Grice e Bontadini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale neo-classica –de-ellenizante –I nazionalisti romani – Appio – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I would call Bontadini a Griceian; first, he likes sports, like I do; second he is a neo-classical (as I am) and a anti-anti-metaphysicist, as I am!” -- “Se Dio non ci fosse, il mondo sarebbe contraddittorio» (G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell'esperienza). Esponente di spicco del movimento neotomista, che ebbe presso Milano uno dei suoi più importanti punti di riferimento e diffusione. Iscrittosi presso Milano quando essa aveva iniziato le sue attività, ma non era ancora riconosciuta dal governo italiano, egli fu il terzo laureato assoluto dell'ateneo, presso il quale fu poi professore di filosofia teoretica. Ha insegnato anche presso l'Urbino, Milano e Pavia. Pur rifacendosi alla metafisica classica, quella aristotelica e tomistica, Bontadini si dichiara "neoclassico" intendendo evidenziare il nuovo ruolo che quell'antica metafisica può svolgere nella filosofia contemporanea. Egli infatti definisce se stesso come «un metafisico radicato nel cuore del pensiero moderno». Rifacendosi alla filosofia idealistica ne apprezza soprattutto la «verità metodologica» che ha evidenziato il ruolo della coscienza, del cogito cartesiano, nel cogliere il significato dell'essere pur considerandolo come altro, diverso dalla soggettività della coscienza stessa, realizzando cioè una identità tra il soggetto e l'oggetto, tra l'intelletto e la sensibilità che riporta in luce l'antica teoria parmenidea dell'identità di Essere e Pensiero. Un Parmenide, quello di Bontadini, che non esclude la constatazione del divenire, da un lato, e la denuncia della sua contraddittorietà, dall'altro. Due protocolli che fanno capo rispettivamente ai due piloni del fondamento: l'esperienza e il principio di non contraddizione (primo principio). I due protocolli sono tra loro in contraddizione, e tuttavia godono entrambi del titolo di verità sono verità, però, che in quanto prese nell'antinomia (antinomia dell'esperienza e del logo) si trovano a dover lottare contro un'imputazione di falsità. Giacché l'esperienza oppugna la verità del logo e il logo quella dell'esperienza». Il sapere Una nuova concezione del sapere è alla base del pensiero di Bontadini che ne ribadisce l'origine nell'esperienza che però va intesa non più come risultato delle operazioni della ragione (razionalismo) o come ricezione passiva dei dati empirici (empirismo), ma come "presenza": mentre la gnoseologia contemporanea continua a concepirla nell'ambito di un dualismo dell'essere e del conoscere, correlando così il problema metafisico a quello del conoscere e facendo nascere la questione, di difficile soluzione, di quale correlazione possa esserci tra il pensiero e la realtà. Ma ogni qual volta si considera ciò che si ritiene sia "al di là" del pensiero, questo inevitabilmente è nel pensiero, appartiene al pensiero stesso. Quindi ogni esperienza come presenza è assoluta, perché non costruita, ed è totale, poiché ogni singolo fatto empirico fa parte di essa. L'unità dell'esperienza Si arriva quindi alla concezione di "unità dell'esperienza" dove tra l'esperienza e il pensiero si sviluppa quel rapporto di circolarità che costituisce il sapere. Ma secondo l'insegnamento di Parmenide l'essenza dell'esperienza è il divenire che si presenta come contraddittorio nella sua realtà di essere e di esistere inteso come opposto al non essere. Come può il sapere allora basarsi su una struttura contraddittoria di essere e divenire? «Il divenire si presenta cioè contraddittorio; anzi come la stessa incarnazione della contraddittorietà (l'identificarsi del positivo e del negativo), come la smentita alla suprema e immediata identità: l'essere è. La soluzione in Dio creatore «L'ente, che è temporale in quanto empirico, è eterno in quanto divino». La contraddizione insita nel divenire cioè può essere superata nell'esistenza di Dio creatore. La contraddizione del divenire è superata con la dottrina della creazione, in quanto quella identificazione dell'essere e del non essere, che riscontriamo nell'esperienza, è ora vista come il risultato dell'azione dell'Essere, di Colui che crea dal non essere l'essere. Ma l'essere poi non ricade, divenendo, nel nulla? Non si può, risponde Bontadini, pensare assurdamente che l'essere sia distrutto dal nulla ma il mondo creato da Dio è diverso da Lui ma insieme coincide nella sua creazione non alterando la sua essenziale immutabilità. Severino, traendo le conclusioni dalla concezione del suo maestro Bontadini in un saggio pubblicato su la Rivista di filosofia neo-scolastica dal titolo “Ritornare a Parmenide” elimina ogni differenza tra l'immutabilità di Dio e quella del mondo soggetto al divenire per cui ogni cosa è eterna come è eterno Dio. Rispose con toni duramente ironici Bontadini in un articolo dal titolo“Sozein ta fainomena”. Io mi chiesi con quale barba si trovi, nel mondo dell'essere, il mio alter ego immutabile. Giacché, da quando ero matricola venendo fino ad oggi, di barbe io ne ho cambiate molte centinaia. Ora, se poniamo che tutte sono immutabili, mi pare che non troverei abbastanza superficie sul mio corpoquello fissato per l'eternitàper fare posto a tutte. Ribadì quindi la sua concezione del principio di creazione che permette di superare la contraddittorietà del divenire tramite l'azione creatrice di Di, «in quanto quella identificazione dell'essere e del non-essere, che riscontriamo nell'esperienza, è ora vista come il risultato dell'azione dell'essere (azione indiveniente dell'essere indiveniente). Altre opere: “Saggio di una metafisica dell'esperienza” (Milano, Vita e pensiero); “Studi sull'idealismo” (Urbino, Argalia); “Dall'attualismo al problematicismo. Studi sulla filosofia italiana contemporanea” (Brescia, Scuola); “Studi sulla filosofia dell'età cartesiana” (Brescia, La scuola); “Dal problematicismo alla metafisica. Nuovi studi sulla filosofia italiana contemporanea, Milano, Marzorati); “Indagini di struttura sul gnoseologismo moderno” (Brescia, La scuola); Il compito della metafisica” (Milano, Fratelli Bocca); “Studi di filosofia moderna, Brescia, La scuola); “Conversazioni di metafisica” (Milano, Vita e pensiero); Metafisica e de-ellenizzazione” (Milano, Vita e pensiero); “Appunti di filosofia, Milano, Vita e pensiero), “Metafisica e de-ellenizzazione”; “Sull'aspetto dialettico della dimostrazione dell'esistenza di Dio”. Espulso per le sue posizioni filosofiche dalla Cattolica di Milano. Sembra qui tornare il Deus sive Natura di Spinoza. “Sozein ta fainomena”. Dal diveniente all'immutabile. Studio sul pensiero di Gustavo Bontadini, prefazione di Emanuele Severino, Venezia: Cafoscarina,. Bontadini e la metafisica. L'Essere è Persona. Riflessioni su ontologia e antropologia filosofica in Gustavo Bontadini, Orthotes, Napoli-Salerno. Francesco Saccardi, Metafisica e parmenidismo. Il contributo della filosofia neoclassica, Orthotes, Napoli-Salerno. Dizionario di filosofia. SIEKE. APPIO. Historische disöertation, welche... ^M vi "^r. eingereicht hat. Marburg, Thesis. Marburg. APPIVS CLAVDIUS CÆCVS CENSOR. HisTORiscFiE Dissertation, WELCHE ZUR ErLAKGUXG DER DoCTüRWÜRDE BEI DER Philosophischen Facultät DER KÖNIGLICHEN Universität Marburg EINGEREICHT HAT -- SIEKE. MARBURG. Der Censor APPIO ist schon den Alten ein Problem gewesen. Die Quellenberichte, welche uns vorliegen, geben uns keineswegs ein einheitliches und übereinstimmendes Bild; wir werden vielmehr zwischen den einzelnen Gewährsmännern sowohl in Bezug auf die Thatsachen, als auch auf das Urteil über den Censor und seine politische Wirksamkeit die grössten Unterschiede und Widersprüche finden. Von den alten Autoren haben sich, wie das natürlich ist, die Differenzen auf die neueren Forscher übertragen. In diesem Widerstreit der Meinungen galt es für mich, eine feste Grundlage für alle Erörterungen zu finden. Und diese glaube ich in dem Satze sehen zu müssen, dass der Bericht Diodors über die Censur der älteste, reinste und beste ist, welcher uns überliefert ist. Von diesem Berichte müssen wir bei jeder einzelnen Frage ausgehen, ihn überall zu Grunde legen. Von keinem neueren Forscher scheint mir dieser quellenkritische Grundsatz konsequent durchgeführt zu sein. Dies zu versuchen, ist die Aufgabe der folgenden Abhandlung. Amtsantritt und Amtsdauer des Censors App. Claudius. Die Quellen, aus denen fast allein die Kenntnis von der Censur des APPIO und überhaupt seiner Persönlichkeit und politischen Wirksamkeit fliesst, sind Diodor und LIVIO. Verschiedener zu- fälliger Erwähnungen des Censors bei anderen Schriftstellern sowie seines Elogiums (Corp. Inscr. lat.), welches die Ämterlaufbahn giebt, werden wir im Gange der Darstellung zu gedenken haben. Ich stelle die Berichte der beiden Hauptquellen im Zusammenhang voraus. Diod. lautet: 'Ev dt "Fotfifi xartx lomov tot iviamov ri^n^rai; «Aovto xai rovTViv o eteQOi: '^titiio^ K'/Mudiog inmoov l%on' tov avvctiixoyTa yUvxiov Ilkuriiov tio'A/m nur ^GTituiiav vo/ulfiMv ixivf^ae, xat n^onov fih to xaloö^ttrov ^'ATiTtiOvvÖMQ and atadiiov oydoi-xoma xmi-yayfv dg rijv 'Piofn;v xai TiolXd Tiov dt]/iWaio)r xQ^Jf^ckm' eig lavrr^r n]v xazaaxevfjv dvi^kcjasv av€v doyitiatog rijc; aiyxh'^iov. fif-uc dt ravta lijg a^'avTOv xh^&eiat^g ''AnTiiag oöov rd 7cktov fitQOi; d^oig areQeoig xartarQwaev and 'Pio/iit^g f^x^i^ Kanvi^g ovroi: tov öiaöTrjltiaTOi; aradiviv Tiltiown'*' i^dnon' rovi; /.dv vnsQtxovTai; öiaüxcci^fag roug dt (paQayyviöfig ?} xoilovg dvalrifi^iaaiv d^iohlyotg iSiocooccg xaravi^hoatv dnaöag rag ör^liwalag n()oa6dovgy auzod de juvi^juelov d&dvarov xaTehnev dg xoivrjv evx{)j]aTiav cpiloTifiT^d^eig' xatejiii^t dt xai rijv auyxh]TOv ov tovg evyevslg xai nQOtxovTag xdig a'^uofiaac 7i()ogyiid<pcov ^lovovg, uig r^v si^oS, dlkd nollovg xai rtov d7iBXtvd^i{)iov vlovg dvt^u^B^ i(f olg ßaQtojg tfSQOv oi xavx^o/nevoi Tijg eoyeveiag* edioxe dt Toig noUTaig xai ti]y t^ovalav onoi TiQoaiQoh'TO rifii^- aaa^ar ro dt okov dQclt' rtOrjaavQiafutvov xax" avrov TiaQa rolg iTiKpavtatdioig rdv <p^dvov i^txhve rd Tt^oaxomHy^iöi tiov dllojv Tiohtviv dvTiiay^ia xaTaoxevd^on' rjj rwv svyevdjv dkko- TQiozr^Tt TTJv 7ia(td lioY nokhov evvoiav xai xaid fitv T?jv tiov Innkiiv doxijtiaaiav ovdevdg dcfsü.eTO rdv 'innov, xard dt r?}v TcJv avvtdQtJv xatayQaipi]}' oudtva tiov ddo^ovvTon' avyxh]TixLov t^tßakevj onti) j}y td^og noielv rolg rifirjaJg, a^' oi fih vnaTOi did TOV (fO^drov xa) duc rd ßovltotha Tolg tniffareOTaTOig x«- ()U€Gi)^ai oimy/or n)v Oüyyh]TOv ov ti)v vrid toütov xaraleyelöav, dlld T}]v und Ttr7v n()oyty€V7^^itru)v tifirjiör xcaayqacptlöav o dt di^jiwg jOiTOig fitv dvTi7T()dTTiov, Tift dt ^AnnUi* ov/ii(pikoTt jitovuti'og Xia f/;r nor dcoytTtor 7ii)oay('tyt]r ßtßcucoaai ßov?,6fitrog dyo()dvofior tiktio trg tniifartaititag dyoi>avoftiag vidv dnelevd^iiiov rralov 0/Mßiov, og n^onog ' FiD^ialuv TavTrjg Trjg di)xrjg f-V<7« naiodg vh' dtdov'/.tixoTog.ddt^'AnniogzijgdQyrjg dno/.v&e}g xai tov andTijg avyxlrjtovip^ovov 8vkaßr;^€lg nQoaenoiijO^r^ rvcpkdg elvai xai xar oixiav ejAeivsv. LIVIO: Et censura clara eo anno APPIO et C. Plautii fuit, memoriae tarnen felicioris ad posteros nomen Appi, quod viam munivit et aquam in urbem duxit, eaqüe unus perfecit, quia ob infamem atque invidiosam senatus lectionem verecundia victus collega magistratu se abdicaverat: APPIO iam inde antiquitus insitam pertinaciam familiae gerendo solus censuram obtinuit Itaque consules, qui eum annum secuti sunt, C. Junius Bubulcus tertium et Q. Aemilius Barbula iterum, initio anni questi apud populum deformatum ordinem prava lectione senatus, qua potiores aliquot lectis praeteriti essent, negaverunt eam lectionem se, quae sine recti pravique discrimine ad gratiam et libidinem facta esset, observaturos, et senatum extemplo citaverunt eo ordine, qui ante censores App. Claudium et C. Plautium fuerat. Permulti iam anni erant, cum inter patricioa magistratus tribunosque nulla certamina fuerant, cum ex ea familia, cui velut fato lis cum tribunis et plebe erat, certamen oritur. APPIO (si veda) CLAUDIO censor circumactis decem et octo mansibus, quod Æmilia lege finitum censuræ spatium temporis erat, cum C. Plautius collega eius magistratu se abdicasset, nulla vi compelli, ut abdicaret, potuit. P. Sempronius erat tribunus plebis, qui finiendae censuræ intra legitimum tempus actionem susceperat, non populärem magis quam iustam nee in vulgus quam optimo cuique gratiorem (Schluss): Haec taliaque cum dixisset, prendi censorem et in vincula duci iussit. adprobantibus sex tribunis actionem collegae tres appellanti APPIO (si veda) CLAUDIO auxilio fuerunt, summaque invidia omnium solus censuram gessit. APPIO censorem petisse consulatum, comitiaque eius ab L. Furio tribuno plebis interpellata, donec se censura abdicarit, in quibusdam annalibus invenio. creatus consul, Ceterum Flavium dixerat aedilem fore nsis factio, APPIO (si veda) CLAUDIO censura vires nacta, qui senatum primus libertinorum filiis lectis inquinaverat et, posteaquam eam lectionem nemo ratam habiiit, nee in curia adeptus erat, quas petierat opes urbanas, humilibus per omnes tribus divisis forum et campum corrupit ex eo tempore in duas partes discessit civitas: aliud integer populus fautor et cultor bonorum, aliud forensis factio tenebat, donec Q. Fabius et P. Decius censores facti, et Fabius, simul concordiae causa, simul ne humillimorum in manu comitia essent, omnem forensem turbam excretam in quattuor tribus coniecit urbanasque eas appellavit. adeoque eam rem acceptam gratis animis fcrunt, ut Maximi cognomen, quod tot victoriis non pepererat, hac ordinum temperatione pareret Diodor berichtet die Wahl des APPIO zum Censor zu Ol. Er erzahlt, man habe in diesem Jahre den APPIO und Lucius (sie!) Plautius zu Censoren gewählt. Es ist dies das Jahr der Varronischen Zählung oder das Jahr v. Chr., das Jahr der Consuln Q. Fabius und C. Marcius (Diod.). Zugleich erzählt er an dieser Stelle alles, was er von der Censur zu berichten hat; nur noch einmal erwähnt er späterhin den App. Claudius, nämlich als Consul des Jahres Ol. 118 d. i. des Jahres aer. V. V. Chr. Livius, welcher die Nachrichten über den Censor annalistisch zersplittert, setzt den Amtsantritt der Censoren App. Claudius und Gaius (!) Plautius unter das Consulat des M., 1 TL 44* Ä6r. VÄrr. Valerius und P. Decius (IX, 29), d. h. m das Jahr 312 v. chr. Zum Jahre ^ berichtet er, dass App. Claudius nach Verlauf von IS Monaten, welches nach der lex Aemilia die gesetzmässige Dauer der Censur war, sein Amt nicht niedergelegt, sondern es, obwohl sein College C. Plautius abgedankt habe, bis zur Bewerbung um das Consulat 1. J. -^ fortgeführt habe (IX, 42, 3). Es besteht also im chronologischen Ansatz der Censur zwischen Diodor und Livius eine Differenz von zwei Jahren. Die neueren Forscher schliessen sich sämtlicii, olnie die Differenz zu erörtern, dem Livius an (vgl. Xiebuhr, K. G. Mommsen, R. G. R. Forsch, Wir w^erden jedoch den Ansatz Diodors als den richtigen erkennen. Schon das allgemeine Quellenverhältnis der beiden Autoren, ihr Wert und ihre Glaubwürdigkeit, wird bei der Entscheidung der Frage von Bedeutung sein. Es ist eine seit Niebuhr feststehende Thatsache, dass die bei Diodor erhaltenen Berichte über die ältere römische Ge- schichte eine weit bessere und glaubwürdigere Tradition sind als die livianisclien (Xiebuhr, R. G. Kissen, Rhein. Museum XXV, 27; vgl. dagegen Schwegler, R. G. 11, 22. III, 199). Während diese von Fälschungen völlig durchsetzt sind, bis in das geringste Detail durch die Tendenz rhetorischer Ausschmückung und Erweiterung und patriotischer Verherrlichung entstellt sind und infolge dessen eine sehr trübe Quelle bieten, so weisen die Berichte Diodors, so wenig ihrer sind, und so knapp und lücken- haft diese wenigen auch sind (vgl. jNFommsen, R. Forsch. Chron. Niebuhr, R. G. Volquardsen, Quelle Diodors 11) eine fast reine und unver- fälschte Tradition auf. Die Quelle, aus der Diodor geschöpft hat, reicht eben in relativ alte Zeit hinauf. Freilich lä^st sich sein Gewährsmann nicht mit Bestimmtheit nachweisen ; es ist nicht erwiesen, dass Fabius, der älteste römische, noch griechisch schreibende Annalist, Diodors Quelle sei (Petavius, Doctr. Tempi. Lib. IX, C. 55. Wesseling zu Diodor XI, 1. Xiebuhr, R. G. II 192 A. 629 if., wo aber das 13, und 14. Buch Diodors ausgenommen ist. Mommsen, Chron. 221. R. Forsch. Fabius und Diodor." Vgl. dagegen Schwegler, R. Gesch. Peter, Zur Kritik der Quellen der ältesten römischen Geschichte, 118 f. Nitzsch, Rom. Annalistik, 227. Niese, Hermes XIII, 412 f. Thouret, Fleckeisens Jahrbücher, Splb. 1880. Meyer, Rhein. Museum); es ist leere Hypothese, dass Diodor aus der angeblich ältesten Redaktion der römischen Annalen, welche der Schützling und Parteigenosse unseres App. Claudius, derÄdil Gn.Flavius, bewerkstelligt haben soll, geschöpft habe (Nitzsch, R. Annalistik, 229 if. ; vgl. Momnisen, Chronol. R. G. I, 467. R. Forsch. Schwegler, R. G.); ebenso hypothetisch ist die Behauptung, dass L. Piso, ein Annalist aus der Grachenzeit, Diodors Quelle sei (Clason, Heidelberger Jahrbücher 1872 S. 35. R. G. I, 17. Klimke, Diodor und die röm. Annalistik. Colni, Philologus 1883. S. 1 bis 22; vgl. Mommsen, R. Forsch. 11, 338 A); ganz in der Luft aber schwebt die neueste Ansetzuug Matzats, der in L. Cincius Alimentus, neben Fabius dem ältesten römischen Annalisten, Diodors Gewährsmann sieht (Matzat, R. Chronol.; vgl. Niese, Piniol. Anzeiger 1884 S. 554 f.). Aber wenn auch alle diese Versuche, die Quelle Diodors mit Sicherheit zu ermitteln, misslungen sind, so ist dieselbe dennoch in relativ alte Zeit hinaufzusetzen (vgl. Rhein. Museum 37, 617). Dagegen gehören die Quellen des Livius fast nur der sullanischen und nachsullanischen Zeit oder sogar der cicero- nischen und augusteischen an, wo der Fälschungs- und Aus- schmückungsprozess der Annalistik in vollem Gange war. Zuweilen nennt Livius zwar ältere Gewährsmänner, den Fabius, Cincius, Piso; aber sehr wahrscheinlich hat er diese nur aus zweiter Hand benutzt oder höchstens an dieser oder jener Stelle kurz eingesehen. Meistens nennt Livius als Gewährsmänner Namen wie Lic. Macer, Val. Antias, Aelius Tubero, von deren ersterem es z. B. feststeht, dass er ein Geschichts- fälscher im verwegensten Sinne des Wortes war (Mommsen, R. Forsch. I, 1 ff. II, 315 f. Seeck, Kalendertafeln der Pon- tifices S. 42 ff.). Alle Fälschungen darf man freilich nicht diesen Männern zuschreiben, es giebt Anhaltspunkte, dass die Ausschmückung der Annalen selbst zu Ciceros Zeiten fort- geführt wurde (Niese, Observationes de annalibus Romanis^ Marburg 1885 L 13). Im einzelnen lassen sich die livianischen Berichte nicht auf bestimmte Quellen zurückführen. Man hat ^s zwar, wie für die 3., 4. und 5. Dekade (Nissen, Kritische Untersuchungen über die Quellen der 4. und 5. Dekade des Livius. Böttcher, Quellen des Livius im 21. und 22. Buch), «o auch für die 1. Dekade zu thun versucht (Nitzsch, Röm. Annalistik; Clason, R. G.); aber die Mittel, die man dabei -angewandt hat, leisten keine Bürgschaft für die Wahrheit der Resultate (vgl. Peter, Zur Kriiik der Quellen S. ü ff. Mommsen, R. Forsch). Das dargelegte Quellenverhältnis zwischen Diodor und Livius, wonach Diodor eine weit ältere und getreuere Ueber- lieferung giebt als LIVIO, lässt sich für die Kriegsgeschichte, Verfassungsgeschichte sowie auch für die Zeitrechnung und die Fasten, auf denen die Chronologie beruht, nachweisen. Mommsen hat an schlagenden Beispielen die Güte der diodo- rischen Tradition gegenüber der sonstigen , namentlich der livianifcchcn, nachgewiesen (R. Forsch. II, 222 fl'.). Zwei der Mommsenschen Beispiele betreffen die Fasten (die Consuln des Jahres 433, die Consulartribunenliste a. a. O.). Selbst bei chronologischen Einzelan?ätzen ist derjenige Diodors, wenn €r von dem des Livius abweicht, immer der richtige. Gerade in der Zeit des sog. zweiten Samnterkrieges, in welche die Censur unseres App. Claudius fällt, können wir mehrfach bei Livius Verschiebungen von Ereignissen um mehrere Jahre finden, so berichtet Livius den Waffenstillstand des Jahres 320 zu 318 (IX, 20 vgl. Rhein. Museum 25, 34;, so setzt er den Anfang des Etruskerkrieges schon ins Jahr 312 (LIVIO, Diodor Fleckeisens Jahrb. Splb.). Das allgenn'ine QuellenverhälMiis, wie wir es dargestellt haben, weist darmif hin. 'lass wii in Betreff des Zeitansatzes der Censur unseres Ajjp. Claudius bei Livius eine Verschie- bung anzunehmen und dem Diodor zu folgen haben werden. Zudem lassen sich hierfür eine Reihe von sachlichen Gründen geltend machen. Zunächst ist zu erwähnen, dass sich in des Livius eigener Erzählung Spuren von der ünwahrscheinkeit seines Ansatzes finden. Wenn nämlich Livius den Amts- antritt des Censors in das Jahr 312 setzt und zum Jahre 310 berichtet, dass die 18 Monate, in welchen App. Claudius nach der lex Aemilia gesetz- mässiger Censor war, abgelaufen seien, so folgt daraus, dass sich die 18 ]\Ionate auf ;> Jahre erstreckt liätten, und dass App. Claudius seine Censur in der zweiten Hälfte des Jahres 312 angetreten habe. Nun aber ist nach allem, Avas wir von diesen Verhätnissen wissen, ziemlich sicher, dass die Censoren gewöhnlich kurz nach dem Amtsansritt der ihre Wahl leitenden Oberbeamten, der Consuln, d. i., um hier nur eine allgemeine Bestimmung zu geben, im Frühjahr gewählt wurden i]\Iommsen, Str. II, 324 ff.)? sodass also die 18 Monate jedes Mal schon im nächsten Jahre abliefen. Eine Erstreckung der Censur über 3 Jahre ist nirgends bezeugt, vielfach aber ist überliefert, dass das Lustrum, der Abschluss der censorischen Thätigkeit, im folgenden Jahre stattfand (De Boor, fasti censorii S. 9., LIVIO De Boor, S. 10, Liv. X, 47, 2. i. J. 209. De Boor S. 15, Liv. XXVII, 36, 6 cf. 11, 7 u. s. w.). So wird auch die Censu des App. Claudius, solange sie rechtmässig war, t^ich nicht über 3 Jahre erstreckt haben. Vielmehr wird durch diese Angabe des Livius sein chronologischer Ansatz sehr unwahr- scheinlich gemaclit. De Boor (fasti censorii) hat die zwischen Diodor und Livius bestehende Differenz zu Gunsten des livianischen An- satzes so auszugleichen versucht, da^s er annimmt, Diodor habe die Censur deswegen zum Jahre 310 behandelt, weil er unter diesem Jahre in seiner Quelle die wichtigsten Ereignisse der Censur, die Zwietracht des App. Claudius mit seinem Collegßn C. Plautius und die Uebertretung des über die Dauer der Censur gegebenen Gesetzes (lex Aemilia) von Seiten des App. Claudius, berichtet gefunden hätte. Diese Annahme hebt aber einerseits nicht das Bedenken, welches über die Ausdehnung der Censur oben geltend gemacht ist, und dann widerspricht sie direkt den Worten Diodors, dessen Bericht so beginnt: tv <)t ' Pv'tiii] zcaa rovrov iny triavrov /444 \ ^ f ',' t f " # 1f -J Tiiirini^ hi/.inro y.ca lovntv o fTfooc, ^iTTcrio^ hhxv- tho^ etc. — Man könnte nun für den livianischen Ansatz anführen, dass sowohl die Capitolinischen Fasten, als auch Frontin und Cassiodor mit Livius übereinstimmen. Frontin (de aquis 5) und Cassiodor setzen die Censur unter das Consulat des M. Valerius und P. Decius d. h. in das Jahr 312. Aber dies hat unserer Ansicht nach absolut keine Bedeutung; denn die gesamte nachlivianische Geschichtschreibung über die römische Republik ruht auf den Schultern des Livius, alle Historikei*^ nach Livius gebrauchen ihn als Gewährsmann, so haben auch sor.der Zweifel Frontin und Cassiodor diese chronologische Angabe aus Livius geschöpft. Von grösserer Bedeutung schon könnte es sein, dass die Capitolinischen Fasten gleichfalls mit Livius übereinstimmen, indem sie berichten (C. J. L, I, 432 z. J. ^, De Boor, a. a. O. S. 8), dass im Jahre 312 App. Claudius und C. Plautius das 2ß. Lustrum gefeiert hätten. Es pflegen nämlich die Capitolinischen Fasten zum Antrittsjahr der Censoren die Lustration zu berichten, obwohl das Lustrum doch als Schluss- akt der censorischen Thätigkeit gegen Ende der Censur, also im 2. Jahre der Censur, abgehalten wurde (Mommsen, Str. 11^ 326 A.). Aber auch diese Uebereinstimmung des Livius mit den Capitolinischen Fasten kann nichts für den livianischen Ansatz beweisen. Es ist zwar sicher, dass die Fasten des Livius^ obwohl die Capitolinischen Fasten, als Livius schrieb, schon auf dem Forum standen (Mommsen, R. Forsch), doch von den letzteren unabhängig sind, und dass zwischen beiden die grundsätzlichen Differenzen bestehen, welche überhaupt die Fasten der Jahrtafel (Fasti Capitolini, Chronograph v. J. 354, Idatius, Paschalchronik) von denen der Chroniken <Diodor, Dionys, Livius, Cassiodor) trennen, deren wesent- lichste die ist, dass die Jahrtafel die sog. 4 Diktatorenjahre <v. Chr.) der chronologischen Aus- gleichung wegen eingefügt hat, während die Chroniken -dieselben weder nennen noch zählen (Mommsen, R. Chronol. 110 ff.). Aber ebenso sicher ist, dass die Capitolinischen Fasten, wie die gesamte Jahrtafel, aus keiner besseren und früheren Quelle geflossen sind als die des Livius, während <iie Fasten und die Chronologie des Diodor auf derselben guten, alten Quelle beruhen, aus denen seine Berichte ge- flossen sind (vgl. Rhein. Museum). Es giebt eine Menge Beispiele dafür, dass, während Livius und die €apitolinisclien Fasten gefälschte oder entstellte Fasten und falsche Chronologie haben, Diodor die echten Fasten bewahrt und die richtige Chronologie giebt (vgl. Mommsen, R. Forsch II, 222 u. passim). Deshalb geben wir auch hier dem diodorischen Ansatz den Vorzug. Es bedarf noch der Untersuchung, wie derselbe in die Reihe der Lustren und Censoren, die uns, obzwar nicht von 'Quellen ersten Ranges überliefert ist, passt. Die Vorgänger des App. Claudius in der Censur traten ihr Amt i. J. 318 an. Darin stimmen die Capitolinischen Fasten mit Diodor und Livius überein (C. J. L. I, 432 z. J. ^f, Diod. XIX, 10 Liv. IX, 20, 5). Wenn die beiden letzten dies auch nicht ausdrücklich sagen, so berichten sie doch, dass in diesem Jahre die Tribus Falerna und Ufentina neu eingerichtet seien. Die Neueinrichtung der Tribus war aber ein censorisches Geschäft (LIVIO, cf. Mommsen, Str. II, 361 m. A. 1.) Zwischen dem Amtsantritt, und füglich auch dem Lustrum, dieser Censoren und demjenigen des App. Claudius und C. Plautius lagen demnach, wenn wir dem Livius und den Capitolinischen Fasten folgen, 6 Jahre (318—312); wenn wir mit Diodor den Amtsantritt des App. Claudius ins Jahr 310 setzen, 8 Jahre (318—310). Die nächsten Censoren, M. Valerius und C. Junius, wurden im Jahre 307 gewählt <fasti Capit. C. J. L. I, 432 z. J. ^J^ Liv. IX, 43,25). Das Lustrurn des App. Claudius und C. Plautius ist also nach Livius vierjährig (312—307), nach Diodor zweijährig; das Jahr 309 ist nämlich als Diktatorenjahr nicht zu berechnen^ Die Nachfolger in der Censur, Q. Fabius u. P. Decius, bind nach dem Zeugniss des Livius (IX, 46, 13,) und der Ca- pitolinischen Fasten ((J. J. L. z. J. ~) i. J. 304 gewählt; efv liegen also zwischen ihrem Amtsantritt und dem ihrer Vor- gänger drei Jahre. Das Lustrum des Q. Fabius^ u. P. Decius war dreijährig; die folgenden Censoren traten nämlich ihr Amt i. J. 300 an, wie ^loramsen aus den Resten der Capitolinischen Fasten eruiert hat (C. ,1. L. I, 566 z. J. ~) ; das Jahr 303 ist dabei als Diktatorenjahr nicht zu rechnen. Schon aus dieser Reihe der Lustren, welche dem des- App. Claudius und C. Plautius unmittelbar vorangingen und folgten, geht hervor, dass das Lustrum kein bestimmter Zeit- raum damals gewesen sein kann. In der späteren Zeit, seit dem hannibalischen Kriege, wurde als regelmässige Frist des- Lustrums 5 Jahre festgesetzt und es ist lange so durchgeführt worden (De Boor, fasti censorii S. 15 — 20), bis die beginnende Revolution das Institut erschütterte und bald ganz zerstörte (Mommsen, Chronol. 161. Str. II, 318). In der früheren Zeit waren die Lustrenintervalle ganz imbestimmt ; es werden Lustren von 3, 4, 5 und mehr Jahren überliefert (De Boor, a. a. 0. S. 1 14), ja eins wird ausdrücklich als siebzehn- jährig bezeichnet (Dionys XI, 63). Eine solche Unregel^ mässigkeit kann doch offenbar nicht erklärt werden, wenn man nicht für die frühere Zeit auf die Annahme des Lustrums^ als einer festen Zeitfrist verzichtet; falsch ist es, wenn Mommsen meint, das Lustrum sei, wie die griechische Olym- piade, ursprünglich ein vierjähriger Zeitraum gewesen, aber es sei dies nur als Minimaldauer festgesetzt worden (Chronol. 158. Str. II, 316): es sind ja doch mehrere dreijährige Lustren sicher bezeugt ; unbewiesen ist ferner, wenn De Boor als anfängliche Minimaldauer des Lustrums drei Jahre ansetzt (a. a. 0. S. 43 f.). Die Dauer des Lustrums war ohne Zweifel von der all- gemeinen Lage des Staates abhängig, je nach den Bedürfnissen war das Lustrum länger oder kürzer. Für mehrere Lustren ist es bezeugt, dass sich ihre Kürze aus der Lage der Zeit erklärt z. B. für die des Jahres 89 u. 92 v. Chr. (vgl. Rhein. Museum 25, 487). Da nun das Lustrum ursprünglich kein fester Zeitraum war, so widerspricht dem die Annahme des appianischen Lustrums als eines zweijährigen (310—307) nicht, obgleich kein anderes von solcher Kürze nachweisbar ist. Diese aber erklärt sich aus den Zeitverhältnissen von selbst : Die Patrizier waren durch die Anordnungen des Censors App. Claudius, seine senatus lectio und Tribusänderung, hart getroffen und suchten so schnell als möglich dieselben zu nichte zu machen (s. unten, vgl. Niebuhr, R. G. III, 374. Mommsen, Chronol.). Deshalb wählten sie schon zwei Jahre nach dem Amtsantritt des App. Claudius, also gleich im Jahre nach des Appius Lustration, i. J. 307, neue Censoren, den M. Valerius u. C. Junius. Da aber diese Censoren nichts erreichen konnten — wir wissen nicht, aus welcher Ursache, da von ihrer Amtsführung nichts überliefert ist (Liv., VALERIO MASSIMO) — so wurden schon nach weiteren drei Jahren, i. J. 304, neue Censoren in den Personen des Q. Fabius u. P. Decius gewählt, welche alsbald die Tribus- verteilung des App. Claudius rückgängig machten oder wenigstens umänderten (s. unten). Auch die anstössige Senats- liste des App. Claudius (s. unten) wurde von den Patriziern sogleich umgestossen, u. zwar sofort von den Consuln des folgenden Jahres. Dies waren, wenn wir, wie es richtig ist, mit Diodor den Amtsantritt des App. Claudius in das Jahr 310 setzen — das Jahr 309 ist Diktatorenjahr — die Consuln d. J. 308, Q. Fabius u. P. Decius (Diod., LIVIO). Also haben, wenn wir der guten Quelle Diodors folgen, dieselben Männer, welche als Censoren i. J. 304 die Tribusänderung des App. Claudius rückgängig gemacht haben,^ als Consuln i. J. 308 die Senalsliste des App. Claudius umgestossen. Und es ist diese Thatsache in sich sehr wahr- scheinlich: denn nachdem die ersten Nachfolger des App. Claudius in der Censur die Abschaffung der Tribusänderung des App. Claudius nicht hatten erreichen können, ist es sehr natürlich, dass die Patrizier nun die Männer, welche schon als Consuln so energisch gegen die Neuerungen des App. Claudius vorgegangen waren, zu Censoren wählten. Dies von der Kritik hergestellte Zusammentreffen scheint mir unsere Ansiclit, dass Diodors chronologischer Ansatz der richtige sei, wesentlich zu stützen. In den Quellen des Livius ist also die Censur von 310 auf 312 verschoben: der Grund dieser Verschiebung hängt mit der Ansiclit des Livius über die Amtsdauer des APPIO zusammen, worüber wir nun zu sprechen haben. Die Censur ist nach der Ueberlieferung (Liv. IV, 8, Dion. XI, 63, Zonaras VII, 19, Val. Max IV, 13, Frontin, de aquis 5) bei ihrer Einsetzung (443 v. Chr.) als fünfjährige Magistratur bestimmt worden. Die lex Aemilia d. J. 434 V. Chr. soll sie dann auf 18 Monate beschränkt haben (Liv.). Wahrscheinlich aber ist sie überhaupt erst i. J. 434 V. Chr. eingesetzt worden u. von Anfang an auf 18 Mo- nate beschränkt gewesen (Mommsen, Chronol., Str. II, 322, vgl. dagegen Rhein. Museum 25, 480 ff.). Die angeführte lex Aemilia nun hat APPIO, so erzählt Livius, eigenmächtig übertreten, indem er nach Ver- lauf von 18 Monaten sich das Amt selbst prorogierte (LIVIO). Betrachten wir die Angaben des Livius hierüber, so müssen wir zunächst das Resultat einer Mommsenschen Abhandlung berücksichtigen: „Die patrizischen Claudier" (Rom. Forsch.). Mommsen hat darin nachgewiesen, dass in den jüngeren römischen Annalen, bei Livius u. Dionysius u. bei den aus diesen schöpfenden Sueton u. Tacitus alle Glieder der alten und hochadligen gens Claudia eine ähnliche oder dieselbe Rolle spielen, indem sie sämtlich vom höchsten Adelstolz und höchster Feindseligkeit gegen die Plebs beseelt sind. Nicht bloss wird dies häufig von der geiiB Claudia im allgemeinen ausgesagt (gens superbissima in plebem Romanam LIVIO), sondern man lässt alle Claudier, welche auf dem politischen Schauplatz auftreten, harte Kämpfe mit der Plebs und den Volkstribunen auskämpfen. Ja, es^ kehren sogar häufig Reden von Claudiern gegen die Plebs oder umgekehrt claudierfeindliche Reden von Volkstribunen wieder, worin sich offenbar die Erfindung ausdrückt. Dass Livius oder Dionysius die Erfinder seien, wird Niemand annehmen. Mommsen meint, die Fälschung sei in politischer Tendenz ge- schehen, ein wütender Claudierfeind zur Zeit der Bürger- kriege habe die Annalen in solch claudierfeindlichem Smne gefälscht: und zwar sei dies L. Macer gewesen. Die letzte Behauptung ist völlig unbewiesen, und was die Erfindung selbst angeht, so glaube ich nicht, dass sie in politischer Tendenz geschehen ist ; sie scheint vielmehr aus der rlietorischen Strömung, welche die römische Geschichtschreibung beherrscht, geflossen. Man suchte nach allen Mitteln, die Erzählung ausschmückend zu erweitern, und wie so vieles in den Annalen, z. B. die meisten Schlachtberichte, nach feststehenden Mustern erzählt wurde, so wurden, da vielleicht ein Claudier ein adelstolzer Junker war, alle Claudier schablonenhaft als Volks- feinde behandelt. Dieselbe Rolle ist nun auch unserm Censor übertragen, was wir zunäclist und besonders aus der Erzählung von der ungesetzlichen Fortführung der Censur ersehen. Livius be- richtet hierüber zuerst, App. Claudius, heisst es da, vollendete die Bauten allein, weil sein College C. Plautius aus Scham über die ruchlose und gehässige Senatsliste ab- dankte, während Appius mit dem alten Claudiertrotze die Censur weiterführte. Daraus muss geschlossen werden, dass C. Plautius abgedankt habe, ohne die senatus lectio zu billigen, oder wenigstens gleich nach ihrer Vollendung. Da aber die Censoren die senatus lectio kurz nach dem Amts- antritt vornahmen (Mommsen, Str. II, 3i)6, Lange, Alter- thümer, Willems, le senat de la republique Romaine), was auch nach der Ordnung der Erzählung bei Diodor und Livius in der Censur des App. Claudius ge- schehen zu sein scheint, so müsste C. Plautius vor Ablauf der 18 Monate abgedankt haben (vgl. Weissenborn, Livius zu IX, 29, 7. Willems, a. a. 0. I, 186). Dies hat schon Frontin (de aquis) aus Livius' Worten gefolgert; er sagt: sed quia is (Plautius) intra annum et sex menses deceptus a collega . . . abdicavit se censura. Aber an einer späteren Stelle sagt Livius selbst, dass C. Plautius nach Verlauf von 18 Monaten vom Amte abgetreten sei. Er widerspricht sich also ausdrücklich. Von dem Verhältnis des App. Claudius zu seinem Collegen wissen wir nur, dass letzterer alles that oder thun musste, was Appius wollte (Diodor a. a. O. : VTitjxoov f/wv tov avvcc()xovTCi Aevy.iov nkavTiov)^ also eine untergeordnete Rolle spielte. Er hätte ja die senatus lectio durch seinen Widerspruch vernichten können. An das Verliältnis des App. Claudius zu C. Plautius hat die Fälschung des Livius offenbar angeknüpft. Sie ist gemacht, um den Censor, den Claudier, als ungesetzlich handelnden Mann darzustellen, dass er gegen das Gesetz der Collegialität (Mommsen, Str. IT, 312) die Censur allein fortgeführt habe. Aber damit begnügte sich der Fälscher noch nicht. Er erdichtete auch noch eine Fortführung des Amtes über die gesetzmässige Dauer hinaus. „Viele Jahre, so beginnt Livius hierüber zu erzählen, waren schon vergangen, seit zwischen den patrizischen Magistraten und den Volkstribunen keine Streitigkeiten stattgefunden hatten, als aus der Familie, quae velut fatalis ad lites cum tribunis ac plebe erat, sich ein Kampf erhob. App. Claudius konnte nach Ablauf der gesetzmässigen Frist der Censur nicht bewogen werden, sein Amt niederzulegen. Der Volkstribun P. Sempronius übernahm die Aufgabe, ihn zur Abdankung zu zwingen. Livius setzt selbst hinzu, dass diese actio ebenso populär als gerecht und auch dem Volke angenehm gewesen sei, w^ie den Optimaten; dennoch rechnet er sie zu den Streitigkeiten, welche den Claudiern mit der Plebs und ihren Tribunen gleichsam vom Schicksal beschieden gewesen seien. Der Tribun Sempronius erinnerte nun den Ap]). Claudius ener-iscli an die lex Aemilia. Dieser erwiderte, dnss dies Gesetz nur für die beim Erlass desselben amtierenden Censoren bindend gewesen wäre, während alle danach gewählten Censoren und also auch er selbst nicht von ihm betroffen würden ; denn, sagt er, id quod postremum popuhis iussisset, ius ratumque esse. Wie sophistisch dieses Zwölftafelgcsetz hier angewandt wird, liegt auf der Hand. Eine rechtliche Begründung für die Amtsverlängernng, die dem App. Claudius in den l\lund gelegt werden könnte, fehlt völlig; aber darauf kam es auch den Fälschern nicht an, sie wollten eben den Claudier als einen jedes Gesetz verachtenden Mann darstellen. Alsdann lä&st Livius den Tribun Sempronius eine längere Rede lialten, in welcher der gens Claudia ein langes Sündenregister vorgehalten ^'ird. Es kehren, wie erwähnt, solche claudier- feindliche Reden oder auch Reden von Claudiern gegen die Plebs sehr häufig bei Livius wieder (vgl. II, 56, 57. IV, 48. Y 3 — 6. VI, 40, 41 u. a.) u. sie stehen sämtlich auf dem- selben Niveau, d. h. sie sind sämtlich erdichtet, entstanden aus dem rhetorischen Bedürfnis der Annalisten ihre Erzählung auszuschmücken. Dennoch, so erzählt Livius weiter, stehen dem App. Claudius sechs Volkstribunen bei, und er führt summa invidia omnium ordinum die Censur allein w^elter. Die inneren Unwahrscheinlichkeiten, die wir in diesem Berichte dargelegt haben, machen uns sehr misstrauisch gegen denselben. Dazu kommt aber noch eine ganze Reihe von Gründen, durch welche der ganze Bericht als völlig un- historisch erwiesen wird. Zunächst ergeben sich einige aus Livius selbst. Wenn Livius den Tribun Sempronius sagen lässt: „Satis est aut diem aut mensem censurae adicere? triennium, inquit, et sex menses ultra quam licet Aemilia lege censuram et solus geram% so folgt daraus, dass Livius annimmt, APPIO habe das Amt fünf Jahre beibehalten wollen, und da er ausser einer Andeutung (s. unten) nichts weiter hierüber sagt, so scheint er auch anzunehmen, App. Claudius habe dies durchgeführt. Der Verfasser von „de viris illustribus" hat dies offenbar aus der Angabe des Livius gefolgert, wenn er sagt: censuram solus omnium quinquen- nis obtinuit. Von der Abdankung des Censors sagt Livius selbst nichts, er führt nur eine Version an, dass nämlich Appius Claudius noch als Censor sich um das Consulat ])eworben hätte, aber vom Tribun L. Furius ge- zwungen sei, die Censur niederzulegen, und dann zum Consul gewählt sei: Livius scheint sich dieser Version anzuschliessen. Danach hat also App. Claudius seine Censur am Ende d. J. 308 niedergelegt; das konnten die Annalisten nicht ändern, weil 307 neue Censoren und Appius Claudius selbst für dieses Jahr als Consul in den Magistratsfasten verzeichnet waren. Nun liegen nach den Capitolinischen Fasten zwischen 312 und 307 zwar 5 Jahre, nicht aber so bei Livius, da er ja das Diktatorenjahr 309 nicht kennt und zählt: seine An- sicht, App. Claudius habe die Censur 5 Jahre hindurch be- hauptet, wird also durch seine eignen Angaben widerlegt. Dass App. Claudius sich noch als Censor um das Con- sulat beworber habe, ist eine Erfindung eines Annalisten, der dem Censor ausser den genannten Ungesetzlichkeiten noch ^as Streben nach der Cumulierung zweier hoher Amter an- dichtete, um ihn noch schärfer als Verächter aller Gesetze darzustellen. Bei dieser ganzen Erdichtung von der gewaltsamen Proro- gation der Censur durch App. Claudius hat man ohne Zweifel nach Analogie dessen verfahren, was von dem Ahnen unseres Oensors, dem Decemvirn gleichen Kamens, überliefert ist, der decemvir in annum creatus, altero anno se ipse creavit, tertio nee a se nee ab ullo creatus fasces et imperium obtinuit (LIVIO). Nach unserer Ansicht ist demnach der Bericht des Livius über die gesetzwidrige Amtsverlängerung des Censors von Anfang bis Ende erfunden. Dafür spricht ausser der oben gegebenen Kritik des Berichtes . entscheidend folgende Er- w^ägung : App. Claudius hat nach der guten Nachricht Diodors i. J. 310 die Censur angetreten, wir Laben das als historisch nachgewiesen. Am Ende des Jahres 308 muss er aber ab- gedankt haben, einmal weil 307 neue Censoren in den Ma- gistratslisten erscheinen (Liv. IX, 43, 25. C. J. L. I, 432 z. J. ^), und dann weil App. Claudius selbst i. J. 307 zum Con- 307 ' ' sul gewählt wurde (Diod. XX, 45. Liv. IX, 42, 3. C. J. L. I, 432 z. J. ^). Zwischen 310 und 307 liegen aber nur zwei Jahre, also kann die Censur kaum länger als 18 Monate gedauert haben. Dennoch halten die meisten neueren Forscher, obwohl sie zugeben, dass in der Erzählung des Livius Vieles er- dichtet und übertrieben sei, an der Annahme der Prorogation, der Censur fest. Ja Niebuhr (R. G.), Lange (Alterth. I, 85 ff.), Siebert (Appius Claudius S. 67 ff.) u. a. folgen dem Livius fast in dem ganzen, offenbar erfundenen Detail, dass er die Censur 5 Jahre habe beibehalten wollen, dass er das Con- sulat der Censur habe cumulieren wollen u. a. Nur stellen sie, wovon nichts überliefert ist, eine Hypo- these über den Zweck der Amtsfortführung auf. App. Clau- dius, meinen sie, habe sich deshalb sein Amt verlängert, um seine grossartigen Bauten zu Ende zu führen, und damit keinem andern die Ehre der Vollendung zufalle. Mommsen schliesst sich dieser Hypothese an, nur ver- mutet er, es sei keine ungesetzliche Prorogation gewesen. Es bestand nämlich in der That die Einrichtung, dass die Censur, wenn 18 Monate nicht genügten, prorogiert wurde „ad opera, quae censores locassent, probanda et ad sarta tecta exigenda^' (LIVIO, cf. Mommsen, Str. II, 324 m. Anm. 1, 2.). Es sei nun, wenn man alles Incriminieren und Moti- vieren, welches den Claudiererzählungen anzuhaften pflege, ausscheide, sehr wahrscheinlich, dass auch des App. Claudius Amtsverlängerung nur eine solche gesetzmässige Prorogation sei (ähnlich Madvig, Verfassung und Verwaltung. Herzog, Geschichte und System l, 273). Aber dagegen ist zu sagen, dass grade die Ungesetzlichkeit in dem Berichte <ias Wesentliche ist, dann, dass die kolossalen Bauten, die des Censors Namen tragen , auch schliesslich in vier oder fünf Jahren nicht vollendet werden konnten , woran schon Niebuhr erinnert (R. G.). Ausserdem ist wohl bei einer solchen gesetzmässigen Prorogation (ex instituto) immer beiden Censoren das Amt verlängert, weil, wie Mommsen selbst sagt, (Str. II, 312 m. Anm, 6), das Prinzip der CoUe- gialität bei der Censur mit besonderer Strenge gehandhabt wurde. Und wenn nun Mommsen dennoch meint (a. a. 0.), dass die appianische Prorogation diesem Prinzip nicht wider- streite, so scheint mir das keineswegs ein bindender Schluss zu sein. Endlich liegen, was das Entscheidende ist, zwischen dem Amtsantritt des App. Claudius und dem seiner Nach- folger überhaupt nur zwei Jahre (310 — 307 s. oben); die Censur kann ihm also kaum, jedenfalls nicht 4 oder 5 Jahre prorogiert sein. Wiederholen wir kurz unsere Resultate: App. Claudius trat seine Censur i. J. 310 v. Chr. an und behielt sie ganz gesetzmässig 18 Monate lang mit seinem Collegen C. Plautius, der ihm völlig zu Willen war {vTir/.oog), Wir kommen nun zu den Thaten des Censors. Cap. 2. Die Bauthätigkeit des App. Claudius. Eine Hauptseite der censorischen Thätigkeit war die Re- gulierung der Gemeindeeinnahmen (mit Ausnahme der persön- lichen, directen Vermögenssteuer, des Tributums) und der Ge- meindeausgaben. Nach der römischen Finanzpraxis wurden die indirecten Staatseinnahmen von jeglichem ertragsfähigen Staatsgut (Zölle, Gemeindeland, Ausbeutung von Flüssen, Seen, Bergwerken u.a.) nicht direct vom Staate erhoben, sondern an einzelne Unter- nehmer zur Ausnutzung gegen eine bestimmte Entrichtung an die Staatskasse verpachtet. Ebenso Hess der Staat die Lieferungen, die er brauchte, und die Arbeiten, die er vornehmen Hess, an Private verdingen (locare opera publica od. sarta tecta od. ultro tributa). 99 Die Censoren waren es, welche mit diesen Verpachtungen beider Art betraut waren. Aber sie standen dabei unter der Oberaufsicht des Senates. Neue Zölle konnten sie z. B. nur mit Bewilligung des Senates anordnen, der Senat konnte cen- sorische Verpachtungen rückgängig machen, die Pachtsumme ^rmässigen u. a. Bei vielen Ausgabeposten wurde den Censoren nicht bloss die Verdingung, sondern auch die Überwachung, Leitung und schliessliche Übernahme der Arbeit übertragen (Polyb. 6, 17 Liv. 42, 3 faciendum oder reficiendum curare C. J. L. I,. p. 177, n. 605). Dies geschah namentlich bei den öfFentlichen Bauten, bei Reparaturen (z. B. des Circus Liv. 41, 27, der Mauern Liv. 6, 32, der Strassen Liv. 29, 37. 41, 47, Wasserleitungen, Frontin. aq. 95 u. a.) wie bei Neubauten (z. B. bei Tempeln, Basiliken, Theatern, Brücken, Heerstrassen, u. a.). Nach dieser Seite hin wird die censorische Competenz gradezu als Fürsorge für die Bauten aufgefasst. Aber auch hierbei waren sie vom Senat abhängig. Vor allem musste der Senat die- Gelder verwilligen; nur wenn und insoweit es der Senat ge- stattete, konnten die Censoren das aerarium in Anspruch nehmen,, und zwar durch Vermittlung der Quästoren, welche als Ver- walter der Staatskasse die Gelder einnahmen und auszahlten. Der Senat bewilligte den Censoren eine Bauschsumme (pe- cunia decreta Liv. 39, 44. Polyb. G), jedoch als certa pe- cunia, und zwar gewöhnlich eine gewisse Quote der Staats- einnahmen (vectigal annuum Liv. 40, 46. 44, 16). Was die Censoren im einzelnen damit anfangen wollten, war ihre Sache. Inwieweit sie darin vom Senat abhängig waren, ob sie z. B. zu Neubauten die Einwilligung des Senates einholen mussten (cf. Liv. 36, 36), lässt sich nicht bestimmen. Soviel musste ich im allgemeinen über diese Seite des censorischen Amtes vorausschicken, um die Thätigkeit des- App. Claudius in dieser Hinsicht richtig zu würdigen. Die Censur des App. Claudius ist nämlich die erste, bei der uns dies censorische Geschäft in der Überlieferung entgegeniritt, und APPIO nacht von dieser Seite semes Amtes in so grossartiger und zugleich von der gewöhnlichen und späteren Handhabung dieses Rechtes verschiedentlich in so abweichender Art Gebrauch, wie es kaum wieder ge- schehen ist. . Über die Bauthätigkeit des Censors App. Claudius sind ausser den Notizen bei Diodor und Livius noch die Angaben des S. Julius Frontinus in seiner Schrift „de aquis Romae" zu benutzen. Ohne Zweifel beruhen die Angaben Frontins, der unter dem Kaiser Nerva 97 n. Chr. curator aquarum war (Fronün 1. c. Einleitung), auf eigener Erfahrung und Anschauung. Ausführ- lich und klar beschreibt er auch die aqua Appia, berichtet, wo- her sie kommt, wie lang sie ist, welchen Weg sie nimmt etc. Was er sonst über die Censur des App. Claudius beibringt, ist offenbar aus den Hvianischen ähnlichen Quellen geschöpft. Auch Diodors Angaben sind relativ ausführlich, und mit Recht nimmt Mommsen an, dass der vielgereiste Verfasser (Diodor 1, 4) hier aus eigener Anschauung spricht (Mommsen, Rom. Forsch. II, 284 A. 90). LIVIO berührt die Bauten des Appius nur ganz kurz; doch ist bemerkenswert, dass er, während er im allgemeinen sowohl in dem Sachlichen als in der Beurteilung sehr von Diodor abweicht, im Lobe der Bauthätigkeit des Censors mit ihm übereinstimmt. Er sagt (IX, 29,6): et censura clara eo anno App. Claudii et C. Plautii fuit, memoriae tamen felicioris apud posteros quod viam munivit et aquam in urbem duxit, und bei Diodor heisst es: caror d^ ^nriiehn' c^Jcaarov Die Bauwerke, welche des App. Claudius Censur ver- ewigen, sind die Wasserleitung und die Heerstrasse, welche beide seinen Namen tragen, die via und aqua Appia. Es war nämlich das Recht des bauleitenden Beamten, den öffentlichen Gebäuden, natürlich mit Ausnahme der Tempel, seinen Namen beizulegen; seit App. Claudius ist dies wenig- stens zumeist geschehen, und es scheint sein Beispiel dies Recht hervorgebracht zu haben, da sich vor ihm keine solche Fälle nachweisen lassen. Die grossartigen Bauwerke der Republik in der Stadt Rom sind fast alle nach ihren Erbauern genannt, die mit wenigen Ausnahmen Censoren sind (Beispiele : basilica Porcia, Aemilia-Fulvia , Sempronia; circus Flaminius. Die Erbauer der Bauten ausserhalb Roms sind nicht Censoren, ausgenommen von zwei Heerstrassen, der via Appia und Flaminia). Die aqua Appia ist der älteste und erste Trinkwasser- aquadukt Roms, deren es später so viele gab. Bis zur Zeit des Appius hatte man sich mit dem Wasser mehrerer Quellen und Brunnen (Frontin I, 4: putei, worunter auch Cisternen bejrriften werden können. Kiebuhr, R. G. III, 359 A. 24) begnügt, ja man hatte Tiberwasser getrunken (Frontin a. a. O.j. Der Ruhm, die Quellen gefunden zu haben, aus denen die aqua Appia gespeist wurde, wird dem Collegen des Appius, L. Plautius, zugeschrieben, der deshalb den Beinamen Venox (von Vena) erhalten haben soll (Frontin I, 5. Fasti Capit. C. J. L. I, 432 ad a. 442: qui in hoc honore Venox appel- latus est). Das Bedenken Drumanns, dass dies Cognomen nicht von vena abgeleitet sei, da hiervon besser Venosus ge- bildet werde, sondern mit dem häufig in der gens Plautia wiederkehrenden Cognomen Venno oder Veno (vgl. Liv. VIII, 19, IX, 20) identisch sei, scheint in der That begründet. Die Quellen, welche diese etymologische Ableitung geben, leisten nicht hinlänglich Gewähr für die Richtigkeit derselben ; es scheint nur ein Versuch der Erklärung des Cognomens zu sem, wie wir von dem des Appius selbst mehrere finden werden. Den Lauf der aqua Appia beschreibt Frontin (I, 5) fol- gendermaassen : Concipitur Appia in agro Lucullano via Prae- nestina inter milliarium septimum et octavum deverticulo sinis- trorsus passuum septingentorum octoginta; ductus eius habet longitudinem a capite usque ad Salinas, qui locus est ad por- tam Tergeminam, passuum undecim millium centum nonaginta: ex eo rivus est subterraneus — offenbar absichtlich unter- irdisch, damit das Wasser nicht abgeschnitten würde (Niebuhr, R. G.) — passuum undecim millium centum triginta : supra terram substructio et opus arcuatum proximum portam Capenam — ein Mauerwerk, welches wahrscheinlich die sog. XII portae bildete (vgl. Siebert, APPIO S. 63). Jungitur ei ad Spem veterem in confinio hortorum Torquatianorum ramus Augustae ab Augusto in supple- mentum eius additus hie via Praenestina ad milliarium sextum deverticulo sinistrorsus passuum nongentorum octoginta proxime viam Collatiam accipit fontem, cuius ductus usque ad Gemellos efficit rivo subterraneo passuum sex millia tre- centos sexaginta. Incipit distribui Appia imo Publica clivo ad portam Trigeminam (Frontin, de aq. I, 5. cf. Kiebuhr, R. G. III, 356 ff\ Siebert, App. Claud. S. 62 f. Becker, Handbuch I, 702. Jordan, Topogr. der Stadt Rom I, 456. <jf. „Auetor de viris illustr." 34, der die aqua „Anienem'^ nennt, was oifenbar ein Schreibfehler ist. Eutrop II, 4 nennt sie „aqua Claudia", die erst von Kaiser Claudius ausge- führt ist). Wie Frontin angiebt (s. oben) hatte man in dem Thal zwischen dem Caelius und Aventinus ein Mauerwerk von nur 60 Schritt nötig; daraus zieht Kiebuhr mit Recht den Schluss, dass die Gänge nicht eben sehr tief gelegt waren (R. G. III, 361). Die aqua Appia war von den 9 Wasserleitungen, die €s zur Zeit des Kaisers Claudius gab, die zweitniedrigste (Siebert a. a. O. 62). Sie konnte daher nur den niedrigsten Stadtteilen, der Vorstadt, dem Circus, dem Velabrum, dem Vicus Tuscus, vielleicht noch der Subura, Wasser zuführen und selbst diesen kaum in ausreichendem Maasse (Kiebuhr, R. G. III, 361). Das grössere der Bauwerke des Censors ist jene Heer- strasse, welche gleichfalls seinen Kamen trägt. Es scheint aber nicht die älteste ihrer Gattung zu sein ; bei der via Latina und Salaria weist der Käme auf höheres Alter hin, (Kiebuhr, R. G. III, 359). Die späteren Heeresstrassen, welche in Italien censorische Bauten (Flaminia, Aemilia) , in den v" r . -a i. "a > < 4 4 ~ 26 Provinzen und im cisalpinisclien Gallien consularisclie Baute» sind (Aemilia in Gallia cisalpina, Postmnia ebenda, Doniitia in iS^arbonensis u. a.), sind alle nach ihren Erbauern genannt;, die via Appia wäre also die erste, bei der dies geschehen ist, sodass also allgemein das Beispiel des App. Claudius das Recht der Eponymie für die bauleitenden Beamten hervor- gebracht zu haben scheint. Es führte die via A])i)ia an der ]\[eeresküste entlang durch die Städte Terracina, Fuudi, lAIola bis nach Capua. Durch die pomptinischcn Sümpfe hat erst Trajan die Strasse gebaut. App. Claudius hat durch dieselben wahrscheinlich, nur einen Damm gelegt, während man als lleeresstrasse durch die Sümpfe von Velitrae nach Terracina damals die- via Setina benutzte (Niebuhr, R. G.). Diodor berichtet, dass App. Claudius die via Appia von- Rom bis Capua mehr als 1000 Schritte weit zum grössten Teil mit festen Steinen gepflastert habe (//^o/c; ateoeolg- yxalöTQOJüev), Nissen (Pompejanische Studien S. 519) meint, dies sei nicht recht: Diodor und seine Gewährsmänner hätten ihre eigene Zeit vor Augen, wenn sie von der Pllasterung der via Appia sprächen (ebenso der Verfasser von „de viris illustribus" 34 und Procop, bell. got. I, 14). Denn erst i. J. 29G sei die erste Strecke der via Latina saxo quadrato (Peperinplatten, Kiebuhr, Nissen, a. a. O.) gepflastert, und zwar eine semita von der porta Ca- pena bis zum Marstempel, so berichte LIVIO.. Dann hätten i. J. 293 die curulischen Aedilen die Chaussee von dort bis nach Bovillae silice (Lavapolygonen, s. Niebuhr und Nissea a. a. 0.) zu pflastern fortgefahren (Liv. X, 47). ]\lir scheint aber durch diese Notizen des Livius das Zeugnis Diodors noch nicht aufgehoben zu werden. Es ist zwar zuzugeben,, dass App. Claudius die Chaussee nicht schon mit der Kunst und in der herrlichen Weise gepflastert habe, wie die römi- schen Heerstrassen später gepflastert wurden. Aber der Aus- druck Diodors {yMCtocQtoü'F — bedecken, bestreuen) braucht o-ar nicht von einer eigentlichen Pflasterung verstanden zu werden; und dann sagt Diodor auch nur, dass Appius de» grösseren Tlieil (n> 'ixUmy uioog) der Strasseso ausgeführt habe. Worin die wesentliche Arbeit beim Bau dieser Chaussee bestand, sagt Diodor mit deutlichen Worten: 7('7r rorrtüv riwg fdr v7ie()tyoviic^ (hanyMif^as, tov^ (>^ ijcyir/ytodets K y.inhw^ <}vah;ufia(JLV u'^io/jr/oii: fif/rRr^W.c yaniW/AOüF etc... Dass das Terrain, über welches die Strasse führen sollte, ge- ebnet wurde, Anhöhen abgetragen und Thäler ausgefüllt wurden, dass der Grundbau solid und bequem hergestellt wurde, darin bestand zunächst die Hauptarbeit, darin das Ver- dienst des App. Claudius. Deshalb konnte er mit Repht die Heerstrasse als sein Werk betrachten, und derselben sein Name beigelegt werden. Keineswegs aber kann sie App. Clau- dius schon ganz in der grossartigen Weise vollendet haben,, in der sie später den Namen regina viarum erhielt. Mitten in den pomptinischcn Sümpfen, unmittelbar an der via legte App. Claudius das forum Api)ii an, das jetzt noch als Foro Appio existiert (vgl. IMommsen, U. Forsch., Niebuhr, 11. G. HL 358. Lange, Alterth. II, 87). Hier scheint er sich selbst eine statua diademata gesetzt zu haben,. woraus das Gerücht entstanden ist, dass er sich Italien per clientelas habe unterwerfen wollen. Denn was Sueton (Tib. 2> über einen gewissen Claudius Drusus sagt, bezieht sich, wie Mommsen überzeugend dargethan hat (R. Forsch. II, 305 ff. vgl. Niebuhr, R. G. HI, 355 ff. und Strebe, xM. L. Drusus, Diss. Marburg 1889), auf unsern App. Claudius. Diodor setzt beim Bericht über die aqua Appia hinzu r xcd TioUix TOJV dj;iioouov yorjuucor fig icwn.r T/;r yMiaüxevy- ccn-hoaev avev d(r/itcaü^ zi^g ücyyhpov; und weiter unten beim Bericht über die via Appia: xtaco7;/.oKJ6v c^tJüc^c,- 7«^* (5';.«o<^'W nooooöov^ Wir bemerkten, dass in späterer Zeit die Censoren. in Bezug auf ihre Ausgaben ganz vom Senat abhängig waren^ indem ihnen eine pecunia certa angewiesen wurde. Wenn nun Diodor sagt, dass App. Claudius die Staatsgelder urfir düyftcnog Tr^s; övyyli[iov verwandt habe, so kann er entweder me'i'nen, dass zur Zeit des Appius lür die censorischen Aus- -jviibcii tlas ^)uyitlc iP^^ ar/yli\inv noch nicht nötig gewosen sei, oder, was nilher liegt, dass APPIO venuüge seiner energischen Persönlichkeit sicli von der Abhängigkeit vom Senate in seinen Geldausgabcn zum öftcntlichen Nutzen trei- gemaclit habe. Jedenfalls folgt aus der Thatsache, das App. •Claudius das öoyficc des Senates ganz übergehen konnte, die weitere, dass die Grenze der Befugnis des Senats und des Zensors bei den Staatsausgaben nicht gesetzlich scharf gezoecen war, und dass das Schalten der Censoren zu dieser Zeit freier war als später. Ein drittes Bauwerk, welches App. Claudius ausführte, ist der Tempel der Bellona d. i. der griechischen 'Evvu) (Liv. X, 19. Ovid, fasti, 6, 203. C. J. L. I, 287: Elogium des Appius Claudius); es fällt dies aber erst in seine spätere Lebenszeit. Ap]-). Claudius ist es aber entgegen der Mommsenschen An- nahme (K. Forsch. I, 308) nicht gewesen, der in diesem Tempel die Ahnenbilder seiner Vorfahren autgestellt hat (vergl. Starck, Verhandlungen der dtsch. rhilologenversammlung zu Tübingen, Lpz..). Auf diese Fragen jedoch brauche ich, da sie sich nicht auf die Ccnsur beziehen, füglich nicht einzugehen. Jn der gewaltigen Bautliätigkcit drückt sich sehr prägnant •der politische Charakter dos Ccnsors und seine politischen Ten- denzen aus. „Er warf^', sagt ]\Ionnnscn treifend, „das veraltete Bauernsystem des Si)arschatzsammeln bei Seite und lelirtc seine ]\Iitbüvger die ölfentlichen jNIittel in würdiger V\Visc zu gebrauchen'' (R.- G.). App. Claudius war, wie wir bei allen seinen politischen Maassnahmen sehen werden, ein De- mokrat, und zwar förderte er besonders die Verkehrsinteressen, die der städtischen Bevölkerung; dazu passt vortrefflich, dass wir ihn als Beförderer des griechischen Einflusses in Kom kennen lernen, was sich sclion in dem Bau eines Tempels zu Ehren einer rein griechischen Gottheit ausdrückt. Vortrefflich passt zu solchen politischen Tendenzen die Bauthätigkeit des App. Claudius .und die Richtung, in der er .sie entfaltete. Cap. 3. Die Senatsliste und die Rittermusterung des App. Claudius. Die senatus lectio des App. Claudius ist die erste, über •welche uns etwas Bestimmtes überliefert ist. Es ist dcshalb- von liohem Wert, dass wir grade über sie den Bericht eines 80 alten und bewährten Autors, wie ihn Diodor benutzt hat,, besitzen. Schon zur Zeit des App. Claudius, das sagt Diodor deutlich, war es Sitte {i}v tO-o^), die euyerelg und u^uoftuöt nqohyfivieg in den Senat zuzuschreiben {7Toni:'/ou(fetr). Von- dieser Gewohnheit nun, erzählt Diodor, sei App. Claudius in- sofern abgewichen, als er nicht bloss diese hinzuschrieb,- sondern auch viele Freigelassenensöhne darunter niischte- (avtfu^e jToAAotv ycd ich' dTiF?.8i)0^t()0)v tiovi;), Livius erzählt zwar zu dem Jahre der Censur selbst nur, dass die senatus lectio infamis und invidiosa gewesen sei, dass^ sie sine recli pravique discrimine geschehen sei, dabei potiores- aliquot übergangen seien. Offenbar berichteten seine Quellen an dieser Stelle nichts Spezielles von der Senatsliste; und diese hatten die Wahl von Libertinensöhnen in den Senat ohne Zweifel übergangen, weil eine solche Maassregel dem hocharistokratischen Charakter, welchen sie dem App. Clau- dius beilegen, widers])rochcn hätte. Livius selbst aber fügt an einer späteren Stelle, die, wie wir darthun werden, aus einer anderen und besseren Quelle geschö])ft ist, hinzu,, dass App. Claudius den Senat zuerst durch Libertinensöhne befleckt habe. Auch von anderen Geschichtschreibern wird die senatus lectio des App. Claudius erwähnt. Sueton sagt im Leben des Claudius (24) : (Claudius imperator) Appium Caecum censorem generis sui proauctorem libertinorum tilios in senatum adlegisse docuit, ignarus temporibus Appii et deinceps ali- quamdiu libertinos dictos non ipsos qui manu mitterentur sed ingenuos ex his pracreatos. Aus welcher Quelle Sueton diese Nachricht hat, wisse» wir nicht; manche neuere Forscher halten sie für richtig; sie cineu also, dass u,>tcr libcrtini ursi,rü,.glich nicht Frei- gelassene, d. h. ge^-esene Sklaven, sondern deren ^öhne verstanden seien (Momnisen, Str. I, 387 f. m. Ann,. Madvg, \ erf. u Verhalt. I, 137. Siel.crt, Ap,.. Claud. 23 ft. A\ os.senborn. zu Liv IX, 4C, 1 u. 10). Mommsen, der frülier auch diese Ansicht vertrat, hat neuerdings seine Meinung etwas geändert (Str III 422 m. Anm. 2 u. 3). In späterer Zeit hicssen libcrtini diejenigen, welche Servituten, servierunt oder manu missi .sunt. Wenn nun Sucton sagt, früher seien als l.bevt.n. die Sühne solcher Freigelassenen bezeichnet, so schen.t er zu meinen, dass die Freigelassenen selbst liberti genannt seien.. Dies ist aber sprachlich unmöglich, was durch die Analogien divus - divinus, masculus - masculinus bewiesen wird (W lUenis, le sönat, I, 184 ,n. A. 3). Ausserdem widerspricht einer solchen Annahme der feststehende Unter-schicd der beiden Be- zeichnungen : beide bez-eichnen nämlich allein den gewesenen Sklaven, nur dass bei libertinus derselbe nach seiner allge- meinen bürgerlichen Stellung, bei libertus aber nach dem Verhältniss zu seinem Herrn verstanden wird (Mommsen, Str. III, 423). . c . A So kann also die Stelle Suetons nicht gefasst werden. Ernesti meint, Sueton wolle sagen, zur Zeit des App. Claudius seien nicht bloss die Freigelassenen, sondern auch ihre Sühne libcrtini genannt. Diese Interpretation setzt allerdings eine ungenaue Ausdrucksweisc bei Sueton voraus; aber sie kann ja richtig sein, obwohl auch dies noch unbewiesen bleibt. Es ist ohne jeden Zweifel, dass alle andern Schriftsteller unter libcrtini nur die Freigelassenen, und zwar für alle Zeiten, verstehen. Alle beziehen die senatus lectio unseres Censors auf die Söhne gewesener Sklaven. Diodor nennt die von App. Claudius in den Senat Aufgenommenen c}Tre).i'^ii>iov wotv, und von dem i. J. 304 zum curulischen Aedil gewählten An- lönger unseres Censors, dem Cn. Flavius, sagt er direkt, er sei der Sohn eines gewesenen Sklaven gewesen (rr«ro<.,- «» dsdov/.suxöms). Hiermit stimmen alle andern Gewährsmänner überein: Livius (IX, 46), der Kaiser Claudius (Sueton 1. c), TACITO (si veda) (ann.), Plutarch (Pomp.). Wir werden -also mit diesen Autoren annehmen müssen, dass Söhne von Freigelassenen, niclit Enkel, wie Sueton meint, von App. Clau- <lius in den Senat aufgenommen seien. Wertlos ist die Angabe des Verfassers von „de viris illustribus" (34), dass App. Claudius Libertinen selbst in den Senat aufgenommen habe. Die Freigelassenen selbst wie ihre Söhne waren eben, ^a sie mit dem Makel der Knechtschaft behaftet waren, ob- Äwar nicht durch Gesetz, sondern nur durch das Herkommen Tom Senat wie von der l\Iagistratur ausgeschlossen (Mommsen, Str. l, 459 f.)» während die Enkel der Freigelassenen zu allen Zeiten zu den ingenui gehört haben (Mommsen, Str. III, 422), und von den plebejischen Geschlechtern, deren Glieder im Senat sassen , stammen sicher manche von Libertinen ab (Willems, le s^nat, I, 188). Indem nun App. Claudius I.iber- tinensöhne in den Senat wählte, warf er den staatsrechtlichen Usus, wonach sie vom Senat und von der Magistratur aus- geschlossen waren, um. Und dies ist der Grund, weshalb die senatus lectio unseres Censors für so schimpf lieh galt und den Adel aufs äusserste erbitterte (Diod. 1. c. : i(p' olg ßaQtvf^ i'(feQOV oi yMVXiouaroi 7a/> Fvyeveiai;). Il2in hat nun die von App. Claudius in den Senat auf- genommenen Libertinensöhne näher bestimmen zu können ge- glaubt. Willems meint, es seien solche Libertinensöhne ge- wesen, welche seit dem .1. 318 v. Chr. Volkstribunen gewesen .seien (le senat, I, 185 m. Anm. 5). In dieses Jahr ungefähr setzt nämlich Willems die lex Ovinia, durch welche bestimmt wurde, dass optimus quisque ex omni ordine — d. h. nach Willems omni ordine magistratuum et curulium et plebeiorum in den Senat gewählt werden sollte. Nach diesem Gesetze * hätten, meint Willems, nicht bloss gewesene Consuln, Prätoren, <>urulische Aedilen, sondern auch Volkstribunen und plebejische Aedilen gewählt werden müssen. Dass die von App. Claudius in den Senat gewählten Libertinensöhne gewesene Volkstribunen seien, glaubt Willems daraus folgern zu können, dass zu diesem Amte welches zehn Männer jedes Mal zusammen bekleideten, d,e L.bertmensohne leichteren Zutritt hatten als zu irgend einem andern Wir wissen niehts darüber, dass in dieser Zeit schon em L.ber- tinensohn zum Volkstribunat gelangt sei; L. Macer L.v IX, 46, 3), dessen Zeugnis sehr wenig gilt, überliefert allem dass Cn. Fiavius vor seiner Aedilität (i. J. 304) sclK,n Volkstnbun gewesen sei. Es ist dies aber sehr unwahrschemhch, da vor ier Tribusänderung des App. Claudius das St.mmrecht d r niedri-en Bürger in den Tributcomitien wenig Gewicht hatte (s. unten). ,. ^ , xj„„;i Wie hypothetisch dieser Schluss ist, liegt auf der Hand.. Und dass überhaupt die gewesenen Tribunen hätten in der. Senat gewählt werden müssen, ist nichts als Vemmtung. Willems behauptet es nach seiner Auslegung der lex Ovinia. Ich habe mich auf diese Frage, weil sie memem Ziele fern liegt, nicht einzulassen, will nur erwähnen, dass m der lex Ovinia unter omnis ordo, aus dem optimus quisque m den Se- „at gewählt werden sollte, nicht omnes ordines magis ra uum et curulium et plebeiorum (Willems a. a. OO, auch nicht blos. ordines magistratuum curulium (Lange, R. Alterth. I, «U de plebiscito Ovinio et Atinio. Progr. 7 ff.) zu vers eben sind sondern dass die Worte am einfachsten und natürlichsten als der gesamte Bürgerstand zu fassen sind (Hotmann, der rom. Senat S 7 ff., Becker, Handbuch, II, 2, 300 .Herzog Gesch. u. System 1,882 f. Mommsen, Str. H, 39o, 397 -• Anm^ 1). Die senatus lectio des App. Claudius war nicht bloss wecen der Aufnahme von Libertinensöhnen anstössig, sondern auch deshalb, weil App. Claudius nicht, wie es die Censoren zu thun hatten, die anrüchigen Senatoren ausstiess (Diod. 1. c. o,]J^m rc.> döo^ocvTcov avyy2rjry.ä^v tS^ßale), Beachten wir aber den Grund, welchen Diodor für diese Maassregel angiebt: Weil App. Claudius, sagt er, sich bei den Patriziern äusserst verhasst gemacht habe, so mied er es, bei irgend einem an- dern Bürger anzustossen, und in dieser Absicht unterliess er auch die Reinigung der Senatsliste von anrüchigen Personen VeOTUTOL^ TÜV (fd^üVOV^ i^l'xklVF TO TlQOOXÜTlTeiVTlVt liOV tikXcüV tioXltwv xai xaia rtiv riov owtö^icüv xarayQatfr^v ovdh'ct etc. Diod. 1. c). In demselben Gedanken nahm er auch bei der Rittermusterung (equitum recognitio oder census) keinem sein Ritterpferd (Diod. : xa) xara Trjv tcüv ltitifhov doxLf.iaolav ovdh'a difFiXero Tov 'iTtJiov), Es ist dies die einzige Notiz, welche wir über die Rittermusterung des App. Claudius haben. Sein Auftreten dabei steht aber im Einklang mit seiner politischen Stellung, die Diodor mit den Worten bezeichnet: ccvTiTayf^a xaxaaxF vciCiov Die Senatsliste unseres Censors ist aber bald wieder um- gestossen worden. Die Consuln beriefen, so erzählt Diodor, aus Hass und zugleich um sich dem Adel gefällig zu zeigen, den Senat nach der früheren Liste, {sid^" ol fih v^raTot did zov (fMvov xal did to ßovkEöd^ai rolg sTiKpavsaTaTOic; /«(»/Led^ar övvijyov irjv GvyxXr^cov etc. Diod. 1. c.) Damit stimmt Livius über ein (IX, 30, 1,2): Consules negaverunt eam lectionem observaturos esse et senatum ex- templo citaverunt eo ordine, qui ante censores App. Claudium et C. Plautium fuerat. Diodor erzählt die Zurückweisung der appianischen Senats- liste zu demselben Jahr, wo App. Claudius sein Amt antrat (310 V. Chr.). Daraus darf man aber nicht schliessen, dass es von den Consuln dieses selbigen Jahres geschehen sei. Das war nicht der Fall, nicht sowohl, weil Livius, der den Amtsantritt des App. Claudius in das Jahr 312 setzt, die Zurückweisung der Senatsliste zum folgenden Jahr 311 erzählt und den Con- suln d. J., C. Jun. Bubulcus und P. Aem. Barbula, zuschreibt, als deshalb, weil die Censoren nach den Consuln und zwar unter ihrem Vorsitz gewählt wurden, im ersten Jahr der Cen- sur also immer der Senat schon in der früheren Ordnung zu- sammen getreten war (Mommsen, Str. II, 396). Und diese Annahme widerstreitet dem Diodor keineswegs, da er öfters Ereignisse, die sich auf mehrere Jahre verteilen, zusammen erzählt, wofür die Erzählung der Gallierkriege (Diod. XIV, 113 ff) ein klares Beispiel giebt. Diodor deutet d,es an unserer Stelle klar genug an, indem er die Zurückwe.sung der Senatsliste zugleich mit der ebenfalls nieht m das Jahr 310 .gehörenden Wahl des Cn. Flavius zum Aedden am Schlüsse seines Berichtes erzählt und mit dra anknüpft. Wenn wir nun mit Diodor den Amtsantritt des App. Claudius h. d. J. 310 setzen, so müssen -- J"-'™-: ^^^JJ die Senatsliste von den Consuln des Jahres 308 -oO.» ^ em Diktatorenjahr - umgestossen ist. D.ese waren (f 1 abms und P Decius (Diod. XX, 37). Es sind d.es dieselben Manner, welche als Censoren i. J. 304 die Tribusänderung des App. Claudius rückgär>gig machten (s. unten). Wir sähe,, m d.esem von der Kritik hergestellten Zusammentreften emen kratt.gen Beweis für die Richtigkeit des chronologischen Ansatzes Aus den Angaben Diodors folgt, dass schon die Vor- gänger des App. Claudius und C. Plautius in der Censur eine lenatsliste aufgestellt haben; er sagt ausdrücklich, dass die Consuln den Senat berufen hätten o*^ ir:v vm> tinnov y.ara- }a^^8lmv dl/M t^v vn.) u^n' .r^oy. /fr^7'^ rrn- xt//yo>r yaia^'oaifeiaar. Diese unzweideutige Angabe scheint mir ent- scheidend für eine weitere Streitfrage , welche sich an die Senatsliste des App. Claudius knüpft. Es ist nämhch die An- Sicht aufgestellt worden, dass die senatus lectio des App. Claudius überhaupt die erste censorische sei, und dass die lex Ovinia, welche das Amt der Senatswahl von den Consuln auf die Censoren übertragen hat, im Jahre der Censur des App. Claudius oder kurz vorher gegeben worden sei. Die lex Ovinia ist uns von Festus an einer etwas verderbten stelle überliefert (ed. Müller: praete riti senatores quondam in opprobrio non erant, quod ut reges sibi legebant sublege- bantque, quos in consilis publico haberent, ita post exactos eos consules quoque et tribuni militum c. p. coniunctissimos sibi quosque patriciorum et deinde plebeiorum legebant, donec Ovinia tribunicia intervenit, qua sanctum est, ut censores ex omni ordine optimum quemque legerent, quo factum est, ut >qui praeteriti essent et loco moti haberentur ignominiosi"). Über die vielen Streitfragen in Bezug auf dies Plebiscit vgl. Hofman, der röm. Senat S. 3 if. Willems, le senat, 153 ff. u. a. Uns geht nur die Frage nach der Datierung an. Dieselbe ist nicht überliefert. Man bringt nun die lex Ovinia in engen Zusammenhang mit der senatus lectio des App. Claudius (Mommsen, Str. II, 395 m. A. 1. Willems, le senat, I, 185 ff.). Es gebe, so meint man, kein anderes Beispiel dafür, dass eine censorische senatus lectio von den Consuln umgestossen sei. Und wenn die Censoren schon lange diese Befugniss gehabt hätten, so hätten die Consuln nicht gewagt, die appianische Senatsliste zu ignorieren. Wenn man dagegen annehme, dass App. Clau- dius und C. Plautius zum ersten Male als Censoren den Senat zusammengesetzt haben, so erkläre es sich leicht, dass die Consuln, zu deren Amtskreis bis dahin die Senatswahl gehörte, die Liste des App. Claudius hätten umstossen können, zumal dieselbe gegen Gesetz und Herkommen Verstössen habe. Es ist diese Deduction reine Hypothese; von unsern Quellen w^ird als Grund der Verwerfung der appianischen senatus lectio ganz allein ihre Ungesetzlichkeit oder vielmehr ihr Verstoss gegen das Herkommen angegeben ; und es scheint dies zur Erklärung auch völlig zu genügen. Zudem sagt ja Diodor mit klaren Worten, dass schon die früheren Censoren den Senat gewählt hätten, und diesem •bestimmten und guten Zeugnis glaube ich mehr Gewicht bei- legen zu müssen als den unbestimmten Worten des Livius (IX, 33 senatum citaverunt eo ordine qui ante censores App. Claudium et C. Plautium fuerat). Wir werden also den Er- lass der lex Ovinia jedenfalls vor das Jahr 318, wo die Amts- vorgänger des App. Claudius Censoren wurden, setzen. Ge- nauer dem Datum nachzuforschen ist nicht meine Aufgabe. Allerdings können wir in der Umstossung der appiani- schen senatus lectio von Seiten der Consuln noch einen Nach- klang eines ehemals senatorischen Rechtes bemerken. Die Consuln vom J. 308 werden sich bei ihrer That ohne Zweifel darauf berufen haben, dass die Senatswahl ursprünglich ein consularisches Recht war. Was ist nun von der Senatsliste unseres Censors zu ur- teilen? Welche politische Absicht verfolgte er bei der Ein- wahl von Libertinensöhnen? Auch hierüber bestehen die grössten Differenzen zwischen den neueren Forschern. Nie- buhr (R. G. III, 344 ff".) und mehrere Anhänger (Lange, R. Alterth. Herzog, Gesch. u. Syst. Siebert, App. Claudius) halten an dem Grundcharakter fest, welcher der Politik des App. Claudius von Livius bei- gelegt wird, d. h. sie meinen, App. Claudius sei ein strammer Aristokrat gewesen und habe nur die hohe und höchste No- bilität mit allen seinen censorischen Maassregeln fördern wollen. Diesem politischen Charakter widerspricht nun off'enbar die senatus lectio, durch welche die niedrigste Bevölkerungsklasse der Libertinen begünstigt wurde, sowie auch die Tribusänderung des App. Claudius. Auf eigenthümliche Weise suchen die ge- nannten Forscher diesen Widerspruch zu lösen. Der Adel, so führt Niebuhr aus, und also auch der Senat zerfalle damals in zwei Klassen, die patrizische Kobilität, welche schon sehr ab- genommen habe, und die plebejische Nobilität, welche jene zu überflügeln drohe. App. Claudius nun, selbst aus einem alt- und hochadligen Geschlecht stammend, habe seine ganze poli- tische Thätigkeit in den Dienst des alten patrizischen Adels gestellt und den plebejischen Adel herabdrücken wollen. Dies erkenne man aus seinen späteren Thaten: J. J. 299 v. Chr. habe er gegen die lex Ogulnia gestimmt (LIVIO (si veda)), als Kandidat für das Consulat (LIVIO (si veda)) i. J. 295 und als interrex (Cic. Brutus XIV, 55) habe er mit aller Macht da- nach gestrebt, dass die Patrizier die beiden Consulnstellen wieder erlangten (Niebuhr, R. G. 353). Durch die Aufnahme von Libertinensöhnen in den Senat, dessen grösster Teil schon damals dem plebejischen Adel angehört habe, habe er diesen nur insultieren und sich dafür rächen wollen, dass er bis jetzt, eben durch die Verhinderung des plebejischen Adels, noch nicht zum Consulat gelangt sei (R. G. III, 345). Andere fingieren eine sog. „Coalitionspartei" (Siebert, a. a. O. 45), deren Ziel gewesen sei, eine enge Verbindung zwischen der patrizischen und plebejischen Nobilität im politischen Leben herzustellen. Gegen diese sei besonders die politische Thätig- keit unseres Censors gerichtet gewesen. Um sie herabzu- drücken, habe er die Libertinensöhne in den Senat aufge- nommen, damit sie die Zahl der Anhänger der alten Nobilität vergrössern sollten. Die UnWahrscheinlichkeit steht dieser Ansicht an der Stirn geschrieben. Sie könnte sich allein stützen auf zwei Angaben des Livius, wo dieser den App. Claudius nach seiner Censur altpatrizische Standesvorrechte vertreten lässt. Dass diese aber Dichtungen sind, erfunden nach der bekannten Claudier- schablone, werden wir in anderm Zusammenhange nachweisen (s. unten). Wir fassen die politische Bedeutung der Senats- liste in dem positiven Sinne, dass App. Claudius Libertinen- söhne in den Senat aufnahm, weil er das libertinische Element und überhaupt die niederen Volksschichten begünstigte und in ihren politischen Rechten fördern wollte. Die Demagogie, die sich in der appianischen senatus lectio, wie in der ge- sammten censorischen Thätigkeit ausdrückt, ist in dem Berichte Diodors klar gesagt, was selbst die Gegner zugeben müssen {Siebert, a. a. 0. 21). C a p. 4. Die Tribusänderung des App. Claudius und ihre Verwerfung durch die Censoren d. J. 304 v. Chr., Q. Fabius und P. Decius. Die Änderung, welche App. Claudius mit der Tribus- ordnung vornahm, gilt allgemein als die wichtigste und ein- schneidendste seiner censorischen Maassregeln. Sie wurde schon von den zweiten Nachfolgern des App. Claudius und O. Plautius, den Censoren Q. Fabius und P. Decius d. J. 304 V. Chr., umgestossen; daher ist diese Censur in den Rahmen unserer Betrachtung mit hinein zu ziehen. Über die Tribusänderung des App. Claudius liegen un& drei Berichte vor : Diodor XX, 36. Livius IX, 46. Plutarch, Popl. 7. Die Gegenmassregel des Fabius erwähnen: Liv. IX^ 46. Val. Max. II, 2, 9 und der Auetor de viris illustribus 32^ von denen die beiden letzten Angaben wertlos sind. Diese Berichte sind aber weder hinlänglich ausführlich und klar, noch stimmen sie so überein, dass sie, aus einander ergänzt, ein genaues und deutliches Bild von des Appius Claudius Tribusänderung geben. Zudem wissen wir im übrigen vom Wesen der Tribus, ihrer Bedeutung und praktischen Ver- wendung im Staat äusserst wenig. Es kann daher nicht Wunder nehmen, dass dies Edikt des App. Claudius von seiner gesamten censorischen Thätigkeit am meisten umstritten ist. Vieles freilich, was von den Gelehrten zur Begründung ihrer Ansichten über die Tribusänderung des App. Claudius vor- gebracht wird, ist lediglich Vermutung; und wenn derselben auch bei der Knappheit der Überlieferung Raum gegeben wird, so scheint mir doch das, was vermutet und aus der Überlieferung gefolgert wird, von dem, was wirklich unzwei- deutig überliefert wird, streng geschieden werden zu müssen. In Bezug auf die Überlieferung unseres Gegenstandes ist die Grundfrage, welchem Berichte wir das Hauptgewicht beilegen sollen, ob dem diodorischen oder dem livianischen. Nach unsern Erörterungen im ersten Kapitel über den Wert und das Verhältnis der beiden Quellen ist die Frage für uns schon dahin entschieden, dass wir von Diodors Berichte auszugehen und ihn zu Grunde zu legen haben. Wenn seine Angabe auch äusserst kurz ist, so werden w^ir doch finden, dass sie, genau und wortgetreu ausgelegt, das Edikt des Censors über die Tribusänderung in der knappsten Weise, vielleicht mit den Worten des Ediktes selbst, richtig wiedergiebt, ohne frei- lich seine Bedeutung oder Wirkung auch nur zu berühren. Den Bericht des Livius glauben wir zur Ergänzung heran- ziehen zu dürfen, wir haben Gründe dafür, dass er da, wo er von der Tribusänderung des App. Claudius und ihrer Ver- werfung durch Q. Fabius spricht, aus einer besseren Quelle schöpft, als sein hauptsächlicher Gewährsmann dieses ganzen Abschnittes ist (s. unten), und wir werden sehen, dass seine Angaben in Bezug auf die Wirkung der appianischen Tribus- änderung mit den Schlüssen, die wir aus Diodors Worten ziehen müssen, wohl übereinstimmen; daher werden wir auch seinen Angaben über die Censur des Fabius, wo er die einzige Quelle ist, und w^elche er offenbor von demselben Gewährs- mann hat, in gewissem Grade Vertrauen entgegen bringen. Erörtern wir zunächst kurz, was wir von der Tribus- ordnung vor der Censur des App. Claudius, ihrem Wesen und ihrer Bedeutung weissen, weil dies notwendig zum Ver- ständnis der appianischen Änderung ist. Die Tribus sind von Haus aus lokale Bezirke. Das be- weisen viele Quellenbelege (Dionys IV, 14. Liv. I, 43. Verrius Flaccus b. Gellius XVIII, 7. Laelius Felix b. Gelhus XV, 27), die ich in anderm Zusammenhang, wo ich erörtere, wie die lokale Grundlage der Tribusordnung zu fassen ist, behandeln werde. Das beweisen vor allem die Namen der einzelnen Tribus. Zunächst haben die 4 städtischen Tribus örtliche Namen: Die Sucusana von der Sucusa (Subura) (Jordan, Topogr. v. Rom I, 185 f. 199), die Esquilina vom mons Esquilinus (Jordan I, 183 f.), die Palatina vom mons Palatium (Jordan, I, 182 f.), die Collina vom collis sc. Qui- rinalis (Jordan, I, 180 f.). Alsdann ist die lokale Grundlage evident für alle in historischer Zeit seit 389 errichteten Tribus, deren Namen von Seeen, Flüssen, Städten ge- nommen sind oder sonstigen örtlichen Ursprungs sind (vgl. Moramsen, Str. III, 171 A. 1—8. 172 A. 1—9. Kubit- schek, de Rom. tribuum origine et propagatione bei Be- handlung der einzelnen Tribus). Wenn die ältesten sechszehn Tribus auch nach alten patrizischen Geschlechtern genannt sind, so gilt für sie dennoch dasselbe örtliche Prinzip: es wird z. B. neben der Tribus Pupinia der ager Pupinius ge- nannt (s. Kubitschek a. a. O. S. 10). Grotefend vermutet, dass erst i. J. 495 mit der Tribus Crustumina die Lokaltribus ein- gerichtet sei (Imp, Rom. trib. descr. S. 3). Aber dem ist entgegen zu halten, dass doch die tribus urbanae, welche nach der Überlieferung zuerst geschaffen sind, schon Namen ört- lichen Ursprungs tragen. Die Benennung von 16 Tribus nach patrizischen Ge- schlechtern erklärt man so, dass die Tribus von der gens, deren Grundbesitz der Tribusbezirk umfasste, den Namen er- halten habe (Mommsen, Str. III, 168). Das die Geschlechter im frühesten Gemeindeleben Roms von grosser Bedeutung gewesen sind, ist ohne Zweifel, und es kann leicht sein, dass, als das damals noch kleine römische Gebiet in Tribus zerlegt wurde, die einzelnen Tribus nach den Geschlechtern genannt wurden, deren Grundbesitz hauptsächlich den Tribusbezirk bildete. Aber es kann ja auch möglich sein, dass die gentilizischen Namen erst später erfunden sind. Genug, der Grundsatz, dass die Tribus ursprünglich Territorialbezirke sind, wird allgemein anerkannt. Nur ist man uneinig, in welcher Weise die lokale Grundlage der Tribus zu fassen ist. Damit hängen aufs engste die verschiedenen Ansichten von der Tribusänderung des App. Claudius zusammen. Mommsen fasst die lokale Grundlage der Tribus in eigen- tümlichem Sinne, er meint, dass die Tribuseinteilung anfangs nur eine Einteilung des römischen Privatgrundbesitzes (ager privatus) gewesen sei (Rom. Trib. 17, 151 ff. Rom. Forsch.). „Die Tribus, sagt er bei der neuesten und ausführ- lichsten Auseinandersetzung dieser seiner Ansicht (Rom. Staatsr. III, 164), kommt nur dem Grundstück zu, welches im quiri- tischen Eigentum steht oder stehen kann. Die Einzeichnung von Grundstücken in die Tribus ist nicht Folge der Grenz - erweiterung , sondern der Ausdehnung des Privateigentums, mag diese nun erfolgen durcii die Adsignation von Gemeinde- land an römische Bürger, wohin namentlich die Gründung der Bürgerkolonien gehört, oder durch Aufnahme von Halb- bürger- oder Nichtbürgergemeinden in das Vollbürgerrecht." Der ursprüngliche Privatbodenbesitz ist nach Mommsens Ansicht der an Haus und Garten (Str. III, 24). Dann wurde das personale Eigentum ex iure Quiritium auf den Orundbesitz überhaupt übertragen, was dasselbe ist als die Erstreckung der Tribus von der Stadt auf die Flur (Str.). Demnach hat sich die Tribuseinteilung anfangs (bei der Giündung durch Servius TuUius) nur auf die Stadt bezogen (Str. III, 166) und ist erst, als die Flur quiritisches Eigentum ward, auf sie bezogen worden. Diese Übertragung ivird ausgedrückt durch die Einrichtung der 16 ältesten Tribus, ivelche ihre Namen von den Geschlechtern, deren Grundbesitz sie umfassten, erhielten: die Flur war ja Anfangs lediglich Geschlechtsbesitz und zerfiel in Geschlechtsäcker, deren Auf- teilung eben die Einrichtung der ältesten ländlichen Tribus bedeutet (Str. III, 168, 170). Aus der Bodentribus ist die personale abgeleitet ; und da «ich die Bodentribus anfangs nur auf den ager privatus bezog, so folgt für Mommsen daraus, dass ursprünglich nur die Römer die Tribus hatten, welche am ager privatus ex iure <5uiritium partizipierten d. h. anfangs standen nur die An- sässigen (adsidui-adsidentes, locupletes = qui in loco sunt) in den Tribus, einerlei ob dies Patrizier oder Plebejer waren (Rom. Forsch. I, 151 f. 154. Rom. Trib. 151 ff. Str. II, ^71 f. Str. III, 182 ff.). Der Besitzer von Privatgrund- stücken stand in der Tribus, in welcher sein Grundstück lag ; und mit dem Grundstück ist die personale Tribus von dem jedesmaligen Besitzer gewonnen und verloren worden. Die Personaltribus ist also wandelbar (Str.), während die Bodentribus unwandelbar ist, indem das einer Tribus zuge- schriebene Grundstück späterhin nicht in eine andere über- tragen werden kann (Str. II, 371; III, 162). Die Tribus in personaler Hinsicht umfassen also die ge- samte Bürgerschaft, Patrizier wie Plebejer, welche am ager privatus partizipieren. Aber dies ist keineswegs die Gesamt- bürgerschaft (R. Str. III, 182. R. Forsch. 154). Alle nicht ansässigen Bürger stehen eben ausserhalb der Tribus.Die personale Tribus ist nun der Inbegriff aller Pflichten ' und Rechte, welche dem Bürger aus der Bodentribus er- wachsen ; sie ist das Zeichen desjenigen Bürgers, der zur Be- steuerung und Aushebung fähig ist und das Stimmrecht be- sitzt. Steuer-, Heer- und Stimmordnung beruhen auf der Tribusordnung, sodass die Tribulen, d. h. die Ansässigen, und nur diese, nach Tribus diesen ihren Pflichten und Rechten nachkamen. Was zunächst die Kriegspflicht imd das Stimm- | recht betrifft, so gilt für beides die Tribus als Qualifikation^ nur mit dem Unterschied, dass diese schlechthin an den Grund- besitz, Dienstpflicht und Stimmrecht dagegen an einen Minimal- satz von Grundbesitz geknüpft ist (III, 247). Denn wenn auch die 5 Abstufungen, welche König Servius in Heer- und Stimmordnung geschaffen hat, in Geldansätzen überliefert sind^ so sind diese doch anfangs vermutlich in Landmaass aus- gedrückt (s. Gründe Mommsens Str. III, 247): die 1. Klasse hat den Besitz einer Hufe (wahrscheinlich c. 20 iugera) und die vier niederen den Besitz einer Dreiviertel-, Halb- Viertel- und Kleinstelle (c. 20 jug.) erfordert, während Eigentümer von kleinerem Grundbesitz nicht zu den Grund- besitzern gezählt sind (Str.). Innerhalb dieser Grenze war die Bürgerschaft, von den Censoren in Centurien formiert und zwar nach dem Prinzip der gleichmässigen Verteilung der Tribulen einer jeden Tribus in sämtliche Centurien, zu Waflendienst und Abstimmung berechtigt. Die Nichtgrund- besitzer und Vermögenslosen gehörten in eine Zusatzcenturie (accensi velati), deren Stimmrecht aber bei ihrer Masse illu- sorisch war (Str. III, 284), und die zwar in der Ordnung des exercitus centuriatus ihre Stelle hatten, aber vom Waffendienst ausgeschlossen waren (Str. III, 281, 82). Zwischen der Heer- und Stimmordnung einerseits und der Steuerordnung anderer- seits bestehen nach Mommsen keine inneren Beziehungen (III, 230). In älterer Zeit ist nur Grund und Boden und das, was wesentlicher Bestandteil der Ackerwirtschaft ist (Sklaven, Zug- und Lastvieh), steuerpflichtig. Indessen gilt dies nur für die Grundbesitzer, d. h. die Tribulen. Ihnen entgegengesetzt sind die Aerarier „die Steuerpflichtigen" im eminenten Sinn, diesehaben nämlich nach Mommsen von Haus aus Steuern vonL sämtlichen Mobiliarvermögen entrichtet, während sie, wie wir erwähnten, in Heer- und Stimmordnung nur scheinbar berück-^ sichtigt waren. Späterhin, es scheint ziemlich früh, setzt Mommsen hinzu, wurde das tributum allgemein, also auch für die Grundbesitzer, zur Vermögenssteuer; so war also der Gegensatz zwischen Grundbesitzern (= Tribulen) und Arariern in Frage gestellt (Str. II, 262 ff.). Unmittelbar hieran knüpft Mommsen seine Ansicht über die Tribusänderung des Censors Appius Claudius. Bleiben wir zunächst hier stehen. Wir haben das System Mommsens von dem Wesen und der ursprünglichen Bedeutung der Tribus kurz in seinem Zusammenhang dargelegt, um zu zeigen, wie der Grundgedanke des Systems, dass der Grund- besitz ursprünglich das Requisit für den römischen Vollbürger gewesen ist, zwar consequent, aber zu sehr schematisch und doktrinär durchgeführt ist , und um nun unsere Kritik der Mommsenschen Ansicht anzureihen und unsere eigene ab- weichende Ansicht zu entwickeln. In den späteren Zeiten der römischen Geschichte, seit dem Bundesgenossenkrieg, war der lokale Zusammenhang der Tribus, welcher bei einer Bodeneinteilung jedenfalls ur- sprünglich vorauszusetzen ist, völlig zerstört. Nach dem ge- nannten Kriege, durch welchen die meisten bisher bundes- genössischen italischen Städte und Staaten das römische Vollbürgerrecht und damit die Tribus erlangten, verteilte man die neuen Vollbürgergemeinden in die bestehenden 35 Tribus, sodass nun die einzelnen Tribus, lokal gefasst, aus zerstückelten, über ganz Italien verbreiteten Landcomplexen bestanden. Eine Zusammenstellung der zu den einzelnen Tribus gehörigen Ge- meindeterritorien ergiebt die Italia tributim descripta (CICERONE (si veda), de pet. cons. 8, 30), welche Grotefend mustergültig, soweit es möglich, rekonstruiert hat („Imperium Romanum tributim descriptum" Hannover 1863 vgl. Kubitschek, de Romanarum tribuum origine et propagatione. Abhdl. des arch. - epigr^ Seminars. Wien 1882). Schon in Italien schrieb man grössere Territorien einer bestimmten Tribus zu (wie z. B. Calabrien der Fabia, Campanien der Falerna, u. a. vgl. Kubitschek) *, und in der Kaiserzeit, als der Zuwachs des römischen Gebietes immer grösser wurde, pflegte man oft ganze Länder- massen einzelnen Tribus einzuverleiben (so wurden die neuen Vollbürgergemeinden von Spanien der Quirina und Galeria, die von Gallia Narbonensis der Voltinia zugeteilt vgl. Kubit- schek S. 199). Indem eine Gemeinde in das Vollbürgerrecht aufge- ] nommen wurde, wurden alle in ihr heimatsberechtigten frei- gebornen Bürger einer bestimmten Tribus zugewiesen. Sie ist also der Ausdruck der Zugehörigkeit 1. zur communis patria Roma und 2. zur Sonderheimat, der domus (origo) und der aus dieser Zugehörigkeit erwachsenden politischen Pflichten und Rechte; sie ist das Zeichen der Heimatsberechtigung in einer römischen Vollbürgergemeinde. Es ist dies inschriftlich so ausgedrückt und sehr vielfach belegt, dass hinter den Namen die Bezeichnung der Ingenuität, der Tribus und des Heimatsortes gesetzt wird. (Z. B.: L. Cornelius. L. F. Vel. Secundinus. Aquileia. Grotefend.) Die Qualifikation für die Tribus ist die Ingenuität: Jeder Freigeborne in einer neuen Vollbürgergemeinde erhält die Tribus seiner Heimat und damit eine persönliche und erbliche Rcchtsqualität, die nicht durch Adoption (Grotefend) noch durch den In- <iolat, selbst wenn der Übergesiedelte zu Magistratswürden in ,€einem neuen Wohnort gelangte (Grotefend 21), affiziert wurde. Kur bei Aussendung einer römischen Colonie (colonia <5ivium Romanorum) mussten die Ausgesandten ihre ange- stammte Tribus mit der Tribus der Colonie vertauschen (Grotefend). In der Auff'assung dieser Bedeutung der jüngeren Tribus, wie wir sie hauptsächlich aus den Inschriften kennen, herrscht im allgemeinen Übereinstimmung (Grotefend. Vorbemerkungen. Mommsen, R. Forsch. I, 151 fl". R. Str.). Mommsen, der als Qualifikation für die Tribus älterer Form den Grundbesitz annimmt , giebt nun selbst zu , dass die spätere Tribus vom Grundbesitz unabhängig gewesen sei. Er hat also die Pflicht zu erklären, wie und wann sich diese radikale Veränderung im Wesen der Tribus vollzogen haty. dass aus der Tribus, welche das Zeichen der Ansässig- keit ist, die Tribus geworden ist, welche die origo, die Heimatsberechtigung in einer Vollbürgergemeinde ausdrückt. Staatsrecht II, 341 A. 2 nennt er dieselbe eine ebenso bekannte und sichere wie in ihrer Entstehung schwierig zu erklärende Umgestaltung. Er giebt zu, dass über das Auf- kommen der theoretisch wie praktisch gleich tief einschneiden- den Änderung nichts berichtet werde (Str. III, 781). Aber sie stimme so vollkommen mit der Tendenz des Bundes- genossenkriegs, dass sie mit voller Sicherheit auf ihn zurück- geführt werden könne. Er beschreibt dann die Änderungen^ welche seit Einführung des neuen Prinzips mit den Tribus- verhältnissen in lokaler und personaler Hinsicht vorgenommen sein müssten (Str.). Was die Stadt Rom selbst angehe, so sei auch für ihre Bürger, die füglich keine Sonder- heimat und also keine Ortsangehörigkeit hätten, irgend einmal durch Gesetz die Tribus als eine persönliche und erbliche vom Grundbesitz unabhängige Rechtsqualität fixiert worden, sodass jeder Bürger diejenige Tribus, die er infolge seines dermaligen Grundbesitzes eben inne hatte, als persönliche über- kam und auf seine Nachkommen vererbte (R. Forsch. I, 153). Die Patrizier hätten sich die Tribus selbst gewählt bei dem Eintreten der neuen Ordnung: daher komme es, dass zwei der ältesten Patriziergeschlechter, die Aemilier und Manlier, in der Palatina erschienen, die ihrem Adelstolz durch diese Tribus des königlichen Rom hätten Ausdruck geben wollen. (Str.) Die Auff'assung Mommsens von der lokalen Grundlage der Tribus ist also die, dass dieselbe sich anfangs auf den ager privatus Romanus, und personal auf die Ansässigen bezogen habe, später dagegen auf das Territorium einer Vollbürger- gemeinde und personal auf alle freigeborne in diesem Territorium Heimatsbereclitigten ; die Entwicklung vom ersten zum letzten Prinzip liabe sich im Bundesgenossenkrieg vollzogen. Abgesehen davon, dass die jüngere und ältere Tribus nach dieser Auffassung nicht die geringste Verwandtschaft mit ein- ander haben, sondern etwas ganz und gar Fremdes, Verschiedenes, ja Entgegengesetztes ausdrücken, würde es doch äusserst merkwürdig sein, wenn eine solche gänzliche Um- wandlung der rechtlichen Bedeutung der Tribus auch nicht die geringste litterarische Spur hinterlassen hätte, zumal sie doch in ziemlich später Zeit geschehen sein soll. Und dass «ie absolut unbezeugt ist, muss Mommsen selbst zugeben. Die Erklärung einer solchen radikalen Umwandlung fehlt zudem bei Mommsen völlig. Denn was er über die allmäh- liche Einwirkung der Ortsangehörigkeit auf die Personaltribus (Str. III, 779 f.) und über das Verhältnis beider (Str. III, 782 ff.) sagt, wird man doch nicht als Erklärung gelten lassen können. Es erheben sich aber überhaupt gegen eine solche Umwandlung der Tribus die gewichtigsten Bedenken. Zu- nächst wäre, vorausgesetzt einmal, dass aus der Tribus der Grundsässigkeit die des Territoriums einer Vollbürgergemeinde entstanden sei, der Zweck einer solchen Umwandlung absolut nicht abzusehen. Bei der Aufnahme einer Vollbürgergemeinde wies man die gesamten Bürger derselben, einerlei ob Grund- besitzer oder nicht, einer bestimmten Tribus zu. Warum zeichnete man denn z. B. bei der Aufnahme Tusculums nicht bloss den ager Tusculanus und die Eigentümer an demselben in die papirische Tribus? So wäre ja das alte Prinzip ge- wahrt worden. Ein weiterer Widerspruch ist folgender: Auf die Stadt Rom selbst ist das neue Prinzip nicht vom Anfang seines Aufkommens an bezogen worden: denn aus der Zunahme der Vollbürgergemeinden hat es sich ja erst entwickelt. Wenn also für Rom noch die alte Ordnung bestand, d. h. nach Mommsen, wenn nur die Grundbesitzer in den ländlichen Tribus standen, während die nicht Grundansässigen in den 4 tribus urbanae zusammengedrängt waren, so standen die Bürger einer Vollbürgergemeinde sämtlich in einer ländlichen Tribus, sodass z. B. ein nichtansässiger Tuskulaner vor dem nichtansässigen Römer ein Vorrecht hatte, indem jener in der Papiria stand, dieser aber in eine der städtischen Tribus ge- hörte. Welches Missverhältnis dies bei dem Dignitätsunter- :schiede der tribus urbanae und rusticae (s. unten) gewesen wäre, liegt auf der Hand. Der entscheidende Grund ergiebt sich aus folgender Er- wägung : Dass die Tribus der späteren Form vom Grundbesitz unabhängig ist, giebt auch Mommsen zu. Kun aber bezieht sich die Hauptquellenstelle (CICERONE (si veda), pro Flacco), auf welche Mommsen seinen Grundsatz, dass die Tribus - Distrikte des ager privatus Romanus seien, stützt (Mommsen, Str. II, 360 mit A. 2 u. 3. Rom. Trib. 3), auf die Zeit Ciceros, wo, auch nach Mommsen, die neue Tribusordnung schon bestand. Wenn Cicero den Decianus fragt: sintne ista praedia censui censendo ... in qua tribu denique ista praedia censuisti? fio geht doch daraus mit Evidenz hervor, dass noch damals der Grundbesitz in der Tribus stand. Und dass er dies stets sethan hat and der Grundbesitz stets für die Tribus von Be- deutung gewesen ist, werden wir in anderm Zusammenhang erörtern. Keinesfalls aber kann die angeführte Stelle dazu benutzt werden, um die Ansicht, dass die Tribus sich ur- sprünglich lediglich auf den ager privatus bezogen habe, zu stützen. Alle diese Erwägungen führen zu dem Resultate, dass eine Entwicklung, wie sie Mommsen annimmt, von einer Tribus, welche die Grundansässigkeit ausdrückte, zu einer solchen, welche, vom Grundbesitz unabhängig, die Zugehörigkeit zu einer Vollbürgergemeinde bezeichnete, nicht stattgefunden haben kann. Da nun das Wesen der späteren Tribus fest- steht, so muss die Mommsensche Auffassung von der ursprüng- lichen Tribus falsch sein. Und in der That ist der Satz, dass die Tribus sich ur- sprünglich lediglich auf den Grundbesitz b^ogen habe, den Mommsen freilich stets als quellenmässig belegt bezeichnet und in seinen Consequenzen darlegt, gänzlich unbewiesen. Zunächst ist scharf zu betonen, dass er keineswegs in dei> Quellen bezeugt ist und ledighch eine kühne Hypothese ist. ,| Nirgends findet sich bei den alten Autoren, so oft sie auch die Tribuseinteilung erwähnen, eine Angabe, dass die An- sässigkeit die Grundbedingung für das Stehen in der Tribute sei. Und es wäre dies doch sehr zu verwundern, wenn ein so klares Prinzip so scharf durchgeführt wäre, wie ea Mommsen annimmt, zumal dasselbe, wenigstens für die tribu& rusticae, bis in die späte historisch helle Zeit gegolten haben soll. Welches war aber die lokale Grundlage der Tribusord- nung? Was sagen die Alten darüber? Unserer Ansicht nach war die Tribuseinteilung eine geographische Distriktseinteilung des gesamten römischen Gebietes, eine nackte Zerlegung in Bezirke, und zwar war sie von Haus aus dazu bestimmt, eine Volks einteilung zu sein mit dem Zwecke, im Staatsleben praktisch verwandt zu werden. Die Tribus wurde also vom Lokal auf die Person übertragen und zwar, wie das natürlich ist, in der Weise, dass alle, die in dem Bezirke einer Tribus wohnten, dieser Tribus angehörten, um in ihr ihre politischem Pflichten und Rechte zu erfüllen. Das Domizil bestimmte also ursprünglich die Tribus. Eine Reihe direkter Quellenbelege lassen sich für diese unsere Auffassung geltend machen. Wenn Laelius Felix (b. Gellius XV, 27) die Tributcomitien so definiert, dass in ihnen ex regionibus et locis abgestimmt würde, so kann das- nicht anders aufgefasst werden, als dass nach Bezirken und Wohnsitzen abgestimmt werde. Mit regiones meint er offen- bar die lokalen Tribusbezirke, nach denen geordnet die Bürger- schaft abstimme, und mit loca die Wohnsitze der Einzelnen. Durchaus müsste, wenn der Grundbesitz das notwendige Re- quisit für das Stehen in der Tribus also das Stimmen in den Tributcomitien wäre, dies possessorische Prinzip in einer De* finition der Tributcomitien ausgedrückt sein. Dionys erwälint direkt die Beziehung zwischen Tribus und Domizil. Nacli ihm (IV, 14) richtete König Servius die Tribus ein rjf-jnom^ Hfiyxcoij^^ dTrodf-i'^ca^' ()ruuo()ic{^ vjü'Tre(i ül/.iuY {-'yMüH}^ üiy.rl ; ausserdem lässt Dionys (IV, 14) den König Servius demjenigen , der in eine bestimmte Tribus eingeschrieben sei, verbieten '/Mitßari-ti' uh^ku oiy.rüiv. Wenn diese Angaben auch keineswegs im einzelnen zu glauben sind, so folgt doch daraus, dass Dionys meint, der Wohnort habe die Zugehörigkeit zur Tribus bestimmt. Und das ist unserer Ansicht nach sicher der Fall gewesen. Wenn Avir in diesem Sinne die lokale Grundlage der Tribus auflassen, lässt sich das, was uns vom Verhältnis der Tribulen unter einander überliefert ist, sehr einfach und. natürlich erklären. Es was ein nachbarlicher Geist, so wird uns mehrfach berichtet, der sie verband. Freilich wäre dies ja auch denkbar, wenn die Tribus nur die Grundbesitzer um- fasst hätten. Aber es ist mehrfach bezeugt, dass grade zwischen den niederen und höheren Tribulen einer Tribus dies Nahver- hältnis bestand (der geringe Mann wird von seinem vornehmen Tribusgenossen zu Tisch gezogen Horaz ep. I, 13, 15 und beschenkt Sueton, Aug. 4 und anderes; vgl. Mommsen, Str. III, 197 f.). Es war das gemeinsame Interesse des Wohnbezirks (Cic. pro Roscio IG, 47: tribules vel vicinos meos), welches die Tribulen mit einander verband (so z. B. wie die Censoren i. J. 204 in einigen Tribus den Salzpreis erhöhten). Und dies weist eben darauf hin, dass die Tribus rein lokale Bezirke sind. Wie viel leichter lassen sich bei dieser Auffassung der lokalen Grundlage der Tribus die anderen Quellenstellen ver- stehen, welche die Lokalität der Tribus erwähnen! Die Worte des Livius (I, 4o): (Servius Tullius) quadrifariam urbe divisa regionibus collibusque partes eas tribus appellavit sind doch, meine ich, viel naturgemässer so auszulegen, dass S. Tullius das gesamte Stadtgebiet in vier rein lokale Bezirke teilte, als so, dass der im Stadtgebiet gelegene ager privatus in vier Tribus zerlest sei. Dasselbe gilt von dem Ausdruck des Dionys, dass S. Tullius die Stadt in 4 to.-ax«, <fcm zerlegt habe. Dionys sagt selbst, wie er ro.-r,.o,aufgefasst wissen will, und auch Livius hat nach den ob.gen Worten die lokale Bedeutung der Tribus nicht anders aufgetasst. Schliess- lich führe ich noch die Erklärung der Tribus an, welche Verrius Flaccus (b. Gellius XVIII, 7) giebt: tribus d.c. et pro loco et pro iure et pro hominibus. Auch hier ist locus einfach und natürlich als Wohnort zu fassen. Wenn also Mommsens Anschauung von dem Wesen der Tnbus einer- seits auf einer gezwungenen Quelleninterpretation beruht, so erheben sich anderseits dagegen auch viele sachliche Be- Der Tribule. d. h. nach Mommsen der Grundbesitzer, hat diejenige persönliche Tribus, in deren lokalem Bezirk sein Grundbesitz lag. Wie aber war es, wenn Jemand in mehreren Tribusbezirkcn Grundstücke besass? Persönlich konnte doch Jeder nur in einer Tribus stehen (Mommsen, Str. 111, 1»^), und in der Steuerrolle konnte Jeder nur einmal seinen Platz finden In einem solchen Falle, vermutet Mommsen, habe die Wahl der Personaltribus und die EinSchätzungssumme vom Censor besthumt werden müssen. Die Willkür, die in einer solchen Sachlage liegt, giebt Mommsen selbst zu (11, d7 J t.;. So hätte es also Grundstücke gegeben, deren Tribus sich nicht auf den Eigentümer übertrug. Dasselbe trat ein, wenn Personen, die nicht Bürger sein konnten, - etwa Frauen oder Ausländer - römischen ager privatus erwarben. Auch dann sei, meint Mommsen (Str. 111 18;]) die Übertragung der Bodentribus auf die Personen tort- gcfallen, so dass also für die Tribus in diesem Falle der Um- stand, dass Jemand nicht aktiver römischer Bürger sein konnte, wichtiger war als der Grundbesitz. Wie sich gegen die Auffassung des Tribulen Bedenken erheben, so auch' gegen die des Nichttribulen, des Arariers. Die Annahme, es seien die Ärarier eine den Tribulen absolut entgegengesetzte Bürgerklasse, sie seien ohne Stimmrecht und Heerespflicht und nur stärker besteuert, ist lediglich Hypo- these ; sie beruht allein auf der häufig wiederkehrenden Formel der censorischen nota „tribu movere et aerarium facere". Aus derselben geht allerdings hervor, dass das aerarium facere häutig mit tribu movere verbunden war, aber nicht, dass es identisch ist. Dies kann es vielmehr nicht gewesen sein. Das folgt deutlich aus einem Bericht des LIVIO (si veda), wo er erzählt, der Censor M. Livius habe 34 Tribus zu Arariern gemacht (Liv.). Da nach Mommsen tribu movere in späterer Zeit gleich einer Versetzung in die tribus urbanae ist, so müssten also damals alle Tribulen in die städtischen Tribus versetzt sein, was Unsinn ist. Tribu movere kann nicht dasselbe sein wie aerarium facere ; dazu stimmt, dass letzteres mehrfach allein genannt wird (LIVIO (si veda0, IL Gellius). Wer Ärarier war, brauchte noch nicht tribu motus zu sein ; das folgt gleich- falls aus dem angeführten Bericht des Livius. Der tribu motus war aber immer aerarius: also ist der eine Begriff weiter als der andere. Tribu movere heisst die Tribus ändern lassen (Liv. 45, 15 : tribu movere nihil aliud est quam mutare iubere tribum). Was dies für Nachteile mit sich brachte, wissen wir absolut nicht. Die Ärarier aber sind nichts als eine Art Strafklasse, die höher besteuert war. Livius deutet die Art dieser will- kürlichen Straf besteuerung an, wenn er berichtet (IV, 24), Mam. Aemilius sei zum aerarius octuplicato censu gemacht, d. h. zum Ärarier unter Erhöhung seiner Steuerpflicht um das Achtfache (vgl. Soltau, Volksversamml., Madvig, Verf. u. Verw.). Hiermit ist der absolute Gegensatz auf- gehoben, welchen Mommsen zwischen Tribulen und Arariern annimmt, als seien alle Ärarier Nichttribulen. Das Resultat dieser Erörterungen besteht darin, dass die Mommsensche Theorie von der Tribusordnung, als sei sie an- fangs lediglich eine Einteilung des ager privatus, und als ständen nur die Grundbesitzer in den Tribus, nicht recht sein kann. Die lokale Grundlage besteht vielmehr, wie wir aus den Quellen gefolgert haben und jetzt noch weiter erörternd beweisen werden, darin, dass die Tribuseinteilung eine einfache geographische Distriktseinteilung des gesamten römischen Ge- bietes war. Diese lokale Grundlage ist stets dieselbe geblieben: deutlich lässt sie sich noch in der späten Zeit erkennen, wo Mommsen einen völligen Umschwung im Wesen der Tribus annimmt. Denn nachdem man zu dem Grundsatz ge- kommen war, keine neuen Tribusbezirke mehr einzurichten, konnte man füglich das angegebene lokale Prinzip nur wahren, wenn man das ganze Gebiet einer neuen Vollbürgergemeinde einer der bestehenden Tribus zuwies. Und so geschah es: nach demselben einfachen lokalen Prinzip, nach welchem das gesamte römische Gebiet in Tribusbezirke zerlegt war, schrieb man die späteren neuen Vollbürgerterritorien einem jener Ur- bezirke zu. Nur der örtliche Zusammenhang, welcher für die Urbezirke bestand, ward dadurch aufgehoben ; das war aber eine notwendige Folge davon, dass man keine neue Bezirke seit d. J. 241 v. Chr. stiftete. Es liegt nicht in meinem Plane, zu erörtern, aus welchen Gründen man zu diesem Grundsatz kam, die Zahl der Tribus nicht mehr zu vermehren, noch auch, nach welchen Prinzipien man später die neuen Vollbürgerterritorien an die einzelnen Tribus verteilte. Darin dass man bei der Neuaufnahme einer Vollbürgergemeinde ihr ganzes Territorium einer Tribus zuschrieb, zeigt sich dasselbe lokale Prinzip, welches wir von Anfang an anzunehmen haben. Von dem Lokal wurde die Tribus auf die Person übertragen. In späterer Zeit gehörte derjenige zum Verbände einer Voll- bürgergemeinde, also in die Tribus dieser Gemeinde, der in ihrem Territorium heimatsberechtigt war. Dass die Heimats- berechtigung in der Regel mit dem Domizil zusammenfiel, liegt in der Natur der Sache; aber es ist ausdrücklich be- zeugt, dass solche, welche in andere Städte übersiedelten, die Tribus ihrer Heimat behielten (Mommsen, R. Forsch.). In früherer Zeit war in dieser Hinsicht das Domizil ent- scheidend. Wer in dem Bezirke einer Tribus wohnte, hatte persönlich diese Tribus, und mit dem Wechsel des Wohn- sitzes ward auch die Tribus gewechselt. Die Personaltribu& ist also auch nach unsrer Ansicht wandelbar. IMit diesen Unterschieden der Personaltribus in späterer und früherer Zeit, werden wir sehen, hängt das Edikt des App. Claudius eng zusammen. Die lokale Grundlage der Tribus in dem Sinne, wie wir entwickelt haben, nimmt schon Niebuhr an (R. G.). Wenn wir auch in allem andern, was er über die Tribus und ihre ursprüngliche Bedeutung annimmt, ihm widersprechen müssen, so hat er doch das lokale Prinzip, auf dem die Tribusordnung beruht, richtig erkannt, dass sie nämlich eine einfache Distriktseinteilung ist und in persönlicher Hinsicht alle in dem Distrikte einer Tribus Wohnenden umfasst. Von Niemanden ist diese Ansicht angenommen, nur Clason (Kritische Erörterungen über den röm. Staat.) vertritt sie, leitet sie aber weder beweisend ab, noch verfolgt er ihre Consequenzen in der politischen Verwendung der Tribusord- nung. Die Übertragung der Tribus vom Lokal auf die Per- son geschah in der Weise, dass, grade wie später die Per- sonen, welche dem Territorium einer Vollbürgergemeinde an- gehörten, der Tribus derselben zugeschrieben wurden, auch früher die Tribus auf die Personen, welche ihrem Bezirke an- gehörten, übertragen wurde. Doch war dazu eine bestimmte Qualifikation notwendig. Diese war in späterer Zeit die In- genuität. Wann dies Prinzip aufgekommen, habe ich nicht zu erörtern; es scheint erst sehr spät (Mommsen, R. Staatsr. III, 439 ff.j. In früherer Zeit und ursprünglich bestand diese Grenze nicht. Vielmehr haben ursprünglich alle in dem Be- zirke einer Tribus wohnenden römischen Bürger auch personal diese Tribus gehabt. Die Qualifikation für die Personaltribus war also ursprünglich das Bürgerrecht, und zwar das Bürger- recht schlechthin und unbeschränkt. Die Ansicht Niebuhrs (R. G. I, 457 f.), dass ursprüng- lich nur die Plebejer in den Tribus gestanden hätten, wird schon dadurch widerlegt, dass die 16 ältesten ländlichen Tribus ^atrizische Geschlechtsnamen tragen. Die Schriftsteller bezeichnen ausdrücklich die 35 Tribu» als identisch mit dem ganzen römischen Volke (z. B. CICERO (si veda), de leg.: populus fuse in tribus convocatus und viele andere Stellen), und nirgends schliessen sie einen Teil der Gesamt- bevölkerung aus, was bei der Annahme einer distriktartigen Einteilung des gesamten Gebietes sehr erklärlich und natur- gemäss ist. Selbst die Freigelassenen haben ursprünglich in den Tribus gestanden. Denn wenn Dionys und Zonaras über- liefern, dass S. Tullius den Libertinen das Bürgerrecht ge- geben habe und sie in die Tribus (Zon. VII, 9), und zwar in die 4 tribus urbanae (Dion. IV, 22) aufgenommen habe, so besagt dies jedenfalls soviel, dass das römische Staatsrecht, indem es die Tribus der Freigelassenen auf S. Tullius, den mythischen Urheber des römischen Verfassungslebens, zurück- führt, keine Zeit kannte, wo die Freigelassenen nicht in den Tribus gestanden hätten. Die Freigelassenen haben ja von Haus aus das Bürgerrecht, wenn auch ein zurückgesetztes. Und da sie deshalb dem Staate gegenüber Pflichten und Rechte, wenn auch in geringerem Masse, hatten, so mussten sie auch in den Abteilungen der Bürgerschaft Platz linden, welche dazu bestimmt waren, damit die Bürgerschaft nach ihnen ihren Pflichten und Rechten dem Staate gegenüber ge- nüge (vgl. über die Tribus der Libertinen Becker, Hdb. II, 1, 96 ff. Madvig, Verf. u. Verw. I, 203. Clason, App. Claud.). In der politischen Bedeutung nämlich liegt das weitere wesentliche Moment der Bedeutung der Tribusordnung. Sie ist dazu geschaffen, und dieser Zweck ist ihr von Haus aus eigentümlich, dass sie im Staatsleben praktisch zu politisch- administrativen Zwecken verwandt werde. Denn was hätte eine solche geographische Distriktseinteilung für einen Wert, wenn sie nicht von Anfang an dazu bestimmt gewesen wäre, eine Volkseinteilung zu sein, dass die Bürgerschaft, nach diesen Distrikten geordnet, ihren politischen Pflichten und Rechten nachkomme? Die Tribusordnung ist von Anfang an die Voraussetzung der Steuerordnung, Heerordnung und Stimm- ordnung. Die Alten selbst betrachten diese politisch - admi- nistrative Verwendung der Tribus als ihren Zweck. Dionys sagt vom König Servius (IV, 14) : Ta^ y.cauyoaifd^ tlov oya- Tivncov ycci nc^ Fi^7ii>a§F.i^ n^n' y^njicktov rag yivofihag etg ra oroaTiomyi} vmi rag aUag /of/c.,-, ag ^yaorov ^'ösi toj y.oivco Tiuolyeiv, inyÄTi yard rag iQflg cfr/Mg rag yerimg, (k tcqoteqov, cWm 'xard rag rhra^ag rag romy^g rag v(f' kwnw diarayßeiaag tTCOulro. Dasselbe ergiebt sich aus den Etymologien, welche von dem Worte tribus gegeben werden. VARRONE (si veda) (d. 1. 1.) sagt: tributum dictum a tribubus quod ea pecunia, quae populo imperata erat, tributim a singulis pro portione census exigebatur, und Livius umgekehrt: (Servius) partes urbis tribus appellavit, ut ego arbitror, a tributo. Diese Ety- mologien haben selbstverständlich als solche keinen Wert; sie beweisen nur, dass sich die Schriftsteller die Steuerordnung und die Tribuseinteilung als unzertrennlich dachten; ebenso haben auch ohne Zweifel Heer- und Stimmordnung von Anfang an auf der Tribusordnung beruht. Ich kann, wenn ich die politische Bedeutung der ur- sprünglichen Tribus darlegen will, selbstverständlich nicht alle die einzelnen Fragen, die zum Teil äusserst schwierig sind, und über die noch lange nicht die Akten geschlossen sind, sowie über die politischen und administrativen Institute, bei denen die Tribuseinteilung praktisch verwandt worden ist, handeln : ich habe mich lediglich darauf zu beschränken, dar- zulegen, in welchem Verhältnis die Tribus zu Steuer-, Heer- und Stimmordnung stehen. Der Akt, welcher eine allgemeine Zählung der Bürger bezweckte, um nach ihren eidlichen Aus- sagen über ihre Verhältnisse ihre Bürgerpflichten und Bürger^ rechte zu bestimmen, ist der Census, die Schätzung (vgl. Mommsen, Str. H, 333 ff". Madwig, Verf. u. Verw. I,^ 399 ff".). Diese nun beruht unmittelbar und allein auf der Tribusein- teilung. Denn tributim mussten alle römischen Bürger auf dem Marsfelde vor dem Censor erscheinen und ihre eidlichen Angaben über Namen, Alter, Vermögen machen. (Dionys.). Darin dass beim Census durchaus alle Bürger mcldungspfliclitig waren (Ladungsbefehl b. Varro 1. 1. 6, 86: omnes Quirites, Liv. 1, 44: lex de incensis etc. Cic. pro Cluent. 34. Dion. IV, 15), und dies tributim geschah, sehe ich einen neuen Fingerzeig dafür, dass die Tribus auch alle Bürger umtasst haben: von einer Schätzung, die nicht tributim geschehen wäre, erfahren wir absolut nichts. Momm- sen hilft sich, indem er für seine ausser der Tribus stehenden Ärarier eine besondere Schätzung, welche derjenigen der Tribulen folgte, annimmt (Str. II, 343). Auf dem Census beruht zunächst die Bestimmung des Tributum, der direkten Vermögenssteuer (Mommsen, Str. III, 228. Madvig, Verf. u. Verw. II, 387 f.). Der Bürger musste sein Vermögen de- klarieren, und der Censor hatte es abzuschätzen zum Zweck der Besteuerung. Als steuerpflichtig werden die verschieden- sten Gegenstände bezeichnet (cf. Mommsen, Str. II, 363 m. A. 1). Das hauptsächlichste steuerpflichtige Objekt ist, zumal vor dem Aufkommen der Geldwirtschaft, der Grundbesitz: m Grundbesitz hat Anfangs wohl allein, wie das natürlich ist und allgemein angenommen wird, der Pwcichtum bestanden, und auch später ist dies vielfach der Fall gewesen. Da nun die o-esamte Schätzung und also auch die Deklarierung des steuerfähigen Vermögens tributim geschah, so musste auch der Grundbesitz tributim zum Zweck der Besteuerung ab- geschätzt werden d. h., wenn man will, auch der ager pri- vatus stand in der Tribus. Es ist dabei natürlich, dass an- fangs, wo die Personaltribus an das Domizil gebunden war, dies in der Tribus geschah, in dessen Bezirk der Grund- besitzer wohnte, mochte sein Grund])esitz oder Teile desselben auch in den Bezirken andrer Tribus liegen. So allein, glaube ich, können die Quellenstellen, die von agri censui censendo oder der Tribus von Grundstücken sprechen, ausgelegt werden. (Festus, epit. p. 58. Cic. pro Flacco). Dies ist das Verhältnis von tribus und ager privatus, welches, wie Cic. pro Flacco 32, 79 beweist, stets so geblieben. Auf dem Census beruht ferner die gesamte sog. servianische Klasseneinteilung und Centurienverfassung. Da der Census nach Tribus geschah, so folgt, dass zwischen Tribus- einteilung und der Centurienverfassung ein Zusammenhang be- stehen muss. Für die sog. reformierte Centurienverfassung, welche seit der Mitte des dritten vorchristlichen Jahrhunderts bestand (vgl. Mommsen, Str. III, 280), steht das Verhältnis ziemlich fest, schon seit Pantagathus (vgl. die neusten Ab- weichungen Mommsens vom bekannten Schema Str.). Aber damit habe ich mich nicht zu befassen. Auch für die ältere sog. servianische Centurienverfassung ist ein Verhältnis zur Tribusordnung anzunehmen, wenngleich nichts <lavon überliefert ist. Mommsen hat das wahrscheinliche Ver- hältnis nachgewiesen (Trib. Str.). Sein Resultat ist dies, dass das leitende Prinzip bei der Centuriation ^die gleichmässige Verteilung der Tribulen einer jeden Tribus in sämtliche Centurien, also die Zusammensetzung einer jeden Centurie aus gleich vielen Tribulen aller Tribus" gewesen sei. Aber mehr als approximativ hätte diese Gleichmässigkeit im besten Falle nicht sein können. Ganz so wie Mommsen das Prinzip der Centuriation annimmt, kann es unmögUch gegolten haben. Denn wenn eine jede Centurie aus gleich vielen Tribulen aller Tribus zusammengesetzt worden wäre, so würde dadurch vorausgesetzt, dass in jedem Tribusbezirk gleich viel Bürger einer jeden Censusklasse gewohnt hätten, dass also alle Tribus an Kopfzahl und Vermögen sich einander gleich gewesen wären, was, selbst approximativ, unmöglich der Fall gewesen sein kann, wie Polyb. VI, 20 (s. unten die Inter- pietation) beweist. Das Prinzip der gleichmässigen Centuriation ist wohl nur auf die Angehörigen einer Tribus von gleichem Census zu beziehen, sodass die in einer Tribus wohnenden Bürger mit gleichem Census in die Centurien ihrer Censusklasse gleich- massig verteilt wurden. Und selbst so eingeschränkt, kann das Prinzip keineswegs als Gesetz gegolten haben, sondern ist vielfach, wie Mommsen sehr wahrscheinlich macht (Str.), der Machtvollkommenheit der Censoren überlassen : vielleicht sind auch noch andere Dinge bei der Centuriation berücksichtigt (s. unten). Für die nicht klassischen Tribulen d. h. die Bürger, deren Census den Satz der untersten Klasse nicht erreichte, kam die Centuriation überhaupt nicht in Frage ; sie standen in einer Zusatzcenturie. Wenn sich auch kein be- stimmtes Verhältnis zwischen der Tribusordnung und der älteren Centurienverfassung nachweisen lässt, so müssen sie doch in notwendigem Zusammenhang stehen ; es folgt die& eben schon daraus, dass die Centurienordnung auf dem Census^ und dieser auf den Tribus beruht. Direkt auf der Tribusordnung ruhten die Tributcomitien, Sie waren diejenige Volksversammlung, in welcher unmittelbar nach Tribus, Mann für Mann, viritim, ohne Rücksicht auf Census oder Unterschied des Standes und der Stellung ab- gestimmt wurde (Dionys VII, 59 Cic. de leg. III, 19 Liv. 39,^ 15 u. a.). Wir haben das Wesen der Tribus dahin festgestellt, das» sie lediglich einfache, lokale Bezirke sind, dass alle römischen Bürger, welche in dem Bezirke einer Tribus wohnen, auch persönlich dieser Tribus angehören, und zwar, um in derselben . ihre politischen Pflichten und Rechte auszuüben. So können wir zur Erörterung der Tribusänderung des App. Claudius übergehen. Wir gehen aus von der besten Überlieferung Diodors. Wenngleich seine Angabe äusserst knapp ist und vielleicht mehrfache Auslegung zulassen könnte, so glaube ich doch,, dass sie, wortgetreu aufgefasst, klar, deutlich und wahr ist. Diodor sagt (XX, 36): i^dioite rolg Tio/Ajai^ ij]v e^ovaiav otiol TiQoaiQolvTO xif.uaaal>ca d. h. er gab den Bürgern die Erlaub- nis, sich schätzen zu lassen, wo d. h. in welcher Tribus sie wollten. Mit Recht hat Dindorf die Worte, welche in einigen Handschriften folgen: 'Acd iv unoia Tig ßov/.8Tai cpv/,fi TccTzea- d^ai gestrichen, da sie dasselbe bedeuten wie die vorhergehen- den. Wenn Siebert (App. Caudius S. 50) die Worte otiol tt^^o- aiQolvTO TifojaaaS^ta auf die Klassen bezieht, während die folgenden iv oTioia iig ßauXerat (fvXfi TaTTeoO^at nach seiner 'i!- Meinung die Tribus bezeichnen, so ist die Tautologie, die in dem Zusatz läge, noch nicht aufgehoben, weil, wer in der Tribus stand, auch nach dem Census in die Klassen aufge- nommen werden musste; zudem widerspricht Sieberts Auslegung den Worten Diodors; denn er -giebt selbst zu, das& der Census bei der Bestimmung der Klasse massgebend war : die Bürger konnten sich also die Klasse nicht wählen {7i()oaL~ QohTo), sondern der Censor hatte sie nach dem Census in die bestimmte Klasse zu setzen. Noch willkürlicher ist der Versuch Gerlachs („Griechischer Einfluss in Rom" Basel 1872. S. 36 ff. 40), die Worte iv OTioirf rtg ßovkeTai (fvl^ Tcareoü^ca als echt zu erweisen. Appius Claudius gab nach Diodors Worten den Bürgern die Erlaubnis, sich in der Tribus, in welcher sie wollten^ schätzen zu lassen. Der Ton liegt auf den Worten oTiot TiQOaiQoh'TO, und es folgt aus ihnen, dass vor App. Claudius die Bürger sich nicht in jeder beliebigen Tribus schätzen lassen durften, sondern, so fahren wir nach unseren obigen Erörte- rungen fort, in der Tribus, in deren lokalem Bezirke sie wohnten. Es stimmt dies so genau und klar zusammen, dass Diodors Worte nicht anders ausgelegt werden können, wenn man ihnen nicht Gewalt anthun will. Diodor bezieht die Ände- rung, die Appius Claudius mit den Tribus vornahm, zunächst auf die Schätzung {jL^irfiaad^ai)', da aber auf dem Census^. der eben nach den Tribus vorgenommen wurde, Steuer-^ Heer- und Stimmordnung, wie wir sahen, beruhte, so musste das Edikt des App. Claudius natürlich und notwendig auf alle diese Verhältnisse zurückwirken. Die Änderung des App. Claudius bestand also darin, dass er die Personal- tribus von dem Wohnsitz löste, dass er den Zwang be- seitigte, nach welchem der römische Bürger für die Aus- übung seiner politischen Pflichten und Rechte an den Bezirk seines Wohnortes geknüpft war; an Stelle des früheren Domizilzwangs für die Ausübung der Bürgerpflichten und Bürgerrechte setzte App. Claudius also die Freizügigkeit. Absoluter Domizilzwang hat wohl nie bestanden, obwohl dies Dionys vom König Servius einführen lässt (IV, 14); also ist wohl auch Tribuswechsel gestattet gewesen: aber vor Appius <^laudius konnte letzterer nur die Folge des ersteren sein, nur wer sein Domizil in einen andern Tribusbezirk verlegte, erhielt auch personal diese andere Tribus und kam in ihr seinen politischen Obliegenheiten nach. Seit der Censur des App. Claudius konnte jeder Bürger in jeder beliebigen Tribus sich schätzen lassen und seinen politischen Pflichten und Rechten nachkommen, jeder im Bezirk einer städtischen Tribus wohnende Bürger in jeder beliebigen städtischen und länd- lichen und umgekehrt. Den Zweck, welchen App. Claudius mit seinem Edikte verfolgte, seine Wirkung und Bedeutung werden wir, soweit und was sich darüber festsetzen lässt, unten erörtern; sehen war zunächst, w^as die anderen Berichte über die Tribusände- rung des App. Claudius sagen. Livius übergeht in dem Jahre, in welches er die Censur <les App. Claudius setzt, die Tribusänderung desselben vöUig. Ohne Bedenken kann man annehmen, dass seine Quelle, der «r an dieser Stelle folgt, gleichfalls davon schwieg. Und es scheint dies bei dem Standpunkt, den die Quellen des Livius dem App. Claudius und überhaupt der gens Appia gegenüber einnehmen, nicht wunderbar. In anderm Zusammenhang haben wir bereits erwähnt, dass der gens Claudia in der späteren römischen Annalistik eine merkwürdige, durchweg erkennbare Rolle angedichtet ist: alle Appii Claudii werden seit Livius und besonders von ihm als ultraconservative Vertreter des Adelsregimentes dargestellt. Nach demselben Schema ist auch unser Censor geschildert (9, 34). Es hätte nun die Massregel der Tribusänderung, welche, wie wir noch genauer betrachten -werden, durchaus demagogisch ist, mit dem politischen Charakter, den die spätere Annalistik dem App. Claudius beilegt, keineswegs übereingestimmt: so überging man dieselbe eben. Zu einem späteren Jahre jedoch, dem Jahre der Adilität des €n. Flavius (304), berührt Livius kurz die Tribusänderung des App. Claudius, und es ist höchst wahrscheinlich, dass er an dieser Stelle (9, 4G von ceterum bis Schluss) aus einer andern, und zwar bessern, Quelle geschöpft hat. Er berichtet nämlich in diesem Kapitel (9, 46) zunächst die Wahl des Cn. Flavius zum Ädilen, alsdann dessen Amtsführung und kehrt schliesslich mit ceterum wieder zur Wahl zurück, um noch neues Detail über dieselbe beizubringen. Es ist dies offenbar ein Compositionsfehler, der sich am besten so erklärt,. dass man annimmt, Livius habe nach Abschluss seiner Er- zählung in einer neuen Quellle andere Angaben gefunden über die Wahl des Cn. Flavius, die er nun anhangsweise bei- fügte (cf. Seeck, Kalendertafel der Pontifices). Dass diese Quelle eine bessere ist als die, welcher Livius sonst über App. Claudius folgt, geht daraus hervor, dass er die Massregeln des App. Claudius erwähnt, welche als dema- gogische dem ihm sonst von Livius beigelegten politischen Charakter widersprechen, und das Demagogische derselben sogar ohne Hehl ausdrückt. Es heisst bei Livius a. a. 0.: Ceterum Flavium dixerat aedilem forensis factio Appii Claudii censura vires nacta, qui senatum primus libertinorum filiis lectis inquinaverat et postea- quam eam lectionem nemo ratam habuit nee in curia adeptus erat quas petierat opes urbanas humilibus per omnes tribus divisis forum et campum corrupit. Den Gedanken, dass App. Claudius, weil er nach dem Scheitern seiner senatus lectio nicht die erstrebten opes urbanas erreicht hatte, dies nun durch seine Tribusänderung bezweckt habe, werfen wir weg: es ist offenbar eine causale Verbindung der beiden Massregeln, die Livius selbst hergestellt hat, und die aus der allgemeinen Auffassung des Livius von dem politischen Streben des App. Claudius geflossen ist. Nach Livius besteht die Tribusände- rung des App. Claudius darin, dass derselbe die humiles über alle Tribus verbreitet habe und so die Tributcomitien (forum) und die Centuriatcomitien (campum sc. Martium) verschlechtert, heruntergebracht habe. Unter humiles versteht Livius nie eine bestimmte Bürger- klasse, es ist bei ihm nur der Gegensatz von nobilis, potens opuleritus, bedeutet also im allgemeinen niedrig, an Geburt, Stand oder Macht und Vermögen (cf. Siebert). Zuweilen versteht Livius darunter auch die ärmeren Plebejer. Und ein solcher allgemeiner Begriff, den Livius stets mit humilis verbindet und daher sicher auch hier, passt vortrefflich zu unserer Auffassung von des App. Claudius Tribusänderung. Es ist naturgemäss anzunehmen, dass die Bewohner der Stadt Rom dichter zusammenwohnten als die des umliegenden flachen Landes, ferner dass die Stadtbewohner zum grössten Teil zu den mittleren und unteren Volksschichten gehörten, seien es Kaufleute, Handwerker oder ein sonstiges städtisches \ Gewerbe Treibende. Zu den Reichen werden die Stadtbe- i wohner in ihrer grossen Masse nicht zählen können, zumal in ältester Zeit nicht, wo der Grundbesitz der alleinige Reich- tum war. Dabei ist nicht ausgeschlossen, dass reiche Grund- besitzer in der Stadt wohnten und umgekehrt Nichtgrund- besitzer auf dem Lande, wie für die spätere Zeit der Repu- blik es vielfach bezeugt ist, dass Grundbesitzer in der Stadt wohnten (s. unten). Ihrer grossen ]\Iasse nach waren aber die Städter einmal dichter zusammengedrängt und dann ärmer als die Masse der Landbewohner. Zur Ausübung ihrer poli- tischen Pflichten und Rechte waren sie nun an die Tribus ihres Wohnplatzes gebunden, und es ist nicht zweifelhaft, dass sie in diesem d. h. ni den tribus urbanae von jeher das Übergewicht gehabt haben. Aber es standen den städ- tischen Tribus von jeher eine grössere Anzahl ländlicher gegenüber, in denen ohne Zweifel die Reicheren und Reichsten die Überzahl ausmachten. Zur Zeit des App. Clau- dius standen 21 ländliche gegen die 4 städtischen Tribus. Vermöge der Überzahl der Bezirke der ländlichen Tribulen hatte diese also stets, vor allem in den Tributcomitien, die Oberhand, während das Stimmrecht der ärmeren und ärmsten Tribulen, die in der Stadt zusammengedrängt waren, ziemlich illusorisch war, da nur die Abstimmung der 4 tribus urbanae precLde Macht in den Comitien m we chen d- Kopfzahl entschied, zu erlangen, sich über d.e l^^^^f ^ Jj \^ ;;;„ breiteten und so vern,öge ihrer Masse '" -«1^ "/ J" „meisten ländlichen Tribus das Übergewicht -lang -Und dies sagt ia eben Livius mit nicht misszuverstehenden Worten (ipp C humilibus per on,nes tribus divisis forun, corrup.t . Ltht so leicht erklärbar ist der Zusatz des Livius, dass durch JSicht so leiciii. Stimmrecht in den Centuriatcomitien diese Massregel auch das Stimmrecht m ae verschlechtert sei (eampum sc. Martmm corrupit). Denn de Erklärung Clasons, -'»^r campus se. d^ u. .eine ländliche Tribus, unter forum d.e S;-";-J '^;;. comitien zu verstehen, wird doch schon aus dern g'-f J^^J fällig weil darin eine Tautologie läge, mdem das Ubei gewicht Tln gesamten Tributcomitien dasjenige - /-.-f"/;^ Tribusbezirken voraussetzt. Wenn bei der Centunafon das Szt dir gleichmässigen Verteilung der TrlbtUen em. jeden Tribus auf alle Centurien Gesetz gewesen wäre, so hatten schon n; Claudius die hunüles auf die Centurien der d.em^.us entsprechenden Klasse gleichmässig verteil --d- ^^Tg Aber dass dem nicht so gewesen ist, wird d-h die Wnkun des appianischen Ediktes bewiesen. Liyius sagt, dass durch die Verteilung der humiles auf alle Tribus auch das Stimm thl il den Lturiatcomitien verschlechtert worden sei ; als gewannen die humiles, indem sie sich auf alle T"bus zer Eeuten, auch mehr Geltung in den C-turi^-— ,. je mehr Tribus sie -;^ VklTsiorl^Tu: aTf t langten sie auch von da aus. Ls kann sicn u letzte höchstens vorletzte Censusklasse beziehen, da de dltber Stehenden wohl nicht mehr zu den humiles gezahlt werden können. So liegt hier das Verhältnis zwisciien Tribus und Cen- turien; aber wie es zu erklären ist, ist mir unmöglich zu finden. Die ]\[achtvollkommenheit der Censoren, die dies zu regeln hatte, genügt auf keinen Fall zur Erklärung (vgl. Mommsen, Str.). Sei ihm, wie es wolle, wir dürfen dem Livius glauben, dass die Wirkung des appianischen Ediktes sich nichi bloss auf die Tribut-, sondern auch auf die Centuriatcomitien geäussert hat. Aber damit hören auch unsere Nachrichten über die Wirkung des Ediktes auf. Ob es und welchen Einfluss es auf Steuererhebung und Aushebung geübt hat, ist kaum zu er- mitteln. Die Zahl der Steuer- und aushebungspÜichtigen Bürger wurde durch dasselbe nicht vergrössert, sondern es trat durch die Massregel nur eine andere Verteilung der Tribulen über die Tribus ein. Also trat wohl eine Veränderung der Tribulen- anzahl in den meisten Tribus ein, indem sich viele Bürger nicht in ihrer Heimattribus sondern in einer andern schätzen Hessen; aber das Gesamtresultat der Aushebung und Steuer- erhebung musste, da die Zahl der zu beiden Verpflichteten nicht vermehrt wurde, füglich dasselbe bleiben. Das Edikt hatte wesentlich nur die oben ausgeführte, von Livius über- lieferte politische Wirkung, dass es durch die Freistellung der Tribuswahl das Stimmrecht der humiles verbesserte. Und wenn hierin der hauptsächlichste, wenn nicht ehizige, Zweck des Censors selbst beim Erlassen des Ediktes bestanden hat, so stimmt dies vortrefflich mit seinem gesamten politischen Charakter. Er war Neuerer und Demagog, begünstigte die niederen Volksschichten und besonders die städtische Be- völkerung. Ohne Zweifel ist der Samniterkrieg, der ja unter der Censur des App. Claudius geführt wurde, auf die demokratische Massregel von Einfluss gewesen. Die W^ehr- kraft des römischen Volkes musste in diesen Jahren aufs höchste gespannt werden, und da die unteren Schichten die meisten Krieger stellten, so war es zeitgemäss, wenn unser volksfreundlicher Censor deren politischen Rechte förderte. Die Tribusänderung des App. Claudius ist sehr wohl denkbar mit der alleinigen Wirkung auf die Comitien, be- sonders die Tributcomitien. Alles, was sonst von neueren Gelehrten über die Wirkung der appianischen Massregel auf Steuerordnung und Aushebung aufgestellt ist, ist unbeglaubigt; besonders gilt dies von Mommsens Ausführungen, die aller- dings consequent mit seiner Ansicht über das ursprüngliche Wesen der Tribus und die Tribusänderung- des App. Clau- dius zusammenhängen. Anfangs steuerten nach Mommsen die Tribulen d. h. die Grundbesitzer nur vom Grundbesitz, während die Ararier von jeher vom ganzen Vermögen steuerten. Bald aber ward auch für die Tribulen aus der Grund- steuer eine Vermögenssteuer. Und hieran consequent an- knüpfend, verband App. Claudius die persönliche Tribus statt mit dem Grundbesitz mit dem Vermögensbesitz schlecht- hin oder vielmehr mit dem Bürgerrecht, indem er die Ararier in die Tribus aufnahm, sie also den Tribulen gleichstellte (Str. II, 375). In Folge des Ediktes, dass sich jeder Bürger, in welcher Tribus er wolle, schätzen lassen dürfe, konnte^ während früher nur der Ansässige in der Tribus seines Grund- besitzes gestanden hatte, jetzt sowohl der Ansässige in eine andere als auch der Nichtansässige, der bisher ausserhalb der Tribus gestanden hatte, in jede beliebige Tribus eintreten. Die natürliche Wirkung des Erlasses sei die gewesen, dass sich die besitzlose, in Rom zusammengedrängte Menge über alle Tribus verteilt habe (Rom. Trib.) : es habe sich diese Wirkung geäussert auf Stimm-, Heer- und Steuerordnung, in Bezug auf die erstere sowohl in den Tribut- als den Cen- turiatcomitien. Für die Tributcomitien sei es klar , ebenso für die (Centuriatcomitien, da jeder, der in die Tribus neu aufgenommen werde, auch in die Centurien gelangen müsse je nach dem Census. (Rom. Trib. Str.). Da nun die Centurien sowohl dem Zwecke der Abstimmung als dem des lleerdienstes dienten, so hätten die Nichtansässigen seit App. Claudius auch ihre Stellung in der Wehrordnung. Nur sei das letztere an einen Minimalsatz von Vermögen ge- knüpft. Dieses, das ursprünglich, wie alle Censussätze, in Bodenmass ausgedrückt sei, könne in der Epoche des App. Claudius nur in schweren Ass angesetzt sein, grade wie die gesamten Censussätze (40,000, 30,000, 20,000, 10,000, 4400 Ass, letzteres der Miniraalsatz. Str) In Bezug auf die Steuerordnung sei durch die Censur des Appius der Vermögensbesitz schlechthin auch für die Tribulen d. h. die Grundbesitzer als Objekt der Besteuerung festgesetzt worden (Str. III. 249). Grade dieser Punkt ist 1^ geeignet, um mit der Kritik der Mommsenschen Ansicht ein- zusetzen. Mommsen macht nämlich selbst den Zusatz, dass die Censur des App. Claudius nicht wohl denkbar sei, wenn nicht damals schon das Tributum allgemein zur Ver- mögenssteuer geworden wäre, d. h. wenn nicht damals schon auch die grundsässigen Leute vom ganzen Vermögen gesteuert hätten (Str. II, 363 A. 4). Appius Claudius habe nur die Consequenz daraus gezogen, indem er die Ärarier auch an Rechten den Tribulen gleichstellte. Mommsen erkennt also an, dass der faktische Gegensatz, der nach seiner Ansicht zwischen Ärariern und Tribulen bestand, dass jene vom ganzen Vermögen steuerten, diese nur vom Grundbesitz und also die bessere Steuerklasse waren, schon vor der Censur des Appius Claudius aufgehoben sei. Mindestens müsste man doch beides als gleichzeitig ansetzen; denn die Gleichstellung in den Pflichten gegenüber dem Staate hätte doch naturgemäss die Gleichstellung in den Rechten zur notwendigen und sofortigen Folge gehabt. Aber überiiaupt steht diese Ansicht von der Tribusände- rung des App. Claudius auf schwachen Füssen. Wie ge- zwungen ist zunächst die Interpretation der Quellenstellen, wenn man sie in Mommsens Sinne auflassen will. Sagt denn Diodor oder Livius ein Wort oder liegt in ihren Notizen auch nur eine Andeutung, dass die Massregel des App. Claudius in der Neuaufnahme von Nichttribulen bestanden hätten? Vv'arum hätten diese Schriftsteller, wenn sie die appianische Massregel so aufFassten, wie Mommsen meint, nicht deutlich gesagt, dass App. Claudius viele bisherige Nichttribulen in <lie Tribus aufnahm und dann allen Tribulen das Recht gab, «ich in einer beliebigen Tribus schätzen zu lassen? Diodor und Livius selbst können also die Massregel unmöglich in Mommsens Sinne gefasst haben, denn sonst hätten sie ja, müsste man annehmen, das Wesentliche derselben, die Neu- aufnahme bisheriger Nichttribulen, nicht gesagt. Nein! Beide sprechen nur von einer anderen Verteilung der Tribulen. Es hängt diese Ansicht Mommsens, die von vielen Seiten, nur hier und da mit nebensächlichen Abweichungen vertreten wird (Niebuhr R. G. I, 477, ITI, 346 f. 349 — 52. Alterth. 70, 98, ist darin Mommsens Vorgänger, hat die Ansicht nur nicht im einzelnen so genau ausgeführt. Herzog, Gesch. und System I, 269 fl*. Ihne, Rom. Gesch. I, 366 fl*. u. a.) eng zusammen mit seiner Auflassung vom ursprünglichen Wesen der Tribusordnung, die wir oben widerlegt zu haben glauben. Wie unwahrscheinlich ist es, um den oben ausgeführten Grün- den noch eine hierhin gehörende Erwägung vom historischen Standpunkt aus hinzuzufügen, dass eine ganze Bevölkerungs- klasse mit einem Male in die Rechte der Vollbürger eingesetzt sei. Denn es umfassten doch nach Mommsen die Ararier d. h. die Nichtgrundbesitzer die ganze gewerbetreibende und die „ganze in Rom zusammengedrängte besitzlose Menge" (R. Trib. 153), deren Gesamtzahl doch sehr gross gewesen sein muss, da sie durch die Verteilung auf alle Tribus in der Mehrzahl der Tribus die Majorität erlangt hat, sodass sie z. B. die noch nicht dagewesene Wahl eines Libertinensohnes zum Curulaedilen durchsetzen konnte. Diese Nichtgrund- besitzer müssen demnach nach Mommsen, da doch Centuriat- und Tributcomitien den populus („die patriizisch - plebejische Bürgerschaft") ausmachen, bis auf App. Claudius aus dem Begrifl* des populus ausgeschieden werden. Die ganze grosse Bevölkerungsklasse der Nichtansässigen lebte also Jahrhunderte lang bis zum Jahre 310 v. Chr. ohne jede Teilnahme an den politischen Rechten der Bürger lediglich als Steuerzahler. Und nirgends wird von einem Versuche dieser grossen Be- ^ölkerungsklasse, sich die politischen Vollbürgerrechte zu erringen, berichtet, wie es doch die plebs gethan hat. Erst da& Machtedikt eines Schatzungsbeamten setzte sie in die Voll- bürgerrechte ein. Ziehen wir hinzu, dass nirgends in unser» Quellen weder von einer ursprünglichen Ausschliessung der Nichtgrundbesitzer aus den Tribus, d. h. den VoUbürgerrechten^ noch von einer Neu aufnähme derselben durch Appius Clau- dius auch nur eine Andeutung gemacht wird, so kann man wohl das gesamte System Mommsens als hinfällig bezeichnen, zumal wenn dessen Consequenzen, wie wir bei der Erörterung, der Censur des Fabius darthun werden, bestimmten, von Quellen ersten Ranges überlieferten Thatsachen widersprechen. Ausser Diodor imd Livius erwähnen noch einige alte Autoren die Tribusänderung des App. Claudius: Plutarch,. Popl. 7. Val. Max. II, 2, 9. Valerius Maximus hat, wie man auf den ersten BHck erkennt, aus Livius geschöpft und kann, da er nichts neues beibringt, übergangen werden. Plu- tarch sagt a. a. O. : (Ova/Joio^) rov Orndlxior t.iJ>}](pioc(ro ngviTOv tmekevd^eimv ty,elr<n' tv 'Piöur yeviO&ai TToUxr.v xal (fl^etv ifjijffov I] ijOv'/MiTO (f>(ita()iH :TO(K;rfiit;0ivTa. Tol^; dt aklot^ ccTislecdiooii; oipf- y.ca uem riolvv yomov tiovoiav Diese Stelle ist der Ausgangspunkt für die von manchen Neueren, in einigen Variationen, vertretene Ansicht, dass die Massregel des App. Claudius sich lediglich auf die Frei- gelassenen bezogen habe, indem man meint, der präciseren Angabe Plutarchs über die vom appianischen Edikt Betroffenen vor den ungenaueren des Diodor und Livius den Vorzug geben zu dürfen. Madvig lässt die Freigelassenen mit der übrigen besitz- losen hauptstädtischen Einwohnermasse von Anfang an auf die 4 tribus urbanae beschränkt sein (Verf. u. Verw. 1, 202 f.),. während die übrigen Bürger je nach der Lage ihres Grund- besitzes in die Tribus eingezeichnet wären. In den städtischen Tribus hätten die Libertinen seit Ser- vius Tullius, wie Dionys überliefere, das Stimm recht gehabt. Zwar sei diese Beschränkung: in und wieder durchbrochen, aber immer wieder zur Geltung gekommen und habe bestanden, so lange es Volksversamm- lungen gegeben habe. Die erste Aufhebung dieser Beschrän- kung sei eben das Edikt des App. Claudius, welches den Freigelassenen den Zutritt zu allen Tribus gestattet habe. Siebert fasst den Begrift der Leute, auf welche sich das Edikt des App. Claudius bezogen habe, noch enger. Er meint, es seien davon nur die grundsässigen Libertinen betroifen; das Prinzip der Ansässigkeit für die ländlichen Tribus habe der Censor nicht aufgehoben, sondern nur die grundsässigen Libertinen den ingenui gleichgestellt, indem er sie und ihre ISöhne, welche beide mit den nichtansässigen Freigelassenen und nichtansässigen Freigebornen bisher auf die städtischen Tribus eingeschränkt waren (S. 23 ff.), in die ländlichen Tribus aufnahm, und zwar in diejenige, in welcher sie ansässig waren ; in Folge dessen habe er sie auch in die Klassen und Cen- turien aufgenommen, während sie vorher von diesen ausge- schlossen waren und in der letzten Zusatzcenturie gestimmt hatten. In diesem Sinne interpretiert Siebert in äusserst gezwungener Weise die Angaben aller Autoren über App. -Claudius (l. c. S. 50 ff.). Ausgehend von der Auffassung ;Niebuhrs über den politischen Charakter des App. Claudius als eines streng patrizischen Politikers bringt nun Siebert die Tribusändrung in der Weise mit den angeblich patrizischen Tendenzen in Einklang, dass er annimmt, App. Claudius habe die Libertinen begünstigt, um sich auf sie gegen die plebejische Nobilität und die Coalitionspartei, deren Ziel die Verbindung er patrizischen und plebejischen Nobilität gewesen sei, zu stützen. Nach Lange sind unter den humiles, welche das Edikt <les Censors betraf, sowohl die nichtansässigen Freigeborenen als die gesamten Freigelassenen, einerlei ob ansässig oder nicht, zu verstehen. Diese habe App. Claudius, wenn sie es wünschten, in die Tribus des Landes eingezeichnet. Das Prinzip der Grundsässigkeit sei also für die Tribus aufgehoben nicht aber für die discriptio classium et centuriarum. Diese sei von App. Claudius' Edikt nur insofern berührt, als die^ ansässigen Freigelassenen auch in die Klassen und Cen- turien gelangt seien (Lange, Altert.). Soltau, nach dessen Ansicht das Prinzip der Grundsässigkeit zur Zeit der Decemvirn durchbrochen ist (Entstehung u. Zusammensetzung der altröm. Volksversammlungen S. 477 ff.) lässt den App. Claudius nur die Libertinen in die Tribus aufnehmen (a. a, O. 404 ff. 606). Diesen Ansichten gegenüber muss zunächst die Frage aufgeworfen werden, ob der einzige Plutarch, der für gewöhn- lich seine Nachrichten über römische Geschichte aus späten» Quellen schöpft, das Gewicht hätte, dem Diodor und Livius vorgezogen zu werden. Letztere können nämlich sicher nicht die Tribusändrung des App. Claudius allein auf die Frei- gelassenen bezogen haben. Denn es wäre doch wahrlich wunderbar, wenn sie diese allein als vom appianischen Edikt betroffen angenommen hätten und sich dabei so unbestimmt ausgedrückt hätten (Diodor: ol Tiollxm. Liv. humiles), während sie doch bei der senatus lectio des Censors die von Appius in den Senat Aufgenommenen ganz bestimmt als Libertinen - söhne bezeichnen. Aber sagt denn Plutarch wirklich, das& sich die Tribusändrung des Censors allein auf die Freigelassenen, bezogen habe? Vindicius, so berichtet er, erhielt zur Be- lohnung von Valerius Poplicola das Bürgerrecht und die Erlaubnis, sich eine Tribus, welcher er angehören wolle, zu wählen ; daran knüpft er die Bemerkung : col^ (U ttlloi^ dne- ^evd^'ciioig e^ovoiar ffi/^ipou ör^(.it(yioytov vöioi^e ^'ATiTTiot^, Das kaim doch nicht heissen, dass App. Claudius den Freigelassenen^ das Bürgerrecht gegeben habe, da dies doch noch mehr als das Stimmrecht umfasst, sondern es bezieht sich auf das, was- Plutarch vom Stimmrecht des Vindicius gesagt hat; Plutarch meint also ohne Zweifel, dass App. Claudius den Libertinen dasselbe Stimmrecht gegeben habe, wie Valerius dem Vin- dicius, d. h. das Recht, die Stimme in der Tribus, in welchei?. sie wollen, abzugeben. Und so gefasst enthalten die Worte Plutarchs offenbar Wahrheit. Denn dass die Freigelassenen zum grössten Teile von städtischem Gewerbe lebten und unter den humiles urbam eine grosse, wenn nicht die grösste, Anzahl ausmachten, ist an sich schon wahrscheinlicli und folgt auch daraus, dass eme der wichtigsten Wirkungen der appianischen Tribusänderung die Wahl eines Libertinensoimes zur curulischen Aeddität gewesen ist (s. unten), dass also die vom appianischen Edikt Betroffenen vom libertinischen Element dominiert wurden. Aber allein können die Freigelassenen nicht diejenigen gewesen sein, auf welche sich das Edikt bezog. Das sagt kein Schriftsteller, selbst Plutarch nicht, und es wird be- sonders dadurch bewiesen, dass erst im 6. Jahrhundert der Stadt ein rechtlicher Unterschied zwischen libertini und ingenui festgesetzt wurde, indem um das Jahr 220 v. Chr. die liberum auf die 4 tribus urbanae beschränkt wurden (Liv. Ep. 20. cf. Mommsen, Str. III, 436 ff Madvig, Verf. und Verw. I, 203 f.). Auch Mommsen lässt die Freigelassenen nur einen Teil derer sein, auf welche sich die Massregel des App. Claudius bezog, und zwar hätten sie unter den Bürgern, denen sie vor allem zum Vorteil gereichte, an Zahl besonders hervorgeragt. Die Libertinen, meint er (R. Trib., Str.), hätten unter den nicht grundsässigen ohne Zweifel die erste Stelle eingenommen, weil es ihnen bei „der noch ungebrochenen Erbgutsqualität ^ unmöglich, wenngleich nicht verboten, ge- wesen sei, Grundbesitz zu erwerben. Deshalb hätte die That des Appius, die Aufhebung des Prinzipes der Grundsässigkeit für die Personaltribus , allenfalls als Verleihung des Stimm- rechtes an die Freigelassenen bezeichnet werden können, wie es Plutarch thue. Es hängt diese Ansicht, wie man sieht, eng mit der allgemeinen Auffassung Mommsens von der Tribus- ändrung des App. Claudius zusammen. Recapitulieren wir kurz unsere Resultate: Die Tribus- ändrung war eine lokale Distriktseinteilung, sie war von Haus aus dazu bestimmt, eine politische Volkseinteilujig zu sein, d. h. sie hatte den Zweck, dass die Bürger nach ihr geordnet ihre Ptlichten und Rechte gegenüber dem Staate erfüllten. Sie umfasste daher die gesamte Bürgerschaft (mit P]inschluss der Freigelassenen): die Tribus in personaler Beziehung be- zeichnete also das Bürgerrecht schlechtliin. Der Bürger war in Bezug auf die Ausübung der Rechte, welche ihm die Tribus gewährte, an die Tribus seines Wohnortes gebunden. Diesen Domizilszwang für die Tribusordnung hob App. Claudius auf. Es hatte dies die natürliche Wirkung, dass sich die in der Stadt zusammengedrängte Masse der niedrigen Volksschichten über alle Tribus verbreiteten, um einen ihrer Kopfzahl ent- sprechenden Einfluss in den einzelnen Tribus zu gewinnen; sie erhielten so' in den Tributcomitien die Oberhand und auch in den Centuriatcomitien gewannen sie grössere Geltung. Es haben sich Spuren in der Überlieferung erhalten, dass die humiles von ihrem neuen Rechte, in jede beliebige Tribus eintreten zu dürfen, ausgiebig und leidenschaftlich Gebrauch gemacht haben, vielleicht dass sie sich planmässig über die einzelnen Tribusbezirke verteilt haben, um in möglichst vielen oder allen Tribus vermöge ihrer Kopfzald — und diese muss gross gewesen sein die Majorität zu erlangen. Livius sagt: ex eo tempore (vgl. Weissenborn z. d. St.: seit der Censur des Appius Claudius) in duas partes discessit civitas: aliud integer populus fautor et cultor bonorum, aliud forensis factio tenebat, doncc etc. ; es sind hier unter der forensis factio die Leiter der Bewegung zu verstehen, welche bezweckte, auf Grund der appianischen Tribusänderung die humiles möglichst planmässig über die Tribus zu verteilen, um ihnen in den meisten Tribus die Majorität zu verschaffen, während der integer populus diejenigen bezeichnet, welchen nichts daran lag oder liegen wollte, dass die humiles so in ihren Rechten gefördert wurden, und welche sich daher an der Bewegung nicht beteiligten. Die humiles, zu deren Nutzen A.pp. Claudius sein Edikt der Tribusändrung erlassen hat, scheinen also ihr neues Recht energisch benutzt zu haben. Einen grossen Erfolg erreichten sie sechs Jahre nach dem Erlass des Ediktes: sie setzten nämlich in den Tributcomitien ciie Wahl eines Libertinensohnes, des Cn. Flavius, zum curu- lischen Aedilen durch. Dass diese Wahl mit der Censur des App. Claudius zusammenhängt, ist sicher bezeugt (s. unten). Diodor sagt a. a. O.: o di- drjuo^ TOthoig f-dv dvTi7TQdTT0)v (d. i. rolg iTiKpaveOTcnoig) t(;7 di- ^Atttiui) o i luf i /.OTijiiObuerog y.a) t/]v tlov dtoyerolr TFQOayioyj]}' ßsßcatoaai ßoch^ievog^ dyn^aroiwr eilezo ^rjg tTiKfarearFnag ccyooavoiiiag vlor uTte/.rvd^H^no FvaTov 0l(xßiov etc. ; und Livius : ceterum Flavium dixerat aedilem forensis factio App. Claudii censura vires nacta. Die Nobilität hatte zwar sogleich im folgenden Jahr nach der Abdankung des App. Claudius (d. i. im J. 307) neue Censoren, M. Valerius und C. Junius , gewähl t, offenbar so schnell, um die Tribusändrung des App. Claudius rückgängig zu machen. Aber diese erreichten nichts, wir wissen nicht, warum. Kach sehr kurzem Lustrum, drei Jahren, wählten sie nun zwei Männer zu Censoren, welche schon als Consuln d. J. 308 energisch gegen eine Neuerung des App. Claudius vor- gegangen waren, den Q. Fabius und P. Decius. Diesen gelang es auch, die Tribusändrung des App. Clau- dius umzustossen. Über die Censur des Q. Fabius und P. Decius ist allein der Bericht des Livius (IX, 46) von Wert. Wir haben er- örtert, dass der Abschnitt, in welchem Livius hiervon berichtet (IX, 46 von ceterum bis Schluss) , aus einer andern und besseren Quelle geschöpft ist. Valerius Maximus (II, 2, 9) kann, weil er den Livius benutzt hat und nichts neues bei- bringt, bei Seite gelassen werden ; ganz wertlos ist wegen ihrer Nachlässigkeit die Angabe des Auetor de viris illustribus 32: censor libertinos tribubus amovit. Es heisst bei Livius a. a. O. : Fabius simul concordiae causa simul, ne humillimorum in manu comitia essent, omnem forensem turbam excretam in quatuor tribus coniecit urbanas- que eas appellavit; adeoque eam rem acceptam gratis animis ferunt, ut Maximi cognomen, quod tot victoriis non pepererat, hac ordinum temperatione pareret. Dieser Bericht wird von den Forschern je nach ihrem verschiedenen Standpunkt, den sie der Massregel des App^ Claudius gegenüber einnehmen, ausgelegt. Mommsen nimmt an, dass Fabius für die seitdem sogenannten ländliclien Tribu» den Zustand wieder eingeführt habe, der vor Appius war, d. h. dass für sie ländlicher Grundbesitz wieder das Requisit wurde. Die vier städtischen dagegen , in deren lokalem Be- reich die forensis turba domiziliert war, habe er den nicht ansässigen Bürgern überlassen und habe sie, die nicht minder ländliche gewesen waren , deshalb die städtisclien genannt. (R. Trib. 154.) Von Ansässigen seien vermutlich mir die nicht zahlreichen Hausbesitzer ohne Landbesitz in den städti- schen Tribus geblieben (Str. III, 186). Dass so in den Tribut-^ comitien das Übergewicht der ansässigen Bürger w^ieder her- gestellt wurde, sei klar; und dafür, dass die Nichtansässigen sich nicht aus den vier städtischen Tribus über alle Centurien verbreiteten, habe die Machtvollkommenheit der Censoren sorgen müssen. (R. Trib. 155. Str. III, 184 f. 269 f.). Es steht und fällt diese Ansicht mit der Auffassung vom Wesen der Tribus und der Änderung, die App. Claudius damit vornahm. Aber gerade an dieser Stelle erheben sich noch einige gewichtige Bedenken, welche das ganze Mommsensche System treffen. Mommsen meint, dass in den städtischen Tribus nur Nichtansässige und höchstens w^enige städtische Hausbesitzer, also zumeist die ärmeren und ärmsten Bürger, ständen. Es müssen aber in ihnen Bürger aller Censusklassen gestanden haben. Das geht deutlich aus dem Ausliebungsbericht des Polybius hervor. Von der Aushebung sind nach Polybius überhaupt au.sgeschlossen die Libertinen und alle, deren Census 4000 Ass nicht erreichte. Nach dem Berichte des Polybius werden nun die einzelnen Tribus nach dem Loose vorgerufen imd dann für 4 Legionen je 4 und 4 ausgewählt. Da die Dienstpflicht und die Ausrüstung sich nach dem Census abstufte, so muss innerhalb der einzelnen Tribus die Aushebung nach den Censusklassen stattgefunden haben. Also müssen doch alle Censusklassen in allen Tribus vertreten sein, also auch in den städtischen (vgl. Niese, Göttinger gelehrte Anzeigen). Auch in den städtischen Tribus müssen demnach die höchsten Censusklassen vertreten gewesen sein. Für die spätere Zeit ist dies wirklich nachgewiesen. Senatoren erscheinen mehrfach in städtischen Tribus: Ein Aemilier (C. J. L.), ein Manlier (C. J. L.), ein Nummier (C. J. L.) in der Palatina, ein Sestius (Bull, de corr. Hellen.), ein Coponius (Josephus, Archäol.), ein Matius^ (C. J. L.), welches sämtlich Senatoren sind (vgL Mommsen Str. III, 788 f. Niese, Gott. Gel. Anz. a. a. O.). Mommsen übersieht dies freilich nicht, er weiss es auch zu erklären: In der späteren Zeit, so sagt er, sei die Bedeutung^ der Tribus ganz anders geworden, und zwar seit dem Sozial- krieg ; sie habe seitdem eine persönliche und vom Grundbesitz unabhängige, nur die origo d. h. die Heimatsberechtigung in einer Vollbürgergemeinde ausdrückende Rechtsqualität be- zeichnet. Auch auf Rom selbst sei diese neue Bedeutung^ übertragen; und als dies geschehen sei, da hätte sich ein jeder seine Tribus wählen können oder seine frühere behalten können. So seien die genannten Patrizier in die städtischen gelangt: und die altadligen Manlier und AemiHer hätten füg- lich ihrem Adelstolz durch die Wahl der Tribus des könig- lichen Rom Ausdruck geben wollen (Str. III, 789). Die Un- wahrscheinlichkeit steht dieser Erklärung an der Stirn geschrieben. Wozu nimmt man eine solche Wandlung in der Bedeutung der Tribus an, die so künstlich erklärt werden muss, und die zu dem ganz und gar unbezeugt ist. Nach unserer Ansicht erklärt sich der Umstand, dass später auch die ersten Censusklassen in den städtischen Tribus vertreten sind, einfach so, dass sie auch in früherer Zeit und von Anfang: an darin haben stehen dürfen und gestanden haben. Diejenigen Forscher, welche die Tribusändrung des App^ Claudius allein auf die Libertinen beziehen, müssen dasselbe^ auch von der Massregel des Fabius behaupten; sie meinem also, dass die Libertinen von Fabius auf die 4 städtischen Tribus beschränkt seien. Auf die einzehien Variationen dieser Ansicht (Madvig, Verf. u. Verw. Lange, Altert. Siebert, App. Claud.) und ihre Widerlegung brauche ich nicht einzugehen, nachdem wir nachgewiesen, dass des Appius Massregel nicht allein die Libertinen betroffen haben kann. Wie nun hat Q. Fabius die Tribuaiindrung des App. Claudius rückgängig gemacl\t? Die wichtigste und den Optimaten so unangenehme Wirkung des appianischen Edikts war die gewesen, dass die urbani Jiumiles sich über alle Tribus verteilten und besonders die Abstimmungen der Tributcomitien völlig in ihre Gewalt be- kamen. Diese Wirkung musste nun ausgeglichen werden. Und Fabius bewirkte dies dadurch, dass er den humiles nicht mehr alle Tribus, sondern nur eine kleine Anzahl frei Hess. Omnem forensem turbam excretam in quatuor tribus coniecit urbanasque eas appellavit, sagt Livius. Fabius schied also die forensis turba, die humiles aus, d. h. er schied sie aus <ler Zahl der übrigen Tribulen und den Gesetzen, welche für diese galten, aus, nahm ihnen das Recht, sich in jeder beliebigen Tribus zu schätzen, und beschränkte sie auf vier Tribus, und zwar, wie sich das natürlich ergab, auf die ihres Wohnsitzes, die städtischen. Der Domizilszwang für die Ausübung der Rechte, welche mit der Tribus verbunden waren, blieb nach wie vor aufgehoben. Nur auf die humiles bezog sich das Edikt des Fabius, während für alle andern Bürger die An- ordnung des App. Claudius auch weiterhin zu Rechte bestand, sodass sich dieselben also in jeder beliebigen ländlichen oder städtischen Tribus schätzen lassen konnten , welches letztere aber kaum vorgekommen ist, da es wertlos war. Die Massregel bezweckte nur das Übergewicht der humiles urbani ^u brechen, welches diese nach dem Edikt des App. Claudius vermöge ihrer Kopfzahl in den Tributcomitien erlangt hatten, und dies wurde dadurch erreicht, dass den humiles die vier «tädtischen Bezirke angewiesen wurden, in welchen sie allein ihre politischen Rechte ausüben durften. Innerhalb derselben wird dem Einzelnen die Wahl der Tribus überlassen sein^ sodass also auch für sie nicht wieder der alte Domizilszwang für die Ausübung der politischen Rechte eingesetzt wurde. Das Edikt des Fabius bezog sich demnach ledighch auf die humiles urbani, deren Vorteil App. Claudius mit seiner Tribusänderung bezweckt hatte. Aber Fabius kann unmög- lich als die, welche sein Edikt betraf, nur ganz unbestimmt die humiles genannt haben, er muss eine bestimmte Grenze gezogen haben für die, welche in der Folge nur in den städtischen Tribus ihre politischen Rechte ausüben durften. Es ist darüber nichts überliefert. Kahe liegt die Vermutung^ dass die Beschränkung sich auf diejenigen bezog, welche den Minimalcensus nicht erreichten. Doch ist das eine blosse Vermutung. Wenn Livius sagt: urbanas eas appellavit, so heisst das nicht, dass diese Tribus vorher noch nicht bestanden hätten^ oder dass die Bezeichnung tribus urbanae von Fabius er- funden wäre. Da aber jetzt durch ein Gesetz der in der Stadt wohnenden niederen Volksmasse die vier städtischen Tribus speziell angewiesen wurden, so verband sich mit dem Begriff der tribus urbanae seitdem der Begriff der geringer geachteten Tribus gegenüber den rusticae; und so scheint Livius den obigen Ausdruck zu fassen: Fabius habe die Tribus urbanae zuerst so in dem geringschätzigen Sinn ge- nannt. Damit ist nicht ausgeschlossen, dass nicht Patrizier oder sonstige reiche Grundbesitzer in den städtischen Tribut nach Fabius stehen konnten. Gestattet war es nach unserer Auffassung der Massregel des Fabius, und es ist nach den angeführten Beispielen sicher. Vielleicht sind es solche, welche in der Stadt wohnten und es vorzogen, ihre politischen Rechte am Wohnort zu üben oder aus einem andern Grund. Wie durch die Massregel des Fabius das Uebergewicht der humiles in den Tributcomitien gebrochen wurde, ist klar. Aber auch in weniger Centurien müssen sie verteilt sein, da. "sie in weniger Tribus standen. Doch dies ist eben ein völlig unbekannter Punkt (s. oben). Die Bedeutung und der Zweck der Massregel des Fabius lag darin, dass sie das Uebergewiclit der humiles in den meisten Tribus brach. Und dies war eine grosse That, seitdem dieselben schon sechs Jahre lang ihr neues Recht, sich in allen Tribus schätzen zu lassen, gebraucht hatten. Fabius erhielt davon den Namen des Grossen (Liv. a. a. O.). Cap. 5. Sonstiges über den Censor App. Claudius Caecus und Schlussurteil. Der Neuerungssinn unseres Censors hat sich auch auf andern Gebieten bethätigt. Ich erwähne kurz, dass er sich auch mit litterarischen Dingen, Eloquenz, Poesie, Grammatik, Orthographie, befasst haben soll (Cic. Tusc., Priscian, Dig. 1, 2, 36. Hart. Cap. 1, 3, 261. vgl. Mommsen, Rom. Forsch.). Alsdann habe ich zwei Anordnungen des App. Claudius über sakrale Dinge zu nennen. Die erste ist die Austreibung der Pfeifergilde aus dem Tempel des Jupiter. Livius (X, 30) erzählt diese heitere Geschichte genauer (vgl. Censorin. d. d. n. 12. OVIDIO (si veda), fasti, Val. Max. II, 5, 4); man kann aber nicht wissen, in wie weit sie historisch ist (vgl. Mommsen, R. Forsch. Lange, Alterth. II, 78). Eine zweite Änderung des App. Claudius im Götterkult ist die Uebertragung des Herkuleskult von der gens der Potitier auf Gemeindesklaven (LIVIO (si veda) cf. Festus, VARRONE (si veda), L. L., Val. Max., Macrob. Saturn.). Historisch scheint daran die Uebernahme des Her- kuleskult von Seiten des Staates zu sein, der ihn dann durch Staatssklaven ausüben Hess (Preller, Mjthol. 651. Marquardt, Staatsalterth. Niebuhr, III, 362. Schwegler, R. G.). Mit der Potitierlegende steht in unserer Ueberlieferung unseres Censors Beiname Caecus im Zusammenhang. Die Götter seien durch jene Massregel erzürnt , erzählt Livius <^IX, 29), und hätten ihn einige Jahre nach seiner Censur mit Blindheit geschlagen. Daher habe er seinen Beinamen er- halten. Aber diese Annahme wird schon dadurch widerlegt, •dass App. Claudius in den Fasten noch zwei Mal, i. J., als Consul erscheint (Diod.). Es ist diese Erzählung ohne Zweifel nur ein Versuch , das Cognomen zu erklären, der aber durch die angegebene Thatsache als falsch "bewiesen wird; denn was CICERO (si veda) (Tusc. disp.) sagt, APPIO (si veda) CLAUDIO habe sich, obwohl er blind gewesen sei, keinem Amte entzogen, ist doch nicht zu glauben. Ein eben- so zu beurteilender Erklärungsversuch des Beinamens ist die Nachricht Diodors, dass App. Claudius ^iji; di)yf^g diioi.v^tig xal lor icTTO r/;s' avyy.hWov ifih'.vov ev'Ucßr.^rt)^ tc oo^- tTTOirOrj TV(fi/Mg elvai y.u) xar^ oiy.iar iiietrer. In Diodors eignen Fasten erscheint App. Claudius i. J. 307 bereits wieder als Consul (Nitzsch, Rom. Annal. Mommsen, Forsch.). Die natürlichste Erklärung des Beinamens ist die , dass man annimmt, App. Claudius sei im Alter erblindet; einige Autoren melden dies (Liv. ep., CICERONE (si veda) de senect., Plut. Pyrrh. 18. Appian, Samn. X, 2. Dionys.); und viele neuere Forscher folgen ihnen (vgl. dagegen Mommsen, R. Forsch.). Sicher nachweisen lässt es sich nicht, denn in den ältesten Annal en ist es nicht überliefert. Das geht daraus hervor, dass der alte Gewährsmann Diodors eine so falsche und merkwürdige Erklärung des Beinamens geben konnte. Die Aemter, welche App. Claudius ausser der Censur bekleidet hat, führt sein Elogium (C. J. L. I, S. 287 N. XXVIII) auf, welches auch einige Thaten berichtet. Es lautet: Appius Claudius C. F. Caecus Censor. cos. bis dict. interrex III. Pr. II. aed. cur. IL Q. Tr. mil. III complura oppida de Samnitibus cepit, Sabinorum et Tuscorum exercitum fudit, pacem iieri cum Pyrrho prohibuit, in censura viam Appiam stravit et aquam in urbem adduxit, aedem Bellonae facit. Ich komme nun zu einer wichtigeren Frage, zur Erörte- rung des Zusammenhangs der Censur des APPIO mit der Ädihtät des Cn. Flavius im J. 304 (über die Schwierig, keiten des chronologischen Ansatzes der Adilität vgl. Liv. IX. 46. PLINIO (si veda), n. h. Mommsen, Chron. Matzat, Chron. I, "266. Seeck, Kalendertafeln f. Soltau, Prolegomena zu einer röm. Chron. 4 ff.). Cn. Flavius war der Sohn eines Freigelassenen (Diod: TiuT{id^ (oy ()8dov'/.evy,(hü^). Als solcher ist er zuerst zu einem curulischen Amte gelangt. Bald scheint dies öfter vorge- kommen zu sein ; in einem Briefe Philipps V. von Makedonien an die Larisäer (Hermes) heisst es, dass die Römer im Unterschiede von den Griechen die freigelassenen Sklaven zum Bürgerrecht und zu den Amtern zulassen. Cn. Flavius verdankte seine Wahl der Tribusänderung des App. Clau- dius. Die curulischen Adilen wurden in den Tributcomitien gcAvählt, was bei dieser Gelegenheit zuerst erwähnt wird (Pisa b. Gellius VII, 9. Livius IX, 40, 1 — 2, der aus Piso wört- lich geschöpft hat). Wir haben erörtert, dass durch die appia- nische Tribusänderung die niederen Bevölkerungsklassen das Übergewicht in den Tributcomitien erhalten haben, sodass sie einen solchen Erfolg, wie die Wahl eines Libertinensohnes^ zum curulischen Ädilen, erzielen konnten. Diodor und Livius erwähnen klar genug den Zusammenhang der Tribusänderung des App. Claudius mit der Wahl des Cn. Flavius zum Ädilen (Diod.: o ()i- ()/;/i()s" f^;^ \i7i7iUi) oi\u(fi'/.OTtfiouf.i€vOi; xui Ttjv diayev(^)i' 7r{iüir/vr/i]r ßeßati'lGai ßou/.uuerOi^ cr/OQm'ojnor eilfjo etc. Liv: ceterum Flavium dixerat aedilem forensis factio Appii Claudii censura vires nacta). App. Claudius und Cn. Flavius haben überhaupt wahrscheinlich in nähern Be- ziehungen zu einander gestanden. Eine Nachricht lässt den Flavius vor seiner Aedilität Schreiber des App. Claudius sein (Plin. a. -a. O.j. Cn. Flavius führte sein Amt ganz im Sinne seines Meisters, des App. Claudius. Das beweisen seine Thaten, auf die ich aber nicht einzugehen habe. Die Forscher shid sich noch nicht einig darüber (vgl. LIVIO (si veda), CICERONE (si veda) pro Murena, PLINIO. n. h., Mommsen, Röm. Forsch. Seeck, Kalendertafeln). Ohne Zweifel ist, dass die Thaten des Cn. Flavius den- selben demokratischen Neuerungssinn zeigen als diejenigen des App. Claudius. Über App. Claudius hat schon der gute Gewährsmann Diodors dieses Urteil, tioIICc toIv TtaT^ycliov voiiliicor ly.ivr^ae. sagt Diodor von unserm Censor. Dem gegenüber haben einige Notizen jüngerer Autoren, woraus folgen würde, dass App. Claudius speziell hocharistokratische Tendenzen in seiner Po- litik verfolgt habe, kein Gewicht. Die Nachrichten des LIVIO (si veda), App. Claudius habe i. J. 299 die lex Ogulnia, wonach vier Pontifices und fünf Augurn aus der Plebs hinzugewählt werden sollten, mit allen Mitteln zu vereiteln gesucht, er habe als Kandidat für das Konsulat (nach CICERONE (si veda). Brut. als interrex, was er i. J. 399 (LIVIO (si veda)) war,) die zweite Konsulstelle den Patriziern zurückzugewinnen versucht, diese Nachrichten sind, was Mommsen (R. Forsch.) dar- gethan hat, erfunden: wer wird es glauben, dass ein Mann wie App. Claudius, nachdem er als Censor die niederen Volks- schichten mit seinen Massnahmen begünstigt hat, nun einige Jahre später extrem aristokratische Tendenzen verfolgen konnte? Offenbar sind diese Nachrichten erfunden nach dem Schema, nach welchem alle Claudier als Volksfeinde in der jüngeren Annalistik dargestellt sind. Unserer Ansicht nach war unser Censor ein demo- kratischer Neuerer, ein Urteil, welches schon, wie gesagt, der Gewährsmann Diodors gehabt hat. Er begünstigte und förderte die niedrigen und niedrigsten Volksschichten, be- sonders die städtische Bevölkerung^klasse , den Handelsstand und das in ihm am meisten vertretene libertinische Element. Dazu passt vortreff'lich , dass wir ihn als Beförderer des griechischen Einflusses kennen lernen; und schliesslich lässt sich in diesem Zusammenhange recht klar sein letztes politisclies Auftreten, seine bekannte Senatsrede gegen den Gresandten des Pyrrlms, verstehen. Nur in dieser Auffassung lässt sich ein harmonisclies Bild von dem politischen Charakter unseres Censors, von seinen politischen Absichten und Zielen herstellen. Lebenslauf. I Icli, Theodor Ludwig Carl Sieke, Solin des Volksschulllehrers Friedrich Sieke zu Marburg, bin geboren zu Mengringhausen im Fürstentum Waldeck; Ich bekenne mich zur evangelischen Confession. Die erste Ausbildung erhielt ich von meinem Vater, trat Ostern in die Quarta des Marburger Gymnasiums, welches icli Ostern mit dem Zeugniss der Reife verliess. Ich bezog als- dann die Universität Marburg, um mich dem Studium der '^eschichte, germanischen und klassischen Piiilologie zu idmen. Ich hörte Vorlesungen bei den Herren Professoren Bergmann, Birt, Caesar, Cohen, Fischer, Justi, Koch, -enz, Lucae, Niese, Varrentrapp, Schmidt, beteiligte mich nehrere Semester an den Uebungen der historischen Semi- liare, des althistorischen unter Leitung des Herrn Professor Niese, des neuhistorischen unter Leitung der Herren Professoren nz und Varrentrapp, war Mitglied des germanistischen Semi-lars des Herrn Professor Lucae und wohnte den pliilo- Bophischen Uebungen des Herrn Professor Bergmann bei. fm Sommer-Semester besuchte ich die Universität Berlin md hörte dort Vorlesungen bei den Herren Professoren Delbrück, Kiepert, Koser, Roediger, Scherer, v. Treitschke md Zeller. Allen diesen Herren spreche ich an dieser Stelle meinen iefsten Dank aus, besonders den Herren Professoren Niese and Varrentrapp. I>ruck von Gebrüder Gotthelft in Casael. Gustavo Bontadini. Keywords: la neoclassica, neoclassico come concetto contradittorio o ironico -- storia della filosofia, storia della filosofia italiana, de-ellenizzazione”, appio primo filosofo romano in lingua Latina -- “conversazioni metafisiche”, “conversazione metafisica”, “gnoseologia”, “gnoseologismo”, “problematicismo”, “metafisica dell’esperienza”, ens, essential, l’essere, essere, verbo, nome, sostantivo, copula, parmenideismo, severino, la porta di Velia, Grice Vx, x izz x. Grice, RAA, Reductio ad absurdum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bontadini” – The Swimming-Pool Library. Bontadini.
Grice
e Bontempelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del
sintomo – scuola di Pisa –filosofia pisana – filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Pisa). Filosofo pisano. Filosofo toscano.
Filosofo italiano. Pisa, Toscana. Grice: “Bontempelli knows that the
Romans never liked the Greek ‘symptom,’ but ‘coincidence’ seems weak: x means y
if y coincides with x, or if x is a symptom of y.’ (‘those spots mean measles’
– and ‘dog’ means that there is a dog.”” -- “I suppose my favourite Bontempelli
is his section on Roman philosophy in his history of philosophy series!” -- There
is the other Massimo Bontempelli, nato a Como. Como-born Massimo
Bontempelli had a son, called Massimo Bontempelli. Massimo Bontempello ha un
cugino, nipotte di Massimo Bontempelli: Alessandro Bontempelli. Nato a Pisa,
dopo il conseguimento della laurea in filosofia, Bontempelli
dedica all'insegnamento negli istituti superiori, alla realizzazione di
manuali scolastici di storia e filosofia e alla stesura di saggi di argomento
filosofico. Storico di impostazione marxiana, e originale pensatore filosofico
di orientamento neoidealista, realizza i suoi più importanti contributi
imperniando lo studio dei processi storici attorno alla categoria di "modo
di produzione". Tematizza con attenzione le strutture sociali entro i modi
di produzione neo-litico, nomade-pastorale, prativo-campestre,
antico-orientale, asiatico, africano, meso-americano, schiavistico, colonico,
feudale e capitalistico, elaborando su queste basi una ri-costruzione della
genesi sociale dei fenomeni filosofici. Rilevante è la sua interpretazione
della figura storica di Gesù, ricostruita entro una totalità sociale a partire
dalla analisi dell'economia pianificata del modo di produzione antico-orientale
palestinese, sulla scorta di una prospettiva metodologica storico-scientifica
nei confronti dei vangeli. Come storico della filosofia ha studiato in
particolare il pensiero platonico, neo-platonico e la dialettica hegeliana.
Come pensatore filosofico originale viene collocato da Costanzo Preve
all'interno della corrente del neo-idealismo italiano, essendo il suo pensiero
fortemente influenzato dalla Scienza della Logica hegeliana. Muove dalle
profonde critiche al nichilismo contemporaneo e al relativismo anti-metafisico
per approdare ad un tentativo di rifondazione onto-assiologica degli orizzonti
di senso dell'esistenza umana sulla scorta di una indagine della natura
trascendentale dell'uomo, alla luce di un superamento della polarità dualistica
empiria/trascendenza. Si dedica alla critica serrata della sinistra politica e
allo sviluppo del tema della decrescita. Altre saggi: “Il senso della
storia antica. Itinerari e ipotesi di studio” (Milano, Trevisini); “Antiche
strutture sociali mediterranee” (Milano, Trevisini), “Storia e coscienza storica”
(Milano, Trevisini); Per il triennio; “Civiltà e strutture sociali
dall'antichità al medioevo” (Milano, Trevisini); “Antiche civiltà e loro
documenti” (Milano, Trevisini); “Civiltà storiche e loro documenti” (Milano,
Trevisini, Per il triennio); “Filosofia: Il senso dell'essere nelle
culture occidental” (Milano, Trevisini); Filosofia, Napoli, Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici PRESS,. [riedito nel
in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum] “Eraclito
e noi”” (Milazzo, Spes); “Percorsi di verità della dialettica antica” (Milazzo,
Spes); “Nichilismo, verità, storia” (Pistoia, CRT); “Gesù. Uomo nella storia,
Dio nel pensiero” (Pistoia, CRT); “La conoscenza del bene e del male, Pistoia,
CRT); “La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT); “Tempo
e memoria, Pistoia, CRT); “Il concetto di realtà e il nichilismo contemporaneo,
Pistoia, CRT); “L'agonia della scuola italiana” (Pistoia, CRT); “Un sentiero attraverso
la foresta hegeliana, Pistoia, CRT); “Eraclito e noi. La modernità attraverso
il prisma interpretativo eracliteo, CRT, Diciamoci la verità, "Koiné"
n.6, Pistoia, CRT, Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, Un
nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia, L'arbitrarismo della
circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, -- very Griceian: Grice: “D. K. Lewis
drew his example of the arbitrariness of a convention from Massimo
Bomtempelli.” Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull'ambiente di Bin
Laden e su quello di Bush” (Pistoia, CRT, -- cf. Grice: “I took the example,
‘those spots mean measle’ from Bontempelli, “Il sintomo e la malattia” – “Il SINTOMO”
-- [ristampato nel dalla casa editrice
Petite Plaisance] Diciamoci la verità, CRT, Pistoia); “Il respiro del
Novecento. Percorso di storia” (Pistoia, CRT, Il mistero della sinistra’ (Genova,
Graphos, La Resistenza Italiana. Dall'8
settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione, Cagliari, CUEC, La
sinistra rivelata” (Bolsena, Massari, Il Sessantotto. Un anno ancora da
scoprire, Cagliari, CUEC [ristampato nel
] Civiltà occidentale” Genova, Il Canneto,. Marx e la decrescita, Trieste,
Abiblio,. Platone e i preplatonici. Morale in Grecia, introduzione di Antonio
Gargano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS); “Un pensiero
presente: scritti su Indipendenza, Roma,
Indipendenza Editore Francesco Labonia,. Capitalismo globalizzato e scuola, Roma,
Indipendenza Editore Francesco Labonia, La sfida politica della decrescita, Roma,
Aracne,. Gesù di Nazareth, Pistoia, Petite Plaisance; “Il respiro del
Novecento, "Koiné" n.6, Pistoia, CRT); “Metamorfosi della scuola
italiana, "Koiné" n.4, Pistoia, CRT, Visioni di scuola. Buoni e
cattivi maestri, "Koiné" n.5, Pistoia, CRT, Scienza, cultura,
filosofia, "Koiné" n.8, Pistoia, CRT. I cattivi maestri, in I
Forchettoni Rossi, Roberto Massari, Bolsena, Massari. Addio al professor
Massimo Bontempelli, Il Tirreno.
Bontempelli individua, in diverse epoche, un feudalesimo ario, cinese,
indiano, iranico del regno dei Parti, del Vicino Oriente islamico, del Ghana e
infine il feudalesimo occidentale. Gesù
uomo nella storia, Dio nel pensiero (uaar)
Costanzo Preve, Ideologia italiana. Saggio sulla storia delle idee
marxiste in Italia, Milano, Vangelista, 1993 (p. 201 sgg.) Marxismo modo di produzione. Una vita
semplice, una mente scintillante,Le idee forti di Massimo Bontempelli. Il bene
come processo possibile concreto: natura umana e ontologia sociale. u a be US (2 Se Um %. Pr pn d Der sd g,’ fr Ben
= Ri » e Wu sIGM FREUD Hemmung, Symptom
und Angst re et. Van A 1.1 ee ne ia
he Hemmung, Symptom und Angst von Freud
Internationaler Psychoanalytischer Verlag Leipzig u RE ai Zürich, Psychoanalytischer
Verlag, Ges. m. b. H., Wien Druck: Elbemühl Papierfabriken und Graphische
Industrie A.G. Wien, Rüdengasse ıı I. Unser Sprachgebrauch läßt uns
in der Beschreibung pathologischer Phänomene SYMPTOME und Hemmungen
unterscheiden, aber er legt diesem Unterschied nicht viel Wert bei. Kämen
uns nicht Krankheitsfälle vor, von denen wir aussagen müssen, daß sie nur
Hemmungen und keine SYMPTOME zeigen, und wollten wir nicht wissen, was
dafür die Bedingung ist, so brächten wir kaum das Interesse auf, die
Begriffe Hemmung und SYMPTOM gegeneinander abzugrenzen. Die beiden
sind nicht auf dem nämlichen Boden erwachsen. Hemmung hat eine besondere
Beziehung zur Funktion und bedeutet nicht notwendig etwas Pathologisches,
man kann auch eine normale Einschränkung einer Funktion eine Hemmung
derselben nennen. SYMPTOM hingegen heißt soviel wie Anzeichen eines
krankhaften Vorganges. Es kann also auch eine Hemmung ein SYMPTOM sein.
Der Sprachgebrauch verfährt dann so, daß er von Hemmung spricht, wo eine
einfache Herabsetzung der Funktion vorliegt, von SYMPTOM [“Those spots are
a symptom of measles”], wo es sich um eine ungewöhnliche Abänderung derselben
oder um eine neue Leistung handelt. In vielen Fällen scheint es der
Willkür überlassen, ob man die positive oder die negative Seite des pathologischen
Vorgangs betonen, seinen Erfolg als SYMPTOM oder als Hemmung bezeichnen
will. Das alles ist wirklich nicht interessant und die
Fragestellung, von der wir ausgingen, erweist sich als wenig fruchtbar.Da
die Hemmung begrifflich so innig an die Funktion geknüpft ist, kann:man
auf die Idee kommen, die verschiedenen Ichfunktionen daraufhin zu untersuchen,
in welchen Formen sich deren Störung bei den einzelnen neurotischen
Affektionen äußert. Wir wählen für diese vergleichende Studie: die Sexualfunktion,
das Essen, die Lokomotion und die Berufsarbeit. Die Sexualfunktion unterliegt
sehr mannigfaltigen Störungen, von denen die meisten den Charakter
einfacher Hemmungen zeigen. Diese werden als psychische Impotenz
zusammengefaßt. Das Zustandekommen der normalen Sexualleistung setzt einen
sehr komplizierten Ablauf voraus, die Störung kann an jeder Stelle
desselben eingreifen. Die Hauptstationen der Hemmung sind beim Manne: die
Abwendung der Libido zur Einleitung des Vorgangs (psychische Unlust),
das Ausbleiben der physischen Vorbereitung (Erektionslosigkeit), die
Abkürzung des Aktes (Ejaculatio praecox, die ebensowohl als POSITIVES SYMPTOM beschrieben
werden kann, die Aufhaltung desselben vor dem natürlichen Ausgang, Ejakulationsmangel,
das Nichtzustandekommen des psychischen Effekts, der Lustempfindung des
Orgasmus. Andere Störungen erfolgen durch die Verknüpfung der Funktion
mit besonderen Bedingungen, perverser oder fetischistischer
Natur. Eine Beziehung der Hemmung zur Angst kann uns nicht lange
entgehen. Manche Hemmungen sind offenbar Verzichte auf Funktion, weil bei
deren Ausübung Angst entwickelt werden würde. Direkte Angst vor der
Sexualfunktion ist beim Weibe häufig; wir ordnen sie der Hysterie zu,
ebenso das ABWEHRSYMPTOM des Ekels, das sich ursprünglich als nachträgliche
Reaktion auf den passiv erlebten Sexualakt einstellt, später bei der
Vorstellung desselben auftritt. Auch eine großse Anzahl von
Zwangshandlungen erweisen sich als Vorsichten und Versicherungen
gegen sexuelles Erleben, sind also phobischer Natur. Man kommt da im
Verständnis nicht sehr weit; man merkt nur, daß sehr verschiedene
Verfahren verwendet werden, um die Funktion zu stören: die bloße
Abwendung der Libido, die am ehesten zu ergeben scheint, was wir eine
reine Hemmung heißen, die Verschlechterung in der Ausführung der
Funktion, die Erschwerung derselben durch besondere Bedingungen und ihre
Modifikation durch Ablenkung auf andere Ziele,ihre Vorbeugung durch
Sicherungsmaßregeln, ihre Unterbrechung durch Angstentwicklung, sowie
sich ihr Ansatz nicht mehr verhindern läßt, endlich eine
nachträgliche REAKTION, die dagegen protestiert und das Geschehene
rückgängig machen will, wenn die Funktion doch durchgeführt wurde.
Die häufigste Störung der Nahrungsfunktion ist die Efunlust durch
Abziehung der Libido. Auch Steigerungen der Eßlust sind nicht selten; ein
Eßzwang motiviert sich durch Angst vor dem Verhungern, ist wenig
untersucht. Als hysterische Abwehr des Essens kennen wir das
Symptom des Erbrechens. Die Nahrungsverweigerung infolge von Angst
gehört psychotischen Zuständen an (Vergiftungswahn). Die Lokomotion
wird bei manchen neurotischen Zuständen durch Gehunlust und Gehschwäche
gehemmt, die hysterische Behinderung bedient sich der motorischen
Lähmung des Bewegungsapparates oder schafit eine spezialisierte Aufhebung
dieser einen Funktion desselben (Abasie). Besonders charakteristisch
sind die Erschwerungen der Lokomotion durch Ein- schaltung bestimmter
Bedingungen, bei deren Nicht- erfüllung Angst auftritt (Phobie). Die
Arbeitshemmung, die so oft als isoliertes SYMPTOM Gegenstand der
Behandlung wird, zeigt uns verminderte Lust oder schlechtere Ausführung
oder Reaktionserscheinungen wie Müdigkeit (Schwindel, Er- brechen),
wenn die Fortsetzung der Arbeit erzwungen wird. Die Hysterie erzwingt die
Einstellung der Arbeit durch Erzeugung von Organ- und
Funktionslähmungen, deren Bestand mit der Ausführung der Arbeit unvereinbar
ist. Die Zwangsneurose stört die Arbeit durch
fortgesetzte Ablenkung und durch den Zeitverlust bei eingeschobenen
Verweilungen und Wiederholungen. Wir könnten diese Übersicht noch
auf andere Funktionen ausdehnen, aber wir dürfen nicht erwarten,
dabei mehr zu erreichen. Wir kämen nicht über die Oberfläche der
Erscheinungen hinaus. Entschließen wir uns darum zu einer Auffassung, die
dem Begriff der Hemmung nicht mehr viel Rätselhaftes beläßt. Die
Hemmung ist der Ausdruck einer Funktions- einschränkung des Ichs, die
selbst sehr ver- schiedene Ursachen haben kann. Manche der Mecha-
nismen dieses Verzichts auf Funktion und eine allgemeine Tendenz desselben sind
uns wohlbekannt. An den spezialisierten Hemmungen ist die
Tendenz leichter zu erkennen. Wenn das Klavierspielen, Schreiben
und selbst das Gehen neurotischen Hemmungen unter- liegen, so zeigt uns die
Analyse den Grund hiefür in einer überstarken Erotisierung der bei diesen
Funk- tionen in Anspruch genommenen Organe, der Finger und der
Füße. Wir haben ganz allgemein die Einsicht gewonnen, dafs die
Ichfunktion eines Organs geschädigt wird, wenn seine Erogeneität, seine
sexuelle Bedeutung, zunimmt. Es benimmt sich dann, wenn man den
einigermaßen skurrilen Vergleich wagen darf, wie eine Köchin, die nicht
mehr am Herd arbeiten will, weil der Herr des Hauses Liebesbeziehungen zu
ihr ange- knüpft hat. Wenn das Schreiben, das darin besteht, aus
einem Rohr Flüssigkeit auf ein Stück weißes Papier fließen zu lassen, die
symbolische Bedeutung des Koitus angenommen hat, oder wenn das
Gehen zum symbolischen Ersatz des Stampfens auf dem Leib der Mutter
Erde geworden ist, dann wird beides, Schreiben und Gehen, unterlassen,
weil es so ist, als ob man die verbotene sexuelle Handlung
ausführen würde. Das Ich verzichtet auf diese ihm zustehenden
Funktionen, um nicht eine neuerliche Verdrängung vornehmen zu müssen, um
einem Konflikt mit dem Es auszuweichen. Andere Hemmungen erfolgen
offenbar im Dienste der Selbstbestrafung, wie nicht selten die der
be- ruflichen Tätigkeiten. Das Ich darf diese Dinge nicht tun, weil
sie ihm Nutzen und Erfolg bringen würden, was das gestrenge Über-Ich versagt
hat. Dann verzichtet das Ich auch auf diese Leistungen, um nieht in
Konflikt mit dem Über-Ich zu geraten. Die allgemeineren
Hemmungen des Ichs folgen einem einfachen anderen Mechanismus. Wenn das
Ich durch eine psychische Aufgabe von besonderer Schwere in
Anspruch genommen ist, wie z. B. durch eine Irauer, eine großartige
Affektunterdrückung, durch die Nötigung, beständig aufsteigende sexuelle
Phantasıen niederzuhalten, dann verarmt es so sehr an der ihm verfügbaren
Energie, dafs es seinen Aufwand an vielen Stellen zugleich einschränken
muß, wie ein Spekulant, der seine Gelder in seinen Unternehmungen
immobilisiert hat. Ein lehrreiches Beispiel einer solchen intensiven
Allgemeinhemmung von kurzer Dauer konnte ich an einem Zwangskranken
beobachten, der in eine lähmende Müdigkeit won einbis mehrtägiger
Dauer bei Anlässen verfiel, die offenbar einen Wutausbruch hätten
herbeiführen sollen. Von hier aus mufß auch ein Weg zum Verständnis der
Allgemeinhemmung zu finden sein, durch die sich die
Depressionszustände und der schwerste derselben, die Melancholie,
kenn- zeichnen. Man kann also abschließend über die Hemmungen
sagen, sie seien Einschränkungen der Ichfunktionen, entweder aus Vorsicht
oder infolge von Energie- verarmung. Es ist nun leicht zu erkennen,
worin sich die Hemmung vom Symptom unterscheidet. Da Symptom kann
nicht mehr als ein Vorgang in oder am.Ich beschrieben werden. Die
Grundzüge der SYMPTOMBILDUNG sind längst studiert und in hoffentlich
unanfechtbarer Weise aus- gesprochen worden. Das SYMPTOM sei Anzeichen
und Ersatz einer unterbliebenen Triebbefriedigung, ein Erfolg des
Verdrängungsvorganges. Die Verdrängung geht vom Ich aus, das, eventuell
im Auftrage des Über- Ichs, eine im Es angeregte Triebbesetzung nicht
mitmachen will. Das Ich erreicht durch die Verdrängung, daß die
Vorstellung, welche der Träger der unliebsamen Regung war, vom Bewußtwerden
abgehalten wird. Die Analyse weist oftmals nach, daß sie als unbewußste
Formation erhalten geblieben ist. So weit wäre es klar, aber bald beginnen
die unerledigten Schwierigkeiten. Unsere bisherigen Beschreibungen
des Vorganges bei der Verdrängung haben den Erfolg der Abhaltung
vom Bewußtsein nachdrücklich betont, aber in anderen Punkten Zweifel
offen gelassen. Es entsteht die Frage, was ist das Schicksal der im Es
aktivierten Triebregung, die auf Befriedigung abzielt? Die Antwort war
eine indirekte, sie lautete, durch den Vorgang der Verdrängung werde die
zu erwartende Befriedigungs- lust in Unlust verwandelt, und dann stand
man vor dem Problem, wie Unlust das Ergebnis einer Triebbefriedigung sein
könne. Wir hoffen den Sachverhalt zu klären, wenn wir die bestimmte
Aussage machen, der im Es beabsichtigte Erregungsablauf komme
infolge der Verdrängung überhaupt nicht zustande, es gelingt dem
Ich, ihn zu inhibieren oder abzulenken. Dann entfällt das Rätsel der
Affektverwandlung bei der Verdrängung. Wir haben aber damit dem Ich
das Zugeständnis gemacht, daß es einen so weitgehenden Einfluß auf
die Vorgänge im Es äußern kann, und sollen verstehen lernen, auf welchem
Wege ihm diese überraschende Machtentfaltung möglich wird.
Ich glaube, dieser Einfluß fällt dem Ich zu infolge seiner innigen
Beziehungen zum Wahrnehmungssystem, die ja sein Wesen ausmachen und der
Grund seiner Differenzierung vom Es geworden sind. Die Funktion
dieses Systems, das wir W-Bw genannt haben, ist mit dem Phänomen des
Bewußstseins verbunden; es empfängt Erregungen nicht nur von außen,
sondern auch von innen her und mittels der Lust-Unlustempfindungen,
die es von daher erreichen, versucht es, alle Abläufe des seelischen
Geschehens im Sinne des Lustprinzips zu lenken. Wir stellen uns das Ich
so gerne als ohn- mächtig gegen das Es vor, aber wenn es sich
gegen einen Triebvorgang im Es sträubt, so braucht es blof3 ein
Unlustsignal zu geben, um seine Absicht durch die Hilfe der beinahe
allmächtigen Instanz des Lust- prinzips zu erreichen. Wenn wir diese
Situation für einen Augenblick isoliert betrachten, können wir sie
durch ein Beispiel aus einer anderen Sphäre illustrieren. In einem Staate
wehre sich eine gewisse Clique gegen eine Mafsregel, deren Beschluß den
Neigungen der Masse entsprechen würde. Diese Minderzahl bemächtigt
sich dann der Presse, bearbeitet durch sie die souve- räne „Öffentliche
Meinung“ und setzt es so durch, daf$ der geplante Beschluf3
unterbleibt. An die eine Beantwortung knüpfen weitere Frage-
stellungen an. Woher rührt die Energie, die zur Erzeugung des Unlustsignals
verwendet wird? Hier weist uns die Idee den Weg, daß die Abwehr eines
un- erwünschten Vorganges im Inneren nach dem Muster der Abwehr
gegen einen äußeren Reiz geschehen dürfte, daß das Ich den gleichen Weg
der Verteidi- gung gegen die innere wie gegen die äußere Gefahr
einschlägt. Bei äußerer Gefahr unternimmt das organische Wesen einen
Fluchtversuch, es zieht zunächst die Besetzung von der Wahrnehmung des
Gefährlichen ab; später erkennt es als das wirk- samere Mittel, solche
Muskelaktionen vorzunehmen, dafs die Wahrnehmung der Gefahr, auch wenn
man sie nicht verweigert, unmöglich wird, also sich dem
Wirkungsbereich der Gefahr zu entziehen. Einem solchen Fluchtversuch
gleichwertig ist auch die Verdrängung. Das Ich zieht die (vorbewußte)
Besetzung von der zu verdrängenden Triebrepräsentanz ab und
verwendet sie für die Unlust-(Angst-)Entbindung. Das Problem, wie bei der
Verdrängung die Angst entsteht, mag kein einfaches sein; immerhin hat man
das Recht, an der Idee festzuhalten, daß das Ich die eigentliche
Angststätte ist, und die frühere Auffassung zurück- zuweisen, die
Besetzungsenergie der verdrängten Regung werde automatisch in Angst
verwandelt. Wenn ich mich früher einmal so geäußert habe, so gab
ich eine phänomenologische Beschreibung, nicht eine meta- psychologische
Darstellung. Aus dem Gesagten leitet sich die neue Frage ab,
wie es ökonomisch möglich ist, daß ein bloßer Abziehungs- und Abfuhrvorgang wie
beim Rückzug der vorbewufßsten Ichbesetzung Unlust oder Angst
erzeugen könne, die nach unseren Voraussetzungen nur Folge
gesteigerter Besetzung sein kann. Ich antworte, diese Verursachung soll
nicht ökonomisch erklärt werden, die Angst wird bei der Verdrängung nicht
neu erzeugt, sondern als Affektzustand nach einem vorhandenen
Erinnerungsbild reproduziert. Mit der weiteren Frage nach der Herkunft
dieser Angst, wie der Affekte überhaupt, verlassen wir aber den
unbestritten psychologischen Boden und betreten das Grenzgebiet der
Physiologie. Die Affektzustände sind dem Seelen- leben als Niederschläge
uralter traumatischer Erlebnisse einverleibt und werden in ähnlichen
Situationen wie Erinnerungssymbole wachgerufen. Ich meine, ich
hatte nicht Unrecht, sie den spät und individuell erwor- benen
hysterischen Anfällen gleichzusetzen und als deren Normalvorbilder zu
betrachten. Beim Menschen und ihm verwandten Geschöpfen scheint der
Geburts- akt als das erste individuelle Angsterlebnis dem Aus-
druck des Angstaffekts charakteristische Züge geliehen zu haben. Wir
sollen aber diesen Zusammenhang nicht überschätzen und in seiner Anerkennung
nicht übersehen, daß ein Affektsymbol für die Situation der Gefahr eine
biologische Notwendigkeit ist und auf jeden Fall geschaffen worden wäre,
Ich halte es auch für unberechtigt anzunehmen, daß bei jedem Angst-
ausbruch etwas im Seelenleben vor sich geht, was einer Reproduktion der
Geburtssituation gleichkommt. Es ist nicht einmal sicher, ob die
hysterischen Anfälle, die ursprünglich solche traumatische
Reproduktionen sind, diesen Charakter dauernd bewahren. Ich
habe an anderer Stelle ausgeführt, daß die meisten Verdrängungen, mit
denen wir bei der therapeutischen Arbeit zu tun bekommen, Fälle von
Nachdrängen sind. Sie setzen früher erfolgte Urverdrängungen voraus, die
auf die neuere Situation ihren anziehenden Einfluß ausüben. Von
diesen Hintergründen und Vorstufen der Verdrängung ist noch viel zu wenig
bekannt. Man kommt leicht in Gefahr, die Rolle des Über-Ichs bei der
Verdrängung zu überschätzen. Man kann es derzeit nicht beurteilen, ob
etwa das Auftreten des Über-Ichs die Abgrenzung zwischen Urverdrängung und
Nachdrängen schafft. Die ersten, sehr intensiven, Angstaus- brüche erfolgen jedenfalls vor
der Differenzierung des Über-Ichs. Es ist durchaus plausibel, daß
quantitative Momente, wie die übergroße Stärke der Erregung und der
Durchbruch des Reizschutzes, die nächsten Anlässe der Urverdrängungen
sind. Die Erwähnung des Reizschutzes mahnt uns wie ein
Stichwort, daß die Verdrängungen in zwei unter- schiedenen Situationen
auftreten, nämlich wenn eine unliebsame Triebregung durch eine äußere
Wahr- nehmung wachgerufen wird, und wenn sie ohne solche
Provokation im Innern auftaucht. Wir werden später auf diese
Verschiedenheit zurückkommen. Reizschutz gibt es aber nur gegen äußere
Reize, nicht gegen innere Triebansprüche. Solange wir den
Fluchtversuch des Ichs studieren, bleiben wir der SYMPTOMbildung ferne.
Das SYMPTOM entsteht aus der durch die Verdrängung beeinträch-
tisten Triebregung. Wenn das Ich durch die Inan- spruchnahme des
Unlustsignals seine Absicht erreicht, die Triebregung völlig zu
unterdrücken, erfahren wir nichts darüber, wie das geschieht. Wir lernen
nur aus den Fällen, die als mehr oder minder mißglückte
Verdrängungen zu bezeichnen sind. Dann stellt essich im Allgemeinen
so dar, dafs die Triebregung zwar trotz der Verdrängung einen Ersatz
gefunden hat, aber einen stark verkümmerten, ver- schobenen, gehemmten.
Er ist auch als Befriedigung nicht mehr kenntlich. Wenn er vollzogen
wird, kommt keine Lustempfindung zustande, dafür hat dieser Vollzug
den Charakter des Zwanges angenommen. Aber bei dieser Erniedrigung des
Befriedigungs- ablaufes zum SYMPTOM zeigt die Verdrängung ihre
Macht noch in einem anderen Punkte. Der Ersatz- vorgang wird wo möglich
von der Abfuhr durch die Motilität ferngehalten; auch wo dies nicht
gelingt, mufS er sich in der Veränderung des eigenen Körpers
erschöpfen und darf nicht auf die Außenwelt übergreifen; es wird ihm verwehrt,
sich in Handlung um- zusetzen. Wir verstehen, bei der Verdrängung
arbeitet das Ich unter dem Einfluß der äußeren Realität und
schließt darum den Erfolg des Ersatzvorganges von dieser Realität ab.
Das Ich beherrscht den Zugang zum Bewußtsein wie den Übergang zur
Handlung gegen die Außen- welt; in der Verdrängung betätigt es seine
Macht nach beiden Richtungen. Die Triebrepräsentanz bekommt die
eine, die Triebregung selbst die andere Seite seiner Kraftäußerung zu
spüren. Da ist es denn am Platze, sich zu fragen, wie diese Anerkennung
der Mächtigkeit des Ichs mit der Beschreibung zusammen- kommt, die
wir in der Studie „Das Ich und das Es“ von der Stellung desselben Ichs
entworfen haben. Wir haben dort die Abhängigkeit des Ichs vom Es
wie vom Über-Ich geschildert, seine Ohnmacht und Angstbereitschaft gegen
beide, seine mühsam aufrecht erhaltene Überheblichkeit entlarvt. Dieses
Urteil hat seither einen starken Widerhall in der psychoanaly-
tischen Literatur gefunden. Zahlreiche Stimmen betonen eindringlich die
Schwäche des Ichs gegen das Es, des Rationellen gegen das Dämonische in
uns und schicken sich an, diesen Satz zu einem Grund- pfeiler einer
psychoanalytischen Weltanschauung zu machen. Sollte nicht die Einsicht in
die Wirkungs- weise der Verdrängung gerade den Analytiker von so
extremer Parteinahme zurückhalten? Ich bin überhaupt nicht für die
Fabrikation von Weltanschauungen. Die überlasse man den
Philosophen, die eingestandenermafßsen die Lebensreise ohne einen
solchen Baedeker, der über alles Auskunft gibt, nicht ausführbar finden.
Nehmen wir demütig die Verachtung auf uns, mit der die Philosophen
vom Standpunkt ihrer höheren Bedürftigkeit auf uns herabschauen. Da auch
wir unseren narzißtischen Stolz nicht verleugnen können, wollen wir
unseren Trost in der Erwägung suchen, daß alle diese Lebensführer rasch
veralten, daß es gerade unsere kurzsichtig beschränkte Kleinarbeit ist,
welche deren Neuauflagen notwendig macht, und daß selbst die
modernsten dieser Baedeker Versuche sind, den alten, so bequemen und so
vollständigen Katechismus zu ersetzen. Wir wissen genau, wie wenig Licht
die Wissenschaft bisher über die Rätsel dieser Welt verbreiten
konnte; alles Poltern der Philosophen kann daran nichts ändern, nur
geduldige Fortsetzung der Arbeit, die alles der einen Forderung nach
Gewißheit unter- ordnet, kann langsam Wandel schaffen. Wenn der
Wanderer in der Dunkelheit singt, verleugnet er seine Ängstlichkeit, aber
er sieht darum um nichts heller. Um zum Problem des Ichs
zurückzukehren: Der Anschein des Widerspruchs kommt daher, daf wir
Abstraktionen zu starr nehmen und aus einem kom- plizierten Sachverhalt
bald die eine, bald die andere Seite allein herausgreifen. Die Scheidung
des Ichs vom Es scheint gerechtfertigt, sie wird uns durch
bestimmte Verhältnisse aufgedrängt. Aber anderseits ist das Ich mit dem
Es identisch, nur ein besonders differenzierter Anteil desselben. Stellen
wir dieses Stück in Gedanken dem Ganzen gegenüber, oder hat sich
ein wirklicher Zwiespalt zwischen den beiden ergeben, so wird uns die
Schwäche dieses Ichs offenbar. Bleibt das Ich aber mit dem Es verbunden,
von ihm nicht unterscheidbar, so zeigt sich seine Stärke. Ähnlich
ist das Verhältnis des Ichs zum Über-Ich; für viele Situationen fließen
uns die beiden zusammen, meistens können wir sie nur unterscheiden, wenn
sich eine Spannung, ein Konflikt zwischen ihnen hergestellt hat.
Für den Fall der Verdrängung wird die Tatsache entscheidend, daß das Ich eine
Organisation ist, das Es aber keine; das Ich ist eben der organi-
sierte Anteil des Es. Es wäre ganz ungerechtfertigt, wenn man sich
vorstellte, Ich und Es seien wie zwei verschiedene Heerlager ; durch die
Verdrängung suche das Ich ein Stück des Es zu unterdrücken, nun komme
das übrige Es dem Angegriffenen zu Hilfe und messe seine Stärke mit der
des Ichs. Das mag oft zustande kommen, aber es ist gewifs nicht die
Eingangssituation der Verdrängung; in der Regel bleibt die zu
verdrängende Triebregung isoliert. Hat der Akt der Verdrängung uns die Stärke
des Ichs gezeigt, so legt er doch in einem auch Zeugnis ab für
dessen Ohnmacht und für die Unbeeinflußbarkeit der einzelnen Triebregung
des Es. Denn der Vorgang, der durch die Verdrängung zum SYMPTOM
geworden ist, behauptet nun seine Existenz außerhalb der
Ichorganisation und unabhängig von ihr. Und nicht er allein, auch alle
seine Abkömmlinge genießen das- selbe Vorrecht, man möchte sagen: der
Extraterritorialität, und wo sie mit Anteilen der Ichorganisation
assoziativ zusammentreffen, wird es fraglich, ob sie diese nicht zu sich
herüberziehen und sich mit diesem Gewinn auf Kosten des Ichs ausbreiten
werden. Ein uns längst vertrauter Vergleich betrachtet das SYMPTOM
als einen Fremdkörper, der unaufhörlich Reiz- und Reaktionserscheinungen
in dem Gewebe unterhält, in das er sich eingebettet hat. Es kommt
zwar vor, daß der Abwehrkampf gegen die unliebsame Triebregung durch
die SYMPTOMbildung abgeschlossen wird; soweit wir sehen, ist dies am
ehesten bei der hysterischen Konversion möglich, aber in der Regel
ist der Verlauf ein anderer; nach dem ersten Akt der Verdrängung folgt
ein langwieriges oder nie zu beendendes Nachspiel, der Kampf gegen die
Trieb- regung findet seine Fortsetzung in dem Kampf gegen das SYMPTOM.
Dieser sekundäre Abwehrkampf zeigt uns zwei Gesichter — mit
widersprechendem Ausdruck. Einer- seits wird das Ich durch seine Natur
genötigt, etwas zu unternehmen, was wir als Herstellungs- oder
Versöhnungsversuch beurteilen müssen. Das Ich ist eine Organisation, es
beruht auf dem freien Verkehr und der Möglichkeit gegenseitiger
Beeinflussung unter all seinen Bestandteilen, seine desexualisierte
Energie bekundet ihre Herkunft noch in dem Streben nach Bindung und Vereinheitlichung
und dieser Zwang zur Synthese nimmt immer mehr zu, je kräftiger sich das
Ich entwickelt. So wird es verständlich, daß das Ich auch versucht, die
Fremdheit und Isolierung des SYMPTOMs aufzuheben, indem es alle
Möglichkeiten ausnützt, es irgendwie an sich zu binden und durch solche
Bande seiner Organisation einzuverleiben. Wir wissen, daß ein
solches Bestreben bereits den Akt der SYMPTOM- bildung beeinflußt. Ein
klassisches Beispiel dafür sind jene hysterischen SYMPTOMe, die uns als
Kompromifszwischen Befriedigungs- und Strafbedürfnis durchsichtig
geworden sind. Als Erfüllungen einer Forderung des Über-Ichs haben solche
SYMPTOMe von vorneherein Anteil am Ich, während sie anderseits Positionen
des Verdrängten und Einbruchsstellen desselben in die
Ichorganisation bedeuten; sie sind sozusagen Grenz-stationen mit gemischter
Besetzung. Ob alle primären hysterischen SYMPTOMe so gebaut sind,
verdiente eine sorgfältige Untersuchung. Im weiteren Verlaufe
benimmt sich das Ich so, als ob es von der Er- wägung geleitet würde: das
SYMPTOM ist einmal da und kann nicht beseitigt werden; nun heißt es,
sich mit dieser Situation befreunden und den größtmög- lichen
Vorteil aus ihr ziehen. Es findet eine Anpassung an das ichfremde Stück
der Innenwelt statt, das durch das SYMPTOM repräsentiert wird, wie sie
das Ich sonst normalerweise gegen die reale Außenwelt zustande
bringt. An Anlässen hiezu fehlt es nie. Die Existenz des Symptoms mag
eine gewisse Behinde- rung der Leistung mit sich bringen, mit der man
eine Anforderung des Über-Ichs beschwichtigen oder einen Anspruch
der Außenwelt zurückweisen kann. So wird das Symptom allmählich mit der
Vertretung wichtiger Interessen betraut, es erhält einen Wert für
die Selbstbehauptung, verwächst immer inniger mit dem Ich, wird ihm
immer unentbehrlicher. Nur in ganz seltenen Fällen kann der Prozeß der
Einheilung eines Fremdkörpers etwas ähnliches wiederholen. Man
kann die Bedeutung dieser sekundären Anpassung an das Symptom auch
übertreiben, indem man aussagt, das Ich habe sich das Symptom überhaupt
nur ange- schafft, um dessen Vorteile zu genießen. Das ist dann so
richtig oder so falschh wie wenn man die Ansicht vertritt, der
Kriegsverletzte habe sich das Bein nur abschießen lassen, um dann
arbeitsfrei von seiner Invalidenrente zu leben. Andere
Symptomgestaltungen, die der Zwangs- neurose und der Paranoia, bekommen
einen hohen Wert für das Ich, nicht weil sie ihm Vorteile, sondern
weil sie ihm eine sonst entbehrte narzißtische Befriedigung bringen. Die
Systembildungen der Zwangs- neurotiker schmeicheln ihrer Eigenliebe durch
die Vorspiegelung, sie seien als besonders reinliche oder
gewissenhafte Menschen besser als andere; die Wahn- bildungen der
Paranoia eröffnen dem Scharfsinn und der Phantasie dieser Kranken ein
Feld zur Betätigung, das ihnen nicht leicht ersetzt werden kann. Aus
all den erwähnten Beziehungen resultiert, was uns als der
(sekundäre) Krankheitsgewinn der Neurose bekannt ist. Er kommt dem
Bestreben des Ichs, sich das Symptom einzuverleiben, zu Hilfe und
verstärkt die Fixierung des letzteren. Wenn wir dann den Ver- such
machen, dem Ich in seinem Kampf gegen das Symptom analytischen Beistand
zu leisten, finden wir diese versöhnlichen Bindungen zwischen Ich
und Symptom auf der Seite der Widerstände wirksam. Es wird uns nicht
leicht gemacht, sie zu lösen. Die beiden Verfahren, die dasIch gegen das
Symptom anwendet, stehen wirklich in Widerspruch zu einander.
Das andere Verfahren hat weniger freundlichen Charakter, es setzt
die Richtung der Verdrängung fort. Aber es scheint, daß wir das Ich nicht
mit dem Vorwurf der Inkonsequenz belasten dürfen. Das Ich ist
friedfertig und möchte sich das Symptom einverleiben, es in sein Ensemble
aufnehmen. Die Störung geht vom Symptom aus, das als richtiger Ersatz
und Abkömmling der verdrängten Regung deren Rolle weiterspielt,
deren Befriedigungsanspruch immer wieder erneuert und so das Ich nötigt,
wiederum das Unlust- signal zu geben und sich zur Wehre zu setzen.
Der sekundäre Abwehrkampf gegen das Symptom ist vielgestaltig,
spielt sich auf verschiedenen Schau- plätzen ab und bedient sich
mannigfaltiger Mittel. Wir werden nicht viel über ihn aussagen können,
wenn wir nicht die einzelnen Fälle der Symptombildung zum
Gegenstand der Untersuchung nehmen. Dabei werden wir Anlaß finden, auf
das Problem der Angst einzugehen, das wir längst wie im Hintergrunde
lauernd verspüren. Es empfiehlt sich, von den Symptomen, welche die
hysterische Neurose schafft, auszugehen; auf die Voraussetzungen der
Symptombildung bei der Zwangsneurose, Paranoia und anderen Neurosen
sind wir noch nicht vorbereitet. IV Der erste Fall, den wir
betrachten, sei der einer infantilen hysterischen Tierphobie, also z.B. der
gewifs in allen Hauptzügen typische Fall der Pferdephobie des ‚ Kleinen
Hans‘. Schon der erste Blick läßt uns erkennen, daß die Verhältnisse
eines realen Falles von neurotischer Erkrankung weit komplizierter
sind als unsere Erwartung, solange wir mit Abstraktionen arbeiten,
sich vorstellt. Es gehört einige Arbeit dazu, sich zu orientieren,
welches die verdrängte Regung, was ihr Symptomersatz ist, wo das Motiv
der Verdrängung kenntlich wird. Der kleine Hans weigert sich, auf die Straße
zu gehen, weil er Angst vor dem Pferd hat. Dies ist der Rohstoff.
Was ist nun daran das Symptom: die Angstentwicklung, die Wahl des
Angstobjekts, oder der Verzicht auf die freie Beweglichkeit, oder
mehreres davon zugleich? Wo ist die Befriedigung, die er sich
versagt? Warum muß er sich diese versagen? Siehe: Analyse der Phobie eines fünfjährigen Knaben. (Ges. Schriften) Es liegt nahe zu antworten, an dem Falle sei nicht
so viel rätselhaft. Die unverständliche Angst vor dem Pferd ist das
Symptom, die Unfähigkeit, auf die Straße zu gehen, ist eine
Hemmungserscheinung, eine Einschränkung, die sich das Ich auferlegt,
um nicht das Angstsymptom zu wecken. Man sieht ohne weiteres die
Richtigkeit der Erklärung des letzten Punktes ein und wird nun diese
Hemmung bei der weiteren Diskussion außer Betracht lassen. Aber die
erste flüchtige Bekanntschaft mit dem Falle lehrt uns nicht einmal den
wirklichen Ausdruck des vermeint- lichen Symptoms kennen. Es handelt
sich, wie wir bei genauerem Verhör erfahren, gar nicht um eine
unbestimmte Angst vor dem Pferd, sondern um die bestimmte ängstliche
Erwartung: das Pferd werde ihn beifsen. Allerdings sucht sich dieser
Inhalt dem Bewußt- sein zu entziehen und sich durch die unbestimmte
Phobie, in der nur noch die Angst und ihr Objekt vorkommen, zu ersetzen.
Ist nun etwa dieser Inhalt der Kern des Symptoms? Wir kommen
keinen Schritt weiter, so lange wir nicht die ganze psychische Situation
des Kleinen in Betracht ziehen, wie sie uns während der
analytischen Arbeit enthüllt wird. Er befindet sich in der eifersüchtigen
und feindseligen Ödipusein- stellung zu seinem Vater, den er doch, so
weit die Mutter nicht als Ursache der Entzweiung in Betracht kommt,
herzlich liebt. Also ein Ambivalenzkonflikt, gut begründete Liebe und
nicht minder berech- tigter Haß, beide auf dieselbe Person
gerichtet. Seine Phobie muß ein Versuch zur Lösung dieses
Konflikts sein. Solche Ambivalenzkonflikte sind sehr häufig, wir kennen
einen anderen typischen Ausgang derselben. Bei diesem wird die eine der
beiden mit- einander ringenden Regungen, in der Regel die zärt-
liche, enorm verstärkt, die andere verschwindet. Nur das Übermaß und das
Zwangsmäßige der Zärtlichkeit verrät uns, daf3 diese Einstellung nicht
die einzig vorhandene ist, daß sie ständig auf der Hut ist, ihr
Gegenteil in Unterdrückung zu halten, und läßt uns einen Hergang
konstruieren, den wir als Verdrängung durch Reaktionsbildung (im Ich)
beschreiben. Fälle wie der kleine Hans zeigen nichts von solcher
Reaktionsbildung; es gibt offenbar verschiedene Wege, die aus einem
Ambivalenzkonflikt herausführen. Etwas anderes haben wir unterdes mit
Sicherheit erkannt. Die Triebregung, die der Verdrängung unter-
liegt, ist ein feindseliger Impuls gegen den Vater. Die Analyse lieferte
uns den Beweis hiefür, während sie der Herkunft der Idee des beifßenden
Pferdes nachspürte. Hans hat ein Pferd fallen gesehen, einen
Spielkameraden fallen und sich verletzen, mit dem er Pferd gespielt
hatte. Sie hat uns das Recht gegeben, bei Hans eine Wunschregung zu
konstruieren, die gelautet hat, der Vater möge hinfallen, sich
beschädigen wie das Pferd und der Kamerad. Beziehungen zu einer beobachteten
Abreise lassen ver- muten, daß der Wunsch nach der Beseitigung des
Vaters auch minder zaghaften Ausdruck gefunden hat. Ein solcher Wunsch
ist aber gleichwertig mit der Absicht, ihn selbst zu beseitigen, mit der
mör- derischen Regung des Ödipuskomplexes. Von dieser verdrängten
Triebregung führt bis jetzt kein Weg zu dem Ersatz für sie, den wir in
der Pferdephobie vermuten. Vereinfachen wir nun die psychische Situation
des kleinen Hans, indem wir das infantile Moment und die Ambivalenz
wegräumen; er sei etwa ein jüngerer Diener in einem Haushalt, der
in die Herrin verliebt ist und sich gewisser Gunstbezeugungen von ihrer
Seite erfreue. Erhalten bleibt, dafß er den stärkeren Hausherrn haßt und
ihn beseitigt wissen möchte; dann ist es die natürlichste Folge
dieser Situation, daß er die Rache dieses Herrn fürchtet, daß sich bei
ihm ein Zustand von Angst vor diesem einstellt — ganz ähnlich wie die
Phobie des kleinen Hans vor dem Pferd. Das heißt, wir können die
Angst dieser Phobie nicht als Symptom bezeichnen; wenn der kleine Hans,
der in seine Mutter verliebt ist, Angst vor dem Vater zeigen würde,
hätten wir kein Recht, ihm eine Neurose, eine Phobie, zuzu-
schreiben. Wir hätten eine durchaus begreifliche affektive Reaktion vor
uns. Was diese zur Neurose macht, ist einzig und allein ein anderer Zug,
die Ersetzung des Vaters durch das Pferd. Diese Verschiebung stellt also
das her, was auf den Namen eines Symptoms Anspruch hat. Sie ist jener
andere Mechanismus, der die Erledigung des Ambivalenzkonflikts ohne die
Hilfe der Reaktionsbildung gestattet. Ermöglicht oder erleichtert wird
sie durch den Um- stand, daß die mitgeborenen Spuren totemistischer
Denkweise in diesem zarten Alter noch leicht zu beleben sind. Die Kluft zwischen
Mensch und Tier ist noch nicht anerkannt, gewif3 nicht so
überbetont wie später. Der erwachsene, bewunderte, aber auch
gefürchtete Mann steht noch in einer Reihe mit dem großen Tier, das man
um so vielerlei beneidet, vor dem man aber auch gewarnt worden ist, weil es
gefährlich werden kann. Der Ambivalenzkonflikt wird also nicht an
derselben Person erledigt, sondern gleich- sam umgangen, indem man einer
seiner Regungen eine andere Person als Ersatzmann unterschiebt.
Soweit sehen wir ja klar, aber in einem anderen Punkte hat uns die
Analyse der Phobie des kleinen Hans eine volle Enttäuschung gebracht. Die
Entstellung, in der die Symptombildung besteht, wird gar nicht an
der Repräsentanz (dem Vorstellungsinhalt) der zu verdrängenden
Triebregung vorgenommen, sondern an einer davon ganz verschiedenen, die
nur einer Reaktion auf das eigentlich Unliebsame entspricht. Unsere
Erwartung fände eher Befriedigung, wenn der kleine Hans an Stelle seiner
Angst vor dem Pferd eine Neigung entwickelt hätte, Pferde zu mißshandeln,
sie zu schlagen, oder deutlich seinen Wunsch kundgegeben hätte, zu sehen,
wie sie hinfallen, zu Schaden kommen, eventuell unter Zuckungen
verenden (das Krawallmachen mit den Beinen). Etwas der Art tritt
auch wirklich während seiner Analyse auf, aber es steht lange nicht voran
in der Neurose und — sonderbar wenner wirklich solche
Feindseligkeit, nur gegen das Pferd, anstatt gegen den Vater
gerichtet, als Hauptsymptom entwickelt hätte, würden wir gar nicht
geurteilt haben, er befinde sich in einer Neurose. Etwas ist also da
nicht in Ordnung, entweder an unserer Auffassung der Verdrängung oder in
unserer Definition eines Symptoms. Eines fällt uns natürlich sofort
auf: Wenn der kleine Hans wirklich ein solches Ver- halten gegen Pferde
gezeigt hätte, so wäre ja der Charakter der anstößigen, aggressiven Triebregung
durch die Verdrängung gar nicht verändert, nur deren Objekt gewandelt
worden. Es ist ganz sicher, daß es Fälle von Verdrängung
gibt, die nicht mehr leisten als dies; bei der Genese der Phobie des
kleinen Hans ist aber mehr geschehen. Um wieviel mehr, erraten wir aus
einem anderen Stück Analyse. Wir haben bereits gehört, daß
der kleine Hans als den Inhalt seiner Phobie die Vorstellung angab,
vom Pferd gebissen zu werden. Nun haben wir.später Einblick in die Genese
eines anderen Falles von Tier- phobie bekommen, in der der Wolf das
Angsttier war, aber gleichfalls die Bedeutung eines Vaterersatzes
hatte." Im Anschluß an einen Traum, den die Analyse durch-
sichtig machen konnte, entwickelte sich bei diesem Knaben die Angst, vom
Wolf gefressen zu werden, wie eines der sieben Geifjlein im Märchen. Daß
der Vater des kleinen Hans nachweisbar ‚‚Pferdl‘‘ mit ihm gespielt
hatte, war gewiß bestimmend für die Wahl des Angsttieres geworden; ebenso
lief3 sich wenigstens sehr wahrscheinlich machen, daf3 der Vater
meines erst im dritten Jahrzehnt analysierten Russen in den Spielen
mit dem Kleinen den Wolf gemimt und scherzend mit dem Auffressen gedroht
hatte. Seither habe ich als dritten Fall einen jungen Amerikaner
gefunden, bei dem sich zwar keine Tierphobie ausbildete, der aber gerade durch
diesen Ausfall die anderen Fälle verstehen hilft. Seine sexuelle
Erregung hatte sich an einer phantastischen Kindergeschichte
entzündet, die man ihm vorlas, von einem arabischen Häuptling, der einer aus
eßbarer Substanz bestehenden Person (dem Gäingerbreadman), nachjagt, um
ihn zu verzehren. Mit diesem eßbaren Menschen identifizierte er
sich selbst, der Häuptling war als Vaterersatz leicht kenntlich und diese
Phantasie wurde die erste Unterlage seiner autoerotischen Betätigung. Die
Vorstellung, vom Vater gefressen zu werden, ist aber typisches uraltes
Kindergut; die Analogien aus der Bd.) Mythologie (Kronos) und dem
Tierleben sind allgemein bekannt. Trotz solcher
Erleichterungen ist dieser Vorstellungs- inhalt uns so fremdartig, daß
wir ihn dem Kinde nur ungläubig zugestehen können. Wir wissen auch nicht,
ob er wirklich das bedeutet, was er auszusagen scheint, und verstehen
nicht, wie er Gegenstand einer Phobie werden kann. Die analytische
Erfahrung gibt uns aller- dings die erforderlichen Auskünfte. Sie lehrt
uns, daß die Vorstellung, vom Vater gefressen zu werden, der
regressiv erniedrigte Ausdruck für eine passive zärtliche Regung ist, die
vom Vater als Objekt im Sinne der Genitalerotik geliebt zu werden
begehrt. Die Ver- folgung der Geschichte des Falles läßt keinen
Zweifel an der Richtigkeit dieser Deutung aufkommen. Die genitale
Regung verrät freilich nichts mehr von ihrer zärtlichen Absicht, wenn sie
in der Sprache der überwundenen Übergangsphase von der oralen zur
sadistischen Libidoorganisation ausgedrückt wird. Handelt es sich
übrigens nur um eine Ersetzung der Repräsentanz durch einen regressiven
Ausdruck oder um eine wirkliche regressive Erniedrigung der
genital- gerichteten Regung im Es? Das scheint gar nicht so leicht
zu entscheiden. Die Krankengeschichte des russischen Wolfsmannes spricht
ganz entschieden für die letztere ernstere Möglichkeit, denn er
benimmt sich von dem entscheidenden Traum an schlimm, quälerisch,
sadistisch und entwickelt bald darauf eine richtige Zwangsneurose.
Jedenfalls gewinnen wir die Einsicht, daf3 die Verdrängung nicht das einzige
Mittel ist, das dem Ich zur Abwehr einer unliebsamen Triebregung zu
(sebote steht. Wenn es ihm gelingt, den Trieb zur Regression zu bringen,
so hat es ihn im Grunde energischer beeinträchtigt, als durch die
Ver- drängung möglich wäre. Allerdings läßt es manchmal der zuerst
erzwungenen Regression die Verdrängung folgen. | Der
Sachverhalt beim Wolfsmann und der etwas einfachere beim kleinen Hans
regen noch mancherlei andere Überlegungen an, aber zwei unerwartete
Ein- sichten gewinnen wir schon jetzt. Kein Zweifel, die bei diesen
Phobien verdrängte Triebregung ist eine feindselige gegen den Vater. Man
kann sagen, sie wird verdrängt durch den Prozeß der Verwandlung ins
Gegenteil; an Stelle der Aggression gegen den Vater tritt die Aggression,
die Rache, des Vaters gegen die eigene Person. Da eine solche Aggression
ohne- dies in der sadistischen Libidophase wurzelt, bedarf sie nur
noch einer gewissen Erniedrigung zur oralen Stufe, die bei Hans durch das
Gebissenwerden ange- deutet, beim Russen aber im Gefressenwerden
grell ausgeführt ist. Aber außerdem läßt ja die Analyse über jeden
Zweifel gesichert feststellen, daß gleich- zeitig noch eine andere
Triebregung der Verdrängung erlegen ist, die gegensinnige einer zärtlichen
passiven Regung für den Vater, die bereits das Niveau der genitalen
(phallischen) Libidoorganisation erreicht hatte. Die letztere scheint
sogar die für das Endergebnis des Verdrängungsvorganges bedeutsamere zu
sein, sie erfährt die weitergehende Regression, sie erhält den
bestimmenden Einfluß auf den Inhalt der Phobie. Wo wir also nur einer
Triebverdrängung nachgespürt haben, müssen wir das Zusammentreffen von
zwei solchen Vorgängen anerkennen; die beiden betroffenen
Triebregungen — sadistische Aggression gegen den Vater und zärtlich
passive Einstellung zu ihm — bilden ein (Gegensatzpaar, ja noch mehr:
wenn wir die Geschichte des kleinen Hans richtig würdigen, erkennen
wir, daß durch die Bildung seiner Phobie auch die zärtliche
Objektbesetzung der Mutter aufgehoben worden ist, wovon der Inhalt der
Phobie nichts verrät. Es handelt sich bei Hans beim Russen ist das
weit weniger deutlich um einen Verdrängungsvorgang, der fast alle
Komponenten des Ödipuskomplexes betrifft, die feindliche wie die
zärtliche Regung gegen den Vater und die zärtliche für die Mutter.
Das sind unerwünschte Komplikationen für uns, die wir nur einfache
Fälle von Symptombildung infolge von Verdrängung studieren wollten und
uns in dieser Absicht an die frühesten und anscheinend durch-
sichtigsten Neurosen der Kindheit gewendet hatten. Anstatt einer einzigen
Verdrängung fanden wir eine Häufung von solchen vor und überdies bekamen
wir es mit der Regression zu tun. Vielleicht haben wir die
Verwirrung dadurch gesteigert, daß wir die beiden verfügbaren Analysen
von Tierphobien — die des kleinen Hans und des Wolfsmannes durchaus
auf denselben Leisten schlagen wollten. Nun fallen uns gewisse
Unterschiede der beiden auf. Nur vom kleinen Hans kann man mit
Bestimmtheit aussagen, daß er durch seine Phobie die beiden Hauptregungen
des Ödipuskomplexes, die aggressive gegen den Vater und die
überzärtliche gegen die Mutter, erledigt; die zärtliche für den Vater ist
gewif) auch vorhanden, sie spielt ihre.Rolle bei der Verdrängung ihres
Gegensatzes, aber es ist weder nachweisbar, daß sie stark genug
war, um eine Verdrängung zu provozieren, noch dafs sie nachher aufgehoben
ist. Hans scheint eben ein normaler Junge mit sog. „positivem‘‘
Ödipuskomplex gewesen zu sein. Möglich, daß die Momente, die wir
vermissen, auch bei ihm mittätig waren, aber wir können sie nicht
aufzeigen, das Material selbst unserer eingehendsten Analysen ist eben
lückenhaft, unsere Dokumentierung unvollständig. Beim Russen ist
der Defekt an anderer Stelle; seine Beziehung zum weib- lichen
Objekt ist durch eine frühzeitige Verführung gestört worden, die passive,
feminine Seite ist bei ihm stark ausgebildet und die Analyse seines
Wolfs- traumes enthüllt wenig von beabsichtigter Aggression gegen
den Vater, erbringt dafür die unzweideutigsten Beweise, daß die
Verdrängung die passive, zärtliche Einstellung zum Vater betrifft. Auch
hier mögen die anderen Faktoren beteiligt gewesen sein, sie treten
aber nicht vor. Wenn trotz dieser Unterschiede der beiden Fälle, die sich
nahezu einer Gegensätzlichkeit nähern, der Enderfolg der Phobie nahezu
der nämliche ist, so muß uns die Erklärung dafür von anderer Seite
kommen; sie kommt von dem zweiten Ergebnis unserer kleinen vergleichenden
Untersuchung. Wir glauben den Motor der Verdrängung in beiden Fällen zu
kennen und sehen seine Rolle durch den Verlauf bestätigt, den die
Entwicklung der zwei Kinder nimmt. Er ist in beiden Fällen der nämliche,
die Angst vor einer drohenden Kastration. Aus Kastrationsangst gibt
der kleine Hans die Aggression gegen den Vater auf; seine Angst,
das Pferd werde ihn beißen, kann zwanglos ver- vollständigt werden, das
Pferd werde ihm das Genitale abbeißßen, ihn kastrieren. Aber aus
Kastrationsangst verzichtet auch der kleine Russe auf den Wunsch,
vom Vater als Sexualobjekt geliebt zu werden, denn er hat verstanden,
eine solche Beziehung hätte zur Voraussetzung, daß er sein Genitale
aufopfert, das, was ihn vom Weib unterscheidet. Beide Gestaltungen
des Ödipuskomplexes, die normale, aktive, wie die invertierte, scheitern
ja am Kastrationskomplex. Die Angstidee des Russen, vom Wolf gefressen zu
werden, enthält zwar keine Andeutung der Kastration, sie hat sich
durch orale Regression zu weit von der phallischen Phase entfernt, aber
die Analyse seines Traumes macht jeden anderen Beweis überflüssig. Es
ist auch ein voller Triumph der Verdrängung, daß im Wortlaut der Phobie
nichts mehr auf die Kastration hindeutet. Hier nun das
unerwartete Ergebnis: In beiden Fällen ist der Motor der Verdrängung die
Kastrations- angst; die Angstinhalte, vom Pferd gebissen und vom
Wolf gefressen zu werden, sind Entstellungsersatz für den Inhalt, vom
Vater kastriert zu werden. Dieser Inhalt ist es eigentlich, der die
Verdrängung an sich erfahren hat. Beim Russen war er Ausdruck eines
Wunsches, der gegen die Auflehnung der Männlich- keit nicht bestehen
konnte, bei Hans Ausdruck einer Reaktion, welche die Aggression in ihr
Gegenteil umwandelte. Aber der Angstaffekt der Phobie, der ihr
Wesen ausmacht, stammt nicht aus dem Verdrängungsvorgang, nicht aus den
libidinösen Besetzungen der verdrängten Regungen, sondern aus dem
Verdrängenden selbst; die Angst der Tierphobie ist die unverwandelte
Kastrationsangst, also eine Realangst, Angst vor einer wirklich drohenden
oder als real beurteilten Gefahr. Hier macht die Angst die Verdrängung,
nicht, wie ich früher gemeint habe, die Ver- drängung die Angst.
Es ist nicht angenehm, daran zu denken, aber es hilft nichts, es zu
verleugnen, ich habe oftmals den Satz vertreten, durch die Verdrängung
werde die Triebrepräsentanz entstellt, verschoben u. dgl., die
Libido der Triebregung aber in Angst verwandelt. Die Untersuchung der
Phobien, die vor allem berufen sein sollte, diesen Satz zu erweisen,
bestätigt ihn also nicht, sie scheint ihm vielmehr direkt zu widersprechen.
Die Angst der Tierphobien ist die Kastrationsangst des Ichs, die der
weniger gründlich studierten Agoraphobie scheint Versuchungsangst zu sein, die
ja genetisch mit der Kastrationsangst zusammenhängen muß. Die meisten
Phobien gehen, so weit wir es heute übersehen, auf eine solche Angst des
Ichs vor den Ansprüchen der Libido zurück. Immer ist dabei die
Angsteinstellung des Ichs das Primäre und der Antrieb zur Verdrängung.
Niemals geht die Angst aus der verdrängten Libido hervor. Wenn ich mich
früher begnügt hätte zu sagen, nach der Verdrängung er- scheint an
Stelle der zu erwartenden Äußerung von Libido ein Maß von Angst, so hätte
ich heute nichts zurückzunehmen. Die Beschreibung ist richtig und
zwischen der Stärke der zu verdrängenden Regung und der Intensität der
resultierenden Angst besteht wohl die behauptete Entsprechung. Aber
ich gestehe, ich glaubte mehr als eine bloße Be- schreibung zu geben, ich
nahm an, daß ich den metapsychologischen Vorgang einer direkten Umsetzung
der Libido in Angst erkannt hatte; das kann ich also heute nicht mehr
festhalten. Ich konnte auch früher nicht angeben, wie sich eine solche
Umwandlung vollzieht. Woher schöpfte ich überhaupt die Idee
dieser Umsetzung? Zur Zeit, als es uns noch sehr ferne lag, zwischen
Vorgängen im Ich und Vorgängen im Es zu unterscheiden, aus dem Studium
der Aktualneurosen. Ich fand, daß bestimmte sexuelle Praktiken, wie
Coitus interruptus, frustrane Erregung, erzwungene Abstinenz
Angstausbrüche und eine allgemeine Angstbereitschaft erzeugen, also
immer, wenn die Sexualerregung in ihrem Ablauf zur Befriedigung gehemmt,
aufgehalten oder abgelenkt wird. Da die Sexualerregung der Aus-
druck libidinöser Triebregungen ist, schien es nicht gewagt, anzunehmen,
daf die Libido sich durch die Einwirkung solcher Störungen in Angst
verwandelt. Nun ist diese Beobachtung auch heute noch gültig;
anderseits ist nicht abzuweisen, daß die Libido der Es-Vorgänge durch die
Anregung der Verdrängung eine Störung erfährt; es kann also noch immer
richtig sein, daß sich bei der Verdrängung Angst aus der Libido-
besetzung der Triebregungen bildet. Aber wie soll man dieses Ergebnis mit
dem anderen zusammenbringen, daß die Angst der Phobien eine Ich-Angst
ist, im Ich entsteht, nicht aus der Verdrängung hervorgeht, sondern die
Verdrängung hervorruft? Das scheint ein Widerspruch und nicht einfach zu
lösen. Die Reduktion der beiden Ursprünge der Angst auf einen
einzigen läft sich nicht leicht durchsetzen. Man kann es mit der Annahme
versuchen, daß das Ich in der Situation des gestörten Koitus, der
unterbrochenen Erregung, der Abstinenz, Gefahren wittert, auf die
es mit Angst reagiert, aber es ist nichts damit zu machen. Anderseits scheint die Analyse der Phobien, die wir vorgenommen
haben, eine Berichtigung nicht zuzulassen. Von liguet! Wir wollten die
Symptombildung und den sekun- dären Kampf des Ichs gegen das Symptom
studieren, aber wir haben offenbar mit der Wahl der Phobien keinen
glücklichen Griff getan. Die Angst, welche im Bild dieser Affektionen
vorherrscht, erscheint uns nun als eine den Sachverhalt verhüllende
Komplikation. Es gibt reichlich Neurosen, bei denen sich
nichts von Angst zeigt. Die echte Konversionshysterie ist von
solcher Art, deren schwerste Symptome ohne Bei- mengung von Angst
gefunden werden. Schon diese Tatsache müßte uns warnen, die Beziehungen
zwischen Angst und Symptombildung nicht allzu fest zu knüpfen. Den
Konversionshysterien stehen die Phobien sonst so nahe, daß ich mich für
berechtigt gehalten habe, ihnen diese als ‚Angsthysterie anzureihen. Aber
niemand hat noch die Bedingung angeben können, die darüber entscheidet,
ob ein Fall die Form einer Konversionshysterie oder einer Phobie annimmt,
niemand also die Bedingung der Angstentwicklung bei der Hysterie
ergründet. Die häufigsten Symptome der Konversionshysterie, eine
motorische Lähmung, Kontraktur oder unwillkür- liche Aktion oder
Entladung, ein. Schmerz, eine Halluzination, sind entweder permanent
festgehaltene oder intermittierende Besetzungsvorgänge, was der
Erklärung neue Schwierigkeiten bereitet. Man weiß eigentlich nicht
viel über solche Symptome zu sagen. Durch die Analyse kann man erfahren,
welchen gestörten Erregungsablauf sie ersetzen. Zumeist ergibt sich,
daß sie selbst einen Anteil an diesem haben, so als ob sich die
gesamte Energie desselben auf dies eine Stück konzentriert hätte. Der
Schmerz war in der Situation, in welcher die Verdrängung vorfiel,
vor- handen; die Halluzination war damals Wahrnehmung, die
motorische Lähmung ist die Abwehr einer Aktion, die in jener Situation
hätte ausgeführt werden sollen, aber gehemmt wurde, die Kontraktur
gewöhnlich eine Verschiebung für eine damals intendierte Muskel-
innervation an anderer Stelle, der Krampfanfall Aus- druck eines
Affektausbruches, der sich der normalen Kontrolle des Ichs entzogen hat.
In ganz auffälligem Maße wechselnd ist die Unlustempfindung, die
das Auftreten der Symptome begleitet. Bei den perma- nenten, auf
die Motilität verschobenen Symptomen, wie Lähmungen und Kontrakturen,
fehlt sie meistens gänzlich, das Ich verhält sich gegen sie wie
unbe- teiligt; bei den intermittierenden und den Symptomen der
sensorischen Sphäre werden in der Regel deutliche Unlustempfindungen verspürt,
die sich im Falle des Schmerzsymptoms zu exzessiver Höhe steigern
können. Es ist sehr schwer, in dieser Mannigfaltigkeit das Moment
herauszufinden, das solche Differenzen ermöglicht und sie doch
einheitlich erklären läßt. Auch vom Kampf des Ichs gegen das einmal
gebildete Symptom ist bei der Konversionshysterie wenig zu merken.
Nur wenn die Schmerzempfindlichkeit einer Körperstelle zum Symptom
geworden ist, wird diese in den Stand gesetzt, eine Doppelrolle zu
spielen. Das Schmerzsymptom tritt ebenso sicher auf, wenn diese
Stelle von außen berührt wird, wie wenn die von ihr vertretene pathogene
Situation von innen her assoziativ aktiviert wird, und das Ich ergreift
Vor- sichtsmaßregeln, um die Erweckung des Symptoms durch äußere
Wahrnehmung hintanzuhalten. Woher die besondere Undurchsichtigkeit der
Symptombildung bei der Konversionshysterie rührt, können wir nicht
erraten, aber sie gibt uns ein Motiv, das unfrucht- bare Gebiet bald zu
verlassen. Wir wenden uns zur Zwangsneurose in der Erwartung,
hier mehr über die Symptombildung zu erfahren. Die Symptome der
Zwangsneurose sind im allgemeinen von zweierlei Art und
entgegengesetzter Tendenz. Es sind entweder Verbote, Vorsichtsmaßregeln,
Bußen, also negativer Natur, oder im Gegen- teil Ersatzbefriedigungen,
sehr häufig in symbolischer Verkleidung. Von diesen zwei Gruppen ist die
negative, abwehrende, strafende, die ältere; mit der Dauer des Krankseins
nehmen aber die aller Abwehr spotten- den Befriedigungen überhand. Es ist
ein Triumph der Symptombildung, wenn es gelingt, das Verbot
mit der Befriedigung zu verquicken, so daß das ursprünglich
abwehrende Gebot oder Verbot auch die Bedeutung einer Befriedigung
bekommt, wozu oft sehr künstliche Verbindungswege in Anspruch genommen
werden. In dieser Leistung zeigt sich die Neigung zur Synthese, die
wir dem Ich bereits zuerkannt haben. In extremen Fällen bringt es der
Kranke zustande, daß die meisten seiner Symptome zu ihrer ursprünglichen
Bedeutung auch die des direkten Gegensatzes erworben haben, ein
Zeugnis für die Macht der Ambivalenz, die, wir wissen nicht warum, in der
Zwangsneurose eine so große Rolle spielt. Im rohesten Fall ist das
Symptom zweizeitig, d. h. auf die Handlung, die eine gewisse
Vorschrift ausführt, folgt unmittelbar eine zweite, die sie aufhebt oder
rückgängig macht, wenngleich sie noch nicht wagt, ihr Gegenteil
auszuführen. Zwei Eindrücke ergeben sich sofort aus dieser
flüchtigen Überschau der Zwangssymptome. Der erste, daß hier ein
fortgesetzter Kampf gegen das Verdrängte unterhalten wird, der sich immer mehr
zu ungunsten der verdrängenden Kräfte wendet, und zweitens, daß Ich
und Über-Ich hier einen besonders großen Anteil an der Symptombildung
nehmen. Die Zwangsneurose ist wohl das interessanteste und
dankbarste Objekt der analytischen Untersuchung, aber noch immer als
Problem unbezwungen. Wollen wir in ihr Wesen tiefer eindringen, so müssen
wir eingestehen, daß unsichere Annahmen und unbe- wiesene
Vermutungen noch nicht entbehrt werden können. Die Ausgangssituation der
Zwangsneurose ist wohl keine andere als die der Hysterie, die not-
wendige Abwehr der libidinösen Ansprüche des Ödipus-komplexes. Auch scheint
sich bei jeder Zwangsneurose eine unterste Schicht sehr früh gebildeter
hysterischer Symptome zu finden. Dann aber wird die weitere
Gestaltung durch einen konstitutionellen Faktor ent- scheidend verändert.
Die genitale Organisation der Libido erweist sich als schwächlich und zu
wenig resistent. Wenn das Ich sein Abwehrstreben beginnt, so
erzielt es als ersten Erfolg, daf3 die Genitalorgani- sation (der
phallischen Phase) ganz oder teilweise auf die frühere sadistisch-anale
Stufe zurückgeworfen wird. Diese Tatsache der Regression bleibt für alles
folgende bestimmend. Man kann noch eine andere Möglichkeit
in Erwägung ziehen. Vielleicht ist die
Regression nicht die Folge eines konstitutionellen, sondern eines zeitlichen
Faktors. Sie wird nicht darum ermöglicht werden, weil die
Genitalorganisation der Libido zu schwächlich geraten, sondern weil das
Sträuben des Ichs zu frühzeitig, noch während der Blüte der sadi-
stischen Phase eingesetzt hat. Einer sicheren Entscheidung getraue ich mich
auch in diesem Punkte nicht, aber die analytische Beobachtung
begünstigt diese Annahme nicht. Sie zeigt eher, dafs bei der
Wendung zur Zwangsneurose die phallische Stufe bereits erreicht ist. Auch
ist das Lebensalter für den Ausbruch dieser Neurose ein späteres als das
der Hysterie (die zweite Kindheitsperiode, nach dem Termin der
Latenzzeit), und in einem Fall von sehr später Entwicklung dieser
Affektion, den ich studieren konnte, ergab es sich klar, daß eine reale
Entwertung des bis dahin intakten Genitallebens die Bedingung für
die Regression und die Entstehung der Zwangs- neurose schuf."
Die metapsychologische Erklärung der Regression suche ich in einer
„Triebentmischung“, in der Ab- sonderung der erotischen Komponenten, die
mit Beginn der genitalen Phase zu den destruktiven Besetzungen der
sadistischen Phase hinzugetreten waren. Die Erzwingung der
Regression bedeutet den ersten Erfolg des Ichs im Abwehrkampf gegen
den Anspruch der Libido. Wir unterscheiden hier zweck- mäßig die
allgemeinere Tendenz der „Abwehr“ von der „Verdrängung“, die nur einer
der Mechanismen ist, deren sich die Abwehr bedient. Vielleicht noch
klarer als bei normalen und hysterischen Fällen erkennt man bei der
Zwangsneurose als den Motor der Abwehr Be an 2 n S. Die
Disposition zur Zwangsneurose. (Ges. Schriften, den Kastrationskomplex,
als das Abgewehrte die Strebungen des Ödipuskomplexes. Wir befinden
uns nun zu Beginn der Latenzzeit, die durch den Unter- gang des
Ödipuskomplexes, die Schöpfung oder Kon- solidierung des Über-Ichs und
die Aufrichtung der ethischen und ästhetischen Schranken im Ich
gekenn- zeichnet ist. Diese Vorgänge gehen bei der Zwangs- neurose über
das normale Maß hinaus; zur Zerstörung des Ödipuskomplexes tritt die
regressive Erniedrigung der Libido hinzu, das Über-Ich wird besonders
strenge und lieblos, das Ich entwickelt im Gehorsam gegen das
Über-Ich hohe Reaktionsbildungen von Gewissen- haftigkeit, Mitleid,
Reinlichkeit. Mit unerbittlicher, darum nicht immer erfolgreicher Strenge
wird die Versuchung zur Fortsetzung der frühinfantilen Onanie
verpönt, die sich nun an regressive (sadistisch-anale) Vor- stellungen
anlehnt, aber doch den unbezwungenen Anteil der phallischen Organisation
repräsentiert. Es liegt ein innerer Widerspruch darin, dafs gerade im
Interesse der Erhaltung der Männlichkeit (Kastrationsangst) jede
Betätigung dieser Männlichkeit verhindert wird, aber auch dieser
Widerspruch wird bei der Zwangsneurose nur übertrieben, er haftet bereits
an der normalen Art der Beseitigung des Ödipuskomplexes. Wie jedes
Übermaß den Keim zu seiner Selbstaufhebung in sich trägt, wird sich auch
an der Zwangsneurose bewähren, indem gerade die unterdrückte Onanie
sich in der Form der Zwangshandlungen eine immer weiter gehende Annäherung an
die Befriedigung erzwingt. Die Reaktionsbildungen im Ich der
Zwangsneuro- tiker, die wir als Übertreibungen der normalen Cha-
rakterbildung erkennen, dürfen wir als einen neuen Mechanismus der Abwehr
neben die Regression und die Verdrängung hinstellen. Sie scheinen bei
der Hysterie zu fehlen oder weit schwächer zu sein. Rückschauend
gewinnen wir so eine Vermutung, wodurch der Abwehrvorgang. der Hysterie
ausge- zeichnet ist. Es scheint, daß er sich auf die Ver- drängung
einschränkt, indem das Ich sich von der unliebsamen Triebregung abwendet,
sie dem Ablauf im Unbewußstten überläßt und. an ihren Schicksalen
keinen weiteren Anteil nimmt. So ganz ausschließend richtig kann das zwar
nicht sein, denn wir kennen ja den Fall, daf$ das hysterische Symptom
gleichzeitig die Erfüllung einer Strafanforderung des Über-Ichs
bedeutet, aber es mag einen allgemeinen Charakter im Verhalten des Ichs
bei der Hysterie beschreiben. Man kann es einfach als Tatsache
hinnehmen, daß sich bei der Zwangsneurose ein so strenges Über-Ich
bildet, oder man kann daran denken, daß der funda- mentale Zug dieser
Affektion die Libidoregression ist, und versuchen, auch den Charakter des
Über-Ichs mit ihr zu verknüpfen. In der Tat kann ja das Über- Ich,
das aus dem Es stammt, sich der dort einge- tretenen Regression und
Triebentmischung nicht entziehen. Es wäre nicht zu verwundern, wenn
es seinerseits härter, quälerischer, liebloser würde als bei
normaler Entwicklung. Während der Latenzzeit scheint die Abwehr der
ÖOnanieversuchung als Hauptaufgabe behandelt zu werden. Dieser Kampf
erzeugt eine Reihe von Symptomen, die bei den verschiedensten Personen in
typischer Weise wiederkehren und im allgemeinen den Charakter des
Zeremoniells tragen. Es ist sehr zu bedauern, daß sie noch nicht
gesammelt und systematisch analysiert worden sind; als früheste
Leistungen der Neurose würden sie über den hier verwendeten Mechanismus
der Symptombildung am ehesten Licht verbreiten. Sie zeigen bereits die
Züge, welche in einer späteren schweren Erkrankung so
verhängnisvoll hervortreten werden : die Unterbringung an den
Verrichtungen, die später wie automatisch ausgeführt werden sollen, am
Schlafengehen, Waschen und Ankleiden, an der Lokomotion, die Neigung
zur Wiederholung und zum Zeitaufwand. Warum das so geschieht, ist
noch keineswegs verständlich; die Subli- mierung analerotischer
Komponenten spielt dabei eine deutliche Rolle. Die Pubertät macht in der Entwicklung der Zwangsneurose
einen entscheidenden Abschnitt. Die in der Kindheit abgebrochene
Genitalorganisation setzt nun mit großer Kraft wieder ein. Wir wissen
aber, daß die Sexualentwicklung der Kinderzeit auch für den
Neubeginn der Pubertätsjahre die Richtung vorschreibt. Es werden also
einerseits die aggressiven Regungen der Frühzeit wieder erwachen,
anderseits muß ein mehr oder minder großer Anteil der neuen
libidinösen Regungen — in bösen Fällen deren Ganzes die durch die Regression
vorgezeichneten Bahnen einschlagen und als aggressive und destruktive
Absichten auftreten. Infolge dieser Verkleidung der erotischen Strebungen
und der starken Reaktions- bildungen im Ich, wird nun der Kampf gegen
die Sexualität unter ethischer Flagge weitergeführt. Das Ich
sträubt sich verwundert gegen grausame und gewalttätige Zumutungen, die
ihm vom Es her ins Bewufßstsein geschickt werden, und ahnt nicht, daß
es dabei erotische Wünsche bekämpft, darunter auch solche, die
sonst seinem Einspruch entgangen wären. Das überstrenge Über-Ich besteht
um so energischer auf der Unterdrückung der Sexualität, da sie so
abstoßende Formen angenommen hat. So zeigt sich der Konflikt bei der
Zwangsneurose nach zwei Rich- tungen verschärft, das Abwehrende ist
intoleranter, das Abzuwehrende unerträglicher geworden ; beides
durch den Einfluß des einen Moments, der Libido- regression.
Man könnte einen Widerspruch gegen manche unserer Voraussetzungen
darin finden, daß die unlieb- same Zwangsvorstellung überhaupt bewußt
wird. Allein es ist kein Zweifel, daß sie vorher den Prozeß
der Verdrängung durchgemacht hat. In den meisten ist der eigentliche
Wortlaut der aggressiven Triebregung dem Ich überhaupt nicht. bekannt. Es
gehört ein gutes Stück analytischer Arbeit dazu, um ihn bewußt zu
machen. Was zum Bewußtsein durchdringt, ist in der Regel nur ein
entstellter Ersatz entweder von einer verschwommenen, traumhaften
Unbestimmtheit, oder unkenntlich gemacht durch eine absurde Ver-
kleidung. Wenn die Verdrängung nicht den Inhalt der aggressiven
Triebregung angenagt hat, so hat sie doch gewiß den sie begleitenden
Affektcharakter beseitigt. So erscheint die Aggression dem Ich
nicht als ein Impuls, sondern, wie die Kranken sagen, als ein
bloßer ‚„‚Gedankeninhalt‘, der einen kalt lassen sollte. Das Merkwürdige
ist, daß dies doch nicht der Fall ist. Der bei der
Wahrnehmung der Zwangsvorstellung ersparte Affekt kommt nämlich an
anderer Stelle zum Vorschein. Das Über-Ich benimmt sich so, als
hätte keine Verdrängung stattgefunden, als wäre ihm die aggressive
Regung in ihrem richtigen Wortlaut und mit ihrem vollen Affektcharakter
bekannt, und behandelt das Ich auf Grund dieser Voraussetzung. Das Ich,
das sich einerseits schuldlos weiß, muß anderseits ein Schuldgefühl
verspüren und eine Verantwortlichkeit tragen, die es sich nicht zu
erklären weiß. Das Rätsel, das uns hiemit aufgegeben wird, ist aber nicht
so groß), als es zuerst erscheint. Das Verhalten des Über-Ichs ist durchaus:
verständlich, der Widerspruch im Ich beweist uns nur, daß es sich mittels
der Verdrängung gegen das Es verschlossen hat, während es den Einflüssen
aus dem Über-Ich voll zugänglich geblieben ist.‘ Der weiteren Frage,
warum das Ich sich nicht auch der peinigenden Kritik des Über-Ichs
zu entziehen sucht, macht die Nachricht ein Ende, daf dies wirklich in
einer großen Reihe von Fällen so geschieht. Es gibt auch Zwangsneurosen
ganz ohne Schuldbewußtsein; soweit wir es verstehen, hat sich das
Ich die Wahrnehmung desselben durch eine neue Reihe von Symptomen,
Bußhandlungen, Einschränkungen zur Selbstbestrafung, erspart. Diese Sym-
ptome bedeuten aber gleichzeitig Befriedigungen ma- sochistischer
Triebregungen, die ebenfalls aus der Regression eine Verstärkung bezogen
haben. Die Mannigfaltigkeit in den Erscheinungen der
Zwangsneurose ist eine so großartige, daß es noch keiner Bemühung
gelungen ist, eine zusammenhängende Synthese aller ihrer Variationen zu
geben. Man ist bestrebt, typische Beziehungen herauszuheben und
dabei immer in Sorge, andere nicht minder wichtige Regelmäßigkeiten zu
übersehen. Die allgemeine Tendenz der Symptombildung bei der
Zwangsneurose habe ich bereits beschrieben. Sie geht dahin, der
Ersatzbefriedigung immer mehr Raum ı) Vgl. Reik, Geständniszwang
und Strafbedürfnis, SEHE. u auf Kosten der Versagung zu schaffen.
Dieselben Symptome, die ursprünglich Einschränkungen des Ichs
bedeuteten, nehmen dank der Neigung des Ichs zur Synthese später auch die
von Befriedigungen an, und es ist unverkennbar, daf3 die letztere
Bedeutung all- mählich die wirksamere wird. Ein äußerst einge-
schränktes Ich, das darauf angewiesen ist, seine Befriedigungen in den
Symptomen zu suchen, wird das Ergebnis dieses Prozesses, der sich immer
mehr dem völligen Fehlschlagen des anfänglichen Abwehr- strebens
nähert. Die Verschiebung des Kräfteverhält- nisses zugunsten der
Befriedigung kann zu dem gefürchteten Endausgang der Willenslähmung des
Ichs führen, das für jede Entscheidung beinahe ebenso starke Antriebe
von der einen wie von der anderen Seite findet. Der überscharfe Konflikt
zwischen Es und Über-Ich, der die Affektion von Anfang an
beherrscht, kann sich so sehr ausbreiten, daf keine der Verrichtungen des
zur Vermittlung unfähigen Ichs der Einbeziehung in diesen Konflikt entgehen
kann. VI Während dieser Kämpfe kann man zwei symptom- bildende
Tätigkeiten des Ichs beobachten, die ein besonderes Interesse verdienen,
weil sie offenbare Surrogate der Verdrängung sind und darum deren
Tendenz und Technik schön erläutern können. Viel- leicht dürfen wir auch
das Hervortreten dieser Hilfs- und Ersatztechniken als einen Beweis dafür
auffassen, dafs die Durchführung der regelrechten Verdrängung auf
Schwierigkeiten stößt. Wenn wir erwägen, dafs bei der Zwangsneurose das
Ich soviel mehr Schauplatz der Symptombildung ist als bei der Hysterie,
daß dieses Ich zähe an seiner Beziehung zur Realität und zum
Bewußtsein festhält und dabei alle seine intellek- tuellen Mittel
aufbietet, ja, daß die Denktätigkeit überbesetzt, erotisiert, erscheint,
werden uns solche Variationen der Verdrängung vielleicht näher
gebracht. Die beiden angedeuteten Techniken sind das
Ungeschehenmachen und das Isolieren. Die erstere hat ein großes Anwendungsgebiet
und reicht weit zurück. Sie ist sozusagen negative Magie, sie will
durch motorische Symbolik nicht die Folgen eines Ereignisses (Eindruckes,
Erlebnisses), sondern dieses selbst „wegblasen“. Mit der Wahl
dieses letzten Ausdruckes ist darauf hingewiesen, welche Rolle
diese Technik nicht nur in der Neurose, sondern auch in den
Zauberhandlungen, Volksgebräuchen und im religiösen Zeremoniell spielt.
In der Zwangsneurose begegnet man dem Ungeschehenmachen zuerst bei
den zweizeitigen Symptomen, wo der zweite Akt den ersten aufhebt, so, als
ob nichts geschehen wäre, wo in Wirklichkeit beides geschehen ist. Das
zwangsneurotische Zeremoniell hat in der Absicht des Unge- schehenmachens
seine zweite Wurzel. Die erste ist die Verhütung, die Vorsicht, damit
etwas Bestimm- tes nicht geschehe, sich nicht wiederhole. Der
Unter- schied ist leicht zu fassen; die Vorsichtsmafßregeln sind
rationell, die „Aufhebungen‘ durch Ungeschehen- machen irrationell,
magischer Natur. Natürlich muß man vermuten, daß diese zweite Wurzel die
ältere, aus der animistischen Einstellung zur Umwelt stam- mende
ist. Seine Abschattung zum Normalen findet das Streben zum
Ungeschehenmachen in dem Ent- schluß ein Ereignis als ‚»on arrive“ zu
behandeln, aber dann unternimmt man nichts dagegen, kümmert sich
weder um das Ereignis noch um seine Folgen, während man in der Neurose
die Vergangenheit selbst aufzuheben, motorisch zu verdrängen
sucht. Dieselbe Tendenz kann auch die Erklärung des in der Neurose
so häufigen Zwanges zur Wieder- holung geben, bei dessen Ausführung sich
dann mancherlei einander widerstreitende Absichten zu-
sammenfinden. Was nicht in solcher Weise geschehen ist, wie es dem Wunsch
gemäß hätte geschehen sollen, wird durch die Wiederholung in anderer
Weise ungeschehen gemacht, wozu nun alle die Motive hin- zutreten,
bei diesen Wiederholungen zu verweilen. Im weiteren Verlauf der Neurose
enthüllt sich oft die Tendenz, ein traumatisches Erlebnis ungeschehen
zu machen, als ein symptombildendes Motiv von erstem Range. Wir
erhalten so unerwarteten Einblick in eine neue, motorische Technik der
Abwehr oder, wie wir hier mit geringerer Ungenauigkeit sagen können,
der Verdrängung. Die andere der neu zu beschreibenden
Techniken ist das der Zwangsneurose eigentümlich zukommende
Isolieren. Es bezieht sich gleichfalls auf die motorische Sphäre, besteht
darin, daß nach einem unlieb- samen Ereignis, ebenso nach einer im Sinne
der Neu- rose bedeutsamen eigenen Tätigkeit, eine Pause ein-
geschoben wird, in der sich nichts mehr ereignen darf, keine Wahrnehmung gemacht
und keine Aktion ausgeführt wird. Dies zunächst sonderbare
Verhalten verrät uns bald seine Beziehung. zur Verdrängung. Wir
wissen, bei Hysterie ist es möglich, einen trau- matischen Eindruck der
Amnesie. verfallen zu lassen, bei der Zwangsneurose ist dies oft nicht
gelungen, das Erlebnis ist nicht vergessen, aber es ist von seinem
Affekt entblößt und seine assoziativen Bezie- hungen sind unterdrückt
oder unterbrochen, so daß es wie isoliert dasteht und auch nicht im
Verlaufe der Denktätigkeit reproduziert wird. Der Effekt dieser
Isolierung ist dann der nämliche wie bei der Ver- drängung mit Amnesie.
Diese Technik wird also in den Isolierungen der Zwangsneurose
reproduziert, aber dabei auch in magischer Absicht motorisch
verstärkt. Was so auseinandergehalten wird, ist gerade das, was
assoziativ zusammengehört, die motorische Isolierung sol eine Garantie
für die Unterbrechung des Zusammenhanges im Denken geben. Einen Vorwand für dies Verfahren der Neurose gibt der normale
Vorgang der Konzentration. Was uns bedeutsam als Eindruck, als Aufgabe
erscheint, soll nicht durch die gleichzeitigen Ansprüche anderer
Denkverrichtun- gen oder Tätigkeiten gestört werden. Aber schon im
Normalen wird die Konzentration dazu verwendet, nicht nur das
Gleichgültige, nicht Dazugehörige, sondern vor allem das unpassende
Gegensätzliche fernzuhalten. Als das Störendste wird empfunden, was
ursprüng- lich zusammengehört hat und durch den Fortschritt der
Entwicklung auseinandergerissen wurde, z. B. die Äußerungen der
Ambivalenz des Vaterkomplexes in der Beziehung zu Gott oder die Regungen
der Ex- kretionsorgane in den Liebeserregungen. So hat das Ich normalerweise
eine große Isolierungsarbeit bei der Lenkung des Gedankenablaufes zu
leisten, und wir wissen, in der Ausübung der analytischen Technik
müssen wir das Ich dazu erziehen, auf diese sonst durchaus
gerechtfertigte Funktion zeitweilig zu ver- zichten. Wir
haben alle die Erfahrung gemacht, daß es dem Zwangsneurotiker besonders
schwer wird, die psychoanalytische Grundregel zu befolgen. Wahr-
scheinlich infolge der hohen Konfliktspannung zwischen seinem Über-Ich
und seinem Es ist sein Ich wach- samer, dessen Isolierungen schärfer. Es
hat während seiner Denkarbeit zuviel abzuwehren, die Einmengung
unbewußter Phantasien, die Äußerung der ambi- valenten Strebungen. Es darf sich nicht gehen lassen, befindet sich fortwährend in
Kampfbereitschaft. Diesen Zwang zur Konzentration und Isolierung
unterstützt es dann durch die magischen Isolierungsaktionen, die
als Symptome so auffällig und praktisch so bedeut- sam werden, an sich
natürlich nutzlos sind und den Charakter des Zeremoniells haben.
Indem es aber Assoziationen, Verbindung in Gedanken, zu verhindern
sucht, befolgt es eines der ältesten und fundamentalsten Gebote der
Zwangsneu- rose, das labu der Berührung. \Wenn man sich die Frage
vorlegt, warum die Vermeidung von Berührung, Kontakt, Ansteckung in der
Neurose eine so große Rolle spielt und zum Inhalt so
komplizierter Systeme gemacht wird, so findet man die Antwort, daß
die Berührung, der körperliche Kontakt, das nächste Ziel sowohl der
aggressiven wie der zärt- lichen Objektbesetzung ist. Der Eros will die
Berüh- rung, denn er strebt nach Vereinigung, Aufhebung der
Raumgrenzen zwischen Ich und geliebtem Objekt. Aber auch die Destruktion,
die vor der Erfindung der Fernwaffe nur aus der Nähe erfolgen
konnte, muß die körperliche Berührung, das Handanlegen,
voraussetzen. Eine Frau berühren ist im Sprach- gebrauch ein Euphemismus
für ihre Benützung als Sexualobjekt geworden. Das Glied nicht berühren
ist der Wortlaut des Verbotes der autoerotischen Befrie- digung. Da
die Zwangsneurose zu Anfang die ero- tische Berührung, dann nach der
Regression die als Aggression maskierte Berührung verfolgte, ist
nichts anderes für sie in so hohem Grade verpönt worden, nichts so
geeignet, zum Mittelpunkt eines Verbotsystems zu werden. Die Isolierung
ist aber Aufhebung der Kontaktmöglichkeit, Mittel, ein Ding jeder
Berührung zu entziehen, und wenn der Neurotiker auch einen Eindruck
oder eine Tätigkeit durch eine Pause isoliert, gibt er uns symbolisch zu
verstehen, daß er die Gedanken an sie nicht in assoziative Berührung
mit anderen kommen lassen will. So weit reichen unsere
Untersuchungen über die Symptombildung. Es verlohnt sich kaum, sie zu
resu- mieren, sie sind ergebnisarm und unvollständig ge- Siem.
Freud blieben, haben auch wenig gebracht, was nicht schon
früher bekannt gewesen wäre. Die Symptombildung bei anderen Affektionen
als bei den Phobien, der Konversionshysterie und der Zwangsneurose in
Betracht zu ziehen, wäre aussichtslos ; es ist zu wenig darüber
bekannt. Aber auch schon aus der Zusammenstellung dieser drei Neurosen
erhebt sich ein schwerwiegendes, nicht mehr aufzuschiebendes Problem. Für
alle drei ist die Zerstörung des Odipuskomplexes der Ausgang, in
allen, nehmen wir an, die Kastrationsangst der Motor des Ichsträubens.
Aber nur in den Phobien kommt solche Angst zum Vorschein, wird sie
einge- standen. Was ist bei den zwei anderen Formen aus ihr
geworden, wie hat das Ich sich solche Angst erspart? Das Problem
verschärft sich noch, wenn wir an die vorhin erwähnte Möglichkeit denken,
daß die Angst durch eine Art Vergährung aus der im Ablauf gestörten
Libidobesetzung selbst hervorgeht, und weiters: steht es fest, daß die
Kastrationsangst der einzige Motor der Verdrängung (oder Abwehr)
ist? Wenn man an die Neurosen der Frauen denkt, muß man das
bezweifeln, denn so sicher sich der Kastrations- komplex bei ihnen
konstatieren läßt, von einer Kastrationsangst im richtigen Sinne kann man
bei bereits vollzogener Kastration doch nicht sprechen. Kehren wir
zu den infantilen Tierphobien zu- rück, wir verstehen diese Fälle doch
besser als alle anderen. Das Ich muf also hier gegen eine
libidinöse Objektbesetzung des Es (die des positiven oder des
negativen Odipuskomplexes) einschreiten, weil es verstanden hat, ihr
nachzugeben brächte die Gefahr der Kastration mit sich. Wir haben das
schon erörtert und finden noch Anlaß, uns einen Zweifel klar zu
machen, der von dieser ersten Diskussion erübrigt ist. Sollen wir beim
kleinen Hans (also im Falle des posi- tiven Odipuskomplexes) annehmen,
daß es die zärt- liche Regung für die Mutter oder die aggressive
gegen den Vater ist, welche die Abwehr des Ichs heraus- fordert?
Praktisch schiene das gleichgültig, besonders da die beiden Regungen
einander bedingen, aber ein theoretisches Interesse knüpft sich an die
Frage, weil nur die zärtliche Strömung für die Mutter als eine rein
erotische gelten kann. Die aggressive ist wesent- lich vom
Destruktionstrieb abhängig, und wir haben immer geglaubt, bei der Neurose wehre
sich das Ich gegen Ansprüche der Libido, nicht der anderen Triebe.
In der Tat sehen wir, daf$ nach der Bildung der Phobie die zärtliche
Mutterbindung wie ver- schwunden ist, sie ist durch die Verdrängung
gründ- lich erledigt worden, an der aggressiven Regung hat sich
aber die Symptom- (Ersatz-) Bildung vollzogen. Im Falle des Wolfsmannes
liegt es einfacher, die ver- drängte Regung ist wirklich eine erotische,
die feminine Einstellung zum Vater, und ah ihr vollzieht sich auch
die Symptombildung. Es ist fast beschämend, daß wir nach so
langer Arbeit noch immer Schwierigkeiten in der Auffassung der fundamentalsten
Verhältnisse finden, aber wir haben uns vorgenommen, nichts zu
vereinfachen und nichts zu verheimlichen. Wenn wir nicht klar sehen
können, wollen wir wenigstens die Unklarheiten schart sehen. Was uns hier
im \Wege steht, ist offenbar eine Unebenheit in der Entwicklung unserer
Trieb- lehre. Wir hatten zuerst die Organisationen der Libido von
der oralen über die sadistisch-anale zur genitalen Stufe verfolgt und
dabei alle Komponenten des Sexual- triebs einander gleichgestellt. Später erschien uns der Sadismus als der Vertreter eines anderen, dem
Eros gegensätzlichen Triebes. Die neue Auffassung von den zwei
Iriebgruppen scheint die frühere Konstruktion von den sukzessiven Phasen
der Libidoorganisation zu sprengen. Die hilfreiche Auskunft aus dieser
Schwierigkeit brauchen wir aber nicht neu zu erfinden. Sie hat sich uns
längst geboten und lautet, daß wir es kaum jemals mit reinen
Triebregungen zu tun haben, sondern durchwegs mit Legierungen beider
Triebe in verschiedenen Mengenverhältnissen. Die sadistische
Objektbesetzung hat also auch ein Anrecht, als eine libidinöse behandelt
zu werden, die Organisationen der Libido brauchen nicht revidiert zu
werden, die aggressive Regung gegen den Vater kann mit dem- selben
Anrecht Objekt der Verdrängung werden wie die zärtliche für die Mutter.
Immerhin setzen wir als Stoff für spätere Überlegung die Möglichkeit
beiseite, daf3 die Verdrängung ein ProzefS ist, der eine beson- dere
Beziehung zur Genitalorganisation der Libido hat, daß das Ich zu anderen
Methoden der Abwehr greift, wenn es sich der Libido auf anderen
Stufen der Organisation zu erwehren hat, und setzen wir fort. Ein
Fall wie der des kleinen Hans gestattet uns keine Entscheidung; hier wird
zwar eine aggressive Regung durch Verdrängung erledigt, aber
nachdem die Genitalorganisation bereits erreicht ist. Wir wollen diesmal die Beziehung zur Angst nicht aus den Augen
lassen. Wir sagten, so wie das Ich die Kastrationsgefahr erkannt hat,
gibt es das Angstsignal und inhibiert mittels der Lust-Unlust-
Instanz auf eine weiter nicht einsichtliche Weise den bedrohlichen
Besetzungsvorgang im Es. Gleichzeitig vollzieht sich die Bildung der
Phobie. Die Kastrationsangst erhält ein anderes Objekt und einen
entstellten Ausdruck: vom Pferd gebissen (vom Wolf gefressen),
anstatt vom Vater kastriert zu werden. Die Ersatz- bildung hat zwei
offenkundige Vorteile, erstens, dafß sie einem Ambivalenzkonflikt
ausweicht, denn der Vater ist ein gleichzeitig geliebtes Objekt und
zweitens, daf3 sie dem Ich gestattet, die Angstentwicklung ein-
zustellen. Die Angst der Phobie ist nämlich eine fakultative, sie tritt
nur auf, wenn ihr Objekt Gegen- stand der Wahrnehmung wird. Das ist ganz
korrekt; nur dann ist nämlich die Gefahrsituation vorhanden. Von
einem abwesenden Vater braucht man auch die Kastration nicht zu
befürchten. Nun kann man den Vater nicht wegschaffen, er zeigt sich
immer, wann er will. Ist er aber durch das Tier ersetzt, so braucht
man nur den Anblick, d. h. die Gegenwart des lieres zu vermeiden, um frei
von Gefahr und Angst zu sein. Der kleine Hans legt seinem Ich also
eine Einschränkung auf, er produziert die Hemmung, nicht
auszugehen, um nicht mit Pterden zusammenzutreffen. Der kleine Russe hat
es noch bequemer, es ist kaum ein Verzicht für ihn, daß er ein gewisses
Bilderbuch nicht mehr zur Hand nimmt. Wenn die schlimme Schwester
ihm nicht immer wieder das Bild des auf- rechtstehenden Wolfes in diesem
Buch vor Augen halten würde, dürfte er sich vor seiner Angst
gesichert fühlen. Ich habe früher einmal der Phobie den
Charakter einer Projektion zugeschrieben, indem sie eine innere
Triebgefahr durch eine äußere Wahrnehmungsgefahr ersetzt. Das bringt den
Vorteil, daß man sich gegen die äußere Gefahr durch Flucht und Ver-
meidung der Wahrnehmung schützen kann, während gegen die Grefahr von
innen keine Flucht nützt. Meine Bemerkung ist nicht unrichtig, aber sie
bleibt an der Oberfläche. Der Triebanspruch ist ja nicht an sich
eine Gefahr, sondern nur darum, weil er eine richtige äußere Gefahr, die
der Kastration, mit sich bringt. So ist im Grunde bei der Phobie doch nur
eine äußere Gefahr durch eine andere ersetzt. Daß das Ich sich bei
der Phobie durch eine Vermeidung oder ein Hemmungssymptom der Angst
entziehen kann, stimmt sehr gut zur Auffassung, diese Angst sei nur
ein Affektsignal und an der ökonomischen Situation sei nichts geändert
worden. Die Angst der Tierphobien ist
also eine Affekt- reaktion des Ichs auf die Gefahr; die Gefahr, die
hier signalisiert wird, die der Kastration. Kein anderer Unterschied von
der Realangst, die das Ich normaler- weise in Gefahrsituationen äußert,
als daf3 der Inhalt der Angst unbewußt bleibt und nur in einer
Entstellung bewußt wird. Dieselbe Auffassung wird sich uns,
glaube ich, auch für die Phobien Erwachsener giltig erweisen,
wenngleich das Material, das die Neurose verarbeitet, sehr viel
reichhaltiger ist und einige Momente zur Symptombildung hinzukommen. Im
Grunde ist es das nämliche. Der Agoraphobe legt seinem Ich eine
Beschränkung auf, um einer Triebgefahr zu entgehen. Die Triebgefahr
ist die Versuchung, seinen erotischen Gelüsten nachzu- geben, wodurch er
wieder wie in der Kindheit die Gefahr der Kastration, oder eine ihr
analoge, herauf- beschwören würde. Als Beispiel führe ich den Fall
eines jungen Mannes an, der agoraphob wurde, weil er befürchtete,
den Lockungen von Prostituierten nach- zugeben und sich zur Strafe
Syphilis zu holen. Ich weiß wohl, daf viele Fälle eine
kompliziertere Struktur zeigen und dafs viele andere verdrängte
Trieb- regungen in die Phobie einmünden können, aber diese sind nur
auxiliär und haben sich meist nachträglich mit dem Kern der Neurose in
Verbindung gesetzt. Die Symptomatik der Agoraphobie wird dadurch
kompli- ziert, daßß das Ich sich nicht damit begnügt, auf etwas zu
verzichten; es tut noch etwas hinzu, um der Situation ihre Gefahr zu
benehmen. Diese Zutat ist gewöhnlich eine zeitliche Regression in die
Kinderjahre (im extremen Fall bis in den Mutterleib, in Zeiten, in denen
man gegen die heute drohenden Gefahren geschützt war) und tritt als
die Bedingung auf, unter der der Verzicht unter- bleiben kann. So kann
der Agoraphobe auf die Straße gehen, wenn er wie ein kleines Kind von
einer Person seines Vertrauens begleitet wird. Dieselbe Rücksicht
mag ihm auch gestatten, allein auszugehen, wenn er sich nur nicht
über eine bestimmte Strecke von seinem Haus entfernt, nicht in Gegenden
geht, die er nicht gut kennt und wo er den Leuten nicht bekannt ist. In der Aus- wahl dieser Bestimmungen zeigt sich der Einfluß
der infantilen Momente, die ihn durch seine Neurose be- herrschen.
Ganz eindeutig, auch ohne solche infantile Regression, ist die Phobie vor
dem Alleinsein, die im Grunde der Versuchung zur einsamen Önanie
aus- weichen will. Die Bedingung der infantilen Regression ist
natürlich die zeitliche Entfernung von der Kindheit. Die Phobie
stellt sich in der Regel her, nachdem unter gewissen Umständen auf der
Straße, auf der Eisenbahn, im Alleinsein — ein erster Angstanfall
erlebt worden ist. Dann ist die Angst gebannt, tritt aber jedesmal wieder
auf, wenn die schützende Be- dingung nicht eingehalten werden kann. Der
Mechanismus der Phobie tut als Abwehrmittel gute Dienste und zeigt
eine große Neigung zur Stabilität. Eine Fort- setzung des Abwehrkampfes,
der sich jetzt gegen das Symptom richtet, tritt häufig, aber nicht
notwendig, ein. Was wir über die Angst bei den Phobien
erfahren haben, bleibt noch für die Zwangsneurose verwertbar. Es
ist nicht schwierig, die Situation der Zwangsneurose auf die der Phobie
zu reduzieren. Der Motor aller späteren Symptombildung ist hier offenbar
die Angst des Ichs vor seinem Über-Ich. Die Feindseligkeit des
Über- Ichs ist die Gefahrsituation, der sich das Ich entziehen muß.
Hier fehlt jeder Anschein einer Projektion, die Gefahr ist durchaus
verinnerlicht. Aber wenn wir uns fragen, was das Ich von seiten des Über-Ichs
befürchtet, so drängt sich die Auffassung auf, dafs die Strafe des
Über-Ichs eine Fortbildung der Kastrationsstrafe ist. Wie das Über-Ich
der unpersönlich gewordene Vater ist, so hat sich die Angst vor der durch
ihn drohenden Kastration zur unbestimmten sozialen oder Gewissens-
angst umgewandelt. Aber diese Angst ist gedeckt, das Ich entzieht sich
ihr, indem es die ihm auferlegten Gebote, Vorsichten und Bußhandlungen
gehorsam aus- führt. Wenn es daran gehindert wird, dann tritt sofort
ein äußerst peinliches Unbehagen auf, in dem wir das Äquivalent der Angst
erblicken dürfen, das die Kranken selbst der Angst gleichstellen. Unser
Ergebnis lautet also: Die Angst ist die Reaktion auf die Gefahr-
situation; sie wird dadurch erspart, daß das Ich etwas tut, um die
Situation zu vermeiden oder sich ihr zu entziehen. Man könnte nun sagen,
die Symptome werden geschaffen, um die Angstentwicklung zu ver-
meiden, aber das läßt nicht tief blicken. Es ist richtiger zu sagen, die
Symptome werden geschaffen, um die Gefahrsituation zu vermeiden, die
durch die Angst- entwicklung signalisiert wird. Diese Gefahr war
aber in den bisher betrachteten Fällen die Kastration oder etwas
von ihr Absgeleitetes. Wenn die Angst die Reaktion des Ichs auf
die Gefahr ist, so liegt es nahe, die traumatische Neurose, welche
sich so häufig an überstandene Lebensgefahr anschliefst, als direkte
Folge der Lebens- oder Todesangst mit Beiseitesetzung der Abhängigkeiten des
Ichs und der Kastration aufzufassen. Das ist auch von den meisten
Beobachtern der traumatischen Neurosen des letzten Krieges geschehen, und
es ist triumphierend ver- kündet worden, nun sei der Beweis erbracht,
dafs eine Gefährdung des Selbsterhaltungstriebes eine Neurose
erzeugen könne ohne jede Beteiligung der Sexualität und ohne Rücksicht
auf die komplizierten Annahmen der Psychoanalyse. Es ‘ist in der Tat
aufserordentlich zu bedauern, daß nicht eine einzige verwertbare
Analyse einer traumatischen Neurose vorliegt. Nicht wegen des
Widerspruches gegen die ätiologische Bedeutung der Sexualität, denn
dieser ist längst durch die Einführung des Narziffmus aufgehoben worden,
der die libidinöse Besetzung des Ichs in eine Reihe mit den Objekt-
besetzungen bringt und die libidinöse Natur des Selbst- erhaltungstriebes
betont, sondern weil wir durch den Ausfall dieser Analysen die kostbarste
Gelegenheit zu entscheidenden Aufschlüssen über das Verhältnis
zwischen Angst und Symptombildung versäumt haben. Es ist nach allem, was
wir von der Struktur der simpleren Neurosen des täglichen Lebens wissen,
sehr unwahrscheinlich, daß eine Neurose nur durch die objektive
Tatsache der Gefährdung ohne Beteiligung der tieferen unbewufßten
Schichten des seelischen Apparats zustande kommen sollte. Im Unbewußsten
ist aber nichts vorhanden, was unserem Begriff der Lebens-
vernichtung Inhalt geben kann. Die Kastration wird sozusagen vorstellbar
durch die tägliche Erfahrung der Trennung vom Darminhalt und durch den
bei der Entwöhnung erlebten Verlust der mütterlichen Brust; etwas
dem Tod Ähnliches ist aber nie erlebt worden oder hat wie die Ohnmacht
keine nachweisbare Spur hinterlassen. Ich halte darum an der Vermutung
fest, dafs die Todesangst als Analogon der Kastrationsangst
aufzufassen ist, und dafß die Situation, auf welche das Ich reagiert, das
Verlassensein vom schützenden Über- Ich den Schicksalsmächten ist, womit die
Sicherung gegen alle Gefahren ein Ende hat. Außer- dem kommt in Betracht,
daf3 bei den Erlebnissen, die zur traumatischen Neurose führen, äußerer
Reizschutz durchbrochen wird und übergroße Erregungsmengen an den
seelischen Apparat herantreten, so dafs hier die zweite Möglichkeit
vorliegt, daß Angst nicht nur als Affekt signalisiert, sondern auch aus
den ökono- mischen Bedingungen der Situation neu erzeugt wird.
Durch die letzte Bemerkung, das Ich sei durch regelmäßig
wiederholte Objektverluste auf die Kastration vorbereitet worden, haben
wir eine neue Auffassung der Angst gewonnen. Betrachteten wir sie bisher
als Affektsignal der Gefahr, so erscheint sie uns nun, da es sich
so oft um die Gefahr der Kastration handelt, als die Reaktion auf einen
Verlust, eine Trennung. Mag auch mancherlei, was sich sofort ergibt,
gegen diesen Schluß sprechen, so muß uns doch eine sehr merkwürdige
Übereinstimmung auffallen. Das erste Angsterlebnis des Menschen wenigstens
ist die Geburt und diese bedeutet objektiv die Trennung von der
Mutter, könnte einer Kastration der Mutter (nach der Gleichung Kind —
Penis) verglichen werden. Nun wäre es sehr befriedigend, wenn die Angst
als Symbol einer Trennung bei jeder späteren Irennung wiederholt
würde, aber leider steht einer Verwertung dieses Zu- sammenstimmens im
Wege, daß ja die Geburt subjektiv nicht als Trennung von der Mutter
erlebt wird, da diese als Objekt dem durchaus narzifßstischen Fötus
völlig unbekannt ist. Ein anderes Bedenken wird lauten, daß uns die
Affektreaktionen auf eine Trennung bekannt sind, und daß wir sie als
Schmerz und Trauer, nicht als Angst empfinden. Allerdings erinnern
wir uns, wir haben bei der Diskussion der Trauer auch nicht verstehen
können, warum sie so schmerzhaft ist. Es ist Zeit, sich zu besinnen. Wir
suchen offenbar nach einer Einsicht, die uns das Wesen der Angst
erschließt, nach einem Entweder—Oder, das die Wahrheit über sie vom
Irrtum scheidet. Aber das ist schwer zu haben, die Angst ist nicht
einfach zu erfassen. Bisher haben wir nichts erreicht als
Widersprüche, zwischen denen ohne Vorurteil keine Wahl möglich war.
Ich schlage jetzt vor, es anders zu machen; wir wollen unparteisch alles
zusammentragen, was wir von der Angst aussagen können, und dabei auf die
Erwartung einer nahen Synthese verzichten. Die Angst ist also in
erster Linie etwas Empfundenes. Wir heißen sie einen Affektzustand,
obwohl wir auch nicht wissen, was ein Affekt ist. Sie hat als
Empfindung offenbarsten Unlustcharakter, aber das erschöpft nicht
ihre Qualität; nicht jede Unlust können wir Angst heifßen. Es gibt andere
Empfindungen mit Unlust- charakter (Spannungen, Schmerz, Trauer) und
die Angst mufS außer dieser Unlustqualität andere Besonder- heiten
haben. Eine Frage: Werden wir es dazu bringen, die Unterschiede zwischen
diesen verschiedenen Unlust- affekten zu verstehen? Aus der
Empfindung der Angst können wir immer- hin etwas entnehmen. Ihr
Unlustcharakter scheint eine besondere Note zu haben; das ist schwer zu
beweisen, aber wahrscheinlich; es wäre nichts Auffälliges. Aber
außer diesem schwer isolierbaren Eigencharakter nehmen wir an der Angst
bestimmtere körperliche Sensationen wahr, die wir auf bestimmte Organe
beziehen. Da uns die Physiologie der Angst hier nicht interessiert,
genügt es uns, einzelne Repräsentanten dieser Sensa- tionen
hervorzuheben, also die häufigsten und deut- lichsten an den
Atmungsorganen und am Herzen. Sie sind uns Beweise dafür, dafß motorische
Inner- vationen, also Abfuhrvorgänge an dem Granzen der Angst
Anteil haben. Die Analyse des Angstzustandes ergibt also ı) einen
spezifischen Unlustcharakter, 2) Abfuhraktionen, 3) die Wahrnehmungen
derselben. Die Punkte 2) und 3) ergeben uns bereits einen
Unterschied gegen die ähnlichen Zustände, z. B. der Trauer und des
Schmerzes. Bei diesen gehören die motorischen Äußerungen nicht dazu; wo
sie vor- handen sind, sondern sie sich deutlich nicht als Bestand-
teile des Ganzen, sondern als Konsequenzen oder Reaktionen darauf. Die
Angst ist also ein besonderer Unlustzustand mit Abfuhraktionen auf
bestimmte Bahnen. Nach unseren allgemeinen Anschauungen werden wir
glauben, daß der Angst eine Steigerung der Erregung zugrunde liegt, die
einerseits den Unlustcharakter schafft, andererseits sich durch die
genannten Abfuhren erleichtert. Diese rein physiologische
Zusammenfassung wird uns aber kaum genügen; wir sind versucht,
anzunehmen, dafß ein historisches Moment da ist, welches die Sensationen
und Innervationen der Angst fest an einander bindet. Mit anderen Worten,
daß der Angstzustand die Reproduktion eines Erlebnisses ist, das
die Bedingungen einer solchen Reizsteigerung und der Abfuhr auf bestimmte
Bahnen enthielt, wodurch also die Unlust der Angst ihren spezifischen
Charakter erhält. Als solches vorbildliches Erlebnis bietet sich
uns für den Menschen die Geburt, und darum sind wir geneigt, im
Angstzustand eine Reproduktion des Greburtstraumas zu sehen. Wir
haben damit nichts behauptet, was der Angst eine Ausnahmsstellung unter
den Affektzuständen ein- räumen würde. Wir meinen, auch die anderen
Affekte sind Reproduktionen alter, lebenswichtiger, eventuell
vorindividueller Ereignisse und wir bringen sie als allgemeine, typische,
mitgeborene hysterische Anfälle in Vergleich mit den spät und individuell
erworbenen Attacken der hysterischen Neurose, deren Genese und
Bedeutung als Erinnerungssymbole uns durch die Analyse deutlich geworden
ist. Natürlich wäre es sehr wünschenswert, diese Auffassung für eine
Reihe anderer Afiekte beweisend durchführen zu können, wovon wir
heute weit entfernt sind. Die Zurückführung der Angst auf das
Geburts- ereignis hat sich gegen naheliegende Einwände zu
verteidigen. Die Angst ist eine wahrscheinlich allen Organismen,
jedenfalls allen höheren zukommende Reaktion, die Geburt wird nur von den
Säugetieren erlebt, und es ist fraglich, ob sie bei allen diesen
die Bedeutung eines Traumas hat. Es gibt also Angst ohne
Geburtsvorbild. Aber dieser Einwand setzt sich über die Schranken
zwischen Biologie und Psychologie hinaus. Gerade weil die Angst eine
biologisch unent- behrliche Funktion zu erfüllen hat, als Reaktion
auf den Zustand der Gefahr, mag sie bei verschiedenen Lebewesen auf
verschiedene Art eingerichtet worden sein. Wir wissen auch nicht, ob sie
bei dem Menschen ferner stehenden Lebewesen denselben Inhalt an
Sen- sationen und Innervationen hat wie beim Menschen. Das hindert
also nicht, daf3 die Angst beim Menschen den Geburtsvorgang zum Vorbild
nimmt. Wenn dies die Struktur und die Herkunft der Angst ist, so
lautet die weitere Frage: Was ist ihre Funktion? Bei welchen
Gelegenheiten wird sie reprodu- ziert? Die Antwort scheint naheliegend
und zwingend zu sein. Die Angst entstand als Reaktion auf einen
Zustand der Gefahr, sie wird nun regelmäßig reprodu- ziert, wenn sich ein
solcher Zustand wieder einstellt. Dazu ist aber einiges zu
bemerken. Die Inner- vationen des ursprünglichen Angstzustandes waren
wahrscheinlich auch sinnvoll und zweckmäßig, ganz a so wie die Muskelaktionen des ersten
hysterischen An- falls. Wenn man den hysterischen Anfall erklären
will, braucht man ja nur die Situation zu suchen, in der die
betreffenden Bewegungen Anteile einer berech- tigten Handlung waren. So
hat wahrscheinlich während der Geburt die Richtung der Innervation auf
die Atmungsorgane die Tätigkeit der Lungen vorbereitet, die
Beschleunigung des Herzschlags gegen die Ver- giftung des Blutes arbeiten
wollen. Diese Zweckmäßig- keit entfällt natürlich bei der späteren
Reproduktion des Angstzustandes als Affekt, wie sie auch beim
wiederholten hysterischen Anfall vermißt wird. Wenn also das Individuum
in eine neue Gefahrsituation gerät, so kann es leicht unzweckmäßig
werden, daß es mit dem Angstzustand, der Reaktion auf eine frühere
Gefahr antwortet, anstatt die der jetzigen adäquaten Reaktion
einzuschlagen. Die Zweckmäßigkeit tritt aber wieder hervor, wenn die
Gefahrsituation als heran- nahend erkannt und durch den Angstausbruch
signa- lisiert wird. Die Angst kann dann sofort durch ge- eignetere
Maßnahmen abgelöst werden. Es sondern sich also sofort zwei Möglichkeiten
des Auftretens der Angst: die eine, unzweckmäßige, in einer neuen
Gefahr- situation, die andere, zweckmäßige, zur Signalisierung und
Verhütung einer solchen. Was aber ist eine „Gefahr‘‘? Im Geburtsakt
besteht eine objektive Gefahr für die Erhaltung des Lebens, wir wissen,
was das in der Realität bedeutet. Aber psychologisch sagt es uns gar
nichts. Die Gefahr der Geburt hat noch keinen psychischen Inhalt.
Sicherlich dürfen wir beim Fötus nichts voraussetzen, was sich irgendwie
einer Art von Wissen um die Möglichkeit eines Ausgangs in
Lebensvernichtung an- nähert. Der Fötus kann nichts anderes
bemerken als eine großartige Störung in der Ökonomie seiner narzißtischen
Libido. Große Erregungssummen dringen zu ihm, erzeugen neuartige
Unlustempfindungen, manche Organe erzwingen sich erhöhte Besetzungen, was
wie ein Vorspiel der bald beginnenden Objektbesetzung ist; was
davon wird als Merkzeichen einer ‚Grefahr- situation‘ Verwertung
finden? Wir wissen leider viel zu wenig von der seelischen
Verfassung des Neugeborenen, um diese Frage direkt zu beantworten. Ich
kann nicht einmal für die Brauch- barkeit der eben gegebenen Schilderung
einstehen. Es ist leicht zu sagen, das Neugeborene werde den Angst-
affekt in allen Situationen wiederholen, die es an das Geburtsereignis
erinnert. Der entscheidende Punkt bleibt aber, wodurch und woran es
erinnert wird. Es bleibt uns kaum etwas anderes übrig, als
die Anlässe zu studieren, bei denen der Säugling oder das ein wenig
ältere Kind sich zur Angstentwicklung bereit zeigt. Rank hat in Das
Irauma der Geburt einen sehr energischen Versuch gemacht, [Rank, Das
Trauma der Geburt und seine Bedeutung für die Psychoanalyse. Internat.
Psychoanalyt. Bibliothek. die Beziehungen der frühesten Phobien des
Kindes zum Eindruck des Geburtsereignisses zu erweisen, allein ich
kann ihn nicht für geglückt halten. Man kann ihm zweierlei vorwerfen:
Erstens, dafs er auf der Vor- aussetzung beruht, das Kind habe bestimmte
Sinnes- eindrücke, insbesondere visueller Natur, bei seiner Geburt
empfangen, deren Erneuerung die Erinnerung an das Greburtstrauma und
somit die Angstreaktion hervorrufen kann. Diese Annahme ist völlig
unbewiesen und sehr unwahrscheinlich; es ist nicht glaubhaft, dafs
das Kind andere als taktileund Allgemeinsensationen vom Geburtsvorgang
bewahrt hat. Wenn es also später Angst vor kleinen Tieren zeigt, die in
Löchern ver- schwinden oder aus diesen herauskommen, so erklärt
Rank diese Reaktion durch die Wahrnehmung einer Analogie, dieaber dem
Kinde nicht auffällig werden kann. Zweitens, daß Rank in der Würdigung
dieser späteren Angstsituationen je nach Bedürfnis die Erinnerung an
die glückliche intrauterine Existenz oder an deren trauma- tische
Störung wirksam werden läßt, womit der Willkür in der Deutung Tür und Tor
geöffnet wird. Einzelne Fälle dieser Kinderangst widersetzen sich direkt
der Anwendung des Rank schen Prinzips. Wenn das Kind in Dunkelheit
und Einsamkeit gebracht wird, so sollten wir erwarten, dafs es diese
Wiederherstellung der intrauterinen Situation mit Befriedigung aufnimmt,
und wenn die Tatsache, daß es gerade dann mit Angst reagiert, auf
die Erinnerung an die Störung dieses Glücks durch die Geburt zurückgeführt
wird, so kann man das Gezwungene dieses Erklärungsversuches:nicht
länger verkennen. Ich muf3 den Schluß ziehen, daß die
frühesten Kindheitsphobien eine direkte Rückführung auf den
Eindruck des Geburtsaktes nicht zulassen und sich überhaupt bis jetzt der
Erklärung entzogen haben. Fine gewisse Angstbereitschaft des Säuglings
ist unver- kennbar. Sie ist nicht etwa unmittelbar nach der Geburt
am stärksten, um dann langsam abzunehmen, sondern tritt erst später mit
dem Fortschritt der seelischen Entwicklung hervor und hält über
eine gewisse Periode der Kinderzeit an. Wenn sich solche
Frühphobien über diese Zeit hinaus erstrecken, er- wecken sie den
Verdacht einer neurotischen Störung, wiewohl uns ihre Beziehung zu den
späteren deutlichen Neurosen der Kindheit keineswegs einsichtlich
ist. Nur wenige Fälle der kindlichen Angstäufßserung sind uns
verständlich; an diese werden wir uns halten müssen. So, wenn das Kind
allein, in der Dunkelheit, ist und wenn es eine fremde Person an Stelle
der ihm vertrauten (der Mutter) findet. Diese drei Fälle reduzieren
sich auf eine einzige Bedingung, das Vermissen der geliebten (ersehnten)
Person. Von da an ist aber der Weg zum Verständnis der Angst und zur
Vereinigung der Widersprüche, die sich an sie zu knüpfen scheinen,
frei. Das Erinnerungsbild der ersehnten Person wird GB .,
Siem. Freud gewif) intensiv, wahrscheinlich zunächst
halluzinatorisch besetzt. Aber das hat keinen Erfolg und nun hat es
den Anschein, als ob diese Sehnsucht in Angst um- schlüge. Es macht
geradezu den Eindruck, als wäre diese Angst ein Ausdruck der
Ratlosigkeit, als wüßte das noch sehr unentwickelte Wesen mit dieser
sehn- süchtigen Besetzung nichts Besseres anzufangen. Die Angst
erscheint so. als Reaktion auf das Vermissen des Objekts und es drängen
sich uns die Analogien auf, daf®? auch die Kastrationsangst die
Trennung von einem hochgeschätzten Objekt zum Inhalt hat, und daß
die ursprünglichste Angst (die „Urangst“ der Geburt) bei der Trennung von
der Mutter ent- stand. Die nächste Überlegung führt über
diese Betonung des Objektverlustes hinaus. Wenn der Säugling nach
der Wahrnehmung der Mutter verlangt, so doch nur darum, weil er bereits
aus Erfahrung weiß, daß sie alle seine Bedürfnisse ohne Verzug
befriedigt. Die Situation, die er als „Gefahr“ wertet, gegen die er
versichert sein will, ist also die der Unbefriedigung, des Anwachsens der
Bedürfnisspannung, gegen die er ohnmächtig ist. Ich meine, von
diesem Gesichtspunkt aus ordnet sich alles ein; die Situation der
Unbefriedigung, in der Reizgrößen eine unlustvolle Höhe erreichen, ohne
Bewältigung durch psychische Verwendung und Abfuhr zu finden, muß für den
Säug- ling die Analogie mit dem Geburtserlebnis, die Wiederholung der
Gefahrsituation sein; das beiden Gemein- same ist die ökonomische Störung
durch das Anwachsen der Erledigung heischenden Reizgrößen, dieses
Moment also der eigentliche Kern der „Gefahr“. In beiden Fällen
tritt die Angstreaktion auf, die sich auch noch beim Säugling als
zweckmäßig erweist, indem die Richtung der Abfuhr auf Atem- und
Stimmuskulatur nun die Mutter herbeiruft, wie sie früher die
Lungentätigkeit zur Wegschaffung der inneren Reize anregte. Mehr als
diese Kennzeichnung der Gefahr braucht das Kind von seiner Geburt nicht
bewahrt zu haben. Mit der Erfahrung, daß ein äußeres, durch
Wahr- nehmung erfaßbares Objekt der an die Geburt mahnenden
gefährlichen Situation ein Ende machen kann, ver- schiebt sich nun der
Inhalt der Gefahr von der öko- nomischen Situation auf seine Bedingung,
den Objekt- verlust. Das Vermissen der Mutter wird nun die Gefahr,
bei deren Eintritt der Säugling das Angst- signal gibt, noch ehe die
gefürchtete ökonomische Situation eingetreten ist. Diese Wandlung
bedeutet einen ersten großen Fortschritt in der Fürsorge für die
Selbsterhaltung, sie schließt gleichzeitig den Über- gang von der
automatisch ungewollten Neuentstehung der Angst zu ihrer beabsichtigten
Reproduktion als Signal der Gefahr ein. In beiden Hinsichten,
sowohl als automatisches Phänomen wie als rettendes Signal, zeigt sich
die Angst als Produkt der psychischen Hilflosigkeit des Säuglings,
welche das selbstverständliche Gegenstück seiner biologischen
Hilflosigkeit ist. Das auffällige Zusammentreffen, daß sowohl die
Geburtsangst wie die Säuglingsangst die Bedingung der Trennung von
der Mutter anerkennt, bedarf keiner psychologischen Deutung; es
erklärt sich biologisch einfach genug aus der Tatsache, daf3 die Mutter,
die zuerst alle Bedürf- nisse des Fötus durch die Einrichtungen ihres
Leibes beschwichtigt hatte, dieselbe Funktion zum Teil mit anderen
Mitteln auch nach der Geburt fortsetzt. Intrauterinleben und erste
Kindheit sind weit mehr ein Kontinuum, als uns die auffällige Zensur des
Geburtsaktes glauben läßt. Das psychische Mutterobjekt ersetzt dem Kinde
die biologische Fötalsituation. Wir dürfen darum nicht vergessen, daf3 im
Intrauterin- leben die Mutter kein Objekt war, und daß es damals
keine Objekte gab. Es ist leicht zu sehen, daß es in diesem
Zusammen- hange keinen Raum für ein Abreagieren des Geburtstraumas gibt,
und daß eine andere Funktion der Angst als die eines Signals zur
Vermeidung der Gefahrsituation nicht aufzufinden ist. Die Angst-
bedingung des Objektverlustes trägt nun noch ein ganzes Stück weiter.
Auch die nächste Wandlung der Angst, die in der phallischen Phase
auftretende Kastrationsangst, ist eine Irennungsangst und an die-
selbe Bedingung gebunden. Die Gefahr ist hier die Irennung von dem
Genitale. Ein vollberechtigt scheinender Gedankengang von Ferenczi läßt
uns hier die Linie des Zusammenhanges mit den früheren Inhalten der
Gefahrsituation deutlich erkennen. Die hohe narzifßtische Einschätzung
des Penis kann sich darauf berufen, daß der Besitz dieses Organs die
Gewähr für eine Wiedervereinigung mit der Mutter (dem Mutterersatz) im
Akt des Koitus enthält. Die Beraubung dieses Gliedes ist soviel wie eine
neuerliche Trennung von der Mutter, bedeutet also wiederum, einer
unlust- vollen Bedürfnisspannung (wie bei der Geburt) hilflos
ausgeliefert zu sein. Das Bedürfnis, dessen Ansteigen gefürchtet wird,
ist aber nun ein sSpezialisiertes, das der genitalen Libido, nicht mehr
ein beliebiges wie in der Säuglingszeit. Ich füge hier an, daf3 die
Phantasie der Rückkehr in den Mutterleib der Koitusersatz des
Impotenten (durch die Kastrationsdrohung Gehemmten) ist. Im Sinne
Ferenczis kann man sagen, das Individuum, das sich zur Rückkehr in den
Mutter- leib durch sein Genitalorgan vertreten lassen wollte,
ersetzt nun regressiv dies Organ durch seine ganze Person.
Die Fortschritte in der Entwicklung des Kindes, die Zunahme seiner
Unabhängigkeit, die schärfere Sonderung seines seelischen Apparats in
mehrere Instanzen, das Auftreten neuer Bedürfnisse, können nicht ohne
Einfluß auf den Inhalt der Gefahrsituation bleiben. Wir haben dessen
Wandlung vom Verlust des Mutterobjekts zur Kastration verfolgt und
sehen den nächsten Schritt durch die Macht des Über-Ichs
verursacht. Mit dem Unpersönlichwerden der Eltern- instanz, von der man
die Kastration befürchtete, wird die Gefahr unbestimmter. Die
Kastrationsangst ent- wickelt sich zur Gewissensangst, zur sozialen
Angst. Es ist jetzt nicht mehr so leicht anzugeben, was die Angst
befürchtet. Die Formel: „Trennung, Ausschluß aus der Horde‘, trifft nur
jenen späteren Anteil des Über-Ichs, der sich in Anlehnung an soziale
Vorbilder entwickelt hat, nicht den Kern des Über-Ichs, der der
introjizierten Elterninstanz entspricht. Allgemeiner aus- gedrückt, ist
es der Zorn, die Strafe. des Über-Ichs, der Liebesverlust von dessen
Seite, den das Ich als Gefahr wertet und mit dem Angstsignal
beantwortet. Als letzte Wandlung dieser Angst vor dem Über-Ich ist
mir die Todes-(Lebens-)Angst, die Angst vor der Projektion des Über-Ichs
in den Schicksalsmächten erschienen. Ich habe früher einmal
einen gewissen Wert auf die Darstellung gelegt, daß es die bei der
Verdrän- gung abgezogene Besetzung ist, welche die Verwen- dung als
Angstabfuhr erfährt. Das erscheint mir nun heute kaum wissenswert. Der
Unterschied liegt darin, daß ich vormals die Angst in jedem Falle durch
einen ökonomischen Vorgang automatisch entstanden glaubte, während
die jetzige Auffassung der Angst als eines vom Ich beabsichtigten Signals
zum Zweck der Beeinflussung der Lust-Unlustinstanz uns von diesem
ökonomischen Zwange unabhängig macht. Es ist natürlich nichts gegen die
Annahme zu sagen, daß das Ich gerade die durch die Abziehung bei
der Verdrängung frei gewordene Energie zur Erweckung des Affekts
verwendet, aber es ist bedeutungslos geworden, mit welchem Anteil Energie
dies geschieht. Ein anderer Satz, den ich einmal
ausgesprochen, verlangt nun nach Überprüfung im Lichte unserer
neuen Auffassung. Es ist die Behauptung, das Ich sei die eigentliche
Angststätte; ich meine, sie wird sich als zutreffend erweisen. Wir haben
nämlich keinen Anlaß, dem Über-Ich irgendeine Angstäußerung zuzu-
teilen. Wenn aber von einer „Angst des Es die Rede ist, so hat man nicht
zu widersprechen, sondern einen ungeschickten Ausdruck zu korrigieren.
Die Angst ist ein Affektzustand, der natürlich nur vom Ich verspürt
werden kann. Das Es kann nicht Angst haben wie das Ich, es ist keine
Organisation, kann Gefahrsituationen nicht beurteilen. Dagegen ist es
ein überaus häufiges Vorkommnis, daß sich im Es Vor- gänge vorbereiten
oder vollziehen, die dem Ich Anlaß zur Angstentwicklung geben; in der Tat
sind die wahrscheinlich frühesten Verdrängungen, wie die Mehrzahl
aller späteren, durch solche Angst des Ichs vor einzelnen Vorgängen im Es
motiviert. Wir unter- scheiden hier wiederum mit gutem Grund die
beiden Fälle, daß sich im Es etwas ereignet, was eine der 88
Siem. Freud Gefahrsituationen fürs Ich aktiviert und es
somit bewegt, zur Inhibition das Angstsignal zu geben, und den
anderen Fall, daß sich im Es die dem Geburts- trauma analoge Situation
herstellt, in der es automatisch zur Angstreaktion kommt. Man bringt die
beiden Fälle einander näher, wenn man hervorhebt, daf der zweite
der ersten und ursprünglichen Gefahrsituation entspricht, der erste aber
einer der später aus ihr abgeleiteten Angstbedingungen. Oder auf die
wirklich vorkommenden Affektionen bezogen: daß der zweite Fall in
der Ätiologie der Aktualneurosen verwirklicht ist, der erste für die der
Psychoneurosen charakteri- stisch bleibt. Wir sehen nun, daf
wir frühere Ermittlungen nicht zu entwerten, sondern bloß mit den
neueren Einsichten in Verbindung zu bringen brauchen. Es ist nicht
abzuweisen, daß bei Abstinenz, mißbräuchlicher Störung im Ablauf der
Sexualerregung, Ablenkung derselben von ihrer psychischen Verarbeitung,
direkt Angst aus Libido entsteht, d. h. jener Zustand von
Hilflosigkeit des Ichs gegen eine übergroße Bedürfnis- spannung
hergestellt wird, der wie bei der Geburt in Angstentwicklung ausgeht,
wobei es wieder eine gleich- gültige, aber nahe liegende Möglichkeit ist,
daß gerade der Überschuß an unverwendeter Libido seine Abfuhr in
der Angstentwicklung findet. Wir sehen, daß sich auf dem Boden dieser
Aktualneurosen besonders leicht Psychoneurosen entwickeln, das heißt
wohl, daß Femmung, Symptom und Angst 89 das Ich
Versuche macht, die Angst, die es eine Weile suspendiert zu erhalten
gelernt hat, zu ersparen und durch Symptombildung zu binden.
Wahrscheinlich würde die Analyse der traumatischen Kriegsneurosen,
welcher Name allerdings sehr verschiedenartige Affektionen umfaßt,
ergeben haben, daf3 eine Anzahl von ihnen an den Charakteren der
Aktualneurosen Anteil hat. Als wir die Entwicklung der
verschiedenen Gefahr- situationen aus dem ursprünglichen
Geburtsvorbild darstellten, lag es uns ferne zu behaupten, dafs
jede spätere Angstbedingung die frühere einfach außer Kraft setzt.
Die Fortschritte der Ichentwicklung tragen allerding dazu bei, die
frühere Gefahrsituation zu entwerten und beiseite zu schieben, so daf
man sagen kann, einem bestimmten Entwicklungsalter sei eine gewisse
Angstbedingung wie adäquat zugeteilt. Die Gefahr der psychischen
Hilflosigkeit pafst zur Lebenszeit der Unreife des Ichs, wie die Gefahr
des Objektverlustes zur Unselbständigkeit der ersten Kinder- jahre,
die Kastrationsgefahr zur phallischen Phase, die Über-Ichangst zur
Latenzzeit. Aber es können doch alle diese Gefahrsituationen und
Angstbedingungen nebeneinander fortbestehen bleiben und das Ich
auch zu späteren als den adäquaten Zeiten zur Angstreaktion veranlassen,
oder es können mehrere von ihnen gleichzeitig in Wirksamkeit treten.
Möglicher- weise bestehen auch engere Beziehungen zwischen
der wirksamen Gefahrsituation und der Form der auf sie folgenden
Neurose.' Als wir in einem früheren Stück dieser Unter-
suchungen auf die Bedeutung der Kastrationsgefahr Seit der Unterscheidung
von Ich und Es mußte auch unser Interesse an den Problemen der
Verdrängung eine neue Belebung erfahren. Bisher hatte es uns genügt, die
dem Ich zugewendeten Seiten des Vorgangs, die Abhaltung vom Bewußtsein
und von der Motilität und die Ersatz- (Symptom-) Bildung ins Auge zu
fassen, von der verdrängten Triebregung selbst nahmen wir an, sie bleibe
im Unbewußten unbestimmt lange unverändert bestehen. Nun wendet
sich das Interesse den Schicksalen des Verdrängten zu, und wir ahnen, daß
ein solcher unveränderter und unveränderlicher Fortbestand nicht
selbstverständlich, vielleicht nicht einmal gewöhnlich ist. Die
ursprüngliche Triebregung ist jedenfalls durch die Ver- drängung gehemmt
und von ihrem Ziel abgelenkt worden. Ist aber ihr Ansatz im Unbewußten
erhalten geblieben und hat er sich resistent gegen die verändernden und
entwertenden Einflüsse des Lebens erwiesen? Bestehen also die alten
Wünsche noch, von deren früherer Existenz uns die Analyse berichtet? Die
Antwort scheint naheliegend und gesichert: Die verdrängten alten Wünsche
müssen im Unbewußten noch fortbestehen, da wir ihre Abkömmlinge, die
Symptome, noch wirksam finden. Aber sie ist nicht zureichend, sie läßt
nicht zwischen den beiden Möglichkeiten entscheiden, ob der alte Wunsch
jetzt nur durch seine Abkömmlinge wirkt, denen er all seine
Besetzungsenergie übertragen hat, oder ob er außerdem selbst erhalten
geblieben ist, Wenn es sein Schicksal war, sich in der Besetzung seiner
Abkömmlinge zu erschöpfen, so bleibt noch die dritte Möglichkeit, daß er
im Verlauf der Neurose durch Re- gression wiederbelebt wurde, so
unzeitgemäß er gegenwärtig sein mag. Man braucht diese Erwägungen nicht
für müßig zu halten; vieles an den Erscheinungen des krankhaften wie des
normalen Seelenlebens scheint solche Fragestellungen zu erfordern. In
meiner Studie über den Untergang des Ödipuskomplexes bin ich auf
den Unterschied zwischen der bloßen Verdrängung und der wirklichen
Aufhebung einer alten Wunschregung aufmerksam geworden. bei mehr
als einer neurotischen Affektion stießen, erteilten wir uns die Mahnung,
dies Moment doch nicht zu überschätzen, da es bei dem gewiß mehr
zur Neurose disponierten weiblichen Geschlecht doch nicht ausschlaggebend
sein könnte. Wir sehen jetzt, daf3 wir nicht in Gefahr sind, die
Kastrationsangst für den einzigen Motor der zur Neurose führenden
Abwehr- vorgänge zu erklären. Ich habe an anderer Stelle
auseinandergesetzt, wie die Entwicklung des kleinen Mädchens durch den
Kastrationskomplex zur zärtlichen Objektbesetzung gelenkt wird. Gerade beim
Weibe scheint die Gefahrsituation des Objektverlustes die
wirksamste geblieben zu sein. Wir dürfen an ihrer Angstbedingung die
kleine Modifikation anbringen, daß es sich nicht mehr um das Vermissen
oder den realen Verlust des Objekts handelt, sondern um den Liebes-
verlust von seiten des Objekts. Da es sicher steht, daß die Hysterie eine
größere Affinität zur Weiblich- keit hat, ebenso wie die Zwangsneurose
zur Männlich- keit, so liegt die Vermutung nahe, die Angstbedingung
des Liebesverlustes spiele bei Hysterie eine ähnliche Rolle wie die
Kastrationsdrohung bei den Phobien, die Über-Ichangst bei der
Zwangsneurose. IX Was jetzt erübrigt, ist die Behandlung der
Be- ziehungen zwischen Symptombildung und Angst- entwicklung.
Zwei Meinungen darüber scheinen weit verbreitet zu sein. Die eine
nennt die Angst selbst ein Symptom der Neurose, die andere glaubt an ein
weit innigeres Verhältnis zwischen beiden. Ihr zufolge würde alle
Symptombildung nur unternommen werden, um der Angst zu entgehen; die
Symptome binden die psychi- sche Energie, die sonst als Angst abgeführt
würde, so dafß® die Angst das Grundphänomen und Haupt- problem der
Neurose wäre. | Die zumindest partielle Berechtigung der
zweiten Behauptung läßt sich durch schlagende Beispiele er- weisen.
Wenn man einen Agoraphoben, den man auf die Straße begleitet hat, dort
sich selbst überläßt, produziert er einen Angstanfall; wenn man
einen Zwangsneurotiker daran hindern läßt, sich nach einer
Berührung die Hände zu waschen, wird er die Beute MHemmung,
Symptom und Angst 93 einer fast unerträglichen Angst. Es ist also
klar, die Bedingung des Begleitetwerdens und die Zwangs- handlung
des Waschens hatten die Absicht und auch den Erfolg, solche
Angstausbrüche zu verhüten. In diesem Sinne kann auch jede Hemmung, die
sich das Ich auferlegt, Symptom genannt werden. Da wir die
Angstentwicklung auf die Gefahr- situation zurückgeführt haben, werden
wir es vor- ziehen zu sagen, die Symptome werden geschaffen, um das
Ich der Gefahrsituation zu entziehen. Wird die Symptombildung verhindert,
so tritt die Gefahr wirklich ein, d. h. es stellt sich jene der Geburt
analoge Situation her, in der sich das Ich hilflos gegen den stetig
wachsenden Triebanspruch findet, also die erste und ursprünglichste der
Angstbedingungen. Für unsere Anschauung erweisen sich die Beziehungen
zwischen Angst und Symptom weniger eng als angenommen wurde, die
Folge davon, daß wir zwischen beide das Moment der Gefahrsituation
eingeschoben haben. Wir können auch ergänzend sagen, die
Angstentwicklung leite die Symptombildung ein, ja sie sei eine not-
wendige Voraussetzung derselben, denn wenn das Ich nicht durch die
Angstentwicklung die Lust-Unlust- Instanz wachrütteln würde, bekäme es
nicht die Macht, den im Es vorbereiteten, gefahrdrohenden Vorgang
aufzuhalten. Dabei ist die,Tendenz unverkennbar, sich auf ein Mindestmaß
von Angstentwicklung zu be- schränken, die Angst nur als Signal zu
verwenden, 94 Sigm. Freud denn sonst bekäme man die Unlust,
die durch den Triebvorgang droht, nur an anderer Stelle zu spüren,
was kein Erfolg nach der Absicht des Lustprinzips wäre, sich aber doch
bei den Neurosen häufig genug ereignet. Die Symptombildung
hat also den wirklichen Erfolg, die Gefahrsituation aufzuheben. Sie hat
zwei Seiten; die eine, die uns verborgen bleibt, stellt im Es jene
Abänderung her, mittels deren das Ich der Gefahr entzogen wird, die
andere uns zugewendete zeigt, was sie an Stelle des beeinflußten
Triebvorganges geschaffen hat, die Ersatzbildung. - Wir
sollten uns aber korrekter ausdrücken, dem Abwehrvorgang zuschreiben, was
wir eben von der Symptombildung ausgesagt haben, und den Namen
Symptombildung selbst als synonym mit Ersatzbildung gebrauchen. Es
scheint dann klar, daß der Abwehr- vorgang analog der Flucht ist, durch
die sich das Ich einer von außen drohenden Gefahr entzieht, daß er
eben einen Fluchtversuch vor einer Triebgefahr darstellt. Die Bedenken
gegen diesen Vergleich werden uns zu weiterer Klärung verhelfen. Erstens
läßt sich ein- wenden, daß der Objektverlust (der Verlust der Liebe
von seiten des Objekts) und die Kastrationsdrohung ebensowohl (Gefahren
sind, die von außen drohen, wie etwa ein reißsendes Tier, also nicht Triebgefahren.
Aber es ist doch nicht derselbe Fall. Der Wolf würde uns wahrscheinlich
anfallen, gleichgültig, wie wir uns gegen ihn benehmen; die geliebte
Person würde uns aber nicht ihre Liebe entziehen, die Kastration uns
nicht angedroht werden, wenn wir nicht bestimmte Gefühle und
Absichten in unserem Inneren nähren würden. So werden diese Triebregungen
zu Bedingungen der äußeren Gefahr und damit selbst gefährlich, wir
können jetzt die äußere Gefahr durch Maßregeln gegen innere
Gefahren bekämpfen. Bei den Tierphobien scheint die Gefahr noch durchaus
als eine äußerliche empfunden zu werden, wie sie auch im Symptom eine
äußserliche Verschiebung erfährt. Bei der Zwangsneurose ist sie
weit mehr verinnerlicht, der Anteil der Angst vor dem Über-Ich, der
soziale Angst ist, repräsentiert noch den innerlichen Ersatz einer
äußeren Gefahr, der andere Anteil, die Gewissensangst, ist durchaus
endopsychisch. Ein zweiter Einwand sagt, beim Fluchtversuch
vor einer drohenden äußeren Gefahr tun wir ja nichts anderes, als daß wir
die Raumdistanz zwischen uns und dem Drohenden vergrößern. Wir setzen uns
ja nicht gegen die Gefahr zur Wehr, suchen nichts an ihr selbst zu
ändern, wie in dem anderen Falle, daß wir mit einem Knüttel auf den Wolf
losgehen oder mit einem Gewehr auf ihn schießen. Der Abwehr-
vorgang scheint aber mehr zu tun, als einem Flucht- versuch entspricht.
Er greift ja in den drohenden Triebablauf ein, unterdrückt ihn irgendwie,
lenkt ihn von seinem Ziel ab, macht ihn dadurch ungefährlich.
Dieser Einwand scheint unabweisbar, wir müssen ihm 96 Siem.
Freud Rechnung tragen. Wir meinen, es wird wohl so sein,
dafß es Abwehrvorgänge gibt, die man mit gutem Recht einem Fluchtversuch
vergleichen kann, während sich das Ich bei anderen weit aktiver zur Wehre
setzt, energische Gegenaktionen vornimmt. Wenn der Vergleich der Abwehr
mit der Flucht nicht überhaupt durch den Umstand gestört wird, dafs das
Ich und der Trieb im Es ja Teile derselben Organisation sind, nicht
getrennte Existenzen, wie der Wolf und das Kind, so daf jede Art
Verhaltens des Ichs auch abändernd auf den Triebvorgang einwirken
muß. Durch das Studium der Angstbedingungen haben wir das
Verhalten des Ichs bei der Abwehr sozusagen in rationeller Verklärung
erblicken müssen. Jede Gefahr- situation entspricht einer gewissen
Lebenszeit oder Entwicklungsphase des seelischen Apparats und er-
scheint für diese berechtigt. Das frühkindliche Wesen ist wirklich nicht
dafür ausgerüstet, große Erregungs- summen, die von außen oder innen
anlangen, psychisch zu bewältigen. Zu einer gewissen Lebenszeit ist
es wirklich das wichtigste Interesse, daß die Personen, von denen
man abhängt, ihre zärtliche Sorge nicht zurückziehen. Wenn der Knabe den mächtigen
Vater als Rivalen bei der Mutter empfindet, seiner aggressiven
Neigungen gegen ihn und seiner sexuellen Absichten auf die Mutter inne
wird, hat er ein Recht dazu, sich vor ihm zu fürchten, und die Angst vor
seiner Strafe kann durch phylogenetische Verstärkung sich als Kastrationsangst
äußern. Mit dem Eintritt in soziale Beziehungen wird die Angst vor dem
Über-Ich, das Gewissen, zur Notwendigkeit, der Wegfall dieses
Moments die Quelle von schweren Konflikten und Gefahren usw. Aber gerade
daran knüpft sich ein neues Problem. Versuchen wir es, den
Angstaffekt für eine Weile durch einen anderen, z. B. den Schmerzaffekt,
zu ersetzen. Wir halten es für durchaus normal, daß das Mädchen von
vier Jahren schmerzlich weint, wenn ihm eine Puppe zerbricht, mit sechs
Jahren, wenn ihm die Lehrerin einen Verweis gibt, mit sechzehn
Jahren, wenn der Geliebte sich nicht um sie bekümmert, mit
fünfundzwanzig Jahren vielleicht, wenn sie ein Kind begräbt. Jede dieser
Schmerzbedingungen hat ihre Zeit und erlischt mit deren Ablauf; die
letzten, defini- tiven, erhalten sich dann durchs Leben. Es würde
uns aber auffallen, wenn dies Mädchen als Frau und Mutter über die
Beschädigung einer Nippsache weinen würde. So benehmen sich aber die
Neurotiker. In ihrem seelischen Apparat sind längst alle Instanzen
zur Reizbewältigung innerhalb weiter Grenzen aus- gebildet, sie sind
erwachsen genug, um die meisten ihrer Bedürfnisse selbst zu befriedigen,
sie wissen längst, daß die Kastration nicht mehr als Strafe geübt
wird, und doch benehmen sie sich, als bestünden die alten
Gefahrsituationen noch, sie halten an allen früheren Angstbedingungen
fest. Die Antwort hierauf wird etwas weitläufig aus- fallen. Sie
wird vor allem den Tatbestand zu sichten haben. In einer großen Anzahl von
Fällen werden die alten Angstbedingungen wirklich fallen gelassen,
nach- dem sie bereits neurotische Reaktionen erzeugt haben. Die
Phobien der kleinsten Kinder vor Alleinsein, Dunkelheit und vor Fremden,
die beinahe normal zu nennen sind, vergehen zumeist in etwas
späteren Jahren, sie ‚wachsen sich aus‘, wie man von manchen
anderen Kindheitsstörungen sagt. Die so häufigen Tierphobien haben das
gleiche Schicksal, viele der Konversionshysterien der Kinderjahre finden
später keine Fortsetzung. Zeremoniell in der Latenzzeit ist ein
ungemein häufiges Vorkommnis, nur ein sehr geringer Prozentsatz dieser
Fälle entwickelt sich später zur vollen Zwangsneurose. Die Kinderneurosen
sind überhaupt soweit unsere
Erfahrungen an den höheren Kulturanforderungen unterworfenen Stadt-
kindern weißer Rasse reichen — regelmäßige Episoden der Entwicklung,
wenngleich ihnen noch immer zu wenig Aufmerksamkeit geschenkt wird. Man
vermißt die Zeichen der Kindheitsneurose auch nicht bei einem
erwachsenen Neurotiker, während lange nicht alle Kinder, die sie zeigen,
auch später Neurotiker werden. Es müssen also im Verlaufe der Reifung
Angst- bedingungen aufgegeben worden sein und Gefahrsituationen ihre
Bedeutung verloren haben. Dazu kommt, daß einige dieser Gefahrsituationen
sich da- Femmung, Symptom und Angst 99 durch in späte
Zeiten hinüberretten, daß sie ihre Angstbedingung zeitgemäß modifizieren.
So erhält sich z. B. die Kastrationsangst unter der Maske der
Syphilisphobie, nachdem man erfahren hat, daß zwar die Kastration nicht
mehr als Strafe für das Gewähren- lassen der sexuellen Gelüste üblich
ist, aber daß dafür der Triebfreiheit schwere Erkrankungen drohen.
Andere der Angstbedingungen sind überhaupt nicht zum Untergang bestimmt,
sondern sollen den Men- schen durchs Leben begleiten, wie die der Angst
vor dem Über-Ich. Der Neurotiker unterscheidet sich dann vor den
Normalen dadurch, dafs er die Reak- tionen auf diese Gefahren übermäßig
erhöht. Gegen die Wiederkehr der ursprünglichen traumatischen
Angstsituation bietet endlich auch das Erwachsensein keinen zureichenden
Schutz; es dürfte für jedermann eine Grenze geben, über die hinaus sein
seelischer Apparat in der Bewältigung der Erledigung heischen- den
Erregungsmengen versagt. Diese kleinen Berichtigungen können
unmöglich die Bestimmung haben, an der Tatsache zu rütteln, die
hier erörtert wird, der Tatsache, daf$ so viele Menschen in ihrem
Verhalten zur Gefahr infantil bleiben und verjährte Angstbedingungen
nicht über- winden; dies bestreiten, hieße die Tatsache der Neu-
rose leugnen, denn solche Personen heifst man eben Neurotiker. Wie ist
das aber möglich? Warum sind nicht alle Neurosen Episoden der
Entwicklung, die mit Erreichung der nächsten Phase abgeschlossen
werden?. Woher das Dauermoment in diesen Reaktionen auf die Gefahr? Woher der
Vorzug, den der Angstaffekt vor allen anderen Affekten zu geniefsen
scheint, daß er allein Reaktionen hervorruft, die sich als abnorm von den
anderen sondern und sich als unzweckmäßig dem Strom des Lebens
entgegen- stellen? Mit anderen Worten, wir finden uns unver- sehens
wieder vor der so oft gestellten Vexierfrage, woher kommt die Neurose,
was ist ihr letztes, das ihr besondere Motiv? Nach jahrzehntelangen
analy- tischen Bemühungen erhebt sich dies Problem vor uns,
unangetastet, wie zu Anfang. Die Angst ist die Reaktion auf die Gefahr.
Man kann doch die Idee nicht abweisen, daß es mit dem Wesen der
Gefahr zusammenhängt, wenn sich der Angstaffekt eine Ausnahmsstellung in
der seelischen Ökonomie erzwingen kann. Aber die Gefahren sind
allgemein menschliche, für alle Individuen die näm- lichen; was wir
brauchen und nicht zur Verfügung haben, ist ein Moment, das uns die
Auslese der Indi- viduen verständlich macht, die den Angstaffekt
trotz seiner Besonderheit dem normalen seelischen Betrieb
unterwerfen können, oder das bestimmt, wer an dieser Aufgabe scheitern
muß. Ich sehe zwei Versuche vor mir, ein solches Moment aufzudecken; es
ist begreif- lich, daß jeder solche Versuch eine sympathische
Aufnahme erwarten darf, da er einem quälenden Be- dürfnis Abhilfe
verspricht. Die beiden Versuche ergänzen einander, indem sie das Problem
an ent- gegengesetzten Enden angreifen. Der erste ist vor mehr als
zehn Jahren von Alfred Adler unternommen worden; er behauptet, auf seinen
innersten Kern reduziert, daf3 diejenigen Menschen an der
Bewältigung der durch die Gefahr gestellten Aufgabe scheitern, denen die
Minderwertigkeit ihrer Organe zu große Schwierigkeiten bereitet. Bestünde
der Satz Simplex sigillum veri zurecht, so müßte man eine solche
Lösung wie eine Erlösung begrüßen. Aber im Gegenteile, die Kritik des
abgelaufenen Jahrzehnts hat die volle Unzulänglichkeit dieser Erklärung,
die sich überdies über den ganzen Reichtum der von der
Psychoanalyse aufgedeckten Tatbestände hinaussetzt, beweisend
dargetan. Den zweiten Versuch hat Rank in Das Trauma der
Geburt unternommen. Es wäre unbillig, ihn dem Versuch von Adler in
einem anderen Punkte als dem einen hier betonten gleichzustellen, denn er
bleibt auf dem Boden der Psychoanalyse, deren Gedankengänge er fortsetzt
und ist als eine legitime Bemühung zur Lösung der ana- Iytischen
Probleme anzuerkennen. In der gegebenen Relation zwischen Individuum und
Gefahr lenkt Rank von der Organschwäche des Individuums ab und aut
die veränderliche Intensität der Gefahr hin. Der Geburtsvorgang ist die
erste Gefahrsituation, der von ihm produzierte ökonomische Aufruhr wird
das Vor- bild der Angstreaktion;, wir haben vorhin die Ent-
wicklungslinie verfolgt, welche diese erste Gefahr- situation und
Angstbedingung mit allen späteren verbindet, und dabei gesehen, daß sie alle
etwas Ge- meinsames bewahren, indem sie alle in gewissem Sinne eine
Trennung von der Mutter bedeuten, zuerst nur in biologischer Hinsicht,
dann im Sinn eines direkten Objektverlustes und später eines durch
in- direkte Wege vermittelten. Die Aufdeckung dieses großsen
Zusammenhanges ist ein unbestrittenes Ver- dienst der Rankschen
Konstruktion. Nun trifft das Trauma der Geburt die einzelnen Individuen
in ver- schiedener Intensität, mit der Stärke des Traumas variiert
die Heftigkeit der Angstreaktion, und es soll nach Rank von dieser
Anfangsgröße der Angst- entwicklung abhängen, ob das Individuum jemals
ihre Beherrschung erlernen kann, ob es neurotisch wird oder
normal. Die Einzelkritik der Rankschen Aufstellungen ist
nicht unsere Aufgabe, bloß deren Prüfung, ob sie zur Lösung unseres
Problems brauchbar sind. Die Formel Ranks, Neurotiker werde der, dem es
wegen der Stärke des Geburtstraumas niemals gelinge, dieses völlig
abzureagieren, ist theoretisch höchst anfechtbar. Man weiß nicht recht,
was mit dem Abreagieren des Traumas gemeint ist. Versteht man es
wörtlich, so kommt man zu dem unhaltbaren Schluß, daß der
Neurotiker sich um so mehr der Gesundung nähert, je häufiger und intensiver
er den Angstaffekt repro- duziert. Wegen dieses Widerspruches mit der
Wirk- lichkeit hatte ich ja seinerzeit die Theorie des Abreagierens
aufgegeben, die in der Katharsis eine so große Rolle spielte. Die
Betonung der wechselnden Stärke des Geburtstraumas läßt keinen Raum für
den berechtigten ätiologischen Anspruch der hereditären
Konstitution. Sie ist ja ein organisches Moment, welches sich gegen die
Konstitution wie eine Zu- fälligkeit verhält und selbst von vielen,
zufällig zu nennenden Einflüssen, z. B. von der rechtzeitigen
Hilfeleistung bei der Geburt abhängig ist. Die Rank- sche Lehre hat
konstitutionelle wie phylogenetische Faktoren überhaupt außer Betracht
gelassen. Will man aber für die Bedeutung der Konstitution Raum
schaffen, etwa durch die Modifikation, es käme viel mehr darauf an, wie
ausgiebig das Individuum auf die variable Intensität des Geburtstraumas
reagiere, SO hat man der Theorie ihre Bedeutung geraubt, und den
neu eingeführten Faktor auf eine Nebenrolle ein- geschränkt. Die
Entscheidung über den Ausgang in Neurose liegt dann doch auf einem
anderen, wiederum auf einem unbekannten Gebiet. Die Tatsache,
daß der Mensch den Geburtsvor- gang mit den anderen Säugetieren gemein
hat, während ihm eine besondere Disposition zur Neurose als
Vorrecht vor den Tieren zukommt, wird kaum günstig für die Ranksche Lehre
stimmen. Der Haupt- einwand bleibt aber, daß sie in der Luft
schwebt, anstatt sich auf gesicherte Beobachtung zu stützen. Es
gibt keine guten Untersuchungen darüber, ob schwere Aemmung,
Symptom und Angst und protrahierte Geburt in unverkennbarer Weise mit
Entwicklung von Neurose zusammentreffen, ja, ob so geborene Kinder nur
die Phänomene der frühinfantilen Ängstlichkeit länger oder stärker zeigen
als andere. Macht man geltend, daf präzipitierte und für die Mutter
leichte Geburten für das Kind möglicher- weise die Bedeutung von schweren
Traumen haben, so bleibt doch die Forderung aufrecht, dafS
Geburten, die zur Asphyxie führen, die behaupteten Folgen mit
Sicherheit erkennen lassen müßten. Es scheint ein Vorteil der Rankschen
Ätiologie, daß sie ein Moment voranstellt, das der Nachprüfung am
Material der Erfahrung zugänglich ist; solange man eine solche
Prüfung nicht wirklich vorgenommen hat, ist es unmöglich, ihren Wert zu
beurteilen. Dagegen kann ich mich der Meinung nicht an-
schließen, daß die Ranksche Lehre der bisher in der Psychoanalyse
anerkannten ätiologischen Bedeutung der Sexualtriebe widerspricht; denn
sie bezieht sich nur auf das Verhältnis des Individuums zur Gefahrsituation
und läßt die gute Auskunft offen, dafs, wer die anfänglichen Gefahren
nicht bewältigen konnte, auch in den später auftauchenden Situationen
sexueller Gefahr versagen muß und dadurch in die Neurose gedrängt
wird. Ich glaube also nicht, daß der Ranksche Versuch uns die
Antwort auf die Frage nach der Begründung der Neurose gebracht hat, und
ich meine, es läfst sich noch nicht entscheiden, einen wie großen Beitrag
zur Lösung der Frage er doch enthält. Wenn die Unter- suchungen
über den Einfluß schwerer Geburt auf die Disposition zu Neurosen negativ
ausfallen, ist dieser Beitrag gering einzuschätzen. Es ist sehr zu
besorgen, daß das Bedürfnis nach einer greifbaren und einheitlichen letzten
Ursache‘‘ der Nervosität immer un- befriedigt bleiben wird. Der ideale
Fall, nach dem sich der Mediziner wahrscheinlich noch heute sehnt,
wäre der des Bazillus, der sich isolieren und reinzüchten läßt, und
dessen Impfung bei jedem Individuum die nämliche Affektion hervorruft.
Oder etwas weniger phantastisch: die Darstellung von chemischen
Stoffen, deren Verabreichung bestimmte Neurosen produziert und
aufhebt. Aber die Wahrscheinlichkeit spricht nicht für solche Lösungen
des Problems. Die Psychoanalyse führt zu weniger einfachen,
minder befriedigenden Auskünften. Ich habe hier nur längst Bekanntes zu
wiederholen, nichts Neues hinzu- zufügen. Wenn es dem Ich gelungen ist,
sich einer gefährlichen Triebregung zu erwehren, z. B. durch den
Vorgang der Verdrängung, so hat es diesen Teil des Es zwar gehemmt und
geschädigt, aber ihm gleichzeitig auch ein Stück Unabhängigkeit
gegeben und auf ein Stück seiner eigenen Souveränität ver- zichtet.
Das folgt aus der Natur der Verdrängung, die im Grunde ein Fluchtversuch
ist. Das Verdrängte ist nun „vogelfrei‘, ausgeschlossen aus der
großen Organisation des Ichs, nur den Gesetzen unterworfen, die im
Bereich des Unbewußten herrschen. Ändert sich nun die Gefahrsituation, so
daß das Ich kein Motiv zur Abwehr einer neuerlichen, der
verdrängten analogen Triebregung hat, so werden die Folgen der
Icheinschränkung manifest. Der neuerliche Triebablauf vollzieht sich
unter dem Einfluß des Automatismus, — ich zöge vor zu sagen: des
Wiederholungszwanges, — er wandelt dieselben Wege wie der früher
ver- drängte, als ob die überwundene Gefahrsituation noch bestünde.
Das fixierende Moment an der Verdrängung ist also der Wiederholungszwang
des unbewufsten Es, der normalerweise nur durch die frei bewegliche
Funktion des Ichs aufgehoben wird. Nun mag es dem Ich mitunter gelingen,
die Schranken der Verdrängung, die es selbst aufgerichtet, wieder ein-
zureißßen, seinen Einfluß auf die Triebregung wieder- zugewinnen und den
neuerlichen Triebablauf im Sinne der veränderten Gefahrsituation zu
lenken. Tatsache ist, daß es ihm so oft mißlingt, und daß es seine
Verdrängungen nicht rückgängig machen kann. Quanti- tative Relationen mögen für den Ausgang dieses Kampfes
maßgebend sein. In manchen Fällen haben wir den Eindruck, daf die
Entscheidung eine zwangs- läufige ist, die regressive Anziehung der
verdrängten Regung und die Stärke der Verdrängung sind so groß, daß
die neuerliche Regung nur dem Wiederholungs- zwange folgen kann. In
anderen Fällen nehmen wir den Beitrag eines anderen Kräftespiels wahr, die
An- ziehung des verdrängten Vorbilds wird verstärkt durch die
Abstoßung von Seiten der realen Schwierigkeiten, die sich einem anderen
Ablauf der neuerlichen Trieb- regung entgegensetzen. Dafß
dies der Hergang der Fixierung an die Ver- drängung und der Erhaltung der
nicht mehr aktuellen Gefahrsituation ist, findet seinen Erweis in der
an sich bescheidenen, aber theoretisch kaum überschätz- baren
Tatsache der analytischen Therapie. Wennwir dem Ich in der Analyse die
Hilfe leisten, die es in den Stand setzen kann, seine Verdrängungen
aufzu- heben, bekommt es seine Macht über das verdrängte Es wieder
und kann die Triebregungen so ablaufen lassen, als ob die alten
Gefahrsituationen nicht mehr bestünden. Was wir so
erreichen, steht in gutem Einklang mit dem sonstigen Machtbereich
unserer ärztlichen Leistung. In der Regel muß sich ja unsere
Iherapie damit begnügen, rascher, verläßlicher, mit weniger Aufwand den
guten Ausgang herbeizuführen, der sich unter günstigen Verhältnissen
spontan ergeben hätte. Die bisherigen Erwägungen lehren uns,
es sind quantitative Relationen, nicht direkt aufzuzeigen, nur auf
dem Wege des Rückschlusses faßbar, die darüber entscheiden, ob die alten
Gefahrsituationen festgehalten werden, ob die Verdrängungen des Ichs
erhalten bleiben, ob die Kinderneurosen ihre Fortsetzung finden oder
nicht. Von den Faktoren, die an der Verursachung der Neurosen beteiligt
sind, die die Bedingungen geschaffen haben, unter denen sich die
psychischen Kräfte mit einander messen, heben sich für unser Verständnis
drei hervor, ein biologischer, ein phylogenetischer und ein rein
psychologischer. Der biologische ist die lang hingezogene Hilflosigkeit
und Abhängigkeit des kleinen Menschenkindes. Die Intrau-
terinexistenz des Menschen erscheint gegen die der meisten Tiere relativ
verkürzt; es wird unfertiger als diese in die Welt geschickt. Dadurch
wird der Ein- fluß der realen Aufßenwelt verstärkt, die Differen-
zierung des Ichs vom Es frühzeitig gefördert, die Gefahren der Außenwelt
in ihrer Bedeutung er- höht und der Wert des Objekts, das allein
gegen diese Gefahren schützen und das verlorene Intrau- terinleben
ersetzen kann, enorm gesteigert. Dies bio- logische Moment stellt also
die ersten Gefahrsituationen her und schafft das Bedürfnis, geliebt zu
werden, das den Menschen nicht mehr verlassen wird. Der
zweite, phylogenetische, Faktor ist von uns nur erschlossen worden; eine
sehr merkwürdige Tat- sache der Libidoentwicklung hat uns zu seiner
An- nahme gedrängt. Wir finden, daß das Sexualleben des Menschen
sich nicht wie das der meisten ihm nahestehenden Tiere vom Anfang bis zur
Reifung stetig weiter entwickelt, sondern daß) es nach einer ersten
Frühblüte bis zum fünften Jahr eine energische Siem. Ireud
Unterbrechung erfährt, worauf es dann mit der Pubertät von neuem
anhebt und an die infantilen Ansätze anknüpft. Wir meinen, es müßte in
den Schicksalen der Menschenart etwas Wichtiges vorge- fallen sein,
was diese Unterbrechung der Sexualent- wicklung als historischen
Niederschlag hinterlassen hat. Die pathogene Bedeutung dieses Moments
ergibt sich daraus, dafß die meisten Triebansprüche dieser kind-
lichen Sexualität vom Ich als Gefahren behandelt und abgewehrt werden, so
daf die späteren sexuellen Regungen der Pubertät, die ichgerecht sein
sollten, in Gefahr sind, der Anziehung der infantilen Vorbilder zu
unterliegen und ihnen in die Verdrängung zu folgen. Hier stoßen wir auf die direkteste Ätiologie der Neu- rosen. Es ist
merkwürdig, daß der frühe Kontakt mit den Ansprüchen der Sexualität auf
das Ich ähnlich wirkt, wie die vorzeitige Berührung mit der Aufßen-
welt. Der dritte oder psychologische Faktor ist in einer
Unvollkommenheit unseres seelischen Apparates zu finden, die gerade mit
seiner Differenzierung in ein Ich und ein Es zusammenhängt, also in
letzter Linie auch auf den Einfluß der Außenwelt zurückgeht. Durch
die Rücksicht auf die Gefahren der Realität wird das Ich genötigt, sich
gegen gewisse Triebregungen des Es zur Wehre zu setzen, sie als Gefahren
zu be- handeln. Das Ich kann sich aber gegen innere Trieb- gefahren
nicht in so wirksamer Weise schützen wie Flemmung, Symptom und
Angst III gegen ein Stück der ihm fremden Realität. Mit dem
Es selbst innig verbunden, kann es die Triebgefahr nur abwehren, indem es
seine eigene Organisation ein- schränkt und sich die Symptombildung als
Ersatz für seine Beeinträchtigung des Triebes gefallen läßt. Er-
neuert sich dann der Andrang des abgewiesenen Triebes, so ergeben sich
für das Ich alle die Schwierig- keiten, die wir als das neurotische
Leiden kennen. Weiter muß ich glauben, ist
unsere Einsicht in das Wesen und die Verursachung der Neurosen
vorläufig nicht gekommen. Im Laufe dieser Erörterungen sind
verschiedene Themen berührt worden, die vorzeitig verlassen werden
mußten und die jetzt gesammelt werden sollen, um den Anteil
Aufmerksamkeit zu erhalten, auf den sie Anspruch haben. A MODIFIKATIONEN
FRÜHER GEÄUSSERTER ANSICHTEN a) Widerstand und
Gegenbesetzung Es ist ein wichtiges Stück der Theorie der
Ver- drängung, daß sie nicht einen einmaligen Vorgang dar- stellt,
sondern einen dauernden Aufwand erfordert. Wenn dieser entfiele, würde
der verdrängte Trieb, der kontinuierlich Zuflüsse aus seinen Quellen
erhält, ein nächstes Mal denselben Weg einschlagen, von dem er
abgedrängt wurde, die Verdrängung würde um ihren Erfolg gebracht oder sie
müßte unbestimmt oft wiederholt werden. So folgt aus der
kontinuierlichen Natur des’ Triebes die Anforderung an das Ich,
seine Abwehraktion durch einen Daueraufwand zu versichern. Diese
Aktion zum Schutz der Verdrängung ist es, die wir bei der therapeutischen
Bemühung als Wider- stand verspüren. Widerstand setzt das voraus,
was ich als Gegenbesetzung bezeichnet habe. Eine solche
Gegenbesetzung wird bei der Zwangsneurose greifbar. Sie erscheint hier
als Ichveränderung, als Reaktionsbildung im Ich, durch Verstärkung jener
Ein- stellung, welche der zu verdrängenden Triebrichtung
gegensätzlich ist (Mitleid, Gewissenhaftigkeit, Reinlichkeit). Diese
Reaktionsbildungen der Zwangsneurose sind durchwegs Übertreibungen
normaler, im Verlauf der Latenzzeit entwickelter Charakterzüge. Es ist
weit schwieriger, die Gegenbesetzung bei der Hysterie auf-
zuweisen, wo sie nach der theoretischen Erwartung ebenso unentbehrlich
ist. Auch hier ist ein gewisses Maß von Ichveränderung durch
Reaktionsbildung un- verkennbar und wird in manchen Verhältnissen so
auf- fällig, daß es sich der Aufmerksamkeit als das Haupt- symptom
des Zustandes aufdrängt. In solcher Weise wird z. B. der
Ambivalenzkonflikt der Hysterie gelöst, der Haß gegen eine geliebte
Person wird durch ein Übermaß von Zärtlichkeit für sie und
AÄngstlichkeit um sie niedergehalten. Man muß aber als Unter- schiede
gegen die Zwangsneurose hervorheben, daß solche Reaktionsbildungen nicht
die allgemeine Natur von Charakterzügen zeigen, sondern sich auf
ganz spezielle Relationen einschränken. Die Hysterika z. B., die
ihre im Grunde gehafstten Kinder mit exzessiver Zärtlichkeit behandelt,
wird darum nicht im ganzen liebesbereiter als andere Frauen, nicht einmal
zärtlicher für andere Kinder. Die Reaktionsbildung der Hysterie hält an
einem bestimmten Objekt zähe fest und erhebt sich nicht zu einer
allgemeinen Disposition des Ichs. Für die Zwangsneurose ist gerade diese
Verallgemeinerung, die Lockerung der Objekt- beziehungen, die
Erleichterung der Verschiebung in der Objektwahl charakteristisch.
Eine andere Art der Gegenbesetzung scheint der Eigenart der
Hysterie gemäfßser zu sein. Die verdrängte Triebregung kann von zwei
Seiten her aktiviert (neu besetzt) werden, erstens von innen her durch
eine Verstärkung des Triebes aus seinen inneren Erregungs- quellen,
zweitens von außen her durch die Wahr- nehmung eines Objekts, das dem
Trieb erwünscht wäre. Die hysterische Gegenbesetzung ist nun vor-
zugsweise nach außen gegen die gefährliche Wahr- nehmung gerichtet, sie
nimmt die Form einer beson- deren Wachsamkeit an, die durch Icheinschrän-
kungen Situationen vermeidet, in denen die Wahr- nehmung auftreten müßte,
und die es zustande bringt, dieser Wahrnehmung die Aufmerksamkeit zu
ent- ziehen, wenn sie doch aufgetaucht ist. Französische Autoren
(Laforgue) haben kürzlich diese Leistung der Hysterie durch den besonderen
Namen ‚Skotomisation ausgezeichnet. Noch auffälliger als bei Hysterie ist
diese Technik der Gegenbesetzung bei den Phobien, deren Interesse sich
darauf konzentriert, sich immer weiter von der Möglichkeit der
gefürch- teten Wahrnehmung zu entfernen. Der Gegensatz in der
Richtung der Gegenbesetzung zwischen Hysterie und Phobien einerseits und
Zwangsneurose ander- seits scheint bedeutsam, wenn er auch kein
absoluter ist. Er legt uns nahe anzunehmen, dafs zwischen der
Verdrängung und der äußeren Gegenbesetzung, wie zwischen der Regression
und der inneren Gegen- besetzung (Ichveränderung durch
Reaktionsbildung) ein innigerer Zusammenhang besteht. Die Abwehr
der gefährlichen Wahrnehmung ist übrigens eine allgemeine Aufgabe
der Neurosen. Verschiedene Gebote und Verbote der Zwangsneurose sollen
der gleichen Ab- sicht dienen. Wir haben uns früher einmal
klargemacht, dafs der Widerstand, den wir in der Analyse zu über-
winden haben, vom Ich geleistet wird, das an seinen Gegenbesetzungen
festhält. Das Ich hat es schwer, seine Aufmerksamkeit Wahrnehmungen und
Vorstel- lungen zuzuwenden, deren Vermeidung es sich bisher zur
Vorschrift gemacht hatte, oder Regungen als die seinigen anzuerkennen,
die den vollsten Gegensatz zu den ihm als eigen vertrauten bilden. Unsere
Bekämp- fung des Widerstandes in der Analyse gründet sich auf eine
solche Auffassung desselben. Wir machen den Widerstand bewufst, wo er,
wie so häufig, infolge des Zusammenhanges mit dem Verdrängten
selbst unbewußt ist; wir setzen ihm logische Argumente ent- gegen,
wenn oder nachdem er bewußt geworden ist, versprechen dem Ich Nutzen und
Prämien, wenn es auf den Widerstand verzichtet. An dem Widerstand
des Ichs ist also nichts zu bezweifeln oder zu be- richtigen. Dagegen
fragt es sich, ob er allein den Sachverhalt deckt, der uns in der Analyse
entgegen- tritt. Wir machen die Erfahrung, daß das Ich noch immer
Schwierigkeiten findet, die Verdrängungen rück- gängig zu machen, auch
nachdem es den Vorsatz gefaßt hat, seine Widerstände aufzugeben, und
haben die Phase anstrengender Bemühung, die nach solchem löblichen
Vorsatz folgt, als die des Durcharbeitens bezeichnet. Es liegt nun nahe, das
dynamische Moment anzuerkennen, das ein solches Durcharbeiten
notwendig und verständlich macht. Es kann kaum anders sein, als
dafß® nach Aufhebung des Ichwiderstandes noch die Macht des Wiederholungszwanges,
die Anziehung der unbewußstten Vorbilder auf den verdrängten Trieb-
vorgang, zu überwinden ist, und es ist nichts dagegen zu sagen, wenn man
dies Moment als den Wider- stand des Unbewußten bezeichnen will. Lassen
wir uns solche Korrekturen nicht verdrießen; sie sind erwünscht, wenn sie
unser Verständnis um ein Stück fördern, und keine Schande, wenn sie das
frühere nicht widerlegen, sondern bereichern, eventuell eine
Allgemeinheit einschränken, eine zu enge Auffassung erweitern.
Es ist nicht anzunehmen, daß wir durch diese Korrektur eine
vollständige Übersicht über die Arten der uns in der Analyse begegnenden
Widerstände gewonnen haben. Bei weiterer Vertiefung merken wir
vielmehr, daß wir fünf Arten des Widerstandes zu bekämpfen haben, die von
drei Seiten herstammen, nämlich vom Ich, vom Es und vom Über-Ich,
wobei sich das Ich als die Quelle von drei in ihrer Dynamik
unterschiedenen Formen erweist. Der erste dieser drei Ichwiderstände ist
der vorhin behandelte Ver- drängungswiderstand, über den am
wenigsten Neues zu sagen ist. Von ihm sondert sich der Über-
tragungswiderstand, der von der gleichen Natur ist, aber in der Analyse
andere und weit deutlichere Erscheinungen macht, da es ihm gelungen ist,
eine Beziehung zur analytischen Situation oder zur Person des
Analytikers herzustellen und somit eine Ver- drängung, die blof3 erinnert
werden sollte, wieder wie frisch zu beleben. Auch ein Ichwiderstand, aber
ganz anderer Natur, ist jener, der vom Krankheitsgewinn ausgeht und
sich auf die Einbeziehung des Symptoms ins Ich gründet. Er entspricht dem
Sträuben gegen den Verzicht auf eine Befriedigung oder
Erleichterung. Die vierte Art des Widerstandes den des Es haben wir
eben für die Notwendigkeit des Durcharbeitens verantwortlich gemacht. Der
fünfte Wider- stand, der des Über-Ichs, der zuletzt erkannte,
dunkelste, aber nicht immer schwächste, scheint dem Schuldbewußtsein oder
Strafbedürfnis zu entstammen; er widersetzt sich jedem Erfolg und demnach
auch der Genesung durch die Analyse. Angst aus Umwandlung von
Libido Die in diesem Aufsatz vertretene Auffassung der Angst
entfernt sich ein Stück weit von jener, die mir bisher berechtigt schien.
Früher betrachtete ich die Angst als eine allgemeine Reaktion des Ichs
unter den Bedingungen der Unlust, suchte ihr Auftreten jedesmal
ökonomisch zu rechtfertigen und nahm an, gestützt auf die Untersuchung
der Aktualneurosen, daß Libido (sexuelle Erregung), die vom Ich
abge- lehnt oder nicht verwendet wird, eine direkte Abfuhr in der
Form der Angst findet. Man kann es nicht übersehen, daß diese
verschiedenen Bestimmungen nicht gut zusammengehen, zum mindesten nicht
not- wendig aus einander folgen. Überdies ergab sich der Anschein
einer besonders innigen Beziehung von Angst und Libido, die wiederum mit
dem Allgemeincharakter der Angst als Unlustreaktion nicht
harmonierte. Der Einspruch gegen diese Auffassung ging von
der Tendenz aus, das Ich zur alleinigen Angststätte zu machen, war also
eine der Folgen der im ‚Ich und Es‘ versuchten Gliederung des seelischen
Apparates. Der früheren Auffassung lag es nahe, die Libido der
verdrängten Triebregung als die Quelle der Angst zu betrachten; nach der
neueren hatte vielmehr das Ich für diese Angst aufzukommen. Also Ichangst
oder Trieb-(Es-)Angst. Da das Ich mit desexualisierter Energie
arbeitet, wurde in der Neuerung auch der intime Zusammenhang von Angst
und Libido gelockert. Ich hoffe, es ist mir gelungen, wenigstens den
Wider- spruch klar zu machen, die Umrisse der Unsicherheit scharf
zu zeichnen. Die Ranksche Mahnung, der Angstaffekt sei, wie ich
selbst zuerst behauptete, eine Folge des Geburtsvorganges und eine
Wiederholung der damals durchlebten Situation, nötigte zu einer
neuerlichen Prüfung des Angstproblems. Mit seiner eigenen Auf-
fassung der Geburt als Trauma, des Angstzustandes als Abfuhrreaktion
darauf, jedes neuerlichen Angst- affekts als Versuch, das Trauma immer
vollständiger „abzureagieren“, konnte ich nicht weiter kommen. Es
ergab sich die Nötigung, von der Angstreaktion auf die Gefahrsituation
hinter ihr zurückzugehen. Mit der Einführung dieses Moments ergaben
sich neue Gesichtspunkte für die Betrachtung. Die Geburt wurde das
Vorbild für alle späteren Grefahrsituationen, die sich unter den neuen
Bedingungen der veränderten Existenzform und der fortschreitenden
psychischen Entwicklung ergaben. Ihre eigene Bedeutung wurde aber
auch auf diese vorbildliche Beziehung zur Gefahr eingeschränkt. Die bei
der Geburt empfundene Angst wurde nun das Vorbild eines Affektzustandes,
der die Schicksale anderer Affekte teilen mußte. Er reprodu- zierte
sich entweder automatisch in Situationen, die seinen Ursprungssituationen
analog waren, als unzweck- mäßige Reaktionsform, nachdem er in der
ersten Gefahrsituation zweckmäßig gewesen war. Oder das Ich bekam
Macht über diesen Affekt und reproduzierte ihn selbst, bediente sich
seiner als Warnung vor der Gefahr und als Mittel, das Eingreifen des
Lust-Unlust- mechanismus wachzurufen. Die biologische Bedeutung des
Angstaffekts kam zu ihrem Recht, indem die Angst als die allgemeine
Reaktion auf die Situation der Gefahr anerkannt wurde; die Rolle des Ichs
als Angststätte wurde bestätigt, indem dem Ich die Funk- tion
eingeräumt wurde, den Angstaffekt nach seinen Bedürfnissen zu
produzieren. Der Angst wurden so im späteren Leben zweierlei
Ursprungsweisen zuge- wiesen, die eine ungewollt, automatisch, jedesmal
öko- nomisch gerechtfertigt, wenn sich eine Gefahrsituation analog
jener der Geburt hergestellt hatte, die andere, vom Ich produzierte, wenn
eine solche Situation nur drohte, um zu ihrer Vermeidung aufzufordern.
In diesem zweiten Fall unterzog sich das Ich der Angst gleichsam
wie einer Impfung, um durch einen abge- schwächten Krankheitsausbruch
einem ungeschwächten Anfall zu entgehen. Es stellte sich gleichsam die
Ge- fahrsituation lebhaft vor, bei unverkennbarer Tendenz, dies
peinliche Erleben auf eine Andeutung, ein Signal, zu beschränken. Wie
sich dabei die verschiedenen Grefahrsituationen nacheinander entwickeln
und doch genetisch mit einander verknüpft bleiben, ist bereits im
einzelnen dargestellt worden. Vielleicht gelingt es uns, ein Stück weiter
ins Verständnis der Angst ein- zudringen, wenn wir das Problem des
Verhältnisses zwischen neurotischer Angst und Realangst angreifen.
Die früher behauptete direkte Umsetzung der Libido in Angst ist
unserem Interesse nun weniger bedeut- sam geworden. Ziehen wir sie doch
in Erwägung, so haben wir mehrere Fälle zu unterscheiden. Für die
Angst, die das Ich als Signal provoziert, kommt sie nicht in Betracht;
also auch nicht in all den Gefahr- situationen, die das Ich zur
Einleitung einer Verdrängung bewegen. Die libidinöse Besetzung der ver-
drängten Triebregung erfährt, wie man es am deut- lichsten bei der
Konversionshysterie sieht, eine andere Verwendung als die Umsetzung in
und Abfuhr als Angst. Hingegen werden wir bei der weiteren Dis-
kussion der Gefahrsituation auf jenen Fall der Angst- entwicklung stoßen,
der wahrscheinlich anders zu beurteilen ist. Verdrängung und
Abwehr Im Zusammenhange der Erörterungen über das Angstproblem habe
ich einen Begriff oder bescheidener
ausgedrückt: einen Terminus wieder
auf- Siem. Freud genommen, dessen ich mich zu Anfang meiner
Studien vor dreißig Jahren ausschließend bedient und den ich
späterhin fallen gelassen hatte. Ich meine den des Abwehrvorganges.” Ich
ersetzte ihn in der Folge durch den der Verdrängung, das Verhältnis
zwischen beiden blieb aber unbestimmt. Ich meine nun, es bringt
einen sicheren Vorteil, auf den alten Begriff der Abwehr
zurückzugreifen, wenn man dabei festsetzt, daß er die allgemeine
Bezeichnung für alle die Techniken sein soll, deren sich das Ich in
seinen eventuell zur Neu- rose führenden Konflikten bedient, während
Verdrän- gung der Name einer bestimmten solchen Abwehr- methode
bleibt, die uns infolge der Richtung unserer Untersuchungen zuerst besser
bekannt worden ist. Auch eine bloß terminologische Neuerung will
gerechtfertigt werden, soll der Ausdruck einer neuen Betrachtungsweise
oder einer Erweiterung unserer Ein- sichten sein. Die Wiederaufnahme des
Begriffes Ab- wehr und die Einschränkung des Begriffes der Ver-
drängung trägt nun einer Tatsache Rechnung, die längst bekannt ist, aber
durch einige neuere Funde an Bedeutung gewonnen hat. Unsere ersten
Erfahrungen über Verdrängung und Symptombildung machten wir an der
Hysterie; wir sahen, daß der Wahrnehmungs- inhalt erregender Erlebnisse,
der Vorstellungsinhalt pathogener Gedankenbildungen vergessen und von
der Siehe: Die Abwehr-Neuropsychosen, Ges, Schriften, Bd.
1. Reproduktion im Gedächtnis ausgeschlossen wird, und haben darum
in der Abhaltung vom Bewußtsein einen Hauptcharakter der hysterischen
Verdrängung erkannt. Später haben wir die Zwangsneurose studiert
und gefunden, daß bei dieser Affektion die pathogenen Vorfälle
nicht vergessen werden. Sie bleiben be- wußt, werden aber auf eine noch
nicht vorstellbare Weise ‚isoliert‘, so daß ungefähr der- selbe Erfolg
erzielt wird wie durch die hysterische Amnesie. Aber die Differenz ist
groß genug, um unsere Meinung zu berechtigen, der Vorgang, mittels
dessen die Zwangsneurose einen Triebanspruch be- seitigt, könne nicht der
nämliche sein wie bei Hysterie. Weitere Untersuchungen haben uns
gelehrt, daß bei der Zwangsneurose unter dem Einfluß des
Ichsträubens eine Regression der Triebregungen auf eine frühere
Libidophase erzielt wird, die zwar eine Verdrängung nicht überflüssig
macht, aber offenbar in demselben Sinne wirkt wie die Verdrängung.
Wir haben ferner gesehen, dafß die auch bei Hysterie anzunehmende
Gegenbesetzung bei der Zwangsneurose als reaktive Ichveränderung eine
besonders große Rolle beim Ichschutz spielt, wir sind auf ein Verfahren
der „Isolierung‘‘ aufmerksam worden, dessen Technik wir noch nicht
angeben können, das sich einen direkten symptomatischen Ausdruck schafft,
und auf die magisch zu nennende Prozedur des „Ungeschehenmachens‘,
über deren abweisende Tendenz kein Zweifel sein kann, die Sigm.
Freud aber mit dem Vorgang der ‚Verdrängung‘ keine
Ähnlichkeit mehr hat. Diese Erfahrungen sind Grund genug, den alten
Begriff der Abwehr wieder einzu- setzen, der alle diese Vorgänge mit
gleicher Tendenz Schutz des Ichs gegen Triebansprüche umfassen kann, und
ihm die Verdrängung als einen Spezialfall zu subsumieren. Die Bedeutung
einer solchen Namen- gebung wird erhöht, wenn man die Möglichkeit
erwägt, daf3 eine Vertiefung unserer Studien eine innige Zu- sammengehörigkeit
zwischen besonderen Formen der Abwehr und bestimmten Affektionen ergeben
könnte, z. B. zwischen Verdrängung und Hysterie. Unsere Erwartung
richtet sich ferner auf die Möglichkeit einer anderen bedeu samen
Abhängigkeit. Es kann leicht sein, daßß der seelische Apparat vor der
scharfen Sonderung von Ich und Es, vor der Ausbildung eines
Über-Ichs, andere Methoden der Abwehr übt als nach der Erreichung dieser
Organisationsstufen. Der Angstaffekt zeigt einige Züge, deren
Unter- suchung weitere Aufklärung verspricht. Die Angst hat eine
unverkennbare Beziehung zur Erwartung; sie ist Angst vor etwas. Es haftet
ihr ein Charakter von Unbestimmtheit und Objektlosigkeit an; der
Femmung, korrekte Sprachgebrauch ändert selbst ihren Namen, wenn
sie ein Objekt gefunden hat, und ersetzt ihn dann durch Furcht. Die Angst
hat ferner außer ihrer Beziehung zur Gefahr eine andere zur Neurose,
um deren Aufklärung wir uns seit langem bemühen. Es entsteht die
Frage, warum nicht alle Angstreaktionen neurotisch sind, warum wir so
viele als normal aner- kennen; endlich verlangt der Unterschied von
Real- angst und neurotischer Angst nach gründlicher Wür-
digung. Gehen wir von der letzteren Aufgabe aus. Unser
Fortschritt bestand in dem Rückgreifen von der Re- aktion der Angst auf
die Situation der Gefahr. Nehmen wir dieselbe Veränderung an dem Problem
der Realangst vor, so wird uns dessen Lösung leicht. Realgefahr ist
eine Gefahr, die wir kennen, Realangst die Angst vor einer solchen
bekannten Gefahr. Die neurotische Angst ist Angst vor einer Gefahr, die
wir nicht kennen. Die neurotische Gefahr mufs also erst gesucht
werden; die Analyse hat uns gelehrt, sie ist eine Triebgefahr. Indem wir diese
dem Ich unbe- kannte Gefahr zum Bewußtsein bringen, verwischen wir
den Unterschied zwischen Realangst und neuro- tischer Angst, können wir
die letztere wie die erstere behandeln. In der Realgefahr
entwickeln wir zwei Reaktionen, die affektive, den Angstausbruch, und die
Schutz- handlung. Voraussichtlich wird bei der Triebgefahr dasselbe
geschehen. Wir kennen den Fall des zweck- mäfßligen Zusammenwirkens
beider Reaktionen, indem die eine das Signal für das Einsetzen der
anderen gibt, aber auch den unzweckmäfßligen Fall, den der
Angstlähmung, daß die eine sich auf Kosten der anderen ausbreitet.
Es gibt Fälle, in denen sich die Charaktere von Realangst und
neurotischer Angst vermengt zeigen. Die Gefahr ist bekannt und real, aber
die Angst vor ihr übermäßig groß, größer als sie nach unserem
Urteil sein dürfte. In diesem Mehr verrät sich das neurotische
Element. Aber diese Fälle bringen nichts prinzipiell Neues. Die Analyse
zeigt, daß an die bekannte Real- gefahr eine unerkannte Triebgefahr
geknüpft ist. Wir kommen weiter, wenn wir uns auch mit der
Zurückführung der Angst auf die Gefahr nicht begnügen. Was ist der Kern, die
Bedeutung der Gefahrsituation? Offenbar die Einschätzung unserer
Stärke im Vergleich zu ihrer Größe, das Zugeständnis unserer
Hilflosigkeit gegen sie, der materiellen Hilf- losigkeit im Falle der
Realgefahr, der psychischen Hilf- losigkeit im Falle der Triebgefahr.
Unser Urteil wird dabei von wirklich gemachten Erfahrungen geleitet
werden; ob es sich in seiner Schätzung irrt, ist für den Erfolg
gleichgültig. Heißen wir eine solche erlebte Situation von Hilflosigkeit
eine traumatische; wir haben dann guten Grund, die traumatische
Situation von der Gefahrsituation zu trennen. Es ist nun ein
wichtiger Fortschritt in unserer Selbstbewahrung, wenn eine solche
traumatische Situa- tion von Hilflosigkeit nicht abgewartet, sondern
vorhergesehen, erwartet, wird. Die Situation, in der die Bedingung für solche
Erwartung enthalten ist, heiße die Gefahrsituation, in ihr wird das
Angstsignal gegeben. Dies will besagen: ich erwarte, daß sich eine
Situation von Hilflosigkeit ergeben wird, oder die gegenwärtige
Situation erinnert mich an eines der früher erfahrenen traumatischen
Erlebnisse. Daher antizipiere ich dieses Trauma, will mich benehmen, als
ob es schon da wäre, solange noch Zeit ist, es abzuwenden. Die
Angst ist also einerseits Erwartung des Traumas, anderseits eine
gemilderte Wiederholung desselben. Die beiden Charaktere, die uns an der
Angst aufgefallen sind, haben also verschiedenen Ursprung. Ihre
Beziehung zur Erwartung gehört zur Gefahrsituation, ihre Unbestimmtheit
und ÖObjektlosigkeit zur traumatischen Situation der Hilflosigkeit, die
in der Grefahrsituation antizipiert wird. Nach der Entwicklung der
Reihe: Angst Gefahr Hilflosigkeit (Trauma) können wir zusammenfassen:
Die Gefahrsituation ist die erkannte, erinnerte, erwartete Situation der
Hilflosigkeit. Die Angst ist die ursprüngliche Reaktion auf die
Hilflosigkeit im Trauma, die dann später in der Gefahrsituation als
Hilfssignal reproduziert wird. Das Ich, welches das Trauma passiv
erlebt hat, wiederholt nun aktiv eine abgeschwächte Reproduktion
desselben, in der Hoffnung, deren Ab- lauf selbsttätig leiten zu können.
Wir wissen, das Kind benimmt sich ebenso gegen alle ihm peinlichen Eindrücke,
indem es sie im Spiel reproduziert; durch diese Art von der Passivität
zur Aktivität überzugehen, sucht es seine Lebenseindrücke psychisch zu
bewältigen. Wenn dies der Sinn eines „Abreagierens des Traumas‘ sein
soll, so kann man nichts mehr dagegen einwenden. Das Entscheidende ist
aber die erste Verschiebung der Angstreaktion von ihrem Ur- sprung
in der Situation der Hilflosigkeit auf deren Erwartung, die
Gefahrsituation. Dann folgen die weiteren Verschiebungen von der Gefahr
auf die Bedingung der Gefahr, den Objektverlust und dessen schon erwähnte
Modifikationen. Die „Verwöhnung‘“ des kleinen Kindes hat die uner-
wünschte Folge, daß die Gefahr des Objektverlustes das Objekt als Schutz gegen
alle Situationen der Hilflosigkeit gegen alle anderen Gefahren über-
steigert wird. Sie begünstigt also die Zurückhaltung in der Kindheit, der
die motorische wie die psychische Hilflosigkeit eigen sind.
Wir haben bisher keinen Anlaß gehabt, die Realangst anders zu
betrachten als die neurotische Angst. Wir kennen den Unterschied; die
Realgefahr droht von einem äußeren Objekt, die neurotische von
einem Triebanspruch. Insoferne dieser Triebanspruch etwas Reales ist, kann auch
die neurotische Angst als real begründet anerkannt werden. Wir haben
verstanden, daß der Anschein einer be- sonders intimen Beziehung zwischen
Angst und Neurose sich auf die Tatsache zurückführt, daß das Ich sich mit
Hilfe der Angstreaktion der Triebgefahr ebenso erwehrt wie der äußeren
Realgefahr, daß aber diese Richtung der Abwehrtätigkeit infolge
einer Unvollkommenheit des seelischen Apparats in die Neurose
ausläuft. Wir haben auch die Überzeugung gewonnen, dafs der Triebanspruch
oft nur darum zur (inneren) Gefahr wird, weil seine Befriedigung
eine äußere Gefahr herbeiführen würde, also weil diese innere
Gefahr eine äußere repräsentiert. Anderseits muß auch die äußere
(Real-) Gefahr eine Verinnerlichung gefunden haben, wenn sie für
das Ich bedeutsam werden soll; sie muf3 in ihrer Beziehung zu einer
erlebten Situation von Hilflosigkeit erkannt werden." Eine
instinktive Erkenntnis von aufSen drohen- der Gefahren scheint dem
Menschen nicht oder nur in sehr bescheidenem Ausmaf3 mitgegeben worden
zu [Es mag auch oft genug vorkommen, daß in einer Gefahrsituation,
die als solche richtig geschätzt wird, zur Realangst ein Stück Trieb-
angst hinzukommt. Der Triebanspruch, vor dessen Befriedigung das Ich
zurückschreckt, wäre dann der masochistische, der gegen die eigene Person
gewendete Destruktionstrieb. Vielleicht erklärt diese Zutat den Fall, daß
die Angstreaktion übermäßig und unzweckmäßig, lähmend, ausfällt. Die
Höhenphobien (Fenster, Turm, Abgrund) könnten diese Herkunft haben; ihre
geheime feminine Bedeutung steht dem Masochismus nahe.
Freud: Hemmung, Symptom und Angst Siem. Freud sein. Kleine
Kinder tun unaufhörlich Dinge, die sie in Lebensgefahr bringen, und
können gerade darum das schützende Objekt nicht entbehren. In der
Beziehung zur traumatischen Situation, gegen die man hilflos ist,
treffen äußere und innere Gefahr, Realgefahr und Triebanspruch zusammen.
Mag das Ich in dem einen Falle einen Schmerz, der nicht aufhören will,
erleben, im. anderen Falle eine Bedürfnisstauung, die keine
Befriedigung finden kann, die ökonomische Situation ist für beide Fälle
die nämliche und die motorische Hilflosigkeit findet in der psychischen
Hilflosigkeit ihren Ausdruck. Die rätselhaften Phobien der
frühen Kinderzeit verdienen an dieser Stelle nochmalige Erwähnung.
Die einen von ihnen — Alleinsein, Dunkelheit, fremde Personen —
konnten wir als Reaktionen auf die Gefahr des Objektverlusts verstehen;
für andere — kleine Tiere, Gewitter u. dgl. — bietet sich
vielleicht die Auskunft, sie seien die verkümmerten Reste einer
kongenitalen Vorbereitung auf die Realgefahren, die bei anderen Tieren so
deutlich ausgebildet ist. Für den Menschen zweckmäßig ist allein der
Anteil dieser archaischen Erbschaft, der sich auf den Objektverlust
bezieht. Wenn solche Kinderphobien sich fixieren, stärker werden und bis
in späte Lebensjahre anhalten, weist die Analyse nach, daf ihr Inhalt
sich mit Trieb- ansprüchen in Verbindung gesetzt hat, zur Vertretung
auch innerer Gefahren geworden ist. Zur Psychologie der Gefühlsvorgänge
liegt so wenig vor, daf$ die nachstehenden schüchternen Bemer-
kungen auf die nachsichtigste Beurteilung Anspruch erheben dürfen. An
folgender Stelle erhebt sich für uns das Problem. Wir mufsten sagen, die
Angst werde zur Reaktion auf die Gefahr des Objektverlusts. Nun
kennen wir bereits eine solche Reaktion auf den Objektverlust, es ist die
Trauer. Also wann kommt es zur einen, wann zur anderen? An der Irauer,
mit der wir uns bereits früher beschäftigt haben,’ blieb ein Zug
völlig unverstanden, ihre besondere Schmerz- lichkeit. Daß die Trennung
vom Objekt schmerzlich ist, erscheint uns trotzdem selbstverständlich.
Also kompliziert sich das Problem weiter: Wann macht die Trennung
vom Objekt Angst, wann Trauer und wann vielleicht nur Schmerz?
Sagen wir es gleich, es ist keine Aussicht vor- handen, Antworten
auf diese Fragen zu geben. Wir werden uns dabei bescheiden, einige
Abgrenzungen und einige Andeutungen zu finden. Unser
Ausgangspunkt sei wiederum die eine Situation, die wir zu verstehen
glauben, die des Säug- lings, der anstatt seiner Mutter eine fremde
Person erblickt. Er zeigt dann die Angst, die wir auf die ı)
S. Trauer und Melancholie, Ges. Schriften, Bd. V. 193 Siem. Freud
Gefahr des Objektverlustes gedeutet haben. Aber sie ist wohl
komplizierter und verdient eine eingehendere Diskussion. An der Angst des
Säuglings ist zwar kein Zweifel, aber Gesichtsausdruck und die Reaktion
des Weinens lassen annehmen, daß er außerdem noch Schmerz empfindet.
Es scheint, daß bei ihm einiges zusammenflieft, was später gesondert
werden wird. Er kann das zeitweilige Vermissen und den dauernden
Verlust noch nicht unterscheiden; wenn er die Mutter das eine Mal nicht
zu Gesicht bekommen hat, benimmt er sich so, als ob er sie nie wieder
sehen sollte, und es bedarf wiederholter tröstlicher Erfahrungen, bis
er gelernt hat, daf3 auf ein solches Verschwinden der Mutter ihr
Wiedererscheinen zu folgen pflegt. Die Mutter reift diese für ihn so
wichtige Erkenntnis, indem sie das bekannte Spiel mit ihm aufführt,
sich vor ihm das Gesicht zu verdecken und zu seiner Freude wieder
zu enthüllen. Er kann dann sozusagen Sehnsucht empfinden, die nicht von
Verzweiflung begleitet ist. Die Situation, in der er die
Mutter vermißt, ist infolge seines Mißverständnisses für ihn keine
Gefahr- situation, sondern eine traumatische, oder richtiger, sie
ist eine traumatische, wenn er in diesem Moment ein Bedürfnis verspürt,
das die Mutter befriedigen soll; sie wandelt sich zur Gefahrsituation,
wenn dies Bedürfnis nicht aktuell ist. Die erste Angstbedingung,
die das Ich selbst einführt, ist also die des Wahr- Memmung,
Symptom und Angst 133 nehmungsverlustes, die der des
Objektverlustes gleich- gestellt wird. Ein Liebesverlust kommt noch nicht
in Betracht. Später lehrt die Erfahrung, dafs das Objekt vorhanden
bleiben, aber auf das Kind böse geworden sein kann, und nun wird der
Verlust der Liebe von seiten des Objekts zur neuen, weit
beständigeren Gefahr und Angstbedingung. Die traumatische Situation des Vermissens der Mutter weicht in einem
entscheidenden Punkte von der traumatischen Situation der Geburt ab.
Damals war kein Objekt vorhanden, das vermifst werden konnte. Die
Angst blieb die einzige Reaktion, die zu- stande kam. Seither haben
wiederholte Befriedigungs- situationen das Objekt der Mutter geschaffen,
das nun im Falle des Bedürfnisses eine intensive, „sehn- süchtig‘
zu nennende Besetzung erfährt. Auf diese Neuerung ist die Reaktion des
Schmerzes zu beziehen. Der Schmerz ist also die eigentliche Reaktion
auf den Objektverlust, die Angst die auf die Gefahr, welche dieser
Verlust mit sich bringt, in weiterer Verschiebung auf die Gefahr des
Objektverlustes selbst. Auch vom Schmerz wissen wir sehr wenig.
Den einzig sicheren Inhalt gibt die Tatsache, dafßß der Schmerz —
zunächst und in der Regel — entsteht, wenn ein an der Peripherie
angreifender Reiz die Vorrichtungen des Reizschutzes durchbricht und nun
wie ein kontinuierlicher Triebreiz wirkt, gegen den die sonst wirksamen
Muskelaktionen, welche die gereizte Stelle dem Reiz entziehen, ohnmächtig
bleiben. Wenn der Schmerz nicht von einer Hautstelle, sondern von
einem inneren Organ ausgeht, so ändert das nichts an der Situation; es
ist nur ein Stück der inneren Peripherie an die Stelle der äufseren
getreten. Das Kind hat offenbar Gelegenheit, solche
Schmerzerlebnisse zu machen, die unabhängig von seinen Bedürfnis-
erlebnissen sind. Diese Entstehungsbedingung des Schmerzes scheint aber
sehr wenig Ähnlichkeit mit einem Objektverlust zu haben, auch ist das für
den Schmerz wesentliche Moment der peripherischen Reizung in der
Sehnsuchtssituation des Kindes völlig entfallen. Und doch kann es nicht
sinnlos sein, dafs die Sprache den Begriff des inneren, des
seelischen, Schmerzes geschaffen hat und die Empfindungen des
Objektverlusts durchaus dem körperlichen Schmerz gleichstellt.
Beim körperlichen Schmerz entsteht eine hohe, narzißßtisch zu
nennende Besetzung der schmerzenden Körperstelle, die immer mehr zunimmt
und sozusagen entleerend auf das Ich wirkt. Es ist bekannt, daf
wir, bei Schmerzen in inneren Organen, räumliche und andere
Vorstellungen von solchen Körperteilen bekommen, die sonst im bewußten
Vorstellen gar nicht vertreten sind. Auch die merkwürdige Tatsache,
dafs die intensivsten Körperschmerzen bei psychischer Ablenkung
durch ein andersartiges Interesse nicht zu- stande kommen: (man darf hier
nicht sagen; unbewußt FHemmung, Symptom und Angst 135
bleiben), findet in der Tatsache der Konzentration der Besetzung auf die
psychische Repräsentanz der schmerzenden Körperstelle ihre Erklärung. Nun
scheint in diesem Punkt die Analogie zu liegen, die die Übertragung
der Schmerzempfindung auf das seelische (sebiet gestattet hat. Die
intensive, infolge ihrer Unstillbarkeit stets anwachsende
Sehnsuchtsbesetzung des vermißten (verlorenen) Objektes schafft
die- selben ökonomischen Bedingungen wie die Schmerz- besetzung der
verletzten Körperstelle und macht es möglich, von der peripherischen
Bedingtheit des Körper- schmerzes abzusehen! Der Übergang vom
Körper- schmerz zum Seelenschmerz entspricht dem Wandel von
narzißtischer zur Objektbesetzung. Die vom Be- dürfnis hochbesetzte
Objektvorstellung spielt die Rolle der von dem Reizzuwachs besetzten
Körperstelle. Die Kontinuität und Unhemmbarkeit des Besetzungs-
vorganges bringen den gleichen Zustand der psychischen Hilflosigkeit hervor.
Wenn die dann entstehende Unlustempfindung den spezifischen, nicht näher
zu beschreibenden Charakter des Schmerzes trägt, anstatt sich in der
Reaktionsform der Angst zu äußern, so liegt es nahe, dafür ein Moment
verantwortlich zu machen, das sonst von der Erklärung noch zu wenig
in Anspruch genommen wurde, das hohe Niveau der Besetzungs- und
Bindungsverhältnisse, auf dem sich diese zur Unlustempfindung führenden
Vorgänge vollziehen. Siem. Freud Wir kennen noch eine andere
Gefühlsreaktion auf den Objektverlust, die Trauer. Ihre Erklärung
bereitet aber keine Schwierigkeiten mehr. Die Trauer entsteht unter
dem Einfluß der Realitätsprüfung, die kate- gorisch verlangt, daß man
sich von dem Objekt trennen müsse, weil es nicht mehr besteht. Sie
hat nun die Arbeit zu leisten, diesen Rückzug vom Objekt in all den
Situationen durchzuführen, in denen das Objekt Gegenstand hoher Besetzung
war. Der schmerz- liche Charakter dieser Trennung fügt sich dann
der eben gegebenen Erklärung durch die hohe und un- erfüllbare
Sehnsuchtsbesetzung des Objekts während der Reproduktion der Situationen,
in denen die Bindung an das Objekt gelöst werden soll. Kö @ “s
NET 5) a r pn nn > FRI 4 > Ak er nicr
4 i n mn; Pan be En ‚ — ® Pe u “
2, ” 0 ’3 ni - ww." A
% ’ > > „„ 7 5 - 2
“ MH 4 9 | & e- i P D
a - ie u; i D h 5 - & Er 3 a % 0
Pr r . r.. ’ ) n I F j u er en ur . Bi i + 2 Le £ > . "u i
We ü ‚v i en u j 2 Br 5 er A = hr Eh 5 Ra IE ION ZUR) Br. f =
en k er u WR LD 1 i ’ „. N # Dar. . h Pa r r . za & 12 7 Be N A
Nr Ra Sl NV hi DE * im . r „* Ei ne. ' ae Bd N 5 De) u 4 e = I wer
“ er p > j 5 Ye = - ee £ di P a An 2 ar Eu w
„e I 4 = N 2, 4. “
Mr ..h 7 x " \ r
[> BHaSHerere ER eins:
23 witsıkeitsreigghrn ir * = ee ran nien
tere BRSEH 2 i2 ZEH * 2 H Hg 2 ae Heer ars
re SEIEN Ser Ent ern Bere +2 Bee Bir ER ERSE EEE:
KEEHInIEtEessserersatsEreBLtLsFarks BesssraeaTbkrindie gt EEE Si Sfe: -
Eee Renee Eeeelieheen r = BeEHupEeNe a BEHHEEN ten
FEIERT ir: er mes Sen marmaseher ne = Preen sp ertets 22
Bar ree re SEI ELF er - 3 me eat rt - az ee Erst 435
Eehriee x tree Par tatar ze Bam nee u ser : Eeermnm Surueh een
Eiritstsete TE Demut = FERIEN, ze erg =; zeeszr2r 2 MIET ei .anaes=
cr Er = are tree = Perser ee habersietn euere etkiehei test SAsPSSSUTInHIIRtSERLecsEENUG
Henn pEmmgeraeL ern saHtrEheger m eeriesee Sn: ERHREEHESERHEN Eur age steeE
FREE: Brenner en RE eHSESEHHRREn HOHES ISSES EHER ee een Keteee 3 Re
este u = tet Sarg > B \ SEE Selzasrceaer Erieere Fr Fear
67772 Vene iricstrerereeeettegee * new
enseistassurhmes Eueebeksscstuehrrehabe rent Seaaup ine ee
ngEe rer urnehges BecShehslubsteenenge iteer SEReSE HEISE HTerahgen
Le eR isst spsssersuenErmetinenssger Hagstssaczeariere = on zen ee
DET ern Le re er een re rege rue EHER ET Sarspateegee tere ehe
atenetz GET TELSUSTtLEIeeraBER ERBE Feareeten Sese tet : £
HER SE PTeE aa een es e ae IHERESEEETe a EIEFES ER FE EHRE
RSHREREEE age Ki Seree en! ER a & BeSIBESE He SeEssssepee Sehne
een egarargsiche Eee HEN : HE = ITSNGSRIEE-VHEALITE ELSE
RRSTTETICRETREHEESFeFHERT thrssssc gen Suesslrtn BIHHScHESEeE: : Et et -
ro RaHcHH ‚ euhausensuanıhareArpwiperteGrtegHegnEStSSETSSTIERSE Er
SEnEeEs ER she en oSFHEschg rege peete er er EST OHEHTHTE Bee ES EC Hee SS
STHEFLIEFerETep Set eeRtEnTer SurSSELiet: EHRE TER EEHSEESSHER EENEER
rLIRLHIISRApH SCHE EGHSEHLSIGFERFAREEIERRE Herpsaperjer BEIEBEE Kae ee REES E
PHESHESSER FO HEFERBIIPBOR DS PBEISERSSEERISC EHER SEE ee FH erregen ieh
5 * ee Seren mt a8 eirsearteeeee Sp ranteire Se dern, et E Hi BEHREIEREE
REEL ES IE PITSHICHFRREN auseestz ern Pirerirekpieere : eraber
« atztıtet HR EHHHIREEN + Pessan green
rerene var Ja erben Par zer weran
- az Aprpsazare samurre 2er Fe2 2 = re eretger =
$ +7 En ERNTERER ie HERüH IrHE HH EEn P: HirRHENHHRRER BEER
EUERERNTTF Eigen BEER EIER SEHE Ferne Eee Eee HH v rn ee Sta
Pers Ser : Bee = I Bee steeE Eure
GaIEeEe ea SE ERST SER LESS SS ERSLEEe ee mag Leetemag Here, EEE
tee BObESEIgSFErIg CIE SEMBIIESTEHÜITERRSTEHTFERSERESSFISRSERGEHiERN
HerrepereesgeIEiFetSgER Fer BAHR Sen re Hrkreee, Seen Bestes = Base Bee
era en SHE SE RGEH FASER HEHE IE FErSeRs HEHFEEESSSSSESÄEES ir st BrcHe z
ER EHEHER HEERES HEN HHERHEHBEEEG Basar ereahe ante T SaHIECHII SS EHESPeIEg
gestern BerRERe Fehgersgs Bas ana Eaee ge Pa ae ee a En reprae Tanne tem
aCErU RE BeanngmerTe En FersmeMenpseraBugersnsersenepeen est sEre tn ese
Hrzfersh es: zer areraer Ei IDEE Ser HeE reinen EHE Y..
ze ee Beeren = rR Hasen en = HEIREHHHTSIHeN a ee
Beeren EHE su erdnsnPzaEzngEerRnE ee 2 SrarEirened = PRRERHEHER EHE
HEREHSE BER SE Sure N Fr: re - IITIHERER: == Bee {4 I
THehereT zernaner HEERES HP NIS ER BIER SL SEE STE EHEN Gera EHER
eR SEHUnHT he: = ARSRHIEREEEE FA Peegr ers ee esse e En are nn
ötgfrtrsrnp meer Sr ug ete rar £ Here en IT ten Fitststsr rt» = aeeeFree
Same Duett SILEnSrEE re pHaneb see sent er erercheenE Bapsreheeprenaen
zopLeomhsete zes eeeerne ;E EEepEISHe HH HET HEseFrEes BE a
ERHEBEN BE \ it u %
Al N j iR r I
H i Hi BE EHE REIST = H = = x x
eI2aTt w --—.. u. ERERREHEEE: EHE EESSHEHE ehe Dee ame une z
= E 2 BISLEEE ! HE Ee: =; ee Mergmereteeee .- eig Late} Pe Ze HEHE
ee renn = Hier Here Pre ete ee Bee ee a Eee THE TEHRLERRER te ze ee
ee Er erg Fam 1 Er Ferr rar Hisser BE Er IE pe serie
n. nn: un. 2 er mesrereTer ein Ehe PHREcHER Erbe A ae HESSREt: ee
EHER area erinne EHE IERENSEESERENT er ReeHen PERLE HE GEHE pe HEHE = 2
Fe HE FERuERER Er en HERE Hr DeRmERperS RES Etar ge sesEre tur seeeeeen
= baren arte taisen are Seelen remsstersreenee ah E a EHRE EEE IE
EEE ES IE nERBEHERE $ := f x _. IT rt * z "TE He wehrt 1 Sa 10Ee 200 Zergr3ce Beer
Kieser =? SE Miami Berse SFER Eirgeetet ? = = Btassetee an rat En,
SERRTHEREEN erar Inn een Karen rzzere ne 2 ” rar re Bergstrasse
PaaaHaE PS EITerITIRe er ErRIHE een TrLree SEE TERN TEE SH rss zEngE Fee FenSBe
Er SHiEETeeE PEERSERRE REES HH HERE Hanauer FE rseineeie 2 Aaspaze
: re Be br tes Hirn STEHE Fe we3: ke} =
Br Britt etitetet Fit Fette Mergrae Beast rasen z Er
rer ee eH were e grersrniunmene er 3 r BrerEe er
Saeseekesees Ei rerEr er = >= =uts "epRe=> >: Er
errere zum ae ger reed SEITE rear tree rer In Bam m en See
ee KUrISETHSRSAEEFRR en = BESTSEgZeEeTEe Betr 8 Raarerer? b i
eu BERIESSTERIGSEITRSFFFERSASBFESEIEI TI ErEEE H Fre en Te
BIaTTTHFEIESAFRsTE ET Irre = ee Tateeedgen B Satafstetrrreege
EacHiIeFReE 9 mE ApEEIeE rGEIH Beer I
al Kr LE Hi HR HereeHebe Et SSIESHOEST
ESF Fer EHER BE es Sir 22 &=3 - ? ee Barzere ERRIEERE EIS TH 22
2 = Sara emmme> MorsegIereRer EM eeGE Eessstararer Fr - = f Fang In
see rer er 7= Feseree ns man Aaiisnsase er sr r Besen Wergrange malen rare Se
ag ESTER RE He rti23 dr Fee Sp Era h He Be EG EEE HEE EoEn BRIEEES Sr EEE
Et Peer eig eigen BerBLäGT FEHHAFHRRTRESG EN GPEITESLEC HEHE EGSEcHGSHHERGFeI
SER RER En erHeIreteeree Hape H 1 . e En Bad us pm pre ar wermeaer EIESSSE
ES Tyerach a sreeiesegenermatneenee eirr: EA rt AR en ange
me ng an mans merurn am nut un erSeemnge bene Penn en srazams
Era H v er Hr 2 . - 47, else He = ron
HET: FREI Hera ee — .t- ZaRE re EZ er a ee Tr wesen nennen ans er ses -
Pikhienker ch an Baee PENIRTEHSS HE THEIR a TEE BESTE SSHHEe ER
eher = 2 miyErn Den gungen en rise ne en = re 2 ee er TEr Eee
eeENeerErE Ee EEE LEERE REHESTHEHTHTRT TEL Ee et Fer eieEr tete gern
EHEHERES Seen aaa aea En sp Erg seme ra abe SE era nigsers Das rarnoH eos
etpratere Heriee BEFFICHEHN SHE eHEEeHZäntes - x rc Bee re
sets geperehherperzenr BE Ense TRIER FEIN 25 1 res Par er Ren INT
Fä = Srehap tn eree ame ee Beer eranseret > en = Bar ag a De en!
= Fey irn area =, Saenn en ner Te tr naeh peuebe sen
ernussereher TISLSSREFEStELGERFEF STETS SEES STET ea Bere het
Frrsensr 22722 222 te nr ERST a. ma Bee
PrrEIeN HRRaRe: IH a ae EeCHrerremearentes
rer te et a eerteeig Pe are i et SE
Furmrennee rn po area Darm reonen nenn ai et
Be B Ferse Bere beten tern nkiegee a I TRETEN
ERPBEURHH SHE Mrcegestteeree ER ee EHEN EHRE IH N BE
ge: HERE Eee BR E HERRHERHERHINGTE H
H Hi ii i Pi u EEE SEHE rest
seere Eurem ae Ense rer EagursetS re rBae ge Beeren
aerere SmeTreige essen H Hi jun M Hi
5 2 sus 75 Dei tel „rar eb: 7 nr Sul ausser zuah: 7
Peerrser tere Hrige? an z= wir“ on. er ze Schersreserrzerteeree € 3
I E Ssiaettrenger air Sicher metecien a ES TER EHERR Ka EE TER ES
HESE re HERE 23: Fakıt er LTE TFT Te lamaumnr er Sn Beta rene ne amt saun
ne ni e2E Sarg Es ine rsschagese set rger zarten mer EIER FT ET = RE Pe
Sarnen Fee are BER HISCHNE tzirererefamrireterersieeernierse Sesubuhrrmerswe
rate Serge Errper Fe Serra ntse see BESEIHSEIEHigEHer ei Tore Banane eat Pau
Terre SEeh res Frete = .)—urmmin ren »4 ’ Bere ==: se
PeraEsarkrgscheipe este se een z = vera Iautorenete Bash eine: Perser
eher tenier : Sopmrze Bee see Her Freie spa fEriperagtgr er Be tEizS SEE
HEarEe Ser eStErerek ernst E SEetHeReFer ; ui TeasesIer ASS arE SSH
HE SEE PETE ga ra hate For Eger PaDALTFIPAIREICernFLTTIe ten: ‚Ponnesrtenseg
te ray Sea TEST TTS ER ET Grbssiuraragsr erster neh Fe ee
IPRESEFErZraFSE PEee en stSe res treeseraet, ie Fee EEE erden a rel
arhessprähse rese Taass Faser z Er ITEN fersestegtssrere aupesspiase Fern
the Fame SsBaFerässTe Peer srl mar irre rer ee a ES SEE ern Fer hen
ser SUP FE HET ESHE => rc EEE rar Eee Asa Deere m rrnägr re ar Hunt
Segttperessesene HE re Kor iteree POHBSs LE NEE seaE Erbin ren n eis
Toben eereguee rer SESSHESSHEFIyUFEIETeSrESEER rer Strehäiehtr Gurte
FEHrSSLa BE REF Era gb HI en erste ten ariesenerre SER HEREHHeRSgeHee re:
arme: aha I m mt pa rn St SEE Sarnen hg Hr Irre Wleskerereen STE RR Fe
krgserireeer rm seseirteee = were st Inserenten eErranrensie 212 = Prater
Teenie eat tere Bert el Fresse EEE = ee BEIrSTI EEE SIE En Pa rest res
einen äten sure en a gegen IR, aeetaturesatafsmigereter sparen ner ree sg
gegrFegreg Smarzsıree Beasc hg sn armer ea sassisnigeeedrng Pre rag pe He
Erupe per RR Shen en sera gr Ei EHRE; Zul nseree er rer Bespreeen ss
rereE let: SE Etzrietti Eethnerıse FEB EEERREHEREHERRE te Fre B =
Frrttie mas mr - 2 ee Er EI Fi Er Er eier ee par et ee Fa rt rt SerT-ErTe
ereraree en rigen NertrH PRamate rien res rasagn nee ersetreutegtg H 2
mee2 aaszer BE HHtEH ie u; >: else een ro, Surteitstäs see enat anne
ter EESrSIEEEN PERTTT > Bags wattbteeer Sep hIrereeE Peer Bar SEE Fe
Fee SUHEETT SFT E HT RT SyaegeseHa lege pe ee mer 7 Pieersraeere Re Ferer
EEE HrE Eee HERE REp FT derpeERETET enen m mn Pe EP ae Ferrara Er SH
RSSSE ER FR SE NIIH ES TepESepbee rang Se pa urahtern eher en ir IHRER EHRE Eee
ses Tarekgeee aussseren Hug: = =$ 3 ET ir 2 Ser Pe pam Een ars ange
en BE Lug Ba SS BER a Sen Erle STE a era re BE Er EEE cn erraten STE rer
HiehstrcHereearie ee res Efrepergsrsgern 25 RE IHENGENE Basta tntg
Feraeee Besttrnesrssrtuggre Be an Rn gl De am Bm SE In Beh Zuaa haha tn ah IP
SEE Te SE EEE Eee gets Pre IF PaBe tie ts abSS Tr ER er eE a rer nee heise Term
Er zesrr Hans parpene re eeeger RE Ta HER tue BO THES HOFER FE Tre PT TR
CE ER EI EEE N FE FT ee er ekrbreg keit Pure meirges str
HEHHHRNEHHERIFHENTER Bispeeresere et Per a Ta Fe I I IE FH I RS HH TFT E,
zpirapIrbesperterr BEIFSrEFErT. ErSSSpHSPAT I U pa tere res s rar Era re en Er
ST STIESSEN ESTEGE MErLSERISTeTEree Trees te nraersebere em str be Bea pe
van Fa men ae rn ea ar me rer ne ra armen Ahmet ne re re naar mer a TE EHE I I
Fir SaSStER HS serEr EEE werten easserer ma Tr ir Bst: Dre ee oe ame ee
en rear Tann a Fer Nr GES HET EcH Ir rn Ban aa mass ae rn SISSPBSSWELTEr Sein
Eu rin e sie erher tieren SermEsHieEnTEeTE RER! ere rs are ar nt TFT a en
Peses iriete} ser erarrrie ee FE FErrn essen; menu man. ——. anne men tn
> tree eo Pan ee . =. je ee Tel Baugesteg sm tete Eggs 2 Va IT TR RER
= vr re ne Fesarsoh te rjre Pays sep pe per - BESFIEGESFERTUTEERE terre,
Ermessen a el Eee eehTeRU Ess mer age ber eesbens tEnr seen es eczenrn
PEgREITESG EI Sn een re HE SIE SB rer reretergseta Fette SIiSeSE ges or SE EIS
Fr Een ae ER FR Fr fap eher: ar EEE EI Fer Bu ENITUT an Am re Ein EEE Van
Zu FF a ne 2757 ea ba tete 2 Paz RRAIRFFFHHRTIEE ee ne ne ne zus rg eng Er Tr
BEE Are HE ee a PET ee ERS re nanssa ne re ParaBrere ir era nrzeh Taaraga
rer en Höyrreie Bupsatesten =; un Set z: SORTE :H = E Eis:
HHARSHHHOheneee Bere Ser EHER En Fa HB 1213 are HER SEHE
FRIHEEISEREFRSEFEFSTTRE Eatsstorges Ferse a re ae SEES FEPE THE HERR U
ESEPCHELSHERERNRrE re BEEHRES HRS REIHE HE eSEISHRrE FE Fe er ershet
reiste a EI HameltlEen ter Inesnabe rar mäher I ab en sR SLRRTTER BERGE
erbtarpr ernennen SRor Bir 7 en nn Ei 2032,22 7250 Deren er. arziz: un —
1, 25 3232122 rt, Zum eEp0r 22325 2 173 >e. Baer an on na nn Den parat
en Sb Erste re erraten HESSHHESE ri Hee Era tert ZESELPEISEC ER
HEFSFTESFERErBER LET EEHemurnn ri2 = = Kerr ers ir ee Zermsssep rue
ittnrtesreher = regen 32 Zenenst ee ger testirrasee = > HN a a ee eat
ge Escher Barnnenn ET TE IT TEILTE : a Ba ee Er Fr ? = RL TFT wege re
BFiE er ee FE rei re RR ET EINS ESESTHER ITS EEE Kaereterrer dehnen meer 23
Bares) gb ar I a Fo et EEE SEI Eger FrEr ers ereb ie deren messe retten.
CHessr une See HER Bere rss Hs Puppe rerrIe es rere FatH Er HER, HERRESSE
SR “3 SHesiersrressFrmereg Zraere dar2$ tn keine ee EL ErRTUpSEFrELFARERE
STEGEHERLTESS ERTEILEN > mans eriee Eeterpee ee BEISE SIBEESESTRS SL
IL SIE Terre ae Bra a I a EB Peer tgl teratetEetehetetetete SEIT ? re
SERmIeNIEITENE Inbabp EA Tr Erin te Brit EI IE Dinar IRRE reis Ertl ea
tch EL SLITELTEITSTEIHSLLHOISTEREESRSERSRDEHEHELHEERRERLEER ES Hietakeginie Tg
ER PERHerm ger: -. .— am an m nm — Es g nn E25 r - - _ = Ber merteshe a Er er rate
Te et are et Fr SE ea ee eh Et re Pr enmmsr ern aeg rer rn Ha era
merrrner ra ee 2 Apr msn Erettteegee eis a a ha aa a newer Ar han an Erna
en But ee Atmen vn arms Aeaartere apeettsr = u rn a a a nr Dr Sm PEILPA
See Pe mac Papa San de ve Frin sn ee Bern Pech Se TOR 7 = =a2 Bene >
ame En ea a TI HET TE EEE Er Tr Er ge Re Fer te FE ad Eee re a BE Feet
Arme Sarasin erregte A ET = rg] pe rer er See 3: ser Zegstertg pn
ielsrc ie stars “ Bert ernste = weemeee nen Freier are Fepirr Seren
mairıreharz apare ErEnT Eereet Fer =: NRFARTHTINTIT- ze ge3E Swiss Hl pr
ereib bereereigschre ee ea essgeererg En ArsHHSsterEere ir SEHE Ran pa sE
re BESeSE BIT FE er SE DE ee Far irren a RA et Sara ng ee ee er ein nme
=: = 7: Beeren EEE SE LIE LESS EIRTIESESEERSEENEFELTTSERTD hehe 2,
Sirziirett He Tun an nee En a a fer Br TenTT ErcH +73 er zen. ‚a
IE. neEmsertarer ger taten ee re re eher era reeTe EEE Bra ST ag Tee
ArTee PER ESS Een sr Een Hann ve es Para ee tere eb a Pag re Fa a le oe
peta ee He rare? ee IT essen ah Sale teekrere IT Eiüketzrirtaemschsuetr
rer eumstrs> ae a mera Inne Fate Sasse gerete tere Air Baker STH
Fareeee 3: = = mreeeenrenT ag a RI TI T DTE E a E a a ar Be EEE er
re ee ee ae re Hs “ Te I »% een - wenderännr yersiess see Bere er
ee - S22752 are nn an Tanne ame, RSETIEIH nr ee FEERFL een 5 err nes
more a ELITE I hr HT er Enkerser EFT Seesen GB n Te en I TS
ae FI ee Se zu mptom Sigm. Freud und
Angst En un on = In = E
u. Massimo Bontempelli. Keywords: il sintomo, “la filosofia pre-platonica
secondo Diogene”, “il viaggio di Platone in Italia”, “Il parricidio parminedeo
di Platone”, “il platonismo latino” “Boezio e l’aristotelismo”, “ficino”,
“telesio e campanella”, “galilei”, “storia e ragione in Vico” “Hegelianismo
italiano” “Vera”, “Spaventa” “Jaja” – “idealism italiano” “Croce” “Gentile” “il
concetto di stato in Gentile” “Severino e il neo-parmenedismo”, Vattimo e
l’implicatura debole, la debolezza della communicazione in Eco”, implicatura
sintomatica, sintoma. “feudalesimo ario”
--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bomtempelli” – The Swimming-Pool Library. Bontempelli.
G
No comments:
Post a Comment