei mehr als einer neurotischen Affektion stießen,  erteilten wir uns die Mahnung, dies Moment doch  nicht zu überschätzen, da es bei dem gewiß mehr  zur Neurose disponierten weiblichen Geschlecht doch  nicht ausschlaggebend sein könnte. Wir sehen jetzt,  daf3 wir nicht in Gefahr sind, die Kastrationsangst für  den einzigen Motor der zur Neurose führenden Abwehr-  vorgänge zu erklären. Ich habe an anderer Stelle  auseinandergesetzt, wie die Entwicklung des kleinen  Mädchens durch den Kastrationskomplex zur zärtlichen  Objektbesetzung gelenkt wird. Gerade beim Weibe  scheint die Gefahrsituation des Objektverlustes die  wirksamste geblieben zu sein. Wir dürfen an ihrer  Angstbedingung die kleine Modifikation anbringen, daß  es sich nicht mehr um das Vermissen oder den realen  Verlust des Objekts handelt, sondern um den Liebes-  verlust von seiten des Objekts. Da es sicher steht,  daß die Hysterie eine größere Affinität zur Weiblich-  keit hat, ebenso wie die Zwangsneurose zur Männlich-  keit, so liegt die Vermutung nahe, die Angstbedingung  des Liebesverlustes spiele bei Hysterie eine ähnliche  Rolle wie die Kastrationsdrohung bei den Phobien,  die Über-Ichangst bei der Zwangsneurose.  IX Was jetzt erübrigt, ist die Behandlung der Be-  ziehungen zwischen Symptombildung und Angst-  entwicklung.   Zwei Meinungen darüber scheinen weit verbreitet  zu sein. Die eine nennt die Angst selbst ein Symptom  der Neurose, die andere glaubt an ein weit innigeres  Verhältnis zwischen beiden. Ihr zufolge würde alle  Symptombildung nur unternommen werden, um der  Angst zu entgehen; die Symptome binden die psychi-  sche Energie, die sonst als Angst abgeführt würde,  so dafß® die Angst das Grundphänomen und Haupt-  problem der Neurose wäre. |   Die zumindest partielle Berechtigung der zweiten  Behauptung läßt sich durch schlagende Beispiele er-  weisen. Wenn man einen Agoraphoben, den man auf  die Straße begleitet hat, dort sich selbst überläßt,  produziert er einen Angstanfall; wenn man einen  Zwangsneurotiker daran hindern läßt, sich nach einer  Berührung die Hände zu waschen, wird er die Beute    MHemmung, Symptom und Angst 93    einer fast unerträglichen Angst. Es ist also klar, die  Bedingung des Begleitetwerdens und die Zwangs-  handlung des Waschens hatten die Absicht und auch  den Erfolg, solche Angstausbrüche zu verhüten. In  diesem Sinne kann auch jede Hemmung, die sich das  Ich auferlegt, Symptom genannt werden.   Da wir die Angstentwicklung auf die Gefahr-  situation zurückgeführt haben, werden wir es vor-  ziehen zu sagen, die Symptome werden geschaffen,  um das Ich der Gefahrsituation zu entziehen. Wird  die Symptombildung verhindert, so tritt die Gefahr  wirklich ein, d. h. es stellt sich jene der Geburt analoge  Situation her, in der sich das Ich hilflos gegen den  stetig wachsenden Triebanspruch findet, also die erste  und ursprünglichste der Angstbedingungen. Für unsere  Anschauung erweisen sich die Beziehungen zwischen  Angst und Symptom weniger eng als angenommen  wurde, die Folge davon, daß wir zwischen beide das  Moment der Gefahrsituation eingeschoben haben. Wir  können auch ergänzend sagen, die Angstentwicklung  leite die Symptombildung ein, ja sie sei eine not-  wendige Voraussetzung derselben, denn wenn das Ich  nicht durch die Angstentwicklung die Lust-Unlust-  Instanz wachrütteln würde, bekäme es nicht die Macht,  den im Es vorbereiteten, gefahrdrohenden Vorgang  aufzuhalten. Dabei ist die,Tendenz unverkennbar, sich  auf ein Mindestmaß von Angstentwicklung zu be-  schränken, die Angst nur als Signal zu verwenden,    94 Sigm. Freud    denn sonst bekäme man die Unlust, die durch den  Triebvorgang droht, nur an anderer Stelle zu spüren,  was kein Erfolg nach der Absicht des Lustprinzips  wäre, sich aber doch bei den Neurosen häufig genug  ereignet.   Die Symptombildung hat also den wirklichen Erfolg,  die Gefahrsituation aufzuheben. Sie hat zwei Seiten;  die eine, die uns verborgen bleibt, stellt im Es jene  Abänderung her, mittels deren das Ich der Gefahr  entzogen wird, die andere uns zugewendete zeigt,  was sie an Stelle des beeinflußten Triebvorganges  geschaffen hat, die Ersatzbildung.   - Wir sollten uns aber korrekter ausdrücken, dem  Abwehrvorgang zuschreiben, was wir eben von der  Symptombildung ausgesagt haben, und den Namen  Symptombildung selbst als synonym mit Ersatzbildung  gebrauchen. Es scheint dann klar, daß der Abwehr-  vorgang analog der Flucht ist, durch die sich das Ich  einer von außen drohenden Gefahr entzieht, daß er  eben einen Fluchtversuch vor einer Triebgefahr darstellt.  Die Bedenken gegen diesen Vergleich werden uns zu  weiterer Klärung verhelfen. Erstens läßt sich ein-  wenden, daß der Objektverlust (der Verlust der Liebe  von seiten des Objekts) und die Kastrationsdrohung  ebensowohl (Gefahren sind, die von außen drohen, wie  etwa ein reißsendes Tier, also nicht Triebgefahren.  Aber es ist doch nicht derselbe Fall. Der Wolf würde  uns wahrscheinlich anfallen, gleichgültig, wie wir uns  gegen ihn benehmen; die geliebte Person würde uns aber  nicht ihre Liebe entziehen, die Kastration uns nicht  angedroht werden, wenn wir nicht bestimmte Gefühle  und Absichten in unserem Inneren nähren würden. So  werden diese Triebregungen zu Bedingungen der  äußeren Gefahr und damit selbst gefährlich, wir können  jetzt die äußere Gefahr durch Maßregeln gegen innere  Gefahren bekämpfen. Bei den Tierphobien scheint die  Gefahr noch durchaus als eine äußerliche empfunden  zu werden, wie sie auch im Symptom eine äußserliche  Verschiebung erfährt. Bei der Zwangsneurose ist sie  weit mehr verinnerlicht, der Anteil der Angst vor dem  Über-Ich, der soziale Angst ist, repräsentiert noch den  innerlichen Ersatz einer äußeren Gefahr, der andere  Anteil, die Gewissensangst, ist durchaus endopsychisch.   Ein zweiter Einwand sagt, beim Fluchtversuch  vor einer drohenden äußeren Gefahr tun wir ja nichts  anderes, als daß wir die Raumdistanz zwischen uns  und dem Drohenden vergrößern. Wir setzen uns ja  nicht gegen die Gefahr zur Wehr, suchen nichts an  ihr selbst zu ändern, wie in dem anderen Falle, daß  wir mit einem Knüttel auf den Wolf losgehen oder  mit einem Gewehr auf ihn schießen. Der Abwehr-  vorgang scheint aber mehr zu tun, als einem Flucht-  versuch entspricht. Er greift ja in den drohenden  Triebablauf ein, unterdrückt ihn irgendwie, lenkt ihn  von seinem Ziel ab, macht ihn dadurch ungefährlich.  Dieser Einwand scheint unabweisbar, wir müssen ihm    96 Siem. Freud    Rechnung tragen. Wir meinen, es wird wohl so sein,  dafß es Abwehrvorgänge gibt, die man mit gutem  Recht einem Fluchtversuch vergleichen kann, während  sich das Ich bei anderen weit aktiver zur Wehre  setzt, energische Gegenaktionen vornimmt. Wenn der  Vergleich der Abwehr mit der Flucht nicht überhaupt  durch den Umstand gestört wird, dafs das Ich und  der Trieb im Es ja Teile derselben Organisation sind,  nicht getrennte Existenzen, wie der Wolf und das Kind,  so daf jede Art Verhaltens des Ichs auch abändernd  auf den Triebvorgang einwirken muß.   Durch das Studium der Angstbedingungen haben  wir das Verhalten des Ichs bei der Abwehr sozusagen  in rationeller Verklärung erblicken müssen. Jede Gefahr-  situation entspricht einer gewissen Lebenszeit oder  Entwicklungsphase des seelischen Apparats und er-  scheint für diese berechtigt. Das frühkindliche Wesen  ist wirklich nicht dafür ausgerüstet, große Erregungs-  summen, die von außen oder innen anlangen, psychisch  zu bewältigen. Zu einer gewissen Lebenszeit ist es  wirklich das wichtigste Interesse, daß die Personen,  von denen man abhängt, ihre zärtliche Sorge nicht  zurückziehen. Wenn der Knabe den mächtigen Vater  als Rivalen bei der Mutter empfindet, seiner aggressiven  Neigungen gegen ihn und seiner sexuellen Absichten  auf die Mutter inne wird, hat er ein Recht dazu, sich  vor ihm zu fürchten, und die Angst vor seiner Strafe  kann durch phylogenetische Verstärkung sich als Kastrationsangst äußern. Mit dem Eintritt in soziale  Beziehungen wird die Angst vor dem Über-Ich, das  Gewissen, zur Notwendigkeit, der Wegfall dieses  Moments die Quelle von schweren Konflikten und  Gefahren usw. Aber gerade daran knüpft sich ein  neues Problem.   Versuchen wir es, den Angstaffekt für eine Weile  durch einen anderen, z. B. den Schmerzaffekt, zu  ersetzen. Wir halten es für durchaus normal, daß das  Mädchen von vier Jahren schmerzlich weint, wenn ihm  eine Puppe zerbricht, mit sechs Jahren, wenn ihm die  Lehrerin einen Verweis gibt, mit sechzehn Jahren,  wenn der Geliebte sich nicht um sie bekümmert, mit  fünfundzwanzig Jahren vielleicht, wenn sie ein Kind  begräbt. Jede dieser Schmerzbedingungen hat ihre  Zeit und erlischt mit deren Ablauf; die letzten, defini-  tiven, erhalten sich dann durchs Leben. Es würde  uns aber auffallen, wenn dies Mädchen als Frau und  Mutter über die Beschädigung einer Nippsache weinen  würde. So benehmen sich aber die Neurotiker. In  ihrem seelischen Apparat sind längst alle Instanzen  zur Reizbewältigung innerhalb weiter Grenzen aus-  gebildet, sie sind erwachsen genug, um die meisten  ihrer Bedürfnisse selbst zu befriedigen, sie wissen längst,  daß die Kastration nicht mehr als Strafe geübt wird,  und doch benehmen sie sich, als bestünden die alten  Gefahrsituationen noch, sie halten an allen früheren  Angstbedingungen fest. Die Antwort hierauf wird etwas weitläufig aus-  fallen. Sie wird vor allem den Tatbestand zu sichten  haben. In einer großen Anzahl von Fällen werden die  alten Angstbedingungen wirklich fallen gelassen, nach-  dem sie bereits neurotische Reaktionen erzeugt haben.  Die Phobien der kleinsten Kinder vor Alleinsein,  Dunkelheit und vor Fremden, die beinahe normal zu  nennen sind, vergehen zumeist in etwas späteren  Jahren, sie ‚wachsen sich aus‘, wie man von manchen  anderen Kindheitsstörungen sagt. Die so häufigen  Tierphobien haben das gleiche Schicksal, viele der  Konversionshysterien der Kinderjahre finden später  keine Fortsetzung. Zeremoniell in der Latenzzeit ist  ein ungemein häufiges Vorkommnis, nur ein sehr  geringer Prozentsatz dieser Fälle entwickelt sich später  zur vollen Zwangsneurose. Die Kinderneurosen sind  überhaupt  soweit unsere Erfahrungen an den  höheren Kulturanforderungen unterworfenen Stadt-  kindern weißer Rasse reichen — regelmäßige Episoden  der Entwicklung, wenngleich ihnen noch immer zu  wenig Aufmerksamkeit geschenkt wird. Man vermißt  die Zeichen der Kindheitsneurose auch nicht bei einem  erwachsenen Neurotiker, während lange nicht alle  Kinder, die sie zeigen, auch später Neurotiker werden.  Es müssen also im Verlaufe der Reifung Angst-  bedingungen aufgegeben worden sein und Gefahrsituationen ihre Bedeutung verloren haben. Dazu  kommt, daß einige dieser Gefahrsituationen sich da-    Femmung, Symptom und Angst 99    durch in späte Zeiten hinüberretten, daß sie ihre  Angstbedingung zeitgemäß modifizieren. So erhält  sich z. B. die Kastrationsangst unter der Maske der  Syphilisphobie, nachdem man erfahren hat, daß zwar  die Kastration nicht mehr als Strafe für das Gewähren-  lassen der sexuellen Gelüste üblich ist, aber daß  dafür der Triebfreiheit schwere Erkrankungen drohen.  Andere der Angstbedingungen sind überhaupt nicht  zum Untergang bestimmt, sondern sollen den Men-  schen durchs Leben begleiten, wie die der Angst vor  dem Über-Ich. Der Neurotiker unterscheidet sich  dann vor den Normalen dadurch, dafs er die Reak-  tionen auf diese Gefahren übermäßig erhöht. Gegen  die Wiederkehr der ursprünglichen traumatischen  Angstsituation bietet endlich auch das Erwachsensein  keinen zureichenden Schutz; es dürfte für jedermann  eine Grenze geben, über die hinaus sein seelischer  Apparat in der Bewältigung der Erledigung heischen-  den Erregungsmengen versagt.   Diese kleinen Berichtigungen können unmöglich  die Bestimmung haben, an der Tatsache zu rütteln,  die hier erörtert wird, der Tatsache, daf$ so viele  Menschen in ihrem Verhalten zur Gefahr infantil  bleiben und verjährte Angstbedingungen nicht über-  winden; dies bestreiten, hieße die Tatsache der Neu-  rose leugnen, denn solche Personen heifst man eben  Neurotiker. Wie ist das aber möglich? Warum sind  nicht alle Neurosen Episoden der Entwicklung, die mit Erreichung der nächsten Phase abgeschlossen  werden?. Woher das Dauermoment in diesen Reaktionen auf die Gefahr? Woher der Vorzug, den der  Angstaffekt vor allen anderen Affekten zu geniefsen  scheint, daß er allein Reaktionen hervorruft, die sich  als abnorm von den anderen sondern und sich als  unzweckmäßig dem Strom des Lebens entgegen-  stellen? Mit anderen Worten, wir finden uns unver-  sehens wieder vor der so oft gestellten Vexierfrage,  woher kommt die Neurose, was ist ihr letztes, das  ihr besondere Motiv? Nach jahrzehntelangen analy-  tischen Bemühungen erhebt sich dies Problem vor  uns, unangetastet, wie zu Anfang.  Die Angst ist die Reaktion auf die Gefahr. Man  kann doch die Idee nicht abweisen, daß es mit dem  Wesen der Gefahr zusammenhängt, wenn sich der  Angstaffekt eine Ausnahmsstellung in der seelischen  Ökonomie erzwingen kann. Aber die Gefahren sind  allgemein menschliche, für alle Individuen die näm-  lichen; was wir brauchen und nicht zur Verfügung  haben, ist ein Moment, das uns die Auslese der Indi-  viduen verständlich macht, die den Angstaffekt trotz  seiner Besonderheit dem normalen seelischen Betrieb  unterwerfen können, oder das bestimmt, wer an dieser  Aufgabe scheitern muß. Ich sehe zwei Versuche vor  mir, ein solches Moment aufzudecken; es ist begreif-  lich, daß jeder solche Versuch eine sympathische  Aufnahme erwarten darf, da er einem quälenden Be-  dürfnis Abhilfe verspricht. Die beiden Versuche  ergänzen einander, indem sie das Problem an ent-  gegengesetzten Enden angreifen. Der erste ist vor  mehr als zehn Jahren von Alfred Adler unternommen worden; er behauptet, auf seinen innersten  Kern reduziert, daf3 diejenigen Menschen an der  Bewältigung der durch die Gefahr gestellten Aufgabe  scheitern, denen die Minderwertigkeit ihrer Organe  zu große Schwierigkeiten bereitet. Bestünde der Satz  Simplex sigillum veri zurecht, so müßte man eine  solche Lösung wie eine Erlösung begrüßen. Aber  im Gegenteile, die Kritik des abgelaufenen Jahrzehnts  hat die volle Unzulänglichkeit dieser Erklärung, die  sich überdies über den ganzen Reichtum der von der  Psychoanalyse aufgedeckten Tatbestände hinaussetzt,  beweisend dargetan.   Den zweiten Versuch hat Rank in Das Trauma der Geburt unternommen.  Es wäre unbillig, ihn dem Versuch von Adler in  einem anderen Punkte als dem einen hier betonten  gleichzustellen, denn er bleibt auf dem Boden der  Psychoanalyse, deren Gedankengänge er fortsetzt und  ist als eine legitime Bemühung zur Lösung der ana-  Iytischen Probleme anzuerkennen. In der gegebenen  Relation zwischen Individuum und Gefahr lenkt Rank  von der Organschwäche des Individuums ab und aut  die veränderliche Intensität der Gefahr hin. Der  Geburtsvorgang ist die erste Gefahrsituation, der von  ihm produzierte ökonomische Aufruhr wird das Vor-  bild der Angstreaktion;, wir haben vorhin die Ent-  wicklungslinie verfolgt, welche diese erste Gefahr-  situation und Angstbedingung mit allen späteren verbindet, und dabei gesehen, daß sie alle etwas Ge-  meinsames bewahren, indem sie alle in gewissem  Sinne eine Trennung von der Mutter bedeuten, zuerst  nur in biologischer Hinsicht, dann im Sinn eines  direkten Objektverlustes und später eines durch in-  direkte Wege vermittelten. Die Aufdeckung dieses  großsen Zusammenhanges ist ein unbestrittenes Ver-  dienst der Rankschen Konstruktion. Nun trifft das  Trauma der Geburt die einzelnen Individuen in ver-  schiedener Intensität, mit der Stärke des Traumas  variiert die Heftigkeit der Angstreaktion, und es soll  nach Rank von dieser Anfangsgröße der Angst-  entwicklung abhängen, ob das Individuum jemals ihre  Beherrschung erlernen kann, ob es neurotisch wird  oder normal.   Die Einzelkritik der Rankschen Aufstellungen ist  nicht unsere Aufgabe, bloß deren Prüfung, ob sie zur  Lösung unseres Problems brauchbar sind. Die Formel  Ranks, Neurotiker werde der, dem es wegen der  Stärke des Geburtstraumas niemals gelinge, dieses  völlig abzureagieren, ist theoretisch höchst anfechtbar.  Man weiß nicht recht, was mit dem Abreagieren des  Traumas gemeint ist. Versteht man es wörtlich, so  kommt man zu dem unhaltbaren Schluß, daß der  Neurotiker sich um so mehr der Gesundung nähert,  je häufiger und intensiver er den Angstaffekt repro-  duziert. Wegen dieses Widerspruches mit der Wirk-  lichkeit hatte ich ja seinerzeit die Theorie des Abreagierens aufgegeben, die in der Katharsis eine so  große Rolle spielte. Die Betonung der wechselnden  Stärke des Geburtstraumas läßt keinen Raum für den  berechtigten ätiologischen Anspruch der hereditären  Konstitution. Sie ist ja ein organisches Moment,  welches sich gegen die Konstitution wie eine Zu-  fälligkeit verhält und selbst von vielen, zufällig zu  nennenden Einflüssen, z. B. von der rechtzeitigen  Hilfeleistung bei der Geburt abhängig ist. Die Rank-  sche Lehre hat konstitutionelle wie phylogenetische  Faktoren überhaupt außer Betracht gelassen. Will  man aber für die Bedeutung der Konstitution Raum  schaffen, etwa durch die Modifikation, es käme viel  mehr darauf an, wie ausgiebig das Individuum auf die  variable Intensität des Geburtstraumas reagiere, SO  hat man der Theorie ihre Bedeutung geraubt, und  den neu eingeführten Faktor auf eine Nebenrolle ein-  geschränkt. Die Entscheidung über den Ausgang in  Neurose liegt dann doch auf einem anderen, wiederum  auf einem unbekannten Gebiet.   Die Tatsache, daß der Mensch den Geburtsvor-  gang mit den anderen Säugetieren gemein hat,  während ihm eine besondere Disposition zur Neurose  als Vorrecht vor den Tieren zukommt, wird kaum  günstig für die Ranksche Lehre stimmen. Der Haupt-  einwand bleibt aber, daß sie in der Luft schwebt,  anstatt sich auf gesicherte Beobachtung zu stützen. Es  gibt keine guten Untersuchungen darüber, ob schwere    Aemmung, Symptom und Angst und protrahierte Geburt in unverkennbarer Weise mit  Entwicklung von Neurose zusammentreffen, ja, ob so  geborene Kinder nur die Phänomene der frühinfantilen  Ängstlichkeit länger oder stärker zeigen als andere.  Macht man geltend, daf präzipitierte und für die  Mutter leichte Geburten für das Kind möglicher-  weise die Bedeutung von schweren Traumen haben,  so bleibt doch die Forderung aufrecht, dafS Geburten,  die zur Asphyxie führen, die behaupteten Folgen mit  Sicherheit erkennen lassen müßten. Es scheint ein  Vorteil der Rankschen Ätiologie, daß sie ein Moment  voranstellt, das der Nachprüfung am Material der  Erfahrung zugänglich ist; solange man eine solche  Prüfung nicht wirklich vorgenommen hat, ist es  unmöglich, ihren Wert zu beurteilen.   Dagegen kann ich mich der Meinung nicht an-  schließen, daß die Ranksche Lehre der bisher in der  Psychoanalyse anerkannten ätiologischen Bedeutung  der Sexualtriebe widerspricht; denn sie bezieht sich  nur auf das Verhältnis des Individuums zur Gefahrsituation und läßt die gute Auskunft offen, dafs, wer  die anfänglichen Gefahren nicht bewältigen konnte,  auch in den später auftauchenden Situationen sexueller  Gefahr versagen muß und dadurch in die Neurose  gedrängt wird.   Ich glaube also nicht, daß der Ranksche Versuch  uns die Antwort auf die Frage nach der Begründung  der Neurose gebracht hat, und ich meine, es läfst sich noch nicht entscheiden, einen wie großen Beitrag zur  Lösung der Frage er doch enthält. Wenn die Unter-  suchungen über den Einfluß schwerer Geburt auf die  Disposition zu Neurosen negativ ausfallen, ist dieser  Beitrag gering einzuschätzen. Es ist sehr zu besorgen,  daß das Bedürfnis nach einer greifbaren und einheitlichen letzten Ursache‘‘ der Nervosität immer un-  befriedigt bleiben wird. Der ideale Fall, nach dem  sich der Mediziner wahrscheinlich noch heute sehnt,  wäre der des Bazillus, der sich isolieren und reinzüchten  läßt, und dessen Impfung bei jedem Individuum die  nämliche Affektion hervorruft. Oder etwas weniger  phantastisch: die Darstellung von chemischen Stoffen,  deren Verabreichung bestimmte Neurosen produziert und  aufhebt. Aber die Wahrscheinlichkeit spricht nicht für  solche Lösungen des Problems.   Die Psychoanalyse führt zu weniger einfachen,  minder befriedigenden Auskünften. Ich habe hier nur  längst Bekanntes zu wiederholen, nichts Neues hinzu-  zufügen. Wenn es dem Ich gelungen ist, sich einer  gefährlichen Triebregung zu erwehren, z. B. durch  den Vorgang der Verdrängung, so hat es diesen Teil  des Es zwar gehemmt und geschädigt, aber ihm  gleichzeitig auch ein Stück Unabhängigkeit gegeben  und auf ein Stück seiner eigenen Souveränität ver-  zichtet. Das folgt aus der Natur der Verdrängung,  die im Grunde ein Fluchtversuch ist. Das Verdrängte  ist nun „vogelfrei‘, ausgeschlossen aus der großen Organisation des Ichs, nur den Gesetzen unterworfen,  die im Bereich des Unbewußten herrschen. Ändert  sich nun die Gefahrsituation, so daß das Ich kein  Motiv zur Abwehr einer neuerlichen, der verdrängten  analogen Triebregung hat, so werden die Folgen der  Icheinschränkung manifest. Der neuerliche Triebablauf  vollzieht sich unter dem Einfluß des Automatismus,  — ich zöge vor zu sagen: des Wiederholungszwanges,  — er wandelt dieselben Wege wie der früher ver-  drängte, als ob die überwundene Gefahrsituation noch  bestünde. Das fixierende Moment an der Verdrängung  ist also der Wiederholungszwang des unbewufsten Es,  der normalerweise nur durch die frei bewegliche  Funktion des Ichs aufgehoben wird. Nun mag es  dem Ich mitunter gelingen, die Schranken der Verdrängung, die es selbst aufgerichtet, wieder ein-  zureißßen, seinen Einfluß auf die Triebregung wieder-  zugewinnen und den neuerlichen Triebablauf im Sinne  der veränderten Gefahrsituation zu lenken. Tatsache  ist, daß es ihm so oft mißlingt, und daß es seine  Verdrängungen nicht rückgängig machen kann. Quanti-  tative Relationen mögen für den Ausgang dieses  Kampfes maßgebend sein. In manchen Fällen haben  wir den Eindruck, daf die Entscheidung eine zwangs-  läufige ist, die regressive Anziehung der verdrängten  Regung und die Stärke der Verdrängung sind so groß,  daß die neuerliche Regung nur dem Wiederholungs-  zwange folgen kann. In anderen Fällen nehmen wir den Beitrag eines anderen Kräftespiels wahr, die An-  ziehung des verdrängten Vorbilds wird verstärkt durch  die Abstoßung von Seiten der realen Schwierigkeiten,  die sich einem anderen Ablauf der neuerlichen Trieb-  regung entgegensetzen.   Dafß dies der Hergang der Fixierung an die Ver-  drängung und der Erhaltung der nicht mehr aktuellen  Gefahrsituation ist, findet seinen Erweis in der an  sich bescheidenen, aber theoretisch kaum überschätz-  baren Tatsache der analytischen Therapie. Wennwir  dem Ich in der Analyse die Hilfe leisten, die es in  den Stand setzen kann, seine Verdrängungen aufzu-  heben, bekommt es seine Macht über das verdrängte  Es wieder und kann die Triebregungen so ablaufen  lassen, als ob die alten Gefahrsituationen nicht mehr  bestünden. Was wir so erreichen, steht in gutem  Einklang mit dem sonstigen Machtbereich unserer  ärztlichen Leistung. In der Regel muß sich ja unsere  Iherapie damit begnügen, rascher, verläßlicher, mit  weniger Aufwand den guten Ausgang herbeizuführen,  der sich unter günstigen Verhältnissen spontan ergeben  hätte.   Die bisherigen Erwägungen lehren uns, es sind  quantitative Relationen, nicht direkt aufzuzeigen, nur  auf dem Wege des Rückschlusses faßbar, die darüber  entscheiden, ob die alten Gefahrsituationen festgehalten  werden, ob die Verdrängungen des Ichs erhalten  bleiben, ob die Kinderneurosen ihre Fortsetzung finden oder nicht. Von den Faktoren, die an der  Verursachung der Neurosen beteiligt sind, die die  Bedingungen geschaffen haben, unter denen sich die  psychischen Kräfte mit einander messen, heben sich  für unser Verständnis drei hervor, ein biologischer,  ein phylogenetischer und ein rein psychologischer. Der  biologische ist die lang hingezogene Hilflosigkeit und  Abhängigkeit des kleinen Menschenkindes. Die Intrau-  terinexistenz des Menschen erscheint gegen die der  meisten Tiere relativ verkürzt; es wird unfertiger als  diese in die Welt geschickt. Dadurch wird der Ein-  fluß der realen Aufßenwelt verstärkt, die Differen-  zierung des Ichs vom Es frühzeitig gefördert, die  Gefahren der Außenwelt in ihrer Bedeutung er-  höht und der Wert des Objekts, das allein gegen  diese Gefahren schützen und das verlorene Intrau-  terinleben ersetzen kann, enorm gesteigert. Dies bio-  logische Moment stellt also die ersten Gefahrsituationen  her und schafft das Bedürfnis, geliebt zu werden, das  den Menschen nicht mehr verlassen wird.   Der zweite, phylogenetische, Faktor ist von uns  nur erschlossen worden; eine sehr merkwürdige Tat-  sache der Libidoentwicklung hat uns zu seiner An-  nahme gedrängt. Wir finden, daß das Sexualleben  des Menschen sich nicht wie das der meisten ihm  nahestehenden Tiere vom Anfang bis zur Reifung  stetig weiter entwickelt, sondern daß) es nach einer  ersten Frühblüte bis zum fünften Jahr eine energische   Siem. Ireud    Unterbrechung erfährt, worauf es dann mit der  Pubertät von neuem anhebt und an die infantilen  Ansätze anknüpft. Wir meinen, es müßte in den  Schicksalen der Menschenart etwas Wichtiges vorge-  fallen sein, was diese Unterbrechung der Sexualent-  wicklung als historischen Niederschlag hinterlassen hat.  Die pathogene Bedeutung dieses Moments ergibt sich  daraus, dafß die meisten Triebansprüche dieser kind-  lichen Sexualität vom Ich als Gefahren behandelt und  abgewehrt werden, so daf die späteren sexuellen  Regungen der Pubertät, die ichgerecht sein sollten,  in Gefahr sind, der Anziehung der infantilen Vorbilder  zu unterliegen und ihnen in die Verdrängung zu folgen.  Hier stoßen wir auf die direkteste Ätiologie der Neu-  rosen. Es ist merkwürdig, daß der frühe Kontakt mit  den Ansprüchen der Sexualität auf das Ich ähnlich  wirkt, wie die vorzeitige Berührung mit der Aufßen-  welt.   Der dritte oder psychologische Faktor ist in einer  Unvollkommenheit unseres seelischen Apparates zu  finden, die gerade mit seiner Differenzierung in ein  Ich und ein Es zusammenhängt, also in letzter Linie  auch auf den Einfluß der Außenwelt zurückgeht. Durch  die Rücksicht auf die Gefahren der Realität wird das  Ich genötigt, sich gegen gewisse Triebregungen des  Es zur Wehre zu setzen, sie als Gefahren zu be-  handeln. Das Ich kann sich aber gegen innere Trieb-  gefahren nicht in so wirksamer Weise schützen wie    Flemmung, Symptom und Angst III    gegen ein Stück der ihm fremden Realität. Mit dem  Es selbst innig verbunden, kann es die Triebgefahr  nur abwehren, indem es seine eigene Organisation ein-  schränkt und sich die Symptombildung als Ersatz für  seine Beeinträchtigung des Triebes gefallen läßt. Er-  neuert sich dann der Andrang des abgewiesenen  Triebes, so ergeben sich für das Ich alle die Schwierig-  keiten, die wir als das neurotische Leiden kennen.   Weiter muß ich glauben, ist unsere Einsicht in das  Wesen und die Verursachung der Neurosen vorläufig  nicht gekommen. Im Laufe dieser Erörterungen sind verschiedene  Themen berührt worden, die vorzeitig verlassen werden  mußten und die jetzt gesammelt werden sollen, um  den Anteil Aufmerksamkeit zu erhalten, auf den sie  Anspruch haben.    A MODIFIKATIONEN FRÜHER GEÄUSSERTER  ANSICHTEN    a) Widerstand und Gegenbesetzung    Es ist ein wichtiges Stück der Theorie der Ver-  drängung, daß sie nicht einen einmaligen Vorgang dar-  stellt, sondern einen dauernden Aufwand erfordert.  Wenn dieser entfiele, würde der verdrängte Trieb,  der kontinuierlich Zuflüsse aus seinen Quellen erhält,  ein nächstes Mal denselben Weg einschlagen, von dem  er abgedrängt wurde, die Verdrängung würde um  ihren Erfolg gebracht oder sie müßte unbestimmt oft wiederholt werden. So folgt aus der kontinuierlichen  Natur des’ Triebes die Anforderung an das Ich, seine  Abwehraktion durch einen Daueraufwand zu versichern.  Diese Aktion zum Schutz der Verdrängung ist es, die  wir bei der therapeutischen Bemühung als Wider-  stand verspüren. Widerstand setzt das voraus, was  ich als Gegenbesetzung bezeichnet habe. Eine  solche Gegenbesetzung wird bei der Zwangsneurose  greifbar. Sie erscheint hier als Ichveränderung, als  Reaktionsbildung im Ich, durch Verstärkung jener Ein-  stellung, welche der zu verdrängenden Triebrichtung  gegensätzlich ist (Mitleid, Gewissenhaftigkeit, Reinlichkeit). Diese Reaktionsbildungen der Zwangsneurose sind  durchwegs Übertreibungen normaler, im Verlauf der  Latenzzeit entwickelter Charakterzüge. Es ist weit  schwieriger, die Gegenbesetzung bei der Hysterie auf-  zuweisen, wo sie nach der theoretischen Erwartung  ebenso unentbehrlich ist. Auch hier ist ein gewisses  Maß von Ichveränderung durch Reaktionsbildung un-  verkennbar und wird in manchen Verhältnissen so auf-  fällig, daß es sich der Aufmerksamkeit als das Haupt-  symptom des Zustandes aufdrängt. In solcher Weise  wird z. B. der Ambivalenzkonflikt der Hysterie gelöst,  der Haß gegen eine geliebte Person wird durch ein  Übermaß von Zärtlichkeit für sie und AÄngstlichkeit  um sie niedergehalten. Man muß aber als Unter-  schiede gegen die Zwangsneurose hervorheben, daß  solche Reaktionsbildungen nicht die allgemeine Natur von Charakterzügen zeigen, sondern sich auf ganz  spezielle Relationen einschränken. Die Hysterika z. B.,  die ihre im Grunde gehafstten Kinder mit exzessiver  Zärtlichkeit behandelt, wird darum nicht im ganzen  liebesbereiter als andere Frauen, nicht einmal zärtlicher für andere Kinder. Die Reaktionsbildung der  Hysterie hält an einem bestimmten Objekt zähe fest  und erhebt sich nicht zu einer allgemeinen Disposition des Ichs. Für die Zwangsneurose ist gerade  diese Verallgemeinerung, die Lockerung der Objekt-  beziehungen, die Erleichterung der Verschiebung in  der Objektwahl charakteristisch.   Eine andere Art der Gegenbesetzung scheint der  Eigenart der Hysterie gemäfßser zu sein. Die verdrängte  Triebregung kann von zwei Seiten her aktiviert (neu  besetzt) werden, erstens von innen her durch eine  Verstärkung des Triebes aus seinen inneren Erregungs-  quellen, zweitens von außen her durch die Wahr-  nehmung eines Objekts, das dem Trieb erwünscht  wäre. Die hysterische Gegenbesetzung ist nun vor-  zugsweise nach außen gegen die gefährliche Wahr-  nehmung gerichtet, sie nimmt die Form einer beson-  deren Wachsamkeit an, die durch Icheinschrän-  kungen Situationen vermeidet, in denen die Wahr-  nehmung auftreten müßte, und die es zustande bringt,  dieser Wahrnehmung die Aufmerksamkeit zu ent-  ziehen, wenn sie doch aufgetaucht ist. Französische  Autoren (Laforgue) haben kürzlich diese Leistung der Hysterie durch den besonderen Namen ‚Skotomisation ausgezeichnet. Noch auffälliger als bei  Hysterie ist diese Technik der Gegenbesetzung bei  den Phobien, deren Interesse sich darauf konzentriert,  sich immer weiter von der Möglichkeit der gefürch-  teten Wahrnehmung zu entfernen. Der Gegensatz in  der Richtung der Gegenbesetzung zwischen Hysterie  und Phobien einerseits und Zwangsneurose ander-  seits scheint bedeutsam, wenn er auch kein absoluter  ist. Er legt uns nahe anzunehmen, dafs zwischen der  Verdrängung und der äußeren Gegenbesetzung, wie  zwischen der Regression und der inneren Gegen-  besetzung (Ichveränderung durch Reaktionsbildung)  ein innigerer Zusammenhang besteht. Die Abwehr der  gefährlichen Wahrnehmung ist übrigens eine allgemeine  Aufgabe der Neurosen. Verschiedene Gebote und  Verbote der Zwangsneurose sollen der gleichen Ab-  sicht dienen.   Wir haben uns früher einmal klargemacht, dafs  der Widerstand, den wir in der Analyse zu über-  winden haben, vom Ich geleistet wird, das an seinen  Gegenbesetzungen festhält. Das Ich hat es schwer,  seine Aufmerksamkeit Wahrnehmungen und Vorstel-  lungen zuzuwenden, deren Vermeidung es sich bisher  zur Vorschrift gemacht hatte, oder Regungen als die  seinigen anzuerkennen, die den vollsten Gegensatz zu  den ihm als eigen vertrauten bilden. Unsere Bekämp-  fung des Widerstandes in der Analyse gründet sich  auf eine solche Auffassung desselben. Wir machen  den Widerstand bewufst, wo er, wie so häufig, infolge  des Zusammenhanges mit dem Verdrängten selbst  unbewußt ist; wir setzen ihm logische Argumente ent-  gegen, wenn oder nachdem er bewußt geworden ist,  versprechen dem Ich Nutzen und Prämien, wenn es  auf den Widerstand verzichtet. An dem Widerstand  des Ichs ist also nichts zu bezweifeln oder zu be-  richtigen. Dagegen fragt es sich, ob er allein den  Sachverhalt deckt, der uns in der Analyse entgegen-  tritt. Wir machen die Erfahrung, daß das Ich noch  immer Schwierigkeiten findet, die Verdrängungen rück-  gängig zu machen, auch nachdem es den Vorsatz  gefaßt hat, seine Widerstände aufzugeben, und haben  die Phase anstrengender Bemühung, die nach solchem  löblichen Vorsatz folgt, als die des Durcharbeitens bezeichnet. Es liegt nun nahe, das dynamische Moment  anzuerkennen, das ein solches Durcharbeiten notwendig  und verständlich macht. Es kann kaum anders sein,  als dafß® nach Aufhebung des Ichwiderstandes noch  die Macht des Wiederholungszwanges, die Anziehung  der unbewußstten Vorbilder auf den verdrängten Trieb-  vorgang, zu überwinden ist, und es ist nichts dagegen  zu sagen, wenn man dies Moment als den Wider-  stand des Unbewußten bezeichnen will. Lassen  wir uns solche Korrekturen nicht verdrießen; sie sind  erwünscht, wenn sie unser Verständnis um ein Stück  fördern, und keine Schande, wenn sie das frühere nicht widerlegen, sondern bereichern, eventuell eine  Allgemeinheit einschränken, eine zu enge Auffassung  erweitern.   Es ist nicht anzunehmen, daß wir durch diese  Korrektur eine vollständige Übersicht über die Arten  der uns in der Analyse begegnenden Widerstände  gewonnen haben. Bei weiterer Vertiefung merken wir  vielmehr, daß wir fünf Arten des Widerstandes zu  bekämpfen haben, die von drei Seiten herstammen,  nämlich vom Ich, vom Es und vom Über-Ich, wobei  sich das Ich als die Quelle von drei in ihrer Dynamik  unterschiedenen Formen erweist. Der erste dieser drei  Ichwiderstände ist der vorhin behandelte Ver-  drängungswiderstand, über den am wenigsten  Neues zu sagen ist. Von ihm sondert sich der Über-  tragungswiderstand, der von der gleichen Natur  ist, aber in der Analyse andere und weit deutlichere  Erscheinungen macht, da es ihm gelungen ist, eine  Beziehung zur analytischen Situation oder zur Person  des Analytikers herzustellen und somit eine Ver-  drängung, die blof3 erinnert werden sollte, wieder wie  frisch zu beleben. Auch ein Ichwiderstand, aber ganz  anderer Natur, ist jener, der vom Krankheitsgewinn  ausgeht und sich auf die Einbeziehung des Symptoms  ins Ich gründet. Er entspricht dem Sträuben gegen  den Verzicht auf eine Befriedigung oder Erleichterung.  Die vierte Art des Widerstandes den des Es  haben wir eben für die Notwendigkeit des Durcharbeitens verantwortlich gemacht. Der fünfte Wider-  stand, der des Über-Ichs, der zuletzt erkannte,  dunkelste, aber nicht immer schwächste, scheint dem  Schuldbewußtsein oder Strafbedürfnis zu entstammen;  er widersetzt sich jedem Erfolg und demnach auch  der Genesung durch die Analyse.  Angst aus Umwandlung von Libido Die in diesem Aufsatz vertretene Auffassung der  Angst entfernt sich ein Stück weit von jener, die mir  bisher berechtigt schien. Früher betrachtete ich die  Angst als eine allgemeine Reaktion des Ichs unter  den Bedingungen der Unlust, suchte ihr Auftreten  jedesmal ökonomisch zu rechtfertigen und nahm an,  gestützt auf die Untersuchung der Aktualneurosen,  daß Libido (sexuelle Erregung), die vom Ich abge-  lehnt oder nicht verwendet wird, eine direkte Abfuhr  in der Form der Angst findet. Man kann es nicht  übersehen, daß diese verschiedenen Bestimmungen  nicht gut zusammengehen, zum mindesten nicht not-  wendig aus einander folgen. Überdies ergab sich der  Anschein einer besonders innigen Beziehung von Angst  und Libido, die wiederum mit dem Allgemeincharakter  der Angst als Unlustreaktion nicht harmonierte.   Der Einspruch gegen diese Auffassung ging von  der Tendenz aus, das Ich zur alleinigen Angststätte  zu machen, war also eine der Folgen der im ‚Ich  und Es‘ versuchten Gliederung des seelischen Apparates. Der früheren Auffassung lag es nahe, die Libido  der verdrängten Triebregung als die Quelle der Angst  zu betrachten; nach der neueren hatte vielmehr das  Ich für diese Angst aufzukommen. Also Ichangst oder  Trieb-(Es-)Angst. Da das Ich mit desexualisierter  Energie arbeitet, wurde in der Neuerung auch der  intime Zusammenhang von Angst und Libido gelockert.  Ich hoffe, es ist mir gelungen, wenigstens den Wider-  spruch klar zu machen, die Umrisse der Unsicherheit  scharf zu zeichnen. Die Ranksche Mahnung, der Angstaffekt sei,  wie ich selbst zuerst behauptete, eine Folge des  Geburtsvorganges und eine Wiederholung der damals  durchlebten Situation, nötigte zu einer neuerlichen  Prüfung des Angstproblems. Mit seiner eigenen Auf-  fassung der Geburt als Trauma, des Angstzustandes  als Abfuhrreaktion darauf, jedes neuerlichen Angst-  affekts als Versuch, das Trauma immer vollständiger  „abzureagieren“, konnte ich nicht weiter kommen. Es  ergab sich die Nötigung, von der Angstreaktion auf  die Gefahrsituation hinter ihr zurückzugehen.  Mit der Einführung dieses Moments ergaben sich  neue Gesichtspunkte für die Betrachtung. Die Geburt  wurde das Vorbild für alle späteren Grefahrsituationen,  die sich unter den neuen Bedingungen der veränderten  Existenzform und der fortschreitenden psychischen  Entwicklung ergaben. Ihre eigene Bedeutung wurde  aber auch auf diese vorbildliche Beziehung zur Gefahr eingeschränkt. Die bei der Geburt empfundene Angst  wurde nun das Vorbild eines Affektzustandes, der die  Schicksale anderer Affekte teilen mußte. Er reprodu-  zierte sich entweder automatisch in Situationen, die  seinen Ursprungssituationen analog waren, als unzweck-  mäßige Reaktionsform, nachdem er in der ersten  Gefahrsituation zweckmäßig gewesen war. Oder das  Ich bekam Macht über diesen Affekt und reproduzierte  ihn selbst, bediente sich seiner als Warnung vor der  Gefahr und als Mittel, das Eingreifen des Lust-Unlust-  mechanismus wachzurufen. Die biologische Bedeutung  des Angstaffekts kam zu ihrem Recht, indem die  Angst als die allgemeine Reaktion auf die Situation  der Gefahr anerkannt wurde; die Rolle des Ichs als  Angststätte wurde bestätigt, indem dem Ich die Funk-  tion eingeräumt wurde, den Angstaffekt nach seinen  Bedürfnissen zu produzieren. Der Angst wurden so  im späteren Leben zweierlei Ursprungsweisen zuge-  wiesen, die eine ungewollt, automatisch, jedesmal öko-  nomisch gerechtfertigt, wenn sich eine Gefahrsituation  analog jener der Geburt hergestellt hatte, die andere,  vom Ich produzierte, wenn eine solche Situation nur  drohte, um zu ihrer Vermeidung aufzufordern. In  diesem zweiten Fall unterzog sich das Ich der Angst  gleichsam wie einer Impfung, um durch einen abge-  schwächten Krankheitsausbruch einem ungeschwächten  Anfall zu entgehen. Es stellte sich gleichsam die Ge-  fahrsituation lebhaft vor, bei unverkennbarer Tendenz, dies peinliche Erleben auf eine Andeutung, ein Signal,  zu beschränken. Wie sich dabei die verschiedenen  Grefahrsituationen nacheinander entwickeln und doch  genetisch mit einander verknüpft bleiben, ist bereits  im einzelnen dargestellt worden. Vielleicht gelingt es  uns, ein Stück weiter ins Verständnis der Angst ein-  zudringen, wenn wir das Problem des Verhältnisses  zwischen neurotischer Angst und Realangst angreifen.   Die früher behauptete direkte Umsetzung der Libido  in Angst ist unserem Interesse nun weniger bedeut-  sam geworden. Ziehen wir sie doch in Erwägung, so  haben wir mehrere Fälle zu unterscheiden. Für die  Angst, die das Ich als Signal provoziert, kommt sie  nicht in Betracht; also auch nicht in all den Gefahr-  situationen, die das Ich zur Einleitung einer Verdrängung bewegen. Die libidinöse Besetzung der ver-  drängten Triebregung erfährt, wie man es am deut-  lichsten bei der Konversionshysterie sieht, eine andere  Verwendung als die Umsetzung in und Abfuhr als  Angst. Hingegen werden wir bei der weiteren Dis-  kussion der Gefahrsituation auf jenen Fall der Angst-  entwicklung stoßen, der wahrscheinlich anders zu beurteilen ist. Verdrängung und Abwehr Im Zusammenhange der Erörterungen über das  Angstproblem habe ich einen Begriff  oder bescheidener ausgedrückt: einen Terminus  wieder auf-  Siem. Freud    genommen, dessen ich mich zu Anfang meiner Studien  vor dreißig Jahren ausschließend bedient und den ich  späterhin fallen gelassen hatte. Ich meine den des  Abwehrvorganges.” Ich ersetzte ihn in der Folge durch  den der Verdrängung, das Verhältnis zwischen beiden  blieb aber unbestimmt. Ich meine nun, es bringt einen  sicheren Vorteil, auf den alten Begriff der Abwehr  zurückzugreifen, wenn man dabei festsetzt, daß er die  allgemeine Bezeichnung für alle die Techniken sein  soll, deren sich das Ich in seinen eventuell zur Neu-  rose führenden Konflikten bedient, während Verdrän-  gung der Name einer bestimmten solchen Abwehr-  methode bleibt, die uns infolge der Richtung unserer  Untersuchungen zuerst besser bekannt worden ist.  Auch eine bloß terminologische Neuerung will  gerechtfertigt werden, soll der Ausdruck einer neuen  Betrachtungsweise oder einer Erweiterung unserer Ein-  sichten sein. Die Wiederaufnahme des Begriffes Ab-  wehr und die Einschränkung des Begriffes der Ver-  drängung trägt nun einer Tatsache Rechnung, die  längst bekannt ist, aber durch einige neuere Funde an  Bedeutung gewonnen hat. Unsere ersten Erfahrungen  über Verdrängung und Symptombildung machten wir  an der Hysterie; wir sahen, daß der Wahrnehmungs-  inhalt erregender Erlebnisse, der Vorstellungsinhalt  pathogener Gedankenbildungen vergessen und von der  Siehe: Die Abwehr-Neuropsychosen, Ges, Schriften, Bd. 1. Reproduktion im Gedächtnis ausgeschlossen wird, und  haben darum in der Abhaltung vom Bewußtsein einen  Hauptcharakter der hysterischen Verdrängung erkannt.  Später haben wir die Zwangsneurose studiert und  gefunden, daß bei dieser Affektion die pathogenen  Vorfälle nicht vergessen werden. Sie bleiben be-  wußt, werden aber auf eine noch nicht vorstellbare Weise ‚isoliert‘, so daß ungefähr der-  selbe Erfolg erzielt wird wie durch die hysterische  Amnesie. Aber die Differenz ist groß genug, um  unsere Meinung zu berechtigen, der Vorgang, mittels  dessen die Zwangsneurose einen Triebanspruch be-  seitigt, könne nicht der nämliche sein wie bei  Hysterie. Weitere Untersuchungen haben uns gelehrt,  daß bei der Zwangsneurose unter dem Einfluß des  Ichsträubens eine Regression der Triebregungen auf  eine frühere Libidophase erzielt wird, die zwar eine  Verdrängung nicht überflüssig macht, aber offenbar in  demselben Sinne wirkt wie die Verdrängung. Wir  haben ferner gesehen, dafß die auch bei Hysterie anzunehmende Gegenbesetzung bei der Zwangsneurose  als reaktive Ichveränderung eine besonders große Rolle  beim Ichschutz spielt, wir sind auf ein Verfahren der  „Isolierung‘‘ aufmerksam worden, dessen Technik wir  noch nicht angeben können, das sich einen direkten  symptomatischen Ausdruck schafft, und auf die magisch  zu nennende Prozedur des „Ungeschehenmachens‘, über  deren abweisende Tendenz kein Zweifel sein kann, die  Sigm. Freud    aber mit dem Vorgang der ‚Verdrängung‘ keine  Ähnlichkeit mehr hat. Diese Erfahrungen sind Grund  genug, den alten Begriff der Abwehr wieder einzu-  setzen, der alle diese Vorgänge mit gleicher Tendenz Schutz des Ichs gegen Triebansprüche umfassen  kann, und ihm die Verdrängung als einen Spezialfall  zu subsumieren. Die Bedeutung einer solchen Namen-  gebung wird erhöht, wenn man die Möglichkeit erwägt,  daf3 eine Vertiefung unserer Studien eine innige Zu-  sammengehörigkeit zwischen besonderen Formen der  Abwehr und bestimmten Affektionen ergeben könnte,  z. B. zwischen Verdrängung und Hysterie. Unsere  Erwartung richtet sich ferner auf die Möglichkeit einer  anderen bedeu samen Abhängigkeit. Es kann leicht  sein, daßß der seelische Apparat vor der scharfen  Sonderung von Ich und Es, vor der Ausbildung eines  Über-Ichs, andere Methoden der Abwehr übt als nach  der Erreichung dieser Organisationsstufen.  Der Angstaffekt zeigt einige Züge, deren Unter-  suchung weitere Aufklärung verspricht. Die Angst hat  eine unverkennbare Beziehung zur Erwartung; sie  ist Angst vor etwas. Es haftet ihr ein Charakter von  Unbestimmtheit und Objektlosigkeit an; der    Femmung, korrekte Sprachgebrauch ändert selbst ihren Namen,  wenn sie ein Objekt gefunden hat, und ersetzt ihn  dann durch Furcht. Die Angst hat ferner außer ihrer  Beziehung zur Gefahr eine andere zur Neurose, um  deren Aufklärung wir uns seit langem bemühen. Es  entsteht die Frage, warum nicht alle Angstreaktionen  neurotisch sind, warum wir so viele als normal aner-  kennen; endlich verlangt der Unterschied von Real-  angst und neurotischer Angst nach gründlicher Wür-  digung.   Gehen wir von der letzteren Aufgabe aus. Unser  Fortschritt bestand in dem Rückgreifen von der Re-  aktion der Angst auf die Situation der Gefahr. Nehmen  wir dieselbe Veränderung an dem Problem der  Realangst vor, so wird uns dessen Lösung leicht.  Realgefahr ist eine Gefahr, die wir kennen, Realangst  die Angst vor einer solchen bekannten Gefahr. Die  neurotische Angst ist Angst vor einer Gefahr, die wir  nicht kennen. Die neurotische Gefahr mufs also erst  gesucht werden; die Analyse hat uns gelehrt, sie ist  eine Triebgefahr. Indem wir diese dem Ich unbe-  kannte Gefahr zum Bewußtsein bringen, verwischen  wir den Unterschied zwischen Realangst und neuro-  tischer Angst, können wir die letztere wie die erstere  behandeln.   In der Realgefahr entwickeln wir zwei Reaktionen,  die affektive, den Angstausbruch, und die Schutz-  handlung. Voraussichtlich wird bei der Triebgefahr dasselbe geschehen. Wir kennen den Fall des zweck-  mäfßligen Zusammenwirkens beider Reaktionen, indem  die eine das Signal für das Einsetzen der anderen  gibt, aber auch den unzweckmäfßligen Fall, den der  Angstlähmung, daß die eine sich auf Kosten der  anderen ausbreitet.   Es gibt Fälle, in denen sich die Charaktere von  Realangst und neurotischer Angst vermengt zeigen. Die Gefahr ist bekannt und real, aber die Angst vor  ihr übermäßig groß, größer als sie nach unserem Urteil  sein dürfte. In diesem Mehr verrät sich das neurotische  Element. Aber diese Fälle bringen nichts prinzipiell  Neues. Die Analyse zeigt, daß an die bekannte Real-  gefahr eine unerkannte Triebgefahr geknüpft ist.   Wir kommen weiter, wenn wir uns auch mit der  Zurückführung der Angst auf die Gefahr nicht begnügen. Was ist der Kern, die Bedeutung der  Gefahrsituation? Offenbar die Einschätzung unserer  Stärke im Vergleich zu ihrer Größe, das Zugeständnis  unserer Hilflosigkeit gegen sie, der materiellen Hilf-  losigkeit im Falle der Realgefahr, der psychischen Hilf-  losigkeit im Falle der Triebgefahr. Unser Urteil wird  dabei von wirklich gemachten Erfahrungen geleitet  werden; ob es sich in seiner Schätzung irrt, ist für  den Erfolg gleichgültig. Heißen wir eine solche erlebte  Situation von Hilflosigkeit eine traumatische; wir  haben dann guten Grund, die traumatische Situation  von der Gefahrsituation zu trennen. Es ist nun ein wichtiger Fortschritt in unserer  Selbstbewahrung, wenn eine solche traumatische Situa-  tion von Hilflosigkeit nicht abgewartet, sondern vorhergesehen, erwartet, wird. Die Situation, in der die Bedingung für solche Erwartung enthalten ist, heiße die  Gefahrsituation, in ihr wird das Angstsignal gegeben.  Dies will besagen: ich erwarte, daß sich eine Situation  von Hilflosigkeit ergeben wird, oder die gegenwärtige  Situation erinnert mich an eines der früher erfahrenen  traumatischen Erlebnisse. Daher antizipiere ich dieses  Trauma, will mich benehmen, als ob es schon da  wäre, solange noch Zeit ist, es abzuwenden. Die Angst ist also einerseits Erwartung des Traumas, anderseits  eine gemilderte Wiederholung desselben. Die beiden  Charaktere, die uns an der Angst aufgefallen sind,  haben also verschiedenen Ursprung. Ihre Beziehung  zur Erwartung gehört zur Gefahrsituation, ihre Unbestimmtheit und ÖObjektlosigkeit zur traumatischen  Situation der Hilflosigkeit, die in der Grefahrsituation  antizipiert wird. Nach der Entwicklung der Reihe: Angst  Gefahr  Hilflosigkeit (Trauma) können wir zusammenfassen: Die Gefahrsituation ist die erkannte, erinnerte,  erwartete Situation der Hilflosigkeit. Die Angst ist die  ursprüngliche Reaktion auf die Hilflosigkeit im Trauma,  die dann später in der Gefahrsituation als Hilfssignal  reproduziert wird. Das Ich, welches das Trauma passiv  erlebt hat, wiederholt nun aktiv eine abgeschwächte Reproduktion desselben, in der Hoffnung, deren Ab-  lauf selbsttätig leiten zu können. Wir wissen, das Kind  benimmt sich ebenso gegen alle ihm peinlichen Eindrücke, indem es sie im Spiel reproduziert; durch  diese Art von der Passivität zur Aktivität überzugehen, sucht es seine Lebenseindrücke psychisch zu  bewältigen. Wenn dies der Sinn eines „Abreagierens  des Traumas‘ sein soll, so kann man nichts mehr  dagegen einwenden. Das Entscheidende ist aber die  erste Verschiebung der Angstreaktion von ihrem Ur-  sprung in der Situation der Hilflosigkeit auf deren  Erwartung, die Gefahrsituation. Dann folgen die weiteren  Verschiebungen von der Gefahr auf die Bedingung der  Gefahr, den Objektverlust und dessen schon erwähnte  Modifikationen. Die „Verwöhnung‘“ des kleinen Kindes hat die uner-  wünschte Folge, daß die Gefahr des Objektverlustes das Objekt als Schutz gegen alle Situationen der  Hilflosigkeit  gegen alle anderen Gefahren über-  steigert wird. Sie begünstigt also die Zurückhaltung  in der Kindheit, der die motorische wie die psychische  Hilflosigkeit eigen sind.   Wir haben bisher keinen Anlaß gehabt, die  Realangst anders zu betrachten als die neurotische  Angst. Wir kennen den Unterschied; die Realgefahr  droht von einem äußeren Objekt, die neurotische  von einem Triebanspruch. Insoferne dieser Triebanspruch etwas Reales ist, kann auch die neurotische Angst als real begründet anerkannt werden.  Wir haben verstanden, daß der Anschein einer be-  sonders intimen Beziehung zwischen Angst und Neurose sich auf die Tatsache zurückführt, daß das Ich  sich mit Hilfe der Angstreaktion der Triebgefahr  ebenso erwehrt wie der äußeren Realgefahr, daß aber  diese Richtung der Abwehrtätigkeit infolge einer  Unvollkommenheit des seelischen Apparats in die  Neurose ausläuft. Wir haben auch die Überzeugung  gewonnen, dafs der Triebanspruch oft nur darum zur  (inneren) Gefahr wird, weil seine Befriedigung eine  äußere Gefahr herbeiführen würde, also weil diese  innere Gefahr eine äußere repräsentiert.   Anderseits muß auch die äußere (Real-) Gefahr  eine Verinnerlichung gefunden haben, wenn sie für das  Ich bedeutsam werden soll; sie muf3 in ihrer Beziehung  zu einer erlebten Situation von Hilflosigkeit erkannt  werden." Eine instinktive Erkenntnis von aufSen drohen-  der Gefahren scheint dem Menschen nicht oder nur  in sehr bescheidenem Ausmaf3 mitgegeben worden zu [Es mag auch oft genug vorkommen, daß in einer Gefahrsituation,  die als solche richtig geschätzt wird, zur Realangst ein Stück Trieb-  angst hinzukommt. Der Triebanspruch, vor dessen Befriedigung das  Ich zurückschreckt, wäre dann der masochistische, der gegen die  eigene Person gewendete Destruktionstrieb. Vielleicht erklärt diese  Zutat den Fall, daß die Angstreaktion übermäßig und unzweckmäßig,  lähmend, ausfällt. Die Höhenphobien (Fenster, Turm, Abgrund)  könnten diese Herkunft haben; ihre geheime feminine Bedeutung  steht dem Masochismus nahe.    Freud: Hemmung, Symptom und Angst  Siem. Freud    sein. Kleine Kinder tun unaufhörlich Dinge, die sie in  Lebensgefahr bringen, und können gerade darum das  schützende Objekt nicht entbehren. In der Beziehung  zur traumatischen Situation, gegen die man hilflos ist,  treffen äußere und innere Gefahr, Realgefahr und  Triebanspruch zusammen. Mag das Ich in dem einen  Falle einen Schmerz, der nicht aufhören will, erleben,  im. anderen Falle eine Bedürfnisstauung, die keine  Befriedigung finden kann, die ökonomische Situation  ist für beide Fälle die nämliche und die motorische  Hilflosigkeit findet in der psychischen Hilflosigkeit  ihren Ausdruck.   Die rätselhaften Phobien der frühen Kinderzeit  verdienen an dieser Stelle nochmalige Erwähnung. Die  einen von ihnen — Alleinsein, Dunkelheit, fremde  Personen — konnten wir als Reaktionen auf die  Gefahr des Objektverlusts verstehen; für andere —  kleine Tiere, Gewitter u. dgl. — bietet sich vielleicht  die Auskunft, sie seien die verkümmerten Reste einer  kongenitalen Vorbereitung auf die Realgefahren, die  bei anderen Tieren so deutlich ausgebildet ist. Für  den Menschen zweckmäßig ist allein der Anteil dieser  archaischen Erbschaft, der sich auf den Objektverlust  bezieht. Wenn solche Kinderphobien sich fixieren,  stärker werden und bis in späte Lebensjahre anhalten,  weist die Analyse nach, daf ihr Inhalt sich mit Trieb-  ansprüchen in Verbindung gesetzt hat, zur Vertretung  auch innerer Gefahren geworden ist.  Zur Psychologie der Gefühlsvorgänge liegt so wenig  vor, daf$ die nachstehenden schüchternen Bemer-  kungen auf die nachsichtigste Beurteilung Anspruch  erheben dürfen. An folgender Stelle erhebt sich für  uns das Problem. Wir mufsten sagen, die Angst werde  zur Reaktion auf die Gefahr des Objektverlusts. Nun  kennen wir bereits eine solche Reaktion auf den  Objektverlust, es ist die Trauer. Also wann kommt  es zur einen, wann zur anderen? An der Irauer, mit  der wir uns bereits früher beschäftigt haben,’ blieb  ein Zug völlig unverstanden, ihre besondere Schmerz-  lichkeit. Daß die Trennung vom Objekt schmerzlich  ist, erscheint uns trotzdem selbstverständlich. Also  kompliziert sich das Problem weiter: Wann macht  die Trennung vom Objekt Angst, wann Trauer und  wann vielleicht nur Schmerz?   Sagen wir es gleich, es ist keine Aussicht vor-  handen, Antworten auf diese Fragen zu geben. Wir  werden uns dabei bescheiden, einige Abgrenzungen  und einige Andeutungen zu finden.   Unser Ausgangspunkt sei wiederum die eine  Situation, die wir zu verstehen glauben, die des Säug-  lings, der anstatt seiner Mutter eine fremde Person  erblickt. Er zeigt dann die Angst, die wir auf die   ı) S. Trauer und Melancholie, Ges. Schriften, Bd. V. 193 Siem. Freud    Gefahr des Objektverlustes gedeutet haben. Aber sie  ist wohl komplizierter und verdient eine eingehendere  Diskussion. An der Angst des Säuglings ist zwar kein  Zweifel, aber Gesichtsausdruck und die Reaktion des  Weinens lassen annehmen, daß er außerdem noch  Schmerz empfindet. Es scheint, daß bei ihm einiges  zusammenflieft, was später gesondert werden wird. Er  kann das zeitweilige Vermissen und den dauernden  Verlust noch nicht unterscheiden; wenn er die Mutter  das eine Mal nicht zu Gesicht bekommen hat, benimmt  er sich so, als ob er sie nie wieder sehen sollte, und  es bedarf wiederholter tröstlicher Erfahrungen, bis er  gelernt hat, daf3 auf ein solches Verschwinden der  Mutter ihr Wiedererscheinen zu folgen pflegt. Die  Mutter reift diese für ihn so wichtige Erkenntnis,  indem sie das bekannte Spiel mit ihm aufführt, sich  vor ihm das Gesicht zu verdecken und zu seiner  Freude wieder zu enthüllen. Er kann dann sozusagen  Sehnsucht empfinden, die nicht von Verzweiflung  begleitet ist.   Die Situation, in der er die Mutter vermißt, ist  infolge seines Mißverständnisses für ihn keine Gefahr-  situation, sondern eine traumatische, oder richtiger,  sie ist eine traumatische, wenn er in diesem Moment  ein Bedürfnis verspürt, das die Mutter befriedigen soll;  sie wandelt sich zur Gefahrsituation, wenn dies  Bedürfnis nicht aktuell ist. Die erste Angstbedingung,  die das Ich selbst einführt, ist also die des Wahr-    Memmung, Symptom und Angst 133    nehmungsverlustes, die der des Objektverlustes gleich-  gestellt wird. Ein Liebesverlust kommt noch nicht in  Betracht. Später lehrt die Erfahrung, dafs das Objekt  vorhanden bleiben, aber auf das Kind böse geworden  sein kann, und nun wird der Verlust der Liebe von  seiten des Objekts zur neuen, weit beständigeren  Gefahr und Angstbedingung.   Die traumatische Situation des Vermissens der  Mutter weicht in einem entscheidenden Punkte von  der traumatischen Situation der Geburt ab. Damals  war kein Objekt vorhanden, das vermifst werden  konnte. Die Angst blieb die einzige Reaktion, die zu-  stande kam. Seither haben wiederholte Befriedigungs-  situationen das Objekt der Mutter geschaffen, das  nun im Falle des Bedürfnisses eine intensive, „sehn-  süchtig‘ zu nennende Besetzung erfährt. Auf diese  Neuerung ist die Reaktion des Schmerzes zu beziehen.  Der Schmerz ist also die eigentliche Reaktion auf  den Objektverlust, die Angst die auf die Gefahr,  welche dieser Verlust mit sich bringt, in weiterer  Verschiebung auf die Gefahr des Objektverlustes selbst.   Auch vom Schmerz wissen wir sehr wenig. Den  einzig sicheren Inhalt gibt die Tatsache, dafßß der  Schmerz — zunächst und in der Regel — entsteht,  wenn ein an der Peripherie angreifender Reiz die  Vorrichtungen des Reizschutzes durchbricht und nun  wie ein kontinuierlicher Triebreiz wirkt, gegen den die  sonst wirksamen Muskelaktionen, welche die gereizte Stelle dem Reiz entziehen, ohnmächtig bleiben. Wenn  der Schmerz nicht von einer Hautstelle, sondern von  einem inneren Organ ausgeht, so ändert das nichts  an der Situation; es ist nur ein Stück der inneren  Peripherie an die Stelle der äufseren getreten. Das  Kind hat offenbar Gelegenheit, solche Schmerzerlebnisse  zu machen, die unabhängig von seinen Bedürfnis-  erlebnissen sind. Diese Entstehungsbedingung des  Schmerzes scheint aber sehr wenig Ähnlichkeit mit  einem Objektverlust zu haben, auch ist das für den  Schmerz wesentliche Moment der peripherischen  Reizung in der Sehnsuchtssituation des Kindes völlig  entfallen. Und doch kann es nicht sinnlos sein, dafs  die Sprache den Begriff des inneren, des seelischen,  Schmerzes geschaffen hat und die Empfindungen des  Objektverlusts durchaus dem körperlichen Schmerz  gleichstellt.   Beim körperlichen Schmerz entsteht eine hohe,  narzißßtisch zu nennende Besetzung der schmerzenden  Körperstelle, die immer mehr zunimmt und sozusagen  entleerend auf das Ich wirkt. Es ist bekannt, daf wir,  bei Schmerzen in inneren Organen, räumliche und  andere Vorstellungen von solchen Körperteilen  bekommen, die sonst im bewußten Vorstellen gar nicht  vertreten sind. Auch die merkwürdige Tatsache, dafs  die intensivsten Körperschmerzen bei psychischer  Ablenkung durch ein andersartiges Interesse nicht zu-  stande kommen: (man darf hier nicht sagen; unbewußt  FHemmung, Symptom und Angst 135    bleiben), findet in der Tatsache der Konzentration der  Besetzung auf die psychische Repräsentanz der  schmerzenden Körperstelle ihre Erklärung. Nun scheint  in diesem Punkt die Analogie zu liegen, die die  Übertragung der Schmerzempfindung auf das seelische  (sebiet gestattet hat. Die intensive, infolge ihrer  Unstillbarkeit stets anwachsende Sehnsuchtsbesetzung  des vermißten (verlorenen) Objektes schafft die-  selben ökonomischen Bedingungen wie die Schmerz-  besetzung der verletzten Körperstelle und macht es  möglich, von der peripherischen Bedingtheit des Körper-  schmerzes abzusehen! Der Übergang vom Körper-  schmerz zum Seelenschmerz entspricht dem Wandel  von narzißtischer zur Objektbesetzung. Die vom Be-  dürfnis hochbesetzte Objektvorstellung spielt die Rolle  der von dem Reizzuwachs besetzten Körperstelle.  Die Kontinuität und Unhemmbarkeit des Besetzungs-  vorganges bringen den gleichen Zustand der psychischen Hilflosigkeit hervor. Wenn die dann entstehende  Unlustempfindung den spezifischen, nicht näher zu beschreibenden Charakter des Schmerzes trägt, anstatt  sich in der Reaktionsform der Angst zu äußern, so  liegt es nahe, dafür ein Moment verantwortlich zu  machen, das sonst von der Erklärung noch zu wenig  in Anspruch genommen wurde, das hohe Niveau der  Besetzungs- und Bindungsverhältnisse, auf dem sich  diese zur Unlustempfindung führenden Vorgänge vollziehen. Siem. Freud  Wir kennen noch eine andere Gefühlsreaktion auf  den Objektverlust, die Trauer. Ihre Erklärung bereitet  aber keine Schwierigkeiten mehr. Die Trauer entsteht  unter dem Einfluß der Realitätsprüfung, die kate-  gorisch verlangt, daß man sich von dem Objekt  trennen müsse, weil es nicht mehr besteht. Sie hat  nun die Arbeit zu leisten, diesen Rückzug vom Objekt  in all den Situationen durchzuführen, in denen das  Objekt Gegenstand hoher Besetzung war. Der schmerz-  liche Charakter dieser Trennung fügt sich dann der  eben gegebenen Erklärung durch die hohe und un-  erfüllbare Sehnsuchtsbesetzung des Objekts während  der Reproduktion der Situationen, in denen die Bindung  an das Objekt gelöst werden soll. Kö @ “s NET 5) a r  pn nn >    FRI 4 > Ak er nicr  4 i  n mn;  Pan be  En ‚ — ®  Pe u  “  2,  ”  0  ’3  ni  -  ww."  A  %  ’ > >  „„  7  5   - 2  “  MH  4  9  |  &  e-  i P  D  a  -  ie  u;  i  D    h 5 - & Er 3 a % 0 Pr  r . r.. ’ ) n I F j u er en ur . Bi  i + 2 Le £ > . "u i We ü ‚v i en u j  2 Br 5 er A = hr  Eh 5 Ra IE ION ZUR)  Br. f = en k er u WR LD 1 i ’ „. N  # Dar. . h Pa r r . za & 12 7  Be N A Nr Ra Sl NV  hi DE * im . r „* Ei ne. 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Freud  und Angst  En  un  on  =  In  =  E  u. Massimo Bontempelli. Keywords: il sintomo, “la filosofia pre-platonica secondo Diogene”, “il viaggio di Platone in Italia”, “Il parricidio parminedeo di Platone”, “il platonismo latino” “Boezio e l’aristotelismo”, “ficino”, “telesio e campanella”, “galilei”, “storia e ragione in Vico” “Hegelianismo italiano” “Vera”, “Spaventa” “Jaja” – “idealism italiano” “Croce” “Gentile” “il concetto di stato in Gentile” “Severino e il neo-parmenedismo”, Vattimo e l’implicatura debole, la debolezza della communicazione in Eco”, implicatura sintomatica, sintoma.  “feudalesimo ario” --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bomtempelli” – The Swimming-Pool Library. Bontempelli.

 

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